Sezione II civile; sentenza 2 settembre 1963, n. 2418; Pres. Flore, Est. G. Rossi, P. M. Tavolaro...

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Sezione II civile; sentenza 2 settembre 1963, n. 2418; Pres. Flore, Est. G. Rossi, P. M. Tavolaro (concl. conf.); Conioli (Avv. Romanelli) c. Spinelli Author(s): A. L. Source: Il Foro Italiano, Vol. 87, No. 2 (1964), pp. 323/324-325/326 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23156038 . Accessed: 25/06/2014 00:55 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 195.34.79.20 on Wed, 25 Jun 2014 00:55:17 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions

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Sezione II civile; sentenza 2 settembre 1963, n. 2418; Pres. Flore, Est. G. Rossi, P. M. Tavolaro(concl. conf.); Conioli (Avv. Romanelli) c. SpinelliAuthor(s): A. L.Source: Il Foro Italiano, Vol. 87, No. 2 (1964), pp. 323/324-325/326Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23156038 .

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PARTE PRIMA 324

degli art. 1(593 cod. civ. e 5, 7 della « cartella d'oneri »

(approvata con decreto pres. 9 aprile 1953 n. 562), per avere

la Corte di Lecce ritenuto il suo obbligo di risarcire la per dita delle 500.000 lire, per ciò solo che sul plico v'era la

indicazione « dispaccio speciale » ; sarebbe occorsa, secondo

la ricorrente, la specifica dichiarazione di detto valore

numerario.

L'argomentazione svolta a sostegno di questo motivo

risulta condotta essenzialmente su una linea che, per sè, attiene all 'an della responsabilità ; d'altro canto, la società

si duole ripetutamente che sia stata ammessa una responsa bilità senza limiti in ordine al quantum, ; e si può ben dire

che, fin dall'inizio della lite, essa ha obiettato essenzial

mente di non poter essere tenuta a rimborsare tutta la

somma di 500.000 lire. Il motivo in esame, dunque, pre senta due profili : attiene l'uno all'a/i, l'altro al quantum.

In punto di an si osserva che, nel passaggio dall'abro

gato cod. comm. (art. 406) al vigente cod. civ., è scomparsa la previsione della mancanza assoluta di responsabilità del vettore in ordine al danaro non denunciato ; o, come

si dice, non sussiste oggi più la presunzione iuris et de

iure che la perdita dei valori non denunciati sia dovuta

al fatto dello stesso mittente (nell'ordine d'idee per cui, non dichiarando i valori, quest'ultimo non mette sull'av

viso il vettore onde adotti le congrue misure di sicura

custodia). Attualmente, combinando l'onere di esatta indi

cazione della natura delle cose da trasportare a carico del

mittente (art. 1683, 1° comma), con la sanzione per cui

sono a carico del mittente i danni che derivano dall'omis

sione o dall'inesattezza delle indicazioni (art. 1683, 3°

comma), e con il principio secondo il quale il vettore non

risponde della perdita o avaria che deriva dal fatto del mit

tente (art. 1693, 1° comma), la materia risulta regolata nel

senso che occorre, volta per volta, accertare se l'omissione

delle indicazioni sia stata la causa della perdita dei valori, avvenuta per difetto di quelle speciali e congrue misure di

custodia che, da un lato, il vettore avrebbe potuto adottare

al fine di evitare la perdita della cosa trasportata e, dall'al

tro, egli non abbia attuato proprio per non essere stato

messo sull'avviso. In simile ipotesi si può parlare, in rela

zione all'art. 1693, 1° comma, di perdita per fatto del mit

tente, e, ad un tempo, si verifica la fattispecie dell'art. 1683, 3° comma.

Ciò precisato, non è dubbio che, già in base alla disci

plina del codice civile, l'avvertenza « dispaccio speciale »

sarebbe da considerare sufficiente per mettere sull'avviso il

vettore ai fini di una custodia particolarmente oculata ; cioè per escludere quella, fra le ipotesi di non responsabilità del vettore, che l'art. 1693, 1° comma, fa consistere nel

« fatto del mittente ».

Con la conseguenza della possibilità, per il vettore, di liberarsi dall'obbligo di risarcimento solo provando il caso

fortuito (le altre ipotesi dell'art. 1693, 1° comma, non en

trano qui in considerazione). Altrettanto palese è, inoltre ed ancor prima, che nella

specie ogni problema di an della responsabilità risulta

superato per la ragione di specie che l'art. 5 della « cartella

d'oneri » prevede positivamente il modo della « speciale »

custodia cui la società era tenuta per ciò che un plico re

casse l'indicazione di « dispaccio speciale » : questo doveva

essere custodito in una cassetta munita di serratura. Così,

l'indagine intorno all'adeguatezza della custodia, che in

genere deve effettuarsi volta a volta, con una valutazione

in concreto, restava semplificata e ridotta alla semplice constatazione se il « dispaccio speciale » fosse stato chiuso

a chiave nella cassetta.

E poiché la corte di merito ha accertato in fatto che il

« dispaccio » de quo venne invece collocato su un sedile

posteriore dell'autocorriera, nè v'è prova alcuna del for

tuito o della forza maggiore (prevista dalla norma della

« cartella d'oneri »). non possono esistere dubbi sull'ara della

responsabilità. Circa il quantum, si osserva che è bensì vero, in via

generale e con riferimento alla disciplina del codice, che il

principio della limitazione di responsabilità del vettore

entro l'àmbito del valore denunciato dal mittente, già

espressamente formulato nella seconda parte dell'art. 406

cod. comm., può considerarsi tuttora vigente, in quanto tale norma costituiva applicazione delle regole dell'art.

1228 cod. civ. del 1865 (responsabilità contrattuale limitata

ai danni prevedibili), che trovansi riprodotte nell'art. 1225

cod. civ. vigente, e, d'altronde, in tema di trasporto di

cose di particolare valore, non sembra che, in applicazione di tale regola, ci si possa sottrarre alla alternativa per cui

o il vettore può esser chiamato a rispondere solo del valore

del plico o pacco, considerato nella sua consistenza mate

riale esteriore, data la impossibilità pratica di individuare

un limite di danno prevedibile, diverso ed intermedio.

Tutto ciò può ritenersi corretto, ma, appunto, in via gene rale e con riguardo alla disciplina del codice.

Senonchè, nella specie, il 2° comma dell'art. 7 della

« cartella d'oneri », recante la disciplina speciale del rap

porto, stabilisce : « In caso di perdita totale o parziale di

pieghi contenenti sovvenzioni o versamenti, l'impresa è

responsabile del danno derivato all'amministrazione, salvo

che l'evento dannoso sia attribuibile esclusivamente a

causa di forza maggiore ». La corte di merito ha ritenuto

che, sempre eccettuata l'ipotesi della forza maggiore, che

qui non ricorre, in base a tale norma il concessionario

risponda senz'altro per l'intera somma contenuta nel plico,

indipendentemente da ciò che essa risulti indicata o meno

sull'involucro. E non si vede come questa interpretazione

possa censurarsi. Da un lato, invero, la norma non condi

ziona l'obbligo di risarcimento alla indicazione esterna del

valore ; dall'altro, essa impone di risarcire il danno deri

vato all'amministrazione. Ora, quando va perduto un plico contenente sovvenzione in denaro il danno che l'ammini

strazione risente è costituito da tale denaro, non dal costo

della carta che lo avvolge. Anche il terzo motivo, dunque, va disatteso.

Per questi motivi, rigetta, ecc.

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.

Sezione II civile ; sentenza 2 settembre 1963, n. 2418 ; Pres. Flore, Est. G. Rossi, P. M. Tavolaro (conci,

conf.) ; Conioli (Avv. Romanelli) c. Spinelli.

(Gassa App. Brescia 10 febbraio 1961)

Agricoltura — Imponibile di mano «l'opera — Con

tratti collettivi «li lavoro postcorporativi — Di

chiarazione d'ille«|it limit à costituzionale del «1. 1.

16 settembre 1947 n. 929 — Incidenza (D. 1. 16 set

tembre 1947 n. 929 norme circa il massimo impiego di lavoratori agricoli, art. 1).

La dichiarazione d'illegittimità costituzionale delle norme sul

cosiddetto imponibile di mano d'opera in agricoltura

{art. 1 del d. I. 16 settembre 1947 n. 929) non giustifica la

reiezione della domanda proposta contro il datore di lavoro

dal lavoratore non assunto con riferimento alle clausole

dei contratti collettivi postcorporativi che stabiliscono per i

datori di lavoro associati l'obbligo di assumere un deter

minato contingente di lavoratori, se non nel caso che tali

contratti collettivi trovino la loro ragion d'essere proprio nelle esigenze sancite dalle norme dichiarate illegittime e si coordinino intimamente con esse, in quanto destinati

a disciplinarne consensualmente le concrete modalità di

esecuzione. (1) L'accertamento di questo rapporto di dipendenza, che si

risolve in una indagine ermeneutica circa le finalità e la

portata di pattuizioni di natura privatistica, è compito del giudice di merito. (2)

(1-2) In precedenza la stessa Sezione, cassando un'altra sentenza della Corte d'appello di Brescia (12 maggio 1961, Foro it., 1961, I, 1540, con ampia nota di richiami), aveva affermato la legittimità delle clausole dei contratti collettivi di lavoro post

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325 GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE 326

La Corte, ecc. — Con l'unico motivo si deduce che la sentenza impugnata è inficiata da falsa applicazione dell'art. 136 Cost, e da difetto di motivazione, per aver dichiarato inammissibile l'azione esercitata dal Cornioli, attribuendo decisiva rilevanza, ai sensi del citato art. 136 Cost., alla

pronuncia della Corte costituzionale (sent. n. 78 del 30

dicembre 1958, Foro it., 1959, I, 9) che ha dichiarato l'il

legittimità costituzionale del decreto legisl. n. 929 del

1947, sul massimo impiego della mano d'opera in agricol tura, laddove avrebbe dovuto invece tener conto che l'azione non era fondata sulle disposizioni di tale decreto, bensì

sulle clausole del contratto collettivo 10 novembre 1953

e dell'accordo integrativo ad esso allegato. La censura è pienamente fondata.

Come si è già rilevato nella esposizione delle vicende del

processo, la sentenza di primo grado, nell'accogliere in gran

parte la domanda del Cornioli, non aveva affatto richia

mato ed applicato le norme del cit. decreto del 1947, ma

aveva invece ritenuto che la pretesa dedotta in giudizio trovasse il suo fondamento nelle clausole del menzionato

contratto collettivo relative alla occupazione della mano

d'opera, che determinavano per l'annata agraria 1953-54

l'imponibile tecnico cui erano soggette le aziende agrarie in funzione della natura, dell'ubicazione e dell'estensione

dei terreni coltivati, nonché nelle clausole dell'accordo

integrativo concernente il cosiddetto « superimponibile ».

Ora è evidente che, trattandosi di un contratto collettivo

postcorporativo, le dette clausole hanno natura convenzio

nale e privatistica : per modo che gli obblighi che da esse

derivano a carico dei soggetti iscritti alle associazioni sin

dacali stipulanti e da esse rappresentate, o di coloro che

abbiano prestato adesione al contratto collettivo, espri mendo espressamente o implicitamente la volontà di uni

formarvisi, trovano la loro fonte diretta ed immediata

ed il loro titolo giuridico in una libera manifestazione di

autonomia privata, e non già nelle norme legislative dichia

rate incostituzionali o in un provvedimento coercitivo

emanato dalla pubblica amministrazione in conformità delle

norme stesse. E sotto questo profilo, che non è stato affatto

considerato dalla sentenza di appello, l'accertata invalidità

di esse e la conseguente loro inapplicabilità (art. 136 Cost., art. 30, 3° comma, legge 11 marzo 1953 n. 87) costituisce

una ragione non idonea, o per lo meno non sufficiente, a

giustificare la reiezione della domanda.

D'altra parte, in questa sede non è consentito vagliare se le pattuizioni collettive di cui si discute trovino la loro

ragion d'essere proprio nelle esigenze sancite dalle norme

imperative di quel decreto e si coordinino intimamente a

corporativi facenti obbligo ai datori di lavoro associati di assu

mere un determinato contingente di lavoratori, purché le asso

ciazioni sindacali avessero agito nei limiti del mandato loro con

ferito dai soci (sent. 7 giugno 1963, n. 1517, id., 1963, I, 2176, con nota di richiami). Con ciò la menzionata sentenza non aveva

risolto il problema, pur in essa rettamente impostato e discusso, dei limiti istituzionali del contratto collettivo, ma aveva consi

derato come una quaestio facti, da risolversi ili base alla valuta

zione del contegno degli interessati (i quali, nella specie, avevano

dato pacificamente e per lungo periodo esecuzione all'obbligo sindacalmente concordato), lo stabilire se il c. d. mandato asso

ciativo conferito all'associazione sindacale comportasse il potere di vincolare gli iscritti alla stipulazione di contratti di lavoro. La

sentenza in epigrafe si differenzia dalla precedente, perchè, mentre

ha completamente omesso di considerare il problema ora accen

nato, ha però avvertito, almeno implicitamente, che la presenza di un collegamento oggettivo e funzionale tra la disciplina legis lativa, poi dichiarata costituzionalmente illegittima ma intanto

vigente, e la disciplina collettiva in questione, non avrebbe con

sentito di risolvere la disputa sulla base del rilievo del contegno osservante dei datori di lavoro iscritti al sindacato (contegno

osservante, che poteva essere stato determinato, per l'appunto, da quel collegamento con la disciplina legislativa allora vigente).

Per ulteriori riferimenti, consulta Cons. Stato, Sez. VI, 10 febbraio 1960, n. 51 (id,., 1961, III, 190), e la sentenza n. 78

del 30 dicembre 1958 della Corte costituzionale (id., 1959, I,

9), che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del decreto

legisl. 16 settembre 1947 n. 929. A. L,

queste, in quanto destinate a disciplinarne consensualmente le concrete modalità di esecuzione, e se in conseguenza debbano considerarsi anch'esse travolte per effetto della

menzionata pronuncia della Corte costituzionale. In realtà,

per risolvere tale questione è pur sempre necessaria una

indagine ermeneutica circa le finalità e la portata delle

predette pattuizioni collettive ; e questa indagine, che è

stata pure del tutto omessa dalla Corte di Brescia, non può esser compiuta da questo Supremo collegio, giacché, ap

punto in considerazione della natura negoziale e privati stica delle pattuizioni stesse, involge la necessità di apprez zamenti di mero fatto, devoluti in via esclusiva ai giudici del merito.

Pertanto, la sentenza impugnata deve esser senz'altro

cassata ; e la causa va, quindi, rinviata ad altra corte,

affinchè, in riferimento all'appello a suo tempo proposto dallo Spinelli, riesamini la controversia, adeguandosi ai

criteri giuridici testé enunciati.

Per questi motivi, ecc.

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.

Sezione I civile ; sentenza 29 agosto 1963, n. 2392 ; Pres.

Celentano P., Est. Stella Eichtee, P. M. Cutru

pia (conci, parz. diff.) ; Lomani (Avv. Supino) c.

Min. esteri.

(Conferma App. Roma 2 agosto 1960)

Console — Depositi volontari — llesponsabilità dello Stato italiano (R. d. 7 giugno 1866 n. 2996,

regolamento della legge consolare, art. 114). Console — Depositi ili moneta estera — Oggetto

dell'obbligo di restituzione (R. d. 7 giugno 1866

n. 2996, art. 114).

Lo Stato italiano è responsabile dei depositi eseguiti presso i

consoli ai sensi dell'art. 114 del regolamento consolare. (1) Non essendo ammesso il deposito irregolare presso il console,

questi è tenuto a restituire la somma in moneta estera

ricevuta in deposito, e non Vequivalente in lire ita

liane. (2)

La Corte, ecc. — Deve preliminarmente disporsi la

riunione del ricorso principale e di quello incidentale, clie sono iscritti sotto distinti numeri di ruolo.

Deve esaminarsi poi il ricorso incidentale, che, con il

suo unico motivo, censura la sentenza per avere ritenuto

la legittimazione passiva del ministero degli affari esteri.

L'amministrazione, denunciando la violazione e la falsa

applicazione degli art. 113, 114, 115, 116, 117, 118, 119

del regolamento per l'esecuzione della legge consolare

approvato con r. decreto 7 giugno 1866 n. 2996, in rela

zione all'art. 28 della Costituzione e al r. decreto legge 5

dicembre 1938 n. 1928, il tutto in relazione agli art. 100

e 360, nn. 1, 3 e 5, cod. proc. civ., sostiene che il deposito in questione erroneamente è stato considerato riferibile

ad essa. In vero i consoli, quando accettano « sotto la loro

responsabilità », ai sensi dell'art. 114 del detto regola

mento, depositi da parte di connazionali, adempiono una

funzione che non rientra tra quelle proprie dell'ammini

strazione degli esteri, ma che li riguarda personalmente. Il contratto di deposito, per essere riferibile all'ammini

strazione, deve essere stipulato con le rigorose e inderoga bili formalità stabilite dalla legge e dal regolamento sulla

contabilità generale dello Stato, mentre il deposito presso

(1-2) Sulla prima massima v., in senso conforme, Cass. 15

maggio 1959, n. 1445 (Foro it., Rep. 1959, voce Console, n. 1, citata nella motivazione della presente), che ha riformato App. Trento 13 settembre 1957 (id., Rep. 1958, voce cit., n. 13 ; rip. in extenso in Foro pad., 1958,1, 04, con nota critica di Biscottini).

Sulla seconda massima, non risultano precedenti editi.

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