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S t oria costituzionale eum Giornale di PERIODICO DEL LABORATORIO DI STORIA COSTITUZIONALE ANTOINE BARNAVEn. 16 / II semestre 2008 Aldo Bardusco, Enrico Bulzi, Paolo Colombo, Maurizio Griffo, Paolo Grossi, Luigi Lacchè, Luciano Martone, Cesare Pinelli, Miguel A ´ ngel Presno Linera, Dian Schefold, Rosanna Schito, Gian Paolo Trifone Il valore della Costituzione italiana

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Storiacostituzionale

eum

Giornale di

PERIODICO DEL LABORATORIO DI STORIA COSTITUZIONALE “ANTOINE BARNAVE” n. 16 / II semestre 2008

Aldo Bardusco, Enrico Bulzi, Paolo Colombo, Maurizio Griffo, Paolo Grossi, Luigi Lacchè, Luciano Martone, Cesare Pinelli,

Miguel Angel Presno Linera, Dian Schefold, Rosanna Schito, Gian Paolo Trifone

Il valore della Costituzione italiana

Giornale di Storia costituzionale n. 16 /

IIsemestre

2008eum

edizioni università di macerata

ISBN 978-88-6056-141-1

ISS

N 1

59

3-0

79

3

Euro 22,00

eum edizioni università di macerata

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eum > edizioni università di macerata

il valore della costituzione italiana

Storiacostituzionale

n. 16 / II semestre 2008

Giornale di

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Giornale di Storia costituzionale

Periodico del “Laboratorio Antoine Barnave”

n. 16 / II semestre 2008

Direzione

Luigi Lacchè, Roberto Martucci, Luca Scuccimarra

Comitato scientificoVida Azimi (Parigi), Bronislaw Baczko (Ginevra), Giovanni Busino

(Losanna), Francis Delperée (Lovanio), Alfred Dufour (Ginevra),Lucien Jaume (Parigi), Heinz Mohnhaupt (Francoforte), Michel Pertué (Orléans), Michael Stolleis (Francoforte), Joaquín VarelaSuanzes (Oviedo)

Comitato di redazione

Paolo Colombo, Federico Lucarini, Giovanni Ruocco

Segreteria di redazione

Mauro Antonini, Marco Bruni, Ronald Car, Luca Cobbe, Roberta

Ciaralli, Gerri Ferrara, Simona Gregori, Paola Persano,

Monica Stronati

Direzione e redazione

Laboratorio di storia costituzionale “A. Barnave”

Università di Macerata

piazza Strambi, 1 – 62100 Macerata,

tel. +39 0733 258724; 258775; 258365

fax. +39 0733 258777

e-mail: [email protected]

I libri per recensione, possibilmente in duplice copia, vannoinviati alla Segreteria di redazione.La redazione si rammarica di non potersi impegnare a restituire idattiloscritti inviati.

Direttore responsabile

Angelo Ventrone

Registrazione al Tribunale di Macerata

n. 463 dell’11.07.2001

Edizione ⁄Publisher

Edizioni Università di Macerata

Vicolo Tornabuoni, 58

62100 Macerata

T (39) 0733 2584406

F (39) 0733 2584416

[email protected]

http://ceum.unimc.it

isbn 978-88-6056-141-1issn 1593-0793

Tipografia

Litografica Com, Capodarco di Fermo, Fermo

Questo numero della rivista è pubblicato con un finanziamentodell’Università degli Studi di Macerata, del Dipartimento di dirittopubblico e di teoria del governo dell’Università di Macerata e delMinistero dei Beni Culturali.

In copertina: Manifesto sul Referendum sulla forma istituzionaledello Stato, 1946, a cura del Ministero dell’Interno

Finito di stampare nel mese di marzo 2009

Prezzo di un fascicoloeuro 22;arretrati, euro 26;Abbonamento annuo (due fascicoli)/ Subscription rates (two issues)Italia, euro 35; Unione europea, euro 40; U.S.A. e altri Stati, euro 60;

Gli abbonamenti possono essere sottoscritti tramite:bonifico bancario a Banca Marche, IBAN IT75 J060 5513 40100000 0018 563 BIC BAMAIT3AXXXbollettino MAV (pagamento mediante avviso)

Subscriptions:by Bank transfer to Banca delle Marche, IBAN IT75 J060 55134010 0000 0018 563 BIC BAMAIT3AXXX

Richieste ed informazioni:[email protected] (39) 0733-258 4413 (lun.-ven. h 10.00-13.00)F (39) 0733-258 4416

Demands and information:[email protected] (39) 0733-258 4413 (Mon.-Fri. h 10.00-1.00 pm)F (39) 0733-258 4416

Gli abbonamenti non disdetti entro il 31 dicembre si intendono rin-novati per l’anno successivo.

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5 La Costituzione italiana e il Buongoverno

Luigi Lacchè

Lezioni

13 La legalità costituzionale nella storia

delle legalità moderna e pos-moderna

Paolo Grossi

Fondamenti

29 L’incivilimento degli italiani e la Costi-

tuzione della Repubblica

Cesare Pinelli

39 L’impatto della Costituzione sulla cultu-

ra politica italiana. Una prospettiva dal-

l’estero

Dian Schefold

51 Impresiones de un constitucionalista

español sobre la Constitución italiana en

su 60º

Miguel Angel Presno Linera

71 La tradizione costituzionale italiana e il

dibattito sulla “costituzione europea”

Luigi Lacchè

Ricerche

85 Alla ricerca della sovranità: osservazioni

sul Machiavelli di Hermann Conring

Rosanna Schito

101 Thomas Paine e il giacobinismo: revisio-

ne costituzionale versus insurrezione

Maurizio Griffo

113 Il regime concordatario francese e

l’“eccezione” al principio di laicità in

Alsazia-Mosella

Enrico Bulzi

129 Rappresentanza ‘armonica’ e crisi del

‘mandato politico’ in Vincenzo Miceli

Gian Paolo Trifone

giornale di storia costituzionale n. 16 / II semestre 2008

Sommario

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Sommario

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153 «Fare la guardia al Santo Sepolcro?» La

questione della riforma dello Statuto in

epoca fascista

Paolo Colombo

167 Guerra civile e diritto: una costituzione

per la Repubblica di Mussolini

Luciano Martone

197 Colpo di stato a San Marino. Il processo

del 1958 ai ‘golpisti’ ed il parere accu-

satorio di Antonio Amorth

Aldo Bardusco

Librido

Primo piano

209 Davide Rossi legge G. De Vergottini,

Diritto Costituzionale Comparato

217 Ventitre proposte di lettura

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Il Giornale di storia costituzionale dedica al

sessantesimo della Costituzione italiana un

piccolo approfondimento. Nel 2006 dedi-

cammo un cospicuo numero monografico ai

primi cinquant’anni della Corte costituzio-

nale. Ora, alla fine del 2008, dedichiamo un

piccolo tributo ad un grande evento. Perché

questa celebrazione è molto importante e

decennio dopo decennio ci ricorda di chi

siamo figli, e non è poco.

Il tempo delle grandi costituzioni

moderne è «temps des fondations» (Fran-

çois Ost, Michel van de Kerchove), un tempo

che confina con il sacro e che possiede

un’indubbia valenza “prometeica”. Un

tempo che vuole collegare, se non incatena-

re, le generazioni, secondo un tipico topos

settecentesco (lo ricorda Dian Schefold1; ora

vedi soprattutto Persano 2007). Un tempo

che – come il cielo di certi quadri di Magrit-

te – appare immoto.

Appare, perché la democrazia costitu-

zionale ha sperimentato – da due secoli e

mezzo a questa parte - mille prove ma resta

il meno imperfetto dei modi possibili per

“costringerci” a vivere insieme cercando di

correggere i nostri errori. «I morti non

devono governare i vivi, ma possono facili-

tare loro il compito di governare se stessi»

(Holmes 1996, p. 208).

Quanto la Costituzione italiana ha facili-

tato gli Italiani a governare se stessi (anche

se qualcuno ha detto che ciò è impossibile,

e comunque inutile)? È un po’ questa la

domanda di fondo, certo problematica, che

ha mosso la raccolta dei saggi presentati in

questo numero.

La nostra Costituzione è senza dubbio

una delle più importanti costituzioni del XX

secolo. Lo è non soltanto per il momento

straordinariamente drammatico ma anche

entusiasmante che interpreta – la rinascita

dopo la catastrofe – ma per la capacità, pro-

vata sul campo e grazie ad una pluralità di

attori, di svolgere la sua propria funzione. La

Costituzione riconosce e dà valore alla com-

plessità del sociale. Se il moderno ne aveva

operato una artificiosa “riduzione”, il post-

moderno costituzionalistico imbocca l’uni-

ca via possibile: riconoscere i valori, i bisogni,

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La Costituzione italiana e il Buongoverno

luigi lacchè

giornale di storia costituzionale n. 16 / ii semestre 2008

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gli interessi che concretamente fanno vive-re una società plurale cercando di cogliernegli elementi ordinanti. «L’AssembleaCostituente, nei quasi due anni di intensolavoro, tentò la lettura di quella cifra, tantoche la nostra Costituzione, almeno nei‘principii fondamentali’ e nella prima parte,appare come un supremo atto di conoscen-za» (Grossi). I conflitti ideologici, gli inte-ressi partigiani – che certo erano corposi eben presenti – trovarono una soluzione con-creta non attraverso compromessi politici maattraverso compromessi costituzionali.

Vittorio Foa, a chi gli domandava checosa fosse il “clima costituente”, una voltarispose: «È la ricerca comune quando si èdiversi... È la capacità non soltanto di difen-dere le proprie posizioni ma anche di cer-care insieme le regole della convivenzacomune».

È su questo terreno, aspro ma dialettica-mente aperto, che i Costituenti poteronointendersi, come ebbe a dire Dossetti, su«”affermazioni fondate soltanto sulla ragio-ne”. Il terreno del razionale e del ragione-vole è, dunque, visto come il tipico campo diincontro perché è solo lì che può prevalereuna lettura critica dei nodi problematici edei modi per scioglierli» (Grossi). Non sidovrebbe mai dimenticare questo profon-do messaggio della Costituzione: aver datopiena legittimazione e sostanza alla possibi-lità di fondare le decisioni comuni sullaragione pubblica, quell’ambito “ideale” – macon i piedi ben piantati per terra - nel qualele ragioni di parte devono con-frontarsi,con-fliggere, co-municare, sulla base diargomenti considerati almeno ragionevoli.La Costituzione è la fonte primaria dellaragione pubblica nel post-moderno.

Giorgio La Pira ha parlato del valore della

costituzione, di quella “architettonica” fon-

damentale, di quel principio organico plu-ralista «che dà il dovuto rilievo giuridico ecostituzionale alla persona, allo Stato, ed aigruppi intermedi che si pongono fra la per-sona e lo Stato» (cit. da Lacchè). Lo stessoLa Pira ebbe ad osservare che una costitu-zione entra in crisi se «ha errate le fonda-menta e i muri maestri» (cit. da Grossi).

Assai ricorrente, a cominciare dallo stes-so intellettuale fiorentino, è l’immaginedella Costituzione come di una casa comu-ne, di una architettura complessa che habisogno di solide fondazioni. I Costituentihanno avuto, tra le loro fila, un certo nume-ro di ottimi ingegneri e architetti e hannolavorato, singolarmente, come bravi mano-vali. La volta della Costituzione ha retto per-ché le fondamenta e i muri maestri sono staticoncepiti con mano sapiente. Certo, sidiscute molto sulla solidità della prima partedella Costituzione e sulla relativa fragilitàdella seconda, ma la questione è assai con-troversa e chiama in causa questioni chemeritano ben altri approfondimenti. Ecomunque è la pienezza ed unitarietà deltesto e dei suoi principi che devono esseresempre tenute ben in considerazione.

Nella seduta del 4 marzo 1947 PieroCalamandrei pronunciò il celebre auspicio:la Costituzione avrebbe dovuto essere pre-sbite, per guardare lontano. I Costituentifurono, in molti casi, in grado di guardareoltre la contingenza. Le Costituzioni chenascono o vengono modificate per ragioni di“superficie” sono destinate a gravi infortu-ni. Non che elementi di contingenza man-chino nella stesura del nostro testo costitu-zionale, ma certo, al saldo, prevale di granlunga lo sguardo verso il futuro. La genera-zione del 1947-48 aveva uno sguardo proiet-tato in avanti. Lo stesso Calamandrei – tut-t’altro che tenero rispetto a talune scelte

La Costituzione italiana e il Buongoverno

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concrete – usa un’immagine “architettoni-ca” molto efficace quando parla della neces-sità che la futura Costituzione accolga unprincipio. «Ma come gli architetti nelcostruir l’ala di un edificio che dovrà essercompiuto nell’avvenire, lasciano nella pare-te destinata a servire d’appoggio certe pie-tre sporgenti che essi chiamano “ammor-zature”, così è concepibile che nella costitu-zione italiana siano inserite… cosiffatteammorzature giuridiche…» (1945, p. 168).

Lo sguardo dell’osservatore “esterno” èsempre molto utile per comprenderemeglio, dall’interno, il valore di una costitu-zione. I paradigmi tedesco (Schefold) e spa-gnolo (Presno Linera) sono esempi di unapproccio comparatistico che sa leggere inprofondità il fenomeno costituzionale. LaGrundgesetz tedesca e la Costituzione italia-na furono i testi più presenti al costituenteiberico. Presno Linera ci fa vedere qualefosse il valore del testo italiano per unanazione che si lasciava alle spalle, anchedolorosamente, un lungo regime autoritarioe trovava nella costituzione democratica unporto sicuro che le avrebbe assicurato unacrescita civile, sociale ed economica straor-dinarie. L’internazionalismo costituzionale(Manzella cit. da Presno Linera) è una pagi-na molto interessante dello sviluppo costi-tuzionale del XX secolo e il gioco di riman-di – basti l’esempio delle interferenze, rice-zioni ed echi tra la costituzione repubblica-na spagnola del 1931, la costituzione italia-na del 1948 e quella democratica del 1978 –è di sicuro stimolo intellettuale. Le aree diinfluenza del costituzionalismo italiano(dottrinale e giurisprudenziale) sono ampiema gli esiti sono spesso originali e capaci dicreare modi e stili nuovi di scrittura e di

interpretazione costituzionale (PresnoLinera). C’è la recezione positiva, ma anchela recezione negativa. I trent’anni esatti didécalage tra il testo italiano e quello spagno-lo consentirono di valutare a fondo il temadel parlamentarismo, della stabilità delleistituzioni, della cd. governabilità. In que-sto ambito l’esempio italiano non apparvescevro da mende e il costituente spagnoloha saputo guardare altrove e trovare solu-zioni più adatte al contesto e ai propri biso-gni.

Dian Schefold – attentissimo osservato-re del panorama costituzionale italiano – siinterroga sulla capacità della Costituzioneitaliana di fondare una tradizione e di inci-dere fortemente sulle condizioni primariedella cultura politica. Nata da un forte e com-patto disegno costituente, la Costituzione –a differenza del testo “provvisorio” tedesco– ha saputo esprimere meglio la dimensio-ne della sovranità popolare accompagnandomolto positivamente la crescita complessi-va della società italiana. Ma non si possonocerto nascondere i profili dell’inattuazionee comunque i gravi ritardi frapposti al pienodispiegarsi del messaggio costituzionale. Lalunga durata di una continuità amministra-tiva estranea al valore della Costituzione (euna certa timidezza della Corte costituzio-nale), la sua relativizzazione in taluni casi, ilimiti denunciati nella prassi di tutela deidiritti fondamentali sono alcuni dei puntipiù critici (Schefold).

Come è stato “amministrato”, dunque, ilcospicuo patrimonio che i Costituenti cihanno lasciato? Che uso ne abbiamo saputofare? Interrogativi, certo, a cui è impossibi-le dare una risposta univoca. Sessant’annicorrispondono a più generazioni. Le forze

Lacchè

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costituenti sono un ricordo storico e i loropiù diretti eredi hanno perso ogni presamateriale sul testo costituzionale. CesarePinelli parla di scarso radicamento dellaCostituzione che si somma a più antichemancanze e rintraccia una difficile genea-logia di quell’eredità. La formula della“Seconda repubblica” è stato il segnalesemantico, ma sostanziale, di una perdita disenso della Costituzione. Le ragioni sonoprofonde e molteplici. La lettura “scettica”o “indifferente” o, al contrario, aggressiva-mente “difensiva” della Costituzione hafinito – dentro il discorso inconcludente estereotipato delle riforme - per mettere inprimo piano la dimensione contingente

mentre nel discorso pubblico la Costituzio-ne perdeva le sue grandi potenzialità. «Piùancora che da calcoli partigiani e veti incro-ciati, il dibattito sulla Costituzione è impo-verito da questo circolo vizioso tra “conser-vatori” e “innovatori”, caricatura dell’anti-co dibattito sul perché le scelte dei padridebbano vincolare i figli.

L’assenza di un legame fra tradizione emutamento costituzionale nella consapevo-lezza collettiva ha dunque bisogno di unaspiegazione. Possiamo cominciare provan-do a ricostruire la parabola di significato checerte formule hanno assunto nel discorsopubblico, quali “Costituzione nata dallaResistenza” e “attuazione della Costituzio-ne”» (Pinelli).

La parabola dell’”inveramento” dei valo-ri costituzionali apre uno squarcio proble-matico che meriterebbe un’ampia e appro-fondita riflessione.

L’eredità, tuttavia, rimane. La Costitu-zione ha certamente retto bene la sua nonfacile prova istituzionale. Resta la questioneche chiamiamo del radicamento, della vita-lità, dell’essere presenza condivisa e civile.

Civile, appunto. Se è vero che gli Italia-ni non hanno grande dimestichezza con laCostituzione, ciò non vuol dire che i valori ei principi che essa custodisce gli siano estra-nei. L’anno scorso, alla Fiera del Libro diTorino, una bella iniziativa fu quella di “leg-gere” e discutere, uno dopo l’altro, i valorie i principi in essa contenuti. Lasciamo daparte le sottigliezze giuridico-costituziona-li, le profonde ragioni filosofiche che nestanno alla base: io credo che molti distin-

guano la fondatezza razionale e la bontà diquei valori e di quei principi nella loro evo-luzione sociale, economica, politica.

Proprio perché «La Costituzione sa par-lare e può ancora parlare a tutti», è doveredi tutti avere il senso di questo straordina-rio legame civile.

Con una raffinata evocazione, CesarePinelli parla, non a caso, di incivilimento, unconcetto di cui, almeno in parte, abbiamoperso il senso più profondo. Una parola-chiave del Risorgimento spirituale, primaancora che materiale, degli Italiani, passibi-le di varie declinazioni: dalla dimensioneprovvidenziale di un Manzoni o di un Cesa-re Balbo a quella razionalistica di un Leo-pardi o di un Romagnosi, per accennare soloal larghissimo spettro possibile. Questotema cruciale della filosofia civile e dellaragion pubblica sviluppato in maniera orga-nica da Giandomenico Romagnosi (Dell’ori-

gine e dei fattori dell’incivilimento, con esem-

pio del suo risorgimento in Italia, 1832) è ilrichiamo ad un grande impegno per «attua-re – come dice un attento osservatore dellevicende italiane del primo Ottocento – unmigliore stato sociale…» (Mittermaier1845, p. 29).

È anche, ovviamente, l’incivilimento diCarlo Cattaneo. Richiamo tutt’altro checasuale, questo. Cesare Balbo osserva come

La Costituzione italiana e il Buongoverno

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«Le parole civiltà ed incivilimento sono diquelle, che portando seco chiarissima la loroetimologia, hanno potuto serbar immutatasempre la loro significazione, e, per servir-mi d’un ingegnoso modo di dire d’un miocollega, non hanno così mai mutata fortuna.Da civitas, città, o, in senso più lato, popo-lazione raccolta in Istato, venne civile, pro-prio di città, civiltà, condizione degli uomi-ni raccolti in essa, ed incivilimento ossiaavanzamento, progresso, perfezionamentodella civiltà» (Balbo 1854, p. 98). Conoscia-mo il rilievo che assume quell’antico segnodi civiltà che è la città intesa come fattore diincivilimento, come «principio ideale delleistorie italiane» (Cattaneo), con le sue stra-ordinarie virtù costituzionali, di segno repub-

blicano (Sismondi), ma anche con i perico-li di arroccamenti, di dissidi, di violentafaziosità. Croce e delizia della storia italia-na, il suo archetipo è la città medievale,«…l’opzione politica (la prima autenticadell’occidente, a mio modo di vedere,rispetto anche ai modelli dell’antichità)messa in campo per soddisfare il bisogno diazione, di espansione, di dinamica che ani-mava i nuovi uomini e gruppi di uomini cheda un paio di secoli avevano iniziato a farel’Europa» (Schiera 2006, p. 97).

L’immenso affresco del Buongoverno cheil genio di Ambrogio Lorenzetti ha lasciato,a metà Trecento, in Palazzo Pubblico alla suapotente committenza senese, ne è un’au-tentica complessa sinossi. Catalogo visivo econcettuale di uno straordinario medioevourbano, dinamico e costituzionalmentefazioso, il Buongoverno è l’alchimia dellevirtù che fa uscire o mai cadere la Città nelladiscordia che è esasperazione, sregolata, delconflitto. La Pax ha bisogno della Iustitia,che non esita ad appoggiarsi, se necessario,sulla dura Securitas, per mantenersi e per

ben vivere. Questa città, possiamo dire, èl’archetipo di un luogo nel quale gli uominiricercano e sperimentano un’idea di ordinecivile che farà nascere la libertà moderna eche troverà altrove le strade per riprenderevigore e acquistare una dimensione costitu-

zionale2.Nel dopoguerra il popolo italiano si è

dato, nella Costituzione, un testo, uno stru-mento, un programma per il “buongover-no”. Sono trascorsi sei secoli dal ciclo pit-torico di Lorenzetti, ma la cifra dell’incivili-

mento non è quella del progresso unilinea-re ma di una lotta continua per mantenerel’uomo nella pace e nella giustizia.

Gli uomini che hanno fatto la Costitu-zione ci hanno provato e avevano, i miglio-ri di loro, perfetta cognizione di causa. Cihanno dato un edificio – direbbe Calaman-drei – con delle solide pietre sporgenti, le“ammorzature”.

Non è un caso se un’immagine ricorren-te per rappresentare la Costituzione è quel-la della bussola (Grossi, Pinelli). I padriscompaiono poco a poco, restano i figli e inipoti e la Costituzione è un testo che hainesorabilmente perduto l’originaria forte“unità politica” per “diventare”, nell’evolu-zione della democrazia pluralista, lo stru-mento fondamentale di interpretazione e diorientamento della società. «Può sempreservire da criterio ultimo di riconoscimen-to reciproco delle ragioni e delle identità disingoli e gruppi, di condivisione di unnucleo di convinzioni sulla civile conviven-za» (Pinelli).

Nel maggio dell’anno scorso LeopoldoElia scrisse una lettera al Corriere della Sera(pubblicata col titolo «Difendere la Costi-tuzione non è un’ideologia») per dissenti-re da una affermazione contenuta in unfondo di Ernesto Galli della Loggia sul Cor-

Lacchè

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riere (3 maggio 2008) che riduceva impro-priamente la difesa della Costituzione a una“ideologia” messa a punto e diffusa dalla exsinistra democristiana. «Chi si è battuto perquella difesa – notava Elia – non ha mai rite-nuto di fare opera di parte: quando si parladi costruzioni ideologiche ci si riferisceinvece, in grande, a quelle estinte con ilsecolo scorso o, più modestamente, a sovra-strutture strumentali di partiti in debito diossigeno».

Semmai sarebbe da dire di un’altra ideo-logia, questa sì presente e corrosiva:un’ideologia delle riforme costituzionali,sempre annunciate e mai realizzate, cheinstilla nell’osservatore straniero il dubbioche si tratti di «strade per sfuggire al com-pito di prendere la Costituzione sul serio»(Schefold).

Che cosa può significare prendere sulserio la Costituzione che compie sessant’an-ni di vita?

Nel ciclo pittorico di Lorenzetti è benpresente – come ha dimostrato con grandeacume Pierangelo Schiera – la dimensionedel Timor, di quel sentimento “melancolico”che fa temere per la perdita di un bene carocome la Concordia. Le inquietudini nonmancano e forse potremmo parlare, ancheper i nostri giorni, di melancolia costituzio-nale. Senza dimenticare che la Costituzioneè la nostra res publica, il nostro “bene comu-ne”, il nostro principale “strumento di con-vivenza”. Ma non è fine a se stesso: era ed èun progetto di società da costruire. Nellatensione tra orientamento e garanzia, insi-ta nella Costituzione, nulla è immutabile,ma tutto, anche i cambiamenti, devonoessere il risultato di una ricerca comune.

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Sismondi J.-C.-L., Storia delle Repubbliche italiane, presen-

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La Costituzione italiana e il Buongoverno

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1 I rinvii tra parentesi senza altre specificazioni si rife-

riscono agli autori dei singoli saggi raccolti in questo

numero del Giornale. 2 Seguo le ipotesi e le conclusioni a cui giunge Schiera

2006 che analizza e discute, tra l’altro, le analisi sul

Buongoverno di Ambrogio Lorenzetti proposte in par-

ticolare da Donato 2002; Skinner 2003; 2006; Bou-

cheron 2005.

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1. Sulla relatività del termine/nozione di ‘lega-

lità’

Il titolo della Relazione mette in luce e,anzi,

vuole sottolineare che ‘legalità’ è una sorta

di contenitore vuoto suscettibile di subire

profonde differenziazioni; nel titolo se ne

segnala esplicitamente una fra legalità

ordinaria e legalità costituzionale, ma anche

– implicitamente, quando si usa come

necessarie le qualificazioni ‘moderna’ e

‘pos-moderna’ – un’altra con un riferi-

mento sottinteso a ‘medievale’.

Termine/nozione dalla intensa storici-

tà, perché intimamente vincolato alla visio-

ne che ogni esperienza giuridica ha avuto

del diritto e, conseguentemente, delle sue

fonti; una storicità che, nelle mani di quel

comparatista verticale incarnàntesi nello

storico del diritto, diventa la messa a fuoco

delle diverse esperienze nella tipicità delle

rispettive espressioni. Soltanto così lo sto-

rico del diritto adempie al mestier suo, che

è – paradossalmente – quello di restituire

all’uomo del presente il presente in tutta la

sua vivacità e puntualità1.

2. Sui caratteri della legalità medievale

Il tema della legalità costituisce il segno di

massima evidenza del fossato di pesante

discontinuità separante l’esperienza giuri-

dica moderna dalla medievale.

Le legalità medievale presuppone la

percezione del diritto come ordo, come

ordine scritto nelle radici più profonde

della natura e della società, una dimensio-

ne ontica che si è chiamati unicamente a

constatare, a leggere2. E si capisce bene

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La legalità costituzionale nella storiadelle legalità moderna e pos-moderna*

paolo grossi

giornale di storia costituzionale n. 16 / ii semestre 2008

* Relazione tenuta il 29 settembre 2008 nell’Aula

Magna della Facoltà di Giurisprudenza della Università di

Siena in seno al Convegno “Diritti e democrazia pluralista”

organizzato dal Centro interdipartimentale di ricerca sul

diritto pubblico europeo e comparato per i sessanta anni

della Costituzione italiana.

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perché, nella civiltà medievale, la fonteprevalente sia la consuetudine, sia semprestata la consuetudine anche quando quellaciviltà si identificò – nei secoli dall’XI° alXIV° – in una robusta e raffinatissimariflessione scientifica: perché la consuetu-dine è una voce che viene dal basso, è vocedelle cose, scritta nelle cose.

Nasce da qui e qui si motiva quella con-cezione tipicissima che il medioevo ebbe di‘legge’. Ripetendo quanto ho già fatto altrevolte, il miglior mezzo per porgerla a Voi inmodo chiaro e conciso è riferirmi a comeefficacissimamente la espresse a fineDugento Tommaso d’Aquino, teologo e filo-sofo ma soprattutto corifeo e interpretefedele di quella civiltà medievale che avevanel diritto il suo peculiare marchio di iden-tità: «ordinatio rationis ad bonum commu-ne, ab eo qui curam communitatis habetpromulgata», ordinamento della ragionerivolto al bene comune promulgato e resomanifesto da chi detiene il governo di unacomunità3.

In questa scarna e aguzza definizione lepoche parole usate hanno – ciascuna – unpeso singolare; cerchiamo di rènderceneconto.

Ordinamento: termine non innocuo,perché segnala la dimensione oggettivadella legge, giacché, se essa è chiamata aordinare una comunità, lo può effettiva-mente compiere unicamente se considera eregistra valori, interessi, bisogni concreta-mente diffusi. In altre parole, affermareche la legge è ordinamento ha lo stessosignificato di precisare che essa non è rac-chiusa nella testa del governante (chiama-to unicamente a promulgarla dàndole vesteautorevole), ma è piuttosto un messaggioproveniente dal basso, dalle trame oggetti-ve della comunità, e che il governante è

tenuto a raccogliere se vuole conseguire ilrisultato di ordinare.

Ma non basta; Tommaso aggiunge: ordi-namento della ragione. In coerenza con ilsuo atteggiamento fondamentale di valoriz-zare, fra le diverse dimensioni psicologi-che del soggetto, la razionalità, ossia lacapacità conoscitiva, insiste su un puntoessenziale: il vero ordinamento non puòessere che frutto della ragione, della cono-scenza, di una condotta di umiltà che pro-ietta il soggetto fuori di sé, verso il mondodegli oggetti, costituéndolo in piena atten-zione e in pieno ascolto verso questomondo4.

Il soggetto di Tommaso – sia pure ilgovernante di una comunità – è un sogget-to non auto-referenziale ma inserito nelcosmo e nella società, tessera di un enormemosaico. E il Principe di Tommaso, chia-mato a conoscere perché deve ordinare,vede il suo ruolo minimizzato alla promul-gazione di una norma, che egli non crea malegge già perfettamente disegnata nell’or-dine complessivo, che non è pura forma inquanto espressione potestativa ma piutto-sto una sostanza strutturata dai valori e dagliinteressi circolanti.

3. Sui caratteri della legalità moderna

Ha inizio una legalità ‘moderna’, quando,dal secolo XIV°, lentamente ma progressi-vamente, si consolida una consapevolezzanuova nel detentore del potere supremo(quello politico): il Principe, che per tuttal’età medievale aveva identificato nell’es-sere il gran giustiziere del suo popolo l’es-senza di quel potere (tanto supremo daarrivare a disporre della vita e della morte

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di ogni suddito), comincia a percepirenella produzione del diritto il segno essen-ziale della sua sovranità5. E si afferma sem-pre di più il legame tra la volontà del Prin-cipe e la regola giuridica. Quel che conta èquella volontà, restando assolutamenteirrilevante il contenuto della regola; quelche conta è la sua imputazione al soggettosovrano, perché è lui solo il depositariodella giuridicità, è lui solo che può conver-tire in diritto il semplice fatto.

In questa nuova visione non è più ingioco la conoscenza ma la volontà, unavolontà che può arrivare ad essere arbitra-ria e a identificarsi con il più insindacabi-le degli atteggiamento soggettivi, e cioè conil piacere. Jean Bodin - che opera a fineCinquecento nel regno di Francia, straor-dinario laboratorio politico-giuridico dellamodernità – ci offre nella sua Republique

l’immagine di un re che, senza voler esse-re il monopolizzatore del diritto, vuoleperò essere legislatore. Ciò consente chepermanga ancora per inerzia (senza che ilSovrano possa sbarazzàrsene) la tradizio-nale piattaforma consuetudinaria, ma i duepiani giuridici serbano una diversa quali-tà: se nelle coutumes regna l’equità, nellalegislazione regia la fa da padrone l’arbitriodel Principe, tanto che – lo ricorda espres-samente Bodin – le ordonnances si chiudo-no con la formula eloquente «car tel estnostre plaisir»6.

L’ordonnance, la legge regia, non è piùun contenuto, un tessuto di valori e di inte-ressi circolanti in basso, letti e tradotti inregole, tanto che Michel de Montaigneosservatore acuto della società francesetardo-cinquecentesca e ben nutrito di stu-dii giuridici, non ha esitazione nello scri-vere questa conclusione apparentementeparadossale: «les loix se maintiennent en

credit non par ce qu’elles sont justes, maispar ce qu’elles sont loix. C’est le fondementmystique de leurs authorité: elles n’en ontpoint d’autre…quiconque leur obeyt par cequ’elles sont justes ne leur obeyt pas juste-ment par où il doibt»7. L’autorità dellalegge regia scaturisce unicamente dal rap-porto superiore/inferiore, dalla situazio-ne di potere del detentore della sovranità,dalla identificazione fra diritto e potere chela modernità sta sempre più nettamentedisegnando e che avrà la sua compiutaespressione al termine di un plurisecolareitinerario con la fine dell’antico regime econ la grande rivoluzione8.

Il principio dominante è un principiodi legalità sostanzialmente diverso da quel-lo medievale: se questo si risolveva in unampio principio di giuridicità, ossia di cor-rispondenza a un ordine giuridico pluralee sfaccettatissimo, la legalità moderna sirisolve nella corrispondenza a una insin-dacabile volontà autoritaria immobilizzatain un ineludibile testo scritto.

La modernità è un momento di inten-so soggettivismo giuridico, percorso da unaricerca parossistica (durata fino a ieri e inparecchi giuristi misoneisti fino ad oggi9)della volontà del legislatore, apparendorilevante non già la vita della norma giuri-dica nel tempo e la sua frizione con i fattisociali ed economici sopravvenuti alla suapromulgazione, ma solo l’individuazionedella volontà che, magari cento anni prima,l’investito del potere ha inserito nell’invo-lucro vuoto della forma legale.

Una conseguenza negativa da sottoli-neare è che la provenienza del diritto, ditutto il diritto, dai palazzi alti del potere,cioè la sua riduzione in un complesso dileggi intese come or ora descritte, non puòche generare la lontananza e la separatez-

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za del diritto legale dalla storicità perennedella società. Con la ulteriore conseguen-za negativa della degenerazione del legali-smo in formalismo, giacché tutto si riducea un gioco di testi autorevoli in cui il dirit-to è stato imbalsamato e sui quali devonoesercitarsi i ghirigori più o meno logicidegli interpreti.

La tragedia della legalità moderna è diridursi al rispetto di contenitori vuotisuscettibili dei più aberranti contenuti: leleggi fasciste del 1938 sulla infame discri-minazione razziale ne sono esempio tantoillustre quanto ripugnante10. Leggi formal-mente perfette, deliberate dall’organolegittimato a farlo, e pertanto degne diobbedienza. Non aveva, forse, insegnato undistinto giureconsulto italiano, Piero Cala-mandrei, pochi anni dopo lo sciagurato1938, la necessità assoluta della obbedien-za ad ogni costo anche a quel precetto legi-slativo che per la sua intrinseca iniquitàpoteva generare orrore nella vigilecoscienza del comune cittadino11?

Purtroppo, il vaso vuoto della legge nonaveva la capacità taumaturgica di trasfor-mare in bene tutto il male in esso contenu-to, e il principio della moderna legalità –affermato com’era in tutta la sua assolu-tezza e senza agganci nella società – nonera bastante a coprire le vergogne deldetentore del potere12.

4. Alle origini di una nuova dimensione poli-

tico-giuridica: quella costituzionale

Nel pieno svolgimento della modernità, daltardo Seicento in poi, il vólto semplice,asciutto, impietoso della legalità modernasi cómplica e quasi si sdoppia con l’emer-

gere e il montare della grande avventuradel cosiddetto costituzionalismo. Sappia-mo che, talora, da parte di alcuni studiosi,si è spostato all’indietro – e di parecchio –una siffatta apparizione, e si è parlato di‘costituzione antica’ e di ‘costituzionemedievale’, intendendo tuttavia con l’usodel polisemicissimo termine ‘costituzione’nulla più che la struttura fondamentale diun ordinamento politico-giuridico.

Il costituzionalismo autentico, da unrigoroso angolo di osservazione storico-giuridico, è però quello moderno, e siincarna nella inaugurazione e fissazione diuna nuova legalità. Nuova giacché, accan-to al crescere e all’insuperbirsi dello stata-lismo moderno e di una legalità rigida-mente statuale perché pensata e risoltacome cerniera che chiude ermeticamenteil rapporto necessario fra diritto e Stato,generose riflessioni filosofico-politiche efilosofico-giuridiche, affondando lo sguar-do più in là dello Stato e delle differentivolontà assolutistiche sovrane, tentano ildisegno di un ordine socio-giuridico basa-to su una lettura obbiettiva - o pretesa tale– di un ordine naturale preesistente allarealtà storica di ogni comunità politicaorganizzata; riflessioni – si aggiunga – cheriescono a imporre agli Stati delle auto-limitazioni13.

Per una corretta valutazione storico-giuridica della grande avventura costitu-zionalistica, lungi dal fare d’ogni erba unfascio e dal valutare unitariamente undivenire che è invece diversificato e fra-stagliato, occorre segnare fermamente duemomenti del suo itinerario a seconda chelo scorrimento avvenga nella modernità onella pos-modernità.

È necessaria anche una precisazione:sono il primo a essere insoddisfatto del

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riferimento alla pos-modernità e a unindirizzo pos-moderno, che, con la suagenericità, sembra contravvenire a unamessa a fuoco autenticamente storiografi-ca. Da qui nasce l’esigenza di intendercimeglio: pos-moderno come tempo in cuientrano in crisi i valori portanti dell’edifi-cio politico-giuridico accuratamente pro-gettato, definito, costruito dalla moderni-tà; un tempo che si origina negli ultimidecennii dell’Ottocento, si sviluppa duran-te tutto il corso del Novecento e che stiamotuttora vivendo. Sui contenuti di questacrisi si cercherà di essere più concreti nelprosieguo della Relazione.

5. Caratteri e ruolo del primo costituzionali-

smo

Come si sa, il primo momento del costitu-zionalismo si distende tra fine Seicento efine Ottocento e può essere correttamen-te contrassegnato come il tempo delle‘carte dei diritti’. Per arginare lo strapote-re dello Stato, si tentava di risalire ai carat-teri originarii dell’uomo così come poteva-no cogliersi in quel primigenio stato dinatura quando ancora non si erano verifi-cate le contaminazioni e le alterazioni dellastoria umana dovute a invenzioni dell’or-ganizzazione politico-sociale.

Lo stato di natura, così come il giusna-turalismo seicentesco e l’illuminismo set-tecentesco si accanirono a delineare, erauna sorta di tempo fuori del tempo, erapre-storico, pre-sociale, pre-politico, unpaesaggio assolutamente virtuale che risul-tava intriso del vizio di fondo del giusnatu-ralismo moderno, e cioè la astrattezza; unpaesaggio as-tratto perché es-tratto dalla

concretezza del divenire storico. Quel chesi voleva era proprio di proiettare lo sguar-do al di là e al di sopra delle miserabili con-tingenze della politica per cogliere, legge-re e valorizzare in una specie di paradisoterrestre esigenze e interessi, facoltà ediritti del singolo soggetto che, essendopre-storici, la storia non avrebbe potutoledere o mettere in discussione.

Il punto dolente, e la conseguentedebolezza del disegno, era che si trattavadella lettura di un ordine inesistente. Se loStato appariva ai giusnaturalisti quello cheera, ossia un artificio, non meno artificio-so si profilava il loro stato di natura, appro-priato espediente per rivestire il soggettoindividuo di situazioni intangibili dal pote-re, ma – ohimè! – anche frutto di un’abilestrategia accomodando e strumentalizzan-do le brillanti intuizioni filosofiche ai biso-gni di una società borghese.

Spieghiàmoci meglio e cerchiamo dichiarire questo complicato e vitale nodostorico-giuridico. Ho detto che si trattavadel disegno di un paesaggio artificioso, nonmeno artificioso dei pastorelli imparruc-cati di una arcadia inesistente. L’individuoche vi stazionava non era un soggetto sto-ricamente concreto perché inserito nelletrame dell’esperienza; era piuttosto unmodello di individuo, completamenteastratto dalle fattualità del quotidiano, sog-getto unico e unitario al pari della statua edelle tante statue uscite da un medesimostampo.

Su questo modello si misurano situa-zioni e rapporti, ma tutto resta confinatonel limbo di una astrattezza assoluta; inquel limbo rarefatto esistono soggetti l’unoperfettamente uguale all’altro, nessuno deiquali è mortificato dalla bassa corte deifatti economici e sociali, da formazioni

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sociali o da condizionamenti comunitarii,ciascuno munito di una gamma di dirittisoggettivi, con al primo posto la proprietàche il giusnaturalismo scopre genetica-mente all’interno del soggetto stesso comeproprietà del proprio corpo e dei propriitalenti, ciascuno obbligato a un solo dove-re consistente nella conservazione del sé,ciascuno avente in mano per la relazionecon l’altro lo strumento del contratto, stru-mento di autonomia che – anziché ledere– intensifica la sua perfetta indipendenza.

L’uomo primigenio, che si pretende didisegnare nella sua originarietà, è dunqueun individuo egoistico assolutamente a-sociale; per lui si scrivono quei cataloghidi situazioni soggettive protette che sono lecarte dei diritti, e per lui si scriveranno trabreve i varii Codici civili a cominciare daquello napoleonico. Nel confezionamentodi un siffatto paesaggio filosofico-politi-co, che tende a porsi a fondamento di ogniordinamento giuridico positivo, non cisono ingenui e candidi descrittori di unafavola innocua. Per dir meglio, la favola c’è,ma non è innocua.

Qui si avverte tutto il peso dello Statomoderno quale Stato mono-classe, dovel’astrattezza fa parte di una precisa strate-gia e dove il ragionar su modelli ha il signi-ficato di non incidere affatto a livello diesperienza e di operatori immersi nellaquotidianità. L’esempio più puntuale èofferto da un principio di uguaglianzasbandierato senza risparmio in tutte lecarte dei diritti: una conquista, senza dub-bio, se vi si coglie la rottura con gli iniquisoffocamenti cetuali dell’antico regime, manulla più che una decorazione per il nulla-tenente che rimane tale e che, anzi, nonavendo più vincoli di ceto a limitarlo nellasua libera azione, potrà essere bollato di

pigrizia o di inettitudine per la sua perma-nente povertà.

Si svela appieno il carattere duplice delprimo costituzionalismo: grande avventu-ra intellettuale perché liberatoria per ilsoggetto, che vede riconosciuta una suasfera gelosa difesa dagli arbitrii del pote-re; oculata strategia perché l’inventario deidiritti segnato nelle carte, nella sua astrat-tezza premia o lascia indenne l’abbiente –come è sempre avvenuto nella vicenda sto-rica – senza alcuna possibilità di penetra-zione sul piano fattuale; e l’operazione giu-snaturalistica si colora, per occhi disincan-tati, inevitabilmente anche di una valenzaideologica.

Senza contare le numerose mitologieconfezionate proprio nei primi testi costi-tuzionalistici. Troppo spesso le conquistesi fondano sopra (e si fondono con) unsapiente corredo mitologico, degno di fedee perciò indiscutibile14. È, infatti, indiscu-tibile che la sovranità sia veramente popo-lare, che la nuova rappresentanza politicasia veramente rappresentanza, che la leggesia veramente espressione della volontàgenerale. Principii e istituti ritenuti i car-dini del nuovo ordine sono proposti comeoggetto di credenza più che di valutazioneoggettivamente critica.

Giusnaturalismo e illuminismo aveva-no ripugnanza per le fattualità di cui siintesse la vita degli uomini; il che diventa-va incomprensione per la dimensione dellastoricità, giacché i fatti quotidiani – assaipiù che battaglie, trattati, rivoluzioni –costituiscono il momento genetico dellastoria e il suo nucleo più riposto. Si eratroppo spesso di fronte a una sapiente abi-lissima geometria che galleggiava bensopra la storia.

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6. Il tempo pos-moderno quale nicchia del

secondo costituzionalismo

La storia fatta dai comuni cittadini, unastoria non ‘rumorosa’15 ma incisiva nel suoscorrere quotidiano com’è incisiva la goc-cia che scava lentamente la pietra, questastoria, è, invece, la protagonista del secon-do costituzionalismo. Il quale si colloca neltempo pos-moderno e fedelmente loesprime.

Se ci si domanda sulle ragioni, questesono chiaramente rilevabili.

Il pos-moderno per lo storico del dirit-to coincide all’incirca con le sempre piùgrosse incrinature nelle muraglie fondati-ve dell’edificio politico-giuridico dellamodernità. Questa aveva eretto a suo pila-stro portante lo Stato, gli aveva affidato unruolo protagonistico, gli aveva consegnatoil monopolio della produzione giuridica. Ilrisultato era stato una semplificazioneestrema, tutto era stato ridotto a schemati-smi geometrici, come si diceva poco sopra.

La modernità, dal punto di vista giuri-dico, si presentava come un’operazionedrasticamente riduzionistica; il pluralismogiuridico si era contratto in un monismolegale. E il crogiuolo perennemente ribol-lente della società era stato, se non spen-to, almeno soffocato nella sua spontaneità.Il dovizioso anche se arruffato mondo deifatti – la società, per l’appunto – era statopuntigliosamente controllato, mentre l’ap-parato statuale di potere si era assunto ilcómpito di fungere da filtro meticolosissi-mo tra fatti e diritto.

Ma a fine Ottocento questa pesantearmatura, che si era mantenuta grazie allaefficiente vigorìa dello Stato monoclasse,cede quando il grande assente dellamodernità, il ceto basso dei nulla-tenen-

ti, reclama un proprio ruolo, comincia unalotta aspra e sanguinosa, e capisce soprat-tutto che il proprio salvataggio riposa inte-ramente in una capillare organizzazionecollettiva. E la società, da piattaforma iner-te, da massa neutra di innumeri formicheumane, si articola in quelle coagulazionicollettive –aborrite e cancellate dall’indi-vidualismo borghese – che le permetteran-no di organizzarsi e di fungere da polo giu-stapposto allo Stato (se non fortementecontrapposto).

Il paesaggio socio-giuridico semplicis-simo disegnato artificiosamente durante lamodernità cede alla fiumana della com-plessità. Il Novecento, il secolo della pos-modernità, è il tempo della riscoperta dellacomplessità sociale e giuridica; il monismoborghese è lentamente e progressivamen-te eroso da un montante pluralismo, men-tre l’edificio statuale borghese si incrina16.E, con il pluralismo delle fonti, si erodeanche la dura legalità moderna. Pur seCodici e leggi continuano a riaffermare intutta la sua inflessibilità il principio dellagerarchia delle fonti17, sul piano dell’effet-tività giuridica giurisprudenza, dottrina,consuetudini, prassi rioccupano parecchidegli spazii e dei ruoli perduti con la ser-rata di fine Settecento.

Il nuovo costituzionalismo presupponeil contesto storico pos-moderno ora som-mariamente descritto, presuppone unoStato ormai divenuto pluriclasse, presup-pone una società che chiede di poter esse-re letta senza forzature artificiose nellaimmediatezza delle sue espressioni. Equando la prima guerra mondiale, trage-dia immane e inutile strage ma anche cippofunerario definitivo del vecchio ordineborghese, provvede allo sgretolamentodella passata costruzione, appaiono delle

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manifestazioni costituzionali che pocohanno da spartire con le ‘carte dei diritti’di ieri e che, al contrario, si contraddistin-guono per una marcata novità. Non è uncaso che la prima di esse – alle quali appar-tiene anche la nostra Costituzione del 1948-, e cioè quella di Weimar, veda la luce nel1919, quando è appena terminato lo sface-lo bellico e il terreno storico sia più sgom-bro da vecchie ipoteche.

La novità delle Costituzioni di questosecondo momento sta nell’essere un ten-tativo di leggere oggettivamente un con-creto ordine storico e, insieme, di tradur-re quell’ordine in una norma giuridicasuprema. Oggetto e contenuto di esse sonovalori, interessi, bisogni circolanti nellarealtà storicamente concreta di un popoloche vive in un certo spazio e in un certotempo: quella di Weimar tenta di offrire lacifra giuridica essenziale della societàtedesca nel 1919; in quella italiana c’è lacifra giuridica essenziale della società ita-liana degli anni 1946/48 dopo le malversa-zioni del fascismo, della monarchia sabau-da, del quinquennio bellico.

7. La Costituzione italiana del 1948: un

momento forte del costituzionalismo pos-

moderno

Limitandoci a quest’ultima, che oggi cele-briamo qui a Siena nel sessantesimo annodi vita, i suoi tratti salienti son proprioquelli che la staccano nettamente dallecarte borghesi e dalle manifestazioni delprimo costituzionalismo.

Il soggetto unitario dello stato di natu-ra, soggetto a-storico e a-sociale, soggettovirtuale, viene sostituito da una entità

umana dal carattere squisitamente relazio-nale; non una realtà insulare come l’indi-viduo auto-referenziale disegnato nelle‘carte’, bensì soggetto inserito in un con-testo culturale, sociale, economico e per-tanto fornito di una vivace carnalità stori-ca. Ed è pensato in stretto rapporto conl’altro, con gli altri, all’interno di struttu-re comunitarie che ìntegrano e arricchi-scono la sua individualità.

Lo stesso Stato, prima ancora di essereun apparato di potere, è la macro-comuni-tà che si articola in un tessuto di micro-comunità. Deponendo la compattezza dellacompagine politica pos-giacobina, tende arispecchiare fedelmente la complessitàdella società riproducendola nel suo seno.Ed è notabile il verbo ‘riconoscere’ larga-mente usato negli articoli del testo costitu-zionale del’4818, quasi a rimarcare che «loStato non conferisce, ma riconosce», comeafferma uno dei costituenti più agguerriti,Giuseppe Dossetti19; ossia legge nelletrame della società e traduce in ordina-menti e disciplinamenti della vita socialedei cittadini

In coerenza con questa innovativaimpostazione, la Costituzione non si ridu-ce a un catalogo di diritti, e il singolo cit-tadino, accanto a un pròvvido corredo disituazioni che ne tutelano e corròborano levarie dimensioni personali, risulta titola-re di molteplici situazioni di dovere. Ildovere socializza il soggetto, lo ponenecessariamente in contatto con gli altri,trasfigura l’individuo in persona.

Se è vero quel che si affermava piùsopra, essere cioè la Costituzione novecen-tesca il tentativo di esprimere la cifra giu-ridica di un popolo sorpreso nella sua sto-ricità, non poteva che essere lontanissimodai costituenti il progetto di un catalogo,

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di una ‘carta dei diritti’, tanto prezioso

quanto insoddisfacente, e soprattutto anti-

storico. Il cittadino italiano doveva trova-

re nel testo costituzionale il presidio delle

sue sacrosante libertà ma anche un brevia-

rio per la sua vita quale socius della macro-

comunità repubblicana.

Ed è per questo – come, del resto, era

già avvenuto a Weimar – che, a differenza

delle carte giusnaturalistiche, il nuovo

testo, che intende proporsi come norma

suprema di civile convivenza, si occupa

distesamente, nei ‘principii fondamenta-

li’ e nella prima parte, di religione, di arte,

di cultura, di economia, di educazione, di

ambiente, di salute, riservando una secon-

da parte a disegnare l’architettura organiz-

zativa statuale.

8. La Costituzione italiana quale atto di

ragione

L’Assemblea Costituente, nei quasi due

anni di intenso lavoro, tentò la lettura di

quella cifra, tanto che la nostra Costituzio-

ne, almeno nei ‘principii fondamentali’ e

nella prima parte, appare come un supre-

mo atto di conoscenza. Parlando, a fine

agosto, a Rimini, nell’àmbito di una cele-

brazione del sessantennio, io ho addirit-

tura intitolato la mia Relazione «La Costi-

tuzione italiana come atto di ragione».

Non volevo rinverdire la definizione

tomista di legge, né tanto meno trapian-

tarla in un clima storico profondamente

diverso. Volevo – questo sì! – sottolineare

nei Costituenti lo sforzo di non immiseri-

re il risultato delle proprie fatiche in una

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Vittorio Emanuele Orlando pronuncia il discorso inaugurale dell’assemblea costituente.

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visione partigiana cedendo a contrapposi-zioni ideologiche, bensì di leggere unarealtà oggettiva, di seguire – con l’armabenefica di un atteggiamento squisitamen-te razionale – una visione critica capace diattenuare le contrapposizioni, di armoniz-zare le differenze, sì da fare della Costitu-zione la risposta alle ansie di un popolostremato e la registrazione fedele dei valo-ri universalmente sentiti e affermati.

Qualcuno potrebbe storcere la boccasorprendendo al di sotto di questa miaconclusione un pesante atteggiamentoapologetico. E, poiché il sospetto potreb-be avere una parvenza di fondamento, con-sentìtemi una sosta su questo punto, ancheperché lo storico dovrebbe sempre guar-darsi dal cadere in una trappola che con-dannerebbe senza appello la sua analisiproprio sul piano storiografico.

La Costituente italiana non si identifi-cava, certo, in una schiera di angeli, e si sabene che i suoi membri, portatori di ideo-logie assai diverse, furono talora protagoni-sti di accesi scontri frontali. E conosciamole varie valutazioni che del loro lavoro si èdato, ivi comprese le severe stigmatizzazio-ni, talora autorevolissime. Precisamenteper l’autorità intellettuale e morale del cen-sore, mi piace ricordarne qui almeno una,quella di Arturo Carlo Jemolo, storico e giu-rista di livello altissimo, personaggio diassoluta probità, credente dalla fede puris-sima, quello stesso che, in nome di unaaccesa purezza, aveva altamente rimprove-rato al partito di ispirazione cattolica diavere spento con le sue compromissioni il‘roveto ardente’ (bellissimo sintagma suodalla palese ispirazione biblica): la Costi-tuente è stata un luogo di accordi transatti-vi, troppo spesso all’insegna di una politi-ca bassamente partitica, come nell’esem-

pio clamoroso di quel risultato per Jemolonegativo che è l’articolo 7 regolatore deirapporti fra Stato e Chiesa Cattolica.

Valutazione severa, venata di massima-lismo e, pertanto, a mio avviso, falsante. Iocredo, al contrario, che il grosso impegnomaieutico alla genesi dello Stato repubbli-cano meriti una valutazione decisamentepositiva.

Tipica Costituzione scaturente dalsecondo momento costituzionalistico, lanostra è il frutto, almeno per quanto attie-ne ai principii fondamentali, di una consa-pevolezza salvante che circolò nella Assem-blea: di poter ovviare allo sfacelo presentesoltanto con un’opera sinergica che valo-rizzasse gli elementi unitivi e che potesseperciò proiettarsi nei tempi lunghi dellastoria italiana dopo il 1945. Dunque, nonun rimedio provvisorio atto a colmare ilvuoto contingente, bensì una costruzionesolida idonea a durare per un futuro inde-finito; insomma, fu veramente una Costi-tuzione ‘presbite’, secondo la immaginifi-ca calzantissima qualificazione di PieroCalamandrei.

9. I padri costituenti al lavoro e la loro busso-

la orientativa: una ‘sinergia’ costruttiva

Per poter arrivare a una meta così ambi-ziosa i Costituenti italiani seguirono conprofonda persuasione la scelta forte giàoperata nel costituzionalismo novecente-sco di guardare al di là della singola fazio-ne politica, di guardare al di là dello Stato,attingendo direttamente nella società ita-liana e individuando quei valori storici che– soli – avrebbero potuto sorreggere ilcostruendo edificio nei tempi lunghi.

Lezioni

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I padri costituenti – dobbiamo ricono-scerlo – si interrogarono pressantemente esinergicamente affinché negli articoli dellanascente carta non vi fossero né sublimigeometrie astratte né la somma delle vogliedei varii partiti politici, ma il vólto delpopolo italiano quale entità vivente storica-mente concreta; affinché il cittadino non vitrovasse i sermoni filosofico-politici dellevecchie carte giusnaturalistiche parlanti diuna felicità irraggiungibile e di una ugua-glianza vuota e irridente, ma più semplice-mente un fondamentale breviario giuridi-co come breviario di vita.

Per motivare meglio le precedenti con-siderazioni e toglierle dalle secche dellabassa retorica, non c’è che da scendere allaosservazione dei Costituenti al lavoro,puntando – entro la Commissione dei 75 –sulla Prima Sotto-commissione chiamata aelaborare una bozza concernente il nodopiù rilevante e anche più difficile: i dirittie i doveri del cittadino. Ne facevano partedegli autentici protagonisti come i demo-cristiani Dossetti e La Pira, il socialistaBasso, i comunisti Marchesi e Togliatti.Ecco: qui, come risulta limpidamente dagli‘atti’, vediamo la sinergia all’opera.

Seguiamo per un momento l’approcciodel più preparato fra i suoi membri anchesul piano teorico, il giurista Giuseppe Dos-setti. Alla premessa che «su questi princi-pii fondamentali, che debbono dare lafisionomia sintetica del nuovo Stato e deirapporti tra i cittadini e lo Stato, è neces-sario sia riscontrato il consenso di tutti»20

segue la dichiarazione ottimistica che«non sarà impossibile accordarsi su unabase ideologica comune»21 ma segue anchela motivazione di tanto ottimismo: si dovrà,infatti, arrivare ad «affermazioni fondatesoltanto sulla ragione»22. Il terreno del

razionale e del ragionevole è, dunque, vistocome il tipico campo di incontro perché èsolo lì che può prevalere una lettura criti-ca dei nodi problematici e dei modi perscioglierli.

È, poi, illuminante la verifica di come siallunghi lo sguardo di Dossetti fino ad arri-vare a una realtà pre-statuale dove ci sianoin assai minor grado dei condizionamentioriginati dalle contingenze. Infatti, lo Statopuò essere borghese, marxista, nazista,fascista provocando con le sue specifichecaratterizzazioni divisioni e lacerazioniinsanabili. Il merito dei Costituenti fu diguardare al di là dello Stato senza caderenegli artifizii giusnaturalistici e mante-nendo – al contrario – i piedi ben saldi sulterreno solido di un popolo che vive la suastoria quale comunità fondata su valori dif-fusi e condivisi.

Un esempio limpidissimo è come Dos-setti affronta e propone di risolvere il pro-blema della posizione della persona nelformando Stato costituzionale. Il rettoangolo di osservazione, che avvìa la discus-sione, è la «anteriorità della persona difronte allo Stato», esplicitando subito che«questo concetto fondamentale dell’ante-riorità della persona, della sua visioneintegrale e della interpretazione che essasubisce in un pluralismo sociale può esse-re affermato con il consenso di tutti»23. Ela sinergia (il termine che uso è carissimoa Dossetti) si verifica, e il costituentedemocristiano non ha troppe difficoltànell’ottenere il consenso di PalmiroTogliatti, un costituente ideologicamenteassai lontano.

Gli esempii potrebbero moltiplicarsi, esi sarebbe potuto innanzi tutto menziona-re l’intensissima operosità di Giorgio LaPira, Relatore per la Ia Sotto-commissio-

Grossi

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Lezioni

24

1 Io l’ho sostenuto da tempo e non

per apologia del mio mestiere di

storico del diritto. Si vedano, in

particolare: Il punto e la linea

(l’impatto degli studi storici nella

formazione del giurista) (1996),

ora in Società, diritto, Stato: un

recupero per il diritto, Milano,

Giuffrè, 2006; Storia del diritto e

diritto positivo nella formazione

del giurista di oggi, in Rivista di

storia del diritto italiano, LXX

(1997); La storia del diritto nella

formazione del giurista di oggi, in

Per una riflessione sulla didattica

del diritto con particolare riferi-

mento al diritto pubblico, a cura di

V. Cerulli Irelli e O. Roselli,

Milano, Angeli, 2000.2 È l’intuizione elementare che

sorregge il mio volume L’ordine

giuridico medievale, Roma/Bari,

Laterza, 200813.

3 Summa Theologica, Prima

Secundae, q. 90, art. 4.4 È notabile che San Tommaso

riconduca a una attività raziona-

le ordinativa anche il comando,

lo imperium. Si veda Summa

Theologica, Prima Secundae, q.

17, art. 1.

5 Ho esaminato questo grave pro-

blema storico-giuridico in

Modernità politica e ordine giuri-

dico (1998), ora in Società, dirit-

to, Stato, cit..6 Jean Bodin, Les six livres de la

Republique, Aalen, Scientia, 1977

(rist. anast), liv. I, chap. VIII, pp.

132-33.7 Essais, liv. III, chap. XIII.8 Ho segnato questo itinerario in Il

diritto tra potere e ordinamento

(2005), ora in Società, diritto,

Stato, cit..9 Mi sia consentito di rinviare ad

alcune mie recenti riflessioni:

Un recupero per il diritto: oltre il

soggettivismo moderno, ora in

Società, diritto, Stato, cit..10 Ho ritenuto di doverle ‘comme-

morare’, perché resti salda in

ogni giurista la memoria di quel-

la nefandezza legale: Pagina

introduttiva (a sessanta anni dalle

leggi razziali italiane del 1938), in

Quaderni fiorentini per la storia del

pensiero giuridico moderno, 27

(1998).11 P. Calamandrei, La certezza del

diritto e le responsabilità della dot-

trina (1942), ora in Opere giuridi-

che, vol. I, Napoli, Morano, 1985.12 Se ne accorse lo stesso Calaman-

drei alla fine della sua vita, in

quei primi anni Cinquanta

quando egli, portatore di un fer-

vido credo post-illuministico,

nello sfascio di un disastroso

dopoguerra, cominciò a con-

frontarsi con le erosive visioni

cattolica e marxista. È di questi

giorni (settembre 2008) la pub-

blicazione, a cura della nipote

Silvia, del testo inedito di una

conferenza fiorentina del gen-

naio 1940, nella quale però il

giurista appare ancora sostan-

zialmente immerso nel suo

inveterato legalismo (cfr. P.

Calamandrei, Fede nel diritto,

Roma/Bari, Laterza, 2008).

Calamandrei non aveva ritenuto

di pubblicarla, e si sarebbe fatto

probabilmente bene a rispettare

questa implicita volontà dell’au-

tore, tanto più che, a far data dal

suo primo ‘corso’ costituziona-

listico dopo la liberazione, il suo

atteggiamento si fa complesso, e

i dubbii cominciano a prevalere

sulle vecchie convinzioni ormai

insostenibili (cfr. P. Grossi, Stile

ne e autore di una Relazione articolatissi-ma, sensatissima, dottissima24, ma sco-pertamente innestata in una visione meta-fisica assai più di quella del parimente cat-tolico Dossetti che ama mettersi su un ter-reno d’incontro con personaggi agnosticio, comunque, di ideologie differenti.

Il frutto fu una Costituzione ‘presbite’,che dovette la propria indubbia lungimi-ranza (non ne potremmo festeggiare oggiil vitale sessantennio di vita) grazie al ten-tativo difficile ma riuscito di una intelaia-tura (La Pira avrebbe detto: architettura)di principii pensata e disegnata come atto

di ragione. Credo che si farebbe torto ainostri padri costituenti se non si ravvisas-se alle radici del loro lavoro lo sforzo diliberarsi dagli elementi contingenti chepossono dividere, di puntare su quelli uni-ficanti cercando di realizzare una unitàgiuridica non fittizia del paese. Il che sipoteva fare – ed essi hanno tentato di fare– «riconoscendo» (termine peculiarissi-mo della nostra Carta25) una realtà ante-riore e traducendola in una norma giuri-dica suprema della intiera collettività ita-liana.

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Grossi

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fiorentino – Gli studi giuridici

nella Firenze italiana 1859/1950,

Milano, Giuffrè, 1986, p. 160

ss.).13 Un disegno sommario ne abbia-

mo dato, da ultimo, in una

recente sintesi: L’Europa del

diritto, Roma/Bari, Laterza,

20083.14 P. Grossi, Mitologie giuridiche

della modernità, Milano, Giuffrè,

20073.15 Faccio mia una espressione feli-

ce dello storico Fernand Brau-

del.16 È la diagnosi, acuta e storica-

mente esatta, che il giovane

Santi Romano compie nel famo-

so discorso inaugurale pisano

del 1909, intitolato senza reti-

cenze “Lo Stato moderno e la sua

crisi”(ora in Lo Stato moderno e

la sua crisi – Saggi di diritto costi-

tuzionale, Milano, Giuffrè,

1969).17 Un esempio – che diviene allar-

mante per essere ancora formal-

mente intatto – è rappresentato

dalle ‘Disposizioni preliminari’

al Codice Civile italiano del

1942.18 Esemplari almeno gli articoli 2,

4, 5, 29, 42, 45, 46.19 G. Dossetti, La ricerca costituente

1945-1952, a cura di A. Melloni,

Bologna, Il Mulino, 1994, p. 105.20 G. Dossetti, La ricerca costituen-

te, cit., p. 103.21 Ibidem, p. 101.22 Ibidem, p. 102.23 Ibidem, p. 102.24 La Relazione lapiriana convali-

da, infatti, pienamente quanto si

è or ora detto. Si ponga mente a

questo passo concernente i

primi articoli della redigenda

Carta: «Questi due articoli

imposterebbero così organica-

mente tutta la prima parte della

Costituzione: questa prima

parte, infatti – con la determi-

nazione progressiva che in essa

viene fatta dei diritti essenziali

della persona e di quelli delle

comunità, verrebbe a costituire

uno specchio fedele della reale

struttura della società. La quale

non conosce soltanto singole

unità personali; essa conosce

altresì quelle comunità naturali

- comunità familiare, comunità

religiosa, comunità di lavoro,

comunità locali, comunità

nazionale – delle quali le singo-

le persone sono necessariamen-

te membri e nelle quali sono

organicamente e progressiva-

mente integrate» (G. La Pira, La

casa comune – Una costituzione

per l’uomo, a cura di U. De Sier-

vo, Firenze, Cultura, 1979, p.

152). Nella ‘Discussione’ La Pira

insisterà sul fine della Costitu-

zione individuato nella «tutela

dei diritti originari ed impre-

scrittibili della persona e delle

comunità naturali» (ibidem, p.

181). Nell’intervento sul proget-

to di Costituzione tenuto nella

seduta dell’11 marzo 1947, sotto-

lineando l’esigenza di una Costi-

tuzione duratura e domandan-

dosi il perché del crollo di altre

Carte costituzionali europee, La

Pira precisa: «Ora perché que-

sto crollo? Perché c’è spropor-

zione fra la reale natura umana,

la reale struttura del corpo

sociale e la volta giuridica. C’è

sproporzione e una Costituzione

è in crisi perché ha errate le fon-

damenta e i muri maestri»(ibi-

dem, p. 239). Quel che si può

trarre da queste citazioni è che

in esse ci si sforza di riportare

l’analisi della Assemblea Costi-

tuente a una lettura di quella

realtà anteriore rappresentata

dal popolo italiano con il suo

patrimonio di valori diffusi.25 Cfr. più sopra, nt. 18.

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Così avviene il più delle volte in questo mondo

così civile e così incivile insieme

[Lettera di Aldo Moro al vicedirettore de «L’Os-

servatore romano» dal carcere delle Brigate

Rosse, rip. in A. Sofri, L’ombra di Moro, Sellerio,

Palermo, 1991, p. 30]

1. Come celebrare il sessantesimo anniversario

della Costituzione?

Sessanta anni sono un periodo ragguarde-

vole per una Costituzione, tanto più in un

Paese difficile come il nostro. Eppure tut-

tora ci manca il senso di una convivenza

basata su princìpi condivisi e praticati.

L’Italia del dopoguerra, si notava in occa-

sione del cinquantenario e si può ribadire

oggi, «è risorta materialmente e moral-

mente ed è in pace», e tuttavia «non stia-

mo bene. La Costituzione è poco nota, poco

radicata nelle coscienze e poco applicata»1.

Interrogarsi sulla persistenza di questo

scarso radicamento mi pare il modo meno

ipocrita per celebrare la ricorrenza, anche

se non è il più facile. La mancanza di un

senso costituzionale della convivenza è fin

troppo accettata, non è cioè considerata un

limite da superare. Si è saldata con altre

mancanze più antiche – di senso dello stato,

dell’unità nazionale, della legalità – nell’au-

torappresentazione per cui «siamo fatti

così». Nello stesso tempo, la mancata rea-

zione dell’opinione pubblica legittima le

violazioni della legalità costituzionale che

non passano per i controlli degli organi di

garanzia, e che infatti si moltiplicano2.

L’indifferenza è un buco nero per il diritto

costituzionale di un paese democratico, che

presuppone un’opinione in grado di pena-

lizzare quanti violino la Costituzione, vista

come patrimonio collettivo.

Ma bastano forse lo scarso radicamen-

to della Costituzione, e la conseguente dif-

ficoltà scientifica, a disinteressarsi della

questione? Invitano, piuttosto, a cercare

nell’esperienza repubblicana intrecci di

circostanze e di occasioni mancate, che

portati alla luce smentirebbero l’ipotesi che

la condizione sia irreversibile.

29

L’incivilimento degli italiani e la Costituzione della Repubblica

cesare pinelli

giornale di storia costituzionale n. 16 / ii semestre 2008

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2. «Seconda Repubblica»

Lo scarso radicamento della Costituzioneconsiste, prima di tutto, in una inconsape-volezza del nesso fra tradizione e mutamen-to costituzionale. Allora, possono trovarecredito confuse formule alternative allaRepubblica instaurata nel 1946, come«Seconda Repubblica», e si possonorimuovere dal discorso pubblico inequivo-che espressioni di volontà dello stessocorpo elettorale, come il risultato del refe-rendum sulla Seconda Parte della Costitu-zione. Ripercorrerò questi episodi per illu-strare gli effetti di una inconsapevolezzache oggi lega a filo doppio la società allaclasse dirigente, e che, come vedremo, risa-le in gran parte a vicende anteriori.

Nel 1994, crollati i partiti che avevanodeliberato il testo costituzionale e poi ani-mato la democrazia, il Parlamento uscitodalle elezioni si componeva solo per metà difigli dei Costituenti. Le altre formazionipolitiche erano state costruite proprio allo-ra sulle ceneri dei partiti tradizionali (LegaNord e Forza Italia), o erano eredi di unatradizione ostile alla democrazia repubbli-cana (Alleanza Nazionale).

Più che contrari alla Carta del 1948 innome di un’ispirazione alternativa, i parti-ti del centrodestra erano indifferenti aiprincìpi della Prima Parte, e insofferentidei limiti istituzionali al potere della mag-gioranza parlamentare previsti nellaSeconda. Sentivano insomma la Costituzio-ne come un corpo estraneo, o come unrelitto del passato, di fronte alla comuni-cazione mediatica col pubblico del leaderlegittimato dalle urne, che incarnava ai loroocchi il presente e il futuro della democra-zia. Una democrazia, dunque, certamentenon pluralista, ma nemmeno giacobina. La

loro era una visione populista e insiemepostmoderna della comunità politica, sgan-ciata dai presupposti dello Stato costituzio-nale.

I partiti del centrosinistra, che al con-trario non potevano disconoscere la paren-tela con i Costituenti, sentivano la tradizio-ne costituzionale come qualcosa da salvare,ma senza più saper spiegare perché. Tanto-meno sapevano come la si potesse innesta-re nel ‘nuovo’, reinterpretandola e facen-dola rivivere in circostanze mutate. E, nonsapendolo, si trovavano in uno stato disubalternità culturale di fronte al ‘nuovo’,come aristocratici assediati da un popoloche rumoreggiava minacciosamente sottole finestre dei loro antichi castelli, e bra-mosi di uscirne quanto prima camuffati permescolarsi con la folla.

La questione del significato da attribui-re nel nuovo contesto politico alle scelte deiCostituenti era perciò scomodissima perambedue gli schieramenti. Tanto che laaccantonarono, ricorrendo alla formulagiornalistico-politologica «Seconda Repub-blica», giusto allora coniata in polemica conla «partitocrazia» della Prima, che gli elet-tori, si diceva, aveva «mandato a casa» colreferendum elettorale del 1993. Esaurendoil concetto di Repubblica, prima o secondache fosse, nel sistema dei partiti, la formulapresupponeva che l’assetto del potere poli-tico fosse la sola cosa importante per la con-vivenza civile, e che istituzioni e princìpi diconvivenza affermati dalla Costituzione fos-sero una pura, dispensabile formalità. Senzarendersene conto, nel momento in cui cer-cava di prendere congedo dal passato, l’igno-to inventore della formula rilanciava nelfuturo il paradigma partitocratico. Ne erarimasto prigioniero, e noi con lui.

A parte il linguaggio ufficiale, solo noi

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giuristi continuammo a parlare di «Repub-blica». Sapevamo che un cambiamentoanche radicale di classe politica non bastaa modificare le istituzioni previste da unacostituzione, come si sarebbe visto ampia-mente già nella convulsa legislatura 1994-1996. Tuttavia il successo della formula nonera per questo privo di effetti: creava unforte divario tra discorso pubblico e realtàgiuridico-istituzionale. Quando è così, nonsi può fingere che le parole siano indiffe-renti, bisogna cercare di capire perché ildivario si è prodotto, e fare il possibile perchiarire ogni equivoco.

Da allora, invece, l’equivoco si trascina:si celebra il sessantesimo anniversariodella Costituzione della Repubblica, e nelfrattempo si continua a parlare di unaSeconda Repubblica nata quindici anni fa.Nessuno denuncia l’evidente contrasto, chesarebbe ridicolo se non rispecchiasse lapassiva accettazione di cui parlavo.

3. Il referendum sulla Seconda Parte della

Costituzione.

Nel giugno 2006 la stragrande maggioran-za della maggioranza assoluta del corpoelettorale rigettò una legge costituzionaleche, oltre a stravolgere direttamente laseconda parte della Costituzione, avrebbeposto le basi per liquidare i princìpi dellaprima. Nel mondo della politica e deimedia, nessuno si aspettava che gli eletto-ri avrebbero considerato il referendum unacosa seria, intuendo istintivamente il saltonel buio di una riforma pasticciata, origina-ta da parole d’ordine messe sulla carta erivendute al pubblico. Non si può ipotizza-re nulla di meno, ma anche nulla di più.

Come potrebbero milioni di italiani, quasimai istruiti dalla scuola e confusi da quan-to leggono o ascoltano sul tema, aver sco-perto in positivo il significato della loroCostituzione? Si direbbe, piuttosto, che alsalto nel buio abbiano preferito regolemagari in parte superate, ma sperimentateda decenni. Non per un sofisticato calcolorazionale né per un soprassalto di patriot-tismo costituzionale, ma per istinto disopravvivenza.

Il referendum avrebbe potuto stimola-re la classe politica e i media a una rifles-sione altrettanto seria, ad abbandonare ilcostume di numerare repubbliche di fanta-sia e ad interrogarsi sul significato dellaCostituzione repubblicana per gli italiani dioggi e di domani. Non è andata così. Ai par-titi l’esito del referendum impose pruden-za nello scegliere i punti del testo costitu-zionale meritevoli di aggiornamento, masenza suggerire loro alcun ripensamentosui presupposti delle riforme: a confermache la Costituzione, intesa quale testo desti-nato ad orientare la convivenza civile, èuscita dal loro orizzonte mentale. Nella cul-tura e nei media si fece o si riuscì a fare benpoco per tenere conto di un referendumcosì serio e sorprendente nel dibattito sullariforma delle istituzioni.

A quanti l’hanno seguita fin dall’inizioper mestiere, la disputa tra chi vorrebbecambiare il meno possibile la parte orga-nizzativa della Costituzione italiana e chipensa che vada drasticamente modernizza-ta appare ormai una partita tra pugili suo-nati. Gli uni e gli altri si limitano a ripete-re i medesimi argomenti, senza incideresu un dibattito politico altrettanto esauri-to, perché chiuso nel calcolo di profitti eperdite per gli stessi soggetti che devonodecidere.

Pinelli

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L’idea che la Costituzione vada difesa sirichiama a un patrimonio di valori che èanche da difendere, ma che va soprattuttotrasmesso in positivo alle generazioni pre-senti e future. L’idea del mutamento costi-tuzionale viene associata a una modernizza-zione delle istituzioni che serve anch’essa

all’Italia, ma che può convincere gli italia-ni se se ne spiegano loro i vantaggi, non sela si presenta come un puro stato di neces-sità.

Ciascuna posizione potrebbe servirsi dibuone ragioni, e pienamente conciliabili.Ma bisogna saperle trasmettere ai cittadi-ni, mettere insieme reti di esperti per farlo,non avere troppa fretta di attendere gliesiti, e soprattutto coltivare passioni civili.Non solo queste condizioni mancano, ma icontendenti preferiscono lanciarsi accuse,rispettivamente, di guardare alla Costitu-zione come a un ingombro, e di mantenereuna tradizione imbalsamata. Più ancora cheda calcoli partigiani e veti incrociati, ildibattito sulla Costituzione è impoverito daquesto circolo vizioso tra «conservatori» e«innovatori», caricatura dell’antico dibat-tito sul perché le scelte dei padri debbanovincolare i figli.

L’assenza di un legame fra tradizione emutamento costituzionale nella consape-volezza collettiva ha dunque bisogno di unaspiegazione. Possiamo cominciare provan-do a ricostruire la parabola di significatoche certe formule hanno assunto neldiscorso pubblico, quali «Costituzione natadalla Resistenza» e «attuazione dellaCostituzione».

4. La Resistenza

Per circa mezzo secolo la formula «Costi-tuzione nata dalla Resistenza» ha sottinte-so una rappresentazione della Resistenzacome «insurrezione nazionale» contro ilfascismo3, alla quale poteva associarsi laformazione del testo costituzionale sullabase dei risultati dei partiti membri deiComitati di Liberazione Nazionale alle ele-zioni per la Costituente, e del largo consen-so con cui il testo vi venne approvato.

Nei primi anni Novanta, l’indirizzo sto-riografico revisionista contesterà che allabase della Resistenza vi fosse un’adesionemilitante del popolo, anche nell’intento didimostrare il paternalismo dei partiti nellafase di apprendistato della democrazia. Nelmomento in cui i quotidiani battezzavanola «Seconda Repubblica», il revisionismoriduceva gli italiani a spettatori di un teatri-no di marionette i cui fili erano stati tiratifin dall’inizio dai partiti, e li invitava impli-citamente a ricominciare daccapo, come seil futuro potesse prescindere dal passato.Almeno nella pars destruens, il gioco fu faci-le. L’accezione di Resistenza come insur-rezione nazionale aveva da tempo esauritola funzione di strutturare uno ‘stare insie-me’ dopo la guerra e il fascismo, che avevaassolto a costo di cancellare dalla memoriacollettiva la percezione di un fatto storicocome la guerra civile. La questione si legaall’amnistia, ma va anche tenuta distinta daessa.

Il trattamento giuridico di atti atrocinon qualificati come reati all’epoca dellaloro commissione è una triste eredità che iregimi totalitari lasciano alle democrazie,comportando scelte tragiche. Il dilemma fraesigenze di giustizia e di verità delle vitti-me della passata violenza e rispetto dell’ir-

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retroattività delle leggi penali, principiocardine di ogni ordine costituzionale. Maanche, nel caso di una guerra civile, ildilemma fra quelle esigenze e il bisogno diriconciliare le parti in vista di una comuneconvivenza.

Da questo punto di vista, la Germania el’Italia del secondo dopoguerra non si tro-vavano nella medesima situazione, e lesoluzioni variarono corrispondentemente.

I tribunali tedeschi adottarono la «for-mula di Radbruch», secondo cui una leggecontrastante in modo intollerabile con lagiustizia, come la legislazione nazista ema-nata nel 1933, doveva considerarsi inesi-stente4. La deroga al principio di irretroat-tività della legge penale era l’unico modoper non dimenticare il passato, tanto piùper le complicità del popolo tedesco colnazismo denunciate da Adenauer neldiscorso di Colonia del 19465. Solo CarlSchmitt dichiarò che in Germania si eracombattuta una guerra civile, e proposel’amnistia con l’auspicio che le partidimenticassero6.

L’Italia era un teatro più ‘schmittiano’della Germania. Durante la lotta per la libe-razione dal nazifascismo, gli eccidi e le rap-presaglie fra partigiani e repubblichini par-vero ai protagonisti di tale ampiezza eintensità da configurare gli estremi di unaguerra civile7. Le soluzioni oscillarononotevolmente. In un primo tempo furonopreviste sanzioni penali con effetto retro-attivo, compresa la pena di morte, tanto inordine ad attività commesse prima dell’in-staurazione del regime fascista, e fino allasua caduta, quanto contro i delitti di colla-borazionismo «col tedesco invasore»(d.l.luog. n. 159 del 1944). Il successivodecreto presidenziale 22 giugno 1946, n. 4,adottato dal Governo De Gasperi su propo-

sta del Ministro di Grazia e GiustiziaTogliatti, concesse l’amnistia anche per talidelitti, ad eccezione di quelli compiuti dafunzionari o militari di rango più elevato, odi stragi o reati particolarmente gravi.

La formulazione delle eccezioni lascia-va un’ampio apprezzamento discrezionaleai giudici, che per i loro orientamenti, e tal-volta per le loro compromissioni col regi-me, allargarono in misura abnorme l’ambi-to dell’amnistia con immediata scarcera-zione di migliaia di detenuti8. Seguirono leproteste delle associazioni partigiane, deisindacati di grandi fabbriche e dei familia-ri dei caduti nella lotta di liberazione; vifurono episodi di ammutinamento e scio-peri; Calamandrei parlò di «restaurazioneclandestina»9; la Costituente, nella suadecima seduta, discusse un’interpellanza diPertini al Ministro della Giustizia Gullo, chedifese l’operato del suo predecessore10.

Ma nel lungo andare, anche al di là delleletture giurisprudenziali, gli effetti delladisciplina del 1946 non furono diversi daun’amnistia generalizzata. Dopo una guer-ra civile, l’amnistia poteva considerarsi ilprezzo da pagare in vista della riconcilia-zione. Ma poiché l’accezione della Resi-stenza come «insurrezione nazionale»,diffusa contestualmente, restò indiscussanei decenni del crescente consolidamentodella democrazia, si perse il ricordo dellaguerra civile, e con esso l’ipotesi che vifosse qualche prezzo da pagare per chiu-derla.

Anche le società aperte, nella loro ricer-ca di possibili e sempre reversibili verità,hanno bisogno di radicarsi su un mutuoriconoscimento collettivo, che non puòdarsi senza credibili processi di apprendi-mento del passato comune. La «smemora-tezza patteggiata», di cui si è parlato a pro-

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posito di vicende più recenti11, produce un«passato che non vuole passare», il qualeabita ancora il presente, o lo ossessionacome un fantasma senza distanza12.

La prima storia della Resistenza italia-na intitolata «Una guerra civile» verràpubblicata soltanto nel 1991, e il suo auto-re chiarirà di aver voluto in tal modo sot-trarre «alla pubblicistica fascista e parafa-scista l’uso strumentale, e nelle intenzioniprovocatorio, di una constatazione difatto»13. L’opera «sgretolava cinquant’an-ni di reticenze e di omissioni della culturastorica antifascista» contestando nellostesso tempo la vulgata revisionista14, manon poteva da sola invertire la tendenzacollettiva all’oblìo.

Se l’immagine di generale ribellionecontro il fascismo era ormai sbiadita a causadella supposta generalità della ribellionenon meno che del trascorrere delle genera-zioni, per ricostruire la memoria collettivasarebbe stato necessario un clima politico-culturale all’altezza dell’impresa. Ma neidecenni precedenti la scelta originaria diun potente dispositivo retorico come quel-lo dell’insurrezione nazionale si era tradot-ta in rendita politica per i suoi beneficiari.Ed ora costoro si trovavano all’improvvisonella condizione di aristocratici assediatidal ‘nuovo’, senza aver più nulla da dire delloro stesso passato comune, anche il piùnobile, espresso dalla Costituzione repub-blicana. Mentre si dissolveva l’ombra didiverse concezioni del mondo, portato dellaguerra fredda e dei suoi riflessi interni, el’occasione per superare la scarsa omoge-neità politico-sociale del sistema italianoera a portata di mano, ogni traccia di pas-sato entrava in corto circuito con l’ansia diun magari confuso futuro.

5. L’attuazione della Costituzione

Parallelamente, l’immagine della Costitu-zione come carta di princìpi destinati aorientare la civile convivenza aveva subìtouno slittamento decisivo. Mi riferiscoall’immagine della Costituzione nel discor-so pubblico, non alla capacità di orientarela convivenza che il testo ha saputo espri-mere e tuttora esprime attraverso l’inter-pretazione della giurisprudenza, né alle fasidell’attuazione costituzionale strettamenteintesa.

Fino agli anni Ottanta le rappresentazio-ni collettive del futuro, che si basavano suuna combinazione fra ‘progresso sociale’ e‘modernizzazione’, erano andate di paripasso con i processi di attuazione/interpre-tazione del testo costituzionale. Attuare laCostituzione equivaleva ad assicurare pro-gresso sociale e modernizzazione.

La combinazione fra questi elementinon era solo italiana, anche se da noi sipresentava più stretta che altrove. Sipensi ai diritti sociali, al successo che ilsaggio di T.H.Marshall sulla cittadinanzaincontra nell’Europa continentale delsecondo dopoguerra grazie alla sua lettu-ra «quasi teleologica» dell’avvento deidiritti sociali15. Si pensi alla programma-zione economica, che, scrive Predieri,risponde «all’intima natura di una socie-tà democratica a base sociale allargata,tendenzialmente ugualitaria, volontari-stica, ottimistica», e suggerisce un acco-stamento della razionalizzazione dei pro-cessi economici a «quella dei processipolitici propri del diritto costituzionale»,pur nel rispetto del pluralismo16. Si pensiall’evoluzione del diritto di famiglia, dovela corrispondenza fra istanze collettive diemancipazione dal paradigma gerarchico

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e attuazione degli enunciati costituziona-li trova riscontro nella legge del 1975,preceduta dal referendum sul divorzio eda una conforme giurisprudenza dellaCorte.

In questa lunga fase i partiti, quali agen-zie di apprendimento collettivo e di socia-lizzazione, e nello stesso tempo qualidetentori effettivi di indirizzo politico, siimpegnano ad assicurare in via legislativa lacoincidenza fra progresso sociale, moder-nizzazione e attuazione costituzionale, con-cepita come un processo unilineare, sullabase del paradigma costruttivistico cheguida l’interpretazione del principio dieguaglianza sostanziale. Attuare la Costitu-zione equivale anzitutto a «rimuovere gliostacoli di ordine economico e sociale», eil compito richiesto ai pubblici poteri dal-l’art. 3, capoverso, viene a sua volta intesocome cattura dell’economia da parte dellapolitica, attraverso interventi pubblici,programmi e attuazione di un modello uni-versalistico dei diritti sociali, a costo di tor-sioni interpretative dei corrispondentienunciati costituzionali.

Ora, una ‘cattura’ presuppone che l’in-tervento che con essa si compie sia irrever-sibile: nella specie, un intervento in gradodi garantire che, una volta «rimossi», gliostacoli all’eguaglianza non possano piùriprodursi. Da cui un’ulteriore e più fortetorsione interpretativa del testo, che colriconoscere il principio del pluralismo,economico e sociale, prefigura un’assai piùdinamica interrelazione con l’eguaglianza.Riconoscere il pluralismo, non come merofatto ma come principio, comporta la pos-sibilità che ostacoli di ordine economico esociale si riformino anche all’indomani diinterventi pubblici, e che il compito dirimuoverli sia un compito permanente. È

un orizzonte di possibilità che corrispondeall’interpretazione costituzionale qualeinterpretazione di testi destinati a compor-re variamente i princìpi che consentono aldiritto costituzionale di rispondere alleincognite del tempo con la necessaria fles-sibilità, e dunque con una ridotta capacitàpredittiva. Tale orizzonte era incompatibi-le con l’idea di una cattura politica dell’eco-nomia, con il paradigma costruttivistico chei figli dei Costituenti avevano introiettato epoi proiettato sulla Costituzione.

Quando, nel 1990, verrà approvata lalegge istitutiva dell’Autorità Antitrust, chesi autoqualifica «in attuazione dell’art. 41Cost.», nessuno parlerà di attuazione dellaCostituzione: il principio di libera concor-renza, le regole del mercato, l’accelerazio-ne del processo di integrazione europeaerano ritenute inconciliabili con la conce-zione di attuazione costituzionale a lungodominante. Nel frattempo, essa aveva per-duto quella congiunzione con le idee diprogresso sociale e di modernizzazione chele aveva garantito il successo per qualchedecennio. Della prima, era scomparsa lavalenza di proiezione nel futuro che avevaavuto nel secondo dopoguerra, in parte perragioni economiche e sociali, in parte per lafine delle attese messianiche legate a pro-getti di trasformazione politica integraledella società. L’idea di modernizzazione erainvece rimasta nel vocabolario delle élitespolitiche e culturali ma, divorziando daquella di progresso sociale, si riferiva adesigenze di efficienza, di recupero di com-petitività delle imprese e delle istituzioniitaliane, viste in antitesi col mantenimen-to dei livelli di prestazione pubblica inordine ai diritti sociali, acquisiti nei prece-denti decenni grazie all’opera di attuazionecostituzionale.

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Là dove vi era coincidenza, ora vi eracontrasto politico e sociale. Ma la paraboladell’attuazione costituzionale si dovevaforse solo al mutamento d’ambiente? Con-cepita quale opera di ‘inveramento’ di valo-ri costituzionali una volta per tutte, l’attua-zione annullava la possibilità di continua-re a guardare alla Costituzione come a untesto che può ricevere diverse letture nelcorso del tempo, e richiedere anche rifor-me. Una volta acquisiti, i diritti corrispon-denti a tali valori si possono solo difende-re, non c’è ulteriore promozione o svolgi-mento possibile né, soprattutto, ha sensochiedersi se la legislazione in materia nonabbia creato nuove sperequazioni da supe-rare proprio sulla base del principio dieguaglianza sostanziale.

La domanda, che avrebbe introdotto lacontraddizione più scomoda nel modellounidirezionale di attuazione del testo, nonpotè trovare spazio nel discorso pubblico.Ormai, la supposta età dell’oro dell’attua-zione era screditata da una idea di moder-nizzazione sganciata da processi di ricono-

scimento intorno ai princìpi costituziona-li. E i suoi protagonisti, dopo aver ridotto arendita politica l’eredità ricevuta, avevanoperduto anche la scommessa sul futuro.

6. L’incivilimento degli italiani

Rimane il testo, rimangono gli italiani, e daldeposito di significati offerti dal testo siricava una concezione della civile conviven-za che qui si può solo mostrare con unesempio.

La Costituzione impiega il termine«concorso» in varie e cruciali occasioni:«Ogni cittadino ha il dovere di svolgeresecondo le proprie possibilità e la propriascelta, un’attività o una funzione che concor-

ra al progresso materiale o spirituale dellasocietà» (art. 4, cpv.); «Tutti i cittadinihanno diritto di associarsi liberamente inpartiti per concorrere con metodo democra-tico a determinare la politica nazionale»(art. 49); «Tutti sono tenuti a concorrere allespese pubbliche in ragione della loro capa-cità contributiva» (art. 53, 1° comma);«Agli impieghi nelle pubbliche ammini-strazioni si accede mediante concorso, salvoi casi stabiliti dalla legge» (art. 97, 3°comma; nonché art. 106, 1° comma, sulconcorso per l’accesso alla magistratura, eart. 34, 4° comma, sul concorso all’attribu-zione di «borse, assegni alle famiglie e altreprovvidenze» per «rendere effettivo» ildiritto dei «capaci e meritevoli, anche seprivi di mezzi» a «raggiungere i gradi piùalti degli studi»).

La parola «concorso», «correre con»,«correre insieme», può designare tanto ilcompetere quanto il collaborare con altri. Seriferiamo la strutturale ambivalenza del ter-

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Stemma della Repubblica italiana.

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mine ai casi in cui la Costituzione lo adope-ra, ci accorgiamo che talvolta prevale il signi-ficato della collaborazione, come nel con-corso alle spese pubbliche, talvolta il signi-ficato della competizione, come per l’istitu-to del concorso ai pubblici uffici, altre volteambedue i significati, come quando «con-corso» designa la modalità attraverso cuipartiti e lavoratori possono raggiungere lefinalità ad essi rispettivamente attribuite.

Può prevalere insomma la collaborazio-ne o la competizione. Ma anche in quest’ul-timo caso, quando si «concorre», non sicorre mai da soli. Una gara che serva a unsingolo individuo alla ricerca di onnipoten-za non è una vera gara. Si concorre per vin-cere, ma questa vittoria, sempre provviso-ria, non è mai tale se non è liberamentericonosciuta dagli altri concorrenti, i qualidebbono allo scopo «con-dividere» leprocedure del correre insieme.

Quanti concorsi truccati, invece, nellasocietà italiana! Non solo nei concorsi perl’accesso ai pubblici uffici, ma anche nellealtre forme di concorso di cittadini, lavora-tori, contribuenti, studenti di cui parla laCostituzione. Alle origini di queste disugua-glianze di opportunità, vi è stata anche unainterpretazione della Costituzione, vistacome premessa per garantire tutto a tutti, aldi là dei meriti e delle fortune di ciascuno.Ma si può coinvolgere la Costituzione nelgiudizio su una sua interpretazione distorta?In essa non vi è la figura dell’»uomo assisti-to» che accampa pretese dallo Stato-provvi-denza, né vi è posto per l’individuo che siafferma nella selezione naturale. Vi è un’esi-gente concezione dell’uomo come esseresociale, artefice della propria fortuna maanche consapevole dei propri limiti(«secondo le proprie possibilità e la propriascelta», dice l’art. 4), i cui meriti vanno rico-

nosciuti da tutti gli altri in una gara basatasull’eguaglianza dei punti di partenza.

La Costituzione sa parlare e può ancoraparlare a tutti. Se dovessi condensare in unaparola il disegno che ne scaturisce, adope-rerei ‘incivilimento’, già impiegata daRomagnosi e da Cattaneo prima dell’unifi-cazione.

Incivilimento è per Cattaneo un’evolu-zione della convivenza guidata da una sem-pre più raffinata organizzazione consocia-tiva, anziché dalla lotta per l’esistenza coneliminazione dei meno adatti17. Un’evolu-zione basata sulla libertà, che vuol direprima di tutto pari inviolabilità di ogniuomo e nazione18.

Incivilimento indica, inoltre, un proces-so permanente, non limitato a una societàche da barbara diventa civile, ma esteso a unacivile che può tornare a imbarbarirsi anchequando sia stata modernizzata o si sentamoderna. In una democrazia pluralistica uncompito del genere non può essere affidatoin esclusiva a un soggetto (sia esso lo stato, ipartiti, una singola istituzione), e non puòessere diretto nemmeno dalla costituzione,come se questa fosse un piano di sviluppo. Ènecessariamente affidato, quel compito, atanti fattori, non predeterminabili in antici-po. Ma la costituzione, in una democraziapluralistica, può servire da bussola perorientarlo attraverso princìpi destinati adurare al di là delle generazioni, delle sta-gioni politiche, dei congegni organizzativi. Ela Costituzione italiana non solo rimane ilprodotto più alto della cultura nazionale. Puòsempre servire da criterio ultimo di ricono-scimento reciproco delle ragioni e delleidentità di singoli e gruppi, di condivisionedi un nucleo di convinzioni sulla civile con-vivenza.

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1 L.Corradini e G.Refrigeri, Civi-

smo oggi: valori, comportamenti,

impegni, in Educazione civica e

cultura costituzionale. La via ita-

liana alla cittadinanza europea, a

cura degli stessi, il Mulino,

Bologna, 1999, p. 13.2 A. Pace, I limiti del potere, Jovene,

Napoli, 2008, p. XI. 3 V. ad es. L.Longo, Sulla via del-

l’insurrezione nazionale, Edizioni

di cultura sociale, Roma, 1954. 4 G. Radbruch, Gesetzliches Unrecht

und uebergestzliches Recht (1946),

in Rechtsphilosophie, Stuttgart,

1973, p. 345.5 K. Adenauer, I presupposti ideo-

logici dell’«opzione renana»

(1946), in R.D’Agata (a cura di),

Reich e democrazia. Idee di Ger-

mania dal 1848 alla caduta del

Muro, Abramo, Catanzaro, 1990,

pp. 247-248.6 C. Schmitt, Amnestie oder die

Kraft des Vergessens (1949), in

Staat, Grossraum, Nomos, 1995, p.

218. 7 C. Pavone, Una guerra civile. Sag-

gio storico sulla moralità nella

Resistenza, Bollati Boringhieri,

Torino, 1991, pp. 221 ss.8 Cfr. fra gli altri V.Zagrebelsky, La

magistratura ordinaria dalla

Costituzione ad oggi, in Storia

d’Italia, Annali 14, Legge Diritto

Giustizia, a cura di L.Violante,

Einaudi, Torino, 1998, p. 721, e

M.Franzinelli, L’amnistia Togliat-

ti. 22 giugno 1946. Colpo di spugna

sui crimini fascisti, Mondadori,

Milano, 2006, pp. 186 ss., con

amplissima documentazione di

casi di imputati di «atti rilevan-

ti» o di collaborazionismo che

dopo l’amnistia «vissero una

seconda stagione politica». 9 P. Calamandrei, Restaurazione

clandestina, in Il Ponte, 1947, pp.

967-968.10 M. Franzinelli, L’amnistia

Togliatti, cit., pp. 99 ss.11 S. Luzzatto, La crisi dell’antifasci-

smo, Einaudi, Torino, 2004, p.

23, ha denunciato la voluta con-

fusione tra «memoria colletti-

va», che coincide con la storia di

un certo popolo, e «memoria

condivisa», la quale richiede

«un’operazione più o meno for-

zosa di azzeramento delle iden-

tità e occultamento delle diffe-

renze». 12 P.Ricoeur, Ricordare, dimentica-

re, perdonare. L’enigma del passa-

to, il Mulino, Bologna, 2004, p.

83.13 C.Pavone, Una guerra civile, cit.,

p. XI.14 A.De Bernardi, Discorso sull’an-

tifascismo, a cura di A.Rampini,

Bruno Mondadori, Milano,

2007, pp. 213 ss.15 D.Renard, Les trois naissances de

l’Etat-providence, in Pouvoirs,

2000, n. 94, p. 22. Il riferimen-

to è a T.H.Marshall, Cittadinan-

za e classe sociale (1949), in Cit-

tadinanza e classe sociale, Utet,

Torino, 1976, pp. 9 ss. 16 A.Predieri, Pianificazione e costi-

tuzione, Comunità, Milano,

1963, pp. 34 ss. L’ottimismo che

si respira in Italia nei primi anni

Sessanta è colto con ironia da

Calvino, che ne parla come di

una seconda «belle époque»

(I.Calvino, Intervento alla Tavo-

la rotonda su «Valori e miti della

società italana dell’ultimo ven-

tennio», in Tempi moderni, 1961,

n. 6, pp. 25 ss.).17 G. de Liguori, Introduzione a

C.Cattaneo, Psicologia delle menti

associate (1859), Editori Riuniti,

Roma, 2000, p. 29.18 C.Cattaneo, Scritti storici e geogra-

fici, a cura di G.Salvemini e

E.Sestan, III, Le Monnier,

Firenze, 1957, p. 246.

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Premessa

Il sessantesimo compleanno di unaCostituzione è certamente un tempoadeguato per considerare e valutare lasua importanza. Sono due generazioniche hanno vissuto sotto la Costituzione.Questo fatto ricorda un’idea madre delcontratto sociale, che nessuna genera-zione può vincolare le generazionifuture1. Secondo tale principio, ora –come nella seconda metà degli anniSettanta – sarebbe l’occasione di ricon-siderare il prodotto del 1946/47. Lovorrei fare individuando quattromomenti: (1) la genesi, (2) lo svilupposotto la Costituzione, (3) le relativizza-zioni dell’impatto della Costituzione,per concludere (4) sul rispetto e sul-l’affermazione del testo costituzionale.

1. La genesi della Costituzione

1.1. Per valutare l’importanza dellagenesi della Costituzione repubblicanaitaliana, sembra utile tener presenteuna situazione comparabile, quellatedesca, e le conseguenze per l’elabora-zione della Legge Fondamentale. InGermania la situazione postbellica ècaratterizzata dalla sconfitta totale del-l’Impero nazista, la «debellatio»descritta da Hans Kelsen, non è accet-tata dalla dottrina tedesca, ma è unfenomeno reale. Le quattro nazioni vin-citrici hanno governato i territori occu-pati sulla base di accordi, soprattuttoquello di Potsdam dell’agosto 1945,provvedendo ad una ricostruzione dellastatualità tedesca soltanto dal “bassoverso l’alto”. Perciò, accanto alla rego-

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L’impatto della Costituzione sulla cultura politica italiana.Una prospettiva dall’estero*

dian schefold

giornale di storia costituzionale n. 16 / ii semestre 2008

* Il testo che segue nasce da un seminario tenuto pres-

so l’Università degli studi di Trento il 5 maggio 2008. Rin-

grazio Carlo Casonato per aver coordinato il seminario e

Roberto Toniatti per le sue osservazioni critiche.

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lazione dei poteri locali, furono anzitut-to le Costituzioni dei Länder del 1946/47a creare, sempre sotto il controllo delleforze occupanti, un potere statale nuovo(Stolleis).

Soltanto con l’inizio della guerrafredda, nel giugno 1948, atti emanatidai governatori militari alleati hannoimposto ai presidenti dei consigli deiLänder di far elaborare una costituzionefederale. Tuttavia i presidenti dei con-sigli si mostrarono dubbiosi e si oppo-sero all’idea di un’assemblea costituen-te e di una costituzione vera e propria.Convocarono invece ad Herrenchiem-see una convenzione preparatoria for-mata da funzionari. In seguito, fu com-posto un c.d. «Consiglio parlamenta-re» di 69 membri, eletto dai Parlamen-ti dei Länder e non dal popolo, per deli-berare una «Legge Fondamentale»,quindi espressamente non una costitu-zione definitiva, ma un lavoro provvi-sorio, come si afferma nel preambolo.

A questo scopo corrispondeva larinuncia a taluni diritti e a un program-ma sociale più esteso: si trattava anzi-tutto, ancora secondo il preambolo, «didare alla vita statale un ordine nuovo perun periodo transitorio». Conseguente-mente, contro la richiesta dei governa-tori militari alleati, le parti tedesche siopposero ad un referendum costituzio-nale. La Legge Fondamentale, approva-ta dal Consiglio parlamentare, fu inve-ce sottoposta all’approvazione da partedei governatori militari e poi dei Parla-menti dei Länder tedeschi (cf. art. 144,145 LF); a seguito di queste deliberazio-ni – la Baviera aveva respinto la LeggeFondamentale, ma dichiarato la suadisponibilità ad accettare la decisione

maggioritaria – la Legge Fondamentalepoteva essere promulgata (Mussgnug).

Non è pertanto facile identificare ilpotere costituente; anzi, la lettera diapprovazione e la riserva del poteresupremo espressa nello statuto di occu-pazione simultaneamente emanatosembrano argomenti decisivi a favoredi un tale potere originario dei governa-tori militari alleati. Per la parte tedesca,la determinazione democratica dellacarta costituzionale rimane debole. Siparla, è vero, di un potere costituentedel popolo tedesco, ma la sua emana-zione nella fase costituente del 1948/49non appare molto convincente.

1.2. Confrontando una tale storia con lagenesi della Costituzione italiana, èprima di tutto il ruolo decisivo dei pote-ri pubblici italiani che imprime unaccento diverso. È in quest’ambito che,nella sconfitta militare, si forma la con-vinzione del ruolo rovinoso del fasci-smo, viene approvato l’ordine del gior-no votato dal Gran Consiglio del fasci-smo il 24 luglio 1943 e subito dopo si hala destituzione di Mussolini. Con unatale rivoluzione interna – o piuttosto unritorno allo Statuto Albertino –, la stra-da è aperta ai movimenti di liberazio-ne, alla formazione di partiti democra-tici e a un sistema nuovo di governo,appoggiato anche dal movimento deipartigiani. Rimane, è vero, l’attivitàdegli alleati per vincere la guerra, mal’Italia si trova già dalla loro parte.

Perciò, ben mantenendo una conti-nuità legale e amministrativa, si puòricercare una nuova identità delloStato. La monarchia, ritenuta respon-

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sabile di legami con il fascismo, è abro-gata col referendum del 2 giugno 1946che fa nascere la Repubblica. Nellostesso tempo si procede all’elezione diun’Assemblea costituente ampia everamente rappresentativa di tutte leforze politiche democratiche dell’Italiapostbellica, ma è del pari composta distudiosi che rappresentano le discipli-ne giuridiche e politiche e gli sviluppidel pensiero attuale. Infatti, supporta-ta anche da materiali istruttori di note-vole importanza, si svolge una discus-sione costituzionale, certo controversae condizionata da programmi ancheopposti, ma profonda e capace di rias-sumere i dibattiti che hanno determi-nato la genesi dello Stato costituziona-le europeo otto- e novecentesco.

Si forma un arco costituzionale checollega le diverse parti sociali e integrale forze politiche, fissando le forme perrisolvere i conflitti e rinunciandoall’uso della forza. Perciò si può parla-re proprio di una conciliazione di valo-ri opposti che non consiste in un com-promesso dilatorio, ma in un sistemadi regole stabili che fondano una Costi-tuzione rigida (Bin, pp. 11 ss.). La gene-si della Costituzione è legata alla cittàdi Trento. Ne è testimonianza la tombadi Alcide De Gasperi, proveniente dalTrentino, a San Lorenzo fuori le Muraa Roma, scolpita da Giacomo Manzùche lo mette insieme a San Vigilio.

Nonostante le persistenti divergen-ze ideologiche, si può parlare diun’opera ampiamente costitutiva dellacultura politica italiana.

2. Lo sviluppo sotto la Costituzione

Valutando poi la storia italiana dal 1948,è ovvio che la Costituzione abbia resopossibile uno sviluppo enorme con tanticambiamenti.

A prima vista, deve impressionareanzitutto lo sviluppo economico cheappare una storia di successi. Certo, sipuò obiettare che questa crescita haanche delle basi fasciste, perché sonogli anni 1920 e 1930 che hanno creatotalune infrastrutture necessarie per glisviluppi futuri. Del pari però è vero chequesti ampliamenti di reti ferroviarie,autostradali, di energia sono continua-ti nella Repubblica, e le conseguenzedell’industrializzazione italiana, in set-tori come l’industria automobilistica, dielettrodomestici, di prodotti di consu-mo, sono dovuti prevalentemente alsecondo dopoguerra. Anche la crescitadel turismo ha modificato considere-volmente le strutture economiche. Cosìl’Italia s’inserisce fra gli Stati economi-camente più importanti. È vero che iproblemi del Sud rimangono, ma la loroquantità è mitigata, e si può osservareuna crescita anche lì.

Un tale sviluppo influenza del parila struttura sociale. Possiamo registra-re una trasformazione fondamentale,dapprima promossa dai sindacati sullabase del concetto di autonomia dellaclasse operaia, ma poi con la pretesaprioritaria di garantire la sicurezzasociale. Un tale cambiamento svolgeeffetti anche sul ruolo della donna, sulmodello della famiglia «ordinato sul-l’eguaglianza morale e giuridica deiconiugi» (art. 29, 2° co. Cost.) e sulnumero dei figli. Sul vecchio modello

Schefold

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della famiglia patriarcale si sovrappo-ne una convivenza che s’inserisce inuna civilizzazione di consumo, anchecon possibilità di orientamenti diver-genti, determinati da una libertà d’opi-nione anche di fatto (Califano, inNania/ Ridola, vol. 3, pp. 925 ss.).

Tali possibilità di variazione dellavita individuale costringono a conside-rare anche i problemi delle minoranze.La loro discussione produce man manol’effetto di una protezione migliorata.Un caso classico si riscontra con leminoranze linguistiche e nazionali,proprio nel Trentino-Alto Adige. Madalla discussione più intensa dei pro-blemi collegati con un tale pluralismolinguistico ed etnico, risulta un interes-se più vasto che coinvolge anche leminoranze ideologiche. La libertà civi-le presuppone la tolleranza. Oltre lelibertà individuali, il principio del plu-ralismo si avvera come elemento essen-ziale della vita sociale (Palermo/Woelk).

L’influsso di tale evoluzione neces-sita e produce un adattamento dellalegislazione. Per dare pochi esempi: leriforme del diritto della famiglia con loscopo di ordinarla sulla base dell’egua-glianza, riforme in materie penali comel’aborto, in materia di sanità e di previ-denza sociale. Spesso le riforme sonointrodotte anche su sollecitazioni pro-venienti dalla giurisprudenza costitu-zionale. In altri campi, l’interpretazio-ne costituzionale procede sulla via dellastabilizzazione dogmatica di principiche determinano nuove materie del-l’ordinamento, benché non codificate,come nel campo del biodiritto.

Inoltre l’idea del pluralismo produ-

ce effetti in materie costituzionali ini-zialmente disciplinate in maniera menoperfetta e con un rilievo limitato. Leconseguenze del principio autonomi-stico richiedono, oltre la creazione,anche la crescita d’importanza delleregioni e l’ampliamento della loro tute-la giurisdizionale. In questo senso si stasviluppando una cultura costituzionalenuova (Bartole).

In un modo simile, il contesto mon-diale ed europeo della pace, accennatodalla Costituzione già inizialmente tra-mite l’inserimento italiano non soltan-to nel diritto internazionale pubblico(art. 10 I) e tramite strumenti di prote-zione della pace (art. 11), produce con-seguenze ulteriori. Serve come base perl’adesione alla Comunità Economica,poi alla Comunità, poi all’Unione Euro-pea, ora formalmente riconosciuta daltesto costituzionale (art. 117 I). Su que-sta via l’Italia s’inserisce come membroe parte di una comunità di Stati orien-tati verso una modernizzazione basatasu principi comuni.

I fatti sinora elencati mi sembranogiustificare una conclusione interme-dia: sotto la Costituzione l’Italia ha vis-suto uno sviluppo importante e preva-lentemente positivo. Rimane però laquestione se questo abbia avuto luogograzie alla Costituzione. È questa lacausa dei progressi, quasi un program-ma di legislazione, oppure è soltanto unfenomeno, un aspetto decorativo chenon deve essere sovraccaricato disignificati?

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3. I limiti dell’influsso della Costituzione

Formulata così, la questione provocaosservazioni che relativizzano l’impat-to della Costituzione.

Un primo limite è da osservare neiprimi anni, anzi decenni, sotto il nuovoassetto costituzionale, qualificato come“congelamento” della costituzione(Paladin). La storia costituzionalerepubblicana può vantarsi delle primeleggi costituzionali del 1948, nelle mate-rie delle regioni a statuto speciale e dellaCorte costituzionale. Ma la loro portatarimane limitata. La Corte costituziona-le, dopo discussioni lunghe e atti legi-slativi, anche di livello costituzionale,lentamente elaborati, entra in funzionesoltanto nel 1956 (Bonini). Altri organiprevisti dalla costituzione testimonianoancora maggiori difficoltà nella lorogenesi. Il Consiglio Nazionale dell’Eco-nomia e del Lavoro (CNEL) inizia le sueattività nel 1957, il Consiglio Superioredella Magistratura (CSM) nel 1958.

La vicenda delle regioni a statutospeciale si chiude soltanto con l’ema-nazione dello Statuto della regioneFriuli-Venezia Giulia nel 1963, mentrel’ordinamento delle regioni a statutoordinario, dopo le prime incompletestrutturazioni, si fa aspettare ancora piùa lungo, fino a dopo il 1970. Anche ilreferendum riceve la sua disciplinalegale e pertanto piena praticabilità sol-tanto con la l. 25 maggio1970 n. 352.Tutti questi ritardi hanno relativizzatol’impatto della Costituzione, permet-tendo un consolidamento delle forzepolitiche esistenti, malgrado le esorta-zioni di costituzionalisti come VezioCrisafulli e Costantino Mortati.

Il ritardo nell’attuazione dellaCostituzione illustra il significato e ilprezzo della continuità nel pacificopassaggio dal fascismo alla democra-zia. Questa continuità riguarda l’appa-rato statale, in gran parte coinvoltonella tradizione amministrativa pre-repubblicana e pertanto fascista. Per-ciò, nonostante il cambiamento costi-tuzionale fondamentale che racchiudela forma di Stato, osserviamo una con-tinuità amministrativa e, condizionatada questa, in parte anche politica.

La problematica è, forse, inevitabilenel transito dalla dittatura alla demo-crazia. Infatti la situazione rassomigliaa quella tedesca, benché in Germania lamancanza di un potere centrale tra il1945 e il 1949 abbia attenuato la situa-zione. Nondimeno, nell’elaborazionedella Legge Fondamentale, la posizionedegli appartenenti all’impiego pubbli-co prima del 1945 era un problemagrave, e la disposizione allora emanata(art. 131 LF) e poi concretizzata dallalegislazione segnalò un importante con-flitto dei primi anni della RepubblicaFederale2, imboccando la strada di unarestaurazione parziale dell’impiegopubblico preesistente, poi contestatadurante e dopo il 1968.

La continuità, di fatto accresciuta inquesto modo, contrasta con l’impattosull’amministrazione determinatodalla riunificazione tedesca del1989/90, perché questa portò allo scio-glimento dell’amministrazione dellaRFT e al licenziamento della maggiorparte dei dipendenti dell’impiego pub-blico – una soluzione, mi pare, diffi-cilmente comprensibile per la conti-nuità amministrativa italiana.

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Grazie a una tale continuità ammini-strativa, sembra naturale che anche nelcampo della legislazione la produzionepre-repubblicana non venisse general-mente rigettata. Tenendo conto dellalunga durata del regime fascista, com-prendendo un periodo di modernizza-zione, anche in campi della vita sociale,sembra ovvio e inevitabile ricominciaredal corpus legislativo esistente; bastitener conto del Codice civile del 1942.Tuttavia neanche questo era privo diinflussi fascisti, cominciando già con “lenorme corporative” secondo l’art. 1 n. 3delle preleggi che, con l’abrogazionedegli organi di regolazione, dovevanocambiare essenzialmente il loro carat-tere per essere riconoscibili come con-tratti collettivi nel senso dell’art. 39 co.4 Cost. (G. Salerno, in Crisafulli/ Pala-din, ad art. 39 Cost. n. VII, pp. 277 s.).

Ma accettare una tale continuità rac-chiudeva del pari la conservazione dicodificazioni e leggi molto più proble-matiche sotto il profilo delle libertàfondamentali; si pensi anzitutto ai codi-ci penali, alla legge di pubblica sicurez-za e ad altri testi normativi, e poi all’or-ganizzazione amministrativa, ovvia-mente diversa in uno Stato centralistamonopolizzatore del potere e unaRepubblica che, benché una e indivisi-bile, riconosce e promuove, tramite lalegislazione, le autonomie e il decen-tramento (art. 5 Cost.). La conservazio-ne della legislazione pre-repubblicanadoveva, in una tale situazione, produr-re un’impressione di continuità per icittadini e mantenere un concetto diautorità pre-democratico.

Certo, le contraddizioni tra norma-tiva vecchia e Stato costituzionale pote-

vano essere risolte, prima nel control-lo giurisprudenziale incidentale sullacostituzionalità, poi dopo il 1956 tra-mite la giurisprudenza costituzionale.Ma è proprio su questo campo che laprassi italiana, confrontata con quellatedesca, è sembrata piuttosto timida.In Germania prevalse il modello del-l’abrogazione del diritto pre-costitu-zionale, fondata sulla LF e quindiaccertabile da ogni giudice.

La Corte costituzionale, pretenden-do, è vero, anche un proprio diritto dicontrollo sul ricorso in via principale,riconobbe il compito di ogni giudice didecidere se una legge del periodo pre-costituzionale fosse in contraddizionecon la Legge Fondamentale e se doves-se essere quindi abrogata, senza pre-tendere un monopolio sull’annulla-mento (BVerfGE 2,124 ss.). La Cortecostituzionale italiana invece, dallasent. 1/1956, distinse fra abrogazione eincostituzionalità e pretese, per ladichiarazione di questa, un monopoliodella Corte costituzionale. Perciò il giu-dice a quo era escluso da un giudiziofinale sulla non-applicazione di unalegge pre-costituzionale che violava lacostituzione, e la giurisprudenza costi-tuzionale in materia poteva mantenere,interpretare, adeguare, conformare – ecerto anche annullare – la legislazioneprecedente (Schefold 2006).

L’importanza di questo diverso mododi procedere è aumentata dalla tenden-za, importante per la Corte italiana, disalvaguardare la completezza della legi-slazione, di evitare il vuoto legislativo eperciò di limitare per quanto possibile icasi di annullamento totale di disposi-zioni legislative. Con questo scopo, la

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Corte si limitava frequentemente a sen-tenze interpretative oppure interpreta-zioni adeguatrici del diritto che rimane-va formalmente immodificato (Sorren-ti). Dopo sentenze di questo genere, nonoccorre un’ulteriore attività del legisla-tore. Né questo, né il giudice a quo sideve confrontare con l’influsso neces-sario della Costituzione sulla legislazio-ne. In questo senso l’impatto dellaCostituzione viene relativizzato, fors’an-che oscurato.

Nella stessa direzione l’importanzadella Costituzione per la vita quotidia-na è ridotta dalla mancanza di un ricor-so costituzionale individuale. Per farmicapire bene, non lo dico per diffonde-re la soluzione tedesca che solleva tantedifficoltà, e riconosco i buoni motivialla base della soluzione italiana cheaccentra l’attività della Corte costitu-zionale sul controllo di legittimitàcostituzionale delle leggi. Ma ne segueun certo pericolo di trascurare i proble-mi dell’applicazione del diritto, soprat-tutto dei diritti fondamentali.

È vero che su questi, ci sono, nelladottrina italiana, tante opere importan-ti; accenno – tra gli altri – alle opere diPaolo Barile, Alessandro Pace, poiRoberto Nania e Paolo Ridola, che inse-riscono il tema dei diritti individualinel contesto culturale, storico e com-parato. Dal punto di vista tedesco,appare invece piuttosto secondaria ladogmatica e la prassi della protezionedei diritti. In una tale situazione, l’ope-ra recente di un osservatore tedescopuò registrare un deficit di concretizza-zione, per esempio in materia di liber-tà di riunione, e criticare l’orientamen-to sempre significativo sulle limitazio-

ni che risultano dal testo unico sullapubblica sicurezza (Arzt). Sono poipiuttosto principi come la “ragionevo-lezza” della limitazione di diritti, oppu-re il “diritto mite” (Zagrebelsky), chelimitano l’applicazione di un diritto, diprovenienza pre-repubblicana, madichiarato costituzionalmente legitti-mo.

Rimane però, oltre la protezione deidiritti, il compito di conciliare gli ele-menti opposti garantiti nella Costitu-zione e conciliati, nella teoria weima-riana, dalla teoria dell’integrazione(Smend), ripresa per la Legge Fonda-mentale da Konrad Hesse, per l’Italiada Gustavo Zagrebelsky. Indipenden-temente dalle tecniche procedurali,resta però un’asimmetria: mentre ilcompito di proteggere i diritti di liber-tà sembra ovvio, un tale compito è piùdifficile per i diritti sociali, e ancora dipiù per le norme a maggiore dimensio-ne programmatica che devono neces-sariamente lasciare più spazio alla con-cretizzazione legislativa, e che devonotener conto dei limiti economici e dibilancio (vedi, ad es., art. 81, IV° co.Cost.).

In un’altra direzione, l’àncora costi-tuzionale dell’art. 11 Cost., ora rinforza-ta dall’art. 117 I° co., integra il dirittocomunitario nel sistema costituzionaleitaliano. Ne segue un compito interpre-tativo delicato: la conciliazione dellariserva dei principi costituzionali(C.cost. sent. 232/1989) e la prevalenzadi applicazione del diritto comunitario.Qual è la portata di questa prevalenza? Siriscontrano tendenze sia a sottolinearela “sovranità” – che, invece, è davverolimitata secondo l’art. 11 – , sia a impor-

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re la costituzione economica dell’UEall’Italia, prendendo come superatosoprattutto il terzo titolo della primaparte della Cost. (Nania, anche Bognet-ti ed altri). La costituzione economicacomunitaria però non è completa. Con-siste di principi, valori, scopi opposti,da conciliare sia tramite politiche e legi-slazione comunitarie, sia tramite il dirit-to nazionale. In questo senso la costitu-zione economica italiana può – edovrebbe – essere intesa come garanziae conferma di disposizioni comunitariesulla strategia di occupazione, la politi-ca sociale e la solidarietà, mi pare nonsufficientemente sottolineata nell’at-tuale discussione italiana.

Poi l’osservatore straniero si sentesollecitato a riflettere se i frequentidibattiti, ormai da decenni, sulle rifor-me istituzionali – sia elettorali, siaincidenti su altre parti dell’”ingegneriacostituzionale” (Sartori) – non sianostrade per sfuggire al compito di pren-dere la Costituzione sul serio. Ognitanto dobbiamo registrare tendenzeanche manipolative, come la legge truf-fa del 1953 (critica di Paladin, p. 111 ss.)e il premio di maggioranza nelle formepiù recenti, o combinazioni di elemen-ti maggioritari e proporzionali orien-tate verso risultati determinati, inveceche a realizzare un’influenza effettivadegli elettori. In questi dibattiti, ilpunto di vista dell’uguaglianza mi sem-bra sottovalutato, e mi pare auspicabil-mente da approfondire con studi com-parati (esempio recente: Poli). Delpari, fra le riforme soprattutto delsistema di governo, ci sono spesso pro-poste con effetti molto dubbi, come lemodifiche finalmente naufragate col

referendum del giugno 2006 – ma nonescluse per il (anche prossimo) futuro.Certo, si possono raccomandare adat-tamenti necessari, come la riforma deltitolo V del 2001, che, nella concretiz-zazione, sposta il peso fra i due princi-pi derivabili dall’art. 5 della Cost. Mal’eredità del 1947 obbliga, mi pare, egiustifica una massima cautela nel pro-muovere riforme istituzionali dellaCostituzione scritta.

Generalizzando una tale critica,sembra giustificato rivolgerla ad unaclasse politica troppo orientata versoRoma. Il sistema partitico italiano,certo cambiato ed ora di nuovo in via dicambiamento, è sempre orientato suRoma, forse anche su Milano, con loscopo di conquistare e di mantenere ilpotere governativo, anche a spese diistituzioni come l’efficienza del sistemaparlamentare. Questa lotta determinale priorità politiche. Per la Corte costi-tuzionale, ciò significa un orientamen-to favorevole ad una visione “centrali-stica”, accompagnato forse da un’at-tenzione troppo limitata per l’autono-mia regionale (Groppi, pp. 48 ss.). Per-ciò l’accentramento del foro politicolimita lo sviluppo di un policentrismoregionale e locale, bene descritto nelladottrina (Vandelli), che potrebbe edovrebbe colmare il deficit di legitti-mazione centrale dei partiti. Uno svi-luppo costituzionale potrebbe esserefondato su uno sviluppo delle forma-zioni politiche su base regionale e loca-le, e per questa via ampliare unadiscussione costituzionale e politica suuna pluralità di livelli.

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4. Il rispetto e l’affermazione della Costi-tuzione

Nonostante i limiti menzionati, riman-gono il valore e l’importanza dell’operacostituzionale del 1947, e proprio nelconfronto con la Germania, occorre rico-noscere che la Carta italiana, megliolegittimata nella sua genesi, più comple-ta come disegno di un modello sociale dasviluppare, e ricca di istituzioni e formeper un buon governo, è degna di unastima convinta. Si presenta come base diuna cultura politica, che può ispirarel’Italia e che non merita di essere relati-vizzata. Dall’altro lato però, i limiti del-l’effettività della Costituzione necessita-no un impegno continuo nell’opera diconcretizzazione. La Costituzione non èuna codificazione che contiene la solu-zione per ogni problema della vita socia-le, ma una base per attività future, unascelta iniziale per dare forma all’ordina-mento, un programma da compiere.Deve essere completata e applicatasoprattutto su tre livelli.

Anzitutto impone un compito conti-nuo alla legislazione. Obbliga il legisla-tore a un controllo continuo, sistemati-co e responsabile dell’ispirazione costi-tuzionale della legislazione. Occorrerendersi conto di radici fasciste o pre-repubblicane sempre esistenti, e farvalere i diritti e principi costituzionalitrascurati in altre epoche. Occorre, poi,effettuare la conciliazione dei principicostituzionali opposti, fra rispetto del-l’ordinamento e diritti della persona,fra libertà individuale e solidarietàsociale, fra unità e autonomia. Ci sonocampi ove un tale compito è stato risol-to bene; pensiamo, di recente, ad es. al

TUEL. Ma quale è la funzione attualedella pubblica sicurezza? Quali elemen-ti dei codici sono ancora determinati daconcezioni pre-repubblicane? Unripensamento continuo di tali problemisembra necessario.

In secondo luogo, c’è un compitoapplicativo. Si tratta di applicare le leggisecondo uno spirito conforme allaCostituzione. In questo senso, dirittovivente – come oggetto e prodotto dellavoro della giurisdizione sotto la guidadella Corte di cassazione, ma comemisura di tutti i giudici e amministrato-ri – non richiede un positivismo legisla-tivo, ma il rispetto del corpo della legi-slazione adeguata per essere conformealla Costituzione. Perciò vale la pena disottolineare il compito di ogni dipen-dente pubblico e di ogni giudice, sottoil ruolo guida, ma non esclusivo, dellaCorte costituzionale, di applicare laCostituzione. Così si riesce a realizzareun’implementazione della Costituzionenella vita pubblica.

Infine, la Costituzione non è immu-tabile, e il rispetto non esclude o vieta,

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Umberto Terracini parla alla Costituente nel 1947, dopo

l’elezione a presidente.

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ma anzi prevede revisioni possibilisecondo il procedimento previsto e coltempo necessario. Però rimane l’indi-rizzo determinato dai principi fonda-mentali come il rispetto dei diritti (art.1-12) e i limiti alla revisione della formadi Stato secondo l’art. 139 (Mortati;Piazza). La strada dell’“ingegneriacostituzionale” (Sartori) non deve eli-dere la cultura politica. Un tale rispet-to, nei casi estremi anche con una san-zione giurisdizionale, ma anzitutto dicultura politica, deve stabilire un limi-te alle riforme istituzionali.

In questo senso, lo strumento controgli attacchi alla Costituzione è innanzi-tutto la sua difesa, supportata dallo spi-rito civico, come espresso nel referen-dum del giugno 2006. È vero che si trat-ta di uno strumento di difesa debole.Una maggioranza semplice nel referen-dum può approvare una revisione costi-tuzionale deliberata dal Parlamento conmaggioranza assoluta (cioè governati-va). Questo pericolo sottolinea le riser-ve sopra espresse riguardo a sistemielettorali maggioritari e soprattutto alpremio di maggioranza.

Mi sia però concesso di riprendereancora una volta il confronto con la Ger-mania. La Legge Fondamentale, nonapprovata dal popolo, è fondata su unpotere costituente più debole, anzi, ini-zialmente, esterno. L’Italia, nonostantela mancanza di un referendum costitu-zionale sessanta anni fa, gode di una cul-tura politica fondata sulla Costituzioneelaborata in un modo sempre ammirevo-le. Vale la pena difenderla, e sessantaanni sono un buon periodo di tempo perricordare un tale impegno civico.

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Schefold

49

1 Così, basandosi su Jean-Jacques

Rousseau, Du Contrat Social

(1762), libro I, cap. 4, lib. III,

cap. 18, l’articolo 28, 2° fr., della

Dichiarazione dei diritti dell’uo-

mo e del cittadino nella Costitu-

zione francese del 24 giugno

1793: «Une génération ne peut

assujettir à ses lois les généra-

tions futures», e la Costituzione

di Ginevra del 24 maggio 1847,

articolo 153, che prescrive un

referendum costituzionale ogni

quindici anni. Vedi Schefold

1966, pp. 116 s., 148 ss.2 Vale la pena leggere la decisione

fondamentale della Corte costi-

tuzionale, BVerfGE 3,58 ss., pro-

seguita da un’ampia serie di

controversie giurisprudenziali e

dottrinali. Una buona presenta-

zione del tema in Kirn 1972.

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1. Aproximación

Poco después del 60 cumpleaños de la

Constitución italiana de diciembre de 1947

se celebra en España el 30 aniversario de la

Constitución de diciembre de 1978, que

supuso la culminación del proceso de vuel-

ta a la democracia después de la prolonga-

da noche del franquismo. Estas dos efemé-

rides son motivo más que justificado para

tratar de exponer, aunque sea de manera

breve, la influencia que una norma funda-

mental surgida después de la traumática

experiencia de la Segunda Guerra Mundial

ha tenido sobre el proceso de elaboración

de una Constitución que, entre otras cosas,

aspiraba a situar a España en la Europa que

tenía consolidadas sus libertades demo-

cráticas y desarrollaba un proceso de inte-

gración.

En realidad, la relación que tendría que

analizarse es la existente no entre dos nor-

mas fundamentales sino entre los constitu-

cionalismos; en este caso el italiano y el

español, que es mucho más rica, más pro-

longada en el tiempo y en ambas direccio-

nes, y que, al menos, puede remontarse a la

Constitución española de 1931 y a la inci-

dencia que tuvo en la norma fundamental

italiana de 1947 en asuntos, por citar un

ejemplo, como el regionalismo.

La conexión italo-española se ha incre-

mentado de manera notable en los últimos

30 años como se evidencia, primero, por la

publicación en lengua española de textos de

politólogos y constitucionalistas italianos

(Giovanni Sartori, Alessandro Pizzorusso,

Alessandro Pace, Gustavo Zagrebelsky,…) y

de trabajos doctrinales de autores españo-

les sobre instituciones italianas (por ejem-

plo, el libro del profesor Martín de la Vega

La sentencia constitucional en Italia. Tipolo-

gía y efectos de las sentencias en la jurisdicción

constitucional italiana: medio siglo de debate

doctrinal, CEPCO, 2003); en segundo lugar,

por la elaboración en Italia de estudios de

investigación sobre derecho constitucional

español (por ejemplo, el de Giancarlo Rolla

Indirizzo político e Tribunale costituzionale in

Spagna, Jovene Editore, Napoli, 1986, o,

51

Impresiones de un constitucionalista español sobre la Constitución italiana en su 60º

miguel ángel presno linera

giornale di storia costituzionale n. 16 / ii semestre 2008

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más recientemente, los de Laura Frosina,La delega legislativa nell’esperienza costitu-

zionale spagnola, Giuffrè, Milano, 2005, yFrancesca Nugnes, Le politiche di finanza

pubblica nello stato regionalizzato. Il casospagnolo alla luce dell’esperienza italiana,Giuffrè, Milano, 2005) o la traducción alitaliano de libros de constitucionalistasespañoles, como el del profesor Blanco Val-dés (Introduzione alla Costituzione spagnola

del 1978, Giappichelli Editore, Torino,1999), o el del profesor Varela Suanzes(Governo e partiti nel pensiero britannico

1690-1832, Giuffrè, Milano, 2007). Esta interacción puede, además, expli-

car influencias de la Constitución españo-la de 1931 en la de 1978 tamizadas por laConstitución italiana de 1947. Y es que,como ya comentó en pleno proceso cons-tituyente español Andrea Manzella [«Ilsistema parlamentare nel progetto costi-tuzionale spagnolo»]1, los materiales y lastécnicas empleados forman parte desdehace tiempo del euroconstitucionalismo y,añadidos nosotros, en los primeros añosdel siglo XXI no se limita a los ordena-mientos constitucionales nacionales sinoque alcanza al proceso de «constituciona-lización europeo»2.

Si bien en las páginas siguientes noscentraremos en la referencia que supuso laConstitución italiana para los constituyen-tes españoles, queremos apuntar de mane-ra breve algunos ejemplos del, también enafortunada expresión de Manzella, interna-

cionalismo constitucional italo-español, quees evidente en los ámbitos doctrinal y juris-prudencial.

Las conexiones doctrinales, de las quees buen ejemplo el Giornale di Storia Costu-

tuzionale, ya se evidenciaron, sin ir máslejos, en el momento constituyente espa-

ñol: así, Manzella [ob. cit.] recuerda elseminario «sul pre-progetto costituziona-le spagnolo» organizado por la Scuola diperfezionamento in scienze amministrati-ve de la Universidad de Bologna en mayo de1978 y en el que participaron, entre otros,los profesores italianos Galeotti, La Pergo-la, Galgano, Rescigno, Paladin, Levi y San-dulli, y los españoles De Vega, Santamaría,Lucas Verdú, Martín Retortillo y MartínMateo. Habrá incluso referencias a esteseminario en el debate del proyecto deConstitución a su paso por el Senado.

Estos encuentros son cada vez más fre-cuentes y casi inexcusables cuando se cum-plen aniversarios «redondos» como, porcitar un ejemplo próximo en el tiempo, losrecientes 50 años de la Corte Costituziona-le italiana y los 25 años del Tribunal Cons-titucional español, que se ha conmemora-do con las IV Jornadas italo-españolas deJusticia Constitucional y que han dado lugaral libro del mismo título (Ministerio de Jus-ticia, 2007), pero no es necesario un pre-texto cronológico para analizar de formaconjunta ambos sistemas constitucionalesen alguna de sus múltiples facetas3.

La elevada consideración que ha mere-cido en España la doctrina iuspublicista ita-liana y en especial, por lo que aquí corres-ponde, la existente en el momento consti-tuyente español y en los primeros años dedesarrollo del sistema nacido en 1978, seevidencia, primero, en la temprana traduc-ción a la lengua española de alguno de losmanuales de referencia en el derecho cons-titucional italiano, como las Lezioni di dirit-

to costituzionale, del profesor AlessandroPizzorusso, publicado en 1984 en el Centrode Estudios Constitucionales; en segundolugar, en la obligada cita de estudios deautores italianos en los trabajos de investi-

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gación que se desarrollan en las universida-des españolas y, finalmente, en la realiza-ción y publicación por investigadores espa-ñoles de estudios monográficos sobre ins-tituciones y órganos constitucionales ita-lianos.

No menos relevante es la influencia quela jurisprudencia constitucional italiana hatenido en la evolución y desarrollo de laespañola a través de la recepción de cons-trucciones italianas; de la mención de lassentencias de la Corte Costituzionale comofórmula de diálogo que emplea el TribunalConstitucional español o, directamente, dela cita de jurisprudencia italiana como ele-mento adicional de argumentación.

Veamos algunos ejemplos: en la Senten-cia del Tribunal Constitucional (en lo suce-sivo STC) 140/1986 y en el voto particular ala STC 116/1986 se habla de «sentenciamanipulativa»; la jurisprudencia de laCorte es citada para delimitar el significa-do del derecho a la igualdad (STC 24/1982)y la prohibición de discriminación (STC39/2002), del derecho a la vida (STC53/1985), del derecho de reunión (STC36/1982), de la garantía de la libertad per-sonal (STC 19/1988), de la tutela judicial yla doble instancia (SSTC 64, 65 y 66/2001),de la libertad de antena y creación demedios de comunicación (SSTC 31 y127/1994) o de la inviolabilidad parlamen-taria (STC 51/1985); incluso, y a pesar de lasnotables diferencias entre el estado auto-nómico español y el estado regional italia-no, en materia de conflictos competencia-les territoriales (SSTC 165/1985 y15/1997)4.

El conocimiento en España de la doc-trina jurisprudencial italiana se revela par-ticularmente importante cuando se susci-tan problemas que con anterioridad han

llegado a la Corte Costituzionale, como se hapuesto de manifiesto hace poco tiempo conla introducción en la legislación electoralespañola de la obligación de integrar en lascandidaturas al menos al 40% de miem-bros de uno y otro sexo; esta previsión nor-mativa fue cuestionada ante el TribunalConstitucional por un órgano judicial y pordiputados del Grupo Parlamentario Popu-lar en el Congreso de los Diputados. Comose puede leer en la Sentencia 12/2008, de 29de enero5, el juzgado que planteó la cues-tión de inconstitucionalidad, el Abogadodel Estado que defendió la constitucionali-dad de la ley, los diputados recurrentes, lamayoría del Tribunal que resolvió que lareforma era constitucional y el magistradodiscrepante que firmó un voto particularmencionan y comentan la sentencia de laCorte Costituzionale nº 422, de 12 de sep-tiembre de 19956.

2. La recepción del constitucionalismo italia-

no en la Constitución española de 1978

Para analizar la presencia del constitucio-nalismo italiano en el proceso constituyen-te español es obligado, como señala el pro-fesor Joaquín Varela7, ensamblar la pers-pectiva normativo-institucional con la doc-trinal y, además, conectar las normas, lasinstituciones y las doctrinas constituciona-les con la sociedad en la que se insertan.

Antes de estudiar dicha presencia esobligado advertir, como recuerda el profe-sor y expresidente del Tribunal Constitu-cional español, Pedro Cruz Villalón, en unestudio similar al presente pero relativo a«la recepción [en España] de la Ley Funda-mental de la República Federal de Alema-

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nia»8, que los constituyentes españoles de1978 no pretendieron ser originales másque en aquellos aspectos en los que lasnecesidades de la realidad española lodemandaban, como era el problema de ladescentralización política territorial. Por lodemás, eran conscientes de que sus fuen-tes debían ser, por una parte, la preceden-te experiencia constitucional-democráticaespañola de 1931, pero, sobre todo, la cul-tura del Estado constitucional contempo-ráneo europeo.

De la lectura de los trabajos parlamen-tarios de la Constitución española se puedeconcluir que si bien los constituyentesmanejaron numerosos textos vigentes, losque más se emplearon fueron las Constitu-ciones del entorno político y geográfico:las de la República Federal de Alemania,Italia, Francia, Portugal, Grecia, Dinamar-ca y Suecia. Y dentro de este variado elen-co hay unanimidad doctrinal en señalarque los textos más influyentes fueron, pri-mero, la Ley Fundamental alemana y, ensegundo lugar, la Constitución de la Repú-blica italiana.

Aunque hay diversas razones que pue-den explicar esta atención primordial a laConstitución alemana, ya en 1978 se apun-tó que su condición de norma de referenciaestuvo «asociada, sin duda, a su imagen,muy extendida, de Constitución eficaz paraprocurar una democracia estable»9; eso eraprioritario para los constituyentes españo-les: conseguir una norma «de consenso»que permitiera la realización de orientacio-nes políticas diferentes sin que, a diferen-cia de lo que había ocurrido en otras épocasde la historia constitucional española, supu-siera enfrentamientos políticos y sociales einestabilidad institucional.

Precisamente, el ideal preferente de la

gobernabilidad resultó un factor determi-nante para lo que se puede denominar«recepción negativa»; es decir, el rechazoa importar instituciones y normas que laexperiencia comparada y, de manera espe-cial, la italiana, venía demostrando quedificultaban la labor de gobierno. Comoapuntó ya Manzella respecto al sistema par-lamentario español, se adoptaron «istitutiche rendono assai piú difficili ostruzionis-mi all’italiana» (ob. cit., pág. 331).

Buena prueba de que la estabilidad par-lamentaria y gubernamental que pretendí-an los constituyentes pudo finalmente rea-lizarse en la práctica es que en 2008 hacomenzado la 9ª Legislatura en 30 años y alo largo de este tiempo se han producido 3casos de mayoría absoluta y no habidogobiernos de coalición, ya que todos losgabinetes han sido de un único color polí-tico (1 gobierno de Unión de Centro Demo-crático -1978/1982-; 6 gobiernos del Parti-do Socialista Obrero Español -1982/1996 y2004/…-, y 2 gobiernos del Partido Popu-lar -1996/2004-). A su vez la mayoría de losgobiernos, en especial desde 1982, ha teni-do una duración prolongada (de dos o másaños), con pocas crisis o remodelaciones.

Otro ejemplo de inspiración negativa,sobre el que se volverá más adelante, es elrechazo súbito a incorporar el referéndumabrogativo que los constituyentes españo-les decidieron tras constatar las experien-cias italianas de 1978.

3. El constitucionalismo italiano en el debate

constituyente español10

El proceso constituyente de 1978 en Espa-ña es un buen ejemplo de que, como tam-bién recuerda Joaquín Varela11, a través de

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la lectura de los debates parlamentarios sepuede reconstruir la doctrina constitucio-nal que se expone en esos debates. Y la doc-trina constitucional empleada por los cons-tituyentes españoles debe mucho tanto a lanormativa y al iuspublicismo italiano.

Una primera muestra la encontramos enlas intervenciones realizadas por los miem-bros de la Comisión Constitucional delCongreso de los Diputados durante el deba-te del Proyecto de Constitución. En esta fasees frecuente la apelación a la historia de Ita-lia, a su propio proceso constituyente des-pués de la Segunda Guerra Mundial, a variasde sus instituciones, a alguno de los prin-cipios estructurales del Estado italiano, alos derechos fundamentales reconocidos ensu Constitución, a los problemas similaresa los que también tiene en ese momentoEspaña (terrorismo) y a la propia doctrinaitaliana.

Así, en la Comisión Constitucional sehabla del carácter «progresista y moder-no» de la Constitución italiana (PecesBarba), de una «democracia vecina a lanuestra y hermana», donde «existen gru-pos armados dispuestos, precisamente ennombre de su ideal y de su disponibilidad,a entregar la vida, a quitársela también vio-lentamente a determinados ciudadanos»(Pérez Llorca), de que su Constitución es«la más paralela a lo que nosotros quere-mos hacer» (Fraga), de su «regionalismopolítico» (Ortí Bordás, Fraga, De la Fuen-te), de «un Estado fundado en el trabajo»(Cisneros), de la improcedencia de com-parar las «actuales instituciones italianascon las de las viejas Repúblicas de Vene-cia, Pisa o Génova» (Pérez-Llorca), del«referéndum que se celebró en Italia envísperas de la reunión, en el año 1947, dela Asamblea Constituyente (referéndum

sobre cuya limpieza caben las más largas yfundamentales sospechas, según recono-ce la Historia, cualquiera que sea la opciónpolítica del historiador)» (Herrero), deque «esta doctrina de las nacionalidadesla inicia Mazzini, que es el autor de lanación italiana» (Carro), de «la solución,a mi modo de ver muy eficaz, de la Consti-tución italiana del 47, que distingue entreregiones con estatuto especial y regionescon estatuto ordinario» (Ortí Bordás), deque en Italia «la lengua toscana no es lamisma que la napolitana ni la misma que laveneciana y se siguen hablando todas estasvariantes de un idioma primitivo, que es laderivación del latín, pero la lengua tosca-na se ha convertido definitivamente en lalengua italiana» (Fraga), de la «constitu-cionalización del derecho de sindicaciónde los trabajadores» (Martín Toval), delsilencio de la Constitución italiana sobrela mayoría de edad civil (Alzaga), de losderechos de los extranjeros (Solé Barbe-rá), de la consideración de qué delitos sonpolíticos a efectos de extradición (Alzaga yHerrero), del concepto de «libertades yderechos democráticos» (Herrero), de laabolición de la pena de muerte (PecesBarba, Solé Barberá y Vázquez Guillén), delas relaciones Iglesia-Estado (Alzaga), delcontrol parlamentario sobre los medios decomunicación (Zapatero Gómez), del artí-culo 17 de la Constitución italiana comomodelo para el derecho de reunión (SoléTura), del divorcio (López Bravo), del artí-culo 56 de la Constitución italiana sobre elnúmero de diputados (Solé Tura), de losresultados «contradictorios» de la expe-riencia italiana sobre la iniciativa legisla-tiva popular (Alzaga), de los riesgos delreferéndum en la práctica italiana (PecesBarba) y de las virtudes del referéndum

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revocatorio (Fraga), de la constitucionali-zación de los grupos parlamentarios(Fraga), de la expropiación de bienes(Barón), sobre el reparto de recursos entreel Estado y las regiones (Letamendía), delprocedimiento de reforma constitucional(Zapatero Gómez, Fraga), del riesgo de lapartitocracia (Fraga), de la denominacióndel poder judicial (López Rodó) y del pro-pio Preámbulo (Tierno).

La doctrina italiana, fue objeto de invo-cación frecuente por el diputado Fraga Iri-barne, que se refirió a las tesis de SantiRomano, Virga, Zanobini, Ambrosini,Balladore-Pallieri, Ranelletti y Pier LuigiZampetti; Peces Barba mencionó, entreotras, las de Biscaretti di Ruffia.

A su paso por el Pleno del Congreso delos Diputados las referencias al constitu-cionalismo italiano decaen algo en núme-ro pero siguen siendo frecuentes y de granrelevancia. Surgen, por citar algunos ejem-plos, cuando se debate la atribución dederechos políticos a los extranjeros pormedio de una ley o un tratado internacio-nal (Zapatero, Alzaga), el derecho de huel-ga (Saavedra), la propiedad y las garantíasen caso de expropiación, la regulación delreferéndum (Alzaga, Fraga). Se mencionatambién con respeto la figura y la políticade Aldo Moro (Roca) y dentro de la doctri-na se menciona a Pellegrino Rossi (Alzaga).

En la Comisión Constitucional del Sena-do se acudió a la Constitución italiana parailustrar la posición constitucional de lospartidos políticos (Ollero), la promoción dela igualdad efectiva por los poderes públicosa semejanza del artículo 3.2 de la Constitu-ción italiana (Villar), la edad electoral (Sán-chez Agesta), la configuración del Senadocomo Cámara de las Comunidades Autóno-mas (Benet), los referendos sobre leyes

regionales (Monreal), los riesgos de losmiembros del jurado (Pedrol)12, el nombra-miento de magistrados del Tribunal Cons-titucional (Villar), la delegación legislativa(Martín Retortillo), el control de constitu-cionalidad de los tratados internacionales(Villar Arregui), la demora en la puesta enfuncionamiento del Tribunal Constitucio-nal como consecuencia de la necesidad deamplios acuerdos parlamentarios (OlleroGómez),… En lo que respecta a las referen-cias doctrinales, el profesor y senador Olle-ro mencionó a La Pergola y Biscaretti y sucolega Sánchez Agesta a Predieri.

Finalmente, en el Pleno del Senado,además de las reiteradas menciones alregionalismo, Villar Arregui insiste en laimportancia del artículo 3 de la Constitu-ción italiana; Royo-Villanova habla de ladoctrina del Tribunal Constitucional italia-no sobre la huelga y cita a Suppiej y Giugni,y Gamboa previene de los riesgos de ines-tabilidad gubernamental que se producenen Italia.

En resumen, el constitucionalismo ita-liano, en el sentido ya citado de sistemanormativo, doctrina e incidencia de ambosen la sociedad y las instituciones, es el queestá más presente entre los constituyentesespañoles y, en general, la consideraciónque les merece es positiva como modelo enel que inspirarse para la incorporación dealguna de sus virtudes a la incipiente NormaFundamental española. Por supuesto, no esajena a este conocimiento del constitucio-nalismo italiano la formación académicaiuspublicista o iusfilosófica de varios de losdiputados españoles más activos en losdebates parlamentarios (Alzaga, Herrero deMiñón, Solé Tura, Fraga Iribarne, PecesBarba, Zapatero Gómez, Tierno Galván,...),y lo mismo cabe decir de sus colegas en el

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Senado (Martín Retortillo, Sánchez Agesta,Ollero Gómez). Varios de ellos han relata-do luego su rica experiencia como constitu-yentes13.

4. La recepción «positiva» de la Constitución

italiana de 1947 en la Constitución española

de 1978

La presencia de la Constitución italiana sedetecta en tres ámbitos de lo que se convir-tió en el texto normativo de la Constituciónespañola: a) en materia de derechos funda-mentales, b) en el sistema de fuentes delderecho constitucional y c) en la parteorgánica respecto al gobierno del PoderJudicial.

Dentro de la parte iusfundamental, lainfluencia es muy evidente e importante enla obligación que se impone a los poderespúblicos de realizar actuaciones para lograrla igualdad efectiva de los ciudadanos; en lagarantía subjetiva del derecho a la igualdad;en los derechos de las personas en sudimensión colectiva (derechos de reunióny asociación) y el reconocimiento consti-tucional de los partidos políticos, y, final-mente, en la prohibición de la pena demuerte.

En lo que se refiere al sistema de fuen-tes, la inspiración italiana se revela, sobretodo, en la atribución de facultades legisla-tivas a las comisiones parlamentarias y enla constitucionalización de los decretoslegislativos y los decretos-leyes.

a) La igualdad como derecho y como man-

dato a los poderes públicos

Debe destacarse en particular la especialrecepción que el artículo 3.2 de la Constitu-

ción italiana («È compito della Repubblicarimuovere gli ostacoli di ordine economicoe sociale, che, limitando di fatto la libertà el’eguaglianza dei cittadini, impediscono ilpieno sviluppo della persona umana e l’effet-tiva partecipazione di tutti i lavoratori all’or-ganizzazione politica, economica e socialedel Paese») ha tenido en el artículo 9.2 de laNorma Fundamental española: «correspon-de a los poderes públicos promover las con-diciones para que la libertad y la igualdad delindividuo y de los grupos en que se integrasean reales y efectivas; remover los obstácu-los que impidan o dificulten su plenitud yfacilitar la participación de todos los ciuda-danos en la vida política, económica, socialy cultural» («Compete ai pubblici poteripromuovere le condizioni affinchè la liber-tà e l’eguaglianza dell’individuo e dei gruppicui partecipa siano reali ed effettivi; rimuo-vere gli ostacoli che impediscono o rendonodifficile la loro realizzazione e agevolare lapartecipazione di tutti i cittadini alla vitapolitica, economica, culturale e sociale»).

Es significativa la intervención delSenador Villar Arregui en la ComisiónConstitucional del Senado, donde afirmóque el artículo que luego sería el 9.2 «comotodos saben está inspirado en el artículo 3de la Constitución italiana, ha sido allípuesto de manifiesto en múltiples ocasio-nes con motivo de la discusión e incluso dela eventual inconstitucionalidad de algunasmedidas».

La clara similitud entre ambos precep-tos no ha implicado idénticas consecuen-cias en ambos países, en parte debido a queel precepto español ha incorporado inno-vaciones no previstas 30 años antes; comoha dicho el Tribunal Constitucional espa-ñol en la muy reciente y relevante STC12/2008:

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los avatares de las jurisprudencias italiana y fran-

cesa a que también se refieren las partes se expli-

can justamente a partir de una diferencia funda-

mental entre aquellos ordenamientos y el nuestro,

cual es la de la singularidad que en nuestro caso

supone la amplitud del contenido del art. 9.2 CE

que se proyecta expresamente a la participación

política y que a la idea de remover añade, además,

las de promover y facilitar. De ahí que la introduc-

ción en los países de nuestro entorno de medidas

similares a las aquí controvertidas haya ido prece-

dida o acompañada, según los casos, de reformas

constitucionales que han incorporado la idea de

promoción de la igualdad entre hombres y muje-

res en el ámbito de la representación política —

superando con ello una visión estrechamente for-

mal y trascendiendo a los mandatos de mera remo-

ción de obstáculos para lograr su efectividad— en

términos similares a los que figuran desde un prin-

cipio en la Constitución española.

Sin embargo, debe recordarse que ya en

2003 la Corte Costituzionale, en la senten-

cia nº 59, declaró que «le nuove disposizio-

ni costituzionali pongono dunque esplici-

tamente l’obiettivo del riequilibrio e stabi-

liscono come doverosa l’azione promozio-

nale per la parità di accesso alle consulta-

zioni, riferendoli specificamente alla legis-

lazione elettorale» y que «in definitiva –

ribadito che il vincolo resta limitato al

momento della formazione delle liste, e

non incide in alcun modo sui diritti dei cit-

tadini, sulla libertà di voto degli elettori e

sulla parità di chances delle liste e dei can-

didati e delle candidate nella competizione

elettorale, né sul carattere unitario della

rappresentanza elettiva – la misura dispos-

ta può senz’altro ritenersi una legittima

espressione sul piano legislativo dell’inten-

to di realizzare la finalità promozionale

espressamente sancita dallo statuto specia-

le in vista dell’obiettivo di equilibrio della

rappresentanza».

La dimensión objetiva del mandato de

igualdad dirigido a los poderes públicos enambos textos constitucionales resultareforzada con la garantía de la igualdad delos ciudadanos; así, el artículo 3 de la normafundamental italiana dispone que «tutti icittadini hanno pari dignità sociale e sonoeguali davanti alla legge, senza distinzionedi sesso, di razza, di lingua, di religione, diopinioni politiche, di condizioni persona-li e sociali». Por su parte, el artículo 14 dela Constitución española declara que «losespañoles son iguales ante la ley, sin quepueda prevalecer discriminación algunapor razón de nacimiento, raza, sexo, reli-gión, opinión o cualquier otra condición ocircunstancia personal o social» («Glispagnoli sono uguali di fronte alla legge,senza che prevalga alcuna discriminazioneper motivi di nascita, razza, sesso, religio-ne, opinione e qualsiasi altra condizione ocircostanza personale o sociale»).

Como señala el Tribunal Constitucionalespañol en la STC 216/1991, «la incidenciadel mandato contenido en el artículo 9.2sobre el que, en cuanto se dirige a los pode-res públicos, encierra el artículo 14 suponeuna modulación de este último, en el sen-tido, por ejemplo, de que no podrá repu-tarse de discriminatoria y constitucional-mente prohibida -antes al contrario- laacción de favorecimiento, siquiera tempo-ral, que aquellos poderes emprendan enbeneficio de determinados colectivos, his-tóricamente preteridos y marginados, a finde que, mediante un trato especial másfavorable, vean suavizada o compensada susituación de desigualdad sustancial».

b) La prohibición de la pena de muerte

La Constitución española proclama en suartículo 15 que «todos tienen derecho a la

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vida y a la integridad física y moral, sin que,en ningún caso, puedan ser sometidos a tor-tura ni a penas o tratos inhumanos o degra-dantes. Queda abolida la pena de muerte,salvo lo que puedan disponer las leyes pena-les militares para tiempos de guerra» («Tuttihanno diritto alla vita e alla integrità fisica emorale, senza poter essere in alcun caso sot-toposti a torture nè a pene o trattamentiinumani o degradanti. È abolita la pena dimorte, salvo quanto possano disporre leggipenali militari in tempo di guerra»).

En el debate constituyente y en relacióncon la pena de muerte estuvo muy presen-te la Constitución italiana y, por parte dealgún diputado, la equiparación entre elsistema fascista y el franquista y la necesa-ria abolición de esa pena en un sistemademocrático; así, Solé Barberá dijo en laComisión Constitucional que «no resultanada extraño que tres países de nuestra áreacultural, como son Italia, Alemania y Por-tugal, declararan en la primera Constitu-ción democrática, después de la caída de losregímenes fascistas, la abolición de la penade muerte».

Y en la Comisión Constitucional delSenado, la remisión a lo que puedan dispo-ner las leyes penales en tiempo de guerratambién se justificó en atención a lo previs-to en ese momento en la Constitución ita-liana: «suprimir la pena de muerte, deacuerdo, con plena convicción y con todoentusiasmo, pero dejando a salvo la situa-ción extraordinaria que se produce en elmomento de la existencia de una guerra, ycon ello voy en el camino del artículo 27 dela Constitución italiana, en el cual se diceque no se admite la pena de muerte más queen los casos previstos en las leyes militaresde guerra, en situaciones de guerra».

c) Los derechos de las personas en su

dimensión colectiva: reunión y asociación

El diputado Solé Tura dijo en la Comi-

sión Constitucional del Congreso de los

Diputados: «me gustaría proponer una

enmienda que fuese en la línea de un artí-

culo que me parece modélico en este sen-

tido, que es el artículo 17 de la Constitución

italiana,...».

Los derechos de reunión y asociación,

en su versión italiana, dicen:

I cittadini hanno diritto di riunirsi pacíficamen-

te e senz’armi.

Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubbli-

co, non è richiesto preavviso.

Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato

preavviso alle autorità, che possono vietarle sol-

tanto per comprovati motivi di sicurezza o di

incolumità pubblica

(art. 17).

I cittadini hanno diritto di associarsi liberamen-

te, senza autorizzazione, per fini che non sono

vietati ai singoli dalla legge penale.

Sono proibite le associazioni segrete e quelle che

perseguono, anche indirettamente, scopi politi-

ci mediante organizzazioni di carattere militare

(art. 18).

En la versión española,

1. Se reconoce el derecho de reunión pacífica y

sin armas. El ejercicio de este derecho no nece-

sitará autorización previa.

2. En los casos de reuniones en lugares de trán-

sito público y manifestaciones se dará comuni-

cación previa a la autoridad, que sólo podrá pro-

hibirlas cuando existan razones fundadas de alte-

ración del orden público, con peligro para per-

sonas o bienes

[1. Si riconosce il diritto di riunione pacifica e

senza armi. L’esercizio di questo diritto non

necessiterà previa autorizzazione.

2. Nei casi di riunione in luogo pubblico e di

manifestazioni dovrà essere data comunicazio-

ne preventiva all’autorità, che potrà proibirla sol-

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tanto quando esistano ragioni fondate di turba-

tiva dell’ordine pubblico, con pericolo per per-

sone o cose]

(art. 21).

1. Se reconoce el derecho de asociación.

2. Las asociaciones que persigan fines o utilicen

medios tipificados como delito son ilegales.

3. Las asociaciones constituidas al amparo de este

artículo deberán inscribirse en un registro a los

solos efectos de publicidad.

4. Las asociaciones sólo podrán ser disueltas o

suspendidas en sus actividades en virtud de reso-

lución judicial motivada.

5. Se prohíben las asociaciones secretas y las de

carácter paramilitar».

[1. Si riconosce il diritto di associazione.

2. Le associazioni che perseguono finalità o uti-

lizzino modalità qualificate come reato sono ille-

gali.

3. Le associazioni costituite nel rispetto di ques-

to articolo dovranno essere registrate soltanto

agli effetti della pubblicità.

4. Le associazioni potranno essere sciolte o sos-

pese dalla loro attività in virtù di provvedimen-

to giudiziale motivato.

5. Sono proibite le associazioni segrete e quelle

di carattere paramilitare.]

(art. 22)

Ya la Constitución española de 1931

incluía el derecho de reunión con un enun-

ciado que anticipa el actual de las constitu-

ciones italiana y española: «queda recono-

cido el derecho a reunirse pacíficamente y

sin armas. Una ley especial regulará el

derecho de reunión al aire libre y el de

manifestarse» (art. 38).

Y es que estas tres normas fundamenta-

les han comprendido que el individuo des-

arrolla su personalidad en el seno de la

sociedad y, por tanto, a través de ella se des-

envuelve su dignidad. No es casualidad que

el artículo 2 de la Constitución italiana diga

que «la Repubblica riconosce e garantisce

i diritti inviolabili dell’uomo, sia come sin-

golo, sia nelle formazioni sociali ove si svol-ge la sua personalità, e richiede l’adempi-mento dei doveri inderogabili di solidarie-tà politica, economica e sociale».

Por estos motivos, la capacidad jurídicaiusfundamental de la persona debe plas-marse en la titularidad de los derechos nosólo cuando el individuo actúa aislado, sinotambién cuando entra en contacto social yactúa de forma colectiva (STC 139/1995, F.4). Los grupos sociales resultado de estecontacto son, además, el producto del ejer-cicio por parte del individuo de ciertosderechos fundamentales (asociación, reu-nión), cuyo objeto sólo puede ser adecua-damente garantizado si también se recono-cen derechos fundamentales a los entescolectivos resultantes de su ejercicio. Sóloasí se podrá rendir tributo al mandatoincluido tanto en el artículo 3.2 de la Cons-titución italiana como en el artículo 9.2 dela española, que obligan a los poderespúblicos a remover los obstáculos queimpidan la realización y eficacia de la liber-tad e igualdad de los individuos y de los gru-pos en los que se integran.

En la STC 36/1982 el Tribunal Constitu-cional recuerda que no se puede dar«carácter ilimitado al derecho de reunión,pues con tal conducta se incumpliría unaexigencia constitucional trascendente, y serealizaría una defraudación de la potestadde prohibir que el artículo 21.2 regula, posi-bilitando la actuación antijurídica, abusi-va, e incluso al margen de la buena fe, delciudadano infractor, que debe conducirracional y jurídicamente a la misma san-ción que tal norma establece para la presu-mible alteración del orden público, esto es,a la prohibición previa, en evitación de másgraves medidas de disolución o represiónde la reunión, que siempre deben evitarse;

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por lo que ha de entenderse, que tales cir-cunstancias son fundamento constitucio-nalmente lícito para prohibir la reunión, yaque el ejercicio ilícito de un derecho nopuede protegerse jurídicamente, comodeterminó la Sentencia 54/1961 de la CorteConstitucional italiana».

Otro elemento común a los textos cons-titucionales italiano y español es que a lahora de incorporar estos derechos ya pre-vén límites expresos a las libertades garan-tizadas; así, garantizan el derecho de reu-nión «pacífica y sin armas», lo que cons-tituye un claro límite positivo a ese dere-cho de reunión, excluyendo de su objeto lasreuniones y manifestaciones violentas oarmadas. No es necesario que una ley con-crete o excluya ese tipo de reuniones ymanifestaciones para que estas carezcan deprotección constitucional. La propia Cons-titución lo ha hecho.

Coinciden también las normas funda-mentales en que el legislador podrá regularel ejercicio del derecho de reunión y mani-festación en lugares de tránsito público.Pero sólo podrá restringir el ejercicio deeste derecho en esos lugares en los térmi-nos que fijan los artículos 17.3 y 21.2: cuan-do se pueda alterar el orden o la seguridadpúblicos y sin que la previa comunicación ala autoridad pública que ambos preceptoscontemplan pueda concretarse en un reme-do de autorización administrativa para elejercicio de derechos fundamentales (eneste sentido véanse las SSTC 36/1982,59/1990 y la 66/1995).

En un sentido similar, tanto el artículo18.2 de la Constitución italiana como el22.5 de la española prohíben las asociacio-nes secretas y las de carácter paramilitar.En consecuencia, la creación o afiliación aeste tipo de asociaciones carecen de pro-

tección constitucional porque no cabeencuadrarlas en el objeto del derecho fun-damental de asociación. Esto significa queun juez puede declarar inexistente unaagrupación secreta o paramilitar de perso-nas, incluso sujetarlas a sanción si así lodispone el ordenamiento, sin afectar porello al derecho fundamental de asociación.La administración pública, por su parte,podría denegar subvenciones o adoptarmedidas de policía administrativa o negar-les toda relevancia jurídica a dichas aso-ciaciones sin por ello lesionar el artículo22 de la Constitución española. En ningu-no de los dos casos los actos del juez o dela administración requieren de la previaexistencia de una norma con rango de leyque concrete ese límite o que les habilitepara su aplicación.

d) El reconocimiento constitucional de los

partidos políticos

Los constituyentes españoles se fijaron,a la hora de regular el papel de los partidospolíticos, tanto en el sistema del «meroreconocimiento constitucional» (Consti-tuciones italiana, francesa y portuguesa)como en la fórmula de la «incorporaciónconstitucional» (Constitución alemana).

Y se decantaron por la primera opción;es decir, por tener en cuenta las funcionesque incumben a los partidos políticos a losefectos de colocarlos en una posición quefacilite el ejercicio de las mismas; dichasfunciones son un efecto del ejercicio delderecho de asociación con una finalidadpolítica, pero no una condición para el ejer-cicio de un derecho. La protección consti-tucional supone u garantía adicional algenérico derecho de asociación, pero nouna garantía de un derecho diferente.

Presno Linera

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Es evidente que la redacción que utilizala Constitución italiana en el artículo 49(«Tutti i cittadini hanno diritto di associar-si liberamente in partiti per concorrere conmetodo democratico a determinare la poli-tica nazionale») es distinta a la que empleala española en el artículo 6 («Los partidospolíticos expresan el pluralismo político,concurren a la formación y manifestaciónde la voluntad popular y son instrumentofundamental para la participación política.Su creación y el ejercicio de su actividad sonlibres dentro del respeto a la Constitucióny a la ley. Su estructura interna y funciona-miento deberán ser democráticos»)14 .

Pero la filosofía es la misma: los parti-dos son entidades privadas que permiten alos ciudadanos participar de manera efec-tiva en la orientación política. Como recor-dó el Senador Ollero en la Comisión Cons-titucional de la Cámara Alta, «aun cuandoexisten precedentes anteriores, como elartículo 121 de la Constitución brasileña,fue, como es sabido, la Constitución italia-na de 1947 la que, en su artículo 49, se refi-rió cumplidamente por primera vez en untexto fundamental europeo a los partidospolíticos. Se daba así satisfacción a unanecesidad acuciantemente denunciada…».

En palabras del Tribunal Constitucio-nal, la relevancia constitucional de los par-tidos «viene justificada por la importanciadecisiva que esas organizaciones tienen enlas modernas democracias pluralistas, deforma que se ha podido afirmar por algunosTribunales extranjeros que «hoy en díatodo Estado democrático es un Estado departidos»» (STC 3/1981, de 2 de febrero, F.J. 1) y en esa idea han insistido las respec-tivas doctrinas15.

En este ámbito debe recordarse tambiénel «aviso para navegantes» que realizó en

la Comisión Constitucional el diputado

Fraga Iribarne, que invocando a Pier Luigi

Zampetti y, más allá en el tiempo, a Anto-

nio Gramsci, aludió a los riesgos de la

«partitocracia» y a la conversión del siste-

ma de partidos en el «Príncipe moderno».

Y es bien conocido que la lottizzazione par-

tidaria ha encontrado en España un reflejo

tan nítido como el existente en Italia, como

asimismo anticipó el Tribunal Constitucio-

nal en la sentencia 108/1986, de 29 de julio16.

e) La aprobación de leyes por las Comisio-

nes parlamentarias

La Constitución española prevé en su

artículo 75.2 y 3 que «las Cámaras pueden

delegar en las Comisiones Legislativas Per-

manentes la aprobación de proyectos o pro-

posiciones de ley. El Pleno podrá, no obs-

tante, recabar en cualquier momento el

debate y votación de cualquier proyecto o

proposición de ley que haya sido objeto de

esta delegación. 3. Quedan exceptuados de

los dispuesto en el apartado anterior la refor-

ma constitucional, las cuestiones interna-

cionales, las leyes orgánicas y de bases y los

Presupuestos Generales del Estado».

En una línea similar la Constitución ita-

liana, en el artículo 72, dispone que

Può altresì stabilire in quali casi e forme l’esame e

l’approvazione dei disegni di legge sono deferiti a

Commissioni, anche permanenti, composte in

modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi

parlamentari. Anche in tali casi, fino al momento

della sua approvazione definitiva, il disegno di legge

è rimesso alla Camera, se il Governo o un decimo

dei componenti della Camera o un quinto della

Commissione richiedono che sia discusso e vota-

to dalla Camera stessa oppure che sia sottoposto

alla sua approvazione finale con sole dichiarazioni

di voto. Il regolamento determina le forme di pub-

blicità dei lavori delle Commissioni.

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La procedura normale di esame e di approvazione

diretta da parte della Camera è sempre adottata

per i disegni di legge in materia costituzionale ed

elettorale e per quelli di delegazione legislativa, di

autorizzazione a ratificare trattati internazionali, di

approvazione di bilanci e consuntivi.

Es evidente la similitud de ambos pro-cedimientos de aprobación de leyes encomisión y también son muy semejantes losámbitos en los que la aprobación de lasleyes se reserva al Pleno de la Cámara: lasmodificaciones constitucionales, los asun-tos internacionales y los presupuestarios;tampoco en España, al igual que en Italia, esposible delegar en las comisiones la apro-bación o modificación de la legislaciónelectoral pues es materia propia de leyorgánica y no delegable en las comisiones.

No obstante, estas similitudes formalesno han ido acompañadas de una praxissimilar en ambos sistemas constituciona-les, pues mientras en España no es muyabundante la producción legislativa deri-vada de esta autorización constitucional, enItalia las «leggine», en palabras críticas deRoberto Martucci, han contribuido «ainflazionare la produzione legislativa»17.

f) La delegación legislativa

La delegación legislativa ya estaba pre-sente en la historia española en el siglo XIXy alcanzó rango constitucional en el artícu-lo 61 de la Constitución de 1931, si bien elartículo 76 de la Constitución italiana(«L’esercizio della funzione legislativa nonpuò essere delegato al Governo se non condeterminazione di principi e criteri diret-tivi e soltando per tempo limitato e peroggetti definiti») inspiró en buena medi-da, junto a normas similares de Alemania(artículo 80), Francia (artículo 38) y Portu-

gal (artículo 168), el artículo 82 de la Cons-

titución española:

1. Las Cortes Generales podrán delegar en el

Gobierno la potestad de dictar normas con rango

de ley sobre materias determinadas no incluidas

en el artículo anterior.

2. La delegación legislativa deberá otorgarse

mediante una ley de bases cuando su objeto sea

la formación de textos articulados o por una ley

ordinaria cuando se trate de refundir varios tex-

tos legales en uno solo.

3. La delegación legislativa habrá de otorgarse al

Gobierno de forma expresa para materia concre-

ta y con fijación del plazo para su ejercicio. la

delegación se agota por el uso que de ella haga el

Gobierno mediante la publicación de la norma

correspondiente. No podrá entenderse concedi-

da de modo implícito o por tiempo indetermina-

do. Tampoco podrá permitir la subdelegación a

autoridades distintas del propio Gobierno.

4. las leyes de bases delimitarán con precisión el

objeto y alcance de la delegación legislativa y los

principios y criterios que han de seguirse en su

ejercicio.

5. La autorización para refundir textos legales

determinará el ámbito normativo a que se refie-

re el contenido de la delegación, especificando si

se circunscribe a la mera formulación de un texto

único o si se incluye la de regularizar, aclarar y

armonizar los textos legales que han de ser

refundidos.

6. Sin perjuicio de la competencia propia de los

Tribunales, las leyes de delegación podrán esta-

blecer en cada caso fórmulas adicionales de con-

trol18.

La Constitución española es especial-

mente precisa a la hora de regular la dele-

gación legislativa. Coincide con la italiana

en la obligación de establecer los princi-

pios y criterios que el Gobierno ha de seguir

para el correcto ejercicio de la delegación,

en la necesidad de que exista un objeto

determinado y en el carácter temporal de la

delegación.

Como ha advertido Ignacio Gutiérrez, el

Presno Linera

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vigoroso desarrollo de la delegación legisla-tiva en Italia supone una diferencia adicio-nal no irrelevante. Tal desarrollo ha sidodeterminado por las condiciones políticasdel sistema parlamentario italiano: la justi-ficación de la delegación y el grado y conte-nido de la vinculación del Gobierno dejande depender de las exigencias técnicas y dela racional articulación entre principios ydesarrollo; más bien, son condicionados porel nivel de debate y compromiso que, en lapráctica política, los partidos considerannecesario o posible retener en el Parlamen-to. La situación política ha convertido ladelegación en un elemento esencial y poli-valente de definición de equilibrios y no sóloen las relaciones entre Parlamento y Gobier-no; sus efectos comprenden la posición de laMagistratura y, en general, las relaciones delas fuerzas políticas y sociales19.

g) El decreto-ley

La figura legislativa del decreto-leyviene regulada en España, con el preceden-te del artículo 80 de la Constitución repu-blicana de 1931, en el artículo 86 de laNorma Fundamental:

1. En caso de extraordinaria y urgente necesidad,

el Gobierno podrá dictar disposiciones legislati-

vas provisionales que tomarán la forma de

Decretos-Leyes y que no podrán afectar al orde-

namiento de las instituciones básicas del Estado,

a los derechos, deberes y libertades de los ciuda-

danos regulados en el Título I, al régimen de las

Comunidades Autónomas ni al Derecho electo-

ral general.

2. Los Decretos-Leyes deberán ser inmediata-

mente sometidos a debate y votación de totalidad

al Congreso de los Diputados, convocado al efec-

to si no estuviera reunido, en el plazo de treinta

días siguientes a su promulgación. El Congreso

habrá de pronunciarse expresamente dentro de

dicho plazo sobre su convalidación o derogación,

para lo cual el Reglamento establecerá un proce-

dimiento especial y sumario.

3. Durante el plazo establecido en el apartado

anterior, las Cortes podrán tramitarlos como

proyectos de ley por el procedimiento de urgen-

cia.

Ya la primera doctrina (Astarloa Huar-te-Mendicoa) que se ocupó de este precep-to señaló que «el modelo más directo de laConstitución Española,… es el artículo 77de la Constitución italiana de 1947»20, quedispone «… Quando, in casi straordinari dinecessità e di urgenza, il Governo adotta,sotto la sua responsabilità, provvedimentiprovvisori con forza di legge, deve il giornostesso presentarli per la conversione alleCamere che, anche se sciolte, sono apposi-tamente convocate e si riuniscono entrocinque giorni. I decreti perdono efficaciasin dall’inizio, se non sono convertiti inlegge entro sessanta giorni dalla loro pub-blicazione. Le Camere possono tuttaviaregolare con legge i rapporti giuridici sortisulla base dei decreti non convertiti».

La coincidencia más evidente en ambasConstituciones se produce en el llamadopresupuesto habilitante, que es el que jus-tifica la aprobación por parte del Gobiernodel decreto-ley: la existencia de situacio-nes de extraordinaria y urgente necesidad,que se han entendido como circunstanciasque no han podido ser previstas y cuyaregulación no puede realizarse a través delprocedimiento legislativo común.

Una diferencia importante, que es laconsecuencia obligada del distinto sistemade bicameralismo imperante en ambos paí-ses (imperfecto en España, perfecto en Ita-lia), es que la convalidación del decreto-leyes en España competencia exclusiva delCongreso de los Diputados, no del Senado.

Se advierte también una mejora tempo-

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ral en el caso español: el plazo para some-

ter el decreto-ley a la convalidación del

Congreso se reduce a la mitad; además, el

debate es sobre la totalidad del decreto y no

sobre aspectos puntuales.

h) El Consejo General del Poder Judicial

Este órgano representa un buen ejem-

plo de institución inexistente en España e

importada del constitucionalismo extranje-

ro: de la Constitución francesa (artículo

65), de la portuguesa (artículo 220), pero,

de manera especial, de los artículos 104 y

105 de la Constitución italiana de 1947 y de

su Consiglio Superiore della Magistratura.

La Constitución española incluye este

órgano en el artículo 122.2 y 3:

2. El Consejo General del poder judicial es el

órgano de gobierno del mismo. La ley orgánica

establecerá su estatuto y el régimen de incom-

patibilidades de sus miembros y sus funciones,

en particular en materia de nombramientos,

ascensos, inspección y régimen disciplinario. 3.

El Consejo General del Poder Judicial estará inte-

grado por el Presidente del Tribunal Supremo,

que lo presidirá, y por veinte miembros nom-

brados por el Rey por un periodo de cinco años.

De éstos, doce entre Jueces y Magistrados de

todas las categorías judiciales, en los términos

que establezca la ley orgánica; cuatro a propues-

ta del Congreso de los Diputados y cuatro a pro-

puesta del Senado, elegidos en ambos casos por

mayoría de tres quintos de sus miembros, entre

abogados y otros juristas, todos ellos de recono-

cida competencia y con más de quince años de

ejercicio en su profesión21.

Sobre los riesgos que implicaba este

modelo de gobierno del Poder Judicial ya

advirtió el Tribunal Constitucional: «se corre

el riesgo de frustrar la finalidad señalada en

la norma constitucional si las Cámaras, a la

hora de efectuar sus propuestas, olvidan el

objetivo perseguido y, actuando con criteriosadmisibles en otros terrenos, pero no en éste,atienden sólo a la división de fuerzas existen-te en su propio seno y distribuyen los pues-tos a cubrir entre los distintos partidos, enproporción a la fuerza parlamentaria de éstos.La lógica del Estado de partidos empuja aactuaciones de este género, pero esa mismalógica obliga a mantener al margen de la luchade partidos ciertos ámbitos de poder y entreellos, y señaladamente, el Poder Judicial»(STC 108/1986).

La grave es que los peores auguriossobre esta institución se han cumplido conmás intensidad en España que en Italia,pues no parece exagerado afirmar que elConsejo General del Poder Judicial ha sido,como argumenta con detalle Diego Íñiguez,un fracaso en su función constitucional yello por diversas causas: los defectos defuncionamiento interno del órgano, lasconsecuencias del modo en que intervie-nen en torno a él los auténticos sujetosdecisivos - que son los responsables enmateria de justicia de los partidos, elMinisterio, el propio Consejo y los gruposparlamentarios. Y, en definitiva, la defi-ciente cultura política o constitucional quese revela en torno a la realidad del sistemade gobierno del poder judicial22.

5. La recepción «negativa» del constituciona-

lismo italiano

Ya se ha anticipado que junto a la muyimportante recepción positiva, no cabeolvidar que en el proceso constituyenteespañol también se produjo un rechazo aimportar instituciones y normas que laexperiencia comparada y, de manera espe-cial, la italiana, venía demostrando que

Presno Linera

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dificultaban la labor de gobierno. Ya Man-

zella apuntó que «si allarga la possbilità di

governo maggioritario del parlamento» y

que se adoptaron «istituti che rendono

assai piú difficili ostruzionismi all’italia-

na» (ob. cit., pág. 331).

En los debates se insiste en la necesi-

dad de evitar la interinidad de los gobier-

nos y la brevedad de las legislaturas,

poniendo siempre el caso italiano como el

ejemplo más evidente de un modelo que ha

fracasado en lo que a la estabilidad parla-

mentaria y gubernamental se refiere.

Si contra ese riesgo los parlamentarios

ya estaban prevenidos, contra los proble-

mas derivados de la institución del referén-

dum se reaccionó de manera súbita en el

mes de junio de 1978, si bien ya se advertía

cierta reticencia que la práctica italiana no

hizo sino avalar.

El artículo 85 del Anteproyecto de Cons-

titución disponía

1. La aprobación de las leyes votadas por las Cor-

tes Generales y aún no sancionadas, las decisio-

nes políticas de especial trascendencia y la dero-

gación de leyes en vigor, podrán ser sometidas a

referéndum de todos los ciudadanos. 2. En los

dos primeros supuestos del número anterior el

referéndum será convocado por el Rey, a pro-

puesta del Gobierno, a iniciativa de cualquiera

de las Cámaras, o de tres asambleas de Territo-

rios Autónomos. En el tercer supuesto, la inicia-

tiva podrá proceder también de setecientos cin-

cuenta mil electores. 3. El plazo previsto en el

artículo anterior, para la sanción real, se conta-

rán en este supuesto, a partir de la publicación

oficial del resultado del referéndum. 4. El resul-

tado del referéndum se impone a todos los ciu-

dadanos y a todos los órganos del Estado. 5. Una

ley orgánica regulará las condiciones del refe-

réndum legislativo y del constitucional, así como

la iniciativa popular a que se refiere el presente

artículo y la establecida en el artículo 80.

Este texto, que tenía en España el pre-cedente del artículo 6 de la Constitución de1931, resultó modificado parcialmente porla Ponencia constitucional y experimentóuna completa transformación a su paso porla Comisión de Asuntos Constitucionales yLibertades Públicas en virtud de unaenmienda «in voce» presentada por eldiputado Solé Tura pero apoyada por todoslos Grupos salvo el de Alianza Popular, deacuerdo con la cual «1. Las decisiones polí-ticas de especial trascendencia podrán sersometidas a referéndum consultivo detodos los ciudadanos. 2. El referéndum seráconvocado por el Rey con refrendo del Pre-sidente del Gobierno y previo debate delCongreso de los Diputados. 3. Una ley orgá-nica regulará las condiciones y el procedi-miento de las distintas modalidades dereferéndum previstas en esta Constitu-ción». Esta es, en esencia, la redacción queacogerá el texto definitivo en el artículo 92.

La explicación de este profundo cambioen el debate constituyente la encontramosen boca de los propios parlamentarios:«estamos a favor de la democracia directa,pero el referéndum puede implicar lamanipulación de la pregunta que se hace alpueblo y puede constituir, como en Italia,un práctica antidemocrática» (PecesBarba).

Como recuerda Cruz Villalón23, a losconstituyentes españoles les parecieronespecialmente preocupantes los resultadosdel referéndum italiano de 11 de junio sobrela Ley de financiación de los partidos polí-ticos, a favor de cuya derogación se pronun-ciaron el 43% de los votantes.

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6. Conclusiones

En estas páginas hemos visto que la pre-sencia del constitucionalismo italiano hasido extraordinariamente importante en elproceso constituyente español. Es verdadque su influencia ha de situarse en un con-texto más amplio de recepción de institu-ciones procedentes de otros sistemas, sin-gularmente el alemán, y de la propia histo-ria constitucional española y que, además,como por otra parte es lógico, no se hanincorporado de manera mecánica, sinoadaptándolas a las necesidades del momen-to y a las posibilidades políticas y sociales.

También se puede concluir que el des-arrollo posterior de esas recepciones haseguido un camino propio y, en ocasiones, hagenerado unos resultados muy diferentes alos acontecidos en el sistema de origen.

En todo caso, también hemos constata-do que la vitalidad de las conexiones cons-titucionales italo-españolas no ha hechosino aumentar en los treinta años transcu-rridos desde 1978 y que ambos constitucio-nalismos se relacionan e influyen con flui-dez, tanto en el ámbito normativo-institu-cional como en las esferas doctrinal y juris-prudencial.

En suma, un constitucionalista españoldifícilmente podrá comprender algunos delos elementos estructurales del Estadosocial y democrático de derecho que naceen 1978, y del euroconstitucionalismo engeneral, sin estudiar su conexión con elentramado normativo-institucional y doc-trinal que emana de la vigente Constituciónde la República italiana.

Presno Linera

67

1 Politica del Diritto, IX, nº 3, 1978,

pág. 330.2 Sobre la europeización de los

constitucionalistas nacionales y

de los tribunales constituciona-

les véase Peter HÄBERLE en

Veröffentlichungen der Vereinigung

der Deutschen Staatsrechtslehrer

(VVDStRL), 50, 1991, p. 156 ss.;

este autor aboga por una «her-

menéutica común europea»,

VVDStRL, 53, 1994, p. 115 ss.

Sobre la estructuración de una

«offene Gesellschaft der Verfas-

sungsinterpreten», véase, del

mismo autor, Die Verfassung der

Pluralismus, Königstein/TS,

1980, pp. 69 y ss.

Konrad HESSE sostuvo que la

interpretación constitucional no

puede hacerse de manera aisla-

da, prescindiendo de la dimen-

sión europea del derecho cons-

titucional; véase «Stufen der

Entwicklung der deutschen Ver-

fassungsgerichtsbarkeit», Jahr-

buch des Öffentlichen Rechts der

Gegenwart, Peter Häberle

(Hrsg.), Neve Folge, Band 46,

1998.

Sobre los derechos en Europa y

los tribunales, Sergio PANUN-

ZIO (Coord.), I diritti fondamen-

tali e le Corti in Europa, Jovene

Editori, Nápoles, 2005.3 Es el caso por ejemplo, de For-

mas de gobierno y sistemas electo-

rales (la experiencia italiana y

española), (coordinadores

Gerardo Ruíz-Rico y Silvio Gam-

bino), Universidad de

Jaén/Tirant lo Blanch, Valencia,

1997. 4 Toda la jurisprudencia del Tri-

bunal Constitucional puede con-

sultarse en http://www.tribunal-

constitucional.es 5 Disponible en http://www.tribu-

nalconstitucional.es/jurispru-

dencia/Stc2008/STC2008-

12.html 6 Una prueba adicional de este

interés por la jurisprudencia ita-

liana es la próxima publicación,

por el profesor Roger Campione

y por quien firma estas páginas,

de una edición comentada de las

sentencias básicas de la Corte

Costituzionale italiana, que será

editada por el Centro de Estu-

dios Políticos y Constituciona-

les. 7 Véase su estudio «Alcune rifles-

sioni metodologiche sulla storia

costituzionale», Giornale di Sto-

ria Costituzionale, nº 12, 2006,

págs. 15 y sigs.; también «Algu-

nas reflexiones metodológicas

sobre la historia constitucio-

nal», Revista Electrónica de His-

toria Constitucional, nº 8, 2007,

disponible en http://hc.rediris.

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Fondamenti

68

es/08/articulos/html/Nume-

ro08.html 8 La curiosidad del jurista persa y

otros estudios sobre la Constitu-

ción, CEPCO, Madrid, 2006, 2ª

edición, págs. 77 y sigs. 9 Santiago VARELA: «La Consti-

tución española en el marco del

Derecho constitucional compa-

rado», Lecturas sobre la Constitu-

ción española, Tomás Ramón

Fernández (ed.), 1978, págs. 13 y

sigs.10 Pueden consultarse todos los

trabajos constituyentes en la

página del Congreso de los

Diputados: http://www.congre-

so.es/portal/page/portal/Con-

greso/Congreso/Iniciativas/ 11 «Algunas reflexiones metodoló-

gicas sobre la historia constitu-

cional», cit.; también en el nº 12

del Giornale di Storia Costituzio-

nale. 12 Este Senador dice que «en estos

momentos nosotros tenemos

delante el ejemplo trágico y

decisivo de lo que está ocurrien-

do en Italia, cuando los Jurados

tienen que verse ante delin-

cuentes pertenecientes a las lla-

madas Brigadas Rojas. Hace dos

años, en Turín concretamente,

se iba a juzgar a unos miembros

de una de estas bandas y ellos se

negaron a ser defendidos por los

abogados y a ser juzgados por los

Jurados, diciendo que si los abo-

gados defendían y si los Jurados

juzgaban, los considerarían

como siervos del Estado, y aten-

tarían contra sus vidas. El Deca-

no de Turín, haciendo honor a la

entrega que cualquier abogado

tiene hacia su profesión, asumió

el riesgo de la defensa, y pocos

días después este Decano de

setenta y tres años, en el

momento de salir de su despa-

cho, fue cobarde y vilmente ase-

sinado por los miembros de las

Brigadas Rojas. Llegó el

momento del juicio y, a pesar de

lo que le había ocurrido al Deca-

no, los abogados se presentaron

allí para ejercer, contra la volun-

tad de los miembros de las Bri-

gadas acusados, su ministerio de

defensa. Quienes no se presen-

taron fueron los jurados. Ni un

sólo miembro del Jurado se pre-

sentó allí, porque es natural que

al ciudadano se le puedan exigir

en tiempo de paz determinados

sacrificios, pero no se le puede

exigir el heroísmo». 13 Los llamados «padres de la

Constitución» (Gabriel Cisne-

ros, Manuel Fraga, Miguel

Herrero de Miñón, Gregorio

Peces Barba, José Pedro Pérez-

Llorca, Miquel Roca y Jordi Solé

Tura) han contado su experien-

cia en diversas obras publicadas

al celebrarse determinados ani-

versarios constitucionales: por

ejemplo, en La Constitución espa-

ñola de 1978: 20 años de democra-

cia, CECPO, Madrid, 1998, en la

que se incluye un trabajo titula-

do «Veinte años después: refle-

xiones de los padres constitu-

yentes»; también en Reflexiones

de los ponentes de la Constitución

española 1978-2003: 25 aniversa-

rio de la Constitución, Senado-

Aranzadi, 2003 y en La Constitu-

ción en el Parlamento 1977-1978,

Congreso de los Diputados,

Madrid, 2003.

El senador y catedrático de

Derecho Administrativo, Loren-

zo MARTÍN RETORTILLO,

publicó Materiales para una

Constitución (Los trabajos de un

profesor en la Comisión Constitu-

cional del Senado), Akal, Madrid,

1984. 14 El precepto referido a los parti-

dos políticos no sufrió grandes

modificaciones a lo largo de los

debates constituyentes: el texto

del Anteproyecto de Constitu-

ción («Los partidos expresan el

pluralismo democrático, concu-

rren a la formación y manifesta-

ción de la voluntad popular y son

instrumento fundamental para

la participación política. Se for-

man y ejercen su actividad libre-

mente dentro del respeto a la

Constitución y a la ley.») fue

ligeramente retocado en el

Informe de la Ponencia («Su

creación y el ejercicio de su acti-

vidad son libres dentro del res-

peto a la Constitución y a la

ley»); en el debate de la Comi-

sión de Asuntos Constituciona-

les y Libertades Públicas se

introdujo, a inicitiva del Dipu-

tado Tierno Galván, la exigencia

de que «su estructura interna y

funcionamiento deberán ser

democráticos). Finalmente, en

el debate de la Comisión de

Constitución del Senado, y como

consecuencia de una enmienda

del Senador Ollero, se sustituyó

la dicción «pluralismo demo-

crático» por la expresión «plu-

ralismo político»; véase la Cons-

titución española. Trabajos parla-

mentarios, Publicaciones de las

Cortes Generales, Madrid, 1980,

Tomo I, págs. 8, 507 y 911; Tomo

III, pág. 3096. 15 En Italia, Alessandro PACE: Pro-

blematica delle libertà costituzio-

nali. Parte speciale, Cedam,

Padua, 1992 (seconda edizione),

págs. 363 y sigs., y Paolo RIDO-

LA: «Le regole costituzionali del

pluralismo politico e le prospet-

tive del diritto dei partiti», Giu-

risprudenza costituzionale, nº 4,

1993, pág. 2060.

En España, Francisco José BAS-

TIDA FREIJEDO: «La relevan-

cia constitucional de los partidos

políticos y sus diferentes signi-

ficados. La falsa cuestión de la

naturaleza jurídica de los parti-

dos», en Derecho de partidos,

José Juan González Encinar

(Coordinador), Espasa, Madrid,

1992, págs. 69 y sigs.; Javier

JIMÉNEZ CAMPO: «Sobre el

régimen jurídico-constitucional

de los partidos políticos», en

Jornadas de estudio sobre el Título

Preliminar de la Constitución,

Ministerio de Justicia, Madrid,

1988, vol. III, pág. 1630, y

Miguel Ángel PRESNO LINERA:

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Presno Linera

69

Los partidos y las distorsiones jurí-

dicas de la democracia, Ariel,

Barcelona, 2000, págs. 42 y sigs. 16 En la citada resolución advierte

el Alto Tribunal que «se corre el

riesgo de frustrar la finalidad

señalada en la norma constitu-

cional si las Cámaras, a la hora

de efectuar sus propuestas, olvi-

dan el objetivo perseguido y,

actuando con criterios admisi-

bles en otros terrenos, pero no

en éste, atienden sólo a la divi-

sión de fuerzas existente en su

propio seno y distribuyen los

puestos a cubrir entre los distin-

tos partidos, en proporción a la

fuerza parlamentaria de éstos. La

lógica del Estado de partidos

empuja a actuaciones de este géne-

ro, pero esa misma lógica obliga a

mantener al margen de la lucha de

partidos ciertos ámbitos de poder y

entre ellos, y señaladamente, el

Poder Judicial.» (fj. Decimoter-

cero) [la cursiva es nuestra].

Sobre esta cuestión nos hemos

ocupado en Los partidos y las dis-

torsiones jurídicas de la democra-

cia, Ariel, Barcelona, 2000,

págs. 176 y sigs; previamente,

Giancarlo ROLLA Indirizzo políti-

co e Tribunale costituzionale in

Spagna, Napoli, 1986.17 Storia costituzionale italiana.

Dallo Statuto Albertino alla Repub-

blica (1848-2001), Carocci edito-

re, Roma, 2002, pág. 267. 18 1. Le Cortes Generali potranno

delegare al Governo la potestà di

dettare norme con grado di legge

su determinate materie non

incluse nel precedente articolo.

2. La delegazione legislativa

dovrà essere concessa mediante

una legge di principi quando il

suo oggetto sia la formazione di

nuovi testi redatti in articoli o

tramite una legge ordinaria

quando si tratti di rifondere vari

testi legali in un testo unico. 3.

La delegazione legislativa dovrà

concedersi al Governo in forma

espressa, per materia definita e

con determinazione del termine

per il suo esercizio. La delega-

zione si esaurisce attraverso

l’uso fattone dal Governo trami-

te la pubblicazione delle relative

norme. Non potrà intendersi

concessa in modo implicito o per

tempo indeterminato. Neppure

potrà essere permessa la subde-

legazione ad autorità distinte dal

Governo. 4. Le leggi di principi

delimiteranno con precisione

l’oggetto e gli obiettivi della

delegazione legislativa e i princi-

pi e criteri da seguirse nel suo

esercizio. 5. L’autorizzazione per

rifondere testi legali determine-

rà l’ambito normativo a cui si

riferisce il contenuto della dele-

gazione, specificando se si limi-

ta alla mera formulazione di un

testo unico o se comprende il

riordinamento, la chiarificazio-

ne e l’armonizzazione dei testi

legali che debbono essere rifor-

mulati. 6. Senza pregiudizio

della competenza propria dei

Tribunali, le leggi di delega

potranno in ogni caso stabilire

formule addizionali di controllo.19 Ignacio GUTIÉRREZ GUTIÉ-

RREZ: Los controles de la legisla-

ción delegada, CEC, Madrid,

1995, p. 100. 20 Ignacio ASTARLOA HUARTE-

MENDICOA: «Artículo 86.

Decretos-Leyes», Comentarios a

las Leyes Políticas, dirigidos por

Óscar Alzaga, Tomo VII, artícu-

los 81 a 96, Editoriales de Dere-

cho Reunidas, Madrid, 1985,

pág. 154.21 Como es conocido, la Constitu-

ción italiana dispone lo siguien-

te: «Il Consiglio superiore della

magistratura è presieduto dal

Presidente della Repubblica. Ne

fanno parte di diritto il primo

presidente e il procuratore

generale della Corte di cassazio-

ne. Gli altri componenti sono

eletti per due terzi da tutti i

magistrati ordinari tra gli appar-

tenenti alle varie categorie, e per

un terzo dal Parlamento in sedu-

ta comune tra professori ordina-

ri di università in materie giuri-

diche ed avvocati dopo quindici

anni di esercizio Il Consiglio

elegge un vice-presidente fra i

componenti designati dal Parla-

mento. I membri elettivi del

Consiglio durano in carica quat-

tro anni e non sono immediata-

mente rieleggibili. Non posso-

no, finché sono in carica, essere

iscritti negli albi professionali,

né far parte del Parlamento o di

un Consiglio regionale (artículo

104).

Spettano al Consiglio superiore

della magistratura, secondo le

norme dell’ordinamento giudi-

zario, le assunzioni, le assegna-

zioni ed i transferimenti, le pro-

mozioni e i provvedimenti disci-

plinari nei riguardi dei magis-

trati (artículo 105)». 22 Diego ÍÑIGUEZ HERNÁNDEZ:

El fracaso del autogobierno judi-

cial, Civitas, 2008.23 «El referéndum consultivo

como modelo de racionalización

constitucional», en La curiosi-

dad del jurista persa y otros estu-

dios sobre la Constitución, cit.,

pág. 270.

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1. Il valore della costituzione italiana

Si può individuare negli anni Quaranta del

Novecento l’origine, nella storia italiana più

recente, del rapporto tra idea di “costitu-

zione” e idea di Europa. Nel 1941 Altiero

Spinelli e Ernesto Rossi scrissero il cd.

Manifesto di Ventotene. Un documento che

denunciava nella volontà di dominio degli

Stati nazionali la ragione principale della

catastrofe mondiale e scorgeva nella pro-

spettiva “federalistica” lo strumento per

una riforma sociale ed economica dell’Eu-

ropa. «Gli spiriti – scriveva Spinelli - sono

già ora molto meglio disposti che in passa-

to ad una riorganizzazione federale dell’Eu-

ropa. La dura esperienza degli ultimi

decenni ha aperto gli occhi anche a chi non

voleva vedere, ed ha fatto maturare molte

circostanze favorevoli al nostro ideale»

(Cfr. http://www.altierospinelli.org/mani-

festo/en/manifesto1944en_it.html.). Nel

1943 Altiero Spinelli, dopo sedici anni di

prigionia, fondò il Movimento Federalista

Europeo. Fermo sostenitore dell’idea fede-

rale1, Spinelli ha ben rappresentato una

certa visione dell’Europa. Questa attitudi-

ne “italiana”, non priva di elementi utopi-

stici, ha certamente lasciato un imprinting

nel modo di guardare il processo di forma-

zione europea.

L’idea di Europa accompagna, se così si

può dire, l’idea di costituzione. Nel dopo-

guerra bisognava ricostruire l’Italia attor-

no a valori, principi, regole sufficiente-

mente condivisi. La costituzione del 1948

non poté attingere, se non in misura limi-

tata, alle tradizioni costituzionali dello

Stato liberale2. Il crollo del regime fascista

e la catastrofe della guerra avevano mostra-

to le debolezze tanto della via italiana verso

71

La tradizione costituzionale italiana e ildibattito sulla “Costituzione europea”*

luigi lacchè

giornale di storia costituzionale n. 16 / ii semestre 2008

* Pubblico la traduzione italiana del paper presentato in

occasione del seminario di studio National Constitutional

Traditions and European Constitutionalism, organizzato dal

prof. Alain Wijffels e dal Legal History Committee of the

Royal Academy presso la Koninklijke Academie van België voor

Wetenschappen en Kunsten (Bruxelles, 12 Dicembre 2008).

La versione originale, in inglese, uscirà negli Atti dell’Ac-

cademia reale del Belgio.

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lo stato unitario che dei valori spiritualidella nazione. Furono la prova terribiledella guerra e delle sue tragedie, la resi-stenza al nazi-fascismo, la presa dicoscienza del valore supremo della libertàa porre le premesse per un ripensamentoradicale delle condizioni di esistenza dellanazione italiana. Bisognava ricostruire loStato e la comunità partendo dalla costitu-zione. Non poteva essere certo lo Statuto

albertino, costituzione octroyée del 1848,sabauda prima, italiana poi, a rifondare ilnuovo Stato. Figlio del costituzionalismomonarchico, sfigurato sotto il fascismo, loStatuto fu messo a tacere per sempre con lasvolta repubblicana del 1946.

La costituzione del 1948 doveva nasceresu tutt’altre fondamenta. Fu la prima voltache il potere costituente si manifestò nellastoria italiana in tutta la sua forza e con ine-vitabili tratti nuovi rispetto ai fatti costituen-ti del 18483. Il 2 giugno 1946 nacqueroinsieme la Repubblica e l’Assemblea costi-tuente.

La costituzione che sorse dai lavori dellaCostituente sancì il netto primato del “poli-tico”. Le forze organizzate – i partiti politi-ci – riuscirono a definire un indirizzo fon-damentale proiettato verso il futuro. Il plu-ralismo fu la chiave di volta dell’architettu-ra costituzionale. Al centro i valori della per-sona e della dignità umana, non isolatamen-te però, ma nella loro peculiare dimensio-ne sociale. È una costituzione che sul pianodei principi fondamentali ha saputo opera-re una sintesi efficace in grado di valorizza-re gli elementi comuni e affermare i valorieffettivi del popolo italiano4. Il valore dellacostituzione risiede proprio nella pluralitàunificante dei valori in essa custoditi. Iprincipi fondamentali sono l’espressione diuna concezione della democrazia che intrec-

cia strettamente la dimensione politica conquella sociale ed economica.

Mentre il tempo della politica, segnatodalla assoluta centralità dei partiti politicie del loro ruolo “istituzionale” nella demo-crazia parlamentare, dividerà ben presto(a partire dal 1947, con il quarto governoDe Gasperi) i protagonisti della Resisten-za, escludendo dal governo i comunisti e isocialisti uniti dal patto d’azione, il tempo

della costituzione continuerà a svolgere unafunzione aggregante. Lo spazio della legitti-

mità costituzionale (Bonini 2007) ha dun-que giocato in Italia un ruolo di integra-zione che la politica non è sempre riuscitaa svolgere. Questa attitudine ha contribui-to a rafforzare e “neutralizzare”5 la costitu-zione e vincere, non senza notevoli diffi-coltà, gli ostacoli frapposti all’attuazionecostituzionale dalla oggettiva situazionepolitica interna e internazionale.

Si può dire che in Italia la costituzioneè stata per lungo tempo – superata la fasedei primi anni di totale inattuazione e del-l’iniziale scetticismo delle stesse forze disinistra (per tutti De Siervo 2004) - unluogo di incontro e di inclusione. Solo apartire dalla crisi dei partiti fondatori dellarepubblica (i “portatori” della costituzio-ne) nei primi anni Novanta, il tempo della

costituzione ha cominciato a entrare in unafase ulteriore segnata da una stagione diriforme costituzionali invocate, promesse,ma sostanzialmente mai realizzate.

La costituzione italiana – di cui que-st’anno celebriamo i sessant’anni – è forsetra le costituzioni del dopoguerra quella chepiù ha accentuato il profilo nuovo del costi-tuzionalismo liberal-democratico e socia-le attribuendo ai principi e ai valori unospazio giuridico particolarmente pronun-ciato che ha poi orientato, certo non senza

Fondamenti

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contraddizioni e difficoltà, la lunga fasedella attuazione. È quello che Giorgio LaPira ha chiamato l’architettonica fonda-mentale della costituzione, ovvero quelprincipio organico pluralista «che dà ildovuto rilievo giuridico e costituzionale allapersona, allo Stato, ed ai gruppi intermediche si pongono fra la persona e lo Stato»(La Pira 1998, p. 1171). La sfera dei diritti hasvolto – come era stato compreso dai piùlucidi tra i costituenti - una netta funzionedi indirizzo. L’istituzione della Corte costi-tuzionale nel 1955 e la sua attività neidecenni successivi ha rappresentato ilmomento cruciale per affermare il prima-to effettivo della norma costituzionale (rin-vio a Lacchè 2006).

La costituzione del 1948 ha fondatodunque una forte tradizione “istituziona-le”. La prima parte del testo, in particola-re, ha avuto il merito di registrare e dicustodire i valori di una società da rico-struire e da far crescere nel pluralismo dellademocrazia. Ha affermato una vera e pro-pria cultura della costituzione e con essa unaarticolata cultura dei diritti. Se chiedessimoall’”uomo della strada” di parlarci dellacostituzione probabilmente saprebbe farloin maniera molto approssimativa. Se perògli chiedessimo se si riconosce nei valori,nei principi e nei diritti fondamentali inessa contenuti, la risposta sarebbe in buonamisura affermativa. È questo che, malgré

tout, continua a legittimare la costituzione.

2. La tradizione costituzionale italiana e le

tradizioni costituzionali comuni

Questa nuova tradizione costituzionale ita-liana si inserisce in forma originale nel per-

corso del costituzionalismo europeo del

Novecento. Lo Stato costituzionale afferma

i valori democratici, i diritti e le libertà, li

promuove, li garantisce. Questo tipo di Stato

conserva le peculiarità nazionali ma non può

più essere il palcoscenico esclusivo e assor-

bente della vita dei cittadini. La pagina cru-

dele dei totalitarismi ha messo in guardia

dai rischi legati all’idolatria dello Stato. Non

viene meno il senso di appartenenza nazio-

nale ma la dimensione sovranazionale appa-

re da subito come il terreno per costruire, a

cominciare da forme di partenariato econo-

mico, legami e vincoli reciproci.

Come sappiamo, l’Europa mosse i primi

passi proprio dalla convinzione comune

agli Stati fondatori che la pace potesse

diventare una realtà per il futuro solo pro-

muovendo forme crescenti di interdipen-

denza. Piero Calamandrei, nel 1945, auspi-

cava che la futura costituente potesse rece-

Lacchè

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Guareschi alle elezioni del 1948: “Dio ti vede, Stalin no”.

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pire un forte indirizzo democratico comebase di un appetitus foederationis. «Il prin-cipio centrale della democrazia più chenella libertà sta nella solidarietà: nella

«interdipendenza» piuttosto che nella indi-

pendenza. Per questo, se il popolo italianoriuscirà a darsi nella costituente un ordi-namento interno veramente democratico,avrà in ciò creato anche un organismo inter-

nazionalmente socievole, cioè disposto e ido-neo, per naturale sviluppo dei principî dacui è animato, a rifuggere dal nazionalismoed a sentire quella solidarietà tra i popoliche spinge a cercare intese e vincoli in unacomunità internazionale più vasta dellanazione» (Calamandrei 1945, p. 167).

Questa capacità di proiezione sovrana-zionale è affermata da un lungimirante arti-colo della costituzione italiana, l’art. 11,secondo il quale «L’Italia ripudia la guerracome strumento di offesa alla libertà deglialtri popoli e come mezzo di risoluzionedelle controversie internazionali; consen-te, in condizioni di parità con gli altri Stati,alle limitazioni di sovranità necessarie adun ordinamento che assicuri la pace e lagiustizia fra le Nazioni; promuove e favori-sce le organizzazioni internazionali rivoltea tale scopo». In questo articolo avvertiamol’eco dell’istanza pacifista ma anche laricordata ispirazione federalistica6.

Non c’è dubbio che il problema crucia-le della costruzione europea, tanto più si èproceduto sulla strada dell’Unione, è statoquello di conciliare due concetti – l’unità ela diversità (Lacchè 2003) – che nella sto-ria moderna del potere difficilmente hannotrovato un effettivo equilibrio. Il presiden-te della Convenzione sul futuro dell’Euro-pa, l’ex-presidente francese Valery Giscardd’Estaing, nel suo discorso di apertura (26febbraio 2002) pose come condizione per il

successo dei lavori l’individuazione di un«concept porteur d’unité pour notre con-tinent et de respect pour sa diversité»7. Ciòidentifica prima di tutto la lunga durata diuna tensione fondativa dell’identità (sulpunto v. soprattutto De Giovanni 2001) del-l’Europa. La dialettica tra ciò che unisce eciò che divide, la ricerca di una forma e diun ordine politico, l’individuazione di valo-ri e di principi comuni sono perciò elemen-ti da mettere in primo piano.

Francisco Tomàs y Valiente, grande sto-rico del diritto, presidente del Tribunalecostituzionale spagnolo, assassinato nel 1996dal terrorismo basco, aveva parlato nel corsodegli anni Ottanta, del costituzionalismocome di un nuovo diritto comune8 formato inparticolare da alcuni diritti fondamentaliriconosciuti e garantiti attraverso la giuri-sprudenza dei Tribunali costituzionali e dellaCorte europea dei diritti. La Corte di giusti-zia ha fatto ricorso ai principi generali deri-vanti dalle «tradizioni costituzionali comu-ni agli Stati membri» dando vita ad un insie-me di decisioni incentrate sulla tutela deidiritti fondamentali. È sul terreno dei prin-cipi e delle «tradizioni costituzionali comu-ni» che è apparso possibile elaborare un“nuovo diritto comune” a due dimensioni.Da un lato un “patrimonio” che consolida ilpassato e quindi affonda anzitutto nelle tra-dizioni nazionali, dall’altro uno spazio di

comunicazione, in grado cioè di guardare alfuturo indipendentemente dall’evoluzionedel diritto posto dai trattati o, in altra pro-spettiva, da un Trattato-Costituzione.

Questo lavoro di dissodamento e di evi-denziazione del “patrimonio costituziona-le comune” (Pizzorusso 2002) resta unaprospettiva stimolante. In questo contesto,la storia e la comparazione costituzionalepossono offrire un importante contributo

Fondamenti

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anche se, su scala europea, resta ancoramolto da fare9.

La prospettiva concreta di un diritto

comune del costituzionalismo non può pre-scindere da una analisi più complessa, arti-colata e rigorosa delle tradizioni comuni,anche in termini di Sonderwege, special-mente alla luce dell’allargamento del-l’Unione a paesi che solo da pochi annihanno potuto accogliere i valori e i princi-pi fondamentali dello Stato costituzionale.L’espressione tradizioni costituzionali comu-

ni – coniata dalla giurisprudenza del Lus-semburgo e fatta propria dal “legislatore”europeo - pone il problema di identificarele due dimensioni: quella storico-tradizio-nale10 e quella comune. La rigidità costitu-zionale, il carattere inviolabile delle liber-tà fondamentali, il judicial review, il ruolorafforzato dei giudici sono da annoveraretra i capisaldi di quelle tradizioni.

Le Corti di giustizia hanno assorbito ilpatrimonio di principi e di garanzie comu-ne agli Stati membri, arricchendolo e svi-luppandolo. Le vicende della Carta deidiritti fondamentali dell’Unione hannorivelato però tutta la difficoltà insita nelmomento della scrittura. Le tradizionicostituzionali si sono dimostrate partico-larmente vitali fin quando hanno operatonel circuito delle Corti proponendosi comeuna sorta di fluido costituzionale (principigenerali del diritto comunitario) e un effi-cace motore d’integrazione. È un sistema,questo delle tradizioni costituzionali, chesembra esprimere al meglio il suo dinami-smo grazie all’efficacia dell’interpretatio

iuris, in grado di operare indipendente-mente dalla parallela evoluzione del dirit-to fondato sui trattati. Parlerei dunque diuna autonomia delle tradizioni costituzio-nali che andrebbe salvaguardata e non irri-

gidita, proprio per corrispondere meglioalla dialettica unità/diversità.

Tradizioni comuni, ma non uniche nésemplicemente trascrivibili in cataloghi. Selo scopo della scrittura dei diritti è soprat-tutto quello di armonizzare e mettere insintonia (specie in una Europa con venti-sette Stati membri), non bisogna dimenti-care che la ricerca di un “diritto comuneeuropeo” rinvia in ultima istanza ad unastruttura che va oltre l’ordine comunitariointeso in senso formale e rimanda ad uncircuito virtuoso che impegna una plurali-tà di soggetti (Stati, corti costituzionali,istituzioni comunitarie, corti europee)(Mertens de Wilmars 1995, pp 13 ss). Il plu-

ralismo delle fonti e delle forme riflettemeglio la complessità della costituzionemateriale europea. Il pluralismo, a mioavviso, interpreta meglio la profondità delletradizioni costituzionali comuni. Il tenta-tivo di dare maggiore visibilità all’architet-tura costituzionale europea ha messo inchiaro la difficoltà di dichiarare e di affer-mare i principi costituzionali intesi comepatrimonio comune. Pluralismo, comples-sità, profondità, visibilità: muovendo daquesti concetti possiamo porci il problemadella costituzione europea.

3. Il nome e la cosa. Alla ricerca della costitu-

zione europea

Come è noto, le Presidency Conclusions delgiugno 2007 hanno dato mandato allaIntergovernmental Conference di elabora-re un “Reform Treaty” che modificasse iTrattati esistenti. In quella sede si è affer-mato che «The constitutional concept,which consisted in repealing all existing

Lacchè

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Treaties and replacing them by a single textcalled “Constitution”, is abandoned»11. IlTrattato, firmato a Lisbona il 18 dicembre2007, ha dato applicazione al mandato met-tendo fine all’uso della parola costituzioneche ha infiammato il dibattito europeo dallaCarta di Nizza in poi.

Sulla scorta della giurisprudenza dellaCorte di Giustizia una parte autorevole delladottrina italiana (per una sintesi Calvano2004) aveva riconosciuto per tempo l’esi-stenza di una costituzione europea fondatasui trattati e sulle decisioni della Corte aprescindere dall’esistenza di un testo uni-tario. La dichiarazione di Laeken del 2001e l’avvio del “processo costituente” che haportato al “Trattato che adotta una Costitu-zione per l’Unione Europea” hanno sposta-to l’asse della discussione. Si è così assisti-to ad un forte investimento nell’uso di paro-le e di categorie proprie del lessico delcostituzionalismo che ha fatto pensare – inItalia in una prospettiva di prevalente favo-re se non di entusiamo – a nuovi orizzonti.Il “processo costituente” avrebbe dovuto inprimo luogo razionalizzare e semplificarela selva dei trattati, porre argini al cd. “defi-cit democratico” dell’Unione, riconosceree rafforzare l’identità europea. La parolacostituzione avrebbe potuto ridare slancioad una politica europea in crisi di identità(De Fiores 2008).

Coloro che hanno iniziato tra il 2001-2002 il “progetto costituzionale” europeousando il lessico e la semantica del costi-tuzionalismo non erano forse del tuttoconsapevoli dei possibili effetti innescatidall’uso retorico12. Quell’idea di costitu-zione è così ricca di riferimenti e di impli-cazioni da risultare nel contempo troppoambigua e troppo forte. Il ricorso alla cate-goria della convenzione, l’idea di fare una

costituzione richiamavano tradizioni cari-che di storia e di simbolismi. Ne consegui-va, tra l’altro, uno scarto paradossale tral’uso delle parole e il senso delle cose: sifaceva un Trattato costituzionale – consi-stente in una consolidazione - ma si vole-va dire che era un «testo costituzionale»13.

Il materiale selezionato e consolidatonon possedeva certo per intero i caratteridi una costituzione; la tecnica utilizzatarispondeva in prevalenza alla logica dellalegislazione comunitaria e dello stile“internazionalistico”. L’uso delle paroletuttavia sollecitava la visione costituziona-le. Questo procedere, inevitabilmentecompromissorio, ha finito per ingenerareequivoci che hanno coinvolto sia coloro chevolevano fortemente la costituzione, siacoloro che non la volevano perché ciòavrebbe significato alcune cose ben preci-se. Chi conosce il dibattito sull’idea dicostituzione nell’Europa del primo Otto-cento sa che l’uso delle parole non è solodescrittivo ma anche performativo14. Usareil sintagma Charte constitutionnelle nellaFrancia del 1814 anziché la “rivoluziona-ria” constitution ha un preciso significato15,così come il termine Landständische Ver-

fassung nella Germania del 1815 o Statuto

costituzionale nel ‘48 italiano. Il Trattato

costituzionale o Trattato-costituzione inten-deva coniugare elementi materiali e tecni-che giuridiche eterogenei fondendoliassieme attraverso il ricorso a una fortedimensione retorica e simbolica che, allaprova dei fatti, non ha resistito.

Questa dimensione faceva leva sullacostruzione di una identità comune chemolto attingeva dal linguaggio del costitu-zionalismo degli Stati. Si pensi ai due Prem-boli, ai tre cataloghi di valori che il Trattatoconteneva, all’introduzione dei simboli clas-

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sici: bandiera, motto, inno e festa dell’Unio-ne. C’e chi ha osservato non senza ragioneche «Di fronte alla relativa mancanza dicoraggio nell’affrontare il deficit di legitti-mità delle istituzioni europee, l’audacia nel-l’evocare una presunta identità collettiva fasorgere un dubbio maligno: che cioè si voles-se recuperare sul lato dell’identità quantonon si voleva concedere – nello spirito di unproblematico neo-elitismo – sul versantedella partecipazione democratica» (Della-valle 2008). Il Trattato di Lisbona riprende,con modifiche anche sensibili, la strada dellariforma della struttura dei poteri dell’Unio-ne e della loro legittimazione. Ma è propriosul terreno retorico-simbolico della costi-tuzione che cade la scure in attuazione delmandato del giugno 2007.

Il problema dell’identità non può certoessere sottovalutato. In Italia, non a caso,ha avuto un grande risalto la querelle che,dalla metà degli anni Novanta, ha contrap-posto due grandi intellettuali tedeschi,Dieter Grimm e Jürgen Habermas (per es.Grimm 1996; Grimm 2004, pp. 163 ss.;Habermas 1996; Habermas 2001). Temacentrale il rapporto tra demos europeo eidea di costituzione. Si è trattato di undibattito che ha in qualche modo definitol’agenda politica e le due principali visio-ni che poi hanno trovato in Italia moltespecificazioni e varianti dando vita a quel-lo che è stato anche definito un dialogo trasordi (Luciani, Costituzionalismo irenico).

Chi ha messo in guardia sull’uso dellaparola costituzione rispetto al dirittocomunitario ha voluto segnalare l’incon-gruenza di un “discorso costituzionale” chenon può ancora fondarsi su un atto di auto-determinazione del popolo, su una identi-tà collettiva intesa come senso di apparte-nenza, su una compiuta legittimazione

democratica. Chi, invece, ha sottolineatol’originalità del processo di “costituziona-lizzazione” europea, ha messo in luce l’im-possibilità di ricorrere ai paradigmi dellatradizione statuale per evocare un tipodiverso di potere costituente “pluralisti-co” in grado di enucleare dai trattati i prin-cipi e i valori fondamentali dell’Unione.Sarebbe il processo di integrazione costi-tuzionale il vero motore per la formazionedi una condizione minimale di cittadinan-za, di identità sociale, di partecipazionepolitica, di prassi discorsive, verso l’obiet-tivo di costruire un adeguato spazio pub-blico europeo16.

4. Che cosa dovrebbe essere la “costituzione

europea”?

L’ultimo decennio ha fatto emergere unapluralità di concezioni della costituzioneeuropea. Il Trattato di Lisbona ha messofine – almeno per il momento – al tenta-tivo “prometeico” (cfr. Gianformaggio1997, p. 533) di «adottare una costituzio-ne per l’Unione Europea». François Ost etMichel van de Kerchove hanno parlatodelle costituzioni scritte e delle Dichiara-zioni dei diritti come di «temps des fon-dations», tempi sacralizzati. Il tentativoeuropeo è stato facilmente desacralizzato.I referendum popolari che in Francia e inOlanda hanno “bocciato” la costituzione,che cosa hanno “bocciato” realmente? Il“troppo” o il “troppo poco” del Trattatocostituzionale? E l’Irlanda che si è dettacontraria al Trattato di Lisbona? Non èfacile rispondere, credo, tante sono leragioni concomitanti e confuse tra loro. Sein ambito europeo l’esercizio del potere

Lacchè

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costituente è diventato un esercizio giuri-dico di competenze, la legittimità costi-tuente dei popoli europei si è trasformatain un contro-potere suscettibile di oppor-si alla trasformazione dell’Unione (Maulin2007, pp. 82-83).

L’opinione pubblica italiana guardaall’Europa con un tendenziale atteggia-mento positivo, radicato nella storia del-l’integrazione europea. Per alcuni aspettil’Europa ha rappresentato un valoreaggiunto per il proprio sviluppo economi-co e sociale e in alcune circostanze ha svol-to una funzione – certamente inaccettabi-le per altre nazioni – di “vincolo esterno”.Negli ultimi quindici anni, tuttavia, hannocominciato a manifestarsi anche correntieuroscettiche volte a criticare la dimensio-ne burocratica, supernazionale, pervasivadell’Unione. L’adozione dell’euro e la con-seguente perdita di potere d’acquisto daparte di ampi strati sociali hanno certa-mente influito su questi mutamenti.

Dopo Lisbona, come si diceva, ripren-de ulteriore vigore la via funzionalista allacostruzione europea che ci dice o che unacostituzione esiste già o, viceversa, che nonpuò/deve esserci perché se l’Europa diven-ta costituzionale essa diventa uno Statofederale. Si può allora abbandonare la“retorica della costituzione” per riprende-re la strada della razionalizzazione, delmiglioramento delle prestazioni istituzio-nali, della governance multilevel e soprat-tutto dei meccanismi di legittimazione(Dellavalle 2008).

Su questa linea, si tende a sottolinearela “forza effettiva” del Trattato di Lisbonache salverebbe «quasi tutta la sostanza delTrattato costituzionale…» (Ziller 2007, p.48, richiamato da Patruno 2008. Cfr. anchePatruno 2006 e 2007). Con un paradosso: si

abbandona l’idea della costituzione, ma simette per iscritto il principio della supre-mazia del diritto comunitario su quellointerno, un principio motivato tradizional-mente dalla Corte di giustizia dell’Unionesulla base della qualificazione dei Trattaticome Carta costituzionale fondamentaledella Comunità (Patruno 2008). Questa“costituzione materiale” dell’Europa, soste-nuta dall’argomento dell’efficacia, non scio-glie però il dilemma della giustificazionedella supremazia se non alla luce di quelparadigma funzionale che si evolve nella«competitive social market economy».

È evidente che, dopo Lisbona, la stradadella costituzione intesa nell’accezione libe-ral-democratica come forma e sostanzacapace di ordinare e unificare, in unmomento dato, un corpo politico, è stataabbandonata per rimettere al centro l’idea diuna processualità costituzionale dell’Unioneche sarebbe nella realtà delle cose. La retori-ca della costituzione avrebbe voluto segnareuna discontinuità innescando un difficileprocesso di riequilibrio della struttura del-l’Unione sul fronte della dimensione costi-

tuente nella convinzione che si potesse crea-re una costituzione europea sulla base diparadigmi diversi, in parte o in tutto, rispet-to alle tradizioni costituzionali del Novecen-to. Si è pensato che bastasse un’ideologia dei

diritti, sempre più separati dai poteri nellafluidità del multilevel constitutionalism –secondo quello schema concettuale cheMassimo Luciani ha definito costituzionali-

smo irenico17 – per dare sostanza propria alprogetto costituzionale europeo.

Il dopo Lisbona sembra rimettere ilprocesso sulla rotta di un “costituzionali-smo” incentrato più sulle ragioni dell’ho-

mo oeconomicus che dell’homo politicus. Lascissione del sintagma Trattato-costituzio-

Fondamenti

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ne (con l’abbandono del secondo termine)sancisce per il momento, anche a livellosimbolico, una svolta che potrà anche nonessere radicale ma che tuttavia è sufficien-temente chiara nei suoi contorni. Questatendenza sancisce la prevalenza dei conte-nuti funzionali e, sul piano che ci interes-sa, riporta il discorso sul terreno del plura-

lismo e della fluidità di un costituzionalismo

materiale che poggia sulle tradizioni costi-tuzionali comuni.

Questa prospettiva, anche nel dibattitoitaliano, lascia irrisolto però il dilemma difondo. Se il Trattato-Costituzione è fallitoperché frutto di un compromesso impossi-bile, si deve riprendere la strada del Treaty

Reform (Lisbona) o si deve forse ritornare aporsi il problema “rimosso” che tocca il rap-porto inscindibile tra popolo, identità,sovranità, costituzione, democrazia? Inquesta prospettiva, secondo alcuni, solo laproduzione/attivazione di un demos euro-peo potrebbe ridare senso alla parola costi-tuzione colmando il deficit democratico inuna prospettiva di profonda trasformazioneistituzionale (cfr. l’ottima analisi di De Fio-res 2008).

È però difficile oggi immaginare chequesta possa essere la prospettiva per unfuturo ravvicinato. Tuttavia, il progettoeuropeo – che nel contesto costituzionaleitaliano ha avuto una indubbia importanza– deve ripartire da una consapevolezza chelo storico può contribuire a formare. Lacostituzione (scritta e non scritta) è stato lostrumento e la forma – pur nella diversitàdelle storie nazionali – per mediare tra lalogica assolutistica del potere e le ragioninaturali del diritto. Non c’è una storia deidiritti prima del potere e del potere primadei diritti. Sono la dialettica, il conflitto,l’intreccio, la mediazione a segnare la

dimensione relazionale del potere e deidiritti all’interno di una costituzione.

I diritti possono avere una forte dimen-sione storicistica in talune esperienzecostituzionali oppure una valenza più spic-catamente dichiarativa (in alcuni casi asso-lutamente istitutiva) in altre, ma in ognicaso non prescindono dagli assetti delpotere, dalle sue forme di organizzazione edi esplicazione. Il nodo di fondo restaquello del rapporto tra le classi dirigenti,ovvero la loro legittimazione a costruire“dall’alto” un’Europa meglio attrezzata perrispondere alle enormi sfide che ha difronte, e i corpi elettorali allorché questivengono chiamati in causa. Il corto circui-to tra un disegno razionale e organico (giu-sto o sbagliato, imperfetto o adeguato chesia) e le passioni della democrazia e deldemos – che si alimentano per lo più direaltà e di vita quotidiana – è sotto i nostriocchi (Lacchè 2005).

Il limite della struttura costituzionaleeuropea è quello di non essere ancora riu-scita a trovare un convincente nesso relazio-nale tra il momento ricognitivo delle tradi-zioni comuni e il momento della decisionepolitica, tra la forza vitale del costituziona-lismo dei diritti e il carattere autoreferen-ziale del circuito della legittimazione. Chela costituzione sia scritta oppure no, questoè il problema, e da qui bisogna ripartire.

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Lacchè

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1984. Su Mario Albertini, gran-

de studioso del federalismo e del

problema dell’unità europea,

Terranova 2003. Sui progetti di

Umberto Campagnolo v. Losano

2003. 2 E, a ben vedere, anche ai model-

li stranieri. Cfr. Paladin 2004,

pp. 47-48. 3 Per gli antecedenti e per il dibat-

tito sul “processo costituente” v.

Pombeni 1995. 4 In tal senso la costituzione ita-

liana corrisponde bene al con-

cetto di costituzione-cultura

nell’accezione di Häberle, 1999,

p. 211 e 2001. Cfr. Politi 2002,

pp. 463-465. 5 Sull’effetto di raffreddamento

del lavoro costituente v. Cheli

1973, p. 490.6 Sull’atteggiamento del partito

d’azione, del partito repubblica-

no e sul giudizio di Piero Cala-

mandrei rinvio a Cassese 1980,

pp. 516-517. 7 Il testo in http://www.european-

convention.eu.int. Giscard indi-

viduò il problema fondamentale

nella «difficulté de conjuger un

fort sentiment d’appartenance à

l’Union européenne, et le main-

tien d’une identité nationale». 8 Tomás y Valiente 1993-1994, pp.

13-14. Cfr. Clavero 1998, p. 28.

Peter Häberle ha parlato sin dai

primi anni Novanta di gemeineu-

ropäisches Verfassungsrecht. Cfr.

Häberle 1999, p. 211. 9 Tra le iniziative scientifiche che

a livello europeo hanno messo a

tema la storia costituzionale

ricordo la rivista pubblicata a

Oviedo, Historia Constitucional.

Revista electrónica, il cui primo

numero risale al 2000

(http://constitucion.rediris.es/r

evista/hc/index.html) e il Gior-

nale di storia costituzionale, rivi-

sta semestrale, fondata presso

l’Università di Macerata nel

2001 (ora edita da eum - edizio-

ni università di Macerata) da

Luigi Lacché e Roberto Martuc-

ci che la dirigono assieme a Luca

Scuccimarra. 10 Sul problema di definire le tra-

dizioni costituzionali comuni dal

punto di vista dell’identità dei

popoli europei, v. Pinelli 2005. 11 Brussels European Council, 21-

22 june 2007, General Observa-

tions, par. 1, in http//www.con-

silium.europa.eu

/ueDocs/cms_Data/docs/pres-

sData/en/ec/94932.pdf12 Ho messo in luce gli effetti della

retorica “costituente” in Lacchè

2005. 13 Questa espressione è stata uti-

lizzata per la prima volta nella

Dichiarazione di Laeken. Cfr.

Feldman 2007. 14 Sul “fare le cose con le parole”

ho accennato in Lacchè 2002, p.

6. 15 Ho discusso questo profilo in

Lacchè 2000. 16 Sul “paradigma comunicativo”

di Habermas vedi in particolare

Dellavalle 2002. 17 Luciani, Costituzionalismo ireni-

co: «Occorre rifuggire, insom-

ma, i rischi di un costituzionali-

smo irenico che si limiti a cele-

brare i trionfi dei diritti fonda-

mentali grazie alla giurisdizione

(anzi: alle giurisdizioni) e torna-

re ad un costituzionalismo polemi-

co che si misuri con il potere».

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Ricerche

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1. Una teoria politica delle tecniche istituzio-

nali

Le linee fondamentali del contesto istitu-

zionale e politico che, nella Germania della

Frühe Neuzeit, fanno da cornice alla rice-

zione dell’opera di Machiavelli, meritano,

sia pure in modo necessariamente sinteti-

co, qualcosa di più di un semplice richia-

mo. Il presente contributo verte, infatti, su

alcuni momenti di storia del pensiero poli-

tico, resi ancora più complessi dalla con-

dizione istituzionale del contesto del ‘600

tedesco. Pertanto i problemi della costitu-

zione tedesca, tutti da sviluppare in

un’analisi dedicata, qui resteranno sullo

sfondo di un discorso che rimane comun-

que proprio di una pagina importante della

storia della cultura politica.

Il tema in discussione, dunque, ci

riporta nel cuore dell’Europa, ad un pano-

rama complesso e diversificato, lacerato al

suo interno sia dal dissidio confessionale

della Riforma, sia dalla tensione fra Impe-

ro e territoria. Il problema religioso e l’as-

setto istituzionale, infatti, nella congiuntu-

ra storica del XVII secolo, risultano decisi-

vi sugli sviluppi del pensiero politico tede-

sco e in particolare sul tema della sovrani-

tà. Non è possibile percorrere in modo

certo e definito un simile processo; si può,

però, illustrare il senso di un lavoro in

svolgimento, che muove dalla figura di

Machiavelli e si allarga all’intero tema e alla

qualità specifica del suo approdo in Ger-

mania.

Il ragionamento qui proposto deve

necessariamente partire dalla ricostruzio-

ne dell’essenza delle componenti cultura-

li e istituzionali – senza ripercorrerne tutta

la complessità – lungo le quali avviene la

ricezione del Fiorentino in ambiente tede-

sco. Innanzitutto vi è il problema di tipo

politico-costituzionale che sorge in Ger-

mania durante il periodo cosiddetto “con-

fessionale”, tra la Riforma protestante e la

pace di Westfalia; si tratta di un momento

storico decisivo nel quale, sul territorio

tedesco, esplode la contrapposizione fra la

tradizione dell’Impero e gli emergenti Stati

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Alla ricerca della sovranità: osservazioni sul Machiavelli di Hermann Conring

rosanna schito

giornale di storia costituzionale n. 16 / ii semestre 2008

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territoriali, proprio quando questi ultimisi dichiarano in grado di costituire unsignificativo livello di sovranità, e si avvia-no a consolidarsi nella forma di moderniStati (Schiera, 1980, pp. 363-441).

Dopo lo scisma confessionale, la Ger-mania è ormai una “zertrennte Welt” e, apartire dal 1648, il Reich è formalmentediviso in due “Regni”: quello cattolico equello protestante, con le sue differentiarticolazioni. Tale “nuova statualità”, otendenza ad una nuova statualità, sorta inGermania in seno ai territoria, fa dell’Im-pero tedesco una unione di Stati. Perciò,nella prima età moderna, l’Heiliges Römi-

sches Reich Deutscher Nation, formazionepolitica sopraterritoriale e prioritaria,subisce un netto processo di aggiornamen-to, che è in realtà un processo di vera e pro-pria trasformazione. Nel frammentatocontesto istituzionale tedesco, l’idea diimperium allude sì al comando, ma perde ilvalore della concentrazione del dominioimperiale. Nasce da qui il principio dellaSignoria – Herrschaft – come riferimentoal Land, e quest’ultimo interviene in quan-to base ristretta dell’esercizio della sovra-nità, superando il rapporto fra territorio estirpe, come gli studi di Otto Brunnerhanno emblematicamente dimostrato. Pertali ragioni, la nuova composizione politi-ca territoriale sorta in Germania, apparecome forma di unione di tipo amministra-tivo e signorile, ovvero un binomio di Her-

rschafts- und Verwaltungsstaat, che rifiutal’idea di un “super-Stato”, e quindi l’ideastessa di Impero ( Näf, 1971, p. 58).

Non è senza peso il fatto che la ricezio-ne degli scritti del Fiorentino in Germa-nia, avvenga in un contesto politico-istitu-zionale privo di una sovranità costituita.Nel Reich, infatti, il potere è ormai netta-

mente frazionato fra la complessa nozionedi territoria, con le loro dinastie, e la figu-ra centralistica del Kaiser. In assenza di unateoria centripeta della sovranità, o meglioin presenza di un ordine politico cosìframmentato, sul territorio tedesco pren-de consistenza un’intelaiatura organizza-tiva prossima alle funzioni amministrati-ve dello Stato, da cui deriva la nozione fun-zionale dell’ordine indicata con il terminepolitia. In Germania, dunque, si verifica unprocesso decisamente singolare, che si dif-ferenzia dai modelli di evoluzione civile diquei Paesi europei che hanno sviluppatol’impianto della politica moderna intornoalla figura del sovrano o alla letteraturadella ragion di Stato. Qui, infatti, si assisteall’emergere di un dibattito sul sovranocapace di contenere diverse tradizioni dipensiero, come emerge dai recenti studi diScattola e Stolleis; in particolare, negli epi-goni moderni del Sacro Romano Imperoemerge una teoria della maiestas ma svi-luppata in senso contrario a quella bodi-niana della summa potestas (Scattola, 2003,p. 245) e nasce anche una teoria dellaragion di Stato strettamente associata alnome di Machiavelli. Da ciò scaturisce chetutta la teoria dell’ordine, o almeno uncerto patrimonio di pensiero, restiinfluenzato dall’emergere della “ratio sta-

tus” (Stolleis, 1998).D’altra parte, quando Machiavelli è

letto sul territorio teutonico, nel Reich siera già consumata la grande frattura del-l’unitas cristiana. Nei territoria protestan-ti, la disposizione all’Indice degli scritti delFiorentino, avvenuta in Italia, produce unenorme incentivo alla loro stampa, alla lorodiffusione e lettura. In una simile “aura”politica, così profondamente caratterizza-ta dal dissidio religioso, la ricezione degli

Ricerche

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scritti di Machiavelli avviene perciò inmodo peculiare; dopo una prima fruizionedotta, favorita dal dibattito machiavellianoeuropeo, la lettura in Germania inclina amettere da parte la componente dellamorale sollevata dalle interpretazioni anti-machiavelliane. Come Stolleis ha benemesso in evidenza, si cerca di “depurare”la lettura machiavelliana di ogni carattere“amorale”, e questo processo si avvia attra-verso l’influsso dell’aristotelismo politicoluterano, ormai saldamente radicato pres-so le accademie studiorum dei territori pro-testanti. Machiavelli appare dunque inGermania come un patrimonio culturale ecivile; qui, infatti, il realismo politicoassunto a essenza del pensiero del Fioren-tino, unitamente al già richiamato neoari-stotelismo protestante, conduce ad unateoria della società, intesa come ordinenaturale complesso, per il quale è necessa-ria una sintesi di giusto governo e ammi-nistrazione (Stolleis, 1980, p. 7 ss.).

Occorre inoltre ricordare che il dibat-tito politico tedesco nel Seicento è forte-mente incentrato sulla questione dellacostituzione imperiale. Ed è, peraltro, undibattito difficilmente comprensibile earticolabile – come ha osservato MerioScattola – «con gli strumenti analiticiofferti tradizionalmente dalla storia dellafilosofia politica o dalla storia dei dogmi»(Scattola, 1994, p. 12 ). In Germania, infat-ti, prende corpo una linea di pensiero chesi allontana consapevolmente dalla “filo-sofia pratica”, o dalle pratiche di governoper sviluppare una disciplina politica inte-sa come scienza organica dell’amministra-zione. La Staatswissenschaft ha, secondo laconcezione ora delineata, la finalità dellabuona amministrazione degli Staats-Hän-

del. Quando nel 1600 la Germania manife-

sta il proprio interesse nei confronti dellaragion di Stato, date le circostanze stori-che di cui si è ampliamente discusso, altro-ve – in Francia, in Spagna e nella stessa Ita-lia in cui ebbe origine – si era già svilup-pata una folta letteratura antimachiavelli-ca. Pertanto quella idea di razionalità delloStato in territorio tedesco viene certamen-te accolta, ma con una enorme ambivalen-za di significato; essa cioè si presenta siacome fremd, nel senso di dottrina d’“Oltreparte”, e quindi fremd nach Herkunft, siacome fremd nach Inhalt und Anspruch,ovvero nel contenuto e nelle sue rivendica-zioni (Nitschke, 1995).

Effettivamente la discussione sulla ratio

status in Germania si propone almeno ini-zialmente come discussione antimachia-vellica; ma allo stesso tempo, in ambitopropriamente pratico-politico, ovvero nellaTagespolitik, la medesima dottrina vieneampiamente accolta e appare ormai prontaad essere impiegata. Inoltre, proprio per-ché nella tradizionale interpretazione chela Ständewelt tedesca fa del machiavellismo,quest’ultimo viene, in larga misura, conce-pito come Machtphilosophie, e per la mede-sima ragione viene screditato da un puntodi vista teorico-normativo. Adattata allenecessità della Territorialwelt tedesca, ladottrina della ragion di Stato viene soprat-tutto accolta come primär innen politischer

Begriff. È questa la peculiarità della elabo-razione tedesca sulla ratio status, quella cioèdi essere recepita come dottrina a metà tral’aristotelisch-christlichem Politikbild, e lamachiavellistischen Idee della Staatsräson,principalmente verso una direzione innen-

politisch. (Nitschke, 1995, p. 50). E siccomeun suo impiego appare, ad ogni modonecessario, esso si accompagna ad alcuniaccorgimenti, per così dire stilistici, che

Schito

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tendono al nascondimento del suo stessouso. Il cosiddetto Tacitismus, rappresenta,infatti, una teoria e una cultura di ispirazio-ne dotta, molto efficace per mascherarequalunque discorso su Machiavelli, o percontenerlo su un piano più simbolico emeno manifesto.

2. Machiavelli lungo il percorso della ratiostatus

In questo problematico ambito la presen-za di un prezioso patrimonio, quale quellodi Herman Conring,1 figura certamentenon inedita per gli studiosi, ci consente diaffrontare nel dettaglio il nesso fra unaprima approssimazione della teoria giuri-dica e politica dello Stato, e una più conse-guente spinta a costruire un “ambiente”della statualità, per effetto della rinnovatanozione di “utile per il pubblico” e di con-seguente fiducia nella possibilità di unbuongoverno. Qui emerge con chiarezzal’importanza degli itinerari della politica,l’importanza dell’indice di soddisfazionedei cittadini, come ineludibile parametro,se non di una politica intessuta di catego-rie ideali, almeno di un reale completa-mento degli istituti del territorio.

In Conring il tema della ragion di Stato,dopo una prima ricezione polemica, troverà,sebbene la rielaborazione operata dell’olan-dese Lipsio avesse avuto un certa influenzaanche in Germania, una riabilitazione cheavvia allo studio scientifico e obiettivo delproblema delle tecniche governamentali.Nel 1660, egli pubblica un’edizione del Prin-

cipe, dedicata al politico francese Ugo diLione, che «fu, secondo il giudizio dei con-temporanei, la migliore edizione latina del-

l’opera apparsa nel XVII secolo» (Stolleis,1998, p. 89). L’anno successivo, Conringproduce un commento alla medesima opera(Conring, Animadversiones politicae). L’in-troduzione delle note, curata dallo stessoautore, presenta una duplicità. Egli, infatti,pur riabilitando Machiavelli attraverso latraduzione in latino del Principe, che pertan-to viene, per così dire, battezzato nuovamen-te come un classico, elenca nei Prolegomena

delle Animadversiones politicae i cinque carat-teri principali che un testo deve avere perchérisulti dottrinario.

Si presenta così, in poche righe, unasorta di “decalogo” concentrato sui criteridi attendibilità di un’opera di pensierocivile. Pur nell’essenzialità dei suoi avver-timenti, Conring offre quasi un parametrodi possibile oggettività di una scritturacivile destinata alla comunicazione, e loconiuga con quella che con ogni probabi-lità è anche una presa di distanza daMachiavelli. Come dire? Esistono le ragio-ni per rimuovere le vecchie posizioni con-troriformistiche che vogliono il Fiorenti-no un auctor malus, ma esistono ancheragioni per evitare un giudizio tutto posi-tivo o un’adozione tout court della teoriamachiavelliana del Principe: ecco, in sinte-si, il senso del lavoro del nostro autore. Allaluce di tale posizione, a suo modo pram-matica e dottrinaria insieme, si delineaverso il Fiorentino una posizione che neesclude ogni adozione rigida e da “dottri-na”, ogni carattere di oggettività indiscu-tibile. All’autore del Principe non si puòdomandare una teoria dell’ordine, né delloStato, anche se poi, proprio questa rappre-sentazione apparentemente “fragile” diMachiavelli ne favorisce il recupero in uncircuito intellettuale ”continentale” dinotevole sensibilità.

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Sotto altro profilo, l’edizione di Con-ring sembra voler sottolineare la differen-ziazione e la larga sedimentazione cheintorno al nome del Fiorentino la culturaerudita europea ha prodotto. I puntualiriferimenti di Conring a Lipsio, a Gentil-let, a Possevino, a Gentili, sembrano volerporre in evidenza un arco ampio di possi-bili interpretazioni del Principe.

Difficile in questa sede dare un sensoalla minuta attenzione di Conring: da unlato Machiavelli non è dottrina, dall’altronon è leggibile in un solo modo, sino all’al-ternativa che egli sia stato filosofo o stori-co. Fuori da pretese di certezza, si può peròcontinuare lo studio per dare un senso piùnetto al “filtro” Conring, probabilmentemolto più disponibile, di quanto la suaprudenza non faccia apparire, a rivolgere lapropria puntuale attenzione a Machiavel-li. Viene fuori, dunque, un percorso tor-tuoso, che è la chiave di volta delle premes-se ideali da cui muove il Conring lettore ecritico di Machiavelli, ma anche restaura-tore di un senso di civile elaborazione.

Il tema, giova ricordarlo, si inscrive nelquadro dell’aristotelismo politico lutera-no dell’Università di Helmstedt, dove il“Conringius”, ebbe un ruolo particolar-mente rilevante. Più precisamente, la rice-zione del pensiero del Fiorentino appareconnessa proprio alla metodologia inau-gurata da questa scuola, che nel realismopolitico del Machiavelli aveva rinvenutouno degli elementi di maggiore interesseper la sua stessa tradizione di pensiero.

Per gli aristotelici luterani la politica èla disciplina che ha per oggetto il genus civi-

tatium, e non un particolare Stato; non sitratta dunque di una generica Staatenkun-

de, quanto piuttosto di una «Fortschrei-bung» della «Individualethik» nell’am-

bito dello «staatlichen Handeln» (Willo-

weit, 1977, p. 135). In altre parole, per Con-

ring e per la sua scuola, la Politik (Scattola,

2002-2003; Id., 2003, pp. 9-40 e pp. 82-

102; Stolleis, 1988, pp. 80-82 e pp.104-

124) assume il valore di disciplina, atten-

ta soprattutto allo studio della realtà “effet-

tuale” che caratterizza gli Stati; essa, per-

tanto, si manifesta in grado di compiere

una wissenschaftliche Analyse proprio sulle

questioni riguardanti gli Stati. In quanto

scienza, la politica possiede specifiche

leggi di conoscenza e, quindi, non si lega ad

alcuna etica particolare, giacché differen-

ti sono i fondamenti di ciascuno Stato.

L’introduzione di tale indirizzo specu-

lativo in realtà è fondamentale perché con-

segna alla politica una portata scientifica

tale da distanziarla dalla morale, consen-

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La terza edizione del De origini iuris germanici di Her-

mann Conring (Helmstadt, 1665).

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tendole di tradurre il paradigma machia-velliano entro una linea interpretativa ditipo storico-razionale. Sulla base di taleposizione, sembra possibile liberare lapolitica dalla religione, senza tuttavia ope-rare una totale frattura tra l’universo dellamorale e quello della pólis. La letteraturasulla ragion di Stato conquista una sua evi-denza a partire dalla seconda metà del‘600, ma la trattazione della tematicamachiavelliana, per dirla con Meinecke(Meinecke, 1970, p. 184), avviene secondouna lettura propriamente tedesca.

D’altra parte, la ricezione dell’opera diMachiavelli in Germania procede attraver-so il filtro dotto della cultura tardo-uma-nistica mitteleuropea, di cui Lipsio è unodei maggiori rappresentanti. L’influenzaindiscussa che tali speculazioni esercitanosullo sviluppo del pensiero tedesco, inrelazione alla sovranità, garantisce tutta-via una certa permanenza di alcuni ele-menti tipici della tradizione di pensierodella prima modernità, che vede la politi-ca essenzialmente come esercizio virtuosodel potere. Sulla base di tale contamina-zione tra virtù e “arcana”, un momento dicontraddizione interviene, in ambito tede-sco, intorno all’esperienza di Machiavelli,sospesa tra tentazioni della ragion di Statoe serrate critiche al divorzio tra politica,morale e religione. Tacitismo e Machiavel-lismo costituiscono in tal senso le abbre-viazioni semantiche di quel processo spe-culativo che porta all’avvicinamento dellatematica sulla ragion di Stato. Il Machia-velli che compare in Germania si potreb-be definire un Machiavelli “autoctono” chei Tedeschi trovano in autonomia e ancheper il tramite del tacitismo europeo. Sitratta di un approccio nuovo, una “scuolastorica del machiavellismo mitteleuro-

peo”, che è poi l’altra faccia di un’Europaorgogliosamente riformata e aristotelica,diversa da quella latina; e l’opera di Con-ring emerge quale “luce brillante” di taleindirizzo autoctono apud Machiavellum.

Sebbene da un lato si mantenga ancoraentro il quadro teorico della prima moder-nità e ravvisi nella civilis prudentia, e nelcomportamento virtuoso del politico, ilpunto da cui muovere in ogni speculazio-ne sul tema del potere, la teoria di Conringsi presenta, infatti, dall’altro aperta a rac-cogliere la sfida per una nuova formulazio-ne teorica: riabilitare cioè il pensiero poli-tico del Machiavelli, ancorché non intera-mente, e insieme promuovere una viadiversa, rispetto al Fiorentino, per la seco-larizzazione dell’agire politico.

Abbiamo già sottolineato che la Politik,in quanto disciplina scientifica, prende ledistanze sia dalla filosofia pratica, sia dallateologia, ed è questa la premessa fonda-mentale del nuovo indirizzo di Conring,basato sui principi aristotelici del bonum

commune e della condizione “organica” del-l’uomo in quanto zoon politicon. Dunque larealizzazione dell’uomo avviene entro lacomunità in cui vive, ovvero l’organizzazio-ne societaria rende possibile la realizzazio-ne delle finalità della politica. Si tratta diun punto di partenza evidentemente diffe-rente rispetto a quello di Machiavelli, ilquale nel capitolo XVII del suo libello avevadefinito gli uomini come ingrati, volubili,simulatori e dissimulatori, pavidi dei peri-coli, cupidi di guadagno ecc. Questo puntodi vista segna evidentemente una distanzaincolmabile tra il pensiero del Fiorentino equello di un aristotelico come Conring, ilquale non può accogliere il pessimismoantropologico del Principe.

L’emancipazione della politica dalla

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teologia e dalla morale, in un contesto cosìirrimediabilmente lacerato dal conflittoreligioso come quello tedesco, si presentatuttavia ormai necessaria, e il ricorso ad unautore come Machiavelli diventa effettiva-mente obbligato in una congiuntura in cuianche le pratiche del governo appaionoirrimediabilmente condizionate dai diver-si fronti religiosi in conflitto. Conring sirichiama ad un concetto di utilitas publica,– «qui est civium salus» – diverso da quel-lo dei «Machiavellistae», per lo più orien-tato verso il principio dell’«utilitate etcomodo solius dominantis» (Conring, Op.IV, p. 551), vale a dire al solo interesse delPrincipe e non a quello della civitas. La teo-ria politica di Conring, trova infatti il suofondamento nello Zweck che lo Stato è chia-mato a perseguire. Di conseguenza, taleprospettiva di pensiero recupera la nozio-ne di Gemeinwohl, inteso in senso aristote-lico-luterano come bonum commune e,contemporaneamente come benesseredello Stato. In termini propriamente mate-riali e di convenienza utilitaristica, il “benecomune” diventa l’elemento centrale e lafinalità dello stesso Stato. Sotto moltiaspetti, il fenomeno dell’amplificazionepolitica del concetto di bene appare legatoalla tendenza teorica, affermatasi – come siè accennato – presso le scuole luterane nelXVII secolo, di unire agli insegnamenti diAristotele una sia pure parziale, e talvoltaambivalente, ricezione del pensiero poli-tico di Machiavelli: realismo politico, ratio

status dei territoria, divengono in tal sensogli strumenti, non solo teorici, per attuareuna “Gute Ordnung” in assenza dello Statomoderno propriamente detto.

Nel De ratione status, che appartiene aquesto orientamento di pensiero e checostituisce una novità rispetto alle tratta-

zioni del periodo in questione, la esposi-zione dell’argomento, secondo la consoli-data prassi accademica, viene articolata apartire dalla spiegazione etimologica deltermine e dalla sua evoluzione storica, pergiungere alla conclusione che per Staaträ-

son altro non debba intendersi che la «uti-

litas reipublicae» (Id, Op. IV, 552). In altreparole, per Conring la ratio status corri-sponde alla dottrina del «Nutzen des Staa-

tes» (Ivi, pp. 571-574; Willoweit, 1977, p.134), ovvero dell’ “essenza” dello Stato, mafinalizzata alla soddisfazione dell’Öffentli-

chen Wohles. Detto altrimenti, la Staatsrä-

son corrisponde alla dottrina che si occu-pa del Gemeinwohl, concetto tanto aristote-lico (bonum commune), quanto luterano, epertanto essa si presenta come vera e pro-pria Regierungsklugheit, nel senso di pru-denza e saggezza insieme, riferiti all’eser-cizio effettivo dell’arte di governo.

Nei paragrafi X e XI della sua dissertatio,Conring espone le questioni della Definitio

e quella Divisio in generalem et specialem

della ratio status; richiamandosi ora agliantichi – Aristotele, Cicerone, Livio, Taci-to, Polibio ecc. – ora ai moderni – Clap-marius, Boecler, Hippolitus a Lapide,Tommaso Moro, Hugo Grozio –, senza tut-tavia tralasciare la rassegna della letteratu-ra italiana sull’argomento – Settala,Ammirato, Palazzo –, egli conclude con leseguenti parole: «breviter nos rationemstatus utilitatem reipublicae definimus»(Conring, Op. IV, p 551). In tal modo appa-re possibile sostenere, sulla stregua dellaPolitica di Aristotele, che la ragion di Stato«non ex rebus necessariis tantum, sed uti-libus est» (Ivi, p. 557).

Tale indirizzo si radica sulla mentalitàsecondo cui il finis reipublicae è appunto lasalus publica, sebbene religio sive pietas,

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fides, pudor e justitia costituiscano per Con-ring i limiti della ratio status, e questo ele-mento distanzia lo stesso Conring, e la suascuola, dal machiavellismo. Del Fiorenti-no viene tuttavia accettato l’approccio dasintesi concreta, quello sguardo attentoalla “realtà effettuale”, su cui si fonda laPolitica prudentia, mentre la questione deimezzi per il perseguimento delle finalitàdella civitas viene illustrata con assolutacautela. Stando a quanto Conring scrive neiProlegomena del suo commento al Principe,la Politica prudentia comprende: «partimexperientia, partim ratiocinatione compa-retur, illiusque sit compendium quidemhistoriae peritia, exercitatio vero ipsererum usus» (Conring, Op. III, p. 280.); ela Politica altro non è che la «peritia proutilitate reipublicae» (Ibid). Nel De civili

prudentia, opera alla quale si dedicherà permolti anni, Conring osserva che la dibattu-ta locuzione latina di ratio status aveva ori-ginariamente il significato di «Reipublicae

rationem», essa cioè veniva impiegata sianel senso di «commodum publicum civi-tatis», sia nel senso di «reipublicae cum-primis qualis ea in presenti est» e pertan-to nulla, secondo Conring, poteva essereimputato all’espressione ratio status, quan-do questa veniva impiegata nel senso di«dirigere consilia quam pro scopo actuumhabere salutem illam publicam». Al con-trario, la stessa formula veniva evocata solocon il pretesto di esercitare i «dominatio-nis flagitia». Da questo punto di vista, lateoria di Conring non si discosta affattodall’argomentazione teologica intorno allabuona e cattiva ragion di Stato; ne sono unesempio i continui richiami del nostroautore a Chiaramonti, Ammirato e al tede-sco Chemnitz, per citarne alcuni. Perma-ne, pertanto, per Conring, quella pruden-

te precisazione circa la differenza tra domi-

nationis flagitia e jus dominationis2.Nell’ultimo periodo della guerra dei

Trent’anni, ha osservato Meinecke, «laratio status divenne un argomento di con-versazione nei mercati e nelle piazze, comequalche decennio prima in Italia; fu l’ae-

nigma seculi, contro il quale si inveiva conira e terrore come contro una epidemia,ma anche con una segreta venerazione nel-l’anima» (Meinecke, 1970, pp. 184-185).Questo concetto, si presentava, allo stessotempo, limitato dai freni del diritto divino,della fede, del pudore e della giustizia, daun lato; ma dall’altro lato esso si mostravasvincolato dall’antico jus commune, e ciònell’interesse del bonum commune publi-

cum, poiché il suo impiego risiedeva pro-prio nella necessitas reipublicae, innalzataormai a suprema lex .

Conring fonda la sua teoria politica suiprincipi etici che limitano la ratio status,ma salda questi ultimi a quell’essenza tuttamondana della politica, la quale contemplala “spregiudicata” necessità dello Stato;richiamandosi agli antichi e a Seneca inparticolare, egli può sostenere che necessi-

tas omnem legem frangit. Nel senso di unariabilitazione politica della locuzione lati-na devono essere lette le sue attente con-siderazioni sulla variazione del significatodell’espressione ratio status, che ricorronoin particolare sia nel De ratione Status3, sianel De civili prudentia.

Simili considerazioni, hanno lo scopodi liberare la voce latina da quella inter-pretazione “maliziosa” che ne altera ilsignificato originario: «Altera acceptio est:– scrive Conring – qua Politicus audit sivesolus sive quam maxime is, qui ad ratio-nem Status, quam vocant, omnia exigens,fas omne et nefas una illa metitur, adeoque

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id demum censet agendum, quod ratio Sta-tus expostulat» (Conring, Op. III, p. 283);quel significato – argomenta il nostroautore – compare, infatti, solo dopoMachiavelli: «ille vocis usus forte postMachiavelli aetatem noviter exortus»(Ibid.). Al Fiorentino, pertanto, va ricono-sciuto il titolo di antesignano e maestro diquella concezione della politica, intesacome utilità del reggente: «quod hoc magi-stro eam doctrinam coepisse, ipse veropoliticorum antesignanus existimetur»(Ibid.), fino al punto che appare difficile,risalendo indietro nel tempo, trovare ilmedesimo insegnamento: «Neque veroqui perinde id aperte docuerit, quisquamplurimis seculis est inventus» (Ibid.)

Pur in un quadro decisamente innova-tivo, Conring ripropone Machiavelli e lo fatuttavia attraverso uno sguardo attento aiDiscorsi, tramite argomentazioni che parto-no dalla traduzione dell’opera del Fioren-tino – per il Conringius in alcune sue partiimprecisa – oppure attraverso il richiamoai classici. In questo modo, il nostro lute-rano emancipa Machiavelli dal machiavel-lismo. E infatti, nelle Animadversiones poli-

ticae, rivisitando la dibattuta metafora dellavolpe e del leone, contenuta nel celeberri-mo capitolo XVIII del Principe, Conringsostiene che il generale Lisandro, «Laece-daemoniorum ducem» stando a quantoscritto da Plutarco, era solito dire: «quopertingere pellis leonina non poßit ibiassumendam vulpinam» (Conring, Ani-

mad. Sic. p. 166). Da Plutarco, osserva ilnostro Autore, Machiavelli avrebbe mutua-to la famosa metafora («Ab illo videturMachiavellus hanc leonis ac vulpis imma-ginem mutuatus»), dimostrando come ilgenerale spartano nel suo agire non si pre-occupasse di eseguire «fraudum et iniu-

stae violentiae» (Ibid.). Si tratta di unpasso il cui commento necessita di enormeprudenza, poiché contiene «nella formapiù compiuta le idee che […] formerannoil nucleo centrale del mito del machiavel-lismo» (Macek, 1980, p. 159). Ecco per-ché Conring, conclude la trattazionerichiamandosi al praeceptum Salvatoris:«estote simplices sicut columbae et pru-dentes velut serpentes» (Conring, Ani-

mad. p. 166). Nel De civilis prudentia e nel trattato De

ratione Status, Conring ordina le diverseforme di governo così come le aveva trat-tate Aristotele, e secondo il medesimo cri-terio si avvia alla trattazione di ogni distin-ta ratio Status; viceversa, stando al nostroautore, Machiavelli, limitandosi a trattaredel principato e in particolare di quellotirannico, avrebbe dovuto intitolare diver-samente il suo libello (Conring, Prolegome-

na, Animadv., p. 1-2.), proprio perché «ineo tamen, quod reliquas omnes Regnorumspecies silentio praeterierit (ibid., p. 2) e«premittit nonnulla de Principatuumvariis differentiis» (ibid., p. 7). Questoelemento – secondo Conring – costituiscela ragione della inconsistenza dottrinariadel Principe; lo scritto del Fiorentino noninforma la scienza politica proprio a ragio-ne della sua incompletezza. E se da un latoè vero che il breve trattato di Machiavelli«pertineat ad plenum de Regno argumen-tum», dall’altro lato nella trattazione man-cano gli elementi fondamentali che ne evi-denziano le differenze: «ortu, iteritu,mutationibus, et conservatione»; assentisono inoltre gli «idonea remedia» controil dominio tirannico, cui Aristotele avevafatto esplicito richiamo (ibid., p. 2).

Alla diversa struttura delle formazionipolitiche, corrisponde una diversa ratio

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Status; essa – dunque – varia da Respublica

a Respublica, perché dissimile è la natura diciascuna civitas: « Hinc vero consequensest, cum una sed multiplex admodum rei-publicae sit natura, rationem quoque Sta-tus esse variam » (ibid., p. 2). E in un passoprecedente a quello ora citato (Cap. I, Ani-

madversiones) il nostro autore argomentache «nec enim una est Principatuumomnium conditio, sed multum diversa.Eoque multum diversa est ratio, illos probecomponendi, tuendique» (ibid., p. 7). Leargomentazioni del Conring, hanno loscopo – giova ripeterlo – di liberare l’ope-ra machiavelliana dalla interpretazioneche aveva visto il Fiorentino come auctor

malus, epiteto della vulgata antimachiavel-lica. Il nostro autore si avvia alla critica delgesuita Possevino e delle ingiurie mosseda questi contro il segretario fiorentino,accusato di scarso «ingenium et acumen»(ibid., p. 3); a tale critica segue quellaall’antimachiavellico francese, InnocenzoGentillet, il quale «in praefatione Anti-machiavelli – scrive Conring – avevasostenuto che «Machiavellum historiarumnullam vel perexiguam notitiam habuis-se» (ibid.). Il nostro risponde agli antima-chiavellici con le osservazioni dell’italianoAlberico Gentili, il quale nel III libro delDe Legationibus, capitolo 9, aveva giusta-mente scritto: «recte dixit lib. 3 de lega-tionibus cap. 9. Machiavellum hoc habere,quod in lectione historiarum non gram-matizet (sic), sed philosophetur» (Genti-li, De legationibus libri tres, anche in Con-ring, Animadv., p. 3-4)4.

E contro la Gentilleti calunniae, dellaquale il Possevino si era servito, Conringoppone il pensiero dell’olandese GiustoLipsio che, al contrario degli autori appe-na citati, aveva piuttosto elogiato l’acume e

l’ingegno di Machiavelli: «Justus Lipsiusvero etiam laudaverit ejus ingenium acre,subtile, igneum» (ibid., p. 5). In altreparole, Conring si oppone a quella criticamossa senza fondamento e senza uno stu-dio approfondito dell’opera del segretariofiorentino. Machiavelli, in realtà, analizzòla storia «non ad voluptatem, aut in usumGrammaticum […] sed cum civilis pru-dentia fructu» (ibid., p. 5). Per il resto, leosservazioni di Conring insistono sull’ine-sattezza dei giudizi negativi attribuiti alPrincipe, sebbene quella dottrina non sia inogni sua parte accettabile. Conring citaGuicciardini, Jacobbe Gaddo, contro l’ad-

versarii judicium, che aveva visto erronea-mente in quel Fiorentino nobilissimi civis

l’istitutore della tirannide.

3. Fra tecniche e teorie del governo: il

machiavellismo “utilitaristico” di Conring

“Correggere” per reintegrare il Princi-

pe costituisce, dunque, l’intento delleosservazioni di Conring su Machiavelli, perpoi liberamente aprire un discorso sullemedesime questioni? Stando a quantosostenuto da Meinecke nella Idea della

ragion di Stato, a partire dal 1650, la ratio

status aveva acquisito in Germania un«peso cui era impossibile sottrarsi; si cer-cava di adattarla alle esigenze tedesche, mala si avvicinava ad un tempo con diffiden-za e paura» (Meinecke, 1970, p. 185). Sottoquesto profilo, non appare del tutto erratosostenere che l’aristotelismo luterano diConring, e della sua scuola, costituisca unodegli esempi più significativi di un chiaroindirizzo: quello, cioè, di un adattamentonon polemico dell’opera del Fiorentino.

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D’altra parte, come è stato in precedenzaosservato, la ratio status, divenuta ormaiuno strumento “normativo” nelle mani delsovrano territoriale avrebbe permesso aquest’ultimo di derogare dallo jus commu-

ne in funzione del Gemeinwohl, e l’eserci-zio della deroga, cui Ammirato aveva fattoesplicito richiamo nelle sue opere politi-che, appare un elemento effettivamentefondamentale nel contesto di un Reich cosìframmentato.

Illuminanti appaiono le poche righe cheMeinecke dedica al nostro autore luterano:«egli si destreggiava naturalmente tra rea-lismo e moralismo – scrive lo storico tede-sco – e, ora richiamandosi alla Bibbia e aldiritto naturale, sosteneva che era cosa pos-sibilissima il governare gli Stati senza mac-chiarsi di delitti, ora invece doveva conve-nire che il violare la fede promessa, in casidi bisogno, non disdiceva alle volte ad unPrincipe giusto. E la critica – osserva anco-ra l’autore – spesso felice, ch’egli faceva aiconsigli di Machiavelli, partiva a bello stu-dio dal punto di vista utilitario, non daquello morale» (ivi. p. 196). L’immaginecomplessiva che Erik Wolf (Wolf, 1963, p.243) ci consegna di Conring è quella di«intellettuale irrequieto intento solo adaccumulare saperi per utilizzarli a scopostrumentale» (Stolleis, 1998, p. 70); la suaattività si presenta perlopiù orientata versol’acquisizione del successo personale e diappoggi politici. In altre parole, stando aWolf, Conring sarebbe un «Karrierebewus-

ster Füstendiener» (Willoweit, 1977, p. 129)privo di vincoli etici e morali e di un orien-tamento politico.

Oppure siamo di fronte ad un Machia-velli “tedesco”, come ha sostenuto HorstDreitzel? Per Dreitzel, infatti, Conringavrebbe cercato di integrare diversi indi-

rizzi di pensiero, sia pur criticandoli: dalteorema della tirannide di Machiavelli, allamonarchia militare di Lipsio, alla grozia-na «systematische Darstellung», perattuare una costruzione di un «positivenLandesrechts» (Dreitzel, 1983). Ma ilmerito maggiore del pensiero dell’autoretedesco, è soprattutto quello di avere datoun potente impulso, attraverso il suo pen-siero e la sua impostazione storica, allaproduzione di nuove e autonome basi,rispetto a quelle religiose, per un’interpre-tazione mondana delle vicende storico-politiche a lui contemporanee. In altreparole, Conring opera una dislocazione delconflitto, dal piano religioso al piano poli-tico, dando un enorme contributo all’auto-nomizzazione della politica dalla teologia;ma ciò non basta per fare di Conring unMachiavelli “tedesco”. Più complesse eambivalenti appaiono, infatti, sia la suapersonalità di studioso, sia le sue ambizio-ni di uomo politico.

L’analisi dall’esperienza concreta deirapporti tra impero e territoria e tra i varipoteri al loro interno è il centro dell’ope-ra di Conring; la sua dottrina storico-giu-ridica e giuridico-politica è tutta incentra-ta sul tema della ragion di Stato e più ingenerale sul tema del potere, un tema inti-mamente connesso alla questione dellaVerfassung, come Stolleis ha messo in evi-denza. La sua Staatswissenschaft, e in gene-re il significato dell’enciclopedismo diquesto autore, ovvero la grande portata diun’esperienza letteraria che congiungescienze naturali, storia e diritto, coordina-ti entro la riflessione politica, necessitanoancora oggi di ulteriori approfondimenti.E ciò, nonostante gli attuali studi abbianoapportato spunti di notevole pregio allacomprensione dell’opera di un “grande

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minore” quale è Conring, e più in genera-le agli approfondimenti sul pensiero poli-tico tedesco del ’600.

La produzione di questo eruditissimo“minore” si presenta allo stesso tempo siacome strumento rigoroso di analisi, siacome strumento flessibile ed effettiva-mente concreto per affrontare il problemadella riorganizzazione degli Stati tedeschi,in un periodo in cui la realtà politica delReich è al centro di tutti i dibattiti degliintellettuali tedeschi. Ed è su questo sfon-do che va interpretata la ricchissima pro-duzione di Conring la quale, se da un latotrova ancora nei classici il suo fondamen-to concettuale e in particolare nell’Aristo-tele latino, dall’altro lato si presenta aper-ta alla lettura delle riflessioni modernesull’ordine e sul conflitto, da Lipsio aMachiavelli, da Bodin a Grozio, per citaregli scrittori maggiori, e poi a tutta la lette-ratura del XVI e XVII secolo sul machiavel-lismo e l’antimachiavellismo, su ragion diStato e sovranità (in particolare in Op. III).

Gli elementi del pensiero di Conring finqui presi in esame attengono più in gene-rale al lessico della politica nel vasto cir-cuito europeo del ’600, a quella amplissi-ma proliferazione di linguaggi che ancorachiedono una classificazione. Conring e lasua scuola rappresentano solo una corren-te, sebbene importante, di quella specifici-tà “linguistica” che nel ‘600 insiste sullagrammatica della ragion di Stato e sui pre-cetti di Machiavelli, sia pur riadattato alleesigenze del momento storico, che segna ilpassaggio verso un modello monarchico; sitratta di un modello che la Germania acco-glie nella sua specificità di Stato dualistico,cioè a struttura politica binaria (Kaiser-ter-

ritoria). Le formule machiavelliane, anchele più estreme, entrano nel linguaggio degli

eruditi e costituiscono i remedia da adotta-re in situazioni estreme.

Per Conring, i mezzi iniqui che consen-tono la conservazione del potere, assumo-no il carattere di tecniche della ecceziona-lità, di cui la politica, ars regendi civitatem,

può avvalersi per soddisfare il proprio fine.Conring critica tuttavia quella parte delladottrina machiavelliana, la quale («quodin sola caede vim omnem collocet tyran-nidis conservandae [Conring, Animad. p.99]») colloca nella crudele strage ognipossibilità di conservare saldo il potere,sebbene siano necessari, stando agli exem-

pla del Segretario fiorentino (Agatocle eOliverotto), anche altri stratagemmi utili aquesto fine. Eppure Conring non escludeche possano essere impiegate, per il man-tenimento del potere, quelle «Artes sanetyrannicas» tramandate sia da Aristotelenel V libro della Politica, sia da Settala nellibro V del De ratione Status (ibid.); qui lacontinuità fra Aristotele e Machiavelli deveessere letta evidentemente come misuraprudenziale. In un passo successivo, (Cap.XVIII, Animadv.) relativo alla questionedella simulazione, Conring ancora unavolta assume una posizione intermedia;anche su questo dibattuto tema egli sirichiama al patrimonio letterario del pas-sato, a Cicerone, poi a Lipsio, per ritorna-re nuovamente ad Aristotele. La simula-zione è ammessa, purché essa venga prati-cata solo per breve tempo, poiché prima opoi l’inganno si rivela agli occhi degliuomini più attenti: «Ut sane ad breve tem-pus – scrive – simulatione hominibus etquidem imperitioribus imponas, statimtamen sese prodit larva inani recta impro-bitas, cumprimis iis qui paulo sunt ocula-tiores» (ibid., p. 169). Conring concludela trattazione sulla simulatio con le parole

Ricerche

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di Aristotele, che qui vale la pena di richia-mare, perché esse contengono in formacontratta la teoria della tirannide di Con-ring; il principe non deve essere né buononé cattivo, quanto piuttosto semibonum,improbum mai, ma semiimprobum: «debe-re illum saltem semibonum esse: impro-bum nequaquam, sed forte semiimpro-bum» (ibid., p. 170).

Utile è, infine, un breve accenno allatrattazione di Conring sulla vexata quaestio

della fede, contenuta nel capitolo XVIII delPrincipe. Per il nostro, non è in nessunmodo ammissibile la scusa machiavellicadella perfidia, secondo la quale alla comu-nità umana e anche ai prìncipi la fede nonserva: «nec vero ullius momenti est illaMachiavellica perfidia excusatio: quodcommuniter homines, atque adeo et Prin-ceps fidem non servent». In altre parole,Conring non può accettare la visione pes-simistica del Fiorentino secondo la qualegli uomini sono perfidi e perjuri. Su questopunto, come già anticipato in precedenza,la sua teoria si distanzia fortemente dalmachiavellismo, perché diverso è il pre-supposto, la finalità dello Stato.

Sulla questione della fede promessa,Coning argomenta richiamandosi pruden-temente alla disciplina giuridica del con-tratto e al caso in cui s’incorre nel dolus

malus. Al riguardo, egli ammette chel’inosservanza del patto possa avvenireanche nei principati giusti, che cioè la pro-messa fatta non venga onorata. Conringaccoglie, dunque, questa possibilità, anchese poi osserva che il ragionamento sul con-tratto non possa valere a difesa di Machia-velli: «Sed hoc nihil pro Machiavello valetdefendendo» (ibid., p. 167).

Infine il nostro interprete tedesco, chepure apre un confronto diretto con Machia-

velli, non accetta la conclusione della “pes-sima” dottrina del Fiorentino («pessimaedoctrinae Machiavellicae»), perché secon-do quest’ultimo tutto deve essere misuratosulla base della utilità e «quicquid etiam adtempus utile idem laudabile esse, imo lau-dari solere» (ibid., p.162); inoltre, tutto ciòche su questa base viene posto, deve esserelodato. Il nostro autore conclude la tratta-zione richiamandosi al discorso ciceronia-no sull’utile e sull’onesto, osservando che:«[…] vere utile et ad stabilem felicitatemgloriamque parandam nihil esse quod non ethonestum est: quod ab onesto abit, nec veralaude dignum, – egli scrive – nec solereetiam nisi brevi forte momento laudari»(ibid., p. 172). Machiavelli ammette la frodee il dolo, finalizzandoli soltanto al successoe alla gloria del principe, ma si tratta, osser-va Conring, di «futilibus ductus rationibus»(Ibid.); perché il Fiorentino intende per uti-

litas quella del dominante e non già a quel-la della civitas. Nondimeno, lo stesso Con-ring, che su questo punto si mostra forte-mente critico nel confronti della dottrina delPrincipe, fonda la sua teoria dello Stato prin-cipalmente sul principio del Gemeinwohl. Inaltre parole, per il nostro luterano il fineunico della politica non è tanto la status con-

servatio, quanto la felicitas civilis societatis,Conring, dunque, riduce a questa unicanorma l’essenza dello Stato e la sua stessaesistenza? La sua risposta non è semprelineare.

Due parole per concludere un ragiona-mento che è un percorso e non una tesi:potremmo dire che qui siamo di fronte adun articolato uso di Machiavelli in Germa-nia, espressione di una idea della politicanon riducibile né alla semplice pratica, néalla sola amministrazione. La fondazionedi tale disciplina, che è la politica in un

Schito

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laboratorio di pensiero di portata europea,conduce a Machiavelli, ma non necessa-riamente alla sua adozione in chiave distretta ortodossia, o del suo netto contra-rio. Si potrebbe protrarre la ricognizionedell’insieme di queste forme, ma è lavoroda rinviare ad altra occasione.

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Ricerche

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tia-Verlag, 1970-73) VII Tomo, Repertorium Coringianum

sive Index generalis.

Schito

99

1 Cito gli scritti di Conring dal-

l’edizione Hermann Coringii Ope-

rum Tomi I – VI, (a cura di)

Johann Wilhelm von Goebel,

Brunsvigae 1730, (ristampa,

Scientia-Verl., Aalen 1970-73)

e la monografia, Hermanni Con-

ringii, Animadversiones politi-

cae in Nicolai Machiavelli

librum de principe, dall’edizio-

ne di Helmestadii 1661.2 Dal quale discendono gli arcana

imperii publicarum – i mezzi per

raggiungere un determinato

scopo, che varia a seconda degli

Stati (Settala e Clapmar) ognu-

no dei quali possiede una pro-

pria ratio Status – all’interno

degli arcana imperii publicarum ,

inoltre, si può ancora distingue-

re tra arcana imperii (i mezzi

volti a conservare la forma di

governo) e gli arcana dominatio-

nis (i mezzi per la conservazio-

ne del dominio, che variano a

seconda della forma di gover-

no).3 Giova ricordare, che il trattato,

l’anno precedente alla sua pub-

blicazione (1651), fu oggetto di

una disputatio, presieduta da

Conring e sostenuta da Heinrich

Voss, membro della scuola ari-

stotelico-luterana, lo scritto

comparirà sotto il nome di Con-

ring, in Hermann Coringii,

Operum Tomi I – VI.4 Conring rinvia il lettore ad un

capitolo molto importante del

De Legationibus, in cui Gentili

loda apertamente Machiavelli e

lo difende dalle accuse, osser-

vando come in realtà «Machia-

vellus Democratie laudator, et

affector acerrimus: natus, edu-

catus, honoratus in eo reip.

Statu: tyrannidis summe inimi-

cus. Itaque tiranno non faudet:

sui propositi non est tyrannum

istituire, sed arcanis eius palam

factis ipsum miseris populis

nudum et conspicuum exhibe-

re». (Gentili, De legationibus,

libro III, cap. 9. Hanoviae,

1607).

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1. Paine alla Convenzione: un malinteso inter-

pretativo

La partecipazione di Paine alla Convenzio-

ne, dove viene eletto in quattro diparti-

menti, e il suo atteggiamento in quella fase

cruciale della rivoluzione francese ha posto

non pochi problemi agli interpreti. Anche

in lavori assai documentati, o in accurate

biografie, quando si ricostruiscono le posi-

zioni assunte da Paine in Francia tra il 1792

ed il 1799, in più di un caso ci si trova di

fronte a un atteggiamento che si può defi-

nire a metà tra l’imbarazzato e il giustifica-

torio. Come se si avvertisse una contraddi-

zione tra quello che si considera il radica-

lismo democratico painita e l’avversione

profonda che manifesta verso il giacobini-

smo1. A tal proposito gli storici hanno

spesso sposato un’attitudine minimizzan-

te, riportando le posizioni assunte in quel

periodo a particolari circostanze. Paine

sarebbe stato condizionato nelle sue scel-

te politiche da fattori del tutto estrinseci.

Per esempio, dal fatto che Condorcet e

Brissot parlavano inglese, al contrario di

Robespierre. Oppure, si è voluta sottoli-

neare la scarsa comprensione degli eventi

francesi, che lo avrebbe portato a una col-

locazione politica non corrispondente alle

sue convinzioni. A tal proposito, non è dif-

ficile allineare un insieme di giudizi che

troviamo nella storiografia lungo un con-

siderevole arco di tempo. Come se il pro-

blema si ripresentasse periodicamente

senza possibilità di una chiarificazione

definitiva.

In una biografia scritta nel 1839 da un

militante cartista e repubblicano, William

J. Linton, troviamo fissato in modo para-

digmatico questa lettura degli avvenimen-

ti. A proposito della sua partecipazione alla

Convenzione, Linton, scrive che, anche se

Paine «sedette con i Girondini, i riforma-

tori moderati che hanno assassinato la

repubblica, non per questo intendiamo

mettere in causa la sua onestà politica».

Semmai questo maldestro posizionamen-

to dipendeva dalle sue amicizie. Legato a

Brissot e a La Fayette, che aveva conosciu-

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Thomas Paine e il giacobinismo: revisione costituzionale versus insurrezione

maurizio griffo

giornale di storia costituzionale n. 16 / ii semestre 2008

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to in America, era portato «ad associarsicon loro ed il loro partito», anziché«ricercare la compagnia di coloro le cuiopinioni “ultra”, possiamo esserne sicuri,non venivano presentate troppo favorevol-mente dai loro avversari». Dopo averdovuto ammettere «che Paine agì assiemeai Brissottini, in occasione del processo aLuigi, e in altri casi», si preoccupa però dispecificare che non sarebbe giusto «con-dannarlo come un riformatore a metà». Inrealtà, al di là delle circostanze, la vera affi-nità sarebbe con Robespierre che, comePaine, era favorevole a misure volte amigliorare le condizioni degli strati piùpoveri della popolazione. Su questo piano«Paine and Robespierre erano d’accor-do». (W.J. Linton, The Life of Thomas Paine,rispettivamente pp. 40, 41, 42, 44n.) 2.

Come si vede, il comportamento poli-tico di Paine viene motivato con ragionicontingenti, mentre rispetto ai giacobinisi fa appello a una, supposta, visione comu-ne dei programmi politici, lasciando daparte le idee relative agli equilibri costitu-zionali.

A prima vista si sarebbe tentati dirubricare queste affermazioni come unsottoprodotto della controversa fortunadell’opera painana. In Inghilterra, dopo lapubblicazione delle due parti dei Diritti del-

l’uomo, che conoscono un notevolissimosuccesso, Paine viene proscritto. La diffu-sione dei suoi scritti viene osteggiata dal-l’establishment politico che teme il conta-gio rivoluzionario. La marginalizzazioneriesce anche perché il fatto di aver parte-cipato alla rivoluzione d’oltremanica coin-volge la sua figura in quella animosità anti-francese che caratterizza l’opinione pub-blica inglese a partire dalla seconda metàdel decennio rivoluzionario e poi per tutta

l’epoca napoleonica. Si tratta di un climaculturale che pubblicisti di orientamentodemocratico-radicale e cartista comincia-no a contrastare nei primi decenni dell’Ot-tocento3. I giudizi di Linton, insomma, perquanto politicamente connotati in modoassai marcato, parrebbero riportarsi aldesiderio di riabilitare Paine più che d’in-tenderne la cultura e di comprenderne lescelte politiche. Tuttavia questa, per quan-to non priva di elementi plausibili, sareb-be una spiegazione insufficiente. Il para-digma interpretativo disegnato da Linton,infatti, torna a ripresentarsi, sia pure informe di solito storicamente più scaltrite,anche a distanza di alcuni decenni, riemer-gendo periodicamente nella storiografia.A tal proposito, senza la pretesa di offrireuna rassegna completa, converrà propor-re alcuni esempi, sperando di offrire uncampionario abbastanza significativo.

Secondo Philip Foner, che scrive nel1945, al momento del suo arrivo in Fran-cia Paine sconta anzitutto un’errata collo-cazione politica. Se in Inghilterra nelperiodo della pubblicazione dei Diritti del-

l’uomo era legato ad ambienti di «estremasinistra», oltre Manica, invece, «i suoisodali stavano già diventando la destra». Igirondini, infatti, «rappresentavano laborghesia francese», che «non credeva inun governo autenticamente democratico»,ma voleva solo «tenere la Rivoluzione sottocontrollo». A tal fine non si peritarono distrumentalizzare anche Paine, che godevadi un prestigio personale come «portavo-ce dell’uomo comune», e in varie occasio-ni «lo spinsero in avanti per difendere unprogramma che non osavano rivendicareapertamente». Date simili premesse èlogico che il pamphlettista anglo america-no non intenda le ragioni che rendevano

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inevitabile il ricorso al Terrore. In sostan-za «Paine non sembra aver capito davverocosa stava accadendo dietro le quinte inFrancia». Non solo per l’ignoranza dellalingua, ma per una ragione politica piùgenerale: «non aveva mai avuto esperien-za di un movimento tanto avanzato comequello rappresentato dai Giacobini, guida-ti da uomini come Marat, Robespierre, eSaint-Just» (P.S. Foner, Thomas Paine

World Citizen and Democrat, in T. Paine, The

Complete Writings, vol. 1, p. xxxiii).Se il giudizio di Linton dipende soprat-

tutto dalle sue idee politiche, per la valu-tazione di quanto detto da Foner, oltre aduna assai riconoscibile posizione politica,possiamo indicare una precisa fonte sto-riografica. Infatti, in nota lo studioso ame-ricano fa un riferimento diretto all’operadi Albert Mathiez4. I giudizi politici gene-rali relativi ai girondini, che forniscono lacornice per le critiche all’atteggiamento diPaine sono ricalcati con precisione suquelli dello storico robespierrista. Questi,infatti, parlando della situazione successi-va ai massacri di settembre, definisce laGironda «come il partito dell’ordine edella conservazione sociale», i cui dirigen-ti «ritenevano il popolo incapace» eavversavano «naturalmente tutto quelloche avrebbe potuto intralciare l’azionedella borghesia proprietaria»5. Correlati-vamente i montagnardi, presentati sottouna luce favorevole, sono invece politica-mente più avanzati per una ragione socia-le, «rappresentavano il popolo minuto»,per cui «al diritto alla proprietà oppone-vano spontaneamente il diritto alla vita,all’interesse individuale l’interesse pub-blico» (A. Mathiez, La Révolution française.

Tome II, La Gironde et la Montagne, rispet-tivamente pp. 49-50 e 67-68).

Un trentennio dopo, per spiegare l’atti-

tudine painiana alla Convenzione, la mede-

sima lettura, linearmente classista, della

rivoluzione è stata riproposta dal figlio di

Philip Foner, Eric. Anche in questo caso, se

non manca il motivo dell’impedimento lin-

guistico («i dirigenti giacobini, più provin-

ciali di Brissot e dei suoi seguaci, non par-

lavano inglese e diffidavano degli stranie-

ri»), al centro dell’analisi sta la collocazio-

ne politico-sociale di Paine. Questi, a diffe-

renza di quanto faceva in America ed in

Inghilterra dove si muoveva «liberamente

nell’ambito delle classi inferiori e di quelle

superiori», nella sua veste di convenziona-

le «frequentava esclusivamente stranieri e

francesi denunciati dalla sinistra come ari-

stocratici» per cui, «in stridente contrasto

con la sua esperienza in America e in Inghil-

Griffo

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Thomas Paine, autore del libro The rights of Man.

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terra, Paine non aveva legami con alcun seg-mento delle classi sociali più basse dellaFrancia, una situazione che consente dispiegare in gran parte le difficoltà cheavrebbe presto incontrato» (E. Foner, Tom

Paine and Revolutionary America, rispettiva-mente pp. 240 e 239) 6.

In una fase successiva la lettura inge-nuamente filo-giacobina rispunta in lavo-ri dedicati ad aspetti particolari della vitae del pensiero di Paine. In un saggio pub-blicato nel 1987, dedicato a ricostruire lavicenda del monumento da dedicargli,l’avventura francese e soprattutto la suaesperienza alla Convenzione vengono rie-vocate brevemente con paradigmaticoschematismo. Le coordinate interpretati-ve che abbiamo visto emergere vengonoseguite in modo pedissequo. Catapultatoall’improvviso in Francia, Paine «commi-se l’errore di identificarsi con gli elemen-ti più conservatori della dirigenza france-se ». Per questi motivi, perciò, «quando,nel 1793, la Rivoluzione cadde nelle manidi leader più radicali di lui, Paine inevita-bilmente cadde in disgrazia e alla fine fumesso in prigione, dove rimase per quasiun anno» (F. Voss, Honoring a Scorned Hero:

America’s Monument to Thomas Paine, p.135). In tale chiave, non solo il Terrore èpresentato come una opzione necessaria,ma il fatto di esserne rimasto vittima, comeaccadde a Paine che scampò alla ghigliot-tina per un puro accidente, è riportato auno sbaglio politico che risulta implicita-mente inescusabile.

Circa un decennio dopo, in un librodedicato a ricostruire il pensiero religioso diPaine, lo schema ricompare con qualchesignificativa variazione. Dopo aver ricorda-to che «Paine partecipò dunque alla reazio-ne termidoriana anti-robespierrista», si

rileva che una simile scelta non è facilmen-te comprensibile, per cui occorre chiedersi«che cosa capì davvero del pensiero diRobespierre e che cosa comprese realmen-te di quel periodo» (N. Caron, Thomas Paine

contre l’imposture des prêtres, p. 170). Se lecategorie generali sono sempre quelle giàesaminate, che vedono il Termidoro comeuna reazione, l’accento è posto però sulpiano delle idee. Paine avrebbe sbagliatocollocazione politica anzitutto per non averinteso il pensiero di Robespierre. Lo stessogiudizio, sia pure preso da una differenteangolazione, ricompare in una biografiadivulgativa pubblicata nel 2004. In questocaso l’autrice ricorda, non senza una puntadi rammarico, che «fino all’alba del Terro-re, Paine e Robespierre hanno molto incomune. Quello che li separa non è il finema la scelta dei mezzi» (M. Julin, Thomas

Paine. Un intellectuel d’une Révolution à l’au-

tre (1737-1809), p. 110). In tempi ancora piùrecenti un biografo attento e partecipe hasostenuto che Paine «avrebbe dovuto svi-luppare una naturale amicizia con il trenta-quattrenne Robespierre». A suo avviso,infatti, i due «condividevano un largo rag-gio di principi filosofici e politici». Dallacultura illuminista, al deismo, alla preoccu-pazione per «il potere politico delle perso-ne «ordinarie» » (C. Nelson, Thomas

Paine. Enlightenment, Revolution, and the

Birth of Modern Nations, p. 236).

2. Un comodo passe-partout storiografico

In tutte queste ricostruzioni, una letturasommariamente classista della rivoluzio-ne viene adoperata come un comodo passe-

partout per spiegare senza grande fatica le

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posizioni di Paine alla Convenzione. Tutta-via, l’unico elemento reale su cui possonofare leva è quello linguistico. Il fatto cioèche Paine non riuscì mai ad avere unapadronanza attiva della lingua francese,neanche dopo molti anni di soggiorno. Nelcomplesso però, ci troviamo di fronte ainterpretazioni che risentono fortementedi un duplice condizionamento distorsivo.Da un lato esse sono tributarie di unainterpretazione politico-sociale della rivo-luzione d’oltralpe. Gli eventi francesi ven-gono intesi come una progressiva spintaverso la democrazia che s’interrompe conil Termidoro, quando si innesterebbe unripiegamento moderato. All’interno diquesto percorso il Terrore viene giustifi-cato perché prodotto dalle circostanze,come necessaria difesa delle conquisterivoluzionarie in un momento critico7. Ilgiudizio sul Termidoro da parte dei con-temporanei è del tutto diverso. Per essi fuil modo per interrompere una spirale diviolenza che appariva inarrestabile e ingiu-stificata. L’unica maniera, cioè, per poterriprendere il processo di edificazionecostituzionale rimasto incompiuto, riallac-ciando le fila della rivoluzione8. Paine con-divide pienamente questa posizione. Tan-t’è vero che esprime una sostanziale soli-darietà alla dirigenza termidoriana e al suooperato. In altri termini, una interpreta-zione della fine del Terrore come chiusuradel momento più avanzato del decenniorivoluzionario finisce con lo svalutare deltutto le diverse opzioni politico-costitu-zionali di cui i vari protagonisti degli avve-nimenti erano portatori. Opzioni che inve-ce sono determinanti per comprenderel’atteggiamento di Paine.

Questo ci porta al secondo condiziona-mento distorsivo. Il rischio, cioè, di frain-

tendere il senso del pensiero painiano. Perquanto Paine sia sempre stato un convin-to sostenitore di una forma di governosemplice, basata sul suffragio universale,la sua visione politica ha avuto come stellapolare la difesa dei diritti dell’uomo daldispotismo. Un dispotismo che poteva ori-ginare, certo, dalla monarchia ereditaria,l’avversario primo contro il quale simodellano le sue idee politiche, ma chepoteva manifestarsi anche in organismilegittimati dal voto popolare, ove non limi-tati e regolati nello loro prerogative. Ed èproprio questa sua concezione degli equi-libri costituzionali che spiega anche le con-tiguità politiche durante gli anni della Con-venzione. Non è per nulla casuale che Paineabbia come interlocutore privilegiato Con-dorcet, attento conoscitore del modellocostituzionale americano, ma soprattuttoimpegnato nel tentativo di edificare un tipodi governo rappresentativo a larga basedemocratica, ma bilanciato nella distribu-zione dei poteri e rigorosamente incentra-to sulla difesa dei diritti dell’uomo9.

Certo, si può sostenere legittimamenteche Paine risulta alle volte un po’ spaesatoin Francia, anche perché portato a inter-pretare le vicende coeve con le categorieelaborate durante la rivoluzione america-na10. Tuttavia il suo spaesamento non spie-ga la collocazione politica. Al contrario vasottolineato che la vicinanza politica conCondorcet, Brissot e il gruppo dei girondi-ni non è dovuta a circostanze fortuite. Sitratta, infatti, di un milieu nel quale la con-cezione del governo costituzionale-rap-presentativo era largamente diffusa eaccettata11. Correlativamente la sua avver-sione per i giacobini ha una non meno fon-data base concettuale. Nell’ambiente delclub di via Saint-Honoré, infatti, l’idea del

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governo rappresentativo è tutt’altro chechiara e definita. Non tanto e non solo per-ché si vagheggia la democrazia degli anti-chi, ma soprattutto perché non si ha niti-da la percezione che il governo rappresen-tativo costituisce un salto di qualità con ilpassato e richiede una precisa articolazio-ne istituzionale. Analogamente, tra gliesponenti giacobini è certo consuetol’omaggio ai diritti naturali dell’uomo, mala loro difesa è affidata ad un concettoetico, difficilmente definibile in modounivoco, come la virtù repubblicana e nonad una coerente limitazione dei poteri chegarantisca la fondazione costituzionalisti-ca dei rapporti politici12.

3. Due opposte concezioni del mutamento

politico

Per comprendere quanto sia grande ladistanza che separa le due visioni bastariportarsi alla concezione del mutamentopolitico. Per Paine, in un regime costituzio-nale-rappresentativo, l’insurrezione non haalcuna ragione d’essere, anzi si connota inmodo decisamente negativo. Si tratta di unaposizione che si precisa man mano nellosvolgimento della sua riflessione.Tuttaviaessa è presente, sia pure in forma meno ela-borata, fin dai primi scritti. Una iniziale for-mulazione la troviamo nell’appendice a Com-

mon Sense, scritta per la seconda edizione delpamphlet. Dopo aver ribadito che l’indipen-denza delle colonie dalla madrepatria è unesito inscritto nelle cose, che dovrà comun-que determinarsi prima o poi, Paine ricordache questo potrà avvenire in tre diversemaniere: «attraverso la voce del popoloespressa legalmente in Congresso; con il

ricorso al potere delle armi; attraverso unafolla sediziosa (mob)».

A suo parere un risultato soddisfacentesi otterrebbe solo con il primo dei mezziindicati, perché i coloni avrebbero la possi-bilità «di dare vita alla più nobile, alla piùpura costituzione mai esistita sulla facciadella terra» (Common Sense, in T. Paine, The

Complete Writings, vol. 1, p. 45). Negli altridue casi, quello della folla o del potere mili-tare gli esiti sarebbero, invece, sostanzial-mente negativi. Alcuni mesi dopo l’esigen-za di fondare l’indipendenza su di una ordi-nata procedura costituente comincia adaccompagnarsi a una riflessione sullaemendabilità costituzionale. In un inter-vento pubblicato fra la primavera e l’estatedel 1776, durante il dibattito che accompa-gna l’approvazione della costituzione diPennsylvania, troviamo un significativoaccenno alla necessità di prevedere lamaniera con cui modificare la costituzione.La giustezza dei principi che anima le cartein via di approvazione in ciascuna dellecolonie in rivolta va poi corroborata da unaverifica empirica del loro funzionamento,per saggiare le soluzioni migliori. Perciòs’impone la necessità di avere delle costitu-zioni che si possano periodicamente emen-dare e perfezionare.

A suo parere è importante che «qualchearticolo della Costituzione preveda che allospirare di ogni sette anni, o di un qualunquealtro numero di anni, venga eletto un Provin-

cial Jury, per indagare se qualche danno èstato fatto alla Costituzione, e con il poteredi rimuoverlo; ma non di fare modifiche, ameno che una chiara maggioranza degli abi-tanti lo richieda espressamente» (Four Let-

ters on Interesting Subjects, p. 80)13. Come sivede qui viene suggerita una procedura direvisione automatica a data fissa, che può

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diventare operativa, almeno a quanto sicapisce dalla scarna formulazione del testo,solo sulla base di una ratifica popolare.

La riflessione di Paine conosce appro-fondimenti successivi, tuttavia non è con-tinua, ma segue le stagioni del suo impegnopolitico. Non meraviglia, perciò, che iltema torni a ripresentarsi a distanza di unlungo intervallo di tempo, in uno scrittodel 1786. In questa occasione Paine affron-ta l’argomento da un altro punto di vista,quello cioè della legittimità o meno deldiritto all’insurrezione. Questa vieneriportata alla articolazione complessivadella forma di governo. In una monarchiadispotica, dove il potere è concentrato inuna sola persona, che non deve risponde-re a nessuno delle proprie scelte, il siste-ma può essere riformato solo «per mezzodi una petizione o di una insurrezione».Ed è per questo motivo che «abbiamo cosìspesso notizia di insurrezioni in governidispotici». Al contrario in un regimerepubblicano, come quello vigente inAmerica, la scelta dei governanti è affida-ta al libero voto dei cittadini. Il ricambio dipersonale politico legato a questa proce-dura consente di correggere pacificamen-te eventuali misure errate. Ne consegueche «la forma ed i principi repubblicaninon lasciano spazio per insurrezioni, per-ché, invece, prevedono e fissano mezzi dicorrezione legali» (Dissertations on Gover-

nment; the Affairs of the Bank; and Paper

Money, in T. Paine, The Complete Writings,vol. 2, p. 369)14.

Il tema torna ripresentarsi con una piùcompiuta definizione, negli scritti redattidopo il suo ritorno in Europa (nel 1787) e,soprattutto, dopo l’inizio della rivoluzionefrancese. Paine legge l’esperienza francesecome un tentativo di trapiantare in Europa

gli ideali e i meccanismi costituzionali ela-borati nella rivoluzione americana. In que-sta più complessiva atmosfera mentale s’in-serisce anche il tema delle clausole di revi-sione costituzionale, sviluppato da Paine inmodo più organico in uno scritto rivoltoall’opinione francese che, pubblicato nel1792, risale quasi sicuramente all’estate del1791, collocandosi cioè cronologicamente acavallo fra le due parti dei Diritti dell’uomo.Si tratta delle risposte a un questionarioproposto da Condorcet, circostanza checonferisce al tono dell’esposizione un’im-pronta marcatamente didascalica. Perquanto non esplicitamente tematizzato frale quattro domande che gli erano state sot-toposte, Paine, confermando un approccioempirico alla costruzione costituzionale,sottolinea la necessità di mettere a punto «il

modo migliore per perfezionare la Costituzione,

in tutti i casi nei quali l’esperienza lo dimostra

necessario», e di farlo in maniera pacifica,«senza disturbare il corso ordinato del gover-

no». Padrone di una scienza politica inno-vativa, Paine snocciola i suoi suggerimenticon sicurezza, forte di avere alle spalleesempi realissimi. Senza incertezza indicache occorre «aggiungere una clausola allaCostituzione che fissi come operare questimiglioramenti». Non si tratta di un consi-glio meramente tecnico quanto di un aspet-to qualificante una saggia organizzazione deipoteri, perché, «nessuna costituzione chenon contenga disposizioni al riguardo puòessere ritenuta completa». Ovviamente gliesempi cui si fa riferimento sono quelliamericani. Tanto la costituzione della Pen-nsylvania che quella federale sono citatecome modelli da imitare perché dotateentrambe di procedure di emendamentoprecise, nelle quali si fa largo spazio alladiscussione pubblica e al voto popolare.

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Come osserva a proposito della costituzionedi Filadelfia: «tali miglioramenti debbonoessere fatti sotto l’autorità del popolo e permezzo delle stesse forze (agencies) chehanno posto in essere la Costituzione»(Answer to Four Questions on the Legislative

and Executive Powers, in T. Paine, The Com-

plete Writings, vol. 2, pp. 530 e 532. Il corsi-vo è nel testo).

L’argomento viene ripreso anche nellaseconda parte dei Diritti dell’uomo, dove siassortisce a una riflessione sul senso e ilsignificato delle rivoluzioni. L’inferioritàdel regime monarchico-ereditario si rivelanitidamente al momento della successione.L’erede può essere minore oppure averefratelli più autorevoli o amati dalla nazione.In questo tipo di regime, insomma, «ognisuccessione è una rivoluzione, ed ogni reg-genza una contro-rivoluzione». Tali rivolgi-menti sono assenti nel regime rappresenta-tivo. Con malcelato orgoglio Paine spiegacome in America gli stati prima e poi ilgoverno centrale si siano dotati di costitu-zioni e le abbiano emendate. Un processoche si è svolto pacificamente: «Nel crearequeste costituzioni o nel modificarle, pocoo nessun inconveniente si è verificato. Ilcorso ordinario della vita non si è interrot-to, e ciò ha costituito un grande vantaggio».Fatto che dimostra come un governo benordinato e conforme a natura è in grado discongiurare mutamenti violenti. Da quil’importanza delle clausole di revisione,definite senza mezzi termini «uno dei piùgrandi miglioramenti che sia stato fatto perla sicurezza perpetua ed il progresso dellalibertà costituzionale». L’affermazione nonrisulta iperbolica se si tiene presente il qua-dro concettuale che presiede al ragiona-mento painita. Rivedere e modificare lacostituzione pacificamente, introducendo

man mano gli opportuni aggiustamenti det-tati dall’esperienza, è visto come un grandeprogresso nella giovane scienza del governo.In questo modo è possibile evitare che gliinconvenienti o le disfunzionalità si accu-mulino «fino a scoraggiare riforme o a pro-vocare rivoluzioni» (The Rights of Man, Part

Second, in T. Paine, The Complete Writings,vol. 1, pp. 373, 381, 395, 396).

Lo stesso discorso vale se dalla tecnicadi revisione costituzionale ci spostiamo auna considerazione di ordine generale.Quello che occorre promuovere non è unoscatenamento di violenza incontrollata,bensì un’azione volta all’edificazione di unmigliore ordine politico. In questo proces-so: «le più grandi forze che possono essereadoperate nell’ambito delle rivoluzioni,sono la ragione e l’interesse comune. Dovequeste hanno l’opportunità di agire, l’op-posizione dilegua per la paura, o si sgretolaper effetto della persuasione». C’è da spe-rare, pertanto, che in futuro sia possibile«vedere rivoluzioni, o cambiamenti neigoverni, prodotti dalla stessa tranquilla ope-razione con la quale ogni misura, che si puòmettere a punto per mezzo della ragione edella discussione, viene realizzata».

Come si vede, Paine dà al termine rivo-luzione un significato oscillante, a voltepositivo a volte negativo. Si comprendeperò che il suo ideale è quello di un muta-mento pacifico. Cosa che si potrà realizza-re pienamente con l’avvento del governocostituzionale-rappresentativo, nel qualele clausole per modificare le parti dell’or-dinamento difettose od obsolete sono fis-sate con precisione. Ma un risultato analo-go si può ottenere anche nelle rivoluzioniche precedono l’instaurazione del gover-no rappresentativo, purché a predomina-re sia la discussione razionale e pubblica.

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Analogamente, nella prefazione alla secon-da parte dei Diritti dell’uomo, si ricorda cheil mutamento di governi in tutta Europa«certamente può essere fatto senza con-vulsioni e vendette», per poi specificareche «non vale la pena di fare mutamenti orivoluzioni, a meno che sia per ottenerequalche grande beneficio nazionale » (The

Rights of Man, Part Second, in T. Paine, The

Complete Writings, vol. 1, pp. 446 e 353).Per i giacobini, e segnatamente per

Robespierre, non solo quello all’insurre-zione è un diritto incomprimibile, ma lapossibilità di forme di mutamento politicolegale è guardata con sospetto. Nel proget-to di dichiarazione dei diritti preparato daRobespierre, risalente all’aprile del 1793,all’articolo ventinovesimo si afferma chenel momento in cui «il governo viola idiritti del popolo, l’insurrezione è, per ilpopolo e per ciascuna porzione del popolo,il più sacro dei diritti e il più indispensabi-le dei doveri». Questa affermazione, checanonizza il diritto all’insurrezione ancheda parte di una minoranza, viene poi dop-piata da un articolo successivo, il trentune-simo, nel quale si specifica che «assogget-tare a delle forme legali la resistenza all’op-pressione, è l’ultimo raffinamento dellatirannia» (M. Robespierre, Sur la propriété

suivi du projet de déclaration des droits de

l’homme et du citoyen, in Idem, Discours sur

la religion, la république, l’esclavage, p. 72)15.In sostanza ci troviamo di fronte a una posi-zione che non solo difende il ricorso allaviolenza quale via maestra per modificareuna condizione politica giudicata insoddi-sfacente o negativa, ma considera la rego-lamentazione e la costituzionalizzazione delmutamento politico come una praticatirannica e negatrice dei diritti del popolo.Come s’intende la distanza tra queste con-

cezioni è amplissima, configurando dueuniversi concettuali del tutto incompatibi-li. Da una parte abbiamo la convinzione cheun ordine politico razionale debba posse-dere anche i metodi legali per incanalare ilmalcontento sociale in un alveo legale ecostituzionalmente garantito da procedurecerte. Dall’altro sta una posizione che sipotrebbe definire insurrezionalista per cuiè essenziale che il popolo, o anche solo lasua parte più attiva, possa sollevarsi controun potere che ritiene oppressivo16.

Ricollocato in questo ambito, che tienenel debito conto i modelli politici di riferi-mento, l’atteggiamento di Paine in Franciaappare perfettamente comprensibile, oltreche coerente con i suoi ideali. Come si èricordato, a suo avviso la rivoluzione fran-cese è una replica europea di quella ameri-cana. Deve perciò mantenersi all’altezza deiprincipi professati e non corromperli o uti-lizzarli in modo strumentale. Questo valesul piano dell’organizzazione costituziona-le, ma vale altresì su quello della prassipolitica, che deve rispettare le opinioni dis-senzienti e non confondere le istituzionicon gl’individui, né dirimere le divergenzepolitiche con la violenza. La costituzionaliz-zazione del cambiamento è parte integran-te degli ideali rivoluzionari di Paine. Unavisione in cui la fiducia illuminista nel pro-gresso si sposa alla tecnica costituzionale. Ilmutamento politico sarà promosso dallalibertà di discussione, accompagnata daefficaci strumenti istituzionali. Correlati-vamente l’insurrezione non può configu-rarsi come un diritto, bensì solo come untriste retaggio del passato che, una voltainstaurato un regime costituzionale-rap-presentativo, dovrà necessariamente scom-parire con il trascorrere del tempo17.

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1 Con il termine giacobinismo ci

riferiamo sostanzialmente ai

fautori della dittatura di salute

pubblica e del Terrore. Per una

breve ma efficace ricostruzione

del club, del ruolo politico da

esso assunto e dell’evoluzione

avutasi nel quinquennio dalla

primavera 1789 al novembre

1794, quando viene chiuso, cfr.

F. Furet, Giacobinismo, 1994.

Una ricostruzione della cultura

politica rivoluzionaria, a partire

dall’esperienza giacobina, in L.

Jaume, Le Discours jacobin, 1989.2 Un breve accenno all’epoca e alle

circostanze in cui venne scritto il

libro su Paine si trova nell’auto-

biografia, W. J. Linton, Threesco-

re and Ten Years, 1894, p. 75. Su

Linton vedi ora in italiano S.

Mastellone, Mazzini e Linton,

2007. Tutte le traduzioni dei

brani citati nel testo sono di chi

scrive.3 L’opera di Paine conosce una

fase di oblio anche in America, a

ragione dei durissimi attacchi a

Washington ma soprattutto del

deismo militante, fortemente

anticristiano, che caratterizzano

l’ultima fase della sua vita. Un

clima culturale che conosce una

significativa inversione solo

verso la fine del XIX secolo. Sulla

fortuna politica e storiografica di

Paine ci permettiamo di rinvia-

re a M. Griffo, Thomas Paine

nella recente storiografia, 2006.

Una utile analisi di alcune delle

principali biografie ottocente-

sche di Paine, in E. Larkin, Tho-

mas Paine, 2005, pp.149-177. A

proposito della suggestione

esercitata da Paine sul cartismo

e sul nascente movimento ope-

raio inglese resta fondamentale

E.P. Thompson, Rivoluzione

industriale, 1969 (1963), passim,

ulteriori analisi e approfondi-

menti in G. Claeys, Thomas

Paine, 1989, soprattutto pp.

120-171 e 209-215. Nessuno di

questi autori fa però riferimen-

to alla biografia di Linton.

4 Cfr. P.S. Foner, Thomas Paine

World Citizen and Democrat, 1945,

p. xxxi, nota, dove si richiama

l’edizione americana dell’opera

di sintesi di Mathiez. Va preci-

sato, comunque, che nel lavoro

dello storico francese non vi

sono, come afferma Foner,

«parecchi acuti commenti su

Paine» (ivi), ma pochi generici

riferimenti. Per la posizione

politica di Linton può essere

utile notare che ad un certo

punto fa riferimento alla tradu-

zione inglese del libro di Buo-

narroti sulla cospirazione di

Babeuf, cfr. W. J. Linton, The Life

of Thomas Paine, 1892, p. 44,

nota.5 Una ben nota analisi critica della

tradizione storiografica di cui

Mathiez è un esponente assai

rappresentativo in F. Furet, Cri-

tica della rivoluzione francese,

1987 (1978), passim. Per un utile

inquadramento della figura e

dell’opera di Mathiez cfr. M.

Vovelle, Albert Mathiez, 1989, pp.

458-468. Un breve e intenso

ricordo di Mathiez è lo scritto di

Georges Lefebvre, Introduzione,

1976 (1958), pp. 7-12.6 Più conciso, ma al tempo stesso

più equilibrato, il giudizio di

Hawke, autore di una ottima

biografia painita e profondo

conoscitore delle vicende della

rivoluzione americana, secondo

cui nel periodo della Convenzio-

ne «i problemi di lingua almeno

altrettanto che quelli ideologici

hanno determinato le affiliazio-

ni politiche di Paine» (D.F.

Hawke, Paine, 1992 (1974), p.

266).7 Oltre alla sintesi di Mathiez cita-

ta precedentemente, una versio-

ne canonica di questo tipo di let-

tura del decennio rivoluzionario

si trova, per esempio, in A.

Soboul, La Révolution française,

1989 (1965). Il capitolo dedica-

to al Termidoro s’intitola, non

casualmente: «La caduta del

Governo rivoluzionario e la fine

del movimento popolare (termi-

doro anno II – pratile anno

III)».8 Un sintetico approccio al Termi-

doro, fuori dello schema che

tende a ridurlo a un periodo di

reazione o di ripiegamento anti-

democratico, in B. Baczko, Ter-

midoriani, pp. 475-489. Per

un’interpretazione del decennio

rivoluzionario in cui il Termido-

ro è visto come un momento di

un tentativo fallito di fondare

uno stabile ordine costituziona-

le cfr. R. Martucci, L’ossessione

costituente, 2001.9 Sulla concezione costituzionale

di Condorcet cfr. G. Magrin,

Condorcet, 2001. Per alcune

osservazioni ulteriori ci permet-

tiamo di rinviare a M. Griffo,

Condorcet e la democrazia dei

moderni, 2001. Sempre molto

utile anche F. Alengry, Condor-

cet, guide de la Révolution françai-

se, 1904.10 Cfr. H.J. Kaye, Thomas Paine,

2005, p. 79.11 Sul pensiero politico di Brissot,

cfr. F. Mazzanti Pepe, Il mondo

nuovo di Brissot, 1996, in parti-

colare sulle idee costituzionali

pp. 239-319. In generale sui

girondini vedi i saggi raccolti in

F. Furet, M. Ozouf (sous la direc-

tion de), La Gironde et les Giron-

dins, 1991.12 Sul richiamo alla virtù repubbli-

cana assai esemplificativo il

discorso di Robespierre del 5

febbraio 1794, “Sui principi di

morale politica”, ora in M.

Robespierre, La rivoluzione gia-

cobina, 1984, pp. 158-181. Per la

nozione di costituzionalismo che

si adopera in questa sede il rin-

vio d’obbligo è a C.H. McIlwain,

Costituzionalismo antico e moder-

no, 1990 (19472).13 Lo scritto fu pubblicato anoni-

mo, la paternità è stata convin-

centemente argomentata da A.O.

Aldridge, Thomas Paine’s Ameri-

can Ideology, 1984, pp. 219-239.14 In questo scritto, invece, il pro-

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Ricerche

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blema della revisione costituzio-

nale viene affrontato soltanto

sotto il profilo del diritto che

ogni generazione ha di cambia-

re la propria costituzione, cfr.

Dissertations etc., pp. 395-6.

L’avversione per il ricorso all’in-

surrezione quando sono dispo-

nibili mezzi legali di intervento,

già accennata, come si è visto, in

Common Sense, viene ribadita

anche in uno scritto del 1778.

Cfr. A Serious Address to the Peo-

ple of Pennsylvania on the Present

Situation of their Affairs, in T.

Paine, The Complete Writings, p.

289.15 Preferiamo seguire il testo

riprodotto in questa antologia di

discorsi e non quello riportato

nella già citata silloge La rivolu-

zione giacobina, cit., p. 125, per-

ché la traduzione contenuta in

codesta edizione è meno fedele

all’originale.16 Come è stato rilevato, per i gia-

cobini il popolo non designa

tanto un’entità fisica quanto un

principio morale, cfr. P. Rosan-

vallon, La Démocratie inachevée,

2000, p. 80. La concezione

insurrezionale dei giacobini che

impedisce un approccio istitu-

zionale al controllo dei poteri è

stata da ultimo sottolineata da L.

Scuccimarra, Sorvegliare e puni-

re, 2007, pp. 454-456.17 Nella prima parte dei Diritti del-

l’uomo, Paine riporta gli episodi

di violenza verificatisi in alcune

giornate rivoluzionarie (14 luglio

e 5, 6 ottobre 1789) a un perma-

nere della brutalità caratteristi-

ca dei governi dispotici, che si

rispecchia ancora nei comporta-

menti degli strati meno istruiti

della popolazione. Cfr. Rights of

Man, in T. Paine, The Complete

Writings, p. 267.

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1. Introduzione

L’interesse di studiare oggi la situazione

francese in tema di laicità deriva anche

dalla considerazione che in essa convivo-

no più discipline (in antitesi con l’unifor-

mità normativa tradizionale della Francia),

come avviene, ad esempio, negli Stati fede-

rali dove, ovviamente, più legislazioni si

affiancano, e cioè quelle dei diversi sog-

getti membri dello Stato federale, da un

lato, e di quest’ultimo, dall’altro. Delle

varie discipline esistenti in territorio fran-

cese, la principale ha visto da ultimo l’ap-

provazione parlamentare e la successiva

promulgazione da parte del Presidente

della Repubblica Jacques Chirac (con la

successiva pubblicazione nel J.O. del 17

marzo 2004) della legge n.2004-228 del 15

marzo 2004 (Encadrant, en application du

principe de laïcité, le port de signes ou de

tenues manifestant une appartenance reli-

gieuse dans les écoles, collèges et lycées

publics). Essa ha fatto seguito al Rapport

della Commission Stasi (Commission de réfle-

xion sur l’application du principe de laïcité,

nota come Commission Stasi dal nome del

suo presidente, il Médiateur de la Républi-

que Bernard Stasi), reso al Presidente della

Repubblica l’11 dicembre 2003, che con-

sidera la laicità, dapprima, come principio

universale e valore repubblicano e, quin-

di, come principio giuridico-costituziona-

le dello ordinamento nazionale.

La seconda, che chiameremo discipli-

na d’eccezione, riguarda l’intesa intercor-

sa tra il Pontefice e lo Stato francese nel-

l’anno 1801. Tale accordo, che venne con-

cluso tra il Primo Console Napoleone

Bonaparte ed il Pontefice Pio VII il 16

luglio 1801, risulta ancora oggi in vigore –

nei tre Dipartimenti dell’Alto Reno, del

Basso Reno e della Mosella – nel testo «che

risulta dalla legge del 18 germinal anno X»,

come esplicitamente e solennemente chia-

rito con l’importante Avis n. 188.150 du 24

janvier 1925 du Conseil d’État (cfr. Conseil

d’État, Rapport public 2004: un siècle de laï-

cité, p.419).

Ai tre menzionati Dipartimenti, in

113

Il regime concordatario francese e l’“eccezione” al principio di laicità in Alsazia-Mosella

enrico bulzi

giornale di storia costituzionale n. 16 / ii semestre 2008

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seguito al loro passaggio alla Germania nel1870, non si applicò più il Concordato del1801, sino a quando – grazie al loro ritor-no nel territorio dello Stato francese al ter-mine del primo conflitto mondiale – ilConseil d’État stabilì la legge ad essi appli-cabile, tenendo conto del fatto che (all’ini-zio del XX secolo, e più precisamente nel1905) il legislatore francese si era piegatosotto il peso di spinte sempre più forti ten-denti a modificare l’assetto concordatario.

Per meglio comprendere lo svolgersidegli eventi va ricordata la sintesi operatadallo stesso Conseil d’État con riferimentoalla violazione del Concordato «par le pou-voir religieux», invocata agli inizi del XXsecolo e particolarmente nel progetto dilegge depositato il 10 novembre 1904.«Aux termes de ce projet, l’Église catholi-que était davantage assujettie au Gouver-nement que sous le régime concordataire

(cfr. Conseil d’État, Rapport public 2004: un

siècle de laïcité, p.419)».L’11 novembre 1918, con la conclusione

della prima guerra mondiale e la restituzio-ne dei tre Dipartimenti dell’Alto Reno, delBasso Reno e della Mosella alla Francia,emergeva infatti la prospettiva di continua-re ad applicare, nel loro ambito, il Concor-dato del 1801, trovando al riguardo esplici-tamente favorevole il Conseil d’État (comeevidenzierà il supra citato Avis del 24 genna-io 1925), organo che, ottant’anni più tardi,più precisamente nel 2004, ripercorre – contutto il peso della sua autorevolezza – la sto-ria della propria giurisprudenza in tema dilaicità. La rottura fondamentale nella storiadei rapporti fra religione e politica, deter-minata dalla Rivoluzione francese, vi ottie-ne un ampio spazio che ne testimonia l’im-portanza, e che sta alla base (nel § 1.1.1 delRapport del Conseil) della profonda e detta-gliata analisi di cui è autore lo stesso orga-no giurisdizionale. In essa chi scrive ha tro-vato la più significativa fonte per il presen-te lavoro, anche con riferimento all’ordineespositivo e consequenziale dei problemi daanalizzare, rientranti nella tematica dellalaicità, che il Rapport public del 2004 delConseil francese ha inteso privilegiare e che,premessa la portata della rottura rivoluzio-naria, la pone come base conoscitiva neces-saria per lo studio del regime concordatariodel 1801.

Successivamente all’approvazione delConcordato che ha condotto all’instaura-zione di tale regime, le leggi di laicizzazio-ne degli anni ottanta del XIX secolo segui-vano di pochi anni la perdita da parte dellaFrancia dei tre supra menzionati Diparti-menti, ai quali perciò non si applicarono.Dopo un ventennio, l’articolo 44 della cita-ta legge del 1905 iniziò disponendo che

Ricerche

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Pio VII.

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«sont et demeurent abrogées toutes lesdispositions relatives à l’organisationpublique des cultes antérieurement recon-nus par l’Etat, ainsi que toutes dispositionscontraires à la présente loi et notamment:1° La loi du 18 germinal an X, portant quela convention passée le 26 messidor an IXentre le pape et le Gouvernement français,ensemble les articles organiques de laditeconvention et des cultes protestants,seront exécutés comme des lois de la Répu-blique». Nel 1905, però, i tre Dipartimen-ti in questione si trovavano ancora nel ter-ritorio tedesco e quindi non subirono glieffetti giuridici di tali leggi. In seguito,dopo il ritorno alla Francia ed in forza delcitato Avis del 24 gennaio 1925 del Conseil

d’État, in essi fu applicato nuovamente ilregime concordatario.

Il problema – quindi – si pose almomento della riconquista francese di taliterritori. Ma andiamo con ordine.

2. I principi rivoluzionari francesi ed il Con-

cordato del 1801

Per il periodo storico antecedente allaRivoluzione francese, si deve almenoricordare quanto voluto dal Re di FranciaCarlo VII che, con un proprio atto unilate-rale, aveva introdotto quella che ancor oggiè nota come la “Pragmatica sanzione” diBourges del 1438, rimasta in vigore sino alConcordato del 1516, che, peraltro, man-teneva molti poteri in capo al Re. A fineXVIII secolo, si trattava quindi di abban-donare, da parte della Corona, la pretesanazionale d’opporre l’autorità dei Concili,in cui risultava evidente l’influenza regiasui vescovi francesi, al potere del Papa.

Fino allora il Pontefice, per parte sua,aveva riconosciuto ai Re di Francia, oltre aquanto atteneva alla giurisdizione deivescovi nella propria diocesi, la loro stes-sa nomina.

In questa situazione sarebbe statonecessario che la Corona decidesse di pro-cedere ad un nuovo negoziato con il Pon-tefice, tenendo pure conto degli insegna-menti rivoluzionari, sia di minoranza chedi maggioranza; ciò che avrebbe condottoad una doverosa, oltre che ormai certa-mente non più eludibile, separazione tral’ambito politico e quello religioso.

Tale ipotesi d’evoluzione dei rapportiStato-Chiesa si fondava sia sulla legge del13 febbraio 1790 – che aboliva il ricono-scimento pubblico dei voti religiosi – siasulla successiva legge del 18 agosto 1792 checoncerneva gli ambiti religiosi delle con-gregazioni e delle attività ospedaliere ed’insegnamento.

La necessità di giungere ad un nuovoregime concordatario fu soddisfatta soloall’inizio del secolo successivo, cioè quan-do il Re non era più il Capo dello Statofrancese e pure il periodo di Robespierreera ormai passato, favorendo non solo trai cattolici, ma anche tra i protestanti, quelclima al quale si doveva l’evoluzione inmateria religiosa, specie in alcuni Diparti-menti quali l’Alto e il Basso Reno (dove èstata documentata «la volontà protestantedi ricostruire», ad esempio ad opera diMuller, 2004, 63-83 particolarmente 79 ess.). In tale evoluzione erano coinvolti siai Comuni di campagna sia le parrocchie:ciò che era maggiormente riscontrabilenegli anni più vicini al 1801 piuttosto chenei primi momenti rivoluzionari, certo piùcomplessi. Tali anni erano apparsi a molticattolici come oscuri. In Regioni francesi

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come l’Alsazia, nei decenni del XVIII seco-lo anteriori alla Rivoluzione, le chieseapparivano piene di fedeli ed il clero rap-presentava un’allettante prospettiva permolti strati sociali provocando, di conse-guenza, un forte incremento di vocazioni.

Peraltro, ciò non avveniva secondo unpercorso isolato proprio del cattolicesimo,ma attraverso uno sviluppo piuttosto ana-logo anche in campo luterano; mentre nonrisulta possibile, per contro, esprimersinegli stessi termini per quanto concerne-va gli ebrei.

In tale contesto, il primo triennio rivo-luzionario era stato accolto dal clero connon celata inquietudine, causata anchedagli atti normativi che la Rivoluzioneaveva adottato in campo religioso. Nel1790, non solo si era spaccata (in sensogeografico) la Francia, ma lo stesso eraaddirittura accaduto in diocesi tra lorovicine. Se, infatti, la legge del 12 luglio 1790non aveva trovato accoglienza favorevolenel clero del Basso Reno, la situazioneappariva sicuramente differente nell’Alsa-zia settentrionale, in cui il giuramento aiprincipî rivoluzionari era stato accettato daampi strati del clero. Ciò che non si era,invece, riscontrato in altre diocesi (sia peril clero secolare sia nei conventi maschilie femminili), laddove il rapporto tra catto-lici e luterani era di 2 a 1 (450.000 a220.000), sulla base dei dati censiti appe-na alla vigilia della Rivoluzione.

I due dati relativi a protestanti e catto-lici, in un contesto territoriale tra i piùsignificativi nell’ambito francese, nonvanno trascurati per comprendere il ruolodi entrambi gli schieramenti religiosi aproposito del Concordato del 1801 che,infatti, non definisce il culto cattolicocome religione ufficiale o nazionale, ma,

più correttamente, «la religione dellagrande maggioranza dei francesi» (cfr.Conseil d’État 2004, p.251). A fianco di essasono riconosciuti sia il culto protestantesia la religione ebraica, mentre le altreconfessioni sono solamente “tollerate”.

A Napoleone Bonaparte va assegnato ilmerito di aver lasciato alle spalle la disci-plina concordataria prerivoluzionaria edessere addivenuto alla negoziazione – frut-to di difficoltà notevoli, come da lui stessoriconosciuto – del Concordato del 1801 econseguentemente alla successiva legge del18 germinal anno X, che, appunto, è semprerimasta in vigore nei tre Dipartimenti del-l’Alto Reno, del Basso Reno e della Mosel-la nei periodi di loro annessione sia allaFrancia sia alla Germania.

La situazione di questi Dipartimenti,negli anni immediatamente precedenti al1801, è caratteristica anche per la terzacomponente religiosa ricordata nel Con-cordato, cioè quella ebraica. Infatti inAlsazia si trovavano 20.000 dei 40.000ebrei residenti in Francia alla fine delXVIII secolo. Molti di essi erano commer-cianti di bestiame, di cavalli e di cereali.Anche contro di loro, oltre che verso abba-zie e castelli, non mancarono gli attacchisin dai primissimi momenti della Rivolu-zione, cioè della fine del luglio 1789. Inparticolare, in Alsazia, due esponentiimportanti del culto ebraico, David Sin-tzheim e Joseph Brunschwig, denunciaro-no la preoccupante situazione che li con-cerneva.

Dopo i primi anni della Rivoluzione, itentativi dei sostenitori del Terrore diaddivenire ad un nuovo culto della Ragio-ne erano degenerati negli arresti di mini-stri cattolici e protestanti oltre che di rab-bini: nella prigione di Belfort ne furono

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infatti condotti ben 227, secondo un datodel 1794. Di essi sei pagarono con la vita ilprezzo di sangue alla Rivoluzione, insiemea diciannove laici accusati per soli motivireligiosi ed uccisi nell’Alto e nel BassoReno. Tra essi i Sindaci di Wolschwiller e diPfaffenheim, quest’ultimo reo di aver pro-tetto un prete. Da qui le accuse alla lottaantireligiosa condotta dalla Rivoluzioneche costituisce ancor oggi il principale fon-damento dell’ostilità verso gli autori di talidegenerazioni, che così diffusamente inquella Regione si registrava nel periodorivoluzionario.

Quanto all’atteggiamento tenuto daigiacobini nei confronti dei protestanti,esso si riassumeva nel termine di “traîtres”rivolto contro di essi, in realtà motivatonon solo dalla difficoltà di accettare lacaduta della monarchia, ma pure dalla suc-cessiva politica antireligiosa della Conven-zione che, nell’autunno del 1793, non lirisparmiava certo. Anzi, tale politica si eraspinta sino all’interruzione dei loro cultied alla chiusura delle chiese che, a Stra-sburgo come in altri centri, si era deciso diadibire a magazzini. Tra le alternative pra-ticate nella scelta delle destinazioni d’usodegli edifici di culto ci si era indirizzati,infatti, al deposito di vettovaglie e riforni-menti vari. Scelte che erano sempreaccompagnate dalla confisca degli oggettiliturgici.

In breve, ciò aveva determinato, nelBasso Reno, la scomparsa delle pratiche diculto e, nell’Alto Reno, la continuazione inclandestinità, con il rischio dell’incarce-razione nel grande seminario di Strasbur-go. Nei casi più gravi, si era giunti alla con-danna a morte, come per il pastore JeanJacques Fischer di Dorlisheim ghigliotti-nato il 24 novembre 1793, mentre in altri

casi gli arresti erano il preludio alla mortein prigionia. Pericoli così forti per la stes-sa incolumità fisica erano alla base di sof-ferte decisioni, cui erano costretti i pasto-ri protestanti, quali l’emigrazione da que-st’area o, come ultima ratio, il cambiamen-to di “mestiere”: ipotesi quest’ultima veri-ficatasi però solo in ventidue casi su due-centoventi.

Il 1797 risulta essere l’anno nel quale ilmaggior numero di prelati, sia cattolici cheprotestanti, varcò la frontiera, tornandonel proprio Paese (cioè la Francia): passosenza il quale il Concordato del 1801 nonsarebbe stato concepibile.

Va altresì tenuto in considerazione illimite previsto nel primo articolo del Con-cordato: il culto cattolico si deve conforma-re «aux réglemens [rectius règlements] depolice que le Gouvernement jugera néces-saires pour la tranquillité publique». Ante-riormente al 1797, alla luce del clima diostilità appena descritto, il Ponteficeavrebbe difficilmente accettato tali regola-menti, opponendosi piuttosto alla possibi-lità – oltre che alla necessità, come si com-prende sulla base di quanto sostenuto inprecedenza – di giungere al Concordato.

Continuando ad esaminare il contenu-to del regime giuridico concordatario, essoattua il «monopolio» pubblico – cheimpediva, pertanto, ai privati di concorre-re alla possibilità di forgiare le future clas-si dirigenti – prevedendo tale regime uni-camente per l’istruzione universitaria, equindi non risultando vigente per i gradiinferiori dell’istruzione e dell’insegna-mento.

Nelle righe precedenti si sono eviden-ziati i limiti che tale regime poneva all’in-segnamento o, guardando dal punto di vistalaico, le garanzie che l’ordinamento giuri-

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dico francese concordava con il Pontefice;ma esse non sarebbero poi bastate al legi-slatore francese del secolo successivo,come si dirà nel § 3.

3. Dal Concordato alla disciplina vigente in

Francia

Dal 20 giugno al 16 agosto 1801, a Parigi, siriunì il Concilio nazionale al fine di elabo-rare con coerenza le posizioni dei vescovinegli stessi giorni della firma del Concor-dato, ma soprattutto della promulgazionepapale della Post multos labores che spinge-va, secondo l’allora Segretario di Statopontificio Cardinale Consalvi, ad unarichiesta rivolta ai vescovi francesi di for-mulare la «condamnation en bloc de l’oeuvre

révolutionnaire depuis 1790 jusqu’à 1801»(Plongeron 2004, pp.86-87).

L’intervento del Cardinale Consalvis’inseriva nella controversia relativa alledue versioni del testo della Post multos labo-

res, connotate da toni diversamente conci-lianti verso la Francia. Ed era concomitan-te con l’interruzione del Concilio naziona-le e con la successiva riunione alla presen-za di solo quindici vescovi in luogo di cin-quantanove, il 21 agosto 1801, cioè pochigiorni prima del 28, giorno della pubblica-zione delle Observations des membres du

Concile sur le Traité avec Rome.La successiva crisi concordataria è quel-

la del 1817-1821, avvenuta, dunque, a pocopiù di tre lustri dalla firma, avvenuta in data16 luglio 1801, e con riferimento alla qualesi ritiene utile aggiungere qui il nome deiplenipotenziari, ovvero, per il Primo Con-sole, i cittadini «Joseph Bonaparte, con-seiller d’état, Cretet, conseiller d’état, et

Bernier, docteur en théologie, curé deSaint-Laud d’Angers, munis de pleins pou-voirs; [pour] Sa Sainteté, son éminencemonseigneur Hercule Consalvi, cardinal dela sainte Église romaine, diacre de Sainte-Agathe ad Suburram, son secrétaire d’état;Joseph Spina, archevêque de Corinthe, pré-lat domestique de sa Sainteté, assistant dutrône pontifical, et le père Caselli, théolo-gien consultant de sa Sainteté, pareillementmunis de pleins pouvoirs en bonne et dueforme (cfr. Concordato del 1801, 1)». Inquel frangente, a proposito della Costitu-zione civile del clero, il Cardinale de Baus-set ricordava come «nous [cattolici] prati-quons nos libertés, nous enseignons nosmaximes», che – a suo parere – sono il fon-damento, o, se si preferisce, il collante,purtroppo non univoco, tra il fronte libera-le e quello conservatore. Da Roma la con-troversia – anziché essere sopita – fu valu-tata come una controversia di fatto su undibattito di fondo che doveva essere affron-tata e risolta.

Successivamente, nel 1831, il vecchiovescovo Grégoire, nella sede episcopale diBlois, non ricevette i sacramenti da partedi monsignor de Quélen, per la già men-zionata spaccatura dell’agosto 1801 tra iquindici vescovi (uno dei quali era appun-to Grégoire, ma, vi erano personaggi nonmeno eminenti e non meno utili per indi-viduare geograficamente le loro diocesi: LeCoz di Rennes, Lacombe di Bordeaux,Moïse di Saint-Claude, Périer di Clermonte Reymond di Grenoble) ed il resto del-l’episcopato francese.

Il Concordato francese del 1801 nonregistra solo le rammentate difficoltà tra ivescovi francesi e Roma, spesso originatedal risultato derivante dai riscontri nonsempre positivi tra i loro atti e le “massi-

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me cattoliche” (per riprendere le paroledel Cardinale de Bausset), ma anche quel-le legate alla conformità all’ordinamentogiuridico, come vagliata dal Conseil d’État.Così, nel 1809, il Conseil condannò ilvescovo di Bayonne che aveva pubblicatodi sua propria autorità «un mandement sur

l’abstinence pendant la carême». Né, peral-tro, l’analisi del Conseil d’État si limitava avescovi francesi: nel 1812 «l’abuso fudichiarato contro il vescovo di Parma cheaveva fatto uso», come rilevava lo stessoConseil, d’un titolo ecclesiastico soppressoin Francia in quanto «il y avait atteinte aux

canons reçus en France» (Basdevant-Gau-demet 1999, pp.18-19).

A sostegno dell’accusa, mossa allaFrancia sulla scia della giurisprudenza edell’azione del Conseil d’Etat, di risultareanticattolica, si può ricordare l’emblema-tico episodio occorso ad uno dei consiglie-ri più coraggiosi, il giudice Joseph MariePortalis, che si era fatto duramente esclu-dere dal Conseil d’État, nel 1811, perchéentrato in conflitto con l’Imperatore.

Secondo Napoleone, l’Imperatore ed ilConseil d’État dovevano convergere versouna politica comune tesa ad organizzare lavita religiosa, sottoponendola ad uno stret-to controllo, dato che gli affari religiosierano valutati d’importanza tale da richie-derne, inevitabilmente, una conoscenzaapprofondita per giungere a definire l’in-dirizzo politico in materia religiosa. Que-sto approfondimento costituiva la premes-sa essenziale per la politica del Governo,alla quale il Conseil d’État doveva esseresempre strettamente associato in funzionedelle proprie innegabili competenze.

In effetti, dopo l’episodio del 1811 di cuisi è appena detto, il successivo contrastocon il Conseil d’État si ripropose solo nel

gennaio 1879, allorquando il Direttoregenerale dei culti costrinse il Conseil d’État

alla registrazione di una bolla pontificia.Essa concerneva il conferimento di untitolo ecclesiastico, peraltro senza una por-tata decisiva (cioè il titolo di prelato roma-no), al curato di Saint-Epvre a Nancy. Nellafattispecie si era posto un problema lega-to alla corretta applicazione della legisla-zione concordataria, ma il fatto che, dopoun periodo di ben sessantotto anni senzaproblemi tra l’Esecutivo ed il Conseil d’État,fosse occorso l’affare della lettera pastora-le dell’arcivescovo d’Aix, illustra, ancoroggi, come i rapporti Stato-Chiesa stesse-ro subendo un’evoluzione. La letterapastorale in questione (riferita cioè al casodell’arcivescovo d’Aix), critica verso lapolitica del Governo segnata dalla volontàd’intraprendere riforme scolastiche, spin-geva l’Esecutivo a formulare minacced’epurazione che, pur sortendo l’effetto diriallineare il Conseil d’État al Governo, eraservita ai componenti di tale organo soloper rinviarne di sei settimane l’attuazio-ne. L’assetto concordatario avrebbe,comunque, resistito ancora per poco più diun quarto di secolo.

Il nuovo corso del Conseil d’État era cosìsegnato: nel solo 1882 si possono ricorda-re tre vicende che tolgono ogni dubbio.Dapprima il Governo iniziò a ricorreremassicciamente alla sanzione consistentenella soppressione dei trattamenti degliecclesiastici che prendevano posizionecontro la sua politica ed il Conseil d’État,nel 1883, dichiarava che niente si oppone-va a siffatte misure. In secondo luogo, ilConseil effettuò un’accomodante applica-zione di una circolare ministeriale che rin-forzava il potere di polizia dei Sindaci perregolamentare od interdire le processioni

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nelle città di media grandezza. Quindi, ilDirettore generale dei culti, con la circola-re del 13 luglio 1882, aumentava conside-revolmente il numero dei Comuni, benoltre quello delle città di media importan-za (diminuendo quindi l’influenza dellospirito laico tipico di queste ultime), tro-vando una docile interpretazione da partedel Conseil d’État a testimonianza di comei tre interventi fossero coerenti.

La sintonia di tale ultimo organo conl’Esecutivo sarebbe rimasta anche di fron-te ai provvedimenti normativi dell’iniziodel XX secolo, cioè alla legge del 1° luglio1901 sulla libertà d’associazione, alla suc-cessiva del 7 luglio 1904, che interdiva l’in-segnamento ai membri di congregazionireligiose, e alla legge del 1905 contenentel’abrogazione del regime concordatario.

4. Breve cenno sull’impermeabilità dell’ordi-

namento “religioso” ai principi costituziona-

li con riferimento alla IV ed alla V Repubblica.

La complessità, indubbiamente rilevante,della tematica relativa all’impermeabilitàdell’ordinamento “religioso” ai principicostituzionali in Francia, è di molto accre-sciuta dalla grande differenza tra i testicostituzionali di cui la Francia si è munitanelle diverse fasi storiche.

Anche limitando lo studio ai soli testicostituzionali francesi del XX secolo, nonpuò essere sottaciuta la commistione didifferenti contesti storici che si presenta achi sia chiamato a render conto dellediverse fasi costituenti rinvenibili nelvigente testo costituzionale. In esso si uni-scono, infatti, dettami costituzionali delperiodo rivoluzionario, cioè la Dichiara-

zione dei diritti del 1789, con quelli squi-sitamente propri dello Stato sociale, intro-dotti appunto con la Costituzione della IVRepubblica. Infatti, entrambe (quella del1789 e del 1946) sono parte integrante delvigente testo costituzionale, che la Franciasi è dato nel 1958.

La stessa cosa avviene in tema di princi-pi regolatori della materia religiosa doveoggi, in Francia, convivono discipline siarisalenti a più di due secoli fa (il Concorda-to) sia del XX secolo, e più esattamente del1905. In realtà, il quadro normativo anno-vera altresì «le statut exceptionnel de Mayot-

te (où les filles mettent pour le coup un voile tra-

ditionnel et non intégriste) (cfr. il “blog” dellarivista Prochoix in www.prochoix.org)». Ilrisultato è quello di comparare la menzioneesplicita del principio di laicità delle dueCostituzioni del XX secolo, cioè dell’art. 1della Costituzione del 1946 e di quellavigente, da un lato, con la disciplina norma-tiva del 1905 che risponde allo stesso prin-cipio (e quindi dove vi sia stata permeabili-tà); dall’altro, con la disciplina concordata-ria del 1801, in cui l’impermeabilità – masarebbe più corretto parlare di diversitàispiratrice della disciplina – può esserericondotta, piuttosto, al contesto storico incui essa fu elaborata.

La difficoltà nella verifica dell’imper-meabilità tra norme molto distanti tempo-ralmente è senz’altro accresciuta daldecorso di un più ampio periodo storico,come si riscontra nel secondo caso, cioènel Concordato del 1801, perché infattiesso risulta ben più lontano nel tempo enello spirito legislativo dai testi costituzio-nali francesi del XX secolo (piuttosto chedalla legge del 1905). La possibilità di nonesasperare tale diversità è data dalla sosti-tuzione dell’eccezione al principio di laici-

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tà, intrinseca al Concordato del 1801, conla più limitata eccezione all’applicazionedelle conseguenze giuridiche della laicitàrinvenibile nella suddetta disciplina con-cordataria. Si sostituisce cioè l’eccezionepiù pervasiva con la seconda, di portataassai minore, dato che essa rileva solo nellasfera applicativa, non investendo l’interaportata del principio di laicità. Se però sidovesse ritenere tale sostituzione accogli-bile, allora si opterebbe per l’interpreta-zione, altrettanto legittima ma in un certosenso opposta, tesa ad evidenziare lo iatoche intercorre tra il Concordato del 1801 ela legge del 1905.

Volendo, infine, accennare brevemen-te al processo di osmosi tra il vigente prin-cipio costituzionale di laicità e la discipli-na normativa successiva (del 2004), essopuò, secondo chi scrive, riscontrarsi pro-babilmente con maggiore difficoltà nellostatuto adottato per la Mayotte – cioè, comesi evincerà nel § 6, quello regolato dalleleggi del 2001 e del 2003 – di quanto nonavvenga nella disciplina generale france-se: cioè, quella che, nella Francia metropo-litana, fa salvi solo i tre Dipartimenti AltoReno, Basso Reno e della Mosella dove conl’Avis n.188.150 del 24.1.1925 del Conseil

d’État si è prorogata l’“eccezione” al prin-cipio di laicità.

5. L’Avis n.188.150 del 24.1.1925 del Conseild’État

Il ruolo chiave ricoperto dal Conseil d’État

in tema di laicità affonda le sue radici benanteriormente a questo Avis; anzi, potevagià essere individuato nell’articolo 52 dellaCostituzione dell’anno VIII in base al quale

«Sous la direction des Consuls, un Con-seil est chargé de rediger les projets de loiset les règlements d’administration publi-que, et de résoudre les difficultés qui s’élè-vent en matière administrative». Infatti,la risoluzione delle difficoltà obbligava ilPotere Esecutivo ad avvalersi delle compe-tenze funzionalmente interne al Conseil

d’État, come avvenne anche per l’Avis inquestione in continuità con una tradizioneche, già a quell’epoca, era risalente.

Per essere più precisi, occorre ricorda-re come la necessità di avvalersi del Conseil

fosse, almeno in buona misura, già nel-l’opinione di Sieyès e di Napoleone Bona-parte e che, fin dall’esame dell’operato delConseil a partire dal 1802, era apparso chia-ro agli interpreti che i suoi atti rivestivanoun’importanza sia qualitativa che quantita-tiva, dato che la prassi, prima della leggedel 1905, segnala già 400 casi innanzi alConseil. Tuttavia, con riferimento alletematiche più delicate, tra le quali rientracertamente quella della laicità, innegabilierano risultati i tentativi del Potere Esecu-tivo di rendere le pronunce del Conseil, findal XIX secolo, quanto più possibile “addo-mesticate”, come si è osservato nel § 3.

In particolare, dal 1879, le posizioni delPotere Esecutivo in tema di laicità si eranopiegate alla volontà del Potere Legislativo.La forma di governo parlamentare della IIIRepubblica francese, con la riduzione dellaseparazione dei poteri che la caratterizza-va rispetto agli assetti istituzionali dellaRepubblica precedente (cioè l’unica conforma di governo presidenziale), davaall’Esecutivo la tentazione di non rispetta-re l’autonomia del Conseil almeno quanto ilParlamento travalicava la forma di gover-no parlamentare dualista «di tipo classico(Biscaretti di Ruffia 1988, p.266)», previ-

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sta dalle leggi costituzionali del 1875, por-tando presto ad una forma di governo sem-pre più assembleare.

Come già fatto notare, lo stesso Conseil,nel citato Rapport public del 2004, ha ana-lizzato il proprio Avis del 1925 sofferman-dosi preliminarmente sull’indirizzo poli-tico in materia religiosa nel periodo ini-ziale della III Repubblica, con una rico-struzione anche dottrinale (basata appun-to su quanto rilevato dal citato studio di B.Basdevant-Gaudemet) e non solo rievoca-tiva dei propri Avis in tema di laicità.Comunque, tra gli Avis più significativi(ancorché già successivi ai due del genna-io e del maggio 1879 che sono stati consi-derati nel § 3) se ne debbono annoverarealtri due, cioè gli Avis del 19 luglio e del 29novembre 1888, finalizzati all’interpreta-zione dell’articolo 2 della legge del 30 otto-bre 1886 in materia d’insegnamento, tesiad esplicitare il diniego di sovvenzioni daparte dei Comuni.

Con il XX secolo, il Parlamento france-se ha rafforzato questa svolta laica rispet-to ai primi decenni della III Repubblica eciò si coglie particolarmente nel progettodi legge depositato il 10 novembre 1904,che peraltro non pare potersi definirecome un atto isolato, dato che faceva segui-to alla legge del 1° luglio 1901 sulle associa-zioni che, nel suo titolo III, instaurava «unstrict régime d’autorisation pour les con-grégations » (Conseil d’État 2004, p.254).

All’inizio del secolo scorso, l’approva-zione delle richiamate leggi del 1904 e del1905, quest’ultima contenente l’abrogazio-ne del regime concordatario, si sommavaad un importante evento che dava un con-notato nuovo alla situazione dei Diparti-menti che poi avrebbero fatto ritorno nelloStato francese. In proposito, il Governo,

guidato da Édouard Herriot, cui non risul-tava estraneo l’intento di unificare il regi-me vigente in tutta la Francia nella mate-ria regolata dalla citata legge del 1905, pernon accrescere lo scontento nei tre Dipar-timenti annessi, investì della questione ilConseil d’État che, con l’Avis del 1925, risol-veva la questione, scrivendo una pagina daconsiderare ancor oggi una pietra miliarein ordine al presente tema.

Così infatti conclude il Conseil: «Con-sidérant que la loi du 18 germinal an X, quirégissait en France le culte catholique lorsde l’annexion de l’Alsace et de la Lorraineà l’empire allemand, est restée en vigueurdans les territoires annexés, conformé-ment à la loi allemande du 9 juin 1871,maintenant, dans ces territoires, la légi-slation française, à l’exception des dispo-sitions d’ordre constitutionnel, [le Conseil]est d’avis: Que le régime concordataire, telqu’il résulte de la loi du 18 germinal an X,est en vigueur dans les départements duHaut-Rhin, du Bas-Rhin et de la Mosel-le». I tre Dipartimenti, ai quali il Concor-dato si era applicato anche nel periododella loro non appartenenza alla Repubbli-ca francese, appunto in forza del dettatodella legge tedesca del 1871, una volta ritor-nati francesi ambivano a non veder can-cellato tale regime giuridico, cancellazio-ne che era stata ventilata dal Governo fran-cese prima di tale pronuncia.

L’efficacia di tale Avis, peraltro, si è este-sa anche dopo il secondo conflitto mondia-le, dato che la legge del 18 germinal anno Xrientra nella sfera di legislazione applicabi-le alla data del 16 giugno 1940 mantenuta invigore con l’ordinanza del 15 settembre 1945ristabilente la legalità repubblicana. Soprat-tutto, non si applicano oggi in Alsace-Mosel-

le né la legge del 1905, come ben precisato

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nel citato Rapport public 2004 del Conseil

d’État, né la legge del 2004 promulgata dalPresidente Chirac il 15 marzo (e pubblicatanel J.O. n.65 del 17 marzo 2004). Nei treDipartimenti citati si riscontrano quindidelle forti specificità locali. Tra tali elemen-ti specifici si segnala solamente, in una siapur arbitraria selezione, come in virtù dellanon applicazione della legge del 1901 (inparallelo con la disapplicazione della richia-mata legge del 1905 in forza della vigenza delConcordato del 1801), le «associazioni difatto e quelle iscritte su un registro tenutodal tribunale … dispongano di una capaci-tà giuridica più estesa», dato che la legge del1 giugno 1924 ha «mantenuto in applicazio-ne nei Dipartimenti d’Alsace-Moselle i testidell’Impero sulle associazioni». Infine,«l’insegnamento religioso dei quattro cultiriconosciuti [quello cattolico oltre alla con-fessione d’Augsbourg d’Alsace ed alle Chieseluterana e calvinista] è obbligatorio» (Con-

seil d’État 2004, pp. 266-268).In conclusione, la non applicazione

della legge del 2004 in questi tre Diparti-menti è il dato che conduce Didier Maus asottolineare, giustamente, come «enFrance, le statut des Eglises c’est la sépa-ration avec l’Etat, sauf en Alsace Moselle»(L’Est Républicain, 11 aprile 2005) che godequindi di una situazione normativa pecu-liare.

6. Considerazioni storico-costituzionali sug-

gerite dall’analisi del percorso del Conseild’État

Tra le considerazioni che si sono impostea chi scrive sulla disciplina ora vigente èparso opportuno sottolineare quanto, in

questa materia, il dato normativo siainfluenzato dalle pronunce del Conseil. Ciòè risultato valido pure nei confronti dellarecente legge del marzo del 2004 in meri-to alla quale è evidente l’importanza delruolo del Conseil d’État quando ha lasciatoin vigore la circolare applicativa della sud-detta legge, impedendo così che il dettatonormativo fosse privo delle norme che gliconferivano carattere applicativo. Accin-gendoci ad ampliare brevemente, in que-ste righe, l’analisi suggerita dal Conseil, vaespressa la ragione del perché regimi nor-mativi in tema di laicità, apparentementesimili, debbano, invece, essere studiati inmodo assai differenziato, come avviene perla situazione giuridica dei tre Dipartimen-ti in questione e la Guyane francese, di cuisi dirà ora.

Nel 2004, infatti, il Conseil d’État haevidenziato come, dato che nella Guyanefrancese il Concordato non è mai statoapplicabile e il regime si fonda invece sem-pre sull’ordinanza reale di Carlo X del 27agosto 1828 che definisce il regime giuri-dico per il culto cattolico, non si tratta diun regime concordatario, poiché «il n’y apas d’accord avec le Saint-Siège» (Conseil

d’État 2004, p. 270).Tra la normativa vigente in materia, che

non è però in linea con la legge del 1905, sidebbono menzionare le leggi n. 616 dell’11luglio 2001 e n. 660 del 21 luglio 2003 chedisciplinano un ambito territoriale lonta-no dal Continente europeo, ma sicuramen-te degno di nota e sempre francese, cioè lacollectivité départementale d’outre-mer del-l’isola di Mayotte.

In effetti, la diversificazione dei regi-mi non ha sminuito la portata della leggedel 1905, ma ne ha solo limitato l’ambitoterritoriale in cui essa ha trovato applica-

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zione. Ad esempio, per il principio d’ugua-le accesso alla funzione pubblica, non sipuò negare come esso «constitue une pre-mière illustration du principe de neutra-lité du service public» (Ibidem, p. 273) chesi concretizza nell’impossibilità, pena laviolazione di questo principio, di scartareun candidato fondandosi esclusivamentesulle sue opinioni, siano esse politiche(come nel caso Barel risolto dal Conseil nel1954) o religiose. Così chiarisce infatti,mezzo secolo dopo, lo stesso Conseil che,richiamando il caso Barel, conclude: «enl’espèce, il s’agissait d’opinions politiques,mais le raisonnement serait le même si desopinions religieuses étaient en cause»(Ibidem).

La giurisprudenza del supremo giudiceamministrativo porta a numerose altreconsiderazioni, relativamente alle consi-derazioni di queste pagine, come emergedal prosieguo dell’analisi del Rapport public

del Conseil, dove si affronta la questionedell’estensione alle scuole secondarie deldivieto imposto ai preti – ex art. 17 dellalegge del 30 ottobre 1886, ancora in vigo-re ed in forza del principio di laicità comeattuato nella Repubblica francese – d’in-segnare nelle scuole primarie pubbliche:ciò che il Conseil aveva statuito nel celebreArrêt Bouteyre del 10 maggio 1912.

Dopo la prima guerra mondiale si puòricordare come il Conseil fosse stato investi-to della risoluzione della questione scaturi-ta in seguito all’intervento di Papa Pio XIche, nel dicembre 1923, si era preoccupatodi ottenere dalla Francia delle precise assi-curazioni sul ruolo delle associazioni dioce-sane, anche in riferimento alla legislazioneche alle stesse risultasse applicabile.

In forza delle due lettere del vice-Pre-sidente del Conseil d’État (chiaramente

unite all’Avis del Conseil, ma pure alla pro-nuncia cui erano pervenuti tre giuristiovverosia: il Presidente onorario del Con-

seil e i Presidi delle Facoltà di Giurispru-denza di Parigi e di Strasburgo) l’Esecuti-vo francese aveva inviato al Pontefice, giàin data 11 gennaio 1924, la risposta sul cuifondamento il Papa procedeva da Roma, informa solenne con l’enciclica Maximam

gravissimamque, ad autorizzare un’associa-zione diocesana in ogni diocesi.

Da un lato il vescovo, nella propria dio-cesi, vedeva queste associazioni come chia-ramente agenti sotto la propria autorità;dall’altro esse si affiancavano naturalmen-te alle altre associazioni, sia protestanti siaisraelite, in concreto omaggio alla neutra-lità religiosa dello Stato francese, comesostenuto dal Conseil.

Per il proprio sostentamento questeassociazioni potevano anche essere auto-rizzate dal Prefetto a ricevere delle libera-lità – a condizione che queste fossero con-dizionate nel loro oggetto, dovendo «con-formément à l’article 19 de la loi de 1905,mener des activités ayant exclusivementpour objet l’exercice d’un culte, telles l’ac-quisition, la location, la construction,l’aménagement et l’entretien des édificesservant au culte ainsi que l’entretien et laformation des ministres et autres person-nes concourant à l’exercice du culte» (Con-

seil d’État 2004, p. 284) – con la garanziache, in caso di rifiuto del Prefetto, essepotessero ricorrere al Conseil d’État. E ciò èavvenuto, nel 1996, per l’Association Notre-

Dame de l’Espérance. Sul punto, non sem-bra superfluo ricordare come, in Alsace-

Moselle e nell’Oltre-mare, si possanoaggiungere, alle liberalità ricevute alle con-dizioni supra citate, le sovvenzioni pubbli-che che risultano invece essere incompati-

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bili con la legge del 1905, eccetto alcuni casiben delimitati. Si pensi agli ospizi, agliospedali e alle spese sostenute dopo i con-flitti bellici per conto delle municipalità,per «l’inhumation des corps des soldatsramenés du front» (Conseil d’État 2004, p.287). Voler cercare di chiarire anche suquesto punto le differenze tra i tre Diparti-menti di cui all’Avis del 1925 ed il resto dellaFrancia metropolitana porta a valorizzare leragioni (già considerate nel § 5) che, per talitre Dipartimenti, avevano spinto il Gover-no francese a desistere dall’iniziale inten-to teso ad unificare il regime vigente in tuttala Francia nella materia regolata dalla leggedel 1905. Infatti, l’importanza di servizicome ospizi ed ospedali e soprattutto la lorocapillarità ed efficienza spingeva gli abitan-ti dell’Alto Reno, del Basso Reno e dellaMosella a preferire la legislazione speciale,mantenuta pure sotto la Germania, anzichéquella del 1905.

Se finora si è ampiamente sottolineatoil ruolo del Conseil, è lo stesso Rapport public

del 2004 di tale organo che analizza il ruolosvolto dal Presidente della Repubblicafrancese (ed in particolar modo da) Pom-pidou in materia di laicità, riconoscendo-gli la decisione di non sottovalutare quan-to spazio, a legislazione invariata, rimanes-se all’azione decisionale amministrativacon riferimento appunto allo status dellecongregazioni religiose. Questo impulsopoteva così trovare nel Conseil, in data 8ottobre 1970, la sede nella quale giungeread evoluzioni significative sul punto con il«décret de reconnaissance des Petites

Soeurs de l’Assomption, dont le cas comple-xe donna au Conseil d’État l’occasion depréciser les critères d’obtention du statutlégal de congrégation religieuse» (Conseil

d’État 2004, p. 289). Da allora trecento-

sessanta istituti e monasteri femminili (susettecento) ed una cinquantina di congre-gazioni od abbazie maschili (su cento)seguirono con successo quanto avvenutonel caso delle Petites Soeurs de l’Assomption.Nel 1989 analogo riconoscimento ottene-va una “communauté” ortodossa, mentrel’anno precedente era stata «autoriséepour la première fois une congrégationbouddhiste» (Ibidem, p. 290).

Il rispetto del principio di laicità haabbastanza recentemente (a metà ottobredel 2003) coinvolto anche l’uso della postaelettronica con riferimento al quale il Con-

seil «a de nouveau eu l’occasion d’exercerson rôle de garant de la neutralité du ser-vice public. Il [Conseil] a ainsi estimé quele fait, pour un agent, d’utiliser les moyensde communication du service au profit del’Association pour l’unification du christiani-

sme mondial en utilisant en outre la messa-gerie d’un autre agent à son insu et le faitd’apparaître, sur le site de cette associa-tion destiné à la consultation du public, enqualité de membre de celle-ci, avec la pré-cision de l’adresse électronique dont ildisposait à l’École nationale supérieure des

arts et métiers (ENSAM), constituaient unmanquement au principe de laïcité et àl’obligation de neutralité» (Ibidem, p. 275).

7. Una breve riflessione conclusiva

L’ampiezza del tema della laicità in Fran-cia, sia nei tre Dipartimenti dell’Alto Reno,del Basso Reno e della Mosella sia neglialtri Dipartimenti metropolitani, ha impli-cato da parte di chi scrive scelte arbitrariecirca gli aspetti che sono parsi maggior-mente vicini a quanto sembrava necessario

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richiamare nell’esperienza concreta diquesto Paese.

Ciò anche nella consapevolezza diquanto i punti assunti come dati per laconoscenza del tema trattato siano stati«multiples et très diversifiées» (Basde-vant-Gaudemet 1999, p.22), ma nella piùparte dei casi riconducibili ad un cammi-no soddisfacentemente chiaro, proprio permerito dell’azione del Conseil d’État svoltagià nel XIX secolo. Se, infatti, come si èvisto, il Concordato del 1801, e più in gene-rale la materia religiosa, non implicanocerto questioni sorte di recente, tale datopermette di non dimenticare anche lacomparazione con quegli ordinamenti che,pure temporalmente, possano vantare unpercorso storico altrettanto esteso (ancor-ché con tratti di specificità ricordati dalConseil d’État), come avviene per gli Usa,laddove, difatti, «le texte essentiel quifonde la séparation de l’Église et de l’Étataux États-Unis est le premier amendementdu Bill of Rights, ratifié en 1791» (Conseil

d’État 2004, p. 375). Gli Stati Uniti si situa-no su una posizione «en réalité plus “sépa-rationniste” que la France [… tuttavia] lesÉtats-Unis, vus de France, apparaissentcomme un pays religieux. [… Comunque]une incertitude demeure sur la place del’islam dans la société américaine, même sil’islam en soi, en tant que religion, estperçu positivement (c’est notamment lecas du foulard, qui n’est cependant pasautorisé sur les photos d’identité des per-mis de conduire) (Ibidem, p. 377-379).

Tale percezione positiva rilevata dalsupremo giudice amministrativo franceseè importante anche perché ben si coniugacon le posizioni di coloro – tra i quali sipone chi scrive – che auspicano, in futuro,una maggiore collaborazione da parte del-

l’Islam moderato al fine di isolare, qualenecessità sempre più urgente, gli estremi-sti che mirano ad attentare alla pacificaconvivenza ed ai fondamenti stessi degliordinamenti occidentali.

Altresì degno di nota sembra essere,negli Usa come in Francia, il ruolo dellegiurisdizioni superiori, tanto più perché«la Cour suprême veille, au cas par cas, àce que le gouvernement fédéral et les Étatsfédérés ne méconnaissent pas le premieramendement» (Ibidem, p. 376), normagiustamente evocata dai supremi organi digiurisdizione francese e statunitense conriferimento ai nodi giuridici emersi intema di laicità.

In conclusione sembra utile porre ilproblema della differenza tra la presenzadi più discipline nello Stato francese (purcaratterizzato dal regionalismo) e nellatipologia di Stato nota come federale, lad-dove la pluralità di discipline è ritenutafisiologica. Una scelta pluralistica in temadi laicità si deve al coraggioso interventodel Conseil d’État che, ricordando come ilConcordato del 1801 non definisca il cultocattolico religione ufficiale o nazionale,ma, più correttamente, «la religione dellagrande maggioranza dei francesi» (Ibidem,p. 251), evidenzia giustamente la moder-nità della qualificazione usata per questareligione. Inoltre la delicatezza del temadella laicità sembra non essere ostativa allapluralità di regimi se si pensa che, peresempio negli Usa, la stessa - ancora piùspinosa - accettazione e conseguente legi-slazione relativa alla possibilità, o meno,d’irrogare la pena di morte per situazioniuguali è regolata in modo diverso neidiversi Stati.

Si può peraltro studiare l’Avis n.188.150del 24.1.1925 del Conseil d’État anche

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vedendolo alla luce del criterio di normaspeciale (rispetto ad una disciplina gene-rale) e della complessa situazione storicache si era ingenerata alla fine della primaguerra mondiale; per cui, a distanza di piùdi ottant’anni, lo studioso fa bene ad aver-ne chiara la considerevole portata storico-giuridica.

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politique en France et a l’étranger, Mars-Avril 2004, pp.

306-307;

Circulaire du 18 mai 2004 – relative à la mise en ouvre de la Loi

n. 2004-228 du 15 mars 2004 – du Ministère de l’éduca-

tion nationale, de l’enseignement supérieur et de la recher-

che in www.olir.it

Rapport de la Commission Stasi reso al Presidente della

Repubblica l’11 dicembre 2003, in www.elysee.fr

Page 131: SGiornale di oria costituzionale · 167 Guerra civile e diritto: una costituzione per la Repubblica di Mussolini Luciano Martone 197 Colpo di stato a San Marino. Il processo del 1958

1. Una prospettiva “antiformalistica”

Fedele all’idea di una tradizione armoniz-

zatrice, cui affidarsi in luogo di una forma-

lizzazione slegata da ogni ‘effettività’,

Miceli1 fa «scaturire il fenomeno giuridi-

co [della rappresentanza politica] dallo

studio dei fenomeni sociali». Tale metodo

ha da essere rigorosamente scientifico:

nessuna concessione a «idee preconcet-

te» che allontanerebbero dallo scopo,

ossia la «determinazione obiettiva della

legge fenomenica». L’intenzione, insom-

ma, non è quella di fissare i criteri di bontà

di un determinato principio, col rischio di

condurre l’analisi sulla strada dei «feno-

meni immaginari» (Miceli 1892, pp. 10-

11). A maggior ragione, dato il tema di rife-

rimento, in un periodo storico contrasse-

gnato dal collasso dell’impianto statocen-

trico liberale.

In tale fase critica - segnata dalla pro-

gressiva estensione del diritto al voto e pre-

ludente al passaggio dalla mediazione del

Parlamento come “organo” dello Stato-

persona, sul modello giusformalistico,

verso la democrazia come “organizzazione”

del suffragio da parte dei partiti - gli anni

Ottanta dell’Ottocento assistono allo sfor-

zo della dogmatica in difesa dello ‘Stato di

diritto’, secondo la nota impostazione

scientifica inaugurata da Vittorio Emanue-

le Orlando e volta a sintetizzare le manife-

stazioni sociali attraverso formule giuridi-

che (v. Cianferotti 1980, pp. 99 ss.; Mango-

ni in Schiavone 1990, pp. 304 ss.; Ferrajo-

li 1999, pp. 22 – 25; Grossi 2000, pp. 28 ss.;

Fioravanti 2001, I, pp. pp. 23 ss. e 80 ss.;

Costa 2001, pp. 327 ss. e 1986, pp. 65 ss.).

Ma è proprio la prospettiva orlandiana

della ‘personificazione’ dello Stato, per

Miceli, a non apparire plausibile, soprat-

tutto dal momento in cui la sintesi tra Stato

e società, in tal modo elaborata, non risul-

ta che ‘idealisticamente’, in corrisponden-

za della pretesa univocità del rapporto isti-

tuzionale tra i soggetti – cittadino e Stato -

ad esso interessati. Contrariamente alle

teorizzazioni dei formalisti, lo Stato, per il

giurista calabrese, rileva essenzialmente

129

Rappresentanza ‘armonica’ e crisi del ‘mandato politico’ in Vincenzo Miceli

gian paolo trifone

giornale di storia costituzionale n. 16 / ii semestre 2008

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quale «organizzazione politica della socie-tà» (Miceli 1898, p. 4), laddove il suo con-notato giuridico attiene al momento rego-lamentare, di natura contingente. Ne con-segue che l’elemento giuridico non puòimmobilizzare la «coscienza sociale» dacui, gradatamente, scaturisce come feno-meno psico-collettivo fondato sul senso di‘giustizia’, risultante dal prodotto dellamedia delle idee e dei sentimenti di unacerta comunità (Miceli 1918, p. 36 e 1928,p. 329).

Occorre subito premettere che quelladi Miceli non è una collettività compostada eguali: al contrario, proprio la aggrega-zione armonica di elementi diversi fa dellacomunità un complesso organico sponta-neamente – e gerarchicamente (Costa2001, pp. 223-227) - ordinato in società.Se ne dirà di più in seguito. Per il momen-to, vale solo la pena accennare in che misu-ra il problema riguardi il concetto dellarappresentanza politica, impossibile inassenza di una «specificazione funzionalefra le diverse parti dello Stato». Dettoaltrimenti, l’organismo politico dovrebbeemergere dalla cooperazione degli organi-smi sociali, una volta che questi manife-stino il bisogno di rapporti reciproci, inmodo che

il fatto della rappresentanza sorg[a] spontaneo

nella convivenza, l’idea di essa spontaneamen-

te si gener[i] nella coscienza popolare

[Miceli 1892, p. 37].

Di conseguenza, è il principio di affer-mazione di uno Stato livellatore a non poteressere accettato dal giurista. Come apparedalle sue osservazioni in merito all’Istitu-zione in epoca classica: lì dove la sovrani-tà risiedeva tutta nel vertice del potere, ilcomplesso dei cittadini sarebbe stato con-

cepibile unicamente come un numero diindividui uguali, titolari dei medesimidiritti, delle medesime forme di partecipa-zione al governo.

È invece il medioevo delle autonomie,dei piccoli organismi compatti, del cosid-detto «individualismo organico» (ibidem,p. 23) fatto di gruppi, corporazioni, asso-ciazioni, la culla della rappresentanza qualerisultato della ‘combinazione’ degli inte-ressi particolari, senza che ciò significas-se in alcun modo ‘confusione’ di essi. Pre-supposto essenziale di una tale sintesi isti-tuzionale è il mutamento del concetto disovranità, successivo alla perdita delladistinzione fra jus publicum e jus privatum,e la sua confusione col concetto di proprie-tà, in seguito alla concessione delle terre.Secondo una gerarchia di marchio «feu-dale», le sovranità si moltiplicano in rela-zione ai diritti di proprietà su ciascun ter-ritorio, dando luogo ad altrettanti centriautonomi di vita politica. In tale apparen-te isolamento, le condizioni di vita impon-gono, ai fini della soddisfazione dei diver-si interessi, un certo «spirito di solidarie-tà», presto tradotto nella «tendenza allacorporazione». E le medesime considera-zioni valgono anche per il comune, costi-tuito, al suo interno, in un «fascio di asso-ciazioni e di corporazioni»; e, al suo ester-no, riconoscibile come un organismo com-patto, a sua volta «connesso con vincolimolteplici e complicati a tutti gli altri orga-nismi che gli si muovono intorno», in unnuovo frazionamento di sovranità nei con-fronti di un’entità politica sovraordinata(ibidem, pp. 20-29).

L’esito di tali osservazioni è che lascomparsa di un centro assoluto di orga-nizzazione distinto dalla società rileva spe-cularmente alla «tendenza di ogni aggre-

Ricerche

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gato sociale a trasformarsi in organismo

politico» (ibidem, p. 30).

Ma l’aspetto più rilevante è senz’altro

quello della società intesa quale congiun-

zione di una serie di «cellule di varie

forme, che danno origine a tessuti, ad

organi, ad apparati organici» (ibidem, p.

101): la rappresentanza ne scaturirebbe

come «una rete di fibre nervose, destina-

ta a tenere insieme e a mettere in comuni-

cazione» quel complesso organico. Feno-

meno tanto più evidente in riferimento

all’evoluzione della società secondo la spe-

cializzazione delle funzioni dovuto all’au-

mento dei gruppi e relativi rapporti reci-

proci:

è sempre per opera di una divisione di funzioni

che gli antagonismi e i contrasti si possono eli-

minare, e non con la confusione e parificazione

dei compiti, o con una distribuzione di compiti

simili a parti diverse

[ibidem, p. 58],

sulla base di una critica neanche tanto

velata all’egualitarismo presunto nel

modello hobbesiano, fomentatore di egoi-

smi:

il fenomeno dell’homo homini lupus di Hobbes si

produce quando tutti credono di avere i mede-

simi diritti su tutte le cose o quando tutti credo-

no di potere esercitare al tempo stesso tutte le

medesime funzioni.

La specificazione delle funzioni, insom-

ma, è la condizione organica per l’armonia

e l’equilibrio delle parti (cfr. ibidem).

A una densa compattezza interna corri-

sponde, dunque, una altrettanto evidente

eterogeneità esterna. In tale prospettiva,

la varietà di interessi è il presupposto per

un’effettiva omogeneità della comunità,

laddove detta omogeneità risulti dalla pro-

gressiva composizione dei contrasti inseno al “complesso” sociale. Come è avve-nuto per i comuni e, gradatamente, per gli‘stati’ o ceti sociali.

2. Il sentimento etico della partecipazionepolitica

Non è un caso se, fino ad ora, sia mancatoqualsiasi cenno all’individuo, che puredovrebbe costituire il soggetto – attivo opassivo – del rapporto rappresentativo2.Ma è proprio questo il punto: nella stessamisura per cui l’individuo, in epoca clas-sica, perdeva la sua identità di fronte alloStato, al di fuori del quale non era nulla,egli, nel contesto pluralistico, «solo valein quanto si considera nel gruppo e in rap-porto al gruppo» (Miceli 1892, p. 47).L’individuo «sparisce»; ciò che rimanesono i «rapporti molteplici» che determi-nano obblighi piuttosto che diritti. Lonta-no, insomma, dall’idea moderna della rap-presentanza come «un diritto popolare»,diviso o, per dirla con Miceli, «spezzato intante parti quanti sono gli individui»,come se si trattasse di un «diritto facolta-tivo» assimilabile ad un privilegio, noncasualmente considerato «odioso». Nulladi tutto ciò, nel diritto medievale: il privi-legio non ha ancora assunto il significatomoderno, consistendo piuttosto in una«funzione sociale». L’esempio è cercato,come di sovente da parte dei giuspubblici-sti liberali (v. Lacché, in Giornale di storiacostituzionale n. 10, II 2005, p. 96), nellastoria costituzionale d’Inghilterra:

nella Magna Carta i baroni non difendono ed

assicurano i loro soli diritti, essi stipulano anche

il riconoscimento dei diritti e le garanzie costi-

Trifone

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tuzionali per le altre classi del popolo, dimo-

strando così come operasse quella solidarietà

morale che è alla base della rappresentanza del

medio evo, malgrado un’organizzazione così

imperfetta e rozza della società»

[Miceli 1892, p. 67].

In quest’ottica, è chiaro che i diritti – o

privilegi, che dir si voglia -

non erano veramente connessi con la persona,

ma con l’ufficio, con la condizione, che era essa

stessa il risultato di un insieme di diritti e di

rapporti.

[ibidem, p. 66]

Si tratta, in forma “embrionale”, del

concetto liberale della rappresentanza

come funzione, non in senso eminente-

mente giuridico ma «etico», laddove la eti-

cità è la cifra discriminante tra il diritto pri-

vato e il diritto pubblico. Lungi dal ricerca-

re le ragioni del diritto costituzionale in una

serie di rapporti privati, sulla scorta del

dogmatismo germanico (in particolare,

Gerber 1852 trad. it di Lucchini, 1971, p. 74.

Sul giurista tedesco, Fioravanti 1979, pp.

243 ss.; Costa – Zolo 2002, pp. 113 ss.; Costa

2001, pp. 149-159; Grossi 2007, pp. 170-

175), Miceli riscontra la differenza tra jus

privatum e jus publicum in termini, rispet-

tivamente, di «facoltà» e di «obbligo». Lì

dove dietro il diritto privato «stanno spes-

so individui singoli, considerazioni di inte-

ressi meramente individuali, a vantaggio

dei quali e per opera dei quali prendono

origine il rapporto e il negozio giuridico»;

alle spalle dello jus publicum sta la conside-

razione del «pubblico benessere, stanno

intieri gruppi di persone, a benefizio dei

quali o in considerazione dei quali si svol-

ge l’azione giuridica e nasce il rapporto e il

vincolo giuridico».

Poste queste premesse, la rappresen-

tanza politica si esplica proprio attraverso

il mandato, in contrasto con i “dogmi” del

suo divieto e a prescindere dalla specifica-

zione del suo oggetto in senso ‘imperativo’.

Piuttosto,

questa mancanza di precisione e di determina-

tezza nelle funzioni del rappresentante conferi-

va alle sue attribuzioni un carattere vario ed ela-

stico», data la «formazione spontanea e quasi

incosciente di quella società».

[Miceli 1892, pp. 70-71]

Così prospettato, il mandato di Miceli

dovrebbe perdere ogni attinenza con l’isti-

tuto privatistico: «non si tratta – afferma

il giurista – di una persona che compie un

negozio giuridico in luogo di un’altra per-

sona, entro il limite di una procura»; è

qualcosa di più emotivamente intenso:

ancora una volta, «etico», in misura che

legittima, nella persona del rappresentan-

te, un «alterego giuridico» (ibidem, p. 64)

che pensa con la comune mente del grup-

po e ne sente i bisogni perché suoi mede-

simi.

Invero, a volerla cercare, la similitudi-

ne con l’istituto privatistico è teorizzabile.

E Miceli non intende nemmeno sfuggirvi,

laddove considera che quello pubblico e

quello privato, lungi dall’essere due isti-

tuti differenti, risultano invece l’uno la tra-

sformazione dell’altro. Infatti, con l’am-

pliarsi delle attribuzioni del rappresentan-

te in seguito all’aumento della complessi-

tà delle relazioni in cui egli si trova coin-

volto, il mandato si estende, diventa sem-

pre più difficile circoscriverne i limiti e il

suo originale carattere giuridico cambia.

Dal canto loro, i rappresentati sono

costretti a limitare la forza vincolante delle

istruzioni:

Ricerche

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Page 135: SGiornale di oria costituzionale · 167 Guerra civile e diritto: una costituzione per la Repubblica di Mussolini Luciano Martone 197 Colpo di stato a San Marino. Il processo del 1958

così il mandato giuridico si trasforma nel man-

dato politico, il carattere per cui si avvicinava al

diritto privato si modifica in un carattere giuri-

dico di diritto pubblico, di indole più spiccata-

mente politica, mentre si sviluppa ancor meglio

il suo carattere etico ed organico».

[ibidem, p. 86]

Rimane, dunque, il fatto che la rappre-

sentanza si manifesta come una funzione,

e quindi ancora come un obbligo, sebbene

ormai di tipo politico (cfr. anche Piretti in

Mazzacane – Schiera (a cura di), 1990, p.

412 e Sarubbi 1997, p. 92).

3. La rappresentanza come fenomeno sociale

spontaneo

Poste certe coordinate, il vincolo giuridi-

co non basta a definire il rapporto rappre-

sentativo, mentre occorre il «vincolo

morale», vale a dire «un forte sentimen-

to del proprio dovere da parte del rappre-

sentante», in corrispondenza, peraltro, di

un analogo dovere dei rappresentati di sce-

gliere i “più capaci” per l’adempimento

della funzione. Anche in siffatto caso,

dovrebbe trattarsi di una designazione di

tipo “spontaneo”, laddove il rappresentan-

te sarebbe «meglio in grado di compren-

dere quei bisogni» alla cui tutela è prepo-

sto «e di agire in conformità di essi». In

questo senso Miceli definisce lo «sponta-

neo proporzionarsi della facoltà giuridica

al genere di funzione», nel rispetto del-

l’armonica conformazione «del rapporto

giuridico al rapporto sociale» (Miceli

1892, pp. 88-89).

Ne consegue che, venendo a mancare il

vincolo di solidarietà fra rappresentante e

rappresentato, viene meno anche il senti-

mento del dovere reciproco; rimane solo

una indipendenza che nulla ha in comune

con la libertà, consistendo piuttosto in un

arbitrio desolante:

con lo sviluppo dell’eguaglianza e di pari passo

con essa, procede in genere lo sviluppo dell’in-

dividualismo. Quando l’individuo è abbandona-

to a sé stesso […] è insensibilmente portato …

a guardare esclusivamente il suo individuale

interesse, a difendere il suo utile immediato, o

quello che egli crede il suo immediato vantaggio.

[ibidem, p. 99]

Sarebbe soprattutto il carattere del

diritto pubblico come pubblico dovere a

cedere di fronte al principio per cui «il

diritto pubblico è considerato come una

mera facoltà, rimessa all’arbitrio di chi

deve esercitarlo» (ibidem, p. 111). La pro-

spettiva più tristemente verosimile, una

volta tornati a quello Stato fagocitante e

livellatore, sovrano indiscusso di una

società «inorganica e individualistica».

Ma allorquando ciascuno pretendesse di

vedere rappresentati i suoi interessi in

maniera indifferenziata, tanto varrebbe

«togliere di mezzo la rappresentanza e

lasciare che ogni individuo rappresenti se

stesso». In questo quadro, rimane soltan-

to la teoria di Rousseau come possibile

riferimento; e sembra evidente che la pro-

spettiva non sorrida a Miceli, che non

accetta come proprio l’obbedienza alla

legge - volontà generale e giammai parti-

colare o, peggio, corporativa - possa porsi

a premessa della libertà civile, che si dif-

ferenzia dalla libertà “naturale” proprio

per tale caratteristica di “soggezione”:

la libertà – scrive il filosofo ginevrino - si man-

tiene soltanto con l’appoggio della schiavitù?

Può darsi. I due estremi si toccano. Tutto ciò che

non è nella natura ha i suoi inconvenienti, e la

Trifone

133

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società civile più di tutto il resto. Ci sono situa-

zioni talmente infelici, in cui non si può con-

servare la propria libertà se non a spese di quel-

la altrui, e il cittadino non può essere libero se

lo schiavo non è assolutamente schiavo».

[Rousseau, ed. it. a cura di Alatri 1970, pp. 800-

803]

Del resto, è in base a tali presupposti

che Rousseau rifiuta qualsiasi criterio rap-

presentativo, che escluderebbe la volontà

“di tutti” in favore dei pochi preposti alla

decisione politica. Ad ogni modo, mortifi-

cando il processo di modificazioni psico-

logiche «per cui tanti diversi modi di

vedere, di sentire lentamente si armoniz-

zano», secondo Miceli la rousseauviana

volontà generale si imporrebbe per quello

che è, ovvero un «prodotto meccanico»,

la somma di «un insieme di numeri»

(Miceli 1892, p. 103). A totale discapito

della organica armonizzazione degli inte-

ressi.

A ben vedere, la coscienza politica è un

problema etico quanto culturale: laddove

la norma giuridica non è sempre sufficien-

te, dovrebbe essere la «educazione mora-

le e politica del popolo» a riempire tale

«grande lacuna» (ibidem, p. 63 e cfr. 1898,

p. 117). Soprattutto dal momento che il

popolo, generalmente, «non ha la più lon-

tana idea che lo accorrere alle urne […]

non è semplicemente una facoltà»; men-

tre «d’altra parte poi i rappresentanti non

si fanno un’idea chiara del compito che

grava su di essi e degl’obblighi cui sareb-

bero tenuti nell’adempimento della pro-

pria funzione» (ibidem, p. 111). È eviden-

te insomma che una effettiva comunione

d’interessi sia prima di tutto comunione

d’intenti, tale da richiedere consapevolez-

za: se dunque la rappresentanza consiste

nel mandato, nota il giurista, lo «spirito di

solidarietà che fa della convivenza un orga-

nico aggregato di parti», ha a che fare con

la coscienza, al di là di ogni trascendenza.

Resta da sottolineare che i risultati di

una rappresentanza efficace dipendono in

misura esclusiva dall’esistenza dei piccoli

organismi: dove essi vengono a mancare,

gli individui, slegati da tutti i vincoli socia-

li a quelli corrispondenti, si trovano soli di

fronte al «grande aggregato», lo Stato; è il

momento in cui gli interessi egoistici

prendono il sopravvento e la società si

«scioglie nei suoi atomi». La mediazione,

in definitiva, può essere assicurata soltan-

to dal funzionamento delle «formazioni

sociali intermedie fra l’individuo e la gran-

de convivenza» (Miceli 1898, pp. 100-

101).

Ciò detto, la società medievale, sebbe-

ne imperfetta e rozza, rappresenta pur

sempre un modello efficace da cui la

modernità ha preteso di affrancarsi attra-

verso una cesura anti-storica, la Rivoluzio-

ne francese. Senza mezzi termini, Miceli

liquida il 1789 come una «evoluzione

regressiva», nella misura in cui i rappre-

sentanti degli stati,

spezzando ad un tratto tutti i vincoli che li lega-

vano al passato … rinunziando alla solida base

della tradizione, [hanno compiuto soltanto] un

improvviso salto nel nuovo o nell’ignoto.

[ibidem, p. 108]

per cui la rappresentanza nazionale è

stata concepita «senza che al nuovo con-

cetto giuridico fosse apparecchiato propi-

zio l’ambiente sociale». Di conseguenza, è

avvenuto lo scollamento del paese reale dal

paese legale, «non supponendo neppure

totalmente che la differenza di vita sociale

debba produrre differenza di ordinamen-

to giuridico» (ibidem, p. 109).

Ricerche

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Niente di tutto questo era mai accadu-to in Inghilterra, e non certo casualmente.Miceli arriva al dunque: quello anglosasso-ne è il più ‘stabile’ degli ordinamenti cuifare riferimento per la gradualità relativaalla sedimentazione degli avvenimenti, dacui scaturisce il diritto. Si tratta di quellacontrapposizione «salutare» cui si accen-nava prima: la coalizione degli elementipolitici in opposizione al monarca è avve-nuta quasi subito, progressivamente armo-nizzandosi con le istituzioni. Ciò ha per-messo alla monarchia di diventare rappre-sentativa. È proprio in Inghilterra che quelfenomeno suddetto di trasformazione delmandato giuridico in mandato politicoconosce la sua definizione. E ciò nonsarebbe potuto avvenire senza un riflessodi tipo etico, per cui la funzione rappre-sentativa assume il suo profilo direttamen-te nella coscienza del popolo, ed «ogni ele-mento ha la sua legittima parte al governoe può presentare nel suo interno quellaarmonia di composizione e d’interessi, cherenda la rappresentanza più facile e piùsicura» (Miceli 1898, p. 87). Allo stessomodo, è in Inghilterra che il concetto diprivilegio acquisisce il «riconoscimentogiuridico di una condizione politica esi-stente» (ibidem, p. 89). Né il fatto che larappresentanza figurasse come una conce-zione di sovranità rinnega la sua confor-mità alle antiche consuetudini e costitu-zioni, trattandosi piuttosto del riconosci-mento ufficiale di un sistema istituzionaleinveterato.

Di contro, al giurista sembra che l’Eu-ropa continentale non abbia mai fornitobuoni esempi. Né si può dire che le monar-chie europee si siano formate su un tessu-to aggregato; anzi, i contrasti erano tutt’al-tro che «salutari». Proprio per via della

loro difficile composizione, le monarchie

sono riuscite ad imporsi come la forza

superiore cui le disperse cellule sociali

ritenevano di dover ricorrere per la prote-

zione, quando non l’affermazione, dei pro-

pri interessi a scapito di quelli altrui. Ovvio

che, «a misura che aumenta l’autorità del

monarca, cresce il dispotismo del suo

governo»; e, in corrispondenza della sua

affermazione, «il moto accentratore del

dispotismo non è accompagnato da un pro-

cesso di fusione dei vari gruppi in aggrega-

zioni organiche» (ibidem, p. 97).

Più brevemente: là dove il processo

evolutivo della monarchia inglese si com-

pie secondo un graduale arretramento

delle pretese assolutistiche non in contra-

sto con una composizione organica degli

interessi corporativi legittimamente rap-

presentati, il centralismo della sovranità

continentale si afferma proprio sull’inde-

bolimento delle autonomie in seguito alla

cessione della loro rappresentatività:

nulla resiste più all’assolutismo invadente, e le

condizioni si parificano nella comune servitù,

gl’individui rimangono eguali gli uni agli altri di

fronte al comune sovrano.

[ibidem, p. 98]

Quale sia la conseguenza di tale parifi-

cazione è presto detto: l’isolamento del-

l’individuo, in balia di una «eguaglianza

disorganica» favorevole ad una «indole

egoistica» che solo potrebbe essere disci-

plinata dalla «vita in comune». Ciò che,

di fatto, l’assolutismo tende a cancellare,

poi che la sua forza dipende dalla debolez-

za dell’aggregato cui esso impone la sua

autorità. E, come si è già osservato, l’uni-

ca forma di rappresentanza possibile in un

contesto siffatto è quella per cui la volon-

tà del rappresentante si sostituisce a quel-

Trifone

135

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le dei rappresentati, i quali, sciolti da ognivincolo organico, diventano delle monadiprive di determinazione. Niente escludeche una tale volontà “sovrana” possa indul-gere all’arbitrio, ovverosia al «capriccio»,posto che nulla ha più di cui rendere contoal suo sostrato sociale. In questi termini,secondo Miceli, sarebbe il caso di parlaredi «evoluzione regressiva», riferibile allaperdita di coscienza, da parte di governan-ti e governati, della «corrispondenzaarmonica di vedute fra le diverse parti delloStato», alla base del rapporto rappresen-tativo. In buona sostanza, l’arbitrio delrappresentante è misura della perdita, daparte sua, della cognizione «etica» deldiritto pubblico inteso come «dovere»,del «privilegio» come «funzione».

4. La nazione come macro-comunità

Malgrado le conclusioni appena accenna-te, Miceli, ritenendo di dover procederesecondo il metodo storico-sociologicoanche all’analisi del processo sotteso allaformazione degli Stati moderni, è del pare-re che i fenomeni che hanno condotto sto-ricamente alla formazione dei piccoliaggregati siano i medesimi in riferimentoalle grandi comunità giuridicamente ordi-nate. Il punto di partenza è il concetto dinazionalità, da non confondersi con quel-lo di “Stato”, che rispetto alla nazione èsolo una determinazione giuridica, men-tre quest’ultima è evocata come «simbolodi unità politica proiettata, per la sua rea-lizzazione, nel futuro ma radicata, quantoal suo fondamento, nel passato e nella tra-dizione» (Costa 2001, pp. 210).

L’intento è sempre quello di mantene-

re il primato etico della comunità, consi-derando prioritario il momento “sociale”rispetto a quello “giuridico”. Per cui lanazionalità risulta dalla fusione dei varielementi “politici”, «di un insieme di particioè armonicamente disposte, le quali simuovono tutte verso il medesimo fine»(Miceli, 1898, p. 116). È la comunità diintenti, il sentimento di appartenenza cheunisce i suoi membri a fare la nazione,secondo Miceli. Non stupisce, in taledimensione, che la fusione delle varie razze– e dunque la «comunanza di pensieri, disentimenti, di indole», in una parola: di«sangue» - costituisca un presuppostoindispensabile della sua determinazione(ibidem, pp. 117-118).

Fonte autorevole di ispirazione per ilnostro giurista, è stato Pasquale StanislaoMancini a valutare, tra i parametri ogget-tivi dell’idea di nazione, oltre al radica-mento in un determinato spazio, la«razza» come «espressione di una iden-tità di origine e di sangue». Non è un casoche Miceli condivida, di Mancini, le con-siderazioni sulla «coscienza della nazio-nalità, il sentimento che ella acquista di sémedesima e che la rende capace di costi-tuirsi al di dentro e di manifestarsi al difuori» (Mancini 1978, pp. 26-35). Mentreil senso di una «identità collettiva assun-ta come decisivo criterio di legittimazionepolitica» è proprio anche di TerenzioMamiani (1861 (4), pp. 39 ss.).

Ma è più che altro dalle letture france-si che Miceli rimane influenzato. Dur-kheim, ad esempio, la cui preoccupazionerelativa al mutamento delle strutture dellasocietà contemporanea sono dovute a«cambiamenti troppo rapidi per consen-tire alla tradizione di adattarsi ad essi».L’inquietudine deriva, insomma, dalla

Ricerche

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mancanza di punti di riferimento stabili.Secondo Luisa Mangoni:

mentre infatti non si mancava di riconoscere

che la crisi che sembrava investire contempora-

neamente le diverse società europee aveva ori-

gini e caratteristiche comuni, tuttavia il ripiega-

mento sulle singole culture nazionali, la sotto-

lineatura che l’idea stessa di nazione fosse stru-

mento indispensabile alla soluzione della crisi

stessa, comportavano una messa in ombra pro-

prio di quei fattori generali pure originariamen-

te individuati.

[1985, pp. 11-13]

Se dunque Miceli osserva l’odierna crisisocio-istituzionale (v. Acquarone 1981)come conseguenza di una forzatura delnaturale andamento che la storia riservaalla società, è altrettanto vero che tale pro-cesso, sia pure spontaneo, avrebbe biso-gno della «unione politica», ossia la sot-toposizione «per un lungo periodo a unsolo governo» - nel significato di «formacon cui in uno Stato si estrinseca l’orga-nizzazione in genere dei suoi poteri politi-ci» (Miceli 1898, p. 59). Inteso altrimen-ti: la coesione determinata da «una solaforma politica», indispensabile perché lanazione possa dirsi tale in senso compiu-tamente giuridico. È la comune forma poli-tica a determinare l’interazione di due pro-cessi ugualmente importanti: la tendenzaall’imitazione, per cui i vari elementi «apoco a poco si assimilano»; e la forza dellaconsuetudine, «forza organica onde lacondotta degli individui e dei gruppi e iloro reciproci rapporti sono permanente-mente regolati in un dato modo» (Miceli1892, p. 121).

Sotto tale aspetto, la nazione si presen-terebbe come un organismo sociale dallestesse caratteristiche del piccolo aggrega-to, mentre lo Stato, il prodotto di quella

fusione politica suaccennata, procede adingrandirsi per una «legge storica innega-bile». Ma se sono i binari della storia acondurre alla spontanea formazione dellenazioni e, dunque, degli Stati, anche il pro-blema della rappresentanza parrebbe neu-tralizzarsi in una prospettiva estensiva percui il fenomeno, lungi dal trasformarsi inmaniera sostanziale, muterebbe soltantoin senso proporzionale rispetto ai piccoliaggregati di cui si è parlato. Eppure, il pro-blema si manifesta proprio nell’ambito delgrande aggregato, riguardando specifica-mente quelle micro-comunità che stenta-no a rassegnarsi alla propria disintegrazio-ne. Al contrario, ove «più cresce l’esten-sione dello Stato, […] più crescono d’altraparte, si moltiplicano e si complicano ibisogni, le condizioni, i desideri, le aspi-razioni che sorgono nell’interno di esso».Tanto dipende dalla “disposizione ad inte-ragire” da parte degli organismi sociali:secondo Miceli, la complicazione di unoStato diventa massima «quando il proces-so di integrazione e il processo di espan-sione procedono di conserva». Più preci-samente, non è la sola espansione di unoStato a complicare i rapporti tra le sueparti, le quali potrebbero rimaneredisgiunte pur all’interno di uno Statovastissimo, come accaduto nelle societàprimitive e come ancora avviene in quelledisorganizzate. Lì dove invece l’aggrega-zione di interessi in vista del fine comune- ossia la realizzazione del sommo interes-se statale - è più consapevole, all’integra-zione sociale deve far seguito necessaria-mente una integrazione politica.

Tutto ciò rileva in tema di sovranità(Miceli 1884, anche cit. in Costa 2001, p.222), che Miceli concepisce quale «ilpunto di congiunzione fra l’organismo

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sociale e l’organismo politico, fra la socie-

tà e lo Stato». Contemporaneamente, la

sovranità traccia la linea di demarcazione

tra la regolamentazione spontaneamente

intesa e quella legittimamente imposta;

precisamente, lì dove «finisce l’azione

spontanea della società (delle norme di

condotta sociale) e comincia l’azione coat-

tiva dello Stato (delle norme di condotta

giuridica)» (Miceli 1898, p. 90).

Questa sintesi tra momento sociale e

momento istituzionale può – secondo

Miceli - ben dirsi “politica”, nella misura in

cui si manifesta come «organizzazione» o,

in altre parole, «rivelazione» della società

allo Stato «per mezzo della sua rappresen-

tanza o dell’intervento diretto dei cittadini

come tali alla cosa pubblica» (ibidem, p.

91). La politica, insomma, diventa la cifra

del diritto inteso come principio cogente

in riferimento ai flussi comportamentali di

una società in perenne cambiamento. Si

tratta infine di ribadire il concetto di ordi-

namento come cristallizzazione di un insie-

me di norme che la società ritiene di darsi

in un dato momento storico.

Conseguenzialmente, se è stata rileva-

ta la sovranità come «attributo dello Stato

… bisogna anche ammettere nella società

… la necessaria esistenza del diritto sovra-

no», contrariamente alla pretesa di un

ordinamento “monoclasse”:

coloro che hanno voluto giustificare la sovrani-

tà hanno confuso la sovranità col dominio di una

classe o di un organo politico e nel fatto essi non

venivano a giustificare che questa o quella forma

di governo.

[ ibidem]

Considerazioni che, peraltro, riaprono

vecchi fronti polemici. Innanzitutto, nei

confronti della scuola “dottrinaria” fran-

cese, colpevole di vaghezza e «antigiuridi-cità», laddove «verità, ragione e giustizia»non sono che vuote astrazioni, di per séinsufficienti come presupposti di sovrani-tà [sui doctrinaires v. Hofmann 2007, p. 537ss.). Né la teoria germanica della sovrani-tà dello Stato-persona risulta esaustiva, dalmomento che perde di vista il momentodella «genesi» dello Stato, di tipo ‘politi-co’, nei termini suddetti (la bibliografia èvastissima. Tra gli altri, v. Lucchini 1971,p. 74; Fioravanti 1986, pp. 243 ss.; Gozziin Costa – Zolo 2002, pp. 113-120 e, direcente, Grossi 2007, p. 170-175). Quantoalla teoria formalistica, che vorrebbe lasovranità come risiedente nella «nazionestessa» (Fioravanti 2001, pp. 80 ss.), nonè chiaro in che termini i suoi esponentiintendano il concetto di nazione: comecorrispondente allo Stato? come aggrega-to etnico? Mancherebbe, pure in questocaso, il fattore sociale come aggregazioneprogressiva dei divergenti interessi. Incerti termini, anche il concetto di sovra-nità del popolo risulta opaco; è ancora ilcaso di chiedersi: aggregato sociale osovranità di una speciale classe? In que-st’ultima ipotesi, senza troppi sofismi, sitratterebbe più propriamente di «domi-nio». Senza pertanto arrivare a conside-rare l’idea democratica di un insieme diindividui uguali, «meccanicamente con-giunti fra di loro e in guisa che ognunoabbia un’uguale porzione di diritti politicie quindi un’uguale porzione di sovranità»(Miceli 1898, p. 94). L’escamotage diMiceli è quello di dichiarare l’appartenen-za del «diritto» di sovranità alla colletti-vità come tale, pertanto non frazionabilein parti. In tale dimensione, il suddettodiritto appartiene alla società e «si estrin-seca» per mezzo dello Stato. Si potrebbe

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obiettare che l’‘onticità’ dello ‘Stato’ lasciaaperto il problema dell’esercizio concretodella sovranità; Miceli precisa anche que-sto punto:

quel che importa veramente per l’unità dell’or-

ganismo politico, non è che la sovranità sia indi-

visa o indivisibile, ma che le diverse parti fra le

quali si divide l’esercizio di essa concorrano

armonicamente verso il medesimo scopo e coo-

perino quindi con unità d’intenti. La sovranità

deve essere organica, ecco tutto.

[ibidem, p. 95; sul nesso tra sovranità e ‘ordine’,

v. Costa in «Filosofia politica», a. V, n. 1, giu.

1995, p. 61]

Una chiosa non del tutto soddisfacen-te, soprattutto alla luce della consapevo-lezza del fenomeno incalzante della parte-cipazione delle masse alla vita pubblica.Che la cooperazione delle parti sarebbestata «sempre più intensa e generale»(Miceli 1892, p.124;) è considerazionevagamente ottimistica del giurista.

5. Forme e sostanza della moderna rappresen-tanza politica

Ad ogni buon conto, se dichiarare la sovra-nità «residente in tutto il corpo sociale»serve al Nostro per evadere il problemadella sgraditissima sovranità popolare diuna società atomizzata, al contempo, neitermini suddetti, Miceli si pone controcor-rente rispetto all’idea di uno Stato di dirit-to rappresentato da una “classe” dirigenteermeticamente chiusa in sé stessa, allorché«tutte le classi dei cittadini sono ammessenello Stato moderno a partecipare al gover-no che lo regge». Laddove infatti la rappre-sentanza viene concepita come l’evoluzio-ne armonica di una tradizione istituziona-

le più o meno coerentemente prolungatasifin nel presente, essa è tale solo in funzio-ne di “tutta” la società, ovviamente intesanel suo particolarismo “sintetizzato”. Inquesti termini, ogni gruppo sociale ha daessere rappresentato. Miceli ripropone ilparadigma della liberale rappresentanza deicapaci partendo dalle premesse opposterispetto alla metodologia formalistica: i piùcapaci rappresentano il popolo in funzionedella loro “derivazione” da esso; non si trat-ta più, dunque, di una elite, ovverosia una“casta” dominante separata dal contestosociale e che governa dall’alto, quanto piut-tosto di un insieme di “campioni” di ognisingola espressione della società, nessunaesclusa, ove si osservi che la cooperazioneorganica «comincia e può cominciare allo-ra soltanto che le parti si specificano e cia-scuna compie la funzione per cui è più atta,lasciando tutte quelle altre per cui è menocapace».

Eppure, occorre ribadirlo, il giuristanon è un ammiratore del principio dieguale partecipazione del popolo alla deci-sione politica. Non a caso, a parer suo,l’elezione non sarebbe nemmeno unrequisito indispensabile per il riconosci-mento dei rappresentanti, che dovrebbe-ro emergere spontaneamente dal tessutosociale per una sorta di propensione allagerarchia ordinata secondo un «asse dicapacità» ben accettato dalla moltitudine,che Costa ha definito «una razionale valu-tazione della convenienza della sottomis-sione» (2001, p. 224). Per sintetizzare: sela cooperazione può compiersi esclusiva-mente sulla base della differenziazione, lapartecipazione alla «vita» del governodeve essere «proporzionata al valore deivari elementi politici e al genere delle lorospeciali funzioni» (Miceli 1892, p. 126). In

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queste coordinate, la rappresentanza rima-ne ancora affidata ai meliores, ma essi esco-no dalla ristretta categoria sociale dei«privilegiati», per assumere finalmente laresponsabilità della propria «funzione».

È insomma opportuno insistere sul“riconoscimento” delle capacità in coeren-za con il “dovere morale” previsto dallafunzione pubblica. In che misura, poi, ciòeffettivamente si verifichi, dipende daquella trasformazione del mandato giuri-dico in mandato politico. In verità, dalmomento che quella della rappresentanzadiventa una «funzione sempre meno con-nessa col concetto di rappresentanza d’in-teressi e di opinioni, e sempre più connes-sa al concetto di cooperazione alla vitagovernativa e amministrativa dello Stato»,ci si accorge anche di come la «scelta» allabase della elezione diverga in misura cre-scente dal suo scopo fondamentale, perdiventare una semplice «designazione» diun funzionario pubblico. Il presuppostodella nomina rimane quello del riconosci-mento di capacità, ma è la funzione rap-presentativa a scomparire.

Si tratta di un processo favorito dall’au-mentare della complessità sociale in rife-rimento alle istituzioni. Per un paradossosolo apparente, il moltiplicarsi degli inte-ressi e delle complicazioni relative alla lorocomposizione rende gli stessi non rappre-sentabili a fronte di quelli dello Stato:

Il concetto organico della rappresentanza ha

subito e subisce delle radicali trasformazioni

nella vita degli Stati moderni. Di fronte alla rap-

presentanza sono a poco a poco scomparsi i

gruppi politici, i ceti, le classi, gli aggregati orga-

nici di una volta; non che nella società moderna

sia venuta meno ogni forma di aggregazione e si

sia reso impossibile ogni qualunque aggruppa-

mento d’interessi e di condizioni sociali; ciò che

non potrebbe essere in una società umana, e

tanto meno in una società progredita e civile, e

nel grande e complesso organismo moderno; ma

sono solo scomparsi di fronte alla rappresen-

tanza, nel senso che essa non ne tiene più

conto»

[Miceli 1892, p. 179]

A detta di Miceli, «è molto difficile,nelle attuali condizioni almeno, ottenereda una stessa persona una contemporanearappresentanza d’interessi locali e d’inte-ressi generali, […] quando si pensa chespesso questi interessi sono fra loro inantagonismo» (ibidem, p. 158). La soluzio-ne avrebbe potuto consistere nella selezio-ne di «diverse categorie di rappresentan-ti per le diverse categorie d’interessi» (ibi-

dem, p. 261). Così non è avvenuto, e ilmoderno mito della rappresentanza«nazionale» ha preteso la trasformazionedella rappresentanza «in uno dei poteridello Stato» (ibidem, p. 159).

In questa dimensione, secondo ilNostro, la forma rappresentativa, per cui e«per mezzo di cui» il popolo cerca diattuare «l’ideale del Governo», è perlo-meno da intendersi in modo «diretto» ein modo «indiretto». Presupposto che larappresentanza ha da essere organica,dunque non numerica e quantitativa, maqualitativa, in proporzione del valore edelle funzioni che ciascuna parte compiein seno allo Stato, è il caso, per il giurista,di teorizzarne due ‘forme’ distinte: la rap-presentanza della società, riflesso dei con-creti interessi dei gruppi che essa compon-gono, definita «discreta»; e la rappresen-tanza degli interessi comuni, «dei bisognicollettivi e quindi dello Stato nella sua tota-lità», definita «concreta». La prima èquella “politica”, affidata alle Assembleescelte dai comizi elettorali; la seconda èinvece affidata al Capo dello Stato. Rima-

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ne assodato che la rappresentanza ‘politi-

ca’, nella misura in cui cura gli interessi

delle parti, ha il compito di armonizzarli

nell’interesse comune della collettività.

Analogamente, la rappresentanza del Capo

dello Stato presume l’organicità degli inte-

ressi “armonizzati” per contemplarli

all’interno di uno Stato «conciliato» con la

società di cui è manifestazione giuridica.

Fra queste due ‘forme’, Miceli ne indi-

vidua una «intermedia», che determina, o

almeno dovrebbe farlo, l’equilibrio tra la

rappresentanza sociale e quella dello Stato.

Si tratta della rappresentanza del Senato,

organo che, assumendo gli elementi

migliori della società, reca gli interessi di

questa al cospetto dello Stato, appoggian-

do l’azione del suo Capo supremo per farli

prevalere. Ancora una volta è evidente la

simpatia del giurista per le composizioni

miste, in grado di porre «i bisogni della

convivenza […] in armonia con i bisogni

dello Stato»:

la moderna rappresentanza politica è, dal punto

di vista giuridico, una rappresentanza mista, in

quanto si costituisce col concorso di due volon-

tà, quella dello Stato, che crea il potere del rap-

presentante, quella degli elettori, che scelgono

la persona del rappresentante nella quale quel

potere deve concentrarsi

[Miceli in EGI, XIII, parte I, 1913, p. 171].

In questa visuale, la funzione del Sena-

to assume la maggiore importanza, ten-

dendo a «mantenere l’armonia e l’equili-

brio fra le due rappresentanze, piegando

or verso l’una, or verso l’altra». Un com-

pito tanto delicato da poter essere assolto

soltanto in condizioni di relativa stabilità,

che «permetta meglio all’organo di imme-

desimarsi con i bisogni dello Stato, sottra-

endosi alquanto all’azione esclusiva dei

multiformi interessi sociali». Anche per

non fare del Senato una «seconda edizio-

ne» della Camera popolare, «ripetizione

inutile e pericolosa» Miceli 1898, p. 115).

Idee che, come accennato, collocano Mice-

li dentro quella corrente di pensiero libe-

rale che auspicava le riforme in senso con-

servatore (cfr. Antonetti 1992; Ripepe

1971, p. 36 ss.). Nulla di deplorevole, a

parer suo, trattandosi di quel conservato-

rismo che, secondo il giurista, salva l’indi-

viduo dall’essere una monade, collocando-

lo al centro della eredità collettiva alla base

della sua cultura e tradizione nazionale.

Rimangono da aggiungere alcune con-

siderazioni sul Capo dello Stato, da Mice-

li considerato «irresponsabile», poi che

«la responsabilità dei suoi atti viene

assunta dai ministri da lui nominati». Si

badi: non che il suo ruolo sia per questo

meno rilevante, trattandosi anzi di una

«funzione coordinante», che «acquista

maggiore importanza e diventa più diffici-

le a causa della cresciuta eterogeneità degli

organi, che si tratta di mantenere in armo-

nica cooperazione» (Miceli 1898, p. 116).

È insomma proprio il Capo dello Stato il

“vero” rappresentante del suo “Popolo”,

nel senso “hobbesiano” di personificazio-

ne dello Stato-nazione (in 1892, Miceli si

sofferma più ampiamente sul carattere

«morale» della funzione del Capo dello

Stato, tale da non poter essere determina-

ta secondo precisi criteri giuridici, v. pp.

258-259). A tale proposito, lo Statuto è

stato frainteso fin da principio, lasciando

che la classe politica trasformasse il costi-

tuzionalismo della sua lettera in un gover-

no parlamentare facile alla degenerazio-

ne. Per di più, i sentimenti che legano la

nazione al monarca

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vanno subendo delle trasformazioni radicali col

diffondersi delle cosiddette idee democratiche

e con l’introduzione e l’evoluzione del costitu-

zionalismo. È ben difficile che esse siano in

grado di combatter vittoriosamente contro le

attribuzioni più precise e irresponsabili del

corpo dei rappresentanti»

[Miceli 1898, p. 116].

Si tratta proprio di quella degenerazione

del “sentimento” della rappresentanza che

dovrebbe elevare lo Stato al di sopra della

sua mera funzione ordinamentale, peraltro

fallimentare in seno ad una società di cui

non riesce a ‘organizzare’ le istanze.

6. Dal mandato rappresentativo al mandato

governativo

Del resto, il suo approccio scientifico impo-

ne a Miceli di accettare le conseguenze natu-

rali di un fenomeno sociale prima che giuri-

dico: se, come già detto, la società non può

che progredire al passo di una sempre più

intensa cooperazione politica e sul presup-

posto di una coerente specificazione funzio-

nale, la conseguenza è una «maggior libertà

di azione, maggiore indipendenza di giudizio

da parte del rappresentante». Ma, si torni a

dire, libertà non dovrebbe significare arbi-

trio. Quanto tristemente si verifica è che

l’eletto, affrancato dal «dovere» fondamen-

tale che la sua funzione gli imporrebbe, agi-

sce senza preoccuparsi di «ciò che i rappre-

sentati desiderano, ma [di] quello che

dovrebbero desiderare secondo il criterio e

il modo di vedere del rappresentante»

(Miceli 1892, p. 160). Concretamente, la

sostituzione della volontà del mandatario a

quella dei mandanti determina la totale per-

dita di significato del rapporto rappresenta-

tivo in termini giuridici, dato che, peraltro,

non è possibile stabilire i criteri della

responsabilità del rappresentante secondo la

legge, come accadrebbe per un “normale”

mandato:

essere responsabile di fronte al Paese o di fronte

agli elettori, sono delle frasi senza significato

quando non si determina, né è possibile determi-

nare con precisione, in che cosa consiste questa

responsabilità, quando si lascia all’agente la facol-

tà di regolare la propria condotta, senza porre e

determinare delle norme preventive.

Certo, non manca un controllo di tipo

postumo rispetto all’operato dei deputati a

fine di legislatura; ma si tratta di un con-

trollo che con la legalità non ha nulla a che

fare, anzi tale da scatenare «moventi di

ordine inferiore», relativi alla corruzione

e al favoritismo. Sono

rapporti che non dovrebbero esistere fra rap-

presentanti e rappresentati, […] composizioni

di interessi, che non si dovrebbero produrre,

perché si tratta di interessi egoistici e sinistri, e

non di interessi legittimi e comuni

[ibidem, pp. 178-179].

Il che non contraddice il fenomeno

della trasformazione del rappresentante –

che dello Stato è comunque solo un fun-

zionario, anche a prescindere dalla «lati-

tudine e libertà [a lui] concessa nell’eser-

cizio del [suo] compito» (ibidem, p. 171) –

in un “organo di governo”. È ciò a cui

Miceli si riferisce allorquando scopre il

«lato governativo [della sunnominata fun-

zione] in contrapposto al lato rappresenta-

tivo». In forza del mutamento dei tempi,

per cui lo Stato ha assunto una concentra-

zione fagocitante ogni sua singola parte,

il compito della rappresentanza non poteva più

esser quello di far prevalere, di difendere, di

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rappresentare i singoli interessi, quanto quello

di governarli. […] Il compito della rappresen-

tanza quindi non poteva più essere semplice-

mente rappresentativo e doveva superare i limi-

ti di ciò che potrebbe comunemente intendersi

per mandato, assumendo un carattere che non

doveva più avere con esso che un lontano rap-

porto, se non uscire del tutto dai limiti di quel

concetto.

[ibid., p. 163]

Tale “prodotto” della specificazione fun-

zionale finisce altresì per modificarne il

presupposto essenziale, determinando una

confusione delle funzioni legislativa ed ese-

cutiva.

Senza sottovalutare l’innegabile diffi-

coltà di mantenere l’equilibrio tra l’inte-

resse «permanente» dello Stato e quelli di

nuova affermazione, rimane pur sempre da

riconoscere come la politica italiana non

fosse manchevole di colpe, data la sua

disponibilità a sacrificare e confondere

identità e programmi (sul punto, Mastro-

paolo, in Passato e presente, 12/86). In effet-

ti, come osservato anche da Hartmut

Ullrich, le organizzazioni politiche libera-

li si dimostrano

flessibili fino alla precarietà e all’improvvisa-

zione, tutte appoggiate sull’opera di personali-

tà anziché su apparati, sfuggenti, fra continuità

e discontinuità, con etichette cangianti, ma per-

sistenza di notabili e nuclei, di idee, interessi ed

avversioni.

[in Quagliariello (a cura di), 1990, p. 111]

Ma sarebbero più che sufficienti le

testimonianze dirette del tempo:

tutto il vantato giuoco d’altalena dei due grandi

partiti di liberali e conservatori tende ogni gior-

no più a sparire per dar luogo ad una serie di

mutamenti senza causa evidente, senza variazio-

ni di programma […]. Vediamo i partiti formar-

si e sciogliersi per ogni singola questione o rap-

presentare nel loro punto di coesione soltanto

interessi locali in contrapposto con quelli gene-

rali della Nazione».

[Sonnino 1872]

Per dirla con Perticone, il regime rap-

presentativo italiano sembra addirittura

nato con il “vizio” delle coalizioni e delle

clientele, trattandosi di un sistema fonda-

to su un bipolarismo facilmente degene-

rabile, in difesa del seggio (cfr. Perticone

1969, p. 634-635). Per conseguenza, il tra-

sformismo

si realizza come passaggio di singoli e di gruppi

nella nuova maggioranza di Sinistra, lasciando

che gli osservatori vicini e lontani si impegnas-

sero nella disputa se si trattasse di una conver-

sione a destra della Sinistra al potere […] o del-

l’abbandono meditato, da parte di alcuni uomi-

ni di Sinistra, delle loro posizioni di partenza.

[ibidem. Sul tema, Rogari 1998, pp. 39 ss.; Saba-

tucci – Vidotto 2005, p. 150]

Tuttavia, al di là dei passaggi da una

sponda all’altra, il trasformismo subentra al

parlamentarismo soltanto nell’ottica di uno

spostamento di incidenza dalla Camera ai

Gabinetti (sul punto, soprattutto Capo-

grassi 1959, pp. 519-520). Sotto determi-

nati aspetti, la sostanza rimane la stessa:

ciò che pur sempre permane è la «mania

legislatrice» che, secondo Miceli, «inva-

de e domina lo Stato moderno». Esso ha

“costretto” il rappresentante a concentrar-

si sulla produzione di leggi, diventata pre-

sto abnorme, e tale da distoglierlo dai biso-

gni concreti dei suoi rappresentati, cioè a

dire della società tutta, laddove la rappre-

sentanza sia “pretesa” unica e nazionale:

il compito legislativo fu quello che a preferenza

ricevette grande sviluppo a causa della crescen-

te attività del potere legislativo e della mania

legislativa che invade e domina lo Stato moder-

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no. E abbiamo precedentemente notato il con-

trasto che esiste fra la funzione legislativa così

sviluppata e la funzione di rappresentanza.

Quando l’occupazione precipua, costante, con-

tinua del rappresentante diventa quella di far

sempre nuove leggi o di abrogare e di modifica-

re quelle esistenti, esso non ha più il tempo, né

l’opportunità e perde anche l’attitudine richie-

sta per occuparsi degl’interessi dei suoi rappre-

sentanti e per farne valere i bisogni

[Miceli 1892, p. 160. Sull’interventismo dello

Stato attraverso l’attività dell’assemblea legisla-

tiva, avvertito da Miceli come minaccia per la

libertà dei cittadini, v. anche Costa 2001, pp.

235-236].

Per non considerare l’accentramentoamministrativo, che Miceli preferisce chia-mare «politico», richiedente il sacrificiodegli organi locali e degli interessi di cuisono portatori, «fraintesi e dimenticati»(Miceli 1892, p. 161. Sul punto della sosti-tuzione della mediazione amministrativa alrapporto rappresentativo sostenuto dalmandato giuridico, v. Carini 2001, p. 24).La conseguenza è appunto la prevaricazio-ne di una politica da intendersi come “inte-resse degenerato”, in tutti i campi della vitapubblica. Le Camere smettono di occupar-si delle istanze dell’elettorato, badando sol-tanto alla «condotta politica del governo, ole condizioni e l’esigenze dei partiti, o l’or-ganizzazione dei pubblici poteri»; L’esem-pio è quello delle inchieste parlamentari,sotto il controllo delle maggioranze diGoverno, che fanno approvare

non le inchieste che riuscirebbero effettiva-

mente utili, ma quelle soprattutto che acconten-

tano la aspirazioni del partito o influiscono sul

grado di popolarità del Gabinetto che le appog-

gia. [Una constatazione che dà la possibilità di

rimarcare] lo spirito politico e di una politica

sempre più ristretta ed egoisticamente utilitaria

[che] si riflette anche in questa specie di inchie-

ste. [Per risultato, tali inchieste vengono con-

dotte dalla Camera] con criteri partigiani, anzi

che con i criteri imparziali con i quali soprat-

tutto dovrebbe essere condotta un’inchiesta

avente per iscopo di preparare i materiali di una

legge o per gli studi per la compilazione di essa»

[Miceli 1901, p. 22].

Frattanto, l’esecutivo riesce a «domi-nare i rappresentanti e attirarli alle suemire», sino al punto di «sostituirsi» adessi nella funzione di rappresentazione:

la pratica si trova in contrasto con la teoria, però

che la funzione legislativa nel fatto viene eser-

citata dal Gabinetto mentre la partecipazione

delle Camere viene mano mano circoscritta in

un campo puramente formale.

E, con particolare riferimento ancoraalle inchieste legislative,

il Gabinetto, per procedere ad inchieste di que-

sto genere, possiede direttamente mezzi che le

Camere non hanno e che esso non è sempre

disposto a mettere a disposizione di queste. […]

E questi mezzi, queste condizioni favorevoli,

questi istrumenti già tanto numerosi, crescono

di giorno in giorno e si moltiplicano col cresce-

re e col moltiplicarsi dell’ingerenza dello Stato

nella vita sociale»

[ibid., p. 21]

In simili condizioni, è evidente cheormai la parola rappresentanza non servaad altro che ad intendere l’espressione diuna volontà dominante. Con evidentiripercussioni in fatto di corruzione:

Con la cresciuta attività dello Stato, si produce-

va uno spostamento e un disequilibrio negl’in-

teressi dei cittadini, si producevano numerose

lesioni di questi interessi e numerose pertur-

bazioni in seno della convivenza; mentre poi

contemporaneamente si sviluppava la creden-

za, che lo Stato potesse riparare tutti i mali e si

sviluppava il desiderio di vederli riparati per

opera di esso. Quindi le sollecitazioni ragione-

voli e irragionevoli, legittime e illegittime verso

Ricerche

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i rappresentanti, per invocare il soccorso dello

Stato e per ottenere dallo Stato tutto quello che

fosse possibile ottenere; sollecitazioni che, se

da una parte corrompevano la rappresentanza,

costringendola a rappresentare interessi egoi-

stici e illegittimi; dall’altra la rendevano schia-

va dell’esecutivo, a cui era costretta di ricorrere

per contentare in parte almeno le pretese degli

elettori. Anche per questo verso la rappresen-

tanza cessa man mano di esser vera rappresen-

tanza per diventare sollecitatrice di favori»

[Miceli 1892, p. 162].

Più sinteticamente, quando, comeaccade in seguito alla “assolutizzazione”dello Stato, il conflitto degli interessi vienesmorzato al punto che non è più necessa-ria una sua “organizzazione”, la rappresen-tanza cessa di essere «una semplice ripro-duzione, un semplice riflesso delle opinio-ni e degl’interessi dei rappresentati» (ibi-dem, pp. 166). Ovvero, smette di esistere inquanto tale, si trasforma radicalmente;verte, in definitiva, su quel lato governativodi cui si diceva poc’anzi.

Né tuttavia viene meno l’esigenza diessa. Accade, piuttosto, che altri organi sisostituiscano a quelli istituzionali. Miceli siriferisce all’opinione pubblica. Laddove lamoderna sovranità impedisca la solidarie-tà materiale fondata sulla organizzazionedegli interessi, in un paese che sia liberalee dunque lo permetta, le si sostituisce una«solidarietà intellettuale», per fare«conoscere al cuore dello Stato le condi-zioni delle sue singole parti». Quando untale «istrumento» è realmente efficace, igovernanti «ne devono riconoscere la forzae l’autorità». A maggior ragione ciò vale perla stampa, vera e propria «potenza» difronte a cui il rappresentante, non di rado,deve addirittura «venire a patti». In talsenso, la stampa garantisce una sorta dipartecipazione dei cittadini al governo, in

misura che dà adito all’intelligenza ed allacapacità di concorrere al benessere delloStato «senza il soccorso dei sistemi più omeno artifiziali di elezioni»; si tratterebbedunque di una nuova «rappresentanzaspontanea», dato che quella istituzionale –ovvero «legale», termine usato da Micelicon scarso entusiasmo – non garantisce piùla «naturale» corrispondenza dei bisognidell’organismo sociale (ibidem, pp. 166-168. Sul punto, Lacché 2003).

Senza però arrivare alle estreme consi-derazioni della stampa come «quarto pote-re», laddove «poteri» non possono defi-nirsi che quelli istituzionali, attraverso cuila decisione politica si traduce in legge.Perciò la «forza sociale» che l’opinionepubblica, attraverso il suo organo di diffu-sione, esercita sulla «cosa» pubblica, nonpuò uscire dall’ambito delle “idee” che, inquanto tali, tutt’al più “condizionano” ilpotere legislativo, senza sostituirsi ad esso.In definitiva, appare necessario non con-fondere «la forza sociale che essa [la stam-pa] dispiega … con gli organi giuridica-mente costituiti, dai quali l’andamentodella cosa pubblica in diritto deve dipen-dere» (Miceli 1898, p. 110).

Resta incontrovertibile che il sistemadella rappresentanza non è più rappresen-tativo3, con buona pace di coloro che«guardano gli attuali ordini rappresenta-tivi semplicemente dal lato della facciata»(ivi). Dunque la società è costretta a cerca-re nuovi veicoli di affermazione, perché unfatto è certo: l’elemento giuridico, ossia ilsintagma dello Stato stesso, è di tipo con-tingente, rispetto all’immanenza del socia-le (cfr. Miceli 1928, pp. 639 ss.).

Trifone

145

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7. Degenerazione ‘politica’ del mandato

«moderno»

Alla luce delle ultime conclusioni, «il con-cetto del mandato politico secondo lo spi-rito della rappresentanza moderna – scri-ve Miceli - è quell’atto con cui un corpo dielettori designa una data persona comecapace di entrare nel corpo legislativo e dicompiere tutte quelle funzioni, che dallalegge e dalla consuetudine vengono attri-buite alla persona per tal modo designata»(Miceli 1892, p. 173). La definizione contie-ne in sé tutti gli elementi del “moderno”mandato rappresentativo che, si è dimo-strato, è “antitetico” rispetto all’idea di rap-presentanza come ‘emergenza’ delle esi-genze sociali, secondo un armonico pro-cesso evolutivo. Del resto, Miceli ha giàposto l’attenzione sull’inevitabile conver-genza delle istituzioni in senso verticistico,nonché sulle conseguenze relative alla tra-sformazione del mandato in ‘politico’, inseguito all’abbandono dei suoi connotati‘giuridici’, pena la perdita, da parte deglielettori, del diritto di veder rappresentati ipropri interessi particolari a fronte di quel-li generali dello Stato.

Del resto, ciò che la comunità percepi-sce in un modo, la legge regola in un altro.Più precisamente, là dove l’art. 41 dello Sta-tuto dispone che gli eletti non devono rap-presentare i collegi elettorali, ma la nazio-ne e gli interessi generali dello Stato, «nelfatto», invece, sono gli interessi delle sin-gole parti a rimanere all’attenzione dei rap-presentanti, sebbene non nell’ottica di unrapporto organico, ma in base ad una fazio-sità di tipo clientelare, che sgancia gli elet-ti dal corpo sociale e li libera alla corrutte-la. Al punto che sarebbe legittimo chieder-si perché lo Stato non provveda effettiva-

mente ad una «nomina» dei propri gover-

nanti, in veste cioè del «corpo che essi

dovrebbero rappresentare» (Miceli 1898,

p. 133).

Si tratta più che altro di una provocazio-

ne; eppure basti pensare alla rappresentan-

za espressa nella Camera, che non potreb-

be non dirsi «sociale», laddove il suo com-

pito dovrebbe essere quello di

rappresentare la società di fronte allo Stato e di

rappresentarla, tanto nella più grande varietà dei

bisogni, delle aspirazioni, delle condizioni, che

si rivelano nelle sue varie parti; come in quelle

comuni forme di aspirazioni e di bisogni, in

quello spirito di solidarietà e di convivenza, che

accomuna fra di loro gli elementi più disparati

[ibidem].

Il contrario di quanto si verifica effet-

tivamente. Sennonché, la divisione «giu-

ridica» degli elettori in collegi e la divi-

sione «politica» dei cittadini in partiti

dovrebbe rispondere proprio a tali esigen-

ze. Andando per gradi, è possibile intende-

re una ‘idea liberale’ del partito da cui

neanche Miceli si distacca, posta una

sostanziale uniformità della cultura acca-

demica sui temi della organizzazione poli-

tico-costituzionale. Per cui il partito risul-

ta in qualità di collettore di idee, cui i rap-

presentanti si sentono liberi di aderire

quanto di allontanarsi. D’altra parte, il

fenomeno dei nascenti partiti “antagoni-

sti” determina la distinzione tra «il parti-

to come soggetto necessario e qualificante

della vita parlamentare […] e l’associazio-

nismo politico extraparlamentare visto con

sospetto» (Pombeni in Mazzacane –

Schiera 1990, p. 455). In altri termini, lad-

dove il partito non può ignorarsi nella sua

portata formativa dei governi, per altro

verso se ne teme il carattere anti-costitu-

Ricerche

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zionale (v. Pombeni 1986, p. 236; Fiora-vanti 1993, p. 13)4.

In questa visuale, non è ancora plausi-bile un “trasferimento” della mediazionein senso extra-parlamentare. Il punto, perMiceli, è quello del rispetto delle istituzio-ni vigenti, da arginare con la formazione dicoalizioni in contrafforte a inauspicabiliderive politiche. Ciò senza rinnegare unaconnotazione ‘personalistica’ al rapportotra elettore e candidato: perché la rappre-sentanza sia veramente sociale occorre chei rappresentanti siano legati ai gruppi dielettori e siano in grado di rifletterne ibisogni. Miceli non smette mai di ribadir-lo: la rappresentanza sciolta da vincoli dimandato non è vera rappresentanza.

Al contrario, la mancanza di corrispon-denza di interessi tra elettori ed elettidetermina il progressivo abbandono di ogniresponsabilità da parte di questi ultimi, dalmomento che il concetto di responsabilitànon è più definibile secondo alcun riferi-mento concreto a rapporti reciproci con la“base”, nonché in assenza di «norme pre-ventive» sulla condotta del rappresentan-te. Tutto quel che rimane è la preoccupa-zione di non deludere gli elettori, che nullaha dell’obbligo morale riferibile alla fun-zione rappresentativa, attenendo piuttostoallo ‘spettro’ di fine legislatura, vicino ilmomento di una nuova votazione. In breve,«si tratta di interessi egoistici e sinistri, enon di interessi legittimi e comuni» (Mice-li 1898, p. 179), alla base di una rappresen-tanza ormai tale solo nominalmente.

Un fenomeno apparentemente inevita-bile, data la scomparsa degli «aggregatiorganici». Si ribadisca, non nell’ambitodella società, bensì soltanto di fronte al“sistema” rappresentativo modernamenteconcepito:

i vincoli fra elettori ed eletti sussisteranno sem-

pre, ciò è nella natura umana e non può essere

mutato dalla legge; soltanto che questi vincoli,

non riconosciuti e non regolati dalla legge, si

costituiranno e si svolgeranno in modo irrego-

lare ed inorganico a danno della sincerità e del

carattere vero della rappresentanza politica»

[ibidem, p. 134].

Ad ogni modo, il corpo elettorale orga-nizzato in base al criterio numerico perdeil suo carattere di corpo sociale permanen-te, qualificato dagli interessi, per diventa-re un aggruppamento precario in occasio-ne delle elezioni (si tratta di una elabora-zione personale di un concetto non nuovonel panorama politico e giuridico liberale,quello della rappresentanza organica dacontrapporre alla “tirannia del numero”;v. Fioravanti 1999, p. 223; Romanelli 1988,p. 157; Lanciotti 1993, p. 217). Eppure, leconsiderazioni politiche determinate dacause accidentali «presto sfumano, si per-dono, si trasformano, lasciando come solaconseguenza stabile un profondo distaccofra elettore ed eletti» (ibidem, p. 182). Per-duto dunque ogni senso pratico relativoall’organicità delle istanze sociali, la rap-presentanza degenera, secondo Miceli, inun insieme di principi dottrinari, facilefomento di incertezza e immoralità.

Ovvio, secondo il giurista di originecalabrese, che tali rivolgimenti incidanonegativamente sulla mediazione intesacome sintesi tra la società, ossia il corpodei rappresentati, ed i ‘luoghi’ istituziona-li della rappresentanza, per stabilire qualesia le sede della decisione politica, a chiessa competa e verso chi si eserciti. Soprat-tutto alla luce della «crescente autorità»della Camera popolare,

la quale è riuscita a poco a poco a imporsi a tutti

gli altri organi, ad assorbire in sé tutte le prin-

Trifone

147

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cipali funzioni della sovranità, a diventare il vero

e supremo organo sovrano dello Stato»

[Miceli 1901, pp. 23-24].

Il problema, nell’incombenza del suf-

fragio universale (sul punto, Piretti 1996,

pp. 151-182; Rogari 1998, p. 215), è la crisi

di “rappresentatività” della composizione

delle moderne Camere “basse”, che il tem-

peramento da parte del Senato e del Capo

dello Stato, come detto, non bastano a

scongiurare. E accertato che la rappresen-

tanza deve ritornare alla società di cui è

espressione, non c’è nessun bisogno – a

parere di Miceli - di un ordinamento che

disponga i rapporti sociali da un’altezza

irraggiungibile, quando invece «in armo-

nia con i propri interessi, tutti gli elettori

diventerebbero guardiani e custodi della

regolarità della procedura elettorale»

(Miceli 1892, p. 169).

Ma tutto ciò, alla fine del Secolo XIX,

sembra lontano da qualche realizzazione.

Piuttosto - è la chiosa di Miceli –

il concetto della rappresentanza moderna tra-

versa adunque un periodo di transizione; esso è

ancora pieno di contraddizioni, di incertezze,

come qualcosa che non si è ancora ben fuso e

armonizzato in tutte le sue varie parti, ma riflet-

te tutte le contraddizioni molteplici, tutte le

cause svariate, che contribuirono a determinar-

lo

[Miceli 1892, p. 269].

Viene da chiedersi se le aspirazioni del

giurista ad una rappresentanza organica

degli interessi particolari appartengano ad

un passato inesorabilmente trascorso o

possano in qualche modo riflettersi in un

futuro prossimo dal bisogno impellente di

altri luoghi intermedi tra il ‘potere’ ed i suoi

destinatari. Quello che appare è che lo Stato

liberale, al culmine della sua concretizza-

zione, stenta a mantenere l’equilibrio sul

filo di una società riottosa alle maglie del

diritto. E Miceli ne avverte il disagio. Cosa

diversa sarebbe stato superarlo, a causa

della suddetta incertezza ordinamentale,

che renderebbe pericoloso «di volere sal-

vare certe istituzioni a ogni costo» e, tutta-

via, senza intravedere il giusto modo di

riformarle (Miceli 1895, p. 387).

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Ricerche

150

1 Il giurista, nato a S. Fili (Cosen-

za) il 22 gennaio 1858, fa il suo

ingresso nell’Università come

supplente di Diritto internazio-

nale presso il Regio Istituto di

Scienze sociali di Firenze, dove

si era diplomato nel 1882. La sua

produzione diventa subito

intensa: due volumi del “Saggio

di una nuova teoria della sovra-

nità” (1884-87), la “Filosofia del

diritto internazionale” (1889), i

due volumi sul “Concetto giuri-

dico del Governo costituziona-

le” del 1894; e, per l’appunto, i

“Principi fondamentali di dirit-

to costituzionale generale” del

1898, riediti nel 1913 col titolo

di “Principi di diritto costitu-

zionale”. Dal 1889, egli è pro-

fessore di Diritto costituzionale

nella Libera Università di Peru-

gia, dove è anche incaricato, per

un anno, di Statistica e, per tre

anni, di Filosofia del diritto. Nel

1902 Miceli è nominato profes-

sore straordinario di Filosofia

del diritto nella Regia Universi-

tà di Siena, ma vi rimane solo un

anno per poi trasferirsi a Paler-

mo, dove i suoi interessi filoso-

fici caratterizzano in pieno la

produzione del periodo: gli

studi dedicati alle “Fonti del

diritto dal punto di vista psichi-

co-sociale” (1905), il “Diritto

quale fenomeno di credenza

collettiva” (1905), la “Norma

giuridica (Elemento formale)”

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Trifone

151

(1906), il “Sentimento del

dovere nella conversione del-

l’Innominato” (1908), gli “Ele-

menti vivi del diritto” (1910), e

specialmente i quattro volumi di

“Lezioni” ricavati dai corsi

tenuti fra il 1909 e il 1912.

Subentrato nell’insegnamento

della Filosofia del diritto a Carlo

Francesco Gabba, nella Facoltà

giuridica pisana, scrive le sue

ultime opere: i “Principi di filo-

sofia del diritto” (1914; 2.a ediz.

1928), ricavati dalle ricordate

“Lezioni”, e i volumi su “La per-

sonalità nella filosofia del dirit-

to” (1923) e su “Il concetto della

proprietà dal punto di vista filo-

sofico giuridico” (1927). Dopo il

riposo dall’insegnamento per

problemi di salute, il 19 settem-

bre 1930, il giurista sarebbe

morto a Trieste, il 9 febbraio

1932 (notizie tratte dall’Annua-

rio della R. Università di Pisa

per l’anno accademico 1931-

1932).2 In questo senso, Miceli è piena-

mente inserito nella metafora

organicistica che, fra Otto e

Novecento, avrebbe preteso di

«accogliere le ‘ragioni dell’in-

dividuo’ solo se sottoposte a

‘grandezze’ maggiori e diverse».

Secondo Costa, «la dislocazio-

ne dell’individuo da presuppo-

sto e punto di convergenza del

discorso a momento terminale

di catene argomentative diver-

samente sorrette» rappresen-

terebbe addirittura «un filo di

continuità nella tradizione»,

ossia nella cultura giuridica del

secondo Ottocento, per cui

«l’intero universo è una gerar-

chia di gradi, di livelli organiz-

zativi e associativi subordinati,

di ‘enti organati’, retti da leggi

interne al loro sviluppo che il

naturalista, lo scienziato volta a

volta scopre». Né tuttavia il

presupposto anti-individuali-

stico avrebbe potuto sussistere

senza il suo contrario, il presup-

posto individualistico, che ad

ogni modo rimane evocato «per

facilitare l’enunciazione del

tema opposto che non per virtù

propria». Resta comunque

certo che il soggetto di diritto,

nella cultura giuridica liberale,

non scompare: «oggetto di con-

testazione come cellula genera-

tiva dell’analisi del politico,

mantiene una sua vitalità, là

dove possa, per così dire, fiori-

re all’ombra di uno Stato altri-

menti fondato. […] Ciò che

sembra di regola rifiutato è quel

nesso di diretta funzionalità fra

‘Stato’ e ‘individuo’ che segnava

un modello ormai desueto di

analisi del politico» (Costa

1986, pp. 12 ss.). Sul tema del-

l’anti-individualismo reaziona-

rio, che si profila alla fine del

secolo XVIII per svilupparsi in

quello successivo in senso pro-

secutivo al concetto di indivi-

dualismo liberale di prospettiva

‘sociale’, cfr. Laurent 1999, pp.

55 ss. 3 Miceli non riesce a trattenere

una divagazione di “cronaca”:

«l’ultima crisi prodotta nel

nostro Gabinetto [31 gennaio

1891] è stata la conseguenza di

un voto di sfiducia dato all’ono-

revole Crispi. […] Nella discus-

sione che aveva preceduto il

voto, era accaduto l’opposto di

quello che notammo durante il

periodo elettorale, molti depu-

tati si erano affrettati cioè a

dichiarare che essi non erano

legati ad alcuna promessa con

gli elettori, mentre molti affer-

mavano che non dovevano alcun

riguardo alle opinioni di essi; in

altri termini, che avevano in

tutto e per tutto il diritto di

regolarsi a seconda del proprio

criterio, come appunto sarebbe

un funzionario di concetto

allorché agisce contro i limiti

delle sue attribuzioni. L’indiriz-

zo non rappresentativo del

moderno sistema di rappresen-

tanza è qui nettamente delinea-

to». Ma gli esempi della incon-

gruenza del sistema con il fine

per cui esso è predisposto rile-

va anche fuori dall’Italia: «esso

apparisce con maggiore eviden-

za di prove nella vicina Svizze-

ra, ove il sistema rappresentati-

vo funziona, […] insieme col

governo diretto del popolo per

mezzo dell’istituto del referen-

dum. Colà abbiamo veduto più

di una volta […] la rappresen-

tanza politica trovarsi in contra-

sto col voto popolare, tanto che

parecchie disposizioni da quel-

la approvate, sono state poi

respinte da questo. Il che non

può significare altra cosa se non

che i rappresentanti non rap-

presentano più gli interessi e le

opinioni dei loro rappresenta-

ti» (Miceli 1892, pp. 172-173). 4 Occorre rilevare la distanza che

separa il sistema dello Stato di

partiti da quello classico del

governo rappresentativo. In

queste coordinate, Pasquale

Pasquino indica la sostituzione

«alla relazione a due termini

elettori/eletti, nazione/assem-

blea rappresentativa» di «quel-

la a tre termini fra elettori/par-

lamento/partiti, dove sono que-

sti ultimi ad assumere un ruolo

fondamentale» (1984, p. 82). È

appena il caso di aggiungere

che, in tale prospettiva, si riaf-

faccerebbe lo spettro del man-

dato fra i deputati e il loro par-

tito di appartenenza, laddove

tale rapporto ha da essere

inquadrato nei termini di un

“disciplinamento”. Lo “spar-

tiacque” rimane Weber: «il par-

tito politico è una associazione

… rivolta a un fine deliberato,

sia esso “oggettivo”, come l’at-

tuazione di un programma

avente scopi materiali o ideali,

sia “personale” cioè diretto a

ottenere benefici, potenza e

pertanto onore per i capi e

seguaci, oppure rivolto a tutti

questi scopi insieme». Ma,

soprattutto, la funzione della

moderna rappresentanza in

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parlamento non può essere

chiarita senza l’intervento

volontario dei partiti, cui com-

pete ogni iniziativa politica e

legislativa, a fronte di cittadini

guardati come «politicamente

passivi». Al punto che il capo

del partito e suo apparato

amministrativo «sono i capi

politici dello Stato» in misura

tale per cui la vittoria elettorale,

da cui pure dipende la loro

affermazione, rimane sullo

sfondo del rapporto di potere

(Weber 1999, pp. 282, 291 ss.).

Ne risulta la suaccennata tra-

sformazione delle funzioni del

Parlamento, sempre meno

«assemblea sovrana» e sempre

più organo di ratifica di decisio-

ni prese dall’esecutivo e, per

traslato, dalle segreterie dei

partiti (alcune considerazioni

sulla rappresentanza secondo

Weber in Battegazzorre 2007,

pp. 88 ss.).

Ricerche

152

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Lo Statuto albertino è infranto o mantenuto

intatto dal fascismo? – ci si chiede. E la

domanda resta in varia misura valida per

tutto il Ventennio. Ma se non si vuole cade-

re nelle paralizzanti trappole di questa

manichea alternativa e si vuole cercare di

comprendere come le istituzioni si rappor-

tino in concreto al dettame statutario, risul-

ta forse più utile interrogarsi – almeno in

queste pagine – sulla stabilità e credibilità

politica della Carta del marzo 1848.

A prescindere da ogni analoga conside-

razione possibile per quando riguarda i suoi

precedenti settanta anni di vita, occorre

avere presente che lo Statuto vive all’indo-

mani del primo conflitto mondiale una fase

di notevole difficoltà. Certo, risente del

generale clima di scetticismo che avvolge in

quegli anni i sistemi ‘parlamentari’ e, di

riflesso, le Carte che li hanno originati. Ma,

ancor più, è oggetto specifico di tendenze

riformistiche che segnalano la percezione di

una sua ridotta affidabilità.

Il caso più significativo in tal senso, in

primo luogo proprio per la sua precisa con-

notazione storica, è costituito dal disegno di

legge n. 453 presentato alla camera il 24 giu-

gno 1920 con il quale, in sostanza, si mette

in cantiere una riforma dell’art. 5 dello Sta-

tuto, relativo alle prerogative regie in campo

esecutivo (Labriola, 2002, pp. 105-121). Il

24 giugno non è peraltro un giorno qualun-

que della storia parlamentare italiana, giac-

ché proprio allora l’ultimo governo Giolitti

si presenta al parlamento per chiedere la

fiducia: siamo dunque autorizzati a ritenere

che l’intervento costituzionale in questione

rivestisse un’importanza politica per nulla

marginale. È come se l’ultima compagine

governativa liberale di un certo peso (desti-

nata peraltro a vita breve: seguiranno un

ancor più breve e interlocutorio governo

Bonomi e due insipidi governi Facta) scelga

a manifesto del proprio programma anche

una riforma costituzionale che, significati-

vamente, non riuscirà a condurre in porto.

Ma non solo per questo si tratta di una

vicenda fortemente eloquente circa il conte-

sto storico che stiamo osservando. Il nodo

politico che sta sotto l’ipotesi di modifica

153

«Fare la guardia al Santo Sepolcro»?La questione della riforma dello Statutoin epoca fascista

paolo colombo

giornale di storia costituzionale n. 16 / ii semestre 2008

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dell’art. 5 risale infatti all’entrata in guerradell’Italia di cinque anni prima, cioè allasegreta stipulazione del Patto di Londra adopera del ministro degli interni, del mini-stro degli esteri e del monarca, e (non si puòdimenticarlo) alla conseguente sconfittapolitica del neutralismo giolittiano. La vitto-ria finale non basta a cancellare lo smaccoparlamentare del 1915 e non è un caso chegià nel discorso elettorale tenuto a Droneroper le elezioni del 1919 Giolitti, filtrandoperaltro posizioni già espresse dai socialistinel 19171, rilevi la «strana contraddizione»tra un insieme di lacci e laccioli parlamen-tari stretti sull’esecutivo e la facoltà lasciataa quest’ultimo di impegnare il Paese allaguerra senza rendere conto a nessuno delladecisione (Giolitti, 1922, pp. 556-557)2.

L’art. 5 dello Statuto recita difatti: «AlRe solo appartiene il potere esecutivo; Egli èil Capo Supremo dello Stato; comanda tuttele forze di terra e di mare; dichiara la guer-ra; fa i trattati di pace, d’alleanza, di com-mercio ed altri, dandone notizia alle Came-re tosto che l’interesse e la sicurezza delloStato il permettano, ed unendovi le comuni-cazioni opportune. I trattati che importasse-ro un onere alle finanze, o variazione di ter-ritorio dello Stato, non avranno effetto senon dopo ottenuto l’assenso delle Camere».Ma la storia insegna che non vi è onerefinanziario (si pensi solo al dissanguamen-to delle casse statali richiesto dalla GrandeGuerra) o variazione territoriale (valgano levicende del Trattato di Uccialli e della guer-ra coloniale libica (Barié, de Leonardis, deRobertis, Rossi, 2004, pp. 135-138) capacedi per sé di costituire ragione sufficiente perinterpellare il parlamento. In buona sostan-za il governo rinvia anche indefinitamente,a proprio giudizio, il momento in cui rendernoto il contenuto dei trattati stipulati (i det-

tagli del patto di Londra verranno conosciu-ti solo nel 1920 e solo attraverso gli archivizaristi resi accessibili dalla rivoluzione d’ot-tobre!) e agisce in una di quelle zone d’om-bra costituzionale tipiche delle prerogativeregie.

Il nuovo testo costituzionale dovrebbeallora suonare così: «I trattati e gli accordiinternazionali, qualunque sia il loro ogget-to e la loro forma, non sono validi se nondopo l’approvazione del Parlamento. IlGoverno del re non può dichiarare la guer-ra senza la preventiva approvazione delle dueCamere». In particolare, come specifica inaula lo stesso Giolitti, si dovrebbero istitui-re «presso i due rami del Parlamento, com-missioni permanenti alle quali il Governodia notizia dello svolgimento delle trattati-ve che riguardano le questioni più gravi»3.

Ribadiamo che il progetto non andrà abuon fine e morirà con il governo che loaveva proposto: il che non impedisce cheGiolitti, attribuendogli evidentementeancora grandissima importanza, faccia adesso caparbio riferimento nella relazioneche accompagna il decreto di scioglimentodella Camera (peraltro non in seduta, per-ché prorogata) del 7 aprile del 1921, n. 345.Giolitti così scrive, rivolgendosi esplicita-mente e direttamente, a Vittorio Emanuele:

Sire, […]

Nel giugno dello scorso anno il Ministero presen-

tò un disegno di legge che, modificando l’art. 5

dello Statuto, disponeva che nessun trattato inter-

nazionale fosse valido senza l’approvazione del

parlamento. Sono passati nove mesi senza che su

codesto disegno di legge sia stata presentata la

relazione. Confidiamo che la nuova Camera com-

prenda quanto importi che il Parlamento abbia

piena autorità sulla politica estera.

[Novacco, 1967, pp. 138-143, in particolare p. 140]

Neppure questi auspici del ‘grande vec-

Ricerche

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chio’ della politica italiana troveranno però

realizzazione: ciò nondimeno il suo proget-

to di riforma costituzionale rimane signifi-

cativo per diversi ordini di ragioni. Perché

corrisponde al tentativo di adeguare una

parte delicatissima della costituzione for-

male a una sorta di nuova costituzione mate-

riale venuta in vita con l’introduzione del

suffragio universale maschile: quella che si

potrebbe anche chiamare «seconda costi-

tuzione rappresentativa» (Labriola, 2002,

pp. 173-202). Perché è in un certo qual senso

l’ultimo tentativo che il sistema statutario

accenna per garantire il proprio aggiorna-

mento in senso spiccatamente rappresen-

tativo. Perché marca con forza la discrasia

ormai storicamente esistente tra una ten-

denza a attribuire poteri sempre più ampi al

parlamento e una di senso opposto a confe-

rire (o semplicemente, in senso più statico,

a ‘riconoscere’, laddove ci si poggi sulle pre-

rogative del monarca già attestate dallo Sta-

tuto) larghissimi margini d’azione autono-

ma al governo. Perché, infine (come si

accennava in avvio), ci parla di una disponi-

bilità a considerare lo Statuto come una gab-

bia non solida e rigida da difendere a spada

tratta nella sua integrità letterale, ma anzi

smontabile e trasformabile in alcuni suoi

pezzi: in definitiva non immutabile.

Colombo

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Cartolina ricordo dei Savoia, all’immagine dei personag-

gi (Vittorio Emanuele III e la regina) era spesso abbina-

ta un’icona eroica.

Cartolina ricordo dei Savoia.

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Di queste osservazioni, sono le ultimedue a interessarci di più. Su quella discrasia,infatti, farà leva Mussolini per scalzare ilparlamento dalle fragili (e spesso solo appa-renti) posizioni di predominio conquistatenegli ultimi anni di lotta contro l’esecutivo.La disponibilità a considerare ‘elastica’ lacostituzione albertina ‘stira’ invece per partepropria il tessuto statutario, alleggerendo-ne la capacità di contenimento e la forza diresistenza a lacerazioni interne (che saran-no tali da lasciarne comunque intatta laforma esteriore).

Teniamo peraltro presente che lo Statu-to arrivava da un lungo processo di nascostologorio ben rappresentato da una articolatastoria di proposte di riforma centratesoprattutto sul Senato: e non solo in dire-zione progressista: ancora nel 1919 unaCommissione speciale considera l’opportu-nità di introdurre tra le categorie dei possi-bili senatori gli esponenti della Real Casa edegli Ordini cavallereschi, vale a dire nota-bili tra i più vicini alla monarchia (Lanciot-ti, 1993, p. 339)4. Non si dimentichi poi, perquanto estemporaneo ed effimero, l’espe-rimento corporativista della Carta del Car-naro, voluta da D’Annunzio per Fiume: amolti, per di più sintonici con gli ‘slanci’fascisti, appare pur sempre un modellocostituzionale alternativo e dunque contri-buisce ad erodere ulteriormente la basefiduciaria su cui poggia lo Statuto5.

Ma anche nella sostanza, quasi ad antici-pare successive modalità d’azione fasciste,si registrano ‘sotterranei’ cambiamenti chealterano il dettato statutario e che – non pareproprio un caso – saranno nuovamente cor-retti dopo il ‘22. È il caso della procedura dinomina del Presidente del Senato: nominache l’art. 35 dello Statuto attribuisce al re.Una disposizione interna introdotta nel 1919

(quale unico risultato concreto di un piùampio progetto elaborato da una apposita«Commissione di studio sulla riforma delSenato» presieduta da Tommaso Tittoni)stabilisce però che il Senato può eleggere ilproprio presidente6. Non può sfuggire chene deriva una modificazione di fatto dellaprerogativa regia la quale, rimasta inaltera-ta nella lettera, rischia di ridursi nella pra-tica a una conferma della volontà senatoria-le. Non è difficile peraltro immaginare chei membri della Camera Alta si saranno benguardati dal prescegliere personaggi invisipresso la Corte e avranno sondato preventi-vamente gli orientamenti del monarca: nonper nulla si succedono alla presidenza Tom-maso Tittoni (4 dicembre 1919-21 gennaio1929), Luigi Federzoni (29 aprile 1929-2marzo 1939) e Giacomo Suardo (15 marzo1939-28 luglio 1943). Ma non è questo ilpunto.

Quel che rileva notare è che, in pienaepoca fascista e particolarmente in unmomento assai delicato perché coincidentecon l’entrata in funzione della Camera deifasci e delle corporazioni che sostituisce laCamera dei Deputati, si interverrà a ri-orientare la prassi di nomina in senso diar-chico. Già il regolamento della nuova Came-ra, approvato per acclamazione il 14 dicem-bre 1938 e ripreso pedissequamente anchedal Senato, stabilisce infatti all’art. 11 che ilPresidente dell’assemblea «è nominato condecreto Reale». Ma questo articolo, a diffe-renza dei tre successivi dedicati all’impor-tantissimo rapporto tra il presidente stessoe le Commissioni legislative, non si preve-de esplicitamente che sia applicato allaCamera Alta. Così, al momento di predi-sporre un rinnovato regolamento internoper il Senato, si discute della questione e siapprova un articolo che riserva al «Re Impe-

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ratore» la nomina del Presidente e dei quat-tro Vice Presidenti, la cui individuazionetornerebbe dunque ad essere affidata allavalutazione regia7. Ma non solo.

Se si scorrono le carte della Commissio-ne Solmi, organo incaricato di studiare pos-sibili riforme e sul quale si tornerà tra poco,ci si imbatte nella bozza iniziale della legge inquestione, contenuta nella Relazione sulle

proposte di Riforma Costituzionale, ove si legge:«Il Presidente ed i Vice Presidenti dellaCamera in numero di tre, sono nominati conDecreto del Duce» (Atti della Commissione

Solmi, seduta del 2 aprile 1937-XV, in Perfetti,1991, pp. 285-320, specialmente p. 317)8.Dunque, all’origine, si sarebbe voluto attri-buire il potere di nomina a Mussolini.

Il tentativo non va però in porto: almenoper quanto concerne il testo letterale dellalegge (segno ulteriore che la resistenza regiaè viva, ancora alla fine degli anni ‘30). Ma inpratica, cosa accade? Lo svela apertamenteGiacomo Suardo, neo-presidente dellaCamera Alta. È il 17 aprile 1939: nel discor-so di insediamento, Suardo afferma di esse-re stato «designato dalla benevolenza delDuce a questo alto ufficio, al quale la Maestàdel Re Imperatore si è degnata di elevar-mi»(Senato del Regno – Atti parlamentari –

Discussioni, Legislatura XXX, seduta del 17aprile 1939, pp. 5-7, p. 5). Mussolini desi-gna; Vittorio Emanuele nomina. Da un lato,palese richiamo alle prassi liberali di con-corde impiego delle prerogative regie daparte del governo; dall’altro perfetto esem-pio di diarchia9. Né si pensi di avere a chefare con elementi istituzionali di minimarilevanza: secondo la nuova normativa, tran-ne ristrette materie per la quali si delibera inseduta plenaria (disegni di legge di caratte-re costituzionale sui quali deve pronunciar-si il Gran Consiglio del Fascismo, progetti

di bilancio e rendiconti consuntivi…), l’at-tività legislativa è infatti svolta dalle soleCommissioni, le quali discutono e approva-no testi trasmessi poi al Duce perché le sot-toponga «alla sanzione del Sovrano». E,rispettivamente, «le Commissioni sono for-mate dal Presidente della Camera e delSenato»10: i Presidenti, in sostanza, si tro-vano così a poter indirizzare la pratica legi-ferante dello Stato.

Si è soliti ritenere che il regime fascista‘occupi’ lo Stato liberale attraverso creazio-ni legislative e istituzionali che di fatto dila-tano il ‘flessibile’ disposto statutario o alte-rano le consuetudini costituzionali (cfr.Melis, 2003, pp. 696-700); una lunga seriedi eventi – di cui fa parte il caso appenadescritto – confermano questa interpreta-zione, ma troppo spesso si trascura così unacostante tendenza, riscontrabile in tutto ilVentennio, a intervenire sullo Statuto conformali modifiche.

La storia di questi tentativi è lunga e arti-colata, ma qui torna utile riassumerla in sin-tesi. Inizia significativamente molto presto,poche settimane dopo che i fascisti sonoarrivati al potere. Nel gennaio del 1923 (perquanto delle avvisaglie si avvertano già adicembre) Michele Bianchi, quadrumvirodella marcia su Roma e in quel momentosegretario generale del Ministero degliInterni auto-attribuitosi da Mussolini,avanza una proposta di riforma costituziona-le che attacca il ‘parlamentarismo’ muoven-dosi in direzione di una sorta di cancelliera-to ‘alla Bismarck’ con il governo dipenden-te dal voto di fiducia solo al momento del-l’entrata in funzione, riduce parzialmente ipoteri del re (costretto a nominare capo delgoverno il leader vincitore delle elezioniparlamentari). La proposta non arriva mai atrasformarsi in progetto di legge e presumi-

Colombo

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bilmente costituisce una specie di sondag-gio delle reazioni dell’opinione pubblica edelle forze politiche (Corona compresa) adeventuali modifiche sostanziali. Al proposi-to si potrebbero svolgere molte importanticonsiderazioni (cfr. Quaglia, 2001, pp. 107-128)11: ci basti ora notare che al centro delterreno che la riforma vorrebbe toccare c’èsicuramente il rapporto tra legislativo e ese-cutivo, ma ancor di più, forse, vi è il ruolodella Corona in rapporto alle disposizionistatutarie; che l’ipotesi di un ‘governo del re’agente per quattro anni senza l’assillo del-l’approvazione parlamentare riporta il fuocodell’attenzione (seppur in una prospettivaopposta) sulle medesime questioni chemotivavano tre anni prima Giolitti a venti-lare la revisione dell’art. 5; che sottrarre alleCamere il sindacato sul Gabinetto (quan-d’anche il leader di quest’ultimo risulti indi-rettamente designato dalle consultazionielettorali) può altresì equivalere a ricono-scere ampi poteri al monarca; che quest’ul-tima linea interpretativa mette bene in lucel’esistenza all’interno del pensiero costitu-zionale degli anni ‘20 di una corrente «neo-sonniniana» favorevole al «ritorno allo Sta-tuto» monarchico-costituzionale puro; chela proposta del Segretario generale degliInterni fascista suscita un vivace e articola-to dibattito su alcuni tra i principali giorna-li e riviste dell’epoca anche se in definitivalimitato al gennaio del 1923.

È un dibattito breve, ma non effimero,perché il cosiddetto «progetto Bianchi»rappresenta in ogni caso la base iniziale dilavoro per il «Gruppo speciale di compe-tenza per la riforma costituzionale»; si trat-ta di una commissione interna al Partito,prima operativa di fatto e poi ratificata for-malmente dal Gran Consiglio del Fascismoil 1° maggio 1923, e la cui composizione è

affidata a Massimo Rocca, segretario nazio-nale dei gruppi fascisti di competenza, chene era stato anche il promotore (PartitoNazionale Fascista, 1933, pp. 60-61). Siricordi che il Gran Consiglio è in quelmomento ancora un organo partitico e dun-que tali attività non hanno alcuna veste diufficialità istituzionale. Ma di ufficiale c’è,proprio in quei giorni, l’iter di riforma dellalegge elettorale portato a compimento tra lafine di luglio e la metà di novembre daCamera e Senato. Passa la cosiddetta LeggeAcerbo, con la quale si assegnano due terzidei seggi al partito che ottiene con la pro-pria lista la maggioranza dei voti, conser-vando il principio della rappresentanza pro-porzionale per le minoranze. Non mancachi, in quelle tornate parlamentari, sostie-ne si sia in presenza di una vera e propria«riforma costituzionale»12: e non a caso,sullo stesso fronte fascista, non sono pochiad auspicare l’aggancio della revisione delmeccanismo elettorale ad un più ampiodisegno di riforma costituzionale13.

In realtà, le cose procedono relativamen-te per gradi: almeno per qualche tempo. Poisembrano anch’esse accelerare, prese nelgorgo politico della crisi Matteotti. L’assas-sinio del deputato socialista, avvenuto il 10giugno 1924 ma definitivamente accertatosolo alla metà di agosto, coincide con unacrisi di legittimità di fronte alla quale ilDuce, temendo anche un intervento di Vit-torio Emanuele III, avrebbe cercato di cor-rere ai ripari14. Tra le misure messe in can-tiere c’è l’istituzione di una commissione di15 membri (equamente divisi tra senatori,deputati e studiosi, con personaggi di indub-bio rilievo: da Gioacchino Volpe a SantiRomano, da Arturo Rocco a Pier SilverioLeicht) presieduta da Giovanni Gentile eincaricata di valutare le possibili riforme in

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materia di rapporti tra legislativo e esecuti-vo, partiti, sindacati, stampa… In sostanza,una riforma costituzionale (Aquarone, 1965,p. 53). Si badi però che ci troviamo sempredi fronte a un organismo strettamente‘fascista’, privo di ogni caratura istituziona-le ufficiale. Non a caso, in ossequio a unostile che evoca quello bonapartista di bru-maio, Mussolini fa riunire la Commissione,per così dire, chez soi, vale a dire a PalazzoVenezia, e le impartisce precise istruzioni.In avvio della seduta inaugurale dei lavori, il28 ottobre, Gentile legge una missiva invia-ta dal Duce per ricordare che non si tratta di«sovvertire la Costituzione» ma «di com-pletarla e rinnovarla, di togliere le particadute o caduche, di sostituirle con elemen-ti nuovi» (Mussolini, 1951, p. 454).

Accortezza e moderazione: questo sichiede ai 15. E in tali posizioni si possonoleggere diversi segnali interessanti. Siamoin un momento di fortissima tensione,innanzitutto, e Mussolini pare averlo bencompreso: inutile forzare ulteriormente lasituazione. E se assumiamo in partenza lostretto legame di reciproca legittimazioneintercorrente fra Statuto albertino e Coronasabauda, risulta immediatamente evidenteche ogni cautela rivolta alla Carta costituzio-nale si traduce in un innalzamento del livel-lo di attenzione verso la Casa Reale. Eppurenon si rinuncia alla creazione della Com-missione di riforma. Pare emergere unasorta di gioco di pesi e contrappesi: o unatattica di ‘mordi e fuggi’. O forse, per dirlacon un’immagine che Mussolini avrebbegradito, un alternarsi di bastone e carota?Difficile rispondere: ma probabilmente nonbasta fermarsi a questo genere di alternati-ve. L’ambiguità e l’ostentata polivalenzadelle posizioni fasciste giocano infatti quasisicuramente ancora una volta un ruolo

importante, e nascondono una sorta di‘schizofrenia’ politica che qui viene bene inluce.

Quel che accade è che già il 31 gennaio1925 si assiste a un mutamento rilevante: laCommissione dei 15 è sostituita da un’altraCommissione allargata a 18 membri, i cosid-detti ‘Soloni’, col compito di studiare «iproblemi oggi presenti alla coscienza nazio-nale e attinenti ai rapporti fondamentali tralo Stato e tutte le forze che esso deve conte-nere e garantire». Nella sostanza pare cam-biato assai poco: 14 commissari su 15 sonoriconfermati, ma questa volta la nascita del-l’organo avviene con Decreto del Presiden-te del Consiglio dei Ministri15. Si vuole sicu-ramente attribuire maggior autorevolezza aun soggetto che anche solo nelle prime set-timane di pur appartata attività è stato ber-saglio di critiche. Ma – ciò che è più impor-tante – con questa scelta il Regime mette incampo il suo primo organo ufficiale di rifor-ma costituzionale.

L’orientamento della Commissione,però, non si è modificato, né si trovano trac-ce di un’inversione di rotta dettata dall’alto.Così, il 5 luglio, Giovanni Gentile introducee il consigliere di Stato Domenico Baronepresenta una relazione della sottocommis-sione sui rapporti tra potere esecutivo e legi-slativo16. I Soloni hanno rispettato le indi-cazioni ricevute dieci mesi prima: già Gen-tile premette che non si è pensato «un solomomento che fosse opportuno sovvertire loStato italiano sorto dalla rivoluzione delRisorgimento» (Acquarone, 1965, p. 57). Enon può sfuggire che il richiamo al Risorgi-mento è un richiamo alla centralità dellamonarchia e dello Statuto. Non per nulla,l’esecutivo andrebbe rafforzato col render-lo «dipendente dalla Corona, ma indipen-dente dalla Camera» e facendone in ultima

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analisi un «organo del potere della Corona,ma non del Parlamento». Si auspica così ilritorno «al principio per cui non solo nellaforma, ma anche nella sostanza, la scelta delgabinetto e di conseguenza la nomina e larevoca dei ministri» sono di competenzaregia, tenuto conto «delle manifestazionidel Parlamento, vale a dire di ambedue lecamere»: ma il governo «non deve in nes-sun modo essere considerato emanazionedel Parlamento», così che lo si deve «pre-sumere legittimamente investito del poterefinché non è privato della fiducia del Re».Sonnino avrebbe gioito.

La volontà di «rinsaldare il potere dellaCorona» pare addirittura prevalere su quel-la di rafforzare il governo e viene esplicita-mente dichiarata là dove la Commissione siesprime in favore del mantenimento delprincipio della nomina regia dei Senatori.Negli appunti manoscritti di critica alla rela-zione di Barone, Mussolini si mostra per-plesso in proposito, e ancor più contrariatonell’accorgersi che i ‘suoi’ consiglieri sonopersino andati oltre, in direzione filo-monarchica. Con un certo coraggio propon-gono difatti l’istituzione di un Consiglio pri-vato della Corona (chiosato a margine da un«NO» deciso del Duce) che, evidentemen-te, prefigura una sfera di attività riservata alSovrano al di fuori del rapporto con il Gabi-netto17.

In conclusione, Mussolini ha messo inpiedi un organo di riforma che, sul piano piùstrettamente costituzionale, non ha inten-zione di riformare quasi nulla18. Indicative,in tal senso, sono le ultime parole del rela-tore Barone:

In concreto, la riforma può sembrare che si ridu-

ca ad una serie di modesti ritocchi e di specifiche

proposte [...] È una riforma questa che [...] non

mira ad innovare radicalmente i nostri istituti ed

a dare al nostro Stato una nuova costituzione. Al

presente, di simili innovazioni in Italia non appa-

re né la possibilità né il bisogno. È riforma nello

spirito degli istituti soprattutto nei limiti. È rifor-

ma che non mira ad annullare il Parlamento od in

ispecie la Camera elettiva, che non vuole sempre

e in tutti i casi escludere la possibilità di certe sue

ingerenze nell’esercizio del potere esecutivo, che

non vuole consacrare un assoluto potere della

corona, ma che mira a ristabilire l’equilibrio fra i

supremi poteri dello Stato, e, in questo senso,

rovesciare l’indirizzo che finora si era seguito,

rendendo, come lo spirito e la logica della costi-

tuzione reclamano, eccezione quanto era purtrop-

po divenuto regola, e viceversa. Non hanno sen-

tito per ciò i proponenti della riforma la preoccu-

pazione da cui gli adoratori della consuetudine

parlamentare dimostrano di essere presi, che cioè

nell’accrescimento del potere della Corona si

annidi un pericolo grave, importando esso che

fatalmente rimanga scoperta la personale respon-

sabilità del Re.

E se la commissione interviene è per

ritoccare il sistema in favore delle preroga-

tive monarchiche. Ma in fondo questo è ciò

che il Duce, tanto esplicitamente quanto

implicitamente, ha chiesto di fare. Ora però,

con andamento appunto schizofrenico, non

ne è per nulla soddisfatto. È vero che i gior-

ni della crisi Matteotti sono ormai lontani,

ma sono con più probabilità le discrasie

congenite alla ‘monarchia fascista’ a farsi

sentire. E infatti Mussolini «tira dritto» e

imbocca la strada delle riforme di fatto, non

negandosi una delle sue tipiche retoriche

‘fughe in avanti’. Si stanno preparando le

leggi fascistissime: Capo del Governo, pote-

re di decretazione, provvedimenti per la

difesa dello Stato. E quando nel maggio del

1928 si sta discutendo la legge sul sistema

elettorale che introdurrà una consultazione

popolare di stampo plebiscitario fondata sul

‘Listone’ presentato dalle Confederazioni

sindacali e dalle associazioni nazionali, il

Ricerche

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dibattito, soprattutto in Senato, è abbastan-za vivace. Si potrà pure modificare in alcunipunti lo Statuto – argomentano soprattuttoRuffini e Albertini -, ma non snaturarlo colviolarne fondamentali principi costitutiviquali l’art. 2 («lo Stato è retto da un Gover-no monarchico rappresentativo»): sono«gravemente minati alcuni dei più delicatipoteri della Corona». Deve intervenireappunto Mussolini a tranciare la questione.Cita con minuzie i verbali del Consiglio diConferenza, si richiama addirittura a Cavourche aveva considerato lo Statuto un punto dipartenza ma non di arrivo e lascia intende-re che, in fondo, la questione della revisio-ne della Carta costituzionale è irrilevante,poiché è fatica superflua «fare la guardia alSanto Sepolcro. Il Santo Sepolcro è vuoto.Lo Statuto non c’è più, non perché sia statorinnegato, ma perché l’Italia di oggi è pro-fondamente diversa dall’Italia del 1848»19.Il Duce ribatte così efficacemente sul pianoretorico agli oppositori, svuotandone leargomentazioni, ma in effetti elude il con-creto problema politico dei rapporti fragoverno e monarchia, la quale fondava lalegittimità dei propri poteri nello Statuto(D’Addio, 1999).

E difatti la questione della modificacostituzionale rimane latente e irrisolta. Né,storiograficamente, la si può liquidare ricor-rendo al logoro ritornello della elasticitàdello Statuto. Non la liquida neppure Mus-solini, d’altra parte, il quale non perde maidi vista il suo ‘avversario’ statutario, forsepresentendo che proprio dal vecchio art. 5gli verrà il colpo fatale del 25 luglio 1943, eripetutamente cerca di affondare qualcheattacco.

La legge di costituzionalizzazione delGran Consiglio del Fascismo del 1928 va lettaanche in tal senso. Non solo si assiste all’in-

serimento di un nuovo organo (fin lì solo

partitico) all’interno dell’organigramma

statale di vertice (ciò che peraltro avviene

ancora senza alterare nella forma il dettato

statutario), ma si stabilisce anche che deve

essere obbligatoriamente sentito «su tutte le

questioni aventi carattere costituzionale»

(successione al trono, attribuzioni e prero-

gative della Corona, del Capo del Governo,

del Senato e della Camera, facoltà del gover-

no di emanare norme giuridiche, ordina-

mento sindacale e corporativo …): una sorta

di ‘custode della costituzione’, per quanto

concepito in ossequio alle disinvolte moda-

lità fasciste. E la storia costituzionale inse-

gna – dalle teorie di Sieyes alle pratiche

bonapartiste – che un organo reso compe-

tente nel campo della ‘costituzionalità’ fini-

sce prima o poi per trovarsi a operare, in un

senso o in un altro, sul terreno delle rifor-

me della legge fondamentale. Con il Gran

Consiglio non andrà diversamente.

Che qualcosa si stava muovendo proprio

su quel terreno si sarebbe potuto capire da

altri, più velati, segnali: giust’appunto nel

‘28 un allievo di Arrigo Solmi pubblica un

lavoro su La divisione dei poteri e la riforma

Colombo

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Il Proclama di Vittorio Emanuele del 25 luglio 1943

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costituzionale, nel quale si porta in superfi-cie il problema addirittura «della formazio-ne della nuova costituzione, poiché dellavecchia rimaneva poco più di un mucchio digloriose macerie» (Maranini, 1928, p. 67).L’allievo dell’importante storico del dirittoè giovane e nelle sue pagine cede quasi ine-vitabilmente da un lato alla piaggeria fasci-sta e dall’altro alle ingenuità argomentativedi chi è alle prime armi: ma ha della stoffa,e farà strada. Si chiama Giuseppe Maranini(cfr. Palano, 2001, pp. 131-157). Non puòperò apparire casuale che ora, agli inizi dellacarriera, scelga un tema come quello dellariforma costituzionale per il proprioapprendistato scientifico: vuol dire che il suomaestro, quattro anni dopo la pubblicazio-ne della propria monografia in argomento,è sempre e costantemente sintonizzato sultema.

E infatti ritroviamo Solmi, nel biennio1936-1938, al centro dell’ultimo sforzofascista di intervento strutturato sulla Cartacostituzionale. E ritroviamo pure il GranConsiglio del Fascismo, che il 18 novembre1936 istituisce al proprio interno una com-missione «con l’incarico di formulare pro-poste relative alla composizione e al funzio-namento della nuova Camera dei fasci e dellecorporazioni» (Partito Nazionale Fascista,1938, vol. VI, tomo I, p. 45). La commissio-ne prende nome appunto da Solmi, suo rela-tore, e inizia i propri lavori il 1° dicembre,per terminarli il 14 luglio 1938 col porre lebasi per l’istituzione della Camera fascista.La compongono Giuseppe Bottai, CostanzoCiano, Ferruccio Lantini, Arrigo Solmi eAchille Starace. A parte sottolineare che,ovviamente, già il rinnovamento di un ramodel Parlamento costituiva di per sé un’alte-razione della struttura costituzionale, appa-re necessario precisare subito due punti.

In primo luogo, all’interno della stessa

Commissione si registra «la contrapposi-

zione fra due opposte tendenze: l’una

espressa da coloro che puntavano a una

riforma del sistema da realizzarsi senza stra-

volgimenti e attraverso la rivalutazione del

ruolo e delle funzioni della Camera pur nel

contesto dell’ordinamento corporativo; l’al-

tra, espressa da quanti, al contrario, deside-

ravano un ben più radicale e profondo muta-

mento» (Perfetti, 1991, pp. 239-371). Dun-

que, ciò di cui i cinque riformatori alla fine

discutono non è ‘soltanto’ l’espulsione dei

deputati (e con essi del principio rappre-

sentativo-elettivo) dal corpo dello Stato

fascista, ma un ‘ritocco’ assai più esteso alla

Carta albertina.

In secondo luogo, va ricordato che il 14

marzo 1938 il Gran Consiglio delibera sulla

necessità di «procedere al completamento

della riforma costituzionale con l’aggiorna-

mento dello Statuto del Regno» (Partito

Nazionale Fascista, 1938, vol. VII, tomo I, p.

85). Ma i lavori della Commissione sono a

quel punto molto avanzati – in sole tre sedu-

te (27 aprile, 27 maggio e 14 luglio) saranno

terminati - e dunque non è senza scopo

interrogarsi su quale fosse il senso profon-

do di questa delibera: soprattutto perché è

stata votata da quattro membri su cinque

della Commissione Solmi che (con la sola

eccezione di Storace) erano presenti anche

alla adunanza del Gran Consiglio del 14

marzo e si possono supporre perfettamente

consapevoli che il senso di quell’azione non

doveva essere diretto a rimettere in discus-

sione i lavori della Commissione in sé e per

sé. Non è un caso, infatti, che proprio Solmi,

nella prima seduta della Commissione, il 27

aprile, richiami nei seguenti termini quella

delibera:

Ricerche

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Quanto all’aggiornamento dello Statuto anch’es-

so deliberato dal Gran Consiglio, si tratta di com-

pito molto complesso e che sarà assolto dalla

nuova camera nella XXX Legislatura. Mancano ora

non pochi elementi per addivenire ad un aggior-

namento dello Statuto.

[Perfetti, 1991, pp. 321-322]

Ciò che si può intravedere, in definitiva,

è l’intenzione di andare in seguito oltre il

contributo della riforma proposta da Solmi,

«completandola» appunto con «l’aggior-

namento dello Statuto»: una revisione

costituzionale in piena regola, che – si può

pensare - tocchi il testo della Carta. Una

revisione, cioè, da svolgersi con modalità

diverse rispetto a quelle seguite nelle varie

tappe fin lì raggiunte nel cammino riformi-

sta del Regime, che era in definitiva sempre

passato attraverso la procedura legislativa

ordinaria e la semplice formula «Tutte le

disposizioni contrarie alla presente legge o

con questa incompatibili sono abrogate».

Non è fortuito se, con la votazione del

Gran Consiglio del 14 marzo, fa la propria

comparsa una serie di studi e riflessioni sulla

possibile riforma costituzionale aventi

peraltro come propulsore sempre Carlo

Costamagna e presi comunque in conside-

razione dalla Commissione Solmi. Non è il

caso di dilungarsi eccessivamente su un pro-

getto che non avrà poi sbocco concreto e che

significativamente oscilla tra considerare lo

Statuto Albertino (di cui però, altrove, si

specifica «per quanto rimane in vigore»)

«patto e cemento della formazione statale

unitaria e plebiscitaria» e prevedere l’op-

portunità «di un tipo di Legge costituziona-

le» da approvarsi «con procedura solenne

bicamerale per ciò che si attiene all’assetto

degli organi centrali dello Stato ed ai pro-

blemi vitali per l’assistenza della Nazione».

Basti tener presente come vi si parta dal pre-

supposto che le «leggi emanate in questianni dal Regime hanno mutato profonda-mente i presupposti costituzionali» e cheoccorra quindi dichiarare «i principi fonda-mentali del nuovo diritto pubblico». Taliprincìpi fondamentali si sostanzierebberoin una struttura istituzionale che conservaal proprio vertice la Corona ma prevede, adiscendere, il Capo del Governo («che dellaCorona è l’organo attivo e responsabile»), ilGran Consiglio del Fascismo, i Fasci di Com-battimento e le Associazioni professionaliinquadrate nell’ordinamento corporativodello Stato. A tutti questi organi si ricono-scerebbe la «potestà di emanare norme giu-ridiche». L’alterazione dello Statuto apparein tale prospettiva del tutto evidente. Unaccento non fortuito sulla questione dellamodifica della Carta è altresì posto là ove siafferma che «l’iniziativa in materia di leggicostituzionali spetta esclusivamente al Capodel Governo»20.

In sostanza, alla fine degli anni ‘30, lafascistizzazione dello Stato viene percepitaancora da completare e quanto detto fin quimostra abbastanza chiaramente come nonsi possa ritenere che la sostituzione dellaCamera dei deputati con quella dei Fasci edelle Corporazioni potesse essere suffi-ciente ad esaurire le pulsioni riformiste diMussolini e dei suoi seguaci più radicali. Lostesso Dino Grandi, in quel momentoministro di Grazia e Giustizia, in un discor-so tenuto il 31 gennaio 1940 in occasionedella presentazione al Duce della commis-sione parlamentare e del comitato legisla-tivo per la riforma dei codici preannunciache «saranno portati all’attenzione eall’approvazione del supremo Organo delRegime, cioè del Gran Consiglio, i Principî

generali dell’ordinamento giuridico fascista»(Grandi, 1940, pp. 8-16, in particolare pp.

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10-11), ventilando così, quantomeno, unintervento sulle materie costituzionali dicompetenza del Consiglio.

Ma il tempo corre. Il fascismo non ne hapiù molto, a disposizione. Così - propriomentre Luigi Rossi si impegna a teorizzare,in un saggio destinato a diventare famoso,la «elasticità» dello Statuto (Rossi, 1940,pp. 27-43)21 - stanno già soffiando potentiventi di guerra che porteranno via con séanche le energie da dedicare a una eventua-le revisione costituzionale. Qualcuno provaancora a insistere sul punto, anche dopo ladichiarazione di guerra (Lucifredi, 1940)22,ma non è improbabile che ci sarebbe volutauna vittoria nel conflitto per riaprire, inmaniera presumibilmente drammatica perla monarchia, la questione. E la vittoria,come si sa, non arrivò.

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1 Nei programmi socialisti «di

rinnovamento dello Stato» la

politica estera doveva essere

«sottratta all’arbitrio del potere

esecutivo e affidata alle delibe-

razioni del Parlamento»: cfr. il

resoconto della riunione fra la

Confederazione Generale del

lavoro e la Direzione del P.S.I.

tenutasi il 16 maggio 1917, in

Marchetti, 1962, pp. 232-233, p.

233.2 E cioè «senza che né il Parla-

mento né il Paese ne siano o ne

possano essere in alcun modo

informati».3 Per i dibattito in questione si

veda Camera dei deputati – Atti

parlamentari – Discussioni, Legi-

slatura XXV, tornata del 24 giu-

gno 1920, pp. 2219-2394, per la

citazione p. 2221.4 Sui progetti di riforma della

Camera Alta si vedano anche

Antonetti, 1992, pp. 230-237 e,

più recentemente, Mazzanti

Pepe, 2004, pp. 79-91.5 Se si può dire che la Carta fiu-

mana riconosceva allo Stato un

potere «quasi nullo», è anche

vero che il fascismo ne vanifi-

cherà i contenuti sindacalistici

di «palingenesi della società

contro il potere politico» (Gen-

tile, 1996, p. 449). All’interno di

una bibliografia ormai piuttosto

ampia, si veda Ghisalberti,1999,

pp. 215-239; recentemente

anche Cingari, 2005, pp. 147-

162 e De Servi, 2007, pp. 1-17.6 Per una ricostruzione dei dibat-

titi presso la Camera Alta si veda

Brancato, 1980, pp. 139-144. Un

analogo tentativo nello stesso

senso era stato compiuto già nel

1911, ma senza risultato.7 Per la proposta di regolamento,

ampiamente introdotta in qua-

lità di relatore da Santi Romano,

si veda Senato del regno – Atti Par-

lamentari – Documenti – Disegni

di legge e relazioni, Legislatura

XXIX, Sessione I, n. CXV, pp. 1-

11; per la discussione della pro-

posta, cfr. Senato del regno – Atti

Parlamentari – Discussioni, Legi-

slatura XXIX, Sessione I, seduta

del 21 dicembre 1938, pp. 4602-

4621, specialmente p. 4603.8 In particolare il riferimento è

all’articolo 12 del documento

numero 4 (Organizzazione inter-

na e funzionamento della Camera

dei Fasci e delle Corporazioni). Su

tutti questi punti, recentemente,

cfr. C. Bon, 2007, n. 14, pp. 211-

232.9 Più che plausibile, ma non

immediatamente rilevante ai

fini di un’analisi dei processi

istituzionali proprio perché

viene in luce qui il ‘normale’ uso

ministeriale delle prerogative

del re, è ritenere che «in realtà

non sfuggiva a nessuno che la

designazione di Suardo era stata

fatta su iniziativa di Mussolini»:

Musiedlak, 2003, p. 514.10 Si vedano gli artt. 12 e 13 della già

richiamata legge 19 gennaio

1939; l’art. 14 disponeva espli-

citamente che tali due articoli

valevano anche per il Senato.11 Tale rinvio vale anche per una

buona ricostruzione del dibatti-

to successivo al progetto.12 Così Giovanni Amendola: cfr.

Camera dei Deputati – Atti Parla-

mentari – Discussioni, Legislatu-

ra XXVI, Sessione I, tornata del

21 luglio 1923, pp. 10541-1054513 Altri, come Arrigo Solmi (è

opportuno averlo presente, in

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Palano, Damiano, Il giovane Maranini. Appunti per una storia

della scienza politica italiana tra le due guerre, in «Teoria

politica», XVII (2001), n. 3, pp. 131-157;

Partito Nazionale Fascista, Atti del Partito Nazionale Fascista,

Bologna, Il Resto del Carlino, anno XVI E.F. (1938), voll.

VI-VII;

Partito Nazionale Fascista, Il Gran Consiglio nei primi dieci anni

dell’era fascista, Roma, Nuova Europa, 1933;

Perfetti, Francesco, La Camera dei Fasci e delle Corporazioni,

Roma, Bonacci, 1991;

Presidenza del Consiglio dei Ministri, Relazioni e proposte della

commissione presidenziale per lo studio delle riforme costi-

tuzionali, Roma, Provveditorato Generale dello Stato,

1925;

Quaglia, Federico, Alle origini delle riforme costituzionali fasci-

ste: il progetto Bianchi, in «Giornale di storia Costituzio-

nale», I (2001), n. 2, pp. 107-128;

Rossi, Luigi, La «elasticità» dello Statuto italiano, in AAVV,

Scritti giuridici in onore di Santi Romano, Padova, Cedam,

1940, vol. I, pp. 27-43;

Tosatti, Giovanna, Le fonti dell’Archivio centrale dello Stato per

la storia del fascismo, in Aldo Mazzacane (Hrsg.), Diritto

e economia e istituzioni nell’Italia fascista, Baden-Baden,

Nomos Verlagsgesellschaft, 2002, pp. 281-304.

Page 168: SGiornale di oria costituzionale · 167 Guerra civile e diritto: una costituzione per la Repubblica di Mussolini Luciano Martone 197 Colpo di stato a San Marino. Il processo del 1958

Ricerche

166

relazione agli eventi successivi),

difendono la Carta statutaria con

accento particolare sui diritti

della Corona (La riforma costitu-

zionale, Milano, Alphes, 1924).

Per un quadro generale delle

diverse posizioni qui accennate,

cfr. Perfetti,1991, pp. 13-30.14 Almeno secondo quanto ripor-

tato dal giornalista e biografo di

regime Yvon De Begnac, 1950, p.

238.15 Il decreto è registrato presso la

Corte dei Conti il 4 marzo 1925:

per il testo cfr. Presidenza del

Consiglio dei Ministri, Relazioni

e proposte della commissione presi-

denziale per lo studio delle riforme

costituzionali, Roma, Provvedi-

torato Generale dello Stato,

1925, pp. 1-2. In proposito cfr.

anche Gentile, 2000, p. 159.16 La Relazione, con gli appunti

critici di Mussolini di cui si dirà

poco più avanti, è rinvenibile in

Acs, Segreteria particolare del

Duce, Carteggio riservato, fasc.

242/R: Gran Consiglio, sottofa-

scicolo 3, inserto C (Conclusione

sulla relazione Barone). Per un

commento sul testo della rela-

zione cfr. Perfetti, cit., pp. 52-

56 e A.17 Non si tratta certo di una idea

nuova: un ricco dibattito si è svi-

luppato già in età liberale intor-

no all’ipotesi di un organo meno

‘esposto’ di quelli costituzionali

destinato a coadiuvare il monar-

ca. Vi hanno preso parte in varie

forme e occasioni figure di spic-

co del panorama intellettuale

italiano: Ruggero Bonghi, Gae-

tano Mosca, Domenico Zani-

chelli, Ludovico Mortara, Igna-

zio Brunelli, Isacco Artom. Non

pare un caso che tale dibattito

venga in parte ricostruito in

piena epoca fascista da Delle

Piane,1940, pp. 410-426; abba-

stanza recentemente, in argo-

mento, cfr. Mozzarelli, 1996, pp.

41-57.18 Piuttosto differenti, ma qui non

immediatamente rilevanti, sono

le conclusioni della Commissio-

ne dei 18 in materia sindacale e

corporativa: si veda Arias, Oli-

vetti,1932, pp. 97-175.19 Per i dibattiti in questione cfr.

Senato del regno – Atti Parlamen-

tari – Discussioni, Legislatura

XXVII, Sessione 1a, seduta del 12

maggio 1928, pp. 10229-10259;

per le parole di Albertini e Mus-

solini, pp. 10246 e 10253.20 Per tutto il materiale documen-

tario cui si fa riferimento, si veda

Perfetti, cit., pp. 324-359, e per

le citazioni, rispettivamente, pp.

337, 329, 347, 348 e 353.21 Una categoria, quella di ‘elastici-

tà, che dovrebbe superare il dua-

lismo flessibilità/rigidità, senza

escludere l’eventualità di una

revisione costituzionale: «Può

darsi, ad esempio, che si ritenga

opportuno procedere ad un for-

male «aggiornamento» dello

Statuto, come affermazione di

un regime mutato. Ma, anche in

questo caso, nulla vieterebbe, e

anzi tutto consiglierebbe, che

tale modificazione si uniformi al

criterio fondamentale di mante-

nere l’elasticità dello Statuto»

(p. 43).25 Lucifredi afferma la necessità

della «emanazione della nuova

carta costituzionale dello Stato»

e riassume il dibattito dottrina-

rio ancora non sopito sull’argo-

mento: in particolare merita di

essere rammentata l’ipotesi di

una traduzione in termini costi-

tuzionali della Carta del Lavoro.

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1. Guerra civile e storia giuridica

La contrapposizione ideologica, che ha

caratterizzato gli studi sulla vicenda della

Repubblica Sociale Italiana, ha scoraggiato

sinora l’indagine storica degli aspetti giuri-

dici dell’attività del governo fascista. Eppu-

re in Italia nel periodo tra il 18 settembre

1943 – giorno in cui Mussolini annunciò da

radio Monaco la creazione di un nuovo Stato

fascista repubblicano – ed il 25 aprile 1945,

operarono due governi, ciascuno a sovrani-

tà limitata, rispettivamente per l’occupazio-

ne militare tedesca e per quella alleata,

entrambi su porzioni del territorio nazio-

nale limitate e differenti: più ampia inizial-

mente quella della Repubblica di Mussoli-

ni, dal Centro al Nord, molto più ristretta,

sempre nel periodo iniziale, quella del

Regno Sabaudo al Sud.

In altri termini per seicento giorni due

realtà politiche e governative italiane svol-

sero, nella tragica situazione di guerra civi-

le, un’attività legislativa, operarono nel

campo amministrativo, misero in cantiere

anche progetti di vasto respiro tendenti a

legittimarsi e non solo in nome di una mera

legalità burocratica1.

Ciononostante allo stato, dal punto di

vista storico-giuridico, appare indagato solo

l’aspetto produttivo dell’antifascismo e della

Resistenza, mentre per l’attività del gover-

no della R.S.I., immediatamente conside-

rato illegittimo, la rimozione è stata quasi

generalizzata2. Ha senz’altro nociuto, ad una

ricerca non ideologicamente orientata e

scientificamente autonoma, la tesi politica

della irrilevanza dell’attività svolta dalla

R.S.I. nel quadro dell’ordinamento dello

Stato postbellico italiano. Per la R.S.I. si è

negata anche la qualifica di governo di

fatto3.

In effetti, da un punto di vista stretta-

mente giuridico, sin dal 1951, Massimo

Severo Giannini segnalò in punto di fatto

una realtà diversa, sostenendo la necessità

di evitare «nella politica un atteggiamento

di assoluta intransigenza e consigliò di rego-

lare la complessa materia, almeno in alcuni

ambiti lasciando in vita i provvedimenti e

167

Guerra civile e diritto:una costituzione per la Repubblica di Mussolini

luciano martone

giornale di storia costituzionale n. 16 / ii semestre 2008

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norme adottate dalla R.S.I. anche se singo-larmente e con specifica manifestazione divolontà dell’esecutivo»4.

In quest’ottica Melis (1996, p. 395) haposto in rilievo la verificata tendenza a porrel’attività amministrativa – gestionale dellaR.S.I. – non sottoposta al controllo dei tede-schi – in una linea di continuità di apparatie procedure con la realtà del Ventennio pre-cedente. In effetti, una nuova attenzione pergli aspetti storici ma anche giuridici dellavicenda repubblichina è maturata alla finedegli anni ‘70 in ambito giornalistico con ilavori di Bertoli e Bocca (Bertoli 1976; Bocca1977). Successivamente, ma solo nell’ultimodecennio, alcuni storici si sono interessatial problema, annunciando una nuova stagio-ne di studi non condizionata da nostalgichecelebrazioni o da sostanziale rigetto per lasedicente Repubblica di Mussolini.

Oggi il corpus documentario disponibile– in particolare quello dell’Archivio Cen-trale dello Stato e degli Istituti della Resi-stenza, nonché la recente edizione criticadei verbali del Consiglio dei Ministri dellaRepubblica Sociale Italiana5 – favorisce unaricostruzione della memoria storica nonsoltanto legata agli aspetti militari dellaguerra civile. Hanno ormai cittadinanzaanche indagini su altri aspetti e riflessionistoriografiche, che pur appartenendo allacategoria della guerra civile, sottopongono averifica una realtà fatta di apparati, di strut-ture amministrative, ed anche di iniziativee progetti politico istituzionali impensabilinegli anni del Ventennio.

L’argomento che qui interessa esamina-re senza interferenze ideologiche, non è l’at-tività di governo né quella amministrativa,ma due sorprendenti iniziative costituenti,di cui la prima del dicembre ’43, finoralasciata del tutto in ombra e la seconda appe-

na accennata negli studi sulla Repubblica diMussolini, legata all’opera di Carlo AlbertoBiggini6, giovane professore di diritto costi-tuzionale che fu ministro dell’educazionenazionale per pochi mesi prima del 25 luglio1943 e ricoprì la stessa carica durante laRepubblica Sociale Italiana7.

In concreto, al fianco dell’attività di nor-malizzazione istituzionale vi fu nei primimesi di vita della Repubblica di Mussolinianche una pulsione rivoluzionaria antimo-narchica e sociale, estranea agli anni delRegime, che rivendicò nuove ed impegnati-ve scelte costituenti per il nuovo Stato8.Questa tendenza rivoluzionaria che si ricol-legava ai programmi del primo fascismo,quello dei fasci di combattimento soprat-tutto per il richiamo, tra l’altro, «alla par-

tecipazione dei rappresentanti dei lavoratori al

funzionamento tecnico dell’industria, all’ob-

bligo per i proprietari di coltivare le terre, con la

sanzione che se non coltivate sieno date a coo-

perative di contadini, con speciale riguardo a

quelli reduci dalla trincea», nonché «all’abo-

lizione del Senato dell’istituzione di un Consi-

glio Nazionale Tecnico del lavoro intellettuale e

manuale, dell’industria, del commercio e del-

l’agricoltura»9, espresse un entusiasmocostituente libertario molto simile a quellogenerato dall’impresa di Fiume. In questocaso proprio la natura della guerra, produ-cendo condizioni eccezionali stimolò l’ab-bandono delle posizioni sociali ed econo-miche difese durante il Ventennio.

L’ordine costituito non si identificavapiù con il passato: era richiesto soprattuttoda quei fascisti di sinistra che durante ilVentennio si erano tenuti in disparte, final-mente con l’elaborazione di proposte alter-native a quelle conservatrici che avevanocaratterizzato il fascismo trionfante. Unprogramma, definito da De Felice, netta-

Ricerche

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mente di sinistra, che al ritorno di Musso-lini sulla scena politica nella seconda metàdel settembre 1943, divenne d’attualità perbreve momento: le proposte costituzionaliper un nuovo ordine non ebbero, infatti,fortuna. Dopo pochi mesi lo spazio di mano-vra si ridusse entro stretti confini. Trascor-so il dicembre 1943 «tutta la situazione pre-cipitò lungo la china della guerra civile» (DeFelice 1997, vol. II, p. 359).

Non a caso la convocazione di un Assem-blea Costituente fu di fatto abbandonata, eciò determinò la definitiva sconfitta del-l’anima democratica nonché moderata delfascismo repubblicano rispetto a quellaestremista.

2. Alla ricerca delle motivazioni costituenti

In realtà Mussolini, ritornato in Italia dopoil soggiorno tedesco, avvertì subito l’urgen-za di dare assetto legale alla Repubblicaattraverso una costituzione a cui fosse affi-dato soprattutto il compito di offrire unitàpolitica al nuovo Stato, promuovendo il con-senso delle forze sociali. Il processo costi-tuente più che definire competenze, organi,apparati e fissando regole e principi – dove-va disciplinare un processo politico in gradodi determinare partecipazione. Era, questo,lo strumento più efficace per contrastare lesfavorevoli condizioni storiche, soprattuttolo strapotere militare tedesco e l’organiz-zarsi della resistenza. Dunque un tentativodi legittimazione del nuovo Stato su fonda-menta nuove e non soltanto un diversivodemagogico.

La novità dell’iniziativa è stata sinoraoggetto di scarso interesse e tra quei pochistudiosi che si sono soffermati ad esamina-

re i progetti costituenti, il più noto ha guar-

dato con profonda diffidenza all’iniziativa

di Mussolini.

Il giudizio di De Felice su questo impe-

gno costituente è infatti nettamente negati-

vo. Per lo storico del fascismo, a Mussolini

sfuggivano i termini reali della situazione e

tra essi il più grave

fu certamente quello di fare affidamento ancora

sulle masse, di credere di poterle coinvolgere in

qualcosa che potesse essere per esse più impor-

tante della loro immediata sopravvivenza.

[Ibidem, p. 356]

In realtà proprio quell’attenzione spa-

smodica delle masse ai problemi di soprav-

vivenza consentiva un ristrettissimo margi-

ne temporale di iniziativa.

È stato osservato che i primi nuclei di

resistenza si costituirono ad opera di milita-

ri sbandati e di piccoli gruppi di antifascisti,

mentre lentamente si formarono le prime

bande organizzate. Solo nell’inverno inol-

trato del 1944, la resistenza partigiana

cominciò ad essere attiva e complessiva-

mente preparata militarmente. Dalle cifre

fornite da Parri nel maggio 1945 il numero di

arruolati in formazioni regolari nel febbra-

io 1944 non superava per l’Italia Settentrio-

nale i novemila uomini (Parri, 1976, p. 554.

In tema anche Solari 1979, pp. 186 e ss.).

Una cifra modesta se rapportata ai due-

centomila del marzo – aprile 1945 che tutto

sommato rende evidente come almeno nei

primi tre mesi di vita della Repubblica

l’ostilità delle masse non fosse direttamen-

te collegata alla lotta di liberazione, ma

dovuta alle difficilissime condizioni di vita

quotidiane.

Il problema della sopravvivenza era cen-

trale. Su questo Mussolini intendeva inter-

venire e determinare almeno una immedia-

Martone

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ta speranza di miglioramento delle condi-zioni di vita anche attraverso specifiche ini-ziative politiche del nuovo Stato. La suaCostituzione avrebbe dovuto avere soprat-tutto un contenuto sociale nuovo rispettoall’esperienza ventennale del Regime, bloc-cato nelle sue riforme politiche dalla pre-senza dell’istituzione monarchica e dal dua-lismo delle strutture statali e fasciste. L’in-tenzione non era soltanto quella di dare unaparvenza giuridico-costituzionale al nuovoStato repubblicano – come ha sostenuto DeFelice – «per assicurare alla repubblica lacollaborazione per essa indispensabile –dell’apparato amministrativo statale» (DeFelice 1997, vol. II, p. 359).

In realtà, come hanno dimostrato studipiù recenti (Ganapini 2002, pp. 254 e ss.;Borghi 2001) la burocrazia italiana rimasenaturalmente compromessa con il nuovofascismo e conservò ritmi di lavoro e for-malismi propri, anche nella trattazionedegli affari più drammatici come i massacricivili (F. De Felice 1993, pp. 599-638). Lascelta costituente non aveva come obiettivoprioritario la ricerca di un consenso buro-cratico, che ebbe modo invece di manife-starsi senza traumi.

Uno stile statuale strettamente tecnico eformale caratterizzò l’attività della pubblicaamministrazione della R.S.I. Questa adesio-ne tuttavia, come di recente sottolineato daPaola Carucci, non cambiò molto nellaforma, ma cambiò nella sostanza, in quan-to il potere, sia pure nei limiti consentitidalla presenza tedesca, si concentrò per lefunzioni più importanti negli organismi dipartito (Carucci 2002, p. XI).

Al riguardo i Verbali del Consiglio dei

ministri della Repubblica Sociale Italiana

hanno evidenziato la complessità e la vasti-tà della produzione amministrativa confer-

mando indirettamente un’attività burocra-tica di dimensioni notevoli.

Il fine costituente di Mussolini andavaoltre la ricerca del consenso burocratico chedurante i 600 giorni della Repubblica Socia-le non venne mai meno. In effetti nelle set-timane di Salò, Mussolini tentò di dar vita adun progetto organico di riforma politicosociale, non sperimentato nel Ventennio,che avrebbe dovuto determinare un soste-gno popolare alla nuova istituzione statualein grado di scongiurare o attenuare, odanche solo ritardare l’apertura di un fronteinterno in grado di portare rapidamente aduna spietata guerra civile.

L’esercizio di un potere costituente, delresto, avrebbe di fatto contenuto la forteingerenza militare tedesca. Dunque un fer-vore di idee costituzionali che nonostante lostato di sbandamento della popolazionepoteva tuttavia non avere esiti politicamen-te contrari alla nascente R.S.I.

Ad ogni modo, in questa prospettivaerano necessari atti di particolare impattosociale come la socializzazione delle imprese escelte costituzionali aperte alle ideologie deipartiti antifascisti. Nei primi mesi dellaRepubblica Sociale anche Mussolini, pernon far evolvere lo stato di sbandamento inaperta lotta politica al nuovo governo fasci-sta, sembrò convinto della necessità di scel-te audaci. Di qui i contatti con alcuni espo-nenti del fascismo moderato e dell’antifa-scismo di sinistra «dopo vent’anni di anti-socialismo»10. Ha scritto Giorgio Bocca, alriguardo, che

il movimento riscopre il fascino della parola

socialismo e la vocazione del ritorno alle origini.

[ Bocca 1977, p. 84]

Del resto la borghesia dopo il 25 lugliodel 1943 aveva abbandonato rapidamente il

Ricerche

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fascismo per correre in soccorso del gover-no Badoglio e degli alleati. Di qui gli stretticontatti di questi primi mesi repubblicanisoprattutto con i vecchi compagni, Silvestrie Bombacci.

La borghesia per Mussolini si era allon-tanata dal fascismo ed ora alimentava larivolta, organizzava la resistenza. Nell’ana-lisi politica di quei tragici giorni, l’anticosocialista ritornava verso il popolo non tantoper riacquistare una popolarità ormai per-duta ma per fissare alcune idee-forza conl’obiettivo dell’unità del corpo sociale dellaR.S.I. Invero, egli operava una forzaturadella situazione contingente perché le nuoveidee non erano condivise dalla maggior partedei fascisti che sostenevano il suo governorepubblichino: i gerarchi di Salò si conside-ravano innanzitutto dei combattenti e nondei costituenti. L’ispirazione Sansepolcristacoinvolgeva solo alcuni moderati, la culturaispiratrice della R.S.I. era tutt’altra: traevaalimento dal disonore dell’armistizio, dallavolontà di vendetta nei confronti dei cosid-detti traditori e dalla convinzione che ungoverno italiano in un paese occupato da unesercito straniero non fosse che di merosostegno militare verso l’alleato.

3. Il tempo dei costituenti e le proposte

L’azione costituente ebbe dunque tempiminimi. Il Congresso di Verona del 14novembre 1943, e il contestuale eccidio diFerrara11, nonché le successive condanne amorte nel processo a Ciano e agli altri tra-ditori dell’Idea, svoltosi sempre a Verona,tolsero ogni energia e concretezza al tenta-tivo costituzionale.

Gli eventi accennati e quelli successivi

legati alla rappresaglia sempre più violenta

nei confronti della resistenza partigiana,

portarono al trionfo della «logica spietata

della guerra civile» (De Felice 1997, II, p.

339). Alla fine del dicembre 1943 l’anima

estremista ebbe il sopravvento su quella

moderata in maniera definitiva. Pavolini,

Farinacci, Borghese imposero lo sviluppo

delle operazioni militari delle rappresaglie

anziché la convocazione della Costituente.

Ad ogni modo uno spazio d’azione per il

progetto costituzionale, anche se breve, vi

fu e non poche energie furono spese per la

sua riuscita. La drammatica esperienza della

Martone

171

Mussolini consegna la bandiera di combattimento a una

delle nuove divisioni addestrate in Germania. Sul bian-

co del tricolore, al posto dello scudo sabaudo, un’aquila.

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guerra civile, in questo caso, diede espres-sione ad una diffusa aspirazione rivoluzio-naria diretta alla realizzazione di un assettogiuridico diverso.

Da ottobre a dicembre 1943 Mussolini sioccupò della convocazione di una Costi-tuente in maniera concreta, così come fuvivissima la sua attenzione «per l’atteggia-mento, le idee, i programmi dell’antifasci-smo di sinistra» (Spampanato, Appunto per

il Duce, 1997). A tal fine incontrò Carlo Sil-vestri, Nicola Bombacci, Leandro Arpinati,tuttavia non fece nulla per determinare unconcreto ricambio politico tra i quadri diri-genti del nuovo partito fascista repubblica-no al fine di determinare sostegno e credi-bilità alla sua iniziativa costituzionale.

La sua azione di governo in questa dire-zione durò dunque qualche mese ed in que-sto periodo interpellò varie persone edacquisì più pareri. Il primo dei problemi darisolvere fu senz’altro quello della compo-sizione della Costituente.

Nell’appunto di Spampanato (Ibidem, p.136), la Costituente non doveva ripetereassolutamente i sistemi di investitura o difunzioni rappresentative che aveva inficia-to il vecchio Regime fascista. Pertanto l’as-semblea costituente, attraverso regolari ele-zioni, avrebbe dovuto portare alla ribaltauomini, correnti, forze nuove per stabilire«il vivo e autentico contatto tra il popoloconvocato in prima persona attraverso unagenuina rappresentanza e Mussolini consi-derato da solo come il promotore del secon-do ciclo della Rivoluzione»12.

Diverso l’intendimento di Pavolini cheimmaginava, da corporativista convinto,l’elezione dei membri della Costituente nel-l’ambito di precise categorie: i rappresentan-

ti del popolo che lavora andavano selezionatiattraverso le organizzazioni sindacali, le

rappresentazioni dei combattenti, quelledell’esercito e della magistratura ed altre chepotevano contribuire a rappresentare lanazione13.

Nel breve progetto di costituzione di Vit-torio Rolando Ricci è assente ogni indica-zione circa la formazione dell’assembleacostituente14.

Il primo dei problemi da affrontare fusenz’altro quello della composizione dellaCostituente. La questione trovò soluzionecon deliberazione del Consiglio dei Mini-stri della Repubblica Sociale Italiana. Nelverbale della riunione del 16 dicembre 1943vennero infatti chiamati a far parte dell’As-semblea Costituente come rappresentantidel popolo un migliaio di componenti scel-ti nell’ambito di precise categorie sociali edistituzionali15.

In quella circostanza i ministri ebberomodo di venire a conoscenza di uno schemadi costituzione, che allegato agli atti delConsiglio, non fu poi oggetto di delibera-zione. In effetti questo testo doveva esserenoto anche ad altri fascisti. È presumibileche proprio la conoscenza del suo contenu-to rivoluzionario abbia ispirato l’articolo diGiuseppe Morelli, sottosegretario alla Giu-stizia, pubblicato il 7 dicembre 1943 sul Cor-

riere della Sera con il titolo eloquente: Meno

Costituente e più Combattenti. Ma anche perVittorio Rolando Ricci, che certo non rite-neva l’andare a combattere l’unica missio-ne dei fascisti di Salò, quel testo destava per-plessità e preoccupazioni. Sicché l’accennoalla tranquillizzante presenza tra i ministridi un bravo costituzionalista, in grado diinfluire sulle decisioni che eventualmentesarebbero state prese nella riunione del 16dicembre – inserito nel fluente articolo insostegno della convocazione della Costi-tuente dal titolo In vista della Costituente,

Ricerche

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pubblicato sempre sul Corriere della Sera

appena tre giorni dopo il polemico invito diMarelli (10 dicembre 1943) – è frutto di unadiretta conoscenza del testo che Mussoliniavrebbe portato in discussione.

Ora questi interventi, oltre a chiarire leriserve e lo stato d’animo dei fascisti piùvicini a Mussolini in relazione alla propostacostituente contenuta nella bozza, rendonoevidente che la sua divulgazione risaliva aiprimi di dicembre 1943 e quindi che la suastesura era quantomeno antecedente a que-sto periodo così come l’affidamento dellaredazione al suo autore.

Nell’opera a stampa dei verbali del Con-siglio dei Ministri della Repubblica SocialeItaliana, questo originale testo costituziona-le è attribuito senz’altro al ministro Biggini.La bozza riprodotta integralmente tra i docu-menti allegati alla riunione del Consiglio deiMinistri del 16 dicembre viene presentatacome «il progetto di Costituzione preparato,su incarico del governo, dal ministro del-l’educazione nazionale, Biggini»16.

La paternità del testo, in verità, non ècosì certa.

Sul punto, tale attribuzione è innanzi-tutto contraddetta dal rifiuto esplicito diogni questione di razza che si legge all’arti-colo 14° della bozza in questione. Il ministrodell’Educazione Nazionale Carlo AlbertoBiggini, nel precedente Consiglio dei mini-stri della Repubblica di Salò, del 26 novem-bre 1943, aveva fatto approvare un decreto

da lui proposto avente ad oggetto il seque-stro di beni appartenenti a cittadini di razzaebraica. Il secondo comma dell’articolo 1 delcitato decreto disponeva il sequestro ancheper le opere d’arte per le quali vi sia il fon-dato motivo di sospettare che appartenganoa persone di razza ebraica o ad istituzioniisraelitiche, ancorché figurino appartenen-

ti ad altre persone od enti»17. In altri termi-ni il decreto di Biggini, primo provvedi-mento antisemita della R.S.I., colpì il patri-monio di quegli ebrei che non riuscendo adesportare i propri capitali avevano investi-to in opere d’arte.

Dunque una tempestiva normativadiscriminatoria che contrasta con l’artico-lato della bozza che anzi riteneva «il popo-lo italiano … superflua ogni questione dirazza»18.

Inoltre nella bozza manca qualsiasi rife-rimento alle competenze del Duce, il pote-re esecutivo non è trattato in alcun modo.Anzi è del tutto assente ogni sua descrizio-ne, attribuzione di funzioni, rapporto con illegislativo ed il giudiziario.

Un bravo costituzionalista come Biggininon avrebbe in alcun modo trascurato didefinire i caratteri del potere di governo.Del resto in quello che certamente è il suoprogetto – ovvero quello reso noto da Lucia-no Garibaldi e pubblicato da Franchi nel1987 – la concezione del potere esecutivonon è affatto marginale, all’opposto è ilnucleo centrale dell’ordinamento costitu-zionale elaborato per la Repubblica di Salò.

Per il diritto costituzionale fascistal’aspetto più originale risiedeva «nell’eleva-ta considerazione del potere esecutivoincorporato nel Duce. Esso viene perciòindicato anche dalla dottrina fascista delloStato come l’espressione più genuina delloStato, l’organo essenziale e supremo della suaazione, come emanazione diretta della sovra-nità dello Stato o come sintesi nella quale sicristallizza l’intera vita dello Stato nella suaforma attivistica»19.

Se dunque l’azione del Duce era statacosì determinante per la formazione dellavolontà statale, non si comprende perché unesperto studioso di diritto costituzionale

Martone

173

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non abbia mantenuto questo carattere

anche per il futuro della R.S.I., o non abbia

per nulla considerato, proprio in un perio-

do di emergenza normativa, il ruolo del-

l’esecutivo in rapporto all’assemblea legi-

slativa.

In effetti nella Bozza del ’43 è assente

qualsiasi regolamentazione della sfera di

competenza e funzionamento degli organi

esecutivi.

A ben guardare la bozza aveva poi una

precisa ispirazione socialista, se non addi-

rittura apertamente comunista, che non

appartiene alla formazione ideologica e cul-

turale di Biggini che poteva considerarsi dal

punto di vista politico un pragmatico mode-

rato. In conseguenza è opportuno riflettere

ulteriormente sull’attribuzione della bozza

in questione.

Al riguardo un dato va rimarcato e cioè

che l’attribuzione della bozza a Biggini è

senz’altro dovuta al fatto che questa si trovi

tra le carte della Segreteria particolare del

Duce insieme alla lettera – già nota agli sto-

rici20 – del 27 maggio 1944 con la quale

Mussolini accompagnando la restituzione

del testo costituzionale invita Biggini a rive-

dere alcuni punti, quelli controlineati. La

copia della lettera autografa di Mussolini è

conservata nello stesso faldone e nel mede-

simo fascicolo.

Ma il testo ritrovato tra le carte della

famiglia Biggini dopo la guerra presenta,

come riferito da Franchi, sottolineature ma

anche aggiustamenti significativi e su aspet-

ti centrali. È dunque il testo del ‘44 quello a

cui si riferisce la lettera del 27 maggio 1944.

D’altra parte già De Felice ha ricostruito

la vicenda, per lui Biggini, il 4 maggio 1944,

avrebbe cercato di conoscere il giudizio di

Mussolini sul suo progetto:

il discorso tra i due si sarebbe però mantenuto

molto sulle generali. Fu però certamente in con-

seguenza di questa sollecitazione che una ventina

di giorni dopo Mussolini rinviò a Biggini la bozza

con un breve biglietto di accompagnamento in cui

era espresso un giudizio complessivamente favo-

revole; ma anche un indiretto suggerimento a

rimetterci le mani … Dal diario di Biggini risul-

ta che il 2 giugno, incontratolo per questioni ine-

renti il suo ministero, questi assicurò Mussolini

che avrebbe perfezionato il progetto, appartenen-

dovi le necessarie modificazioni.

[De Felice 1997, II, p. 416]

Dunque il testo che riporta le correzioni

di Mussolini, restituito il 27 maggio 194421,

era senz’altro opera di Biggini.

La lettera in questione non accompagna-

va la restituzione della bozza del dicembre

’43, sino al 2005 del tutto sconosciuta, resa

nota solo a seguito della pubblicazione dei

Verbali del Consiglio dei Ministri della

Repubblica Sociale Italiana. La presenza

contestuale nel medesimo fascicolo d’Archi-

vio – lettera del 27 maggio 1944 e bozza ’43 –

è solo casuale. In effetti anche la bozza ’43

riporta parti sottolineate con matita blu. Tut-

tavia manca qualsiasi modifica, qualsiasi

intervento autografo sul testo dattiloscritto.

4. I due testi: la bozza del ’43 ed il progetto del

’44

Molto probabilmente Mussolini, in occa-

sione della seduta del Consiglio dei Ministri

del 16 dicembre 1943, edotto sul da farsi dai

suggerimenti di Rolando Ricci, affidò in

quella occasione e non prima a Biggini il

compito di studiare la questione e di predi-

sporre un compiuto e coerente progetto

costituzionale da sottoporre ai membri della

Costituente una volta convocata, così da

Ricerche

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procedere in modo ordinato e non caoticocome era avvenuto al Convegno di Verona,alla elaborazione dei principi fondamenta-li della repubblica fascista. La bozza dal tito-lo Alcune idee sul futuro assetto politico e socia-

le del popolo italiano, ordinata in 31 articoli,non è opera del ministro dell’EducazioneNazionale e non è il testo pubblicato daFranco Franchi e considerato dalla storio-grafia il progetto costituente di Biggini.

In realtà l’iniziativa costituente di Mus-solini produsse due progetti di ispirazionemolto differente. Il primo, ovvero la bozza

allegata agli atti del Consiglio dei Ministridel 16 dicembre 1943 è opera di forteimpronta democratica e socialcomunista el’autore potrebbe essere Nicola Bombacci22;il secondo ovvero il progetto, ritrovato tra lecarte della famiglia Biggini nel dopoguerra,rappresenta un testo organico di carta costi-tuzionale ordinato in 142 articoli che risen-te fortemente della prudente ideologia con-servatrice maturata nel Ventennio.

Entrambi, al tempo della RepubblicaSociale, rimasero sconosciuti all’opinionepubblica.

Il primo testo del dicembre 1943, sino-ra ignorato, esprime i sentimenti innovati-vi e rivoluzionari che in quel periodoinfluenzavano ed animavano l’impegnocostituente di un autore senz’altro contrario,in quella circostanza storica, alla sempliceriproposizione dei programmi politici deldispotismo fascista che aveva caratterizzatogli anni della costruzione dello Stato totali-tario. Con piena ed autonoma assunzione diresponsabilità culturale e politica, nel primoelaborato programmatico si attribuiva allaCostituzione una funzione di governo col-legata alla definizione di una nuova sovrani-tà popolare che traeva forza e fondamentonel modello democratico ed in quella poli-

tica di collaborazione sociale solo procla-mata negli anni del primo fascismo. Di con-tenuto, carattere politico e struttura giuridi-ca tradizionale il secondo, senz’altro elabo-rato dal ministro Biggini.

Nel programma costituente messo incampo da Mussolini, il ministro dell’Educa-zione Nazionale intervenne in un secondomomento quando l’iniziativa politica avevaormai perso d’attualità. L’autore della bozza

’43 non è Bigini.Mussolini era rimasto deluso dai risul-

tati del Congresso di Verona e probabilmen-te anche del Manifesto predisposto da Pavo-lini, nonché sorpreso dal contenuto rivolu-zionario della bozza preparata per il Consi-glio dei Ministri del 16 dicembre 1943. Diqui due contestuali iniziative non contra-stanti: il differimento a data da destinarsidella convocazione della Costituente e l’in-carico a Biggini.

In conseguenza l’autore della bozza vacercato tra i sostenitori di un programmasocialista, largamente riformista, tra gli epi-goni di un fascismo non più legato alle aspi-razioni della media borghesia ed ai favoridei potenti gruppi industriali.

Per De Felice «l’attenzione di Mussoli-ni per l’atteggiamento, le idee, i programmidell’antifascismo di sinistra fu vivissimo»(1997, II, p. 378) soprattutto nei primi mesidella R.S.I., tanto che «ricercò sostegni edadesioni alla sua politica essenzialmente indue direzioni: tra i vecchi fascisti dellaprima ora (quasi sempre provenienti comelui dal sovversivismo prebellico) che eranostati o si erano spontaneamente allontana-ti dal Partito, e ancor più tra i suoi vecchicompagni ed amici di quando militava nelpartito socialista» (Ibidem).

Di certo ebbe una parte importante nel-l’azione costituente dispiegata da Mussoli-

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ni nei primi mesi della repubblica, il gior-nalista Carlo Silvestri che dopo aver denun-ciato gli autori del delitto Matteotti fu con-finato politico dal 1927 al 1932. Tra le cartedella segreteria particolare del Duce è con-servata una sua memoria datata 25 settembre1943 dove in dieci punti vengono delineatele linee di una azione di governo democra-tica e socialmente utile per la particolarecontingenza storica nettamente contrappo-sta alla politica dittatoriale del Ventennio:«Al regime totalitario e dispotico reggen-tesi sull’impedimento alla manifestazionedelle idee e di opinioni non strettamenteconformistiche, occorre contrapporre nonla sterile critica superficiale né la unilatera-le reazione degli interessi lesi o dei senti-menti offesi, bensì la visione alta ed il lin-guaggio virile di un movimento per ungoverno – stato – regime (socialista) capa-ce di intendere e risolvere i grandi proble-mi del popolo che si proponga: il ristabili-mento delle garanzie statutarie col dilem-ma: Costituzione o Costituente e l’avventodi un regime costituzionale rappresentativodemocratico e autoritario, unitario e orga-nico che faccia luogo ad una amministrazio-ne pubblica rispondente ai criteri basilari:– della legittimità – moralità (derivazione econtrollo popolare – della capacità (uominiadatti al posto giusto) – della stabilità (l’Ese-cutivo governa, il Legislativo collabora econtrolla)23.

In estrema sintesi il Silvestri proponevaa Mussolini «il rispetto delle regole con-sensuali della democrazia (convincere, nonimporre)24 e tutta una serie di nazionalizza-zioni nonché l’adozione di garanzie imme-diate per le masse lavoratrici. Il suo non eraun progetto costituzionale ma un promemo-ria delle proprie idee in materia.

E Silvestri non fu il solo interlocutore

costituente di Mussolini; si conosce il pro-getto di Spampanato (Progetto per la Costi-

tuente) e quello di Vittorio Rolando Riccitutto centrato sui caratteri della Costituen-te25 in forma di breve appunto dove la novi-tà di rilievo è rappresentata dalla accanitadifesa del Senato nonché quello che, secon-do De Felice, sarebbe stato consegnato aMussolini il 23 agosto 1944 da Araldo Crol-lalanza26.

L’autore della bozza del ’43 non è sen-z’altro tra questi.

In effetti, solo Nicola Bombacci potevatentare di indurre Mussolini, nella situazio-ne determinatasi dopo il crollo del regimeed il suo inatteso ritorno al potere favoritodai tedeschi ad una nuova comune militan-za per realizzare finalmente un socialismonazionale. Gli intensi contatti tra Mussolinie Bombacci sin dagli ultimi mesi del 1943 enei primi del 1944 sono noti27. La formazio-ne massimalista e comunista di Bombacci, ilsuo desiderio di indurre Mussolini «a tra-durre in pratica i suoi propositi di pacifica-zione»28 costituiscono dati significativi nellaricerca sulla paternità della bozza del ’43.

Nicola Bombacci ha un profilo ideologi-co non in contrasto con i caratteri del docu-mento politico che Mussolini porta con sé alConsiglio dei Ministri del 16 dicembre 1943.

Peraltro una disposizione marginaledella bozza del ’43 prevede l’originale isti-tuzione di un Ente Nazionale Edile cheavrebbero avuto come esclusiva finalitàquella di costruire case di proprietà per lefamiglie italiane. Ebbene a Bombacci, unavolta insediato nel suo ufficio presso ilMinistero dell’Interno della R.S.I. fu affi-dato proprio lo studio del problema dellecase per i lavoratori (Dolfin 1949, p. 118).

Una coincidenza, o forse una anticipa-zione alla quale in qualche modo, nonostan-

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te l’abbandono politico della bozza, il Bom-bacci continuò a dedicare in concreto le sueenergie nell’ambito di quella collaborazio-ne con la RSI che lo portò a seguire Musso-lini sino al tragico epilogo di Dongo29.

Invero il profilo culturale del ministrodell’Educazione Nazionale era tutt’altro(Veneruso 1968). Il Biggini – per gli storicisconosciuto gerarca fascista – aveva aderitoal partito solo nel 1928. In effetti egli eracoetaneo di Pavolini30, ma la sua storia per-sonale e la sua carriera politica era matura-ta in ambienti diversi. La sua formazione erastata prevalentemente giuridica con speci-fici e prevalenti interessi nel campo deldiritto pubblico e soprattutto in ambito cor-porativo. Biggini fu «alieno dal parteciparealle lotte di corrente in seno al fascismo, siaperché convinto della necessità di conser-vare l’unità della classe dirigente fascista,sia per la natura culturale e la matrice gen-tiliana della propria vocazione politica chetendeva al mito della fedeltà, e riuscì»secondo il Veneruso – «a mantenere sem-pre buoni rapporti con i maggiori esponen-ti del fascismo nazionale delle più varie ten-denze e nutrì una autentica devozione perMussolini» (Veneruso 1968).

In effetti Biggini costruì la sua carrierapolitica parallelamente a quella accademica:giovane professore universitario, autore diun documentato lavoro sui Patti Lateranen-si, deputato nel 1934 e Rettore dell’Univer-sità di Pisa nel 1942, quindi ministro del-l’Educazione Nazionale il 3 febbraio del1943 ed in conseguenza entrò a far parte delGran Consiglio del Fascismo poco primadella storica seduta del 25 luglio 1943. Inquesta circostanza si schierò con Mussolinicontro l’ordine del giorno Grandi.

Liberato Mussolini il 23 settembredivenne ministro dell’Educazione Naziona-

le della Repubblica di Salò. In questa posi-zione le sue prime iniziative governative,come in precedenza sottolineato, non furo-no proprio in linea con quella svolta politi-ca che inizialmente sembrò coinvolgere lostesso Mussolini; anzi grave fu il suo segna-le di continuità in tema di discriminazionerazziale. E tutto ciò nello stesso periodo incui Mussolini ristabiliva rapporti con vecchicamerati allontanatisi dal partito e prende-va contatti anche con antifascisti, per favo-rire scelte di pacificazione sociale.

Spampanato al riguardo ascrive a Mus-solini la volontà di evitare «il rischio divarare la repubblica del fascismo per accla-mazione. Ci arriveremo alle sue tavole, maattraverso una preparazione necessaria»(Spampanato 1974, III, p. 631), Spampana-to attribuisce queste considerazioni allaprima settimana di dicembre del 1943, datadel suo incontro con Mussolini a Gargano.Per Mussolini la Costituente non potevaavere un rapporto con il Congresso diCastelvecchio, mancavano tra i fascisti con-dizioni politiche favorevoli di progetto,soprattutto per quella concezione del ritor-no del fascismo come estrema vendetta neiconfronti dei traditori dell’Idea che in modoesemplare aveva trovato sfogo nella ferocerappresaglia squadristica compiuta a Ferra-ra per l’uccisione del federale Ghisellini,sollecitata, approvata ed organizzata proprionel corso dell’assemblea veronese (Ganapi-ni 2002, p. 170).

Tuttavia la decisione del rinvio per laconvocazione della Costituente con proba-bilità traeva motivo dalla mancanza di untesto idoneo a guidare una ordinata discus-sione nel delineare i principi costituziona-li per la repubblica fascista, l’autore dellabozza del ’43 si mostrava troppo convintodella necessità di profonde innovazioni: il

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nuovo Stato doveva essere espressione diuna riforma concretamente democratica. Ilconsenso sociale andava conseguito attra-verso una larga partecipazione elettorale, inconcreto attraverso una competizione poli-tica aperta alla contrapposizione partitica31.Si trattava dunque di un testo sotto più pro-fili rivoluzionario che per imporsi in Costi-tuenti avrebbe avuto bisogno dell’esplicitoed autorevole sostegno di Mussolini.

In questa complessa trama si colloca ilricorso all’opera prudente del Biggini, sen-z’altro in sintonia con la consapevolezza diMussolini di trasferire la sostanza della dot-trina fascista in una carta costituzionalesenza stravolgere i suoi elementi costituti-vi, così come manifestatisi durante il Ven-tennio, nonostante la nuova necessariaricerca del consenso delle classi lavoratriciin sostituzione dei vecchi punti di riferi-mento del Regime. Un’attività di studio e discrittura – quella di Biggini – che si svolsein uno spazio temporale successivo al 16dicembre 1943.

5. I contenuti della prima proposta

Invero, nella bozza del ’43, le idee sul futu-ro del nuovo Stato repubblicano eranoespressione di convincimenti e riflessionipolitiche senz’altro innovative e significati-ve, soprattutto per il contesto storico in cuiemergevano. Oltre all’ «ampia libertà distampa, di culto»32, alla concessione delvoto tout court alle donne al pari degli uomi-ni senza alcun riferimento a particolaricategorie come nella legge per l’elettoratoamministrativo del 1927, mai applicata (inargomento Martone 1996, pp.542-547),all’abolizione della coscrizione obbligato-

ria33, al riconoscimento dell’autonomiaregionale ed alla soppressione delle provin-cie34, ad una magistratura libera ed indi-pendente non soggetta ad alcuna influenzaesterna e con magistrati eletti con plebisci-to popolare35, l’articolato contiene due sor-prendenti novità ulteriormente rivoluzio-narie che riguardano la razza e il diritto diproprietà36.

In tema di discriminazione razziale, l’ar-ticolo 14°, I comma, della bozza così recita:«Il popolo italiano ritiene ogni questione dirazza abolita e per quanto riguarda i semitisosterrà, nel campo internazionale la opportu-nità di una sistemazione definitiva con la crea-zione dello Stato Ebraico». Mussolini deveaver avuto almeno un sussulto, leggendo ladichiarazione forte e chiara, di radicale esostanziale condanna della politica razzialeimposta nel 1938, eppure questo punto nonrisulta sottolineato dalla sua matita blu.

La carta costituzionale pertanto inten-deva trascendere dall’evento che l’avrebbeprodotta e conduceva – con la sua autoritàproiettata nel futuro – ad una effettiva con-ciliazione non solo con gli ebrei, di nuovocittadini italiani, ma anche con il sionismointernazionale. In concreto la bozza del ’43,non solo si caratterizzava per aver fortemen-te attinto dal modello democratico occiden-tale, ma guardava anche al passato fascistacon sguardo fortemente critico.

Per il suo autore il regime aveva perso ilconsenso degli italiani per errori etico –politici, non già per l’onta del tradimentoprovocata dalle scelte contrarie all’Idea dialcuni alti gerarchi. Il tentativo costituzio-nale aveva senso e motivo se in possesso dicaratteri originali e valori forti in grado difrenare i combattenti del neonato partitofascista repubblicano e trasformare radical-mente l’ordinamento della vita sociale, alla

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ricerca effettiva di una ritrovata concordianazionale.

Su questa rinnovata solidarietà tra tuttigli italiani bisognava puntare per risolvereanche le esigenze di sopravvivenza quotidia-na soprattutto delle masse lavoratrici, essen-do il lavoro non più soggetto a sfruttamentoda parte di privilegiati imprenditori.

Di qui la seconda grande novità del pro-getto costituzionale che formalizzava unnuovo rivoluzionario assetto addirittura deldiritto di proprietà e non limitato ai solirapporti tra capitale e lavoro negli stabili-menti industriali. Infatti all’articolo 18° silegge, non senza sorpresa, che «il capitalenon potrà essere più elemento di sfrutta-mento e di privilegio per alcuno, tutta laproprietà immobiliare passerà esclusiva-mente nelle mani dello Stato, fatte leseguenti eccezioni: a) per i possessori dellacasa che serve di abitazione delle propriafamiglia; b) della terra che viene fecondatacon le proprie braccia; c) e di quant’altro overisulti chiaramente che il capitale ed il lavo-ro siano riuniti nelle stesse mani»37.

L’articolato proposto veniva poi soste-nuto con una serie di considerazioni sullanatura del capitale38 e sulla necessità per ilnuovo Stato di nazionalizzare tutto il setto-re dei trasporti e delle comunicazioni, non-ché di assumere provvisoriamente la gestio-ne diretta39, togliere la proprietà dei terre-ni coltivabili «a chi ne ha in esuberanza»40

per poi distribuirla a chi effettivamente lalavora compiendo così una riparazione edun atto di giustizia sociale». Dalla lettura deltesto emerge dunque un progetto sociale cheper l’economia industriale va oltre il corpo-rativismo e mira in politica agraria ad unsistema di piccola proprietà rafforzato dauna ulteriore modifica del regime delle suc-cessioni41.

La bozza disegna una comunità politicaretta da norme che garantiscono le libertà evincolano i diritti dei cittadini ad un pas-saggio storico significativo per il fascismo.Il problema affrontato in sede costituente,non era tanto quello di dare un contenutodi legittimizzazione alla Repubblica di Salò,quanto piuttosto di dare preminenza ed unrinnovato quadro di riferimento politico –ideologico, considerato essenziale per rag-giungere nell’immediato un positivo effet-to di concordia con quelle componentisociali che altrimenti avrebbero dato il loroappoggio alla resistenza.

Nel più lungo periodo si riteneva di por-tare a termine il programma più volte solle-citato negli ultimi anni del Ventennio di ela-borazione di una legge costituzionale chefinalmente riusciva ad enunciare in manie-ra solenne e sistematica i principi generalidella dottrina del Fascismo. Con questabozza in concreto, anche se in una diversacontingenza storica, finalmente si modifi-cava la gerarchia delle fonti giuridiche attra-verso la vigenza di una normativa superiorealle leggi ordinarie. Così anche da questaprospettiva si dava spazio ad una novità dirilievo rispetto alla precedente esperienzaistituzionale fascista.

È evidente che siamo senz’altro nelcampo di una scelta decisamente ideologiz-zata diretta a sottrarre la volontà statualeall’arbitrio e capace di raccogliere in unitàtutta una serie di supporti sociali dandorilevanza ad un preciso modello di consocia-zione. Un’operazione mai tentata durante ilVentennio. Già Paolo Pombeni ha rilevatoche il «fascismo rinviò sine die qualsiasirazionalizzazione del suo regime»42 nongiungendo ad una formalizzazione costitu-zionale del nuovo assetto dei poteri avviatonel 1928 con la trasformazione in organo

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dello Stato del Gran Consiglio del Fascismo,portata avanti dopo la proclamazione del-l’Impero, con la legge sui due marescialli enel 1938 con l’abolizione della Camera deiDeputati e la istituzione della Camera deiFasci.

In effetti la vigenza dello Statuto Alber-tino e le prerogative regie avevano impedi-to un’evoluzione costituzionale esplicita,sanzionata con un nuovo solenne documen-to politico che avrebbe dovuto affrontarel’impegnativo rapporto tra monarchia efascismo. Un politico esperto come Musso-lini era consapevole del fatto che la battagliaistituzionale si combatteva efficacementeanche con iniziative tecnico-formali, construmenti legislativi, piuttosto che attraver-so inutili e spesso rischiose prove di forza.

Il mezzo più efficace nel Ventennio, peraffermare il potere del partito fascista sulloStato e quello personale del Duce rispettoall’ordinamento della monarchia sabauda,era stato un altro. L’obiettivo di ridimen-sionare la supremazia istituzionale delmonarca, di superare il sistema parlamen-tare, di rafforzare l’esecutivo attraverso sin-gole soluzioni operative era stato raggiuntodi volta in volta con singole iniziative legi-slative.

6. Sviluppi della politica istituzionale

In effetti a ben guardare, e questo a Musso-lini senz’altro non sfuggì, la bozza del 16dicembre 1943 delegittimava la politica isti-tuzionale del Ventennio in maniera profon-da. Sulla base di questo progetto il passag-gio verso la Costituente si rivelava per Mus-solini un passaggio difficile e tropporischioso. La maggior parte dei camerati che

lo avevano seguito a Salò, avrebbero consi-derato inaccettabili i contenuti programma-tici della bozza. Nel confronto con il passa-to le differenze ideologiche di fondo eranotroppo rilevanti rispetto alla politica razzia-le sino ad allora perseguita ed alle limita-zioni da introdursi al fondamentale dirittodi proprietà.

Il progetto in concreto andava ben oltreil processo di socializzazione per la gestio-ne delle aziende poi attuato con legge nel194443.

Nella bozza si legge un disegno più ampioche riguarda la struttura sociale del paesenel suo complesso. Non è più uno Stato dit-tatoriale ed oligarchico quello che vieneprospettato, ma uno Stato da costruire attra-verso il consenso democratico e per di piùdecisamente lontano da ogni soluzione libe-rista ed in grado di realizzare un program-ma per il quale «l’uomo, dopo tanti secoli dilotta dalla schiavitù al servaggio, al salaria-to, finalmente arriverà a deporre il pesantefardello del giogo del capitale, e solo alloragodrà in pieno i frutti della sua intelligen-za, del suo sapere e del suo lavoro»44. Insostanza con il nuovo assetto sociale il siste-ma capitalistico sarebbe stato smantellatoseguendo un modello statualistico di tipocomunista ancor più che socialista.

Di qui le perplessità di Mussolini nondisponibile per un così audace cambiamen-to e l’abbandono della bozza che risulta soloallegata agli atti del Consiglio dei Ministridella Repubblica Sociale Italiana del 16dicembre 1943, senza cenno di discussionee neppure di esplicita presa d’atto.

La bozza rimase dunque un documentonon ufficiale e riservato. Mussolini, puressendo in quel momento molto attento alleidee ed ai programmi dell’antifascismo disinistra, avvertì l’impossibilità di identifi-

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carsi con il comunismo. Inoltre la suavolontà costituente era determinata soprat-tutto dalla necessità di dare legittimità allaRepubblica e dalla ricerca di un rinnovatoconsenso che nel tragico momento storicocontingente non maturava sulla base di pro-fonde convinzioni ideologiche ed era assog-gettato anche a necessità e condizionamen-ti propagandistici. In altri termini, la posi-zione di Mussolini rispetto alla bozza del ’43,in cui si manifestava una rivoluzionaria eforte volontà costituente, era molto più pru-dente, moderata e pragmatica.

In effetti, nel momento in cui la bozza

venne a conoscenza dei rappresentanti delGoverno, il nuovo partito fascista aveva giàdiscusso gli indirizzi generali e le attribu-zioni dello Stato. Pavolini con i 18 punti delManifesto del Congresso di Verona, del 16novembre 1943, aveva già messo paletti alladegenerazione socialista e comunista, echiaramente affermato in un documentoufficiale che il programma sociale che dove-va caratterizzare il nuovo regime repubbli-cano non poteva dunque che essere soltan-to l’evoluzione del principio corporativo45.

Per Mussolini dunque la bozza era inuti-lizzabile, sicché altro e più meditato model-lo andava proposto ai membri della Costi-tuente. È quindi a questo punto che entrò incampo il professor Biggini con uno specifi-co compito, quello di elaborare un progettocostituzionale capace di precisare i caratte-ri del nuovo stato repubblicano, senza peròrinnegare completamente l’esperienza delVentennio ed il suo ordinamento.

Il tentativo di adeguare il nuovo assettodello Stato repubblicano al vecchio ordina-mento del Ventennio precedente è rappre-sentato dal progetto di costituzione elabora-to da Biggini e pubblicato da Franco Fran-chi46 soltanto nel 1987.

7. La seconda proposta: il progetto Biggini

In realtà quella conosciuta da De Felice è laseconda proposta costituente, fortementecondizionata dalle indicazioni, dai parame-tri politici, dalle considerazioni, dalle scel-te prudenti di Mussolini. Una carta costitu-zionale di ben 142 articoli, profondamentediversa nell’impianto generale e soprattut-to nella cultura istituzionale che aveva ispi-rato originariamente la bozza del ’43 cheproponeva la rifondazione dello Stato e rite-neva irrecuperabile il vecchio costituziona-lismo liberale e gli aggiustamenti fascisti delVentennio47.

Per comprendere bene questa profondadifferenza tra i due testi è opportuno pren-dere in esame le opzioni alquanto diverse econtrapposte che emergono nel progetto dicostituzione del 1944 rispetto alla bozza del16 dicembre 1943.

Il progetto Biggini propone un testo com-piuto, analitico e rigido, che sceglie unmodello di Stato differente da quello pre-cedentemente ipotizzato, dove predominal’interesse della nazione rispetto agli «indi-vidui, isolati o raggruppati, che in ognimomento vi fanno parte»48. In altri termi-ni l’idea di democrazia ampiamente affer-mata sulla bozza del ’43 è qui ripresa entrouno schema corporativo che risente delmodello dello Stato totalitario costruito nelVentennio.

Il punto che risente in maniera fortissi-ma dell’opinione del Capo riguarda la scel-ta razziale antisemita. Nella bozza del ’43 laposizione contraria ad ogni norma discri-minatrice è netta, addirittura appassionatanella motivazione. Per contro nel progettoBiggini ritorna in vigore una normativa ispi-rata ai valori della razza italiana e della suaciviltà anche se attraverso una nuova politi-

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ca di purità della stirpe e di difesa della fami-

glia. Ciononostante la discriminazione neiconfronti degli ebrei italiani non viene ini-bita, anzi viene confermata attraverso unaspecifica nuova disciplina.

L’articolo 73 del progetto49, disciplinan-do il matrimonio, faceva assumere all’ita-liano di razza ebraica la condizione giuridi-ca che era stata propria dei sudditi colonia-li50 con tutti i conseguenti impedimenti edifferenze giuridiche rispetto ai regnicoli.

In altre parole, il testo elaborato da Big-gini confermava la politica razziale inaugu-rata nei confronti degli ebrei nel 1938 (cfr.AA.VV. 1998) anche se in maniera implici-ta. Di fronte all’immane tragedia degli ebreiil professore con il suo lavoro costituziona-le riapriva il varco alle sopraffazioni, al pre-dominio iniquo. Il suo articolato persecuto-rio, anche se in apparenza poco eloquente,operava comunque una scelta di camponetta a favore della discriminazione razzia-le. Invece di norme chiare, indirizzate adesprimere una concezione di superioritàrazziale, Biggini si limitava a segnalare unacondizione di sudditanza e non di cittadi-nanza per gli ebrei italiani che comunqueaffermava per il nuovo Stato una vocazionenettamente razzista.

Va ricordato che, tra la redazione dellabozza ed il progetto Biggini, ossia tra l’au-tunno del ’43 e la primavera del ‘44, ilgoverno repubblichino aveva già adottatoatti di sicura ispirazione antisemita. La pre-senza del divieto matrimoniale tra ebrei ecittadini italiani ariani e non di poche altrenorme discriminatorie nel testo costituzio-nale, non deve trarre in inganno. La sceltadella prosecuzione della politica antisemitaera netta, e questa volta, in concreto, per gliebrei italiani non solo di segregazione dallasocietà civile si trattava. Del resto già il 16

ottobre 1943 la polizia tedesca aveva attua-to nel ghetto di Roma una retata di oltremille ebrei poi deportati ad Auschwitz. Ed il30 novembre 1943, il Ministro dell’Internodella R.S.I., Buffarini Guidi, con l’ordinan-za n. 5, aveva disposto l’arresto e l’interna-mento di tutti gli ebrei nei campi di con-centramento. Inoltre i partecipanti al Con-gresso di Verona, sin dalla metà dello stes-so mese di novembre, avevano deciso diconsiderare gli ebrei italiani appartenenti anazionalità nemica51. Si veda al riguardo ilsettimo dei diciotto punti del Manifesto diVerona, recepito dagli articoli 89 e 90 delprogetto Biggini52. Il testo di Biggini recepi-va in materia deliberazioni autorevolissime.

Il progetto del Biggini seguiva dunque, inquesto punto, le direttive del governo e delpartito fascista repubblicano, anche se laconferma della persecuzione degli ebreipassava attraverso una norma costituziona-le che si collocava in un contesto più gene-rico di difesa della stirpe e della famiglia enon della razza, tuttavia il suo articolato, purnon facendo ricorso a parole d’ordine anti-semite, prevedeva ugualmente e ristabilivain concreto precisi criteri di segregazionedegli ebrei italiani dalla società civile attra-verso la loro identificazione sul piano razzi-sta e religioso.

Dunque una proibizione di naturamatrimoniale, che inserita in un testo costi-tuzionale autorizzava autorevolmente il pre-dominio dei cittadini di stirpe italica suisudditi ebrei sino, purtroppo, – nel corsodella guerra – alla segregazione ed allo ster-minio. Nessuna protezione, nessuna tutela,assicurava loro il riferimento alla stirpeanziché alla razza. Le belle idee espresse alriguardo nella bozza venivano quindi con-traddette e negate nella stesura finale delprogetto. Ed in effetti non fu questo il solo

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tema soggetto a profonda revisione nell’ela-borato di Biggini.

8. Rispetto della proprietà privata e ritorno al

passato

Altro argomento centrale, quello del capita-le e della proprietà privata che trovò infattiuna corrispondente ridefinizione. Nel pro-getto vi è la «proclamazione del rispettodella proprietà privata»53 dunque non più«elemento di sfruttamento e privilegio peralcuni» come scritto all’articolo 18 dellabozza del ’43, ma anzi «completamento emezzo di applicazione della personalitàumana».

Messi a confronto l’articolo 18° dellabozza e l’articolo 105 del progetto risultanodiversi anzi opposte. In effetti l’osservanzaalle direttive di Mussolini determina in Big-gini una totale soggezione. L’audacia ispi-ratrice della bozza soccombe.

In generale nel progetto del ‘44 trionfa-no le opzioni costituzionali tradizionali.Così la coscrizione militare non è più abo-lita54. L’elettorato attivo non è più ricono-sciuto a tutti i cittadini di ambo i sessi masoltanto a coloro che lavorano55. Le provin-cie non sono più soppresse56 e della istitu-zione delle Regioni non se ne tratta più. Cosìl’ampia libertà «di riunione, di associazio-ne, di stampa, di culto,» di cui all’articolo 7della bozza si tramuta in «libertà di parola,di stampa, d’associazione, di culto» – quin-di rimane esclusa quella di riunione – macon l’aggiunta di una precisa limitazione:«deve essere garantita fino al limite in cuiè compatibile con preminenti esigenze delloStato e con la libertà degli altri individui»57.

Il Biggini inoltre nel suo testo sposta l’at-

tenzione sulle situazioni di effettività del-l’esercizio del diritto di libertà fissando inquesto modo regole diverse: non più undiritto pieno, ma la specificazione giuridi-co – formale di limiti discrezionali. Identi-ca la soluzione per l’organizzazione politicadel nuovo Stato: «I partiti possono esplica-re la loro attività di propaganda delle loroidee e dei loro programmi, purché non in

contrasto con i fini supremi della Repubbli-

ca»58.Anche il nuovo articolato sulla scuola ci

restituisce una immagine sbiadita dellenorme scritte nel ’43. «La scuola non avràdogmi. Saranno escluse le influenze politi-che e religiose …. I programmi verrannoampiamente discussi dal corpo degli inse-gnanti stessi», così nella bozza del ’4359.Ora, nello scrivere le norme del progetto del’44 il ministro dell’Educazione Nazionaledimostra, anche in questo settore di suaspecifica competenza, di essersi allineato aduna concezione autoritaria, di aver rinun-ciato ad ogni proposito innovativo. Infattinell’articolo 79 del suo progetto si indivi-dua come finalità dell’insegnamento scola-stico «la formazione di una cultura delpopolo ispirata agli estremi valori della razzaitaliana e della sua civiltà», pertanto i pro-grammi scolastici «sono fissati in vista dellafunzione della scuola»60. In conseguenza visono dei precisi principi informatori cheorientano l’attività del docente.

Dunque due orientamenti ben differen-ziati, due anime, una libertaria, l’altra sta-talista. L’insegnamento appare nel proget-to del ’44 come manifestazione di una voca-zione obbediente alle direttive politiche delgoverno; la libertà dell’insegnamento vienecalata all’interno di una realtà culturale bendelimitata che merita, solo essa, di esserevalorizzata ed insegnata. Il progetto del ‘44 è

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dunque un testo che rivela chiaramente laretrostante ideologia autoritaria. Così, men-tre la bozza del ’43 attesta una volontà rivo-luzionaria che rompe con il passato, il pro-

getto del ‘44 esprime all’opposto un senti-mento di rispetto per la tradizione fascistae costruisce su queste antiche fondamental’edificio del nuovo Stato repubblicano. Inrealtà mentre la bozza del ’43 contiene moti-vazioni e soluzioni fortemente ispirate dauna nuova proposta politica che tendeva adevitare il male funesto della guerra civile.Per contro il progetto del ‘44 è ormai soltan-to un puro esercizio di scrittura giuridicasostanzialmente condizionato dall’espe-rienza dell’ordinamento del Regime di cuiera profonda conoscitore.

L’impegno costituente di Biggini sirisolve in una scelta formale e consapevoletendente ad esprimere in forma compiutale idee costituzionali maturate negli anni delfascismo nonché le novità sociali condivisedal Duce. Non a caso Mussolini aveva con-segnato a Biggini un articolo sulla Costitu-zione della Repubblica Romana del 184961:un testo approvato l’ultimo giorno di vitadella Repubblica e mai entrato in vigore equindi soltanto testimonianza di una preci-sa identità politica, matura espressione giu-ridica di un ordinamento statuale che affi-dava ai posteri il messaggio politico – isti-tuzionale di una nuova organizzazione dellasocietà.

Un modello al quale il professor Biggini,nel suo solitario lavoro aderì, identificandonella scrittura dei principi e delle regolefondamentali dello Stato sociale repubblica-no la cifra giuridica autentica del fascismoitaliano da consegnare alla storia. Un com-pito al quale adempiva come portavoce delCapo, unico detentore del potere costituen-te. Il testo che Biggini andava scrivendo nel

1944 era ormai destinato solo alla testimo-nianza di un disegno politico istituzionaleideale. Il ministro doveva esserne coscien-te. In coerenza con questo sentire, nonpoteva instaurarsi contrapposizione dialet-tica, i tratti della dimensione teorica dove-vano essere riconducibili all’unica fontepolitica legittimata a lasciare un messaggioalle future generazioni: il Duce della Repub-blica Sociale Italiana.

9. L’idea mussoliniana di Stato repubblicano

Il progetto del ‘44 è dunque fedele alla tra-dizione fascista, sicché l’importanza del-l’opera è nella scoperta della proposta mus-soliniana di Stato repubblicano a prescinde-re dalle sue contingenti motivazioni. Unaproposta che non è conforme ai diciottopunti del Manifesto di Verona anche se è con-tro gli ebrei, e che non ostile al capitalismononostante l’intenzione di socializzare l’Ita-lia. Inoltre i caratteri di tale legge superio-re non erano direttamente collegati allasocietà che viveva il dramma della guerra esoprattutto quella civile.

I principi fondanti la Carta ispirata daMussolini erano espressione dei bisogni diuna società che guardava ancora al passatopiù che al futuro. I diritti civili, sociali, eco-nomici, politici, erano riconosciuti nel lorocontenuto essenziale ma si realizzavano solose coincidevano integralmente con i finisuperiori della Repubblica fascista. In altritermini i diritti inviolabili erano garantitisolo se rispondevano a tale modello. Delresto i diritti dei cittadini erano controbi-lanciati dai doveri e la relativa normativatrovava spazio solo nel capo VI del progettoovvero dopo la definizione costituzionale

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della struttura dello Stato. La determinazio-ne della forma di Stato è infatti centralenella Carta elaborata da Biggini.

L’affermazione degli organi supremi della

Nazione è dominante per la costruzione dellastruttura repubblicana fascista. E questiessenziali punti di riferimento sono il Popo-

lo e il Duce della Repubblica. Il Popolo parte-cipava alla vita dello Stato «mediante gliorganismi che si formano nel solo seno peresprimere gli interessi morali, politici edeconomici delle categorie di cui si compo-ne, e attraverso l’Assemblea costituente e laCamera dei rappresentanti del lavoro»62.

Lo schema è quello della democraziaindiretta o rappresentativa che si esplicanell’ambito dell’appartenenza a determina-te categorie. Sotto quest’aspetto vieneriportato il modello dello Stato corporati-vo63 dove rappresentanza e responsabilitàpolitica sono espressione dell’organizzazio-ne delle forze della produzione e del lavoro.

La figura istituzionale del Duce della

Repubblica – posta al di sopra di ogni altroorgano statale, unica, diretta interpretedella volontà popolare – è invece di nuovacreazione. Il Biggini per segnare l’autonomafunzione di Mussolini, determinante per lavita politica della Repubblica, in quantodiretto interprete della volontà popolare,pone questa carica istituzionale al centro delsuo progetto.

L’importanza del capo carismatico capa-ce di interpretare la volontà delle masse,espressione del sincretismo ideologico tipi-co del fascismo, trova qui modo di raffer-marsi pienamente nonostante lo schemarepubblicano. L’ostilità verso la rappresen-tanza parlamentare, l’avversione per lademocrazia riemergono dunque attraversoquesta complessa ed originale articolazionedi potere. L’azione pubblica è tutta affidata

al Duce della Repubblica Sociale Italiana cheesercita il potere legislativo in collaborazio-ne con il Governo e la Camera dei rappre-sentanti del lavoro64 e quello esecutivo, dicui è massima espressione, o direttamenteo a mezzo del Governo – di cui non si limi-ta a nominare e revocare sia i ministri che ilCapo del Governo65 – ma ne dirige e necoordina l’opera, lo convoca e ne fissa l’or-dine del giorno66.

Siamo in sostanza alla istituzionalizza-zione di una forma dittatoriale, alla riaffer-mazione di un ordine antico calato in unnovello atto costituzionale. Il nuovo regimerepubblicano, che aveva preso forma di fattocon la liberazione di Mussolini dal GranSasso, aspirava alle origini in maniera con-fusa, come in precedenza rilevato, ad unagenerale rottura con il Ventennio: il testoelaborato dal ministro dell’EducazioneNazionale chiudeva definitivamente questabreve stagione di libera critica storico-isti-tuzionale.

Con lo schema di costituzione di Biggi-ni il potere veniva di nuovo, sostanzialmen-te, delegato a un uomo solo che assumevaanche se con il termine temporale del set-tennato, la pienezza della competenza legi-slativa ed esecutiva. Non così disponevanogli articoli della bozza del dicembre 1943.Sul punto la differenza d’impostazionerisulta molto marcata.

L’attenzione originaria alle attribuzionidella Costituente da trasformarsi in Assem-blea legislativa ed al Senato consideratoorgano supremo del lavoro67, viene – neltesto di Biggini riveduto da Mussolini –orientata sulla figura del Capo dello Stato dicui vengono fissate le funzioni e le ampiecompetenze in dettaglio. Nella bozza del ’43l’unico accenno a questa figura istituziona-le riguardava la sua nomina affidata all’As-

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semblea Nazionale legislativa. Per contronel progetto del ’44 il suo rilievo istituzio-nale è centrale e non soltanto sul pianoideologico.

Non il Parlamento ma la figura del Ducecostituisce il fulcro di tutte le decisioni poli-tiche. In questo progetto peraltro il Gover-no assumeva il compito di semplice inter-prete ed esecutore dell’indirizzo politico elegislativo elaborato dal Duce della Repub-blica. In questo modo il ruolo dei partitipolitici veniva reso del tutto marginale.

In effetti nel modello costituzionaledelineato da Biggini e Mussolini, una voltasuperato il dualismo istituzionale monar-chia – fascismo che aveva caratterizzato ilVentennio, il Duce della Repubblica si sosti-tuiva al Re per esercitare in sede politica unadecisiva influenza personale secondo loschema formale del vecchio Statuto Alber-tino. Superata la diarchia, il ruolo decisivoper la determinazione della politica gene-rale del paese veniva dunque formalmenteaffidato senza più ipocrisie a Mussolini nellasua nuova qualità di capo supremo del nuovoStato repubblicano.

10. Un precedente determinante: il Convegno

pisano del 1943

Al riguardo va ricordato che Biggini nel1943, poco prima del 25 luglio, aveva orga-nizzato presso l’università di Pisa, di cui eraRettore, un significativo convegno diretto afissare i principi generali dell’ordinamen-to giuridico. Con questa iniziativa scientifi-ca, il professore aveva tentato di offrire uncontributo determinante per indirizzare ildiritto pienamente nella civiltà fascista enello Stato corporativo.

La politica legislativa del regime espres-sa attraverso la riforma del Codice civile,della procedura civile, dei codici penalidoveva ora trovare una enunciazione chiaradei principi informatori dell’orientamentogiuridico creato dal Fascismo. Conclusi ilavori per la codificazione era ormai tempodi fissare, per un sistema giuridico già rin-novato, «la forza della propria ideologia»(Biggini 1943, p. 383) e segnare le lineecerte del futuro sviluppo. Tutta una nuovaconcezione dello Stato e del diritto, secon-do Biggini, tutta una serie di nuovi istituti eprincipi non potevano essere costretti entrogli schemi del vecchio ordinamento giuridi-co liberale.

L’opera legislativa del fascismo era un

prodotto politico e non «un’opera essenzial-mente tecnica e strettamente giuridica»(Ibidem). Considerare l’elemento politicocome un semplice antecedente separatodalla realtà giuridica, era una erronea rap-presentazione, ma una falsa concezione deldiritto e della politica, non coscienza dellaloro intima e profonda unità. Il punto foca-le del ragionamento di Biggini era costitui-to dalla dimostrazione della enorme contrad-

dizione di preferire l’applicazione «caso percaso, istituto per istituto, i principi fascistiattraverso l’interpretazione di essi, comeprincipi dell’ordinamento giuridico, anzi-ché vederli fissati in una norma astratta»(Ibidem, p. 387). L’appassionata polemicacontro la continuità giuridica dello Statomostrava dunque una spiccata sensibilità evocazione costituzionale. Ormai l’indirizzonormativo civilistico e le trasformazionicostituzionali del regime costituivano deifattori interruttivi, determinanti.

La costituzione materiale non aveva chepochi punti di contatto con le norme fonda-mentali ottocentesche. Lo Statuto Albertino,

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che non viene mai citato da Biggini in que-

sto saggio, era da considerarsi fonte giuri-

dica ormai inadeguata a rinnovare l’ordina-

mento. Lo Statuto non rappresentava più la

norma base, la ragione costitutiva dell’or-

dinamento giuridico.

Il professor Biggini, in questa occasione

pisana si assunse il compito di prendere

posizione a favore di una riscrittura del testo

costituzionale. Ed a tal fine accompagnò lo

scritto con la formulazione delle sue propo-

ste, con la redazione di un testo in 69 arti-

coli che avrebbe dovuto fornire uno schema

di massima, per giungere ad una «enuncia-

zione solenne e sistematica dei principi

generali dell’ordinamento giuridico sorto

dalla Rivoluzione, una legge costituzionale

che svolgeva i principi fondamentali della

dottrina che il Fascismo aveva posto e che

conteneva gli istituti fondamentali modifi-

cati o diversamente orientati o creati dal

Fascismo, per la necessità, se non si voles-

sero trovare altre ragioni spirituali e politi-

che, che il nuovo ordinamento giuridico

dello Stato abbia la propria unità anche dal

punto di vista formale» (Ibidem, p. 400). Fu

questa esigenza dogmatica a spingerlo alla

stesura di un testo normativo che ha tutte le

caratteristiche di una carta costituzionale

dove la nozione di potere di Governo supe-

riore e diverso dal potere esecutivo legisla-

tivo e giudiziario, è centrale.

Trova espressione in questo testo la con-

cezione di un potere di governo – che per la

legge del 24 dicembre 1925 … le successive

leggi costituzionali e la legge del 19 genna-

io 1939 che hanno tutte interessato la figu-

ra del Capo del Governo – «prima e più fon-

damentale potestà dello Stato» (Ibidem) che

concerne «la direzione suprema e genera-

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Venezia, 9 febbraio 1944: giuramento della Guardia Nazionale repubblicana presso la caserma Manin

(Istituto Luce, Roma).

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le dello Stato nel suo complesso e nella suaunità». E questo dato così importante edoriginale si trova poi riprodotto nel proget-to costituzionale del 1944 per la Repubbli-ca Sociale. Biggini in questo caso non inven-ta nulla di nuovo per la figura istituzionalelegata alla persona di Mussolini. Nel testodel 1943 elaborato prima del 25 luglio, ilDuce del Fascismo, quale Capo del Governo,avrebbe esercitato questo superiore potereunitario e di indirizzo politico per delega delRe; nel testo del 1944, per le note circostan-ze storiche, il Capo supremo dello Stato èdirettamente il Duce della RepubblicaSociale Italiana68.

Ogni mediazione è superflua.Negli ultimi mesi del regime fascista

Biggini svolse dunque con impegno unenergico personale tentativo per sollecitareun’attiva politica costituzionale che trovòpoi modo di esprimersi anche su sollecita-zione ufficiale al tempo della RepubblicaSociale. Tuttavia in questo successivo perio-do repubblicano le sue riflessioni ed elabo-razioni non ebbero alcuna circolazione,neppure sul mondo accademico. Il suo pro-

getto non ebbe modo di circolare neppuretra studiosi di diritto costituzionale, comeera avvenuto prima del 25 luglio 1943 per loschema preparato in occasione del conve-gno pisano. Anzi la redazione del progetto del1944, che si ricollega allo schema da luipubblicato nel 1943, rimase del tutto sco-nosciuta ai contemporanei.

In effetti la sola parte del lavoro costitu-zionale del Biggini che trovò attuazione nor-mativa negli ultimi mesi della R.S.I., ma adopera di altri gerarchi, soprattutto di Ange-lo Tarchi, fu quella relativa alla socializza-zione delle imprese. Un tema quest’ultimodel tutto assente nell’articolo pubblicatoprima del 25 aprile 1943, anche se le norme

corporative che avevano per oggetto la tute-la della produzione avevano specifico rico-noscimento e trattazione negli articoli dal28 al 32.

La socializzazione delle imprese fucomunque un’altra vicenda.

11. Comunque oltre il Ventennio: dall’ordine

corporativo alla socializzazione delle imprese.

Conclusioni

Come ha scritto Luciano Garibaldi l’interocapo quarto del progetto del ‘44 era «ilpunto di arrivo del corporativismo di sini-stra» (Garibaldi 1983, p. 111). Nelle azien-de private si sarebbe attuato l’ingresso deilavoratori nei Consigli d’Amministrazionein numero non inferiore a quello dei rap-presentanti eletti dall’assemblea degli azio-nisti. Nelle aziende pubbliche il Consigliodi gestione sarebbe stato interamente elet-to dai lavoratori. In questo modo i lavorato-ri avrebbero comunque concorso allagestione, alla formazione del bilancio, agliinvestimenti. È evidente che il problemacosì affrontato della gestione delle impresesottraeva al datore di lavoro quella respon-sabilità di direzione che la Carta del Lavoro

del 1934 all’articolo VII gli aveva invece pie-namente riconosciuta. Il prestatore d’ope-ra, nella Repubblica di Salò, non era più sol-tanto un attivo collaboratore dell’impresaeconomica.

Nella rappresentazione costituzionaledei suoi diritti poi fissati dalla legislazioneordinaria, i lavoratori partecipavano allagestione, percepivano utili. L’orientamen-to legislativo era ora senz’altro a favore dellacategoria dei lavoratori rispetto a quella deidatori di lavoro69. Il formale equilibrio della

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Carta del Lavoro, delle sue enunciazioni diprincipio, era nettamente superato dalricorso ad una nuova e rovesciata contrap-posizione tendente a favorire senz’altro glioperai rispetto ai capitalisti.

Come è noto il tentativo di guadagnare ilconsenso degli operai al nuovo regime diMussolini mediante una politica di ispira-zione socialista si scontrò con il netto rifiu-to degli imprenditori ed ancor di più conl’ostilità degli organi economici tedeschi70.I tedeschi ostacolarono la politica di socia-lizzazione «sul piano pratico, di modo cheuna gran parte della strategia che mirava aottenere un maggior consenso fu messa incrisi, poiché le parole d’ordine sociali delgoverno inevitabilmente degenerarono invuota fraseologia, cosicché non fu ottenutoil deliberato collegamento con le masseoperaie» (Klinkhammer 2007, p. 262).

In concreto questo nuovo Stato, che peril tradimento delle vecchie èlites di poterericercava una nuova base sociale rimanevapoi imbrigliato in un progetto di Costituzio-ne che non riusciva ad appoggiarsi allapopolazione lavoratrice neppure con l’ado-zione delle misure di socializzazione, l’uni-ca decisione politica portata avanti da Mus-solini senza chiusure conservatrici e suc-cessivi ripensamenti. Non a caso l’opinioneproposta era fecondata su una autenticademocraticità mentre il progetto concepivauna rappresentanza parzialmente legata almomento elettorale e soprattutto espressio-ne delle sue funzioni gerarchiche secondo ilmodello proprio del corporativismo e dellariconosciuta centralità del capo dello Statocome vertice istituzionale Del resto il carat-tere rappresentativo del nuovo Stato corpo-rativo era stato già evidenziato da Biggini nelsuo lavoro sulla Camera dei Fasci (Biggini1939, pp. 548-549) sicché nel progetto del

‘44 vi è solo una ripresa di questa tematica.In definitiva l’elaborazione di un testo

costituzionale sul quale aprire ufficialmen-te un ampio confronto di idee, non ebbeefficace importanza nell’ambito della stra-tegia di pacificazione messa in campo daMussolini. Del resto sia la bozza che il pro-

getto di Biggini, rimase del tutto sconosciu-ta fuori dal cerchio di gerarchi che frequen-tava Mussolini a Gardone.

E nel cosiddetto Memoriale di Padova

(Biggini 1945, pp. 324-344). scritto dopo il25 aprile 1945 per fornire giustificazionicirca il suo operato come ministro dellaRepubblica Sociale Italiana il professor Big-gini si guardò bene dal dare notizie di que-sto suo impegno costituente.

Così l’incertezza e la prudenza di Musso-lini da un lato e l’intransigenza della mag-gior parte dei fascisti di Salò dall’altra rese-ro anche il lavoro di Biggini – e non soloquello dell’ignoto autore della bozza del ’43– un mero esercizio di scrittura poco signi-ficativo per le decisioni di governo. Tuttavial’opera del ministro, grazie alla revisioneoperata da Mussolini, offre la rappresenta-zione di una precisa idea politica di orga-nizzazione dello Stato. Una testimonianzapurtroppo frustrata dalla segretezza che cir-condò il lavoro costituente durante la vitabreve e violenta della Repubblica Sociale edanche dopo per la scomparsa precoce deiprotagonisti: Bombacci, il probabile autoredella bozza fu fucilato a Dongo, Biggini morìper malattia pochi mesi dopo l’aprile 1945,ricoverato sotto falso nome alla clinica SanCamillo di Milano71.

Un silenzio che dunque si ricollega agliesiti della lotta armata ma non solo. Tutta-via un percorso intellettuale fu comunquecompiuto anche se non si riuscì a ridisegna-re la struttura dello Stato, a perseguire spe-

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cifici obiettivi sociopolitici ed in definitivaa contrapporre un progetto fascista repub-blicano a quello monarchico del Regno delSud, nonché a quello ideologico del movi-mento partigiano.

Il programma costituzionale portato atermine da Biggini, tenendo conto delledirettive e dei suggerimenti di Mussolini,disegna un assetto di poteri che presentamolti punti di contatto con l’ordinamentofascista del Ventennio e manifesta una ten-denza che contrasta con l’aspirazione allarottura manifestatasi alla nascita del nuovoStato repubblicano.

In questa prospettiva di continuità del-l’apparato statale, ma non anche di bloccodelle forze sociali attorno alle nuove istitu-zioni repubblicane, si sviluppa e riducel’impegno costituente di Mussolini.

In conclusione, l’imprevista vicenda delfascismo repubblicano determinò ancheriflessioni nuove, liberò energie, ma nonriuscì a produrre, dal punto di vista costitu-zionale, un qualche rinnovamento. Il ten-tativo costituente, pur procedendo origina-riamente alla ricerca di una terza via tra ilcomunismo ed il capitalismo, alla fine –anche se nel totale silenzio che circondò ilsuo sviluppo – conservò infamanti pregiu-diziali razziste, non innovò sul piano istitu-zionale, ripiegò, nonostante le misure disocializzazione, verso formule dirigisticheche ancora una volta davano massimaimportanza alla volontà del Capo carismati-co, affidandogli il destino delle masse.

In questa prospettiva, la normativa dellasocializzazione delle imprese, peraltro for-temente ostacolata in concreto dall’occu-pante tedesco, rappresentò l’unica signifi-cativa e coerente novità, tuttavia, per l’as-senza di una vera e libera rappresentanzasindacale rimase anche essa estranea alle

coscienze operaie e sostanzialmente meroesercizio di scrittura giuridica.

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Martone

191

1 Sulla consistenza della docu-

mentazione amministrativa

della Repubblica Sociale Italia-

na cfr, la pubblicazione del

Ministero per i Beni e le Attivi-

tà Culturali Direzione Generale

per gli Archivi, Archivio Centra-

le Dello Stato, Verbali del Consi-

glio dei Ministri della Repubblica

Sociale Italiana, settembre 1943 –

aprile 1945, 2002.2 Dal punto di vista giuridico l’at-

tività legislativa ed amministra-

tiva del governo della R.S.I. fu

indagata nell’immediato dopo-

guerra con esclusivo riferimen-

to alla verifica della sua legitti-

mità; al riguardo soprattutto

Giannini 1951 e Ballarino 1968

con l’utile bibliografia in argo-

mento. 3 Sulla questione dell’esistenza

giuridica o meno del governo

della R.S.I. per l’ordinamento

giuridico dello Stato italiano, cfr.

Scardaccione 2002, vol. I, pp.

XXIV – XXVII.4 Giannini 1951, p. XXV. Sull’uso

della nozione di governo di fatto

per la R.S.I. più di recente: Pala-

dini 1990, pp. 78-80.5 Sulle nuove fonti documentarie

ora disponibili cfr. l’interessan-

te saggio di Ricci 2002, vol. I, pp.

LXVIII-XCIV.6 Carlo Alberto Biggini, professo-

re ordinario di diritto costituzio-

nale, ministro dell’Educazione

Nazionale della Repubblica

Sociale Italiana, fidato collabo-

ratore di Mussolini. Sul suo

ruolo costituente cfr. infra, in

particolare paragrafo 7.7 Fabio Andriola, nel suo recente

lavoro sul probabile carteggio

segreto Churchill-Mussolini,

accennando al ruolo di Biggini

sulla vicenda lo definisce un

moderato «di grande intelligen-

za e preparazione, stimato ed

apprezzato pure dagli antifasci-

sti che, in più di un caso, a fine

guerra intervennero a spendere

una parola in suo favore»

(Andriola 2007, pp. 314).8 La nuova civiltà fascista destina-

ta a seppellire quella borghese,

l’alternativa rivoluzionaria al

liberalismo ed al comunismo

generata dalla prima guerra

mondiale, aveva perso vigore

negli anni di consolidamento del

Regime. Il tragico epilogo del

fascismo, compromesso con la

borghesia e la monarchia, deter-

mina da parte di alcuni supersti-

Page 194: SGiornale di oria costituzionale · 167 Guerra civile e diritto: una costituzione per la Repubblica di Mussolini Luciano Martone 197 Colpo di stato a San Marino. Il processo del 1958

Ricerche

192

ti fascisti l’elaborazione di pro-

poste politiche legate alle origi-

ni. Una tendenza che spinse

Mussolini a cercare, nei primi

mesi di vita della Repubblica –

che definisce volutamente

sociale e non fascista – interlo-

cutori nella sinistra antifascista.

«Dal momento del suo rientro

in Italia e durante tutto il perio-

do repubblicano» – ha scritto

De Felice – «l’attenzione di

Mussolini per l’atteggiamento,

le idee, i programmi dell’antifa-

scismo di sinistra fu vivissimo e,

per quel che poteva essere in

quei frangenti, anche genuino»

(De Felice 1997, p. 378).9 Programma dei Fasci di Combat-

timento – giugno 1919 – in De

Felice 1965, Appendice, documen-

to n. 20, pp. 742-743.10 Bocca 1977, p. 84; sugli incontri

frequenti di Mussolini con

esponenti socialisti, ed ex fasci-

sti e sulla «politica transfascista

e di riconciliazione»: Klin-

khammer 2007, pp. 261 e ss.11 Nel corso del Congresso di Vero-

na fu dato «l’annuncio dell’as-

sassinio del federale di Ferrara,

Iginio Ghisellini (attribuito agli

antifascisti, in realtà perpetrato

dai suoi stessi camerati per con-

trasti interni, come avrebbe

concluso il processo celebrato

nel 1948)… squadre d’azione

partivano subito da Verona e da

Padova dirette in Romagna e a

Ferrara massacravano 17 antifa-

scisti, segnando una svolta deci-

siva nell’atteggiamento della

Repubblica di Salò verso gli

oppositori» (Oliva 1998, p.

208). La spedizione punitiva di

Ferrara fu un segnale forte diret-

to a sostenere l’aggressività di

combattenti ed a rendere evi-

dente l’impossibilità oggettiva di

qualsiasi tentativo di riconcilia-

zione sociale. 12 Così nella relazione svolta da

Pavolini al Congresso di Verona,

cfr. Viganó 1994, p. 137.13 Il progetto di costituzione di Vitto-

rio Rolando Ricci (nel testo tra-

smesso da Ermanno Amicucci), in

Franchi 1997, pp. 149 – 152.14 «Il Consiglio dei Ministri deli-

bera che a far parte dell’Assem-

blea Costituente vengono chia-

mati: i componenti il Governo

Fascista Repubblicano, il Diret-

torio del Partito Fascista Repub-

blicano, i Capi Provincie, i

Triumviri federali del Partito; i

presidi delle Provincie, i podestà

dei capoluoghi di provincia di

quelli con popolazione superio-

re ai 50mila abitanti, i rappre-

sentanti dei lavoratori, dei tec-

nici e dei dirigenti dell’indu-

stria, dell’agricoltura, del com-

mercio, del credito e dell’assi-

curazione, dell’artigianato, della

cooperazione; i rappresentanti

dei professionisti e degli artisti;

i rappresentanti dei dipendenti

statali; i rappresentanti delle

provincie invase; i rappresen-

tanti degli Italiani all’estero; i

presidi delle Associazioni nazio-

nali delle Famiglie dei Caduti in

guerra; delle Famiglie dei Cadu-

ti, dei mutilati, dei feriti per la

rivoluzione; dei Mutilati e Inva-

lidi di guerra; delle Medaglie

d’oro; del Nastro azzurro; dei

Combattenti; dei Volontari

d’Italia; della legione garibaldi-

na, delle Associazioni d’Arma; i

rappresentanti dei prigionieri di

guerra; i rappresentanti delle

Famiglie numerose; il Presiden-

te dell’Accademia d’Italia; i Ret-

tori delle Università; il I Presi-

dente della Corte Suprema di

Cassazione; i primi presidenti

delle Corti d’Appello; i presi-

denti del Tribunale Speciale per

la Difesa dello Stato e del Tribu-

nale Supremo militare; i presi-

denti del Consiglio di Stato e

della Corte dei Conti» (Verbale

riunione del Consiglio dei ministri

16 dicembre 1943, in Verbali del

Consiglio dei Ministri della Repub-

blica Sociale Italiana, vol. I, pp.

165 – 166).15 Così si esprimeva Rolando Ricci

sul Corriere della Sera del 10

dicembre 1943 nell’articolo inti-

tolato In vista della Costituente.16 In realtà la bozza, composta di 31

articoli e una breve appendice,

nella sua versione originale non

riporta alcuna firma o altro ele-

mento che consenta una incon-

testabile attribuzione di pater-

nità. Il riferimento archivistico

è il seguente: Archivio Centrale

dello Stato, Segreteria Particola-

re del Duce, Repubblica Sociale

Italiana, Carteggio Riservato

(1943 – 1945), ACS, SPD, RSI,

CR, fascicolo 24; la bozza è stata

pubblicata in Verbali del Consiglio

dei Ministri della Repubblica

Sociale Italiana, vol. I, pp. 172 –

182, ed ha il seguente titolo:

Alcune idee sul futuro assetto poli-

tico e sociale del popolo italiano,

d’ora in poi Bozza ’43.17 Decreto per il sequestro di beni

appartenenti a cittadini di razza

ebraica, articolo 1, I comma: «Le

opere d’arte pura od applicata

appartenenti a persone di razza

ebraica o a istituzioni israeliti-

che sono sottoposte a seque-

stro», in Verbali del Consiglio del

Ministri della Repubblica Sociale

Italiana, vol. I, p. 108.18 Bozza ’43, articolo 14°, p. 174.19 Leibholz 2007 (1928), p. 45.

Nella bozza al silenzio sulle attri-

buzioni del Duce corrisponde

un’ampia trattazione delle com-

petenze legislative. Per contro da

un punto di vista storico-istitu-

zionale il fascismo aveva deter-

minato una configurazione

nuova dei rapporti tra esecutivo

e legislativo evitando sia una

rappresentanza del popolo attra-

verso il Parlamento, sia riducen-

do, con la creazione della Came-

ra dei Fasci e delle Corporazioni,

la sua funzione a una mera atti-

vità tecnica subordinata alla

volontà di Mussolini. Giusta-

mente già nel 1928 Gerhard Lei-

bholz parlava per il fascismo di

«struttura cesaristico-rappre-

sentativa» (Ibidem, p. 43)

Page 195: SGiornale di oria costituzionale · 167 Guerra civile e diritto: una costituzione per la Repubblica di Mussolini Luciano Martone 197 Colpo di stato a San Marino. Il processo del 1958

Martone

193

cogliendo nel suo fondamento

plebiscitario un elemento di

profonda differenza con ogni

espressione costituzionale

riconducibile alla democrazia. 20 La lettera del 27 maggio 1944 –

conservata in ACS, SPD, RSI, CR,

fascicolo 24 – è citata da Gari-

baldi 1983, p. 108; Franchi 1997

p. 17; De Felice 1997, II, p. 416.21 Si tratta dei «52 fogli di carta da

bozze legati assieme con un

nastrino di seta bianco» di cui

diede notizia Garibaldi 1983 p.

108.22 Nicola Bombacci (1879 – 1945),

socialista e poi fondatore con

Gramsci nel 1921 del partito

comunista era vecchio compa-

gno e conterraneo di Mussolini.

Sino alla prima guerra mondia-

le condivise con lui molte batta-

glie politiche. Nel gennaio del

1920 presentò un progetto di

costituzione dei Soviet in Italia

che però ottenne pochi consen-

si e molte critiche da parte dei

compagni. Dal 1933 si avvicinò

al fascismo, ma sempre da sini-

stra; tollerato dal Regime, fondò

e diresse la rivista «La Verità».

Dopo l’8 settembre 1943, con-

vinto che si potesse finalmente

attuare il socialismo nazionale

scelse di sostenere la Repubbli-

ca di Mussolini. È da attribuire a

lui l’iniziativa per quel progetto

di socializzazione, che con obiet-

tivi più modesti, fu varato nel

1944. Durante i mesi della R.S.I.

ebbe costanti contatti con Mus-

solini sino agli ultimi giorni del-

l’epilogo di Dongo catturato

insieme a Mussolini. Fu fucilato

dai partigiani sulla riva del Lago

di Como il 28 aprile 1945. Sui

rapporti Mussolini – Bombacci:

Salotti 1986; De Felice 1997, II,

pp. 539 – 540; Klinkhammer

2007, pp. 250 – 252; Peregalli

1986, pp. 31-38.23 Linee di un movimento per un

governo – stato – regione (sociali-

sta) capace di intendere e di risol-

vere tutti i grandi problemi del

popolo (lasciato al Duce dal gior-

nalista SILVESTRI). Visto e ricon-

segnato dall’ecc. Pavolini 17/12),

in ACS, RSI, SPD, CR, Carte Sil-

vestri, Inv. 50/3, busta 7, fasci-

colo 33. Il memoriale suddiviso in

10 punti programmatici, consta

di nove cartelle dattiloscritte. 24 Ibidem, p. 7. Nel Memoriale Carlo

Silvestri sintetizzò il proprio

punto di vista in una serie di

affermazioni di principio. La

parte più interessante è senz’al-

tro quella che riflette sull’espe-

rienza del passato Ventennio:

«Al regime totalitario e dispoti-

co reggentesi sull’impedimento

alla manifestazione delle idee di

opinioni non strettamente con-

formistiche, occorre peraltro

contrapporre non la sterile cri-

tica superficiale né la unilatera-

le reazione degli interessi lesi o

dei sentimenti offesi, bensì la

visione alta ed il linguaggio viri-

le di un MOVIMENTO …che si

proponga: 1) ristabilimento

delle garanzie statutarie col

dilemma: Costituzione o Costi-

tuente; e l’avvento di un REGI-

ME COSTITUZIONALE RAP-

PRESENTATIVO democratico e

autoritario, unitario e organico,

che faccia luogo ad un’ammini-

strazione pubblica rispondente

ai criteri basilari: – della legitti-

mità – moralità (derivazione e

controllo popolare); – della

capacità (uomini adatti al posto

adatto); – della stabilità (l’Ese-

cutivo governa, il Legislativo col-

labora e controlla) (Ibidem, p. 6).25 Rolando Ricci, Progetto di Costi-

tuzione; il testo risulta articolato

in 22 punti, prevede l’eleggibi-

lità delle donne sia al Senato che

alla Camera (IBidem, punto 12°,

p. 151).26 De Felice 1997, II, p. 417. De

Felice accenna anche a testi

inviati a Mussolini spontanea-

mente da politici e studiosi, tra

questi cita il caso del prof. Fran-

cesco Cosentino autore di una

costituzione preparata per il

presidente del Messico nel 1932

e prontamente riadattata per la

R.S.I. (Ibidem, p. 389).27 Cfr. supra nota 22.28 De Felice 1997, II, p. 541. Secon-

do Angelo Tarchi, l’autore del

decreto sulla socializzazione

delle imprese approvato il 12

febbraio 1944 dal Consiglio dei

Ministri della repubblica Socia-

le Italiana, l’espressione «socia-

lizzazione» venne suggerita a

Mussolini da Nicola Bombacci:

«Ritengo che la parola socializ-

zazione sia stata suggerita da

Bombacci a Mussolini, in quan-

to nella mia relazione sulla orga-

nizzazione economica dello Stato

repubblicano del Lavoro, avevo

insistito più sulla collaborazio-

ne sociale che si riallacciava

all’idea corporativa sviluppan-

done i concetti» (Tarchi 1967, p.

49).29 Sull’ultimo viaggio di Mussolini

e Bombacci sulla riva sinistra del

Lago di Como, cfr. Petacco 1996,

p. 223.30 Pavolini, rispetto a Biggini, era

più giovane di un anno, essendo

nato nel 1903.31 BOZZA ’43, articolo 2°: «Le ele-

zioni si svolgeranno col sistema

della proporzionale per dare

modo a tutti i partiti ed a tutte le

correnti della nazione di essere

rappresentati nel supremo con-

sesso». E sempre a questa aper-

tura democratica corrispondeva

poi il dettato del successivo arti-

colo 8°: «Il diritto di voto sarà

concesso ad ambo i sessi appena

compiuto il 24° anno di età,

anche le donne possono essere

eleggibili. Il voto ad ambo i sessi

è un atto di giustizia perché

anche la donna nella vita ha una

funzione sociale non meno

importante dell’uomo, il diritto

viene esercitato appena compiu-

to il 24° anno di età per ragioni

di una maggiore maturità di

coscienza».32 BOZZA ’43, articolo 7°, I comma:

«Ampia libertà per tutti di riu-

Page 196: SGiornale di oria costituzionale · 167 Guerra civile e diritto: una costituzione per la Repubblica di Mussolini Luciano Martone 197 Colpo di stato a San Marino. Il processo del 1958

nione, di associazione, di stam-

pa, di culto».33 BOZZA ’43, articolo 9°, I comma:

«Coscrizione obbligatoria abo-

lita, creazione di una milizia

nazionale volontaria per l’ordine

pubblico».34 BOZZA ’43, articolo 5°, I comma:

«Autonomie comunali e regio-

nali, soppressione delle provin-

cie».35 BOZZA ’43, articolo 4°: «Magi-

stratura indipendente; i magi-

strati eletti con plebiscito popo-

lare, così pure delle liste dei giu-

rati, i primi a vita, i secondi rin-

novabili ogni cinque anni. La

Giustizia non subirà alcuna

influenza esterna, né sarà più al

servizio di correnti dominanti,

ma libera e indipendente dovrà

essere, i suoi giudizi verranno

presi con assoluta tranquillità

secondo i dettami della propria

coscienza; … Anche l’attuale

sistema di detenzione e pena

dovrà essere riveduto, studiato e

modificato».36 Negli ultimi anni del Regime le

norme di discriminazione raz-

ziale avevano trovato concreta

applicazione nonostante una

giurisprudenza orientata «a

ricondurre l’aberrante legisla-

zione razziale entro il quadro

ordinamentale complessivo per

originarne la potenzialità espan-

siva (Speciale 2007, p. 171).37 BOZZA ’43, articolo 18°, I comma.38 «Togliere bruscamente la pro-

prietà a chi ne ha in esuberanza,

alcuni crederanno di poter

sostenere che è un principio

immorale. Ciò non corrisponde

al vero, perché il capitale è il

risultato di uno sfruttamento più

o meno lungo del lavoro altrui o

frutto di scaltrezza e di corruzio-

ne di ogni genere ai danni della

collettività nazionale. Togliere

questo capitale e metterlo a

disposizione esclusivamente di

chi lavora costituisce una ripa-

razione di giustizia sociale, sarà

il più grande omaggio che l’at-

tuale generazione possa rendere

ai suoi avi che nei secoli passati

hanno sofferto, patito, e tante

volte maledetto chi gli aveva dato

il bene dell’esistenza nel veder-

si portar via il frutto delle loro

fatiche e del loro lavoro mancan-

te per i propri figli», BOZZA ’43,

articolo 18°.39 Ibidem.40 Ibidem.41 «Il diritto all’eredità è limitato

ai figli legittimi, i beni goduti dai

celibi e dai coniugi senza prole,

alla fine della loro esistenza pas-

seranno a disposizione della col-

lettività nazionale» (BOZZA ’43,

articolo 21°, I comma).42 Pombeni 1995, p. 41. In effetti,

nel corso del Ventennio lo Stato

fascista si era realizzato in modo

compiuto «attraverso la decisio-

ne sempre rinnovata del Capo, il

cui carisma – anche diventando

esteriormente visibile nello stile

del discorso e nel gesto – (aveva

animato) la massa e (trasforma-

to) la società meccanizzata in una

comunità» (Leibholz 2007 p.

75). L’aspetto dinamico aveva

sempre allontanato ogni modi-

fica statutaria nonostante l’avve-

nuta negazione dello Stato costi-

tuzionale rappresentativo libe-

ral – borghese. Come era evi-

dente a Leibholz già nel 1928 «la

Costituzione in Italia (era) solo

più una legge cornice, che può

conferire le basi giuridiche agli

ordinamenti più differenti e

opposti fra loro» (Ibidem, pp.

10-11). Il patto con la monarchia

non consentiva peraltro un rin-

novamento più profondo e com-

pleto, ma solo un’integrazione

pragmatica del sistema statale.43 Il decreto di socializzazione pre-

disposto da Angelo Tarchi pre-

vedeva la cogestione degli ope-

rai alla direzione delle imprese

e la loro partecipazione alla pro-

prietà delle azioni. Nella Bozza

’43, sempre articolo 18°, le idee

di fondo espresse erano molto

più estreme: «Lo Stato stabilito

il valore di uno stabilimento

industriale, lo suddividerà in

tante parti uguali fra gli operai

addetti così si formeranno delle

quote capitali per ciascun ope-

raio e per chi non avesse la pos-

sibilità di riscatto immediato, lo

Stato nella sua gestione provvi-

soria, sia cogli utili derivanti

dall’azienda e con trattenute

adeguate per ciascun operaio

andrà ad integrare la formazione

delle quote capitali spettanti a

ciascuno e solo allora lo Stato

cederà l’industria agli operai ed

ai tecnici costituitisi in associa-

zione cooperativa». In altri ter-

mini l’autore della Bozza sostie-

ne un vero e proprio esproprio

generalizzato degli stabilimenti

industriali da parte dello Stato e

la successiva attribuzione in

proprietà pro quota ai lavoratori.44 Articolo 31°, II comma, BOZZA

’43. In sintonia con questo prin-

cipio, l’affermazione di istruzio-

ne e formazione culturale libera

e senza condizionamenti politi-

ci e religiosi: «La scuola non

avrà dogmi. Saranno escluse le

influenze politiche e religiose,

l’insegnamento sarà aperto alle

grandi correnti di pensiero, i

programmi verranno ampia-

mente discussi dal corpo degli

insegnanti stessi», Articolo 15°,

II comma, BOZZA ’43.45 Sul punto in maniera esplicita

De Felice 1997, II, p. 400, che

riporta l’opinione di Pavolini

desunta dalla sua relazione sulla

ripresa fascista e la preparazio-

ne della Costituente, ora in Pao-

lucci 1979, pp. 135-140.46 Il progetto di Costituzione di

Carlo Alberto Biggini, d’ora in

poi PROGETTO BIGGINI, è pub-

blicato in Franchi 1997, pp. 153

– 196.47 Sulle vicende istituzionali del

periodo fascista: Martucci 2002,

in particolare pp. 161-248.48 PROGETTO BIGGINI, articolo 1.49 Sul punto Biggini è esplicito.

Nella Premessa del progetto il

Ricerche

194

Page 197: SGiornale di oria costituzionale · 167 Guerra civile e diritto: una costituzione per la Repubblica di Mussolini Luciano Martone 197 Colpo di stato a San Marino. Il processo del 1958

professore dichiarava di voler

«interpretare la sostanza della

dottrina fascista, senza usarne

frequentemente l’espressione.

Avverto però che ciò non corri-

sponde alla mia opinione, che

sarebbe nel senso del più aperto

ricollegamento a un sistema di

cui dobbiamo essere fieri, e che

ci ha spiritualmente posto alla

testa della nuova Europa».50 Sulla differenza tra cittadinanza

e sudditanza nell’esperienza

coloniale italiana rinvio a Mar-

tone 2002, pp. 41 e ss.51 Si veda al riguardo il 7° dei

diciotto punti del Manifesto di

Verona – recepito dagli articoli

89 e 90 del PROGETTO BIGGINI –

che con chiarezza enunciava, tra

le altre direttive programmati-

che, anche la seguente: «Gli

appartenenti alla razza ebraica

sono stranieri. Durante questa

guerra appartengono a naziona-

lità nemica».52 Garibaldi, nel suo lavoro sull’at-

tività di Biggini, quale ministro

della Repubblica di Salò, pur

riconoscendo che tre articoli –

73, 89, 90 e non solo – del suo

progetto di Costituzione conte-

nevano norme di discriminazio-

ne razziale, riporta episodi di

ebrei da lui aiutati a sostegno

della sua convinzione secondo

cui «Biggini non era razzista, né

tantomeno antisemita» (Gari-

baldi 1983, p. 113).53 A commento dell’articolo 105 del

suo progetto, Biggini ritenne di

precisare in una nota esplicativa

che «la proclamazione del

rispetto della proprietà privata

vale a eliminare ogni equivoco su

pretese tendenze consumisti-

che». Una scelta di campo netta,

inconciliabile con ideologie che

ispirava la BOZZA ’43.54 «La coscrizione militare è un

servizio d’onore per il popolo

italiano, ed un privilegio per la

parte più elevata di esso. Tutti i

cittadini hanno il diritto e il

dovere di servire in armi la

Nazione, quando ne abbiano la

idoneità fisica e non si trovino

nelle condizioni di indegnità

morale, stabilite dalla legge»

(PROGETTO BIGGINI, articolo

59). Al riguardo, poi Biggini,

aggiungeva una nota esplicativa

tendente ad affermare il carat-

tere di diritto oltre che di obbli-

go del servizio militare nell’or-

dine fascista e precisava per sot-

tolinearne ulteriormente il

peculiare privilegio, che proprio

per tale intrinseca qualità «gli

ebrei furono esclusi e non esen-

tati dal servizio militare».55 «La Camera dei rappresentanti

del lavoro è composta di un

numero di membri pari a 1 ogni

100.000 abitanti, eletti col siste-

ma del suffragio universale

diretto da tutti i cittadini lavo-

ratori maggiori degli anni 18»

(PROGETTO BIGGINI, articolo

17).56 PROGETTO BIGGINI, articolo 85:

«i Comuni e le Provincie son

enti ausiliari dello Stato. La loro

istituzione e le loro circoscrizio-

ni sono regolate dalla legge».57 Ibidem, articolo 97.58 Ibidem, articolo 98.59 Supra nota 45.60 Il PROGETTO BIGGINI, articolo

83, precisava inoltre: «la

Repubblica Sociale Italiana con-

sidera fondamento e corona-

mento dell’istituzione pubblica

l’insegnamento della Dottrina

cristiana secondo la forma rice-

vuta dalla tradizione cattolica».61 In effetti Mussolini non inviò a

Biggini, con la nota lettera del 27

maggio 1943 una copia della

Costituzione della Repubblica

Romana, ma solo un articolo di

giornale che trattava dell’argo-

mento. Nel fascicolo d’archivio

è conservata anche la nota di tra-

smissione della lettera autogra-

fa di Mussolini, dove si legge:

«Inviato il plico tramite il Que-

store Apollonio 25.5.XXII: 1)

Progetto di Carta Costituziona-

le; 2) Articolo sul giornale dal

titolo «Costituzione della

Repubblica Romana»» (Nota

della Segreteria Particolare del

Duce, in ACS, SPD, RSI, CR, b.2,

fascicolo 24).62 PROGETTO BIGGINI, articolo 12.63 Sul modello dello Stato corpora-

tivo, cfr. il recente, documenta-

to lavoro, di Stolzi 2007.64 PROGETTO BIGGINI, articolo 40.65 Ibidem, articoli 45, 49 e 54. 66 Ibidem, articolo 51 67 BOZZA ’43, articoli 2 e 3.68 PROGETTO BIGGINI, articolo 35:

«Il duce della Repubblica Socia-

le Italiana è il Capo dello Stato.

Quale supremo interprete della

volontà nazionale che è la volon-

tà dello Stato, realizza in sé l’uni-

tà dello Stato». 69 Accenni sommari alla legislazio-

ne sulla socializzazione delle

imprese in Bonini 1993, pp. 23 e

ss.70 Klinkhammer, nel suo interes-

sante e documentato studio,

rileva anche lo scarso impatto tra

gli operai delle norme sulla

socializzazione (2007, p. 255).

Sugli esiti del progetto Tarchi

cfr. anche Ganapini 2002, pp.

370-401.71 Gli ultimi mesi di vita di Biggini

sono oggetto di dettagliata rico-

struzione biografica da parte di

Fabio Andriola il quale sostiene

che Mussolini affidò al profes-

sore documenti importanti «sia

per le capacità, sia per l’indi-

scussa fedeltà» (Andriola 2007,

p. 315) dimostrata nei momenti

più difficili. Secondo Andriola,

Biggini custodiva tra l’altro copia

del presunto carteggio Chur-

chill-Mussolini consegnato poco

alla volta da quest’ultimo a Big-

gini nel corso delle sue varie

udienze a Villa Feltrinelli. Car-

teggio che Biggini il 26 aprile, in

piena insurrezione, non fece in

tempo a prelevare dalla sua resi-

denza.

Martone

195

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1. Un episodio poco conosciuto dell’ epoca

della guerra fredda, e della stagione stori-

ca del primo disgelo nei rapporti tra le

Potenze internazionali dell’ “Ovest atlanti-

co” e dell’“Est sovietico”, è la crisi politica

di San Marino del 1957. Crisi politica che

poco mancò non sfociasse in un conflitto

aperto con l’Italia. I giornali italiani (e

numerosi giornali europei) diedero

all’epoca grande evidenza alla vicenda. Cre-

diamo possa far piacere a molti di coloro

che intorno alla metà degli anni cinquanta

erano ragazzi, o giovani studenti universi-

tari – e che oggi hanno ormai i capelli bian-

chi – ricordarne i tratti ed i momenti più

drammatici. Le cose andarono più o meno

come cercheremo di raccontare.

Dalle elezioni politiche del 1955 nella

Repubblica di San Marino era emerso una

Camera rappresentativa – il Consiglio Gran-

de e Generale – composto da 23 consiglieri

del PDCS (Partito democratico cristiano

sanmarinese); 19 del PCS (Partito comuni-

sta sanmarinese); 2 del PSDS (Partito

socialdemocratico sanmarinese). La com-

posizione politica del consiglio Grande e

Generale consentiva ai gruppi politici

comunista e socialista di godervi di una

maggioranza sufficiente per conservare il

governo (che già teneva in pugno da dieci

anni), insediando nel ruolo di Capitani

Reggenti due propri esponenti. Si formò

quindi nel 1955 un governo basato su una

maggioranza consiliare socialcomunista –

pari a 35 voti, rispetto ai 26 dell’opposizio-

ne – del tutto similmente a quello che era

avvenuto nella precedente legislatura, in cui

il governo era stato sostenuto dalla coali-

zione .fra Partito comunista sanmarinese e

Partito socialista sanmarinese.

Nel 1956 si ebbero i fatti di Ungheria,

cioè a Budapest scoppiò una rivolta popo-

197

Colpo di Stato a San Marino. Il processo del 1958 ai ‘golpisti’ ed il parere accusatorio di Antonio Amorth*

aldo bardusco

giornale di storia costituzionale n. 16 / ii semestre 2008

* Uno speciale ringraziamento al prof. Augusto Barbe-

ra, ordinario di Diritto costituzionale nell’Università di

Bologna, e membro del Consiglio di Giustizia costituziona-

le di San Marino, che ha ritrovato negli archivi della Repub-

blica il parere steso da Antonio Amorth nel 1958, e che lo

ha messo con grande cortesia a disposizione dell’autore,

antico allievo di Amorth.

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lare contro il regime comunista unghereseasservito all’U R S S. Dopo poche settima-ne seguì la reazione del blocco sovietico. IlPatto di Varsavia invase con i propri eser-citi l’Ungheria, e schiacciò la rivolta nelsangue. Il partito comunista di Ungheria fulacerato da divisioni interne ed il sistema digoverno comunista interno entrò in crisi. Ilprimo ministro ungherese Imre Nagy preseposizione nel senso di una politica di auto-nomia rispetto all’ URSS; la popolazioneungherese di Budapest e di altre città scesein piazza contro il regime di sudditanzapolitica verso l’Unione sovietica. Mal’Unione sovietica (al governo si era inse-diato da pochi anni Nikita Krusciov) pro-mosse e guidò con intransigenza l’occupa-zione dell’Ungheria mettendosi alla testadegli eserciti del patto di Varsavia. E larivolta popolare degli ungheresi (autunno1956) contro i militari russi ed i loro allea-ti comunisti fu – come si diceva – brutal-mente repressa nel sangue. Imre Nagyvenne prima arrestato e poi fucilato. Que-sti eventi ebbero una grande eco in tutto ilmondo. Fra l’altro nel febbraio 1957 i socia-listi italiani – guidati da Pietro Nenni –compirono una scelta storica decidendo,nel Congresso di Venezia, di sciogliere ilpatto (c.d. patto di unità d’azione) che lilegava da anni al Partito comunista italiano(diretto da Togliatti), e di intraprendere unpercorso politico svincolato dai comunisti.

2. A San Marino nel marzo 1957 AlvaroCasali, consigliere e Segretario del Partitosocialista, fu espulso, unitamente ad altri 4suoi colleghi (Consiglieri del piccolo Par-lamento sanmarinese ) dal partito sociali-sta di San Marino per particolari dichiara-

zioni (una presa di posizione pubblica)pesantemente ostili al partito comunista.I cinque si staccarono – una volta espulsidalla maggioranza governativa comunistae socialista – costituendo un gruppo a sé: ilPartito socialista indipendente sanmari-nese; e si allearono con l’opposizione. Sicreò in Consiglio una situazione instabiledi 30 consiglieri contro 30. La “maggio-ranza“ che sosteneva il Governo si trovavaa dipendere dalla presenza in aula dei Con-siglieri – sempre assidui e sempre vigili –che la costituivano. Il Governo dei Capita-ni reggenti eletti nel 1955 comunque nonsi dimise.

Venne infine il momento in cui il Con-siglio Grande doveva essere convocato dallaReggenza per il semestre 1° ottobre 1957 –1° aprile 1958, così come previsto dallaCostituzione sanmarinese. Infatti gli Sta-tuti di San Marino impongono che si pro-ceda ogni due anni alla elezione dei Capi-tani Reggenti, e quindi la convocazione delConsiglio era un passaggio obbligato; pertale seduta non è stabilita un quorum mini-mo di partecipanti; la seduta è valida qua-lunque sia il numero dei presenti.

In prossimità della riunione del Consi-glio del 19 settembre Attilio Giannini, con-sigliere del Partito comunista sanmarinese,lasciò la maggioranza e passò all’opposizio-ne, dandone annuncio alla Reggenza. LaReggenza poco dopo ricevette le lettere didimissione dal Consiglio di 34 consiglieridel Partito socialista e del Partito comuni-sta sanmarinesi. Questi partiti avevanofatto sottoscrivere a tutti i loro candidati (almomento dell’accettazione della candida-tura per le elezioni del 1955, delle lettere di“dimissioni in bianco”; e fra le 34 letteredi dimissioni presentate alla Reggenzac’erano anche quelle dei 5 consiglieri socia-

Ricerche

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listi passati dalla maggioranza all’opposi-zione e che non avevano certo più intenzio-ne di dimettersi. Sulla base delle 34 lette-re di dimissioni la Reggenza sciolse il Con-siglio e preannunciò la convocazione deiComizi elettorali per il rinnovo del Consi-glio stesso. Per cui la seduta del 19 settem-bre, già convocata per l’elezione dei nuoviCapitani Reggenti ( il Governo di San Mari-no) per il semestre 1.10.1957-1. 4 .1958 nonebbe luogo. Con la forza pubblica la Reg-genza impedì ai 31 consiglieri costituenti lanuova maggioranza di raggiungere la Saladel Consiglio (all’interno del Palazzo Pub-blico di San Marino), per votare nell’ ele-zione dei nuovi Capitani Reggenti; i qualisarebbero stati espressione, appunto, dellanuova maggioranza.

La nuova maggioranza era costituita datre partiti, oltre all’indipendente AttilioGiannini: il Partito democratico cristiano;il Partito socialdemocratico ed il Partitosocialista indipendente. Il 30 settembrequesta stessa maggioranza diede vita ad ungoverno provvisorio che si insediò in loca-lità “Rovereta”; un promontorio sanmari-nese aggettante sul territorio italiano sulversante di Rimini. Come sede il nuovoGoverno assunse un capannone industria-le, che venne occupato ed adibito a sedeprovvisoria. I governi italiano ed america-no notificarono subito il riconoscimentodel governo sanmarinese sostenuto dallanuova maggioranza.. Anzi: il Governo ita-liano, presieduto dal democristiano Zoli,fece di più: inviò alcune centinaia di cara-binieri a “proteggere” – minacciosamenteaccampati su suolo italiano, ma sul perime-tro del promontorio di Rovereta – l’inse-diamento del nuovo governo sanmarinese.

L’ 11 ottobre 1957 i vecchi Capitani Reg-genti espressi dalla maggioranza socialco-

munista cedettero ed abbandonarono ilPalazzo Pubblico. Ivi si installò il 14 ottobresuccessivo il c.d. “governo provvisorio” diSan Marino. Quindi il Consiglio Grande siriunì, e procedette all’elezione dei nuoviCapitani Reggenti, con scadenza al 1° apri-le 1958.

3. Il 14 novembre 1957 fu nominato unospeciale Collegio di Giudici Sindacatori(due giudici assistiti da due “testi”) alloscopo di sindacare l’operato della Reggen-za svolta dai due Capitani Reggenti che sierano dimessi l’11 ottobre. I Giudici richie-sero, così come consentito dallo StatutoSanmarinese, il parere di un Consulenteneutrale. Si trattava di un caso assoluta-mente nuovo. Un caso difficile e comples-so sul piano giuridico-costituzionale; epoliticamente imbarazzante al contempo.Il Consulente prescelto fu Antonio Amorth,professore di Diritto amministrativo nell’ Uni-

versità di Modena, ma anche prestigioso erispettato docente di diritto costituziona-le. Va anche spiegato che Amorth – cattoli-co molto legato a Giuseppe Dossetti – dallametà degli anni cinquanta si occupava sem-pre meno di politica. L’istruttoria ed ildibattimento si prolungarono, poi sinoall’inizio della primavera del 1958. Il pare-re fu completato da Amorth in Modena il26 marzo 1958 (in Italia si era alla vigiliadelle elezioni politiche per la terza legisla-tura).

Amorth consulente apre il suo parerecon la premessa di essere stato richiesto dalCollegio dei Sindacatori della Repubblicadi pronunciarsi sull’attendibilità e consi-stenza giuridica delle accuse mosse controgli ex Capitani Reggenti da alcuni cittadini

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sanmarinesi con quattro ricorsi – accuseribadite dal Procuratore fiscale ai sensidelle Leggi Statutarie di San Marino (rub.XIX). Il parere viene elaborato da Amorthalla luce di una documentazione completasul caso: i ricorsi accusatori dei cittadinidenuncianti; la requisitoria del Procurato-re Fiscale; la memoria difensiva presenta-ta dagli accusati; la documentazione ordi-nata per istruttoria dal Collegio dei Sinda-catori. Soprattutto Antonio Amorth mettein chiaro una premessa: egli considera suodovere quello di «contenere il parere entrol’ambito dei fatti e delle accuse che risulta-no dagli atti citati». Circa i fatti egli sog-giunge che «non si rivela discordanza tragli accusati e gli accusatori quanto aglieventi che ebbero a costituirli, pur notan-do che non sempre vi è una loro esposizio-ne distinta dalla formulazione delle accusee delle ripulse alle contestazioni».

I fatti su cui Amorth impernia la suaanalisi e le relative valutazioni si possonosintetizzare – con le parole stesse del pare-re da lui formulato – come segue.

1) Il colpo di grazia alla coalizione dimaggioranza comunista-socialista (chesosteneva i vecchi Reggenti) venne infertonella mattinata del 19 settembre 1957,quando il consigliere Attilio Giannini, cheapparteneva quale indipendente al gruppocomunista, dopo avere annunciato dilasciare questo gruppo, dichiarava formal-mente alla Reggenza che avrebbe aderitoalla nuova maggioranza consiliare, compo-sta dai gruppi democristiano, socialistademocratico e socialista indipendente.

2) Tale dichiarazione veniva presentataalla Reggenza insieme alla comunicazione(sottoscritta ai rispettivi Consiglieri) che si

era costituita una nuova maggioranza con-siliare, implicitamente affermandosi chead essa sarebbe spettato il governo dellaRepubblica e che da essa innanzi tuttosarebbero stati tratti i nuovi Capitani Reg-genti da eleggersi tra poche ore.

3) Nella mattinata di quella famosa gior-nata si era avuto qualche sentore di mano-vre per parte del gruppo comunista-socia-lista, dopo che era stata comunicata la for-mazione della nuova maggioranza. Per que-sto un gruppo di consiglieri della nuovamaggioranza aveva ritenuto prudente otte-nere un colloquio coi Capitani Reggenti,che avevano dato le più ampie rassicurazio-ni circa lo svolgimento della seduta pome-ridiana del Consiglio; mentre verosimil-mente si stava già stampando nel frattem-po il comunicato con l’ordinanza di scio-glimento.

4) Il nuovo Gruppo consiliare di mag-gioranza si recava al Palazzo pubblico perpartecipare alla seduta indetta per le ore 15del 19 settembre, ma si trovava il portonesbarrato e presidiato dalla forza; e qualcheConsigliere che tentava di penetrare nelPalazzo «per via traversa», ne venivarespinto. I Capitani reggenti prendendoatto di una serie di dimissioni dal Consi-glio Grande, risultanti da lettere sottoscrit-te da un certo numero di Consiglieri (tracui loro stessi come Capitani), avevanodisposto con ordinanza lo scioglimento delConsiglio, in vista di nuove elezioni.

5) Il Gruppo consiliare della nuova mag-gioranza – convinto dell’arbitrarietà edincostituzionalità di tali misure e dell’or-dinanza che aveva disposto lo scioglimen-to del Consiglio Grande – «assumeva i

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provvedimenti del caso» istituendo unGoverno provvisorio che riparava in unaparte del territorio della Repubblica (lasopra citata località Rovereta ).

6) Nel frattempo la vecchia Reggenzadisponeva la istituzione di una miliziavolontaria (entità del tutto nuova a SanMarino) «allo scopo di salvaguardare l’or-dine pubblico e l’incolumità dei cittadini»,mentre si erano convocati i comizi eletto-rali per il giorno 3 novembre 1957.

4. Antonio Amorth enuncia fin dall’inizio lasua posizione. «A mio avviso le gravi accu-se rivolte contro gli ex Capitani ReggentiGiordano Giacobini e Primo Marani sonoin buona parte fondate; inaccettabili,inconsistenti e talora assurde quasi tutte leargomentazioni difensive; dimostrabile ladolosa perpetrazione di un “attentato” allaCostituzione». La base di tutto il ragiona-mento di Amorth è che il Consiglio Grandee Generale (l’Assemblea rappresentativa)non può venire costituzionalmente sciolto.Meno che mai può ammettersi che siano iCapitani Reggenti ad essere titolari delpotere di scioglimento. Manca nell’ordina-mento costituzionale sanmarinese un orga-no corrispondente al Capo dello Stato che è,per regola, titolare quanto meno formale diquesto potere. Del resto – osserva l’Autoredel parere – riferimenti di diritto compa-rato a sistemi di governo analoghi a quellodella Repubblica di San Marino, come ades. al governo direttoriale della Svizzera,confermano che anche in essi difetta unpotere di scioglimento dell’assembleasovrana.

Al rinnovo totale del Consiglio si deve

andare quando per dimissioni o altra causastraordinaria esso venisse a perdere la metàpiù uno dei suoi membri. Ma non basta lapresentazione delle lettere di dimissioni daparte della metà dei Consiglieri, più uno;per dichiararsi realizzata l’ipotesi di rinno-vo necessario. Per essere efficaci (Amorthscrive «efficienti») le dimissioni debbonoessere prima accettate – a’ sensi di Regola-mento consiliare – dal Consiglio. «E sismentisce così l’assurda tesi difensiva perla quale appena fatte valere le dimissioni ilConsiglio avrebbe cessato di esistere; giac-ché il Consiglio regolarissimamente ecostituzionalmente sussisteva, sino a quan-do i suoi consiglieri non erano stati dichia-rati dimissionari». Il parere si sviluppa,quindi, in un crescendo di critiche e cen-sure alla condotta dei vecchi Capitani Reg-genti.

Nella parte centrale del suo parereAntonio Amorth prende una posizionemolto dura, anche se argomentata con ser-rata logica giuridica. Egli sottolinea conimpeto (usando una certa enfasi) che ilricorso alla forza per impedire l’adunanzadel Consiglio è un indice della volontà dolo-sa di coloro che ne avevano disposto lo scio-glimento. «Volontà dolosa nel disporre loscioglimento del Consiglio Grande e Gene-rale, attentandone alla sovranità; volontàdolosa nel proibire con la forza ai consi-glieri l’accesso alla sede del Consiglio perimpedire l’elezione dei nuovi Capitani Reg-genti; in entrambi i provvedimenti unavolontà dolosa falsata anche nella sua fina-lità ultima – prosegue enfaticamente loscritto – quella di conservare la Reggenzaal gruppo comunista-socialista, nonostan-te i mutati rapporti tra maggioranza eminoranza… Se infatti si fosse potuto leal-mente invocare un valido e legale motivo

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per quella straordinaria misura, lo si sareb-be proclamato senza timore di cautelarsicoll’uso della forza, avendo per sé il dirit-to; ma il vero è che gli ex Capitani Reggen-ti dovevano conoscere benissimo altredisposizioni legislative, che essi si sonorifiutati di applicare».

Quali altre disposizioni? Almeno duenorme statutarie che il parere richiama for-malmente.

A) Quella che fa obbligo di provvederealla elezione dei Capitani Reggenti entro laseconda decade dei mesi di marzo e di set-tembre; B) quella che – in rapporto allanecessaria continuità della carica reggen-ziale – e insieme alla brevità della sua dura-ta – dichiara valida l’adunanza del Consiglioper la elezione dei nuovi Capitani Reggen-ti «qualunque sia il numero dei Consiglie-ri intervenuti».

5. Gli argomenti difensivi dei due Capita-ni Reggenti imputati nel processo sembra-vano piuttosto fragili, ed Amorth punta ildito, nel suo scritto, sulla debolezza dellaloro posizione. I due Capitani Reggentiimputati cercavano di difendersi con l’ar-gomento che la vecchia Reggenza nonintendeva disporre uno scioglimento delConsiglio vero e proprio; ma che si eralimitata a «constatarlo», volta che il Con-siglio Grande risultava depauperato perdimissioni della metà più uno dei suoicomponenti. Ed a questo «accertamento»la Reggenza sarebbe stata obbligata; doven-dosi tener conto che il Consiglio Grande,privato di più della metà dei suoi compo-nenti, sarebbe divenuto incapace di deli-berare. Ed anche volendo riconoscerecome erronea l’applicazione delle dispo-

sizioni statutarie e costituzionali, ad essasarebbe mancata la volontarietà (penal-mente «il dolo»). Gli ex Capitani Reggen-ti avevano operato in base all’opinione chelo scioglimento del Consiglio dovesseeffettuarsi come era disposto ai sensi dellaLegge elettorale. Conclusivamente essirivendicavano la correttezza costituziona-le del loro operato perché avevano stabili-to di indire, ed avevano indetto nei fatti, icomizi elettorali. La consultazione elettora-

le sarebbe stata la via dritta che avrebbe risol-

to ogni dubbio e troncato ogni polemica.

Amorth però si butta alle spalle tutte legiustificazioni e tutti gli argomenti difensi-vi degli avversari (di quelli che egli perce-pisce come avversari). La sua indignazionee la sua severità per la “ proditoria” con-dotta dei vecchi Capitani Reggenti appaio-no drastiche e intransigenti. Il suo scrittodismette la veste del parere freddo edobiettivo per assumere i toni di una requi-sitoria penale; ed in qualche modo politica.«Gli è che la verità si fa strada – diceAmorth nel suo scritto – e toglie ogni cre-dibilità anche alla affermazione pietisticadell’errore involontario nel disporre loscioglimento del Consiglio. Le disposizio-ni legislative sopraccitate erano necessa-riamente più che note e prive di ogni equi-vocità; è evidente che esse sono state disin-voltamente pretermesse – per correreall’incostituzionale scioglimento del Con-siglio –, volendo gli ex Capitani Reggentievitare con tutti i mezzi la elezione dei nuoviCapitani Reggenti».

«Essi sapevano che se avessero sottoposto

al Consiglio le lettere di dimissioni dei Consi-

glieri, che si erano distaccati dal gruppo con-

siliare socialista, il Consiglio le avrebbe respin-

te; anzi probabilmente neanche avrebbe

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accettato di prenderle in considerazione,

rifacendosi al dibattito già avvenuto nel giugno

1957, che si era conchiuso con il preciso rifiu-to di dimettersi da parte del dr. Alvaro Casa-

li, e con lui dei suoi amici. Di ciò è conferma –

prosegue l’accusatore – per un verso l’ ingan-

nevole comportamento nei confronti dei Capi

dei gruppi consiliari; per un altro verso il ricor-

so alla forza, per impedire la riunione del Con-

siglio nella propria sede».

L’attacco legale di Amorth accusatoreconverge verso il punto penalmente focale.«Il grave misfatto costituzionale sopra ana-lizzato, i cui estremi oggettivi e soggettivi sonoindubitabili – si legge a pag. 14 del parere –costituisce a mio avviso il capo di accusa fon-damentale nei confronti degli ex CapitaniReggenti. Altre imputazioni, di cui è parolanei ricorsi e nella requisitoria del Procurato-re Fiscale sono pure fondate, ma per un versoappaiono consequenziali al suddetto misfat-to, per un altro possono consentire qualcheattenuante in ordine all’elemento volitivo».

6. L’ultima imputazione elevata contro gliex Capitani Reggenti nel processo di SanMarino è quella appunto, di avere dispostol’istituzione di una milizia volontaria, e diavere con quest’iniziativa «tentato di susci-tare una guerra civile». Amorth prende inesame anche questa accusa, ma la maneg-gia con molta cautela. «È fortemente pre-sumibile – egli rileva – che tale milizia fossedestinata alla difesa dei partiti comunista esocialista; avesse cioè una finalità partigia-na e, diffondendo quanto meno un’atmo-sfera di timore tra i cittadini, agevolassebrutalmente la prevaricazione della mino-ranza consigliare; e che quindi le ragioni

addotte per la sua istituzione “a tutela del-l’ordine pubblico” sia pur dopo l’instaura-zione di un governo provvisorio in altraparte del territorio della Repubblica, nonfossero che una lustra».

L’Autore considera, tuttavia, che talgenere di imputazione sarebbe fondata piùsotto il riflesso di un’inadempienza all’im-pegno, avvalorato da giuramento, di ado-prarsi per «conservare sempre la Repub-blica alla pace e alla concordia dei cittadi-ni»; che non come preparativo di una guer-ra civile. «Mancano... allo stato degli attielementi univocamente probatori al riguar-do; e soprattutto non è documentato che difatto questa milizia abbia provocato violen-ze o disposti apprestamenti per operazionidi forza. E di ciò mi sembra sia da tenerconto nel valutare il comportamento degliex Capitani Reggenti».

Quali le conclusioni ? Amorth è moltodeciso e duro; anche se egli tiene sempre aribadire che suo compito è ricavare le con-clusioni da ragionamenti di stretto ordinegiuridico. In sintesi gli ex Capitani Reggen-ti sono imputabili:

A) di grave attentato alla Costituzioneavendo disposto nel settembre 1957 lo scio-glimento del Consiglio Grande e Generale,assemblea sovrana della Repubblica di S.Marino, allo scopo di impedire la elezionedi nuovi Capitani Reggenti;

B) di avere disposto misure pericoloseper la concordia dei cittadini di San Mari-no, con violazione del giuramento reggen-ziale.

7. Per quanto concerne le sanzioni appli-cabili ai colpevoli dell’attentato alla costi-

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tuzione sanmarinese Antonio Amorthappare cauto. Egli accenna alla possibilità disottoporre i responsabili del grave reato adun procedimento penale (art. 208 del Codi-ce penale), ma subito glissa. La questione èpoliticamente delicata, e giuridicamentecomplessa, perché nella legislazione di SanMarino non si trovano misure punitivedeterminate e preordinate alla fattispecie.Senza addentrarsi in discorsi teorici o indisquisizioni dommatiche sulla discrezio-nalità del potere punitivo penale, egli passaal Collegio dei Sindacatori una “carta” leg-gera ma tagliente. «A mio sommesso avvi-so si potrebbero colpire i suddetti ex Capi-tani reggenti con la pena della totale e per-petua perdita dei diritti politici, attualmen-te e in futuro spettanti ai cittadini sanma-rinesi; e quindi attualmente del diritto diessere elettore e di quello di essere eletto edi quello di ricoprire qualsiasi pubblicoufficio, e a qualsiasi titolo (per elezione,impiego o altra forma di preposizione).Potrebbe anche considerarsi proporziona-ta ai misfatti imputati la misura di un lorotemporaneo allontanamento dal territoriodella Repubblica».

La proposta di Amorth, quindi, è che iGiudici infliggano ai colpevoli del criminepolitico una sanzione severa, ma tutto con-siderato non troppo persecutoria, salva lacuriosa proposta di riesumare una penadell’antichità greca, com’era l’ostracismo.Non sappiamo fino a che punto Amorthavesse saggiato il polso dei politici insedia-ti nel governo di San Marino, prima diassumere le sue conclusioni. Certo il coin-volgimento in un caso politicamente sca-broso – e anche umanamente inquietante –gli deve avere procurato qualche scrupolodi coscienza e non poco imbarazzo. Tant’èvero che di questa consulenza (che si rive-

lò infine decisiva per la sentenza dei Giu-dici sanmarinesi) negli anni successivi eglinon parlò mai con nessuno dei suoi colla-boratori ed assistenti. Con nessuno – alme-no – di coloro che gli furono vicini per tantianni nella vita accademica di Milano; quel-la Milano dove egli era tornato a vivere nel1960, non più di due anni dopo la vicendadi San Marino; e dove egli rimase sino allamorte.

Antonio Amorth – coscienzioso comeera tipico del suo carattere – aggiunge allafine del parere una considerazione. Consi-derazione che può – forse – essere stataapprezzata dai committenti del parere per-ché potenzialmente utile a mettere in guar-dia i dirigenti (presumibilmente di estra-zione comunista o socialista) degli appara-ti pubblici della Repubblica. Amorth sotto-linea dunque nelle ultime righe che unaesigenza di totale giustizia, conforme aquanto disposto dalla Rub. XIX delle Leggistatutarie, porterebbe a valutare la responsa-

bilità di coloro che in posti di alto ufficio prov-

videro quanto meno a consentire alla esecu-

zione dei misfatti addebitati. Una simileaccusa potrebbe in ispecie avere riguardoal fatto che tali alti funzionari, all’atto del-l’assunzione dei loro uffici, prestarono giu-ramento di osservanza delle leggi dellaRepubblica. «Ma sulla opportunità, comesulle modalità di tale eventuale giudizio,non tocca a me pronunciare».

Viste le accuse presentate contro gli exReggenti e preso atto delle attestazioni giu-rate, il Collegio dei Sindacatori ascoltò infi-ne la requisitoria del Procuratore del Fisco.Tale requisitoria si concludeva con larichiesta di «una giusta ed esemplare sen-tenza di condanna degli ex Reggenti Gior-dano Giacobini e Primo Marani».

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8. Il parere reso da Antonio Amorth è scrit-to a macchina su di una carta intestata doveil nome del giurista è preceduto dal solotitolo di avvocato. A conferma del fatto chel’Autore intendeva tenere ben distinta lasua posizione di professore universitario daquesto tipo di incarico professionale. Iltesto del dattiloscritto (17 facciate) è nitidoe chiaro; ma punteggiato da numerose pic-cole correzioni di pugno di Amorth stesso.Esso porta la data del 26 marzo; ed è firma-to in ogni singola pagina. Due giorni dopola consegna, il 28 marzo 1958, fu pronun-ciata la sentenza nella sede del PubblicoPalazzo.

I Giudici sostanzialmente fecero pro-prie le motivazioni esposte da AntonioAmorth come Consulente del Collegio;senza mai citarlo, naturalmente. Essidichiararono gli ex Capitani Reggentiresponsabili di una serie di gravi illeciti.Illeciti che, se fossero stati previsti da unCodice, si sarebbero potuti qualificarecome reati. In particolare la sentenza rico-nobbe gli ex Capitani colpevoli:

– di avere tentato con atti e provvedi-menti arbitrari di sciogliere il ConsiglioGrande e Generale; unico organo sovranodella Repubblica, sovrapponendosi ad esso.In particolare di avere compiuto detto ten-tativo facendo abusivamente valere 34 let-tere di dimissioni di consiglieri firmate inbianco, quattro delle quali legittimamentegià revocate; senza che il Consiglio nel suoambito potesse prenderne atto e pronun-ciarsi.

– di avere impedito l’ elezione dei nuoviCapitani reggenti, vietando il 19 settembre1957 con la forza l’ accesso all’ aula consi-liare ai Consiglieri nel legittimo eserciziodel loro mandato, a seduta regolarmenteconvocata;

– di avere mancato al giuramento chefaceva loro obbligo preciso di conservare lapace e la concordia fra i cittadini, e di man-tenersi al di sopra delle contese di parte;

– di essersi autoprorogati i poteri di reg-genza oltre il limite invalicabile del seme-stre, e di avere presentato (non in sede con-siliare ma) a se stessi le lettere contenentidichiarazioni di dimissioni di membri delConsiglio, privando le loro qualifiche diReggenti del requisito fondamentale che èl’essere consiglieri, contrariamente allospirito degli Statuti, compromettendo fon-damentalmente e conservando poi in modoabnorme le prerogative reggenziali.

9. La condanna fu precisamente quella cheAmorth aveva suggerito. Gli ex Reggentifurono condannati alla perdita perpetua deidiritti politici (attuali e futuri) spettanti aicittadini sanmarinesi, e quindi del dirittodi essere elettori ed eleggibili, nonché deldiritto di ricoprire qualsiasi pubblico uffi-cio in seguito ad elezione. Non venne loroapplicata, però, la misura dell’ostracismo.Cioè non furono costretti all’esilio.

La sentenza porta quattro firme. Leprime due sono firme di Giudici sindaca-tori; le altre due (in successione alleprime) sono quelle di due Giudici “ testi”.La copia conforme a noi giunta è autenti-cata dal Segretario di Stato. Non sappiamose i Giudici fossero uomini di legge; né seessi possedessero una laurea in giurispru-denza; almeno. Lo svolgimento dellavicenda e l’andamento del processo ci per-mettono di esprimere, cinquant’annidopo, qualche dubbio. San Marino,infondo, era una Repubblica illustre, ma pursempre un Paese molto piccolo; e poco svi-

Bardusco

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luppato a quel tempo. I titoli di istruzioneuniversitaria non erano diffusi, all’epoca,quanto lo sono oggi. Ma ciò non ci scanda-lizza. Giustizia fu fatta. Né fu – si può dire– solo giustizia politica. Sappiamo, infine,che i condannati dopo alcuni anni ottenne-ro la riabilitazione. E dunque lunga vita aSan Marino!

Ricerche

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Librido

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Questo manuale, giunto alla

settima edizione, nato dalla

pratica dell’insegnamento e

rivolto precipuamente agli

studenti, presenta due signi-

ficative e rilevanti novità: un

amplissimo corredo di note

che, unito alla bibliografia che

accompagna ogni capitolo,

offre una esauriente tavola di

riferimento per quanti voglia-

no approfondire tematiche e

prospettive. Se solo si analiz-

za l’indice dell’opera e si

riflette sull’ampio spettro dei

temi trattati – dal significato

della Costituzione alle polie-

driche forme di Stato e di

governo, alla ripartizione del

potere tra enti sovrani e enti

autonomi, fino alle strutture

istituzionali dei paesi di deri-

vazione liberale – ben si com-

prende come lo sforzo com-

piuto per offrire al lettore

questa opportunità bibliogra-

fica sia stato veramente note-

vole, e l’utilità ancor maggio-

re. Non sono presenti solo

riferimenti italiani e stranie-

ri in merito a specifiche pro-

spettive giuridiche, ma anche

molti spunti istituzionali, sto-

rici, sociologici, politologici e

filosofici.

Ma l’elemento più sensi-

bile è senza dubbio legato alla

nuova formulazione della Pre-

messa, dal sintomatico titolo

“La Comparazione nel diritto

costituzionale. Scienza e

metodo”. Quasi ottanta pagine

volte a definire spazi, compi-

ti e funzioni del comparatista,

nel tentativo di colmare quel-

lo iato «fra il soddisfacente

livello di maturità raggiunto

nel settore del diritto privato

– in cui sono da tempo pro-

grediti gli sforzi dedicati allo

studio della metodologia della

comparazione nel quadro

della autonomia del diritto

comparato – rispetto alla

situazione riscontrabile nel

campo del diritto pubblico e

costituzionale in cui i ricerca-

tori si sono orientati preva-

lentemente verso l’analisi

comparata di singoli istituti,

dando per scontate premesse

metodologiche non sempre

verificate»1.

La comparazione come

scienza, e non come semplice

metodo, trova in Gino Gorla e

nei suoi pionieristici scritti

degli anni Sessanta contribu-

ti preziosi: già nella significa-

tiva voce redatta per l’Enciclo-

pedia del Diritto, il Maestro

descrive la sua prospettiva

chiaramente diacronica quan-

do specifica che «non si può

conoscere appieno ciascun

termine della comparazione

senza conoscerne la storia:

almeno quando la storia sia

necessaria alla comparazio-

ne»2. Le lenti dello storico e

quelle del comparatista si

209

Primo Piano: G. de VergottiniDiritto Costituzionale ComparatoVolume I, Padova, Cedam, 2007, settima ed. interamente rivista

davide rossi

giornale di storia costituzionale n. 16 / ii semestre 2008

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sovrappongono inevitabil-

mente, nel tentativo di formu-

lare uno spazio intellettuale

comune dove possano dialo-

gare studiosi e giuristi di ordi-

namenti differenti. Se il dirit-

to è fatto sociale e alla società

è rivolto, allora la valutazione

di omogeneità e le differenze

tra proposizioni scientifiche

devono presupporre una

conoscenza delle istituzioni

politiche, «della dottrina

della Costituzione e di quella

dei diritti di libertà nell’am-

bito più ampio di quella delle

forme di Stato e di governo»3.

Lo «spirito comune»4 che

accosta lo storico al compara-

tista si può rintracciare in quel

particolare studio che presup-

pone un fatto noto (la com-

prensione della propria quo-

tidianità) con cui raffrontare

un fatto ignoto, sia questo il

diritto passato oppure quello

straniero. Il termine di para-

gone costituisce il dies a quo da

cui partire per approfondire,

selezionando gli elementi

strutturali e connotativi e

ponendo «l’esperienza nostra

attuale in contatto con espe-

rienze storiche o geografiche

diverse, consentendo di cata-

logarla tra gli esempi di que-

sta o di quella tipologia di

esperienza costituzionale»5.

La finezza terminologica, in

quest’ottica interpretativa,

non è un mero accessorio for-

male o un problema dottrina-

le, bensì diventa la peculiare

modalità per creare un humus

a cui sovrapporre ulteriori

specificazioni, base solida che

permette di dialogare in modo

efficace. Infatti, nella sola

Europa continentale, il con-

fronto di saperi tra scienziati

della comparazione e della

storia del diritto non è banal-

mente reso difficoltoso dalla

presenza di lingue differenti,

ma dal difficile contenuto che

gli stessi studiosi affidano alla

terminologia. L’utilizzo sem-

pre più frequente, ad esempio,

di modelli, crea una capacità

di analogia terminologica a cui

non sempre segue una presen-

za di elementi classificatòri

contenutisticamente simili: si

pensi banalmente al termine

“costituzione” – «uno dei più

difficili e dibattuti, investendo

molteplici aspetti, non soltan-

to giuridici, di ogni ordina-

mento statale»6 – e alle impli-

cazioni che ne conseguono.

Esso fluttua tra il pericolo di

un appiattimento linguistico e

la banalità di alcuni caratteri

che si legano allo stesso termi-

ne (si pensi solo alle classiche

dicotomie scritta / orale, fles-

sibile / rigida, dal controllo di

costituzionalità diffuso /

accentrato), a scapito di un’ef-

ficacia del modello stesso,

senza il quale sarebbe impos-

sibile intendersi. Ma, al con-

tempo, si rischia di aprire un

dialogo tra sordi, tra soggetti

che allo stesso termine asso-

ciano elementi differenti,

esponendosi alla denegata

eventualità di giungere alla

situazione opposta, ossia ad

un’incapacità di confronto.

Il problema degli steccati

metodologici – tra studiosi di

realtà politiche differenti, ma

anche tra scienziati di diverse

discipline o addirittura che

studiano lo stesso concetto

partendo da punti di vista dif-

formi – è senza alcun dubbio il

dato significante dell’intera

Premessa, che tenta di indivi-

duare gli «elementi identifi-

canti, tendenzialmente stabi-

li e costanti, che vengono

ricondotti nel concetto di tipo

(tipo ideale, archetipo)»7.

Infatti, senza la determi-

nazione di un valido parame-

tro di riferimento, di un pro-

totipo formato da una serie di

fattori caratterizzanti, ogni

discorso diacronico diventa

vano ed inutile; se per “Stato”,

ad esempio, intendiamo la

forma storica del potere poli-

tico contemporaneo indivi-

duata dai tre requisiti costitu-

tivi classici specificati dalla

dottrina generale – ossia il

popolo, il territorio e la sovra-

nità8 – non possiamo certa-

mente intenderci con quanti

studiano il cosiddetto “Stato

feudale”9, i cui caratteri pre-

cipui sono lontanissimi da

quelli testé espressi. Un

imprudente accostamento tra

i due concetti porterebbe ad

approdi lontani, conclusioni

insensate e classificazioni

improduttive. Ancor più ele-

vato è il rischio d’incompren-

sione nel caso dello studente,

le cui specificazioni linguisti-

che sono persino più conven-

zionali e con cui si rischiereb-

Librido. Primo piano

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be addirittura di giungere ad

effetti devastanti: nel

momento in cui si associ la

parola “Stato” all’aggettivo

specificante “feudale” – per

proseguire con il medesimo

esempio – si potrebbe essere

indotti a supporre che la

costruzione di tale realtà

medievale implichi il territo-

rio, la sovranità e la popola-

zione; un’ipotesi che è tanto

assurda quanto concettual-

mente fuorviante. L’evoluzio-

ne storica dei tipi di “Stato”,

infatti, «è un prodotto esclu-

sivamente storico sulla cui

formazione non hanno influi-

to ideologie od astratte dottri-

ne, tutte le altre forme di Stato

sono, sì, anche esse, un pro-

dotto della storia, ma qual più

qual meno si sono ispirate ad

elucubrazioni filosofiche o

sono state suggestionate da

dottrine politiche, le quali,

per effetto della loro stessa

natura, sono strettamente

collegate a teorie di diritto

pubblico»10.

Se per un attimo appli-

chiamo queste riflessioni

all’annoso ed infinito dibatti-

to sulla crisi dello Stato

moderno (sui cui tanto, forse

fin troppo, è stato scritto11), ci

si rende conto che, ad essere

in crisi, è quanto il nostro

immaginario culturale lega al

concetto di Stato, «la sua con-

figurazione centralistica ere-

ditata dall’assolutismo e con-

solidata nell’Ottocento attra-

verso l’affermazione del

monopolio del potere coerci-

tivo e della produzione norma-

tiva su un dato territorio»12,

non di certo lo Stato nella sua

essenza. La carica ideologica

che ruota attorno alle parole

rischia di ipostatizzarne il con-

tenuto e svalutarne il percorso

storico: «in questa materia

[l’evoluzione del concetto di

Stato per l’appunto] di nuovo

non siavi spesso che la forma,

mentre immutata rimane la

sostanza; come pure siano i

tempi stessi che si incaricano,

talvolta, di rinverdire le fortu-

ne di idee e di teorie che sem-

bravano sin’allora sorpassate o

poste nell’oblio»13. In fin dei

conti, lo Stato è paragonabile a

quel parente della cui eredità

si discute quando ancora è in

vita e che, ogniqualvolta venga

dato per morto, animosamen-

te rinviene.

La pluralità di significati

che ogni aggettivo può sussu-

mere deve, pertanto, riuscire

a stare al passo con la matura-

zione dei processi storici. La

differenza tra la parola e il suo

contenuto evocativo è un per-

corso accidentato che sia lo

storico che il comparatista

hanno ben presente, consci

dell’immane errore che si

rischia di compiere utilizzan-

do in contesti differenti –

geograficamente o temporal-

mente, secondo una compa-

razione orizzontale o vertica-

le – categorie e immagini tipi-

che della propria contempo-

raneità. Pur tuttavia, «l’attri-

buzione del nome alle specie,

ai corpi celesti, alle malattie

finisce sempre per intrappo-

lare la cosa denominata in una

metafora radicale e per appro-

priarsi della cosa stessa di

fronte al mondo»14. Nomi e

concetti inesorabilmente

camminano a braccetto, ali-

mentando un laboratorio cul-

turale da cui traspaiono cam-

biamenti e innovazioni, falsi-

ficazioni e metamorfosi, quali

«segnali che, conveniente-

mente interpretati, rivelano

delle correnti di pensiero o

dei sentimenti ai quali lo sto-

rico [e assieme a lui il compa-

ratista] non potrebbe restare

indifferente»15. Non si deve

pertanto cadere nel facile

errore di instaurare una

dipendenza tra espressione e

contenuto, quale generale

«reciproca relazione tra

nome e senso, che li rende

capaci di evocarsi vicendevol-

mente l’un l’altro»16.

Il problema del frainten-

dimento concettuale è ben più

serio e concreto di quanto si

possa credere e lo scorrere

delle valutazioni che emergo-

no dalla Premessa di de Vergot-

tini lo mette chiaramente in

luce. Il giurista non può esi-

mersi dall’«improvvisar[si]

metodologo, sottolineando la

distinzione tra operazioni

interpretative e costruttive da

un lato, e le nozioni di meto-

do e metodologia dall’al-

tro»17. Si tratta di una preli-

minare esigenza epistemolo-

gica con cui definire gli stec-

cati teorici e precisare gli

spazi e gli ambiti di indagine:

Rossi

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già il Giannini dei Profili Stori-

ci18 attua «una sorta di caute-

la metodologica al quadra-

to…così improntata di reali-

smo, [che] ci invita ad andare

cauti nel cercare un’automa-

tica corrispondenza tra meto-

do e metodologie; comunque

diffidando di quanti espongo-

no premesse astratte di ordi-

ne metodologico, che poi non

vengono utilizzate, e che ser-

vono piuttosto a riempire

l’indagine di citazioni, senza

che ne risulti un uso consape-

vole dei criteri metodologi-

ci»19.

La comparazione e la sto-

ria hanno questo in comune:

affrontano ogni problematica

dal proprio punto di vista,

rompendo i confini ideologi-

ci per formare uno schema

interpretativo unitario, una

base di partenza con cui apri-

re un dialogo continuo. D’al-

tronde «lo studio comparati-

stico come ricerca storica non

ha certo bisogno di particola-

re presentazione; a tutti è noto

che il diritto comparato è da

molti considerato come una

disciplina storica, il che ha

portato recentemente uno

studioso inglese, il Watson, ad

affermare che il compito pri-

mario della comparazione è

l’analisi delle relazioni stori-

che fra gli ordinamenti»20.

Non può esistere, infatti, una

determinazione scientifica

che resti perennemente iden-

tica a se stessa, in quanto, con

lo scorrere del tempo, propo-

ne configurazioni sempre

nuove senza, tuttavia, che ciò

comporti lo slittamento verso

una forma di relativismo gno-

seologico.

Se la comparazione priva-

tistica, pertanto, necessità

principalmente di un solido

approdo su cui poggiare le sue

fondamenta – il diritto pro-

prio nei confronti di quello

straniero –, in modo da avere

una certa base di comparazio-

ne e un sicuro punto di riferi-

mento, il diritto pubblico

ambisce a costruire modelli e

in particolar modo a classifi-

care, ossia a raggruppare

«oggetti di analisi in modo da

formare categorie sistemati-

che, “contesti comuni”, entro

i quali possano poi essere

riportati tutti i casi che

rispondano agli elementi

caratteristici delle stesse cate-

gorie»21.

Tali “contesti comuni”

fungono da sostegno e sup-

porto per la costruzione del

parametro di riferimento in

base al quale esprimere il pro-

prio giudizio, il cosiddetto ter-

tium comparationis, la cui

essenziale funzione è quella di

essere utilizzato come «raf-

fronto fra ciò che viene com-

parato (comparatum) con ciò

che si intende comparare

(comparandum)»22. L’analisi

scivola inevitabilmente su

prospettive di teoria generale

del diritto, sul delicato piano

di indagine che verte attorno

alla «questione dell’autoco-

scienza scientifica del diritto

pubblico» e dei suoi tratti

distintivi, ossia «la conoscen-

za del suo oggetto [e] la tecni-

ca del suo uso, atteso che la

scienza del diritto riveste un

notevole interesse per i suoi

risvolti pratici ed applicati-

vi»23. Ci allontaniamo, così,

dall’approccio privatistico, in

cui la comparazione avviene

sempre tra un diritto noto (il

proprio) e uno ignoto, con il

non celato rischio che

nell’«apprendere l’ignoto

non si inserisca, più o meno

emotivamente o surrettizia-

mente, una comparazione con

il diritto noto, sia pure ele-

mentare o rozza o come mera

traduzione di concetti e

nomi»24.

Uscendo dal proprio

recinto prettamente tecnico,

una comparazione autorevole

e seria esige il dialogo con

altre discipline, in primis con

la storia: inutile studiare un

istituto di un ordinamento

straniero senza quella profon-

dità che offre la storia e senza

essersi calati nella vita e nelle

istituzioni dell’ordinamento

in questione. Lo studio del

“prima” risulta un passaggio

ineliminabile per la pre-com-

prensione del presente e si

impone una lettura sincroni-

ca degli avvenimenti e degli

istituti giuridici, fondamenta-

le per valorizzarne l’effettiva

portata e l’efficacia concreta.

Questo trait d’union tra

storia e comparazione richie-

de casomai un ulteriore ordi-

ne di valutazione, impostato

diversamente ma altrettanto

Librido. Primo piano

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delicato, che è poi un passag-

gio focale attorno al quale

ruotano le due discipline uni-

versitarie della Storia del

Diritto e del Diritto Compa-

rato. Ci si riferisce alla critica

relativa alla bontà di questi

studi, se esse siano materie

prettamente accademiche

oppure possano trovare linfa

anche nella pratica e nella

quotidianità. Se questo one-

roso compito è senza dubbio

affidato alla sensibilità degli

studiosi – degli storici del

diritto e dei comparatisti –, gli

unici in grado di dissipare tali

dubbi25, riguardo l’impatto

nella pratica soccorre uno

spunto di un ex Presidente

della Corte Costituzionale e

insigne giurista, Antonio Bal-

dassarre. Egli, prendendo

spunto dalla propria diretta

esperienza di Giudice delle

Leggi, ricollega la scarsa uti-

lizzazione del metodo storico e

comparatistico in seno alle

pronunce costituzionali non

alla loro inutilità scientifica,

bensì ad una scelta politica,

per cui le decisioni «corri-

spondono alla logica della

“scoperta della verità (giuri-

dica)” per la quale la sentenza

adottata è un punto di chiusu-

ra di una controversia e, per-

ciò, si suppone che non debba

essere sottoposta ad alcuna

“verifica” presso l’opinione

pubblica»26. La mancanza di

prospettiva storico-compara-

tistica, pertanto, è stretta-

mente collegata all’impossi-

bilità di ricorrere, nel sistema

italiano, alla cosiddetta dis-

senting opinion e non certo

all’improduttività di schemi

interpretativi meno positivi-

stici, ma che possono senza

alcun dubbio aiutare l’inter-

pretazione e la formazione del

diritto vivente. Il metodo sto-

rico e quello comparativo

sono in grado di assurgere a

preziosi parametri analogici

per la comprensione del senso

e dell’evoluzione degli istituti

e delle istituzioni, divenendo

efficaci strumenti per la for-

mazione di una motivazione

completa e dal contenuto

determinato27.

L’opera di de Vergottini

aspira a render possibile

«un’impresa veramente di-

sperata, o un’ambizione

assurda»28, ossia quella di

rendere fruibile un portato di

competenze e cognizioni

astrattamente illimitato, che

contenga istituti e norme,

organi e legislazioni dell’inte-

ro mondo, quasi a possedere

un quadro complessivo degli

ordinamenti delle varie

nazioni della terra. Una chi-

mera che però rintraccia il suo

filo rosso ponendo al centro

dell’attenzione il ruolo essen-

ziale dell’individuo, all’inter-

no «di una società aperta [e

pluralista], caratterizzata dalla

coesistenza di valori diversi

ma destinati alla convivenza

in un quadro di tolleranza

ragionevole»29.

In virtù di queste brevi

considerazioni, proprie del

dilettante della comparazione

pubblicistica, lo storico del

diritto risulta sensibile alla

lettura del libro di de Vergotti-

ni, non rimanendo chiuso nel

proprio steccato disciplinare

e aspirando a sfruttare quel

semplice scambio di informa-

zioni che solo può produrre

un’integrazione tra più saperi

e che è indispensabile per

offrire «allo studioso quel

senso del limite della propria

disciplina e della provvisorie-

tà dei risultati raggiunti nelle

proprie ricerche che desta lo

spirito critico e stimola a pro-

seguire incessantemente nel

lavoro senza pretendere di

raggiungere mai risultati defi-

nitivi e opponendosi anzi a

tutti coloro che sollevano que-

sta pretesa e che ritengono di

disporre del pieno possesso

della verità»30.

Non si poteva colpire meglio

questa gente che col porla di

fronte ad una scelta, libera e

irrevocabile. Sono da segnala-

re dapprima l’incredulità, la

diffidenza, persino il pavido

orgoglio di vedersi per giorni

al centro dell’attenzione del

mondo; poi il ricercarsi e l’af-

fannarsi in ogni senso e ogni

dove. Ultimo insorse, e persi-

stente, lo sgomento.

[F. Tomizza, La miglior vita,

Milano, Rizzoli, 1977, pag. 207]

Per il prof. de Vergottini, istriano

come me

Rossi

213

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Librido. Primo piano

214

1 G. de Vergottini, Diritto costituziona-

le comparato, volume I, Padova,

Cedam, 2007, Settima Edizione

Interamente Rivista, pag. XVII –

XVIII.2 G. Gorla, Diritto Comparato (ad

vocem), in “Enciclopedia del

Diritto”, vol. XII (1964), pag.

930.3 G. de Vergottini, Diritto costituziona-

le comparato, cit, pag. 2.4 G. Gorla, Diritto Comparato, cit., pag.

929.5 R. Bin, Che cos’è la Costituzione?, in

“Quaderni Costituzionali”, vol.

XXVII (2007), pag. 12. L’Autore

opportunamente continua spe-

cificando che «sarà dunque utile

procedere preliminarmente alla

revisione critica di queste classi-

ficazioni, in modo da ricostrui-

re quali siano i tratti significati-

vi che esse offrono e valutarne la

rilevanza al fine della costruzio-

ne del modello che mi pongo di

disegnare».6 E proseguendo si legge: «A titolo

indicativo, ricordiamo che si è

sviluppata una nozione deonto-

logica della costituzione (in

quanto modello ideale per l’or-

ganizzazione statale), una nozio-

ne sociologica-fenomenologica

(in quanto modo di essere dello

Stato), una nozione politica (in

quanto organizzazione basata su

determinati principi di indiriz-

zo politico) e, infine e in partico-

lare, una nozione giuridica», in

G. de Vergottini, Diritto costitu-

zionale comparato, cit., pag. 175 –

176.7 G. de Vergottini, Diritto costituziona-

le comparato, cit., pag. 57.8 G. de Vergottini, Diritto costituziona-

le comparato, cit., pag. 83.9 Basti leggere Giovanni de Vergottini,

Il diritto pubblico Italiano nei seco-

li XII – XV, Milano, Giuffrè, 1993,

pag. 24 – 28.10 E. Bussi, Evoluzione storica dei tipi di

Stato, Milano, Giuffrè, 2002,

pag. 13.11 Sono decenni che si parla di crisi del

concetto di Stato. Impossibile

indicare in questa sede dei rife-

rimenti specifici, bastino, ex

multis, L. Blanco, Note sulla più

recente storiografia in tema di

“Stato moderno”, in “Storia

Amministrazione Costituzione.

Annale dell’Istituto per la Scien-

za dell’Amministrazione Pubbli-

ca”, vol. III (1994), pag. 259 –

297; L. Ferrajoli, La sovranità nel

mondo moderno. Nascita e crisi

dello Stato nazionale, Roma –

Bari, Laterza, 1997; M. Fioravan-

ti, Stato e Costituzione. Materiali

per una storia delle dottrine costi-

tuzionali, Torino, Giappichelli,

1993. 12 S. Mannoni, Globalizzazione, diritto,

Stato, in M. Sbriccoli (a cura di),

Ordo Iuris. Storia e forme del-

l’esperienza giuridica, Milano,

Giuffrè, 2003, pag. 362.13 E. Bussi, Evoluzione storica, cit., pag.

19.14 S. Ullmann, Semantica. Introduzione

alla scienza del significato (1962),

con Prefazione di L. Rosiello, La

semantica moderna e l’opera di

Stephen Ullmann, traduzione ita-

liana a cura di A. Baccarani – L.

Rosiello, Bologna, Il Mulino,

1966, in specie pag. 90 – 106.15 M. Bloch, Noms de personne et histoi-

re sociale, in “Annales d’Histoi-

re Économique et Sociale”, vol.

IV (1932), pag. 67 – 69.16 S. Ullmann, Semantica, cit., pag. 96.17 L. Benvenuti, La filosofia del diritto

dei filosofi e la filosofia del diritto

dei giuristi, in “Jus. Rivista di

Scienze Giuridiche”, vol. LII

(2005), pag. 262.18 M.S. Giannini, Profili storici della

scienza del diritto amministrativo,

in “Studi Sassaresi” vol. XVIII

(1940), poi ristampato con una

Postilla dello stesso Autore in

“Quaderni Fiorentini per la Sto-

ria del Pensiero Giuridico

Moderno”, vol. II, 1973, pag. 179

– 274.19 L. Benvenuti, La filosofia del diritto,

cit., pag. 266.20 V. Denti, Diritto comparato e scienza

del processo, in R. Sacco (a cura

di), L’apporto della comparazione

alla scienza giuridica, Milano,

Giuffrè, 1980, pag. 206. 21 G. de Vergottini, Diritto costituziona-

le comparato, cit., pag. 53.22 G. de Vergottini, Diritto costituziona-

le comparato, cit., pag. 49.23 V. Pedaci, Considerazioni sul proble-

ma del valore nella metodologia del

diritto pubblico e della sua intrin-

seca politicità, in “Rivista Ammi-

nistrativa della Repubblica Ita-

liana”, vol. CLIII (2002), pag.

1045.24 G. Gorla, Diritto Comparato, cit., pag.

931.25 V. Zeno-Zencovich, Una Postilla ad

Antonio Baldassare, in “Diritto

Pubblico Comparato ed Euro-

peo”, vol. VIII (2006), pag. 992

– 993.

A. Baldassarre, La Corte Costituziona-

le e il metodo comparativo, in

“Diritto Pubblico Comparato ed

Europeo”, vol. VIII (2006), pag.

987. La disputa di penna tra i due

studiosi a cui in questa sede bre-

vemente si accenna, in realtà

prende lo spunto da un prece-

dente lavoro di Zeno-Zencovich

dal paradigmatico titolo, Il con-

tributo storico-comparatistico

nella giurisprudenza della Corte

costituzionale italiana: una ricer-

ca sul nulla?, in “Diritto Pubbli-

co Comparato ed Europeo”, vol.

VII (2005), pag. 1993.26 Sovvengono, quasi spontaneamen-

te, le parole di un insigne Mae-

stro: «chi conoscesse unica-

mente i razionali meccanismi di

funzionamento pratico e le

struttura astratte del diritto

positivo sarebbe certo, per la

forma mentis coerente che glie-

ne deriverebbe e l’allenamento

casistico, un buon tecnico, un

buon meccanico del sistema

normativo in vigore. Sarebbe

però un giurista decapitato: una

molla fra tante nel grande mec-

canismo del sistema giuridico,

strumento del diritto, non con-

sapevole utilizzatore del diritto

come strumento. Gli manche-

Page 217: SGiornale di oria costituzionale · 167 Guerra civile e diritto: una costituzione per la Repubblica di Mussolini Luciano Martone 197 Colpo di stato a San Marino. Il processo del 1958

rebbe infatti ciò che il possesso

della dimensione storica del

diritto consente al giurista, cioè

la sensibilità alle trasformazioni

dell’ordine giuridico, la perce-

zione della sua evoluzione vitale:

il diritto è storia in quanto si

muove e cresce nella storia», in

A. Cavanna, Storia del diritto

moderno in Europa. Le fonti e il

pensiero giuridico, Milano, Giuf-

frè, 1982, pag. 8 – 9.27 G. Gorla, Diritto Comparato, cit., pag.

929.28 G. de Vergottini, Diritto costituziona-

le comparato, cit., pag. 297.29 R. Treves, Insegnamento interdisci-

plinare, diritto e sociologia del

diritto (contributo per il X congres-

so di diritto comparato. Budapest,

23 – 29 agosto 1978), in “Sociolo-

gia del Diritto”, vol. IV (1977),

pag. 314.

Rossi

215

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ASergio Amato

Aristocrazia politico-culturale e

Classe dominante nel pensiero

tedesco (1871-1918)

Firenze, Leo S. Olschki, 2008, pp. 309ISBN 9788822258021

Entro l’orizzonte delimitato

dalla doppia costituzione

prussiano-imperiale e della

conseguente mediazione,

posta in essere da Bismarck,

tra il principio monarchico e

le istanze statualistiche, si svi-

luppa il percorso dei due con-

cetti isolati dall’autore di que-

sto saggio, l’“aristocrazia poli-

tico-culturale” e la “classe

dominante”. Sul contenuto di

questi lemmi si imprimerà

con forza l’attività – non solo

pubblicistica – di quattro

autori, il cui apporto si può

disporre lungo un’asse che

connette i due antipodi. Ad un

polo l’autore colloca Heinrich

von Treitschke, quale espo-

nente di una linea conseguen-

temente orientata verso la

questione nazionale, intesa

come la costruzione di uno

Stato nazionale rispondente ai

dettami della Sonderweg tede-

sca, antiparlamentare e anti-

democratica. Al polo opposto,

Karl Kautsky, dedicatosi all’al-

tra grande questione, quella

sociale, si ergerà a custode

dell’ortodossia marxista, per

approdare anch’egli ad atteg-

giamenti di chiusura verso il

“parlamentarismo” e la

“democrazia borghese”. A

metà strada tra i due poli (tra i

quali l’autore pone in eviden-

za i punti di contatto, che sia-

no declinati da Treitschke

come “aristocrazia naturale” o

da Kautsky come “minoranza

consapevole e organizzata del-

l’unica classe rivoluzionaria”)

l’autore colloca Gustav

Schmoller ed Eduard Bern-

stein che, pur rimanendo

fedeli ai precetti di base –

rispettivamente, il principio

monarchico fondato sul Beam-

tentum ed il riformismo socia-

le e democratico - si sforzano

di escogitare delle aperture di

segno pluralistico. Per

Schmoller si tratterà di pro-

muovere riforme sociali dal-

l’alto, allo scopo di liberare le

potenzialità della nazione

ostacolate dalle barriere di

classe; per Bernstein, di

riscattare il valore intrinseco

della democrazia, assieme, o

nonostante, al perseguimento

del fine ultimo del socialismo.

A proposito di quest’ultimo,

l’autore introduce opportuna-

mente anche una serie di

riflessioni incentrate sul pro-

blema della realizzabilità dei

propositi “possibilisti” di

Bernstein all’interno della

217

Ventitré proposte di lettura

a cura di mauro antonini, ninfa contigiani, ronald car,

daniele di bartolomeo, rocco giurato, simona gregori,

silvia orticelli, luigi lacchè, paolo marchetti, chiara

spinsante, sijana veledar, maria novella vitucci

giornale di storia costituzionale n. 16 / ii semestre 2008

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cornice costituzionale bismar-

ckiano-guglielmina imper-

niata sulla netta contrapposi-

zione “amico del Reich/ nemi-

co del Reich”.

R. C.

Olaf Asbach,

Staat und Politik zwischen

Absolutismus und Aufklärung.

Der Abbé de Saint-Pierre und

die Herausbildung der französi-

schen Aufklärung bis zur Mitte

des 18. Jahrhunderts

Hildesheim, Olms, 2005, pp. 332,ISBN 3487128136, Euro 34,80

Dopo aver offerto al pubblico

tedesco un approfondimento

sulla biografia politico-intel-

lettuale dell’abbé de Saint-

Pierre, Olaf Asbach utilizza ora

la figura di questo personaggio

eclettico e purtroppo ancora

misconosciuto come una car-

tina al tornasole dei dibattiti

politico-culturali del secolo dei

Lumi. Cercando di aprire nuo-

ve prospettive sull’emergenza

di filoni teorici che si svilup-

pano in Francia tra la fine del

XVII secolo e la metà del XVIII,

l’opera offre una compilazione

approfondita delle tematiche

che vedono l’abate di Saint-

Pierre intervenire nelle querel-

les politiche e culturali più

scottanti di quegli anni. Il

merito fondamentale di questo

libro è quello di fornire una

ricostruzione puntuale dei

principali dibattiti del periodo

senza utilizzare chiavi di lettu-

ra proprie ad autori e avveni-

menti successivi. Ciò permet-

te ad Asbach di spiegare come,

pur nel quadro di una genera-

le adesione all’impianto asso-

lutista, possano svilupparsi

molteplici filoni di critica poli-

tica rivolti alle istituzioni

monarchiche ed alle élites

poste ai loro vertici.

“Buco nero” tra la fronda e

la rivoluzione, i primi quaran-

ta anni del XVIII secolo, man-

cano di una compiuta analisi

delle categorie politiche matu-

ratevi che rifugga la tentazione

di una lettura “proto-rivolu-

zionaria” delle interazioni tra

correnti culturali e istituzioni

amministrative assolutiste.

Compiendo un primo passo in

questo senso Olaf Asbach for-

nisce un quadro delle istanze

critiche nei confronti della

situazione politica e sociale

dell’epoca allo scopo di deter-

minare l’apporto di senso e di

contenuto che esse forniscono

ad alcune categorie decisive

della modernità politica.

S.G.

BPeter Beale

A Dictionary of English Manu-

script Terminology – 1450-2000

Oxford, Oxford University Press, 2008,pp. 457,

ISBN 9780199265442, £ 55,00

Peter Beal, Senior Research Fel-

low presso l’Institute of English

Studies dell’Università di Lon-

dra e per venticinque anni

esperto di manoscritti della

casa londinese d’aste Sothe-

by’s, sintetizza in questo dizio-

nario la sua esperienza nel

campo della lettura e conserva-

zione dei manoscritti inglesi.

Le circa 1500 voci che

compongono il volume, sono

un’utile guida alla terminolo-

gia collegata ai manoscritti in

ogni loro aspetto, dalla produ-

zione alla classificazione, dai

dettagli grafici alle caratteri-

stiche fisiche e così via. Le

informazioni racchiuse nel

volume risultano utili a tutti

coloro che si dedicano in

maniera professionale allo

studio di fonti manoscritte

d’età moderna e contempora-

nea. Sebbene la maggior parte

delle voci riguardino i mano-

scritti cinque-seicenteschi

(per i quali l’Autore non fa

mistero del proprio particola-

re interesse), le voci com-

prendono termini tuttora in

uso tra gli specialisti.

R.G.

Marco BellabarbaLa giustizia nell’Italia

moderna, XVI-XVIII secolo

Roma-Bari, Laterza, 2008, pp. XVII-220ISBN 978-88-420-8714-4, euro 24

Offrire una sintesi sul tema

della giustizia moderna in Ita-

lia è compito tutt’altro che

facile. Marco Bellabarba ce ne

offre, con questo libro, la sin-

tesi più aggiornata e più agile.

Aggiornata, sotto ogni punto di

vista. Studioso attento alla

dimensione storiografica e alle

questioni di impostazione

Librido

218

Page 221: SGiornale di oria costituzionale · 167 Guerra civile e diritto: una costituzione per la Repubblica di Mussolini Luciano Martone 197 Colpo di stato a San Marino. Il processo del 1958

metodologica del lavoro, Bel-

labarba (che ha curato, tra l’al-

tro, nel 2001 con G. Schwer-

hoff e A. Zorzi un importante

volume su Criminalità e giusti-

zia in Germania e in Italia) col-

lega opportunamente il tema

alle grandi questioni dell’età

moderna. Anche perché il pro-

blema giustizia assume per l’età

moderna una straordinaria

valenza euristica, capace di

illuminare e problematizzare

temi che apparentemente

sembrano più lontani.

La storia della giustizia nel-

l’Italia moderna è inevitabil-

mente storia al plurale. Lo è

ovviamente per il profilo geo-

politico, lo è tanto più per le

giustizie che nel quadro più

ampio, sostanzialemente uni-

tario, appaiono intrecciate.

Lungo il lavoro si scorgono

chiaramente due intrecci mag-

giori: giustizia/sovranità, giu-

stizia/società: come dire, la

giustizia vista dall’alto e dal

basso. Si tratta di piani di let-

tura tutt’altro che scollegati e

che disegnano la centralità del

rendere giustizia come modali-

tà complessa che è fatta di tec-

niche, rappresentazioni,

discorsi, pratiche. Proprio

l’approccio antropologico

appare ben presente all’autore

che cerca di leggere i rapporti

e le tensioni tra la cultura di

dominio e la cultura popolare

della giustizia nei lunghi seco-

li presi a riferimento. Dalla

centralità costituzionale della

giustizia (anche per la stessa

legittimità del potere princi-

pesco) alla crisi dell’idea anti-

ca della iurisdictio e all’emer-

sione crescente della giustizia

negoziale come diretta espres-

sione della legge del sovrano.

Bellabarba, in un lavoro di

sintesi, non poteva certo offri-

re un quadro esaustivo. I per-

corsi seguiti e i temi privilegia-

ti possono non accontentare

tutte le ‘categorie’ di lettori, ma

l’esito appare convicente per-

ché l’autore sa bene che cos’è la

giustizia moderna (e la cosa è

meno scontata di quanto sem-

bri) e riesce, con scrittura

chiara ed efficace, a portare il

lettore lungo i suoi affascinan-

ti itinerari.

L.L.

CLuigi Guarnieri Calo’

Carducci,

Idolatria e identità creola in

Perù. Le cronache andine tra

Cinquecento e Seicento,

Roma, Viella, 2007, pp. 173ISBN 9788883342394, Euro 18

In questo agile volume Luigi

Calò Carducci, docente di Sto-

ria e istituzioni dell’America

latina presso l’Università di

Teramo, presenta un’interes-

sante ricerca sulle cronache

andine tra Cinquecento e Sei-

cento. L’intento dell’autore è

quello di indagare i primi ten-

tativi europei di costruzione di

una storia degli indios. In tal

senso, il Perù vicereale rap-

presenta un laboratorio sto-

riografico in cui la visione

europea della storia si espan-

de, con i suoi stilemi, sulla

vicenda di popoli dotati di

altre modalità di accesso alla

dinamica temporale. Stimola-

ti dalla necessità di fornire una

risposta a interrogativi insi-

diosi, riguardanti l’evangeliz-

zazione delle popolazioni del

Nuovo Mondo e l’idolatria, gli

spagnoli finiscono così per

dare forma a una storia peru-

viana; a una narrazione stori-

ca su cui si innestano i primi

prodromi di un’identità nuo-

va, quella creola.

D.D.B.

Manuela Ceretta (a cura di)

George Orwell

Antistalinismo e critica del

totalitarismo. L’utopia negativa

Atti del Convegno, Torino, 24-25

febbraio 2005

Firenze, Leo S. Olschki, 2007, pp. 252ISBN 9788822256089, Euro 28

Nella distopia 1984 - ideata da

Orwell nel momento in cui

l’Europa celebrava la vittoria

sul nazional-socialismo – il

protagonista Winston Smith

finisce per riconoscersi inca-

pace di difendere la propria

individualità dal pensiero

unico fabbricato dal Partito

Socing (socialismo inglese).

L’unicità dello spirito umano,

un valore che Smith conside-

rava inalienabile poiché, come

insegnavano i dogmi del libe-

ralismo, sarebbe iscritto nel-

l’ordine naturale delle cose,

«come due e due che fa quat-

Ventitré proposte di lettura

219

Page 222: SGiornale di oria costituzionale · 167 Guerra civile e diritto: una costituzione per la Repubblica di Mussolini Luciano Martone 197 Colpo di stato a San Marino. Il processo del 1958

tro», si rivela un “mero” pro-

dotto delle dinamiche sociali,

non difendibile allorquando si

rimane «l’ultimo uomo». Già

in base a queste premesse il

pensiero politico di Orwell

svela un carattere non assimi-

labile nel quadro delle con-

trapposizioni che avevano gui-

dato la “grande politica” del

Novecento. Intendere 1984

come un manifesto antitotali-

tario rimanda alla fatidica

domanda dell’estensione sto-

rica della categoria del totali-

tarismo; in altre parole, la

Germania hitleriana e l’Unio-

ne Sovietica sono indistingui-

bili per l’autore (altrimenti

come interpretare la pubbli-

cazione di un così forte moni-

to dopo l’abbattimento del

mostro hitleriano)? Inoltre, la

deriva totalitaria è il destino di

ogni socialismo, di ogni ten-

tativo di economia pianifica-

ta, come sostengono i parti-

giani del pensiero liberale che

indicano l’opera di Orwell

come argomento a favore del

loro aut-aut? Ma se per l’au-

tore di Omaggio alla Catalogna

(1938), nel 1947 il socialismo

non appare più come la giusta

via, d’altra parte, quale valu-

tazione dare alla capitolazione

definitiva dell’«ultimo

uomo» che chiude il racconto,

se non quella di un colpo al

cuore del liberalismo, la con-

futazione di quell’individuali-

smo irriflesso che – insegna-

va Adorno – si vuole «scisso

dalla storia e trasformato in un

pezzo di philosophia perennis».

Gli atti del convegno svoltosi

a Torino nel 2005 offrono una

pluralità di punti di vista –

storico, filosofico, letterario,

finanche logico o urbanistico

– che guidano il lettore attra-

verso paesaggi utopico/disto-

pici intesi come tentativi di

superare l’accettazione acriti-

ca della realtà data.

R.C.

Alan CromartieThe Constitutionalist Revolution

An Essay on the History of

England 1450-1642

Cambridge University Press, Cambridge2006. Pp. 309,

ISBN 139780521782692, £ 52,50

Il libro di Alan Cromartie illu-

stra in maniera originale il

pensiero costituzionale ingle-

se tra la metà del Quattrocen-

to e la guerra civile di metà

Seicento. L’Autore dà risalto al

ruolo svolto dal diritto nello

sviluppo della cultura politica

inglese e alle sue «ambigue

implicazioni politiche» (p. 1)

che dettero luogo alla guerra

civile. Cromartie chiarisce

l’intreccio di valori religiosi e

secolari che mobilitarono le

parti in lotta, al fine di spiega-

re la difficoltà che Carlo I

incontrò nel tenere sotto con-

trollo il paese a dispetto della

crescita che la monarchia stes-

sa conobbe nel XVII secolo. Il

risultato è un’analisi accurata

degli atteggiamenti verso le

questioni religiose e degli

effetti che il diritto provocò

sulla religione. Questi due fat-

tori, secondo l’Autore, dettero

impulso alla tradizione costi-

tuzionalistica inglese e con-

dussero alla formazione del-

l’idea che vede l’individuo

come portatore di diritti.

R.G.

FCarlo Fantappiè

Chiesa romana e modernità giu-

ridica. I: L’edificazione del siste-

ma canonistico (1563-1903); II:

Il Codex iuris canonici (1917)

Milano, Giuffrè, 2008, pp. 1282ISBN 881413636X, Euro 110

Il lavoro, ripartito opportuna-

mente tra due tomi, ricostrui-

sce la complessa vicenda che

porta la sapienza giuridica

millenaria della Chiesa roma-

na dal XVI secolo fin dentro il

confine ultimo della moderni-

tà giuridica, ovvero l’emana-

zione di un vero e proprio

Codice legislativo. Un Codice

nel senso post-rivoluzionario

del termine. L’autore lo chia-

risce subito titolando il primo

capitolo della prima parte (La

ricostruzione post-rivoluzionaria

del modello romano), dopo aver

aperto il lavoro con una serra-

ta descrizione della Formazione

del paradigma sistematico …

(1563-1791) che percorre le

tappe fondamentali del cam-

mino: ius decretalium, ordo

iuris, scientia canonum, syste-

ma iuris canonici, ius publicum

ecclesiasticum.

L’opera si presenta come

Librido

220

Page 223: SGiornale di oria costituzionale · 167 Guerra civile e diritto: una costituzione per la Repubblica di Mussolini Luciano Martone 197 Colpo di stato a San Marino. Il processo del 1958

un punto di riferimento

imprescindibile per sistema-

ticità e puntualità della rico-

struzione generale, oltre che

per l’approfondimento anali-

tico sulla Impostazione della

codificazione canonica(t. II

parte III) e sul Progetto codifi-

catorio (t. II parte IV) della

Chiesa romana. Questo vede in

gioco diverse componenti

ideologico-culturali e almeno

due disegni paralleli: quello di

Pio X e quello di Pietro

Gasparri, il “codificatore”, alla

cui esperienza è dedicata tutta

la parte II del tomo I. Il con-

fronto tra i due modelli codi-

ficatori, quello canonico e

quelli civili, conduce verso

l’Epilogo dell’opera che pun-

tualizza lucidamente i

momenti di persistenza della

tradizione e quelli di moder-

nizzazione del Corpus iuris

canonici.

Infine, aggiunge ulteriore

spessore, l’utile e ricca appen-

dice prosopografica con notizie

e riscontri su personaggi

importanti per le vicende del-

la Chiesa, e non solo.

N.C.

Ignacio Fernandez Sarasola

La Constituciòn de Bayona

(1808)

Colecciòn Las Constituciones españolasdirigida por Miguel Artola,

Madrid, iustel, 2007, pp. 431

Diretta da Miguel Artola, la

raccolta delle costituzioni spa-

gnole viene inaugurata da que-

sto elegante volume sulla

costituzione di Baiona del

1808 curato da Ignacio Fer-

nández Sarasola, noto specia-

lista del costituzionalismo

spagnolo a cavallo tra Sette e

Ottocento. Il progetto prevede

la pubblicazione dei docu-

menti relativi a ciascuna costi-

tuzione di Spagna e conferma

la grande vitalità degli studi di

storia costituzionale in un

paese che, come la Francia, ha

conosciuto tra Otto e Nove-

cento ogni forma di struttura

politico-costituzionale rive-

lando esperienze di grandissi-

mo interesse.

Il volume sulla costituzio-

ne di Baiona è composto da un

lungo studio preliminare del

curatore e dalla pubblicazione

dei più importanti documenti

che riguardano la legittimità

costituente di Napoleone, i

progetti, gli atti della Giunta, i

discorsi ecc. Fondamentale,

dunque, per lo studio della

Spagna „afrancesada“, il volu-

me conferma un’impressione,

ovvero che questo testo costi-

tuzionale giuseppino, spesso

valutato con sufficienza e scar-

sa convinzione dalla storiogra-

fia, „nasconde“ diversi ele-

menti di interesse, non ultimo

il fatto di incidere non poco

sulla politica murattiana nel

Regno napoletano per il quale

rappresentò, a parte la vicen-

da del parlamento nazionale,

la legge fondamentale.

L.L.

Simona Forti, (a cura di)

La filosofia di fronte all’estremo

totalitarismo e riflessione

filosofica

Torino, Einaudi, 2004, pp. 240ISBN 8806162748, Euro 18.00

Simona Forti raccoglie una

serie di saggi che hanno un uni-

co comune denominatore: la

concettualizzazione del totali-

tarismo. Da R. Aron alla Arendt,

da Foucault a Derrida, emerge

una riflessione su questo con-

cetto che inesorabilmente è

concepito come un evento cata-

strofico che costringe ad un

ripensamento totale del reale.

Il totalitarismo, pertanto, non

può essere considerato sempli-

cemente un nuovo tipo di regi-

me politico che si oppone alle

forme democratiche e plurali-

stiche, come vorrebbe la tradi-

zione della scienza della politi-

ca. I saggi presentati dalla For-

ti, ci presentano una prospetti-

va differente: è un percorso di

elaborazione concettuale che

parte da esperienze storiche

concrete e si proietta verso

un’indagine critica dell’attuali-

tà dove quello che emerge in

maniera preponderante è il filo

rosso che lega inevitabilmente

ragione e logica totalitaria, tota-

litarismo e tradizione occiden-

tale. Diventa dunque possibile

la distinzione tra “regime tota-

litario” e “totalitarismo come

categoria”, che ci permette di

cogliere sia le responsabilità del

passato, ma soprattutto rende

possibile scorgere anche le

minacce future.

S.O.

Ventitré proposte di lettura

221

Page 224: SGiornale di oria costituzionale · 167 Guerra civile e diritto: una costituzione per la Repubblica di Mussolini Luciano Martone 197 Colpo di stato a San Marino. Il processo del 1958

GCarlo Galli

Lo sguardo di Giano.

Saggi su Carl Schmitt

Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 177ISBN 9788815122230, Euro 16,50

Attraverso i cinque saggi di cui

si compone l’opera, Carlo Gal-

li si propone di delineare un

percorso interpretativo del

pensiero di Schmitt che, lungi

dal voler fornire un quadro

esaustivo della sua complessa e

articolata riflessione, ne riesca

però a cogliere la specificità ed

eviti banalizzazioni.

L’autore è critico nei con-

fronti di quelle interpretazioni

che finiscono per ridurre il

pensiero di Schmitt ad una

serie di categorie dicotomiche

(amico/nemico, inclusione

/esclusione, ordine/caos, auc-

toritas/potestas, per citarne solo

alcune) e che cercano di utiliz-

zarne la dottrina come possi-

bile chiave di lettura del pre-

sente (esaltando il possibile

ruolo politico del conflitto

all’interno di una forma demo-

cratica di governo). Così

facendo si corre infatti il peri-

colo di perdere di vista il sen-

so più profondo e rivoluziona-

rio del pensiero schmittiano,

ossia la consapevolezza della

natura sfuggente e ambigua del

“politico” (ambivalente come

Giano, il dio biformis) e l’im-

possibilità di pensare la poli-

tica in una prospettiva ancora

statuale.

È nel rapporto di Schmitt

con lo Stato che si concentra

l’indagine dell’autore, che

parte sempre dal presupposto

che non sia possibile cogliere

il significato della riflessione

politica schmittiana prescin-

dendo dalla concreta situazio-

ne storica in cui è inserita; in

Schmitt infatti le ragioni del-

la teoria dipendono stretta-

mente dalle esigenze pratiche

dettate dal contesto storico-

politico e scaturiscono dalla

sua critica del presente.

La crisi di inizio Novecen-

to è una crisi che coinvolge in

pieno la tradizionale forma-

Stato e l’assetto dei suoi pote-

ri. Sia da destra che da sinistra

sono molte le voci critiche nei

confronti della forma di

governo parlamentare; tra

queste la radicalità della posi-

zione di Schmitt sta nel suo

pensare la politica come una

dimensione oramai separata

dallo Stato e oltre lo Stato. Le

teorie della rappresentanza

politica, della separazione dei

poteri, dell’universalismo del-

la norma (il bersaglio polemi-

co è ovviamente il liberalismo)

sono, a suo avviso, meri espe-

dienti formali incapaci di

afferrare quella dimensione

“amorfa” che caratterizza il

politico, quel suo determinar-

si solo nel breve spazio del

passaggio dal caos all’ordine,

passaggio che si attua attraver-

so una «decisione». È la

«decisione sovrana» che,

dotata della legittimità di un

potere costituente (e non del-

la mera legalità formale), fissa

la forma dell’ordine giuridico

e politico concreto. Estrapola-

ta da quell’orizzonte storico,

conclude Galli, la critica di

Schmitt, pur rimanendo effi-

cace nella sua pars destruens,

appare tuttavia inadeguata a

comprendere le problemati-

che legate alla crisi attuale del-

lo Stato e delle relazioni inter-

nazionali.

C.S.

HRobert Gaston HallVoices of the People.

Democracy and Chartist politi-

cal identity, 1830-1870.

London, Merlin Press, 2007, pp. 218,ISBN 9780850365573, Euro 19,65

Inserito all’interno della col-

lana «Chartist Studies» edita

per i tipi della Merlin Press e

non lontano da una imposta-

zione regionalistica di storia

sociale à la Asa Briggs, il volu-

me ripercorre le dinamiche

che, sul finire degli anni Tren-

ta dell’Ottocento inglese, ren-

dono il Cartismo un movi-

mento di massa su scala nazio-

nale. Le voci del popolo, còlte

nel pluralismo localistico, si

sollevano nella cornice di

un’unica identità politica per-

ché comuni sono le forme di

protesta contro la legislazione

di classe. Lo studio sulla mili-

tanza di Ashton-under-Lyne,

città nel distretto tessile del-

l’Inghilterra nord-occidenta-

Librido

222

Page 225: SGiornale di oria costituzionale · 167 Guerra civile e diritto: una costituzione per la Repubblica di Mussolini Luciano Martone 197 Colpo di stato a San Marino. Il processo del 1958

le e situata a poche miglia dal-

la ben più famosa Manchester,

giustifica la prospettiva di

microstoria tesa a valorizzare

la duplice dimensione – loca-

le e nazionale – entro cui leg-

gere le campagne per la rifor-

ma del sistema rappresentati-

vo. Nel ricostruire l’evoluzio-

ne del credo cartista, l’Autore

dipinge un quadro esauriente

della retorica delle masse: ai

vecchi temi della riflessione

radicale di fine Settecento vie-

ne tributato un consenso pla-

teale grazie all’uso sistematico

di pubbliche riunioni, stampa

specializzata e petizioni, stru-

menti esercitati in nome di

una presunta sovranità popo-

lare e nel rispetto della legali-

tà costituzionale. In questo

contesto, il mito del Parla-

mento del popolo, la condan-

na della tirannide whig e l’ap-

pello al lockiano diritto di

resistenza contro le corrotte

istituzioni fondano la versio-

ne cartista della Storia. Per

quanto il lettore possa sentir-

si disorientato nel ripercorre-

re le fasi dell’attivismo politi-

co dei numerosi «plebeian

intellectuals», il pregio del

volume sta nel raccontarci un

viaggio fatto di miti e memorie

in cui il popolo, soggetto

oppresso, rende sacra e irri-

nunciabile la scelta della

democrazia.

M.N.V.

LGuenter Lewy

Il genocidio armeno, un genoci-

dio controverso

(trad. di P. Arlorio) Torino, Einaudi,2006, pp. 394,

ISBN 9788806178413, Euro 25

1915, la Turchia, resasi indi-

pendente dall’impero ottoma-

no, sta costruendo la sua nuo-

va identità statale e nazionale

attraverso il movimento dei

Giovani Turchi. In Europa si

sta consumando la tragedia

della Prima guerra mondiale e

alcuni battaglioni armeni del-

l’esercito russo cominciano a

favorire il reclutamento degli

armeni turchi. Questo serve da

pretesto al nascente governo

turco per considerare gli

armeni come una potenziale

minaccia per l’ordine pubbli-

co. Comincia in questo modo

la deportazione forzata di

migliaia di armeni fuori dal-

l’Anatolia che costerà migliaia

di morti, violenze e atrocità di

ogni genere. Lewy, attraverso

il lavoro d’archivio e attraver-

so le testimonianze dei soprav-

vissuti, ricostruisce una delle

tragedie collettive del nove-

cento che ancora oggi getta

ombre sull’immagine della

Turchia. Il genocidio degli

armeni, infatti, è il primo ban-

co di prova del sistema di eli-

minazione sistematica e chi-

rurgica di minoranze etniche e

nazionali che contraddistin-

guerà il novecento fino a noi.

Lewy ricostruisce questa trage-

dia aiutandoci a far luce su una

vicenda dolorosa con cui anco-

ra oggi dobbiamo fare i conti.

S.O.

Rados LjusicVozd Karadorde

Zavod za udbenike i nastavna

sredstva

Beograd, 2005, pp.521ISBN 8617131594, Euro 13,98

Rados Ljusic, professore

all’Università di Belgrado e

membro dell’Accademia Serba

delle Scienze e delle Arti, in

occasione del bicentenario

della prima costituzione serba,

pubblica una monografia dedi-

cata al grande condottiero ser-

bo Vozd Karadorde. La Serbia

del primo Ottocento, circo-

scrizione amministrativa ed

entità territoriale dell’Impero

ottomano, getta le prime basi

di una rinascita statale colti-

vando sogni di autonomia. Le

tracce dello spirito rivoluzio-

nario francese confermano il

carattere nazionale della prima

insurrezione serba del 1804

che, inaugurando la demoli-

zione delle strutture di potere

ottomano, fornisce un nuovo

assetto alla Serbia ribelle.

Ripercorrendo la vita e le

gesta di -Dorde Petrovic–

Karadorde, uno dei maggiori

fautori della «rinascita», nel-

le oltre cinquecento pagine del

volume l’autore ci offre un

quadro esauriente della prima

rivoluzione serba. Provenien-

te da una numerosa famiglia di

Ventitré proposte di lettura

223

Page 226: SGiornale di oria costituzionale · 167 Guerra civile e diritto: una costituzione per la Repubblica di Mussolini Luciano Martone 197 Colpo di stato a San Marino. Il processo del 1958

origine montenegrina Kara-

dorde, povero analfabeta che

svolgeva i lavori di vaccaro e di

servo, acquisì la sua fama come

capo brigante per poi offrirsi

volontario nella guerra austro-

ottomana. Grazie al suo carat-

tere eroico e ribelle Karadorde

fu nominato leader e guida

dell’insurrezione, comandante

supremo e Principe-Knez dei

serbi: l’uomo politico più

importante della Serbia. Ma il

tradimento dei russi, la

repressione ottomana e i dissi-

di interni costrinsero

Karadorde, nel 1813, a rifugiar-

si in Austria; poi alla fine della

seconda insurrezione, guidata

dal suo più grande avversario

Milos Obrenovic, incontrò la

morte. Ucciso nella notte del

25 luglio del 1817 la sua testa fu

portata come trofeo al visir di

Belgrado.

S.V.

MLuciano Martone

Diritto d’oltremare. Legge e

ordine per le colonie del Regno

d’Italia

Milano, Giuffrè, 2008, pp. 227,ISBN 8814140596, Euro 24

Il volume ricompone attraver-

so diversi saggi le varie specia-

lità della esperienza giuridica

delle colonie africane dell’Ita-

lia, prima liberale poi fascista.

Due contributi (I:I caratteri del

diritto coloniale italiano; IV:

L’esperimento del giudice unico

negli ordinamenti d’Africa)

compaiono per la prima volta,

mentre i restanti quattro sono

già stati pubblicati in altre sedi.

Prendendo la forma di un

percorso introduttivo, già il

primo saggio fa emergere chia-

ramente la specificità del dirit-

to coloniale italiano che può

essere vista come l’incontro

dell’accettazione del presup-

posto razziale con un continuo

e sistematico pragmatismo

volto a privilegiare la madre-

patria quale criterio guida di

tutti gli interventi governativi.

Il filo rosso che tiene insieme

le pur diverse esperienze giu-

ridiche dei territori italiani

d’Africa è, difatti, di natura

costituzionale. Si tratta della

palese (e da qualcuno anche

dichiarata) non vigenza – per

quei territori – delle garanzie

statuarie valevoli, invece, nel-

la madrepatria. È sull’ ‘assen-

za’ dello Statuto che si fonda la

continua e sistematica stru-

mentalità degli intenti gover-

nativi, sia liberali, sia fascisti.

Su tale sfondo si inserisco-

no L’avventura legislativa dei

magistrati italiani della colonia

eritrea (II) per il tentativo di

codificazione penale, la vicen-

da dell’«indemanializzazione

dei territori libici» (III: Pro-

prietà musulmana e formazione

del demanio italiano in Libia),

L’esperimento del giudice unico

negli ordinamenti d’Africa (IV)

– descritto attraverso le voci di

magistrati quali Mariano

d’Amelio e Ludovico Mortara

– la netta egemonia della giu-

risdizione militare fino alla

pacificazione dei territori (V:

Giustizia militare d’oltremare),

infine la repressione della

Rivolta araba e i Tribunali di

guerra in Libia negli anni 1914-

1915 (VI).

N.C.

Heinz Mohnhaupt,

Dieter GrimmCostituzione. Storia di un

concetto dall’Antichità a oggi

ed. it. a cura di M. Ascheri e S. Rossi,Roma, Carocci, 2008, pp. 199,

ISBN 9788843041671, Euro 19,50

Segnaliamo con piacere la tra-

duzione italiana della lunga

voce “costituzione”, scritta in

origine per i “Geschichtliche

Grundbegriffe. Historische

Lexikon zur politisch-sozialen

Sprache in Deutschland”, che

ha avuto in Germania una

duplice edizione autonoma

(1995 e 2002, sulla quale v. la

scheda del sottoscritto in

Librido, 5/I, 2003, pp. 307-

308). Si propone così al letto-

re italiano un affidabile stru-

mento di analisi della

parola/concetto “costituzione”

nel lungo periodo della “storia

dei concetti”. L’edizione è

preceduta da una puntuale e

opportuna introduzione di

Serena Rossi che contestualiz-

za i profili di interesse del

lavoro sia nella direzione dei

Geschichtliche Grundbegriffe, sia

nell’ambito della teoria dello

Stato e della dottrina della

costituzione in Germania.

L.L.

Librido

224

Page 227: SGiornale di oria costituzionale · 167 Guerra civile e diritto: una costituzione per la Repubblica di Mussolini Luciano Martone 197 Colpo di stato a San Marino. Il processo del 1958

SAnna Lisa Sannino

L’altro 1799

Cultura antidemocratica e

pratica politica

controrivoluzionaria nel tardo

settecento napoletano

Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane,2002, pp. 248,

ISBN 8849504276, Euro 17,00

Un’indagine sulla controrivo-

luzione nel meridione attraver-

so la ricostruzione di quella

esperienza assolutamente par-

ticolare che assunse il nome di

Reale Arcadia Sebezia e che può

essere definita una società let-

teraria percorsa da venature

massoniche e votata alla resi-

stenza contro le innovazioni

minacciate dal modello france-

se. L’autrice insiste molto sul-

la straordinaria somiglianza tra

la suddetta società letteraria

napoletana, le cui origini e for-

me possono essere chiaramen-

te fatte risalire alle associazio-

ni massoniche, e quei club gia-

cobini che si proponeva di

avversare. Nella breve ricostru-

zione del percorso politico e

culturale della Sebezia e del suo

leader, Vincenzo Ambrogio

Galdi, con particolare riferi-

mento alle pubblicazioni pro-

dotte negli anni a ridosso del

1799, vengono individuate

quelle matrici culturali antide-

mocratiche che spiegherebbe-

ro il clamoroso trionfo sanfe-

dista nel Regno di Napoli.

M.A.

Jonathan SimonIl governo della paura. Guerra

alla criminalità e democrazia

in America

Milano, Raffaello Cortina Editore, 2008,pp. XXXI-403

ISBN 9788860301727

Il governo della paura. Guerra

alla criminalità e democrazia in

America è, purtroppo, l’unico

lavoro di Jonathan Simon

(professore presso la Boalt Hall

School of Law dell’Università

della California, Berkley) tra-

dotto in italiano. Il tema della

“lotta alla criminalità” negli

Stati Uniti, oltre a rappresen-

tare il principale filone di

ricerca dell’autore, costituisce

l’argomento specifico di que-

sto libro. La versione italiana

del titolo, pur assicurando al

volume una presentazione

eufonica, appanna la capacità

di quello originale, Governing

Through Crime. How the War on

Crime Transformed American

Democracy and Created a Cultu-

re of Fear, di suggerire imme-

diatamente al lettore la miglio-

re chiave di lettura dell’opera.

La ricostruzione storica della

guerra alla criminalità condot-

ta dalla classe di governo sta-

tunitense negli ultimi decenni

– che Simon traccia in manie-

ra brillante e con profondità

d’analisi – non ha infatti come

scopo principale quello di

mostrarne gli effetti “negati-

vi”, ossia ascrivibili al piano

della pura repressione. Essa

serve piuttosto all’autore per

evidenziare la capacità di par-

ticolari politiche criminali (in

una prospettiva d’analisi dal

chiaro segno foucaultiano) di

produrre pratiche sociali, stili

di vita, trasformazioni (scarsa-

mente formalizzate, ma non

per questo meno radicali) del-

lo stesso assetto costituzionale

del suo paese. In altre parole, la

paura del crimine viene utiliz-

zata, secondo Simon, come

vero e proprio strumento di

governance della società ameri-

cana, più che come mezzo

repressivo indirizzato verso

specifici gruppi sociali avver-

titi come pericolosi (poveri,

marginali, immigrati, popola-

zione di colore). La tesi del

governing through crime si sno-

da, all’interno del volume, in

una serie di passaggi che van-

no dall’analisi di rilevanti tra-

sformazioni avvenute sul pia-

no politico istituzionale (iper-

trofia del penale, sbilancia-

mento del potere a favore del-

l’esecutivo, peso esorbitante

attribuito alla vittima del reato,

perdita di prestigio della magi-

stratura giudicante, incarcera-

zione di massa) a quella degli

aggregati sociali nei quali si

svolge la vita dei comuni citta-

dini (famiglia, scuola, luoghi di

lavoro). Il libro si chiude con

un capitolo nel quale l’autore

tenta di intuire lo sviluppo

ulteriore dei processi da lui

descritti. Da questo punto di

vista, oltre alla paura della cri-

minalità, quella della malattia

può essere considerata, in un

futuro prossimo, un’ulteriore

leva per la governance della

società americana. E sulla base

Ventitré proposte di lettura

225

Page 228: SGiornale di oria costituzionale · 167 Guerra civile e diritto: una costituzione per la Repubblica di Mussolini Luciano Martone 197 Colpo di stato a San Marino. Il processo del 1958

di questa osservazione Jona-

than Simon pone due interro-

gativi di rilievo: «Come appa-

rirebbe, nel decennio presen-

te, la guerra al cancro in rap-

porto alla guerra alla crimina-

lità quale strumento di gover-

no? E cosa hanno da offrire

queste guerre a una società

posta di fronte a una “guerra al

terrore” che potrebbe durare

decenni?».

P.M.

Michael StolleisStoria del diritto pubblico in

Germania. I. Pubblicistica

dell’Impero e scienza di polizia

1600-1800

Trad. di Cristina RiccaMilano, Giuffrè, 2008, pp. X-632

ISBN 8814140871, Euro 55

La Biblioteca Per la storia del

pensiero giuridico moderno, fon-

data da Paolo Grossi e diretta

da Bernardo Sordi, pubblica

come suo 79° volume il primo

tomo della Geschichte des öffen-

tilichen Rechts in Deutschland di

Michael Stolleis, formata, ad

oggi, da tre poderosi volumi

che disegnano con maestria,

sicurezza ed erudizione il più

ampio e complesso disegno di

storia del diritto pubblico che

sia stato dedicato negli ultimi

decenni ad una esperienza

nazionale. L’edizione italiana

giunge a venti anni esatti dal-

l’uscita del primo volume in

Germania (poi seguita nel

1999 dalla traduzione france-

se per i tipi di Puf). Questa tra-

duzione mette ora a disposi-

zione del lettore italiano

un’opera il cui interesse trava-

lica ampiamente l’articolazio-

ne territoriale. E questo anche

perché sotto i nostri occhi ci si

rivela, capitolo dopo capitolo,

uno straordinario processo di

giuridificazione e di “costitu-

zionalizzazione” dello ius publi-

cum imperii romano-germanici,

al contempo fondativo di con-

cetti, categorie e strumenti

destinati ad incidere forte-

mente sulla stessa idea di jus

publicum europaeum. Autori,

letteratura, istituti, problemi,

grandi categorie (iurisdictio,

sovranità, ragion di Stato, arca-

na, specula, diritto naturale,

Policey…), luoghi del sapere,

esperienze, rappresentazioni,

discorsi, disciplinamento: il

lettore potrà prendere il libro

come un preziosissimo stru-

mento di consultazione, leg-

gerne singoli capitoli, seguirne

il percorso nella sua interezza.

Il risultato non cambia.

La Storia di Stolleis è in

realtà molte cose insieme: sto-

ria costituzionale, storia di

discipline giuridiche in nuce,

storia letteraria, storia della

dimensione amministrativa,

storia del pensiero politico,

storia di autonomizzazioni e di

recuperi. Il diritto pubblico

tedesco è una parte fondamen-

tale del mosaico europeo, ne è

un paradigma costitutivo e al

contempo è esperienza pecu-

liare da comprendere con spe-

cifici strumenti di analisi e di

sintesi: si pensi all’importanza

della riforma protestante, alle

controversie tra l’Impero e i

principati territoriali, al pro-

gressivo emergere di una “sfe-

ra pubblica” che si appoggia su

una dinamica Kulturwissen-

schaft.

L.L.

TCharles Tilly

Conflitto e democrazia in

Europa

1650-2000

Milano, Bruno Mondadori, 2007, pp. 380, ISBN 9788842420118, Euro 30

La genesi della democrazia

risiede nella multiforme logi-

ca delle politiche conflittuali:

questa l’ipotesi suggerita entro

i confini di uno smisurato arco

temporale che dilata lo scena-

rio comparativo fra le diverse

esperienze in Europa. L’inizia-

le impressione di un racconto

statico e meramente classifica-

torio, viene smentita soltanto

da una lettura più attenta del

paradigma evolutivo delle isti-

tuzioni rappresentative: dalla

variegata tipologia del conflit-

to, declinato in termini di rivo-

luzione, scontro e colonizza-

zione, dipende la qualità della

democrazia raggiunta dai

governi europei. Ricordate sin

dal primo capitolo, le vicende

ottocentesche di Francia e

Inghilterra confermano la

molteplicità del processo di

democratizzazione attraverso il

conflitto fra governanti e

governati. Sebbene il ricorso ai

Librido

226

Page 229: SGiornale di oria costituzionale · 167 Guerra civile e diritto: una costituzione per la Repubblica di Mussolini Luciano Martone 197 Colpo di stato a San Marino. Il processo del 1958

modelli britannico e francese

possa apparire ‘ovvio’ per via

di un’analisi fin troppo agevo-

le delle differenze, tale scelta,

in realtà, anticipa strategica-

mente la lunga sequenza com-

parativa: l’indagine si estende

non solo al caso della Svizzera,

peculiare per la politica anta-

gonistica dei cantoni nella

creazione dello Stato federale

nel 1848, ma anche ai Paesi

Bassi, alla Penisola Iberica fino

ad includere la Russia. Consi-

derevole per il macroscopico

lavoro di sintesi, il volume

risente non poco dell’eccessi-

va minuziosità con cui l’Auto-

re rende ragione dei criteri

interpretativi adottati.

M.N.V.

VCesare Vasoli

(A cura di Enzo Baldini)

Armonia e Giustizia

Studi sulle idee filosofiche di

Jean Bodin

Firenze, Leo Olschki, 2008, pp. 287ISBN 9788822257734, Euro 29,

Storico della filosofia del

Rinascimento, Cesare Vasoli

analizza nei diversi saggi rac-

colti in questo volume – scrit-

ti e pubblicati nel corso di cir-

ca un quarantennio – il com-

plesso rapporto dell’opera di

Bodin con la cultura del tardo

Rinascimento e le sue tradi-

zioni filosofiche, metodologi-

che ed etiche. Come egli stes-

so dichiara, il libro offre l’im-

portante testimonianza di un

percorso di ricerca e di vita.

Ripercorrendo le sue ricerche

Vasoli ci accompagna, infatti,

attraverso alcuni passaggi

determinanti della «storia

intellettuale» bodiniana:

«Dall’apologia della cultura

umanistica alla proposta del-

l’istruzione pubblica come

educazione alla tolleranza »;

dal «problema cinquecente-

sco della methodus e la sua

applicazione alla conoscenza

storica» all’analisi specifica

de «il metodo della Républi-

que». Saggio centrale del

libro, quest’ultimo indaga gli

strumenti metodologici pro-

posti da Bodin per soddisfare

le aspirazioni ad una sistema-

zione logica e metodologica

che permettesse di «risalire

da qualsiasi nozione partico-

lare ai principi universali e

scendere da questi alla molte-

plicità inesauribile degli even-

ti, dei fatti e degli exempla ».

Con lo stesso taglio in «Note

su Jean Bodin e la Juris univer-

si distrubutio» Vasoli propone

un’indagine sul processo di

elaborazione del metodo del-

l’arte giuridica che precede il

tentativo di ricostruzione del

diritto universale perseguita

nella Methodus. «Il tema del-

l’assoluta potenza divina nel-

l’Universae Naturae Theatrum di

Jean Bodin», e le «Riflessioni

su De la Demonomanie des sor-

ciers», precedono due saggi

relativi al Colloquium Heptaplo-

meres. Seppur di dubbia attri-

buzione, quest’ultimo per-

mette all’autore d’indagare

l’evoluzione del giudizio sulle

istituzioni e sulla politica di

tolleranza della Serenissima

nonché il proposito d’instau-

razione di un sapere universa-

le, che tanto nella Methodus

che nella Universae Naturae

Theatrum è concepito per

risolvere i conflitti religiosi

affrontandoli attraverso «la

pacifica misura della ragio-

ne».

S.G.

Massimo VogliottiTra fatto e diritto. Oltre la

modernità giuridica

Torino, Giappichelli, 2007, pp. X-349,ISBN 978834877692, Euro 34

Parliamo di un’opera ambi-

ziosa scritta da un giovane

autore dal singolare percorso

di formazione. Originale è il

risultato. A prima vista, i temi

affrontati, a cominciare dalla

abusata modernità “liquida”,

potrebbero far pensare ad un

percorso “tradizionale”. Ma

ad uno sguardo più approfon-

dito risalta chiaramente la

capacità di Vogliotti di traccia-

re con sicurezza un itinerario

che passo dopo passo solleci-

ta il lettore a fare i conti con la

chiave di lettura principale –

il rapporto/tensione tra fatto

e diritto – che delinea un con-

fronto con tutti i grandi temi

moderni della teoria e della

filosofia del diritto e della

politica. Categorie spesso

abusate acquistano senso,

ragioni, profondità. Gli oriz-

Ventitré proposte di lettura

227

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zonti teorici si saldano bene

con le dimensioni dell’espe-

rienza. Al centro sta una nar-

razione che poggia su una

scrittura brillante e cristalli-

na: si potrebbe dire dalla

sostanza del positivismo lega-

listico alle relazioni della

ragion pratica del diritto. Un

viaggio che comincia con un

affresco “piranesiano” fatto di

rovine e di reliquie (che con-

tinuano però a produrre reto-

riche e discorsi) e che si con-

clude con il recupero di una

cultura degli ibridi e del rea-

lismo che ricerca le relazioni

tra fatto e diritto e non pre-

tende separazioni e sterili iso-

lamenti.

Il governo della comples-

sità naturalmente richiede

soluzioni all’altezza ma è diffi-

cile pensare a orizzonti “oltre

la modernità giuridica” che

non mettano a tema il recupe-

ro del diritto (nella sua prima-

ria dimensione esperienziale)

e del ruolo del giurista. Si potrà

dire che l’autore pecca talvolta,

nella parte “propositiva”, di

eccessivo ottimismo, ma è da

condividere la necessità di una

forte preoccupazione per la

dimensione dell’ethos

L.L.

YGeorge Yerby

People and Parliament

Representative Rights and the

English Revolution

Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2008,pp.319, ISBN 9780230553224, £ 55.00

George Yerby espone in questo

recente lavoro un’originale let-

tura della Rivoluzione inglese

di metà Seicento dichiarata-

mente in controtendenza

rispetto all’orientamento sto-

riografico revisionista affer-

matosi nel corso degli ultimi

decenni del Novecento. Lo

scopo principale del libro è di

descrivere l’importanza che i

sudditi Inglesi del primo Sei-

cento attribuivano alle funzio-

ni svolte dal Parlamento (pri-

ma tra tutte quella legislativa) e

come le stesse preannuncias-

sero un cambiamento epocale

nel ruolo della massima

assemblea rappresentativa del

regno, specialmente in dire-

zione di una maggiore regola-

rità delle convocazioni. Yerby

si sofferma in particolare sui

personaggi e sugli eventi di due

aree periferiche dell’Inghilter-

ra, ovvero le contee sudocci-

dentali del Devon e del Somer-

set e quella di Nottingham, nel

centro del paese. La visione

d’insieme proposta dall’Auto-

re, basata su fonti di prima

mano, rende conto inoltre di

diversi aspetti connessi alle

attività parlamentari, tra i qua-

li gli scopi che gli elettori e i

rappresentanti intendevano

perseguire per mezzo del Par-

lamento e gli sforzi volti a otte-

nere dei resoconti dettagliati

delle attività svolte in quella

sede.

R.G.

Librido

228

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Storiacostituzionale

eum

Giornale di

PERIODICO DEL LABORATORIO DI STORIA COSTITUZIONALE “ANTOINE BARNAVE” n. 16 / II semestre 2008

Aldo Bardusco, Enrico Bulzi, Paolo Colombo, Maurizio Griffo, Paolo Grossi, Luigi Lacchè, Luciano Martone, Cesare Pinelli,

Miguel Angel Presno Linera, Dian Schefold, Rosanna Schito, Gian Paolo Trifone

Il valore della Costituzione italiana

Giornale di Storia costituzionale n. 16 /

IIsemestre

2008eum

edizioni università di macerata

ISBN 978-88-6056-141-1

ISS

N 1

59

3-0

79

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Euro 22,00

eum edizioni università di macerata