senza smog Vivere - la Repubblica

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DOMENICA 27 FEBBRAIO 2005 D omenica La di Repubblica L VISBY (Svezia) a vecchia petroliera continua ad attraccare al solito mo- lo del porto nuovo, a ridosso delle mura medievali della città. Ma fra un viaggio e l’altro della “Gunnfjaun”, ades- so, passa ogni volta un po’ di tempo in più. Il mondo ha una sete inesauribile di petrolio. Ovunque, tranne qui, al centro del Mar Baltico: l’Isola del Domani, di petrolio, ha sempre meno biso- gno. Goeran Bylund, funzionario dell’Agenzia per l’Energia di Go- tland, sfoglia con orgoglio i dati dei registri della capitaneria di por- to: «Ogni anno — dice — le importazioni di petrolio diminuiscono». A qualche centinaio di metri dal molo, sulle rovine della poderosa cattedrale gotica, c’è un velo di neve. Nella precoce sera baltica, la brezza che spira dal mare sulla piazza è gelida. Ma dai comignoli del- le case intorno, non esce un filo di fumo. I tre quarti delle case della città si riscalda con un sistema centralizzato, alimentato dai trucio- li di legno delle segherie e dai rifiuti agricoli. In tutta l’isola di Gotland (60mila abitanti per 100 chilometri di lunghezza) su 14mila famiglie, elenca Bylund, solo 2.500 continuano a riscaldarsi con il gasolio: il resto provvede con l’elettricità o con biocarburanti come i trucioli. Nell’Isola del Domani, lo smog è storia di ieri. È il primo capitolo dell’utopia che il comune di Visby e il resto del- l’isola di Gotland hanno cominciato a disegnare dieci anni fa. Le uto- pie si fondano su impegni morali e quello messo ai voti — e appro- vato — nel 1995 è più di una scommessa. Basta con lo smog, basta con l’effetto serra, basta con i discorsi senza conseguenze, recita quella dichiarazione. «Nel giro di una generazione, ci impegnamo a fare di Gotland un’isola che funziona con le energie alternative»: mai più una goccia di petrolio. Nel giro di una generazione significa nel 2025, fra vent’anni. I primi dieci sono passati mettendo nell’utopia abbastanza zavorra concreta da tenerla con i piedi per terra. «Ab- biamo imparato — dice Bertil Klintbom, l’ingegnere capo del Co- mune — che l’ecologia, piuttosto che una serie di ricette già pronte, è anzitutto un modo di pensare. Si tratta di guardarsi attorno: oggi i trucioli, domani l’acqua del mare». (segue nella pagina successiva) Servizi di LESTER BROWN, ANTONIO CIANCIULLO, BARRY COMMONER, FRANCESCO MERLO, JEREMY RIFKIN L’inquinamento avvelena l’aria del mondo, il clima è ammalato: costruire un futuro più pulito è la nuova sfida dei governi. C’è un’isola nel mar Baltico che ha trovato la ricetta vincente. Siamo andati a scoprirla Vivere spettacoli Battisti e il meglio di Sanremo EDMONDO BERSELLI e GINO CASTALDO le tendenze Le dive adesso fanno la maglia NATALIA ASPESI il racconto Sotto la diga delle Tre Gole FEDERICO RAMPINI i luoghi Persepoli, specchio del cielo PIETRO CITATI l’incontro Lady Nokia: ora mi riprendo la vita CINZIA SASSO MAURIZIO RICCI senza smog ILLUSTRAZIONE TOMEK OLBINSKI/ CORBIS

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DOMENICA 27 FEBBRAIO 2005

DomenicaLa

di Repubblica

LVISBY (Svezia)

a vecchia petroliera continua ad attraccare al solito mo-lo del porto nuovo, a ridosso delle mura medievali dellacittà. Ma fra un viaggio e l’altro della “Gunnfjaun”, ades-so, passa ogni volta un po’ di tempo in più. Il mondo ha

una sete inesauribile di petrolio. Ovunque, tranne qui, al centro delMar Baltico: l’Isola del Domani, di petrolio, ha sempre meno biso-gno. Goeran Bylund, funzionario dell’Agenzia per l’Energia di Go-tland, sfoglia con orgoglio i dati dei registri della capitaneria di por-to: «Ogni anno — dice — le importazioni di petrolio diminuiscono».A qualche centinaio di metri dal molo, sulle rovine della poderosacattedrale gotica, c’è un velo di neve. Nella precoce sera baltica, labrezza che spira dal mare sulla piazza è gelida. Ma dai comignoli del-le case intorno, non esce un filo di fumo. I tre quarti delle case dellacittà si riscalda con un sistema centralizzato, alimentato dai trucio-li di legno delle segherie e dai rifiuti agricoli. In tutta l’isola di Gotland(60mila abitanti per 100 chilometri di lunghezza) su 14mila famiglie,

elenca Bylund, solo 2.500 continuano a riscaldarsi con il gasolio: ilresto provvede con l’elettricità o con biocarburanti come i trucioli.Nell’Isola del Domani, lo smog è storia di ieri.

Èil primo capitolo dell’utopia che il comune di Visby e il resto del-l’isola di Gotland hanno cominciato a disegnare dieci anni fa. Le uto-pie si fondano su impegni morali e quello messo ai voti — e appro-vato — nel 1995 è più di una scommessa. Basta con lo smog, bastacon l’effetto serra, basta con i discorsi senza conseguenze, recitaquella dichiarazione. «Nel giro di una generazione, ci impegnamo afare di Gotland un’isola che funziona con le energie alternative»: maipiù una goccia di petrolio. Nel giro di una generazione significa nel2025, fra vent’anni. I primi dieci sono passati mettendo nell’utopiaabbastanza zavorra concreta da tenerla con i piedi per terra. «Ab-biamo imparato — dice Bertil Klintbom, l’ingegnere capo del Co-mune — che l’ecologia, piuttosto che una serie di ricette già pronte,è anzitutto un modo di pensare. Si tratta di guardarsi attorno: oggi itrucioli, domani l’acqua del mare».

(segue nella pagina successiva)Servizi di LESTER BROWN, ANTONIO CIANCIULLO,

BARRY COMMONER, FRANCESCO MERLO, JEREMY RIFKIN

L’inquinamento avvelenal’aria del mondo, il climaè ammalato: costruire un futuro piùpulito è la nuova sfida dei governi.C’è un’isola nel mar Balticoche ha trovato la ricetta vincente.Siamo andati a scoprirla

Vivere

spettacoli

Battisti e il meglio di SanremoEDMONDO BERSELLI e GINO CASTALDO

le tendenze

Le dive adesso fanno la magliaNATALIA ASPESI

il racconto

Sotto la diga delle Tre GoleFEDERICO RAMPINI

i luoghi

Persepoli, specchio del cieloPIETRO CITATI

l’incontro

Lady Nokia: ora mi riprendo la vitaCINZIA SASSO

MAURIZIO RICCI

senza smog

ILLUSTRAZIONE TOMEK OLBINSKI/ CORBIS

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la copertinaFuturo senza smog

Gotland, tremila chilometri quadrati e sessantamilaabitanti al centro del mar Baltico tra Svezia ed Estonia,dieci anni fa ha ideato un piano: farla finita coni combustibili fossili entro il 2025. Siamo andati a vederecome, grazie al vento, al sole e all’acqua del mare,la scommessa sta diventando vincente

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(segue dalla copertina)

Anche a 27 metri di profon-dità, l’acqua del Baltico,d’inverno, è proprio fred-da. «Ma è sopra lo zero,questo conta» spiegaKlintbom, sprofondato in

una poltrona inondata dalla luce di mez-zogiorno, che filtra attraverso le grandivetrate della nuova libreria dell’univer-sità. «Basta che sia a 3, 4 gradi. Noi laprendiamo e usiamo quel piccolo diffe-renziale termico, moltiplicato da unapompa, per riscaldare tutto questo edifi-cio della libreria». D’estate, il sistemafunziona al contrario, per fare fresco. Lapompa? Alimentata dai pannelli solarisul tetto. «E siamo pronti per applicare lostesso sistema agli altri edifici pubblici, acominciare dagli ospedali». Sperando,domani, di arrivare nelle case.

Tuttavia, l’acqua del mare, magari,porterà lontano, ma sia Klintbom cheBylund sanno che non è accumulandoun piccolo progetto dopo l’altro chel’utopia può decollare. Il riscaldamen-to, del resto, è solo un pezzo, e nemme-no il più importante, del menu dell’e-nergia. Lasciamo da parte, per un mo-mento, auto, camion e autobus che, dasoli, rappresentano un quarto della do-manda di energia dell’isola. Per il resto,il cuore del problema è l’elettricità. Equi, Gotland ha una carta decisiva dagiocare: l’utopia dell’Isola del Domaniviaggia sulle ali del vento.

Come i mulini a vento di una volta, leturbine di oggi sfruttano il movimentodelle pale per generare energia che, an-

ziché macinare il grano, viene utilizzataper generare elettricità. Sono in molti,nel mondo, in Germania, in Danimarca,in Nord America, a puntare sul vento co-me energia «pulita», ma nessuno lo hafatto con tanta decisione come Gotland:il vento, nel Baltico, non manca quasimai e Nasudden, nel sud dell’isola, è lapiù grande installazione al mondo dienergia dal vento. Nessuno ne sta rica-vando di più. Il 20 per cento dell’elettri-cità di Gotland è fornita dalle turbine diNasudden e dalle altre sparse sulle coste.

I permessi di StoccolmaIn realtà, i padri fondatori dell’utopiadell’Isola del Domani erano stati piùottimisti. Nella marcia di avvicinamen-to al 2025, l’obiettivo che, cinque annifa, era stato posto per il 2005 era un 40per cento di elettricità fornito dal ven-to. Da due anni, però, non si parla più discadenze. Hanno scoperto che costatroppo? Non funziona come previsto?No, gli ostacoli non sono economici eneanche tecnici. «L’ostacolo è politico»indica Klintbom. Burocrate in lotta conaltri burocrati, l’ingegnere capo allargale braccia: «Aspettiamo i permessi daStoccolma». La verità, tuttavia, è piùsottilmente politica. «Ci sono delle pro-teste» ammette Helena Andersson, chesi occupa dell’agenzia per lo svilupposostenibile dell’isola. «Dicono che fan-no rumore e che sono brutte, rovinanoil paesaggio: questa è un’isola che vivedi turismo. A protestare non sono intanti, ma fanno molto chiasso».

Per capire le proteste dei nemici del-l’utopia, bisogna arrivare fino a Nasud-den, ad una settantina di chilometri daVisby, fino ad una serie di baie incorni-ciate dal mare. Oggi c’è neve nell’aria e le

anatre dal ciuffo nero punteggiano l’ac-qua bassa vicino riva, galleggiando in si-lenzio. L’unico rumore è il fruscio delleturbine, ma faccio fatica a sentirlo. Sem-brano raffiche di vento in una via stretta:probabilmente, quando la brezza è piùforte annega anche quel fruscio. Mi ba-sta allontanarmi di qualche centinaio dimetri per non sentire più nulla. Ma nonè un bello spettacolo. Nell’aria velatadalla neve, le turbine muovono lenta-

mente le pale a dieci-ventimetri dalla campagna co-me bianchi spettri lattigi-nosi, sopra cespugli, alberi,fattorie. Riesco a contarnequasi un centinaio, masembrano moltiplicarsi al-l’infinito, dovunque ti voltice n’è una decina, sopraf-facendo ogni idea di pano-rama. Come se i bambini diun gigante, alla fine di unafesta, avessero lasciato leloro trottole su tutto il pavi-mento e non si riuscisse piùa capire il disegno sul tap-peto. Gli svedesi chiamanoqueste installazioni «par-chi dell’arte del vento». Gliamericani, «fattorie delvento». Hanno ragione gliamericani: le turbine sonosparse per il paesaggio co-

me mucche al pascolo, solo che sonomolto più ingombranti.

L’ostacolo paesaggistico, tuttavia,non sembra scoraggiare gli uomini del-l’utopia. Il buon senso scandinavo ne as-sicura il radicamento popolare. In mez-zo alle maestose turbine bianche di Na-sudden è possibile scorgere più di un tra-liccio casereccio, su cui il contadino lo-

cale ha sistemato delle pale per farsi l’e-lettricità gratis. E l’esempio si replica nel-le campagne dell’isola. L’Isola del Do-mani, anzi, è piena di entusiasti, convin-ti che l’utopia si traduca nel bilancioquotidiano. Non lontano da Nasudden,Jonny Gustafsson, trasformatosi da turi-sta in residente, ha preso una vecchiastalla e, a forza di pannelli solari e di tur-bine a vento messe insieme nel cortile,l’ha resa completamente autosufficien-te per luce e riscaldamento. Poco a norddi Visby, Per Gatz si è messo in testa di di-mostrare che la vera casa del futuro èquella di duecento anni fa. Materiale ba-se? Le balle di paglia. All’interno di unanormale gabbia di cemento, Gatz, inve-ce di mattoni, mette balle di paglia com-pressa, che poi stucca, all’interno e all’e-sterno. Balle di paglia nel cemento dellefondamenta. Un doppio strato di balle dipaglia, coperto di terra ed erba, come tet-to, su cui poggiano i pannelli solari perl’energia. «Non c’è isolante migliore del-la paglia» assicura Gatz.

Soprattutto, anche nel cuore della so-cialdemocrazia scandinava, l’utopia diGotland non è una pianificazione chescende dall’alto. La municipalità forni-sce i progetti tecnici, cura gli aspetti am-ministrativi e burocratici, ma l’utopiadel vento ha un motore privato. Le turbi-ne sono proprietà di società private,spesso cooperative. «Almeno duemilafamiglie — spiega Helena Andersson —hanno azioni delle società proprietariedelle turbine». In pratica, il 10-15 percento della popolazione ha un interesseeconomico nell’utopia.

Questo tipo di pressione popolare hafinito per conquistare anche chi, dall’e-cologia, ha tutto da perdere. Il miraggiodell’isola «pulita» diventa, infatti, più

MAURIZIO RICCI

IN VOLO SUL VERDEUna veduta aerea dell’isola

di Gotland, tra Svezia

ed Estonia. Sopra, la spiaggia

svedese che di qui al 2025

potrebbe trasformarsi nel lido

più ecologico del mondo

La guerra al petrolionell’Isola di Utopia

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 25DOMENICA 27 FEBBRAIO 2005

difficile, se avete, come Gotland, sullespalle la terza fabbrica di cemento d’Eu-ropa, che consuma un terzo dell’ener-gia dell’isola, scarica nell’aria anidridesolforosa, ha trovato, come mezzo piùeconomico per sostentare i suoi pro-cessi quello di bruciare pneumatici,ma, in fin dei conti, con i suoi 250 postidi lavoro, assicura la sopravvivenza diun’intera cittadina. Cementa, tuttavia,come si chiama la fabbrica, fa la sua par-te. «Collaborano con impegno» assicu-ra Helena Andersson. Le emissioni dianidride solforosa sono state tagliatedel 90 per cento, la bruciatura dei pneu-matici avviene a ciclo chiuso e la fabbri-ca ricicla l’eccesso di calore nelle sue la-vorazioni, così da essere in grado di sod-disfare, autonomamente, un terzo delsuo bisogno di energia.

Strategia del ventoEcco perché Bertil Klintbom, HelenaAndersson, Goeran Bylund pensanoche il rallentamento di questi mesi siasolo temporaneo e che la marcia versoil 2025 possa riprendere presto, a pienoritmo. «Abbiamo già identificato unaserie di siti isolati, dove piazzare le tur-bine» dice Bylund. «In più di un caso inmare aperto. Le installazioni off shoresono più costose di quelle a terra, mapiù efficienti. Cercheremo di metterledove non danno troppo fastidio ai pe-sci, ma sa come sono i pescatori: nonvogliono dirci dove vanno a pescare». Ilrisultato, comunque, dovrebbe essereun raddoppio della produzione di elet-tricità grazie al vento, raggiungendo,dunque, la soglia del 40 per cento deltotale. «E a quel punto — dice Klintbom— cominceranno i problemi».

La strategia del vento, infatti, rischia

di essere vittima del proprio successo.«Oltre il 40 per cento — spiega Klintbom— produrremo troppa elettricità peruna rete costruita pensando solo a rice-verla. Saremo costretti a spegnere leturbine in eccesso». Naturalmente, Go-tland potrebbe esportarla, ma, per far-lo, avrebbe bisogno di un collegamentocon la terraferma che, oggi, non c’è. Nel-l’attesa, tuttavia, c’è un’idea che a Klint-bom piacerebbe molto di più. Nientesoddisfa di più un ambientalista cheprendere due piccioni (ecologici) conuna fava sola. E l’energia eolica in ec-cesso potrebbe consentire di affrontareanche il problema più intrattabile del-l’isola senza petrolio: i trasporti.

«La risposta è l’idrogeno» indica, nonsorprendentemente, Klintbom. Go-tland aveva pensato di dotarsi di unaflotta di autobus a celle di combustibi-le, producendo l’idrogeno grazie aipannelli solari. «Con 2.500 metri quadridi pannelli, avevamo calcolato di potergarantire 200 chilometri di traffico-busal giorno». Il progetto, finanziato dal-l’Unione europea, era portato avantiinsieme all’università di Cambridge. Eparecchie imprese si erano fatte avan-ti. «Anche la Volvo» dice Klintbom. Mauna serie di intoppi burocratici (a Cam-bridge) lo hanno fatto saltare e, insie-me, sono spariti i fondi di Bruxelles per5 milioni di euro. Ma non tutto il maleviene per nuocere, sostiene Klintbom.«E se noi usassimo l’elettricità in ecces-so dalle turbine per produrre idrogeno?Il cerchio si chiude».

Anche con le turbine a tutta forza, il2025, forse, è troppo vicino per l’era del-l’idrogeno. Ma, nell’Isola del Domani,l’utopia l’hanno presa sul serio. E, comeè noto, le utopie si coniugano al futuro.

La nuova Apocalisse è il clima, la certezza ango-sciosa che stiamo tutti lavorando per consegnar-ci alla zanzara. Quale che sia il disorientato orien-

tamento di ciascuno, nel clima risplende, infatti, il di-sagio esistenziale di ogni consapevole cittadino delmondo. Abbiamo l’ossessione di trasformare questonostro vecchio mondo nel paradiso caldo e umido del-l’ingordo anopheles, perché il clima è il Dio bestem-miato che in Marx era la comunità, in Leopardi la fini-tezza del vivere, in Kierkegaard la coscienza infelice. Ilclima è la sicurezza sottosopra che siamo i compagnidi strada di un astuto imperialismo zanzaresco e chepresto diventeremo, umanità estenuata, il nutrimen-to immobile dei ditteri culicidi succhiasangue, perchénell’idea-clima c’è il nuovo valore testimone della ra-zionalità o dell’irrazionalità della Storia. Sul clima siscrivono più libri che sulla libertà e si ispirano più filmche sull’amore. Si vergano protocolli internazionalisull’arroventamento del pianeta e sull’avvento dell’e-state eterna perché il clima è il disagio del nostro tem-po, imprendibile come fu la nausea di Sartre, aggre-gante come fu l’odio di classe, terzomondista come leutopie dannate di Fanon e Lumumba, antiamericanocome De Gaulle, anticomunista perché pone limiti al-lo sviluppo, anticapitalista ça va sans dire.

Ma il clima, l’idea-clima è anche letteratura ed è fan-tasia. E, infatti, a tutti noi sembra quasi di vedere e per-sino, ad ogni calura estiva, di “sentire” l’irrespirabile de-solazione della Terra inaridita, soggiogata da insettiche, dopo essersi spolpata l’umanità, cominceranno amangiarsi tra di loro. Però il clima, come tutte le utopiee tutte le follie, alimenta anche la libertà dello spirito. Einfatti ci spiegano che, per effetto paradosso, l’arrivo delcaldo ci farà morire di freddo e quindi grandi scienziatie profetici sceneggiatori offrono visionialgide, prevedono glaciazioni altrettan-to apocalittiche, con i pinguini alla CasaBianca e le stalattiti nelle moschee delCairo. E talora ci assegnano un mondodi pioggia senza fine, ma c’è anche chiscommette che su quello stesso mondonon pioverà mai più. C’è pure chi preve-de un insieme di siccità e di alluvioni,l’Apocalisse come instabilità, gli umaniridotti a vagabondi impauriti, zingarisempre bagnati e sempre arrostiti, gelo-ni che coabitano con ustioni, deserti disabbia dentro ghiacciai perenni, pesciche nuotano sui rami degli alberi, piante di terra radi-cate in cielo, uccelli rettili ma anche dolori piacevoli eacque che disidratano. Il clima, così, è la Natura controla Storia, ma è anche un dolore individuale, un reuma-tismo e un luogo comune («una volta c’erano le mezzestagioni, signora mia!»). Ed è storicizzabile come tutti ipreconcetti; legittima aggregazioni culturali; fondaprotocolli e alimenta ideologie; è infinito come le gran-di controversie sull’esistenza di Dio; è il malessere del-lo stare al mondo; surroga la sfera fideistico-religiosa.Ed è politica perché il disagio della maggioranza è sem-pre imputabile a qualcuno che si comporta male, allaglobalizzazione, al mercato, agli Stati.

Si addossa la colpa agli uomini moderni. Molti se laprendono con se stessi e con tutti gli Occidentali che,facendo industria della Natura, sarebbero gli utili idio-ti al servizio ora della zanzara ora del pinguino. In tan-ti si è convinti che davvero ci sarebbe sempre bel tem-po se l’industria fosse “naturale”, se non ci fossero ope-rai ma solo contadini, se non ci fossero capitalisti masolo artigiani; se, insomma, per parlare come i Sapien-ti di Storia, non ci fosse l’età moderna e contempora-nea ma ci fosse quella medievale, o giù di lì. Perciò mol-ti giurano e dimostrano, per scienza e per fede, che ilprofitto è anidride carbonica e che dunque solo col-pendo il profitto (il plusvalore espropriato, d’antan), eabolendo il modo di produzione industriale la terranon subirebbe gli oltraggi del clima, come in un mo-dello fantascientifico di società fisiocratica. È una pas-sione nostalgica e poetica, come quella di Lucrezio cherimpiangeva «il tempo nel quale la furia del mare nonfracassava le navi e i passeggeri contro gli scogli perchési ignorava l’arte nefasta della navigazione». Se non na-vigate il mare, non subirete certo naufragi.

Ma contro questa presunzione antropocentrica delclima, altri scienziati, altrettanto autorevoli, ritengonoche i cambiamenti climatici notevoli, quelli preoccu-panti ed epocali, sono al di là della responsabilità e del-

la capacità dell’uomo. C’è una storia del clima che rac-conta i codici della natura e quell’imprevedibilità che,diceva il matematico Poincaré, «ci fa trovare del tuttonaturale pregare per la pioggia o per il bel tempo, madel tutto ridicolo chiedere con una preghiera un’eclis-se». La storia del clima è la storia dell’inadeguatezzadell’uomo nell’Universo. Noi sappiamo che il climacambia, che le glaciazioni, piccole e grandi, si sono ve-rificate prima dell’avvento del modo di produzione in-dustriale, che l’eccentricità dell’orbita ellittica dellaTerra non può essere causata dalle bombolette spray.

È vero che i cambiamenti del clima, i grandi cata-clismi, i terremoti e le inondazioni cambiano la storiadegli uomini. Ma nessuno può dimostrare con la stes-sa evidenza che la storia degli uomini cambia il clima,determina la congiunzione degli astri e i grandi disa-stri, le tempeste di pietre, i tornado, gli uragani, i ci-cloni, lo scirocco, i maremoti, la peste, la malaria.

Paradossalmente, nonostante le denunce morali, sa-rebbe meglio, sarebbe una fortuna per tutti trovare inquesta terra e negli uomini l’agente trasformatore del cli-ma. Fosse davvero colpa del capitalismo, converrebbe atutti diventare “ecocompagni”, tranne ovviamente allazanzara e al pinguino. Il capitalismo si può aggiustare,qualificare, riformare; si può persino abbattere e sosti-tuire con i campi scout o con una infinita scampagnatafuori porta. Abbiamo però il sospetto che anche fuori dalcapitalismo nessuno mai dominerà o solo indovineràcome, dove, quando e cosa pioverà sulle nostre teste.

L’utopia non sopporta la durezza delle cose, si col-loca fuori dalla realtà, non ha nessun valore reale. Tho-mas More costruì la sua Utopia(1516) sull’osservazio-ne che le capre avevano superato di numero gli abi-tanti; prima o poi la caprinità avrebbe soppiantato l’u-manità. Nel Cinquecento la modernità era l’ecologiasovvertita dall’avidità, dall’eccesso di produzione del-

la lana e dall’incremento ovino con l’e-spulsione dalle terre dei contadini. Lamodernità era allevare le capre per to-sarle, e non curarsi dei contadini sradi-cati e abbandonati al vagabondaggio.Per More dunque il futuro era delle ca-pre. Così per i nostri Thomas More delclima, il futuro è delle zanzare.

E tuttavia l’orrore meteorologicostimola la creatività, la prossima Apo-calisse della tecnologia produce tec-nologia. Immaginiamo, infatti, e per-sino costruiamo, come è accaduto aMontreal, città sotterranee, alimenta-

te da aria condizionata, bolle ermetiche e traslucidedove gli uomini si evolvono in superuomini come nelfilm Zardoz, immortali finché rimangono lì dentro,nell’isola dello sviluppo, ma dove l’arrivo di uno ster-minatore barbaro con il volto di Sean Connery, unvecchio uomo come noi, che viene dal mondo delleslavine e delle valanghe, farà ripartire la storia. Alla fi-ne, dunque, il clima è anche la vecchia voglia di cam-biare il mondo, magari coltivando la fertile illusionedi trovare l’energia che non sporca, il modello ano-ressico del consumo senza rifiuto, della vita senzascarti, mangiare ma non digerire, sì alla bocca e no al-lo sfintere, eolomobili a vela, aerei a remi, eliorazzidiurni, riscaldamento a fiato, con l’industria relegatanei musei, nella galleria degli orrori, tra i sacrificiumani degli Aztechi e i campi di concentramento na-zisti. Il clima è la nuova frontiera del “ribellarsi è giu-sto”, ma è anche il pessimismo storico, la natura ma-trigna, la consapevolezza della fragilità dell’uomo.Per ciò, è solo all’inizio la già enorme letteratura sullatirannia del clima, o sull’anarchia del clima o sulla in-controllabilità del clima. Sui disastri, sulle cavallette,sui topi della peste, sul caldo e sul freddo del futuro sipossono costruire politiche apocalittiche o ciniche,stati d’accusa contro questa o quella classe, il climapuò diventare il gioco irresponsabile e pericoloso deipaesi ricchi e industrializzati ma può anche regredirea castigo divino, a diluvio universale, come lo tsuna-mi che punisce l’empietà occidentale dei tanga e del-le feste pagane sulla spiaggia, l’onda purificatrice chesommerge Bacco, tabacco e Venere.

Sharon Stone che, oltre alle belle gambe, fa mostradi una bella testa ha sostenuto su Vanity Fair che, in-viando lo tsunami, Dio ha voluto ricordarci: «Il caposono io». Il Dio della Stone non ha la barba, è laico, èun capo di cui nessuno può venire a capo, è il clima.Non solo per galanteria, anche su questo siamo d’ac-cordo con la Stone.

Prigionieri del climala nuova ApocalisseFRANCESCO MERLO

FOTOVOLTAICO

Nel settore fotovoltaico spiccano due

grandi mercati: quello giapponese (che

copre la metà del totale) e quello tedesco.

Seguono gli Usa con il 12,8%, in crescita

Australia e Asia. L’Italia è al settimo posto,

ma rallenta: ci sono 750 posti di lavoro

contro i 16mila del Giappone

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EOLICO

È l’Unione europea a conservare la

leadership del settore con il 72% del totale

globale: sono quasi 40mila i megawatt

installati nel mondo, oltre 28mila nei paesi

della Ue. Al di fuori dell’Europa, i paesi con

la maggiore diffusione di questa tecnologia

sono gli Stati Uniti e l’India

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la copertinaFuturo senza smog

Scorte in esaurimento, costi crescenti, clima malato:troppe ragioni spingono per una svolta netta nellaproduzione dell’energia che manda avanti il pianeta.Giappone e Germania hanno fiutato l’affare e sonoall’avanguardia per brevetti e capacità industriale.L’Italia rischia di andare fuori mercato

Oggi un americanoin media consumaogni giorno10 chili di petrolio,6 di carbone,6 di metano.Nei prossimivent’anni si giocala partita cruciale:cambiare o farsaltare il sistema

L’ROMA

americano medio fa unadieta pesante. Il suo pastoenergetico quotidianocomprende 10 chili di pe-

trolio, 6 di carbone, 6 di metano: un menua rischio di colesterolo fulminante perl’atmosfera, costretta a ingurgitare in po-chi decenni una quantità di carbonio cheaveva impiegato centinaia di milioni dianni ad accumularsi nelle viscere dellaTerra. Il nostro obeso energetico sa di es-sere un consumatore vorace e compulsi-vo e ogni tanto annuncia l’intenzione diadottare un regime alimentare più sano,ma decenni di promesse non mantenute,a partire da quelle dello shock petroliferodegli anni Settanta, hanno generato inmolti la convinzione che si possa andareavanti così a tempo indefinito.

Eppure questa volta non è più possibilecontinuare a peccare e a pentirsi di averpeccato. La battaglia si gioca tutta neiprossimi 20 anni; entro un paio di decen-

ni il nuovo modello energetico dovrà es-sere messo a punto perché tre spinte con-centriche rendono inevitabile un cambia-mento radicale. La prima è l’aumento deiconsumi trainato dalla crescita di paesicome la Cina e l’India, che stanno per su-perare i big dell’inquinamento: non c’èabbastanza petrolio a buon prezzo per sa-ziare una fame del genere. La seconda è lacorsa verso il picco di produzione delgreggio giunta alle ultime battute: quandola metà delle riserve si saranno trasforma-te in fumo, i prezzi cominceranno a im-pennarsi in maniera non sostenibile. Laterza pressione è data dall’inquinamentoprodotto bruciando petrolio e carbone:l’incremento dell’effetto serra minacciadi far saltare il clima che conosciamo.

Per tutte queste ragioni, se il Novecen-to è stato il secolo dei combustibili fossili,il Duemila non potrà più esserlo. Bastaprendere i dati più ufficiali, quelli della Iea(International Energy Agency) per con-vincersi che, in assenza di correttivi, il de-butto del nuovo millennio sarà da incubo.Al 2030 si prevede un aumento delle emis-sioni di anidride carbonica del 70 per cen-

to. Per la prima volta però la stessa Iea for-mula uno scenario alternativo radical-mente divergente: puntando sul rilanciodelle fonti rinnovabili e sull’efficienzaenergetica trainata dall’innovazione tec-nologica, l’aumento delle emissioni si ri-duce del 16 per cento. Ma è credibile que-sta correzione di rotta o si tratta dell’en-nesimo esercizio virtuoso destinato a re-stare sulla carta?

Vantaggi economici«Èsempre difficile prevedere in astratto seuna promessa verrà mantenuta: meglioguardare a quello che sta succedendo og-gi», risponde Gianni Silvestrini, direttoredel Kyoto Club, il cartello delle industrieitaliane ambientalmente impegnate. «Al-cuni paesi tirano la volata del nuovo siste-ma energetico e stanno acquisendo posi-zioni dominanti che si trasformeranno inun vantaggio economico crescente a dan-no di chi fino all’ultimo momento restaabbarbicato al fronte perdente. La vicen-da, su scala enormemente più grande, so-miglia a quella delle marmitte catalitiche:l’Italia è stata a lungo alla finestra lascian-

dosi sfuggire brevetti e opportunità com-merciali, finché la Germania è entrata ingioco e ha fatto il pieno».

Dai dati contenuti nel dossier del Kyo-to Club, risulta che la corsa verso l’energiadel ventunesimo secolo è saldamenteguidata da due paesi: Giappone e Germa-nia. Tokyo ha puntato tutte le sue cartesull’abbinata solare e idrogeno. Nel 2004ha realizzato 70mila case fotovoltaichearrivando a quota 250mila (in Italia il pro-gramma 10mila tetti fotovoltaici si è fer-mato prima di arrivare a metà) e portan-do il totale del fotovoltaico installato so-pra quota 1000 megawatt, l’equivalentedi una robusta centrale convenzionale.

Una performance straordinaria otte-nuta con incentivi estremamente mo-desti: il contributo per il fotovoltaico èsceso al 12 per cento. La percentuale è ri-dicola rispetto al 65 per cento che, sullacarta, dovrebbe rilanciare il settore inItalia. Ma mentre mille cavilli bloccanole rinnovabili nostrane, in Giappone unincentivo inferiore a uno sconto natali-zio basta perché il sistema è affidabile:l’energia che la singola casa produce nel-

ANTONIO CIANCIULLO

26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 FEBBRAIO 2005

Vento e sole, il motore di domani

L’entrata in vigore del protocollo di Kyoto è unapietra miliare nella storia dell’umanità. Per laprima volta in assoluto la grande maggioran-

za degli uomini si sono uniti con l’impegno di pro-teggere il delicato equilibrio della Terra e far frontealla più grave crisi che sia mai intervenuta in oltreduecentomila anni dacché l’Homo Sapiens è sullaTerra: il riscaldamento globale. Ma questo è solo unpiccolo passo: ora noi dovremo mobilitare le risor-se e i talenti per affrontare il problema del riscalda-mento globale, con l’obiettivo di garantire la transi-zione dall’era del petrolio a quella di un’economiaverde, non inquinante, basata sull’idrogeno.

Sono stato molto lieto, pochi giorni fa, di inaugu-rare a Sorrento uno dei primi progetti di celle a com-bustibile alimentate a idrogeno, nell’ambito del-l’Hydrogencities Lighthouse Programme. Mi auguroche migliaia di altri progetti di produzione energe-tica da idrogeno come quelli delle città di Sorrento edi Orvieto siano inaugurati nei prossimi anni. Pro-vate a immaginare: con il moltiplicarsi di celle a

combustibile alimentate ad idrogeno come quelleche illumineranno il Chiostro di San Francesco aSorrento, con la progressiva introduzione di auto-mobili alimentate a idrogeno, con l’idrogeno pro-dotto da fonti energetiche rinnovabili, tutte le pic-cole città alla fine potranno raggiungere la loro indi-pendenza energetica. Alcuni benefici saranno evi-denti già prima: nell’arco di cinque - dieci anni, a se-conda di quanto velocemente si opererà la transi-zione all’energia rinnovabile e all’economia aidrogeno, le città saranno più verdi. I cittadini pro-durranno elettricità a casa propria dall’energia so-lare e dall’acqua, migliorando la qualità dell’aria,dell’acqua, della flora, preservando la biodiversitàche consente loro di rivendicare le tradizioni ga-stronomiche famose nel mondo. Questo sostanzia-le miglioramento della qualità della vita è l’essenzastessa del Sogno Europeo, mentre gli Stati Uniti ri-schiano di rimanere indietro per la scarsa lungimi-ranza della loro amministrazione.

(Traduzione di Anna Bissanti)

Entro il 2060, secondo uno

scenario di crescita

elaborato dalla Shell, la metà

dell’energia verrà dalle fonti

rinnovabili

2.060

Tra il 1994 e il 2004,

l’incremento dell’eolico nel

mondo è stato del 50%

più alto di quello del nucleare

nello stesso periodo

50%

JEREMY RIFKIN

Ora bisogna entrarenell’era dell’idrogeno

L’Europa è esemplare per lo sviluppo dell’e-nergia eolica. Sebbene le sue riserve eolichesiano modeste se paragonate a quelle degli

Stati Uniti, il Vecchio Continente sta procedendomolto più velocemente per imbrigliarle e sfruttarle.Tra sedici anni, secondo le proiezioni, l’elettricitàgenerata dall’energia eolica dovrebbe essere in gra-do di coprire le necessità della metà degli europei.Oltre a quelle su terra, l’Europa sta altresì sfruttan-do le proprie risorse eoliche off shore: una valuta-zione del potenziale off shore europeo effettuata nel2004 dal gruppo di consulenza per l’energia eolicaGarrad Hassan ha concluso che se i governi si ado-pereranno con maggior impegno per sfruttare le lo-ro ingenti risorse eoliche off shore, il vento potreb-be di fatto soddisfare tutte le necessità elettriche de-gli europei entro lo stesso 2020. La capacità mon-diale di produzione di energia eolica, che cresce adun ritmo superiore al 30 per cento annuo, è balzatada meno di 5.000 megawatt del 1995 ai 39.000 me-gawatt del 2003, un aumento pari a otto volte circa.

LESTER BROWN

La turbina eolicache ci salverà

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TO

A.G

.F.

Page 5: senza smog Vivere - la Repubblica

le ore di punta viene immessa in rete epagata secondo il prezzo di vendita, nonquello di produzione. In altre parole perogni chilowattora prodotto se ne puòconsumare gratuitamente un altro. Gra-zie a questo quadro di certezze, ormaiuna nuova casa su quattro installa unimpianto fotovoltaico e Tokyo vuole ar-rivare a 4.800 megawatt entro il 2010: unobiettivo ambientalista ma anche estre-mamente conveniente visto che le indu-strie giapponesi controllano già più del-la metà del mercato globale del settore.

Inoltre con la Prius, promossa nel 1997,lo stesso anno in cui è stato firmato il pro-tocollo di Kyoto, la Toyota ha fatto un al-tro passo verso la scalata al vertice delmercato dell’auto. Il motore ibrido diquesta macchina, bollato come un gio-cattolo costoso otto anni fa, si sta rivelan-do un buon affare, capace di ampliare imargini di espansione della casa giappo-nese anche nel mercato americano e disfondare in California.

Il principale concorrente del Giappo-ne, la Germania, ha scelto una strategiadiversa, un approccio a tutto campo. Ber-

lino ha giocato una prima fiche sul foto-voltaico che l’anno scorso gli ha fruttato300 megawatt e un giro d’affari da un mi-liardo di euro; poi ha fatto una secondascommessa sul solare termico producen-do 800mila metri quadri l’anno dei pan-nelli che danno acqua calda. E infine haconquistato la leadership mondiale del-l’eolico. «Già oggi il vento in Germania va-le un sesto del nucleare e la crescita è ve-locissima», continua Silvestrini. «Del re-sto a livello globale nel decennio 1994-2004 l’incremento dell’eolico è stato, intermini assoluti, del 50 per cento più altodi quello del nucleare: il vento sta assu-mendo il ruolo che ha avuto l’idroelettri-co all’inizio del Novecento».

Ma Berlino non si accontenta di eccel-lere nel duo solare-eolico. La new entrydel suo pacchetto energetico sono i bio-combustibili, cioè i carburanti che ven-gono dal mondo vegetale e dunque tra-sferiscono nella combustione l’energiapresa dal sole. Anche in questo caso il con-trasto con l’Italia, già staccata di dodicilunghezze sul solare, non potrebbe esse-re più netto. L’industria nazionale aveva

raggiunto il terzo posto in Europa perchéaveva avuto fiducia e investito superandoquota 200mila tonnellate? Merita unabacchettata: nell’ultima Finanziaria il tet-to di biocombustibili defiscalizzati è sta-to portato da 300mila a 200mila tonnella-te. In altre parole le industrie più avanza-te sono state punite lasciando una partedei carburanti ecologici senza incentivi. Atutto profitto di Berlino che ha completa-mente eliminato il limite sulla defiscaliz-zazione puntando a un forte allargamen-to del mercato: una scelta strategica chemira a fare dell’energia il mercato alter-nativo di un’agricoltura che fatica a reg-gere la concorrenza dei paesi extraeuro-pei. Anche in questo caso, con una politi-ca agricola europea che sta spostandosempre più gli incentivi verso il settoreenergetico, creare industria vuol dire pre-notarsi il mercato del futuro.

Infine la manovra avvolgente tedesca sichiude con un programma di aumento diefficienza energetica del 50 per cento in 30anni: stesse prestazioni per consumi di-mezzati. Il che vuol dire spingere l’accele-ratore della ricerca sul fronte degli elet-

trodomestici (un frigorifero super effi-ciente permette di ripagare in quattro an-ni l’extra costo), sui trasporti, sull’illumi-nazione (le lampade compatte fluore-scenti consumano 5 volte meno e durano7 volte più delle altre), sui materiali di coi-bentazione delle case.

Il modello BolzanoSarebbe comunque sbagliato pensareche l’Italia resti immobile di fronte a que-sta sfida. Nonostante l’assenza di una re-gia nazionale capace di dare prospettivaalle imprese, il sistema industriale man-tiene una discreta efficienza (è l’unico adavere abbassato le emissioni in linea conil protocollo di Kyoto) e gli enti locali co-minciano a muoversi. Lazio, Toscana eCampania hanno deciso di rendere ob-bligatoria l’installazione di pannelli sola-ri sulle nuove case. Le Marche hanno va-rato un piano energetico che elimina legrandi centrali e assicura la crescita del-l’offerta solo grazie a un pacchetto forma-to da efficienza, rinnovabili e mini coge-nerazione. E Bolzano, che vanta 300 me-tri quadrati di pannelli solari contro la

media italiana di 8 per mille abitanti, dà lalinea sul fronte domestico. «In Alto Adigehanno varato una normativa che offre al-l’industria locale la possibilità di compe-tere con la Germania», osserva GiuseppeOnufrio, direttore del centro studi Issi.«Invece al ministero delle Attività produt-tive si sta mettendo a punto uno standarddi consumi energetici della casa che foto-grafa l’esistente senza introdurre alcunmiglioramento: un nuovo edificio in Ita-lia sarà autorizzato a consumare il 20-30per cento di energia in più rispetto a unedificio tedesco o austriaco».

Nella grande partita del clima la vera in-cognita restano i paesi di nuova industria-lizzazione. L’impatto del boom cinesesull’ambiente e sui prezzi delle materieprime è stato devastante, ma a Shanghaiormai devono estrarre a sorte i numeridelle targhe perché non c’è più posto perle auto. Pechino potrebbe essere tentatadi saltare il percorso classico in due tempi,inquinamento e disinquinamento, spo-sando uno sviluppo basato sull’efficienza.Sarebbe un colpo d’acceleratore formida-bile per il nuovo mercato energetico.

BIOMASSE

In Europa il 51% dell’energia primaria

prodotta da fonti rinnovabili viene

dalla legna, il cui uso ha avuto un grande

progresso negli ultimi 10 anni.

Se la Francia è il paese leader del settore,

la Germania ha però avuto la crescita

maggiore: +70% dal 1999

EFFICIENZA

Una parte importante dell’energia del futuro

verrà dall’aumento di efficienza: un

frigorifero di nuova generazione permette,

grazie ai risparmi sulla bolletta, di ripagare in

4 anni l’extra costo; le lampade compatte

fluorescenti consumano 5 volte meno e

durano 7 volte più delle altre

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27DOMENICA 27 FEBBRAIO 2005

Nel 2004 il Giappone è

arrivato a quota 250mila

case fotovoltaiche, con

70mila realizzate solo nel

corso dell’ultimo anno

250mila

GLI IMPIANTIGli impianti con turbine a

vento sono l’alternativa

più valida ai combustibili

fossili per produrre energia

Germania, Spagna

e Danimarca sono oggi

i maggiori produttori

di energia eolica: insieme

coprono l’84% della

potenza eolica della Ue

In confronto, l’utilizzo di gas naturale, che guida laclassifica dei combustibili fossili, ha avuto un tassodi crescita annuale che ha superato il 2 per cento, se-guito dal petrolio con meno del 2 per cento e dal car-bone con meno dell’uno per cento. La capacità diprodurre energia dal nucleare è cresciuta del 2 percento. L’industria moderna di sfruttamento dell’e-nergia eolica nacque in California agli inizi degli an-ni ’80, ma nell’adozione di questa nuova promet-tente tecnologia gli Stati Uniti sono stati distanziatidall’Europa. La Germania ha sorpassato gli StatiUniti nel 1997: in Europa è il paese con la massimacapacità di produzione di energia eolica, pari a14.600 megawatt. La piccola Danimarca, che inau-gurò l’era dell’utilizzo dell’energia eolica in Europa,ormai ricava il 20 per cento del proprio fabbisognodi elettricità dal vento ed è il paese leader nella pro-duzione ed esportazione di turbine eoliche.

(Copyright W. W. Norton&Company,brano tratto da “Outgrowing the Earth...”)

Traduzione di Anna Bissanti

La soluzione del problema energetico è a porta-ta di mano: bisogna utilizzare le fonti attivatedal sole. L’eolico è già oggi competitivo e con-

tinua a crescere a buon ritmo; e così anche il solaretermico, quello che viene utilizzato per fornire diret-tamente il calore alle case per gli usi sanitari. Per il fo-tovoltaico, che in prospettiva rappresenta la più in-teressante delle fonti pulite, basterebbe in realtà unatto di volontà politica. Se ad esempio il governo de-gli Stati Uniti ordinasse la quantità di pannelli foto-voltaici necessaria a soddisfare anche soltanto le sueesigenze dirette, questa decisione costituirebbe unvolano capace di far raggiungere il livello della com-petitività ai prezzi di produzione che già da decennisono in forte calo. E a quel punto si aprirebbe ancheil mercato di paesi in via di sviluppo, dove molte zo-ne sono prive di rete elettrica e l’uso delle fonti rin-novabili rappresenta una grande speranza.

Finora il percorso verso il nuovo sistema energe-tico non è stato sufficientemente rapido perché leresistenze sono state molto forti. Credo però che le

spinte al cambiamento diventeranno sempre piùdecise perché la preoccupazione per il global war-ming cresce di giorno in giorno. Per capire il perchébasta vedere quello che sta già succedendo: negliStati Uniti il record dei tornado viene battuto co-stantemente anno dopo anno e gli eventi meteoro-logici estremi aumentano ovunque. I disastri con-tinuano ad accumularsi e la crescita dell’effetto ser-ra potrebbe portare da un momento all’altro a fe-nomeni ancora più drammatici di quelli che giàstiamo vivendo.

Gli esseri umani hanno spezzato il cerchio dellavita spinti da un’organizzazione sociale che è stataprogettata per «conquistare» la natura. Il risultatoultimo è la crisi ambientale, una crisi che minacciadi farci precipitare in un mondo invivibile: per so-pravvivere dobbiamo imparare a restituire alla na-tura la ricchezza che le chiediamo in prestito. Dob-biamo chiudere il cerchio tornando a utilizzare l’e-nergia del sole invece di accanirci nello sfrutta-mento dell’ultimo pozzo di petrolio.

BARRY COMMONER

Ridiamo alla naturala sua ricchezza

In termini di investimenti,

i due settori dell’eolico e del

fotovoltaico superano ormai

i 10 miliardi di euro l’anno

su scala mondiale

10mld di euro

FOTO ZEFA

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Page 6: senza smog Vivere - la Repubblica

il raccontoProgetti titanici

Quattro giorni di barca, tra canyon e paesaggi che sembranodipinti dagli antichi acquarellisti, per arrivare alla “Madre ditutte le dighe”. Alta come la Tour Eiffel, lunga due miglia, creasullo Yangtze un lago lungo come la Milano-Roma e produrràpiù energia di dieci centrali nucleari. Ma ha fatto nascerela prima contestazione “verde” nella Cina comunista

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 FEBBRAIO 2005

Sotto la diga delle Tre Gole

NSullo YANGTZE

onostante la vegetazionefitta abbarbicata alle duepareti scoscese sui bordidel fiume, siamo avvolti

in un silenzio spettrale, anormale. Nonun canto di uccello. «È come se loro sa-pessero quello che sta per succedere —dice la mia guida Zhou Zhigang — per-ché in effetti sono scomparsi già datempo. Gli uccelli, le scimmie, tutti glianimali che popolavano queste vallisono fuggiti. Dove saranno andati?».Abbiamo lasciato il vaporetto al portic-ciolo di Dachang, solo una barca pic-cola può portarci fino sul Daning, af-fluente dello Yangtze. Siamo nelle TreGole Minori, un angolo di natura anco-ra selvaggia nel centrodella Cina. Scivoliamosull’acqua che qui è mira-colosamente verde, inmezzo a rocce ripide,strani picchi a forma difunghi, un canyon rivesti-to di boschi lussureggian-ti. Lo spettacolo ricordal’Ardeche o le Gorges duTarn nel Massiccio Cen-trale francese. Altrove lamontagna scopre un belcolore rosso, ti regala lasensazione irreale di es-sere finito in mezzo alleDolomiti allagate. Caver-ne di stalattiti appaionoall’improvviso dietro una sinuosità delfiume. Qualche nuvola si infila tra le ci-me strette e compone i paesaggi incan-tati degli antichi acquarellisti cinesi. Ivillaggi sulle rive sono primitivi, case dipietra e fango e paglia ma con qualchetocco di eleganza: per tradizione i tettidi tegole nere hanno grondaie scolpitea forma di testa di drago. Duecentometri sopra di noi una sorgente diven-ta cascata e si getta a precipizio sul fiu-me. Chissà come, lassù al suo fianco sta

appollaiato un tempio buddhista coltetto a pagoda: opera d’arte e di sbalor-ditiva audacia.

Sopra ciascun villaggio vediamo ap-parire dei cartelloni voltati verso noi na-viganti. Indicano sempre gli stessi duenumeri. Un anno, il 2005, e un’altitudi-ne, 156 metri. È la data in cui l’acqua ar-riverà fin là, molto più in alto delle case.È l’anno prestabilito per la loro morte.Anche loro spariranno inghiottite sottol’acqua. Nelle Tre Gole Minori oggi re-stano da evacuare 40.000 abitanti. Altri90.000 non hanno voluto aspettare finoall’ultimo e sono già partiti. Sono picco-li numeri in confronto ai due milioni dipersone “spostate” negli ultimi otto an-ni dalle valli vicine, in questa regioneinondata e sconvolta dalla più immaneopera di ingegneria mai realizzata dal-l’uomo, la diga delle Tre Gole. Ma qual-che lacrima merita di essere versataanche per questi ultimi sfrattati, pove-ri discendenti di una civiltà millenaria;per i templi della dinastia Song sepoltiin queste foreste dal 300 dopo Cristo;per la storia segreta dei Ba, il misterio-so popolo di aborigeni che dal 1600avanti Cristo vissero di commercio delsale e votarono sacrifici umani ai lorodei. Ancora pochi anni fa queste goleapparivano molto più alte, la roccia eraall’asciutto fino in fondo, il corso d’ac-qua era così magro che lunghi tratti delDaning non erano quasi navigabili.Perciò un lavoro per gli uomini di quiera tirare con le funi le barche dei mer-canti e viaggiatori diretti allo Yangtze.Adesso che finalmente si naviga, l’ac-qua che sale caccia la gente e i suoi me-stieri antichi. «In queste zone un ritoancestrale — dice Zhou — esigeva chele spose piangessero il giorno del ma-trimonio, e quelle piangevano di di-sperazione sincera, perché le gole so-no così impervie e irraggiungibili chenon sarebbero mai più tornate a vede-re le loro famiglie». Vuole mettermi inguardia: non idealizzare il passato, cheera fatto di miseria e sofferenza.

Il presente lo ritroviamo invece non

appena tornati al vaporetto, che ci ri-porta sulle acque più ampie, ma neredi liquame fetido degli scarichi indu-striali e fognari: sua maestà lo Yangtze.Il suo vero nome è Chang Jiang, chevuol dire fiume lungo, e il maggiorefiume cinese è anche una leggenda, uncondensato di storia, geografia edeconomia della più grande nazionedel mondo. Nasce in paradiso, a 5.400metri di altitudine sul monte Tangulain Tibet, percorre 6.300 chilometri,trasporta 900 miliardi di tonnellated’acqua all’anno, fertilizza due milio-ni di chilometri quadrati di pianure,attraversa undici province abitate da400 milioni di persone, inghiotte gliscarichi industriali della città più po-polosa e inquinata del pianeta —Chongqing, 30 milioni di abitantischiacciati a ridosso dei monti in uninferno dantesco di altiforni e cimi-niere — prima di gettarsi nel Mar Ci-nese Orientale vicino a Shanghai.

Piene devastantiSimbolo di fecondità, padrone del de-stino dei contadini dall’alba dell’uma-nità, depositario di potere e di prospe-rità, per secoli lo Yangtze ha trasporta-to mercanti di riso tè e oppio sulle lorogiunche e sampan, prima di assisterealle incursioni delle cannoniere ameri-cane o giapponesi. Ha sterminato po-polazioni con le sue piene devastanti. Èstato il teatro della più celebre nuotata“politica” della storia, la traversata diMao Zedong immortalata nel 1956 neidocumentari in bianco e nero. Fu sco-perto dal turismo colto occidentale al-la fine dell’Ottocento, quando l’ingleseArchibald John Little scrisse il primodiario di viaggio intitolato Attraverso leGole dello Yangtze. Il romanziere So-merset Maugham vi navigò per 1.500miglia nell’inverno del 1919 per conse-gnare le sue impressioni in Su unoschermo cinese.

Da allora è diventato anche un fiume-culto per i viaggiatori, con il businessdelle crociere. Lussuose e deludenti

quelle per gli stranieri, da quando losmog industriale e le alterazioni clima-tiche nascondono le cime dei monti inuna foschia tenace. Più avventurosa latraversata sulle navi per turisti cinesi: lasveglia da caserma urlata negli altopar-lanti alle cinque del mattino, le latrinealla turca (in prima classe), il fetore on-nipresente della zuppa di cavolo, i ca-merieri che lavano le stoviglie e cuocio-no il riso nell’acqua del fiume. Ma il tu-rismo conta poco, oggi lo Yangtze è so-prattutto l’arteria centrale del boomeconomico della nuova superpotenzamondiale. L’autostrada fluviale che tra-sporta 100.000 navi all’anno, superpe-troliere comprese. La più grande fognaa cielo aperto del pianeta, principalefonte d’inquinamento dell’interoOceano Pacifico. Ed è il teatro della piùformidabile, inquietante sfida mai lan-ciata dall’uomo alla natura: “la Diga”.

La raggiungiamo dopo quattro gior-ni di navigazione nelle Tre Gole, quan-do le valli improvvisamente si allarga-no a Xiling e il mostro invade l’orizzon-te a perdita d’occhio. Alta come la torreEiffel, lunga due miglia, è arduo foto-grafarla e perfino vederla tutta, per lesue dimensioni inconcepibili e anche acausa della nebbia permanente che hasollevato. L’umidità si ficca in gola,eserciti di zanzare ci si appiccicano ad-dosso. «Il clima è cambiato — diceZhou — viviamo immersi tutto l’annonelle nuvole create da questo immensoserbatoio». Più che un lago è un mare,lungo quanto l’autostrada Milano-Ro-ma, “fabbricato” dagli uomini e dalloYangtze nel cuore della Cina per realiz-zare un sogno titanico. Lo trattiene lamadre di tutte le dighe mondiali, duevolte più grande di Assuan in Egitto,cinque volte la Hoover Dam america-na. È la Grande Muraglia del XXI seco-lo. Con le sue 26 turbine produce l’e-nergia idroelettrica equivalente a diecicentrali nucleari e tutto il paesaggio at-torno è ridisegnato dalla sete di ener-gia: dalla diga partono selve di tralicciad alta tensione, fasci di cavi si incro-

IL FIUMENella foto qui sotto una

panoramica della Gola Qutang,

la prima delle tre attraversate

dal fiume Yangtze: è lunga solo

otto chilometri ma dal punto

di vista paesaggistico è la più

bella. Nella pagina accanto:

una baracca-ristorante lungo

le rive

FEDERICO RAMPINI Un’intera regioneè stata sconvolta:due milioni diabitanti spostati,150 città grandie piccole e 1300villaggi inghiottitidalle acque, 8000 sitiarcheologici distrutti

Page 7: senza smog Vivere - la Repubblica

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 27 FEBBRAIO 2005

ciano e si sovrappongono come dei ca-valcavia autostradali, invadono lemontagne, allungano i tentacoli versole grandi pianure e in direzione del del-ta, giù giù fino a illuminare Shanghaiperché i suoi cantieri edili possano in-nalzare grattacieli anche di notte.

Il mare artificiale che preme contro ladiga sommerge la nuova Atlantide ci-nese: nella sua implacabile avanzataprogrammata dagli ingegneri l’acquaha inghiottito in sei anni 13 città da cin-quanta-centomila abitanti, 140 citta-dine più piccole, 1.352 villaggi, 8.000 si-ti archeologici, un mondo di templi pa-gode e tombe. Il cantiere della moder-nizzazione ha braccato e disperso unafauna più antica di noi: gru e leopardi,alligatori e storioni. Il raro delfino d’ac-qua dolce durante millenni di evolu-zione si era adattato alle acque fangosedello Yangtze, diventando semi-ciecoma sviluppando un udito più sofistica-to del sonar: sparisce anche lui, sfian-cato dalle acque tossiche e dallo shockacustico dei motori di vascelli da dieci-mila tonnellate che risalgono dall’o-ceano attraverso le nuove chiuse.

Quest’opera temeraria ha avuto trale sue conseguenze collaterali la nasci-ta del primo movimento “verde” nellaCina comunista. Tra i suoi pionieri,spesso eroici per i rischi che affrontano,ci sono due donne. Dai Qing, ex-croni-sta del Guangming Daily, scoprì i rischiper l’ambiente negli anni Ottanta se-guendo per il suo giornale i dibattiti tragli scienziati sull’impatto della futuradiga. Nel 1989 raccolse gli allarmi degliesperti in un libro, Yangtze! Yangtze!: fumesso al bando dalla censura e le valsedieci mesi in prigione. Ma nel 1992,quando l’allora primo ministro Li Pengvolle un pronunciamento formale delCongresso di Pechino per avviare la fa-se preliminare del cantiere delle TreGole, a sorpresa un terzo dei deputatigli votò contro. Un dissenso ecceziona-le per un’Assemblea solitamente obbe-diente e passiva. Da quel momento ilpotere è stato costretto a dedicare più

attenzione ai problemi dell’ambiente,fino a tollerare di recente perfino alcu-ne organizzazioni ambientaliste natespontaneamente nella società civile.

Alla testa di uno di questi movimentiora c’è una Erin Brokovich cinese. WuZhiling, 29 anni, ebbe un’illuminazioneguardando — «su Dvd pirata», confessa— il film in cui Julia Roberts impersonala paladina californiana della lotta allemultinazionali. Con il marito e il figlio ditre anni, Wu vive vicino a Chongqing.Un anno fa ha scoperto che la sua casa èimmersa nei veleni industriali — cromoe pesticidi — che l’impresa agrochimi-ca Minfeng scarica illegalmente nelloYangtze. Come Erin Brokovich, Wu si èimprovvisata perito chimico e avvoca-to, da autodidatta ha cominciato adanalizzare campioni di terra e acqua in-quinata, ha raccolto firme tra i vicini. Hacreato un’associazione ambientalista,la Casa del Futuro. Sta preparando unacausa in tribunale, dall’esito quasi di-sperato, contro il colosso industriale. Illieto fine di Hollywood per lei è lontano.«Non sogno gli indennizzi milionari cheriescono a ottenere i consumatori ame-ricani — mi dice — , io vorrei solo riu-scire a dimostrare che abbiamo anchenoi dei diritti, che esistono gli strumen-ti per difenderli, che c’è una speranzaper i nostri figli».

Ancora pochi anni fa, quando suChongqing si formò una nube tossicapiù letale del solito, le autorità chia-marono l’esercito che cercò di smuo-vere la cappa di gas a cannonate… e sututta la vicenda calò il segreto militare.Oggi il clima è diverso. L’informazionesull’inquinamento è in prima paginasui giornali. Il China Daily, controlla-to dal partito comunista, pubblica uneditoriale esplicito: «Al termine di 15anni di ricerche sullo Yangtze, loscienziato Zhang Qi ha lanciato l’allar-me. Il fiume va verso il collasso totaledel suo eco-sistema, se non si intervie-ne con urgenza per contrastare l’in-quinamento».

All’inizio di febbraio il governo di

Wen Jiabao ha preso una misura sen-za precedenti. Ha bloccato all’im-provviso 22 cantieri di dighe e centralielettriche per verificare la loro compa-tibilità con le leggi sull’ambiente.Quattro dei progetti bloccati fannoparte del complesso delle Tre Gole, in-clusa una turbina aggiuntiva da 4.500megawatt annessa alla diga. Tuttavia èimprobabile che quei progetti sianobloccati per sempre. Il perché lo si ve-de proprio a ridosso della diga, dove atutte le ore del giorno e della notte lun-ghe colonne di navi porta-carbone at-tendono il turno di passare le chiuse:eccola lì, la nera alternativa cinese al-l’energia idroelettrica.

Rischio di catastrofeMa oltre allo sconvolgimento già pro-vocato agli equilibri naturali delle TreGole, il futuro nasconde altre incognite.Lo Yangtze non è un fiume ordinario.Trasporta mille volte più terra del Mis-sissippi. Nel suo maestoso incedere da-gli altipiani tibetani alle Tre Gole, loYangtze trascina ogni anno 530 milionidi tonnellate di fango sabbia e sassi. Oraquella colata invece di scorrere va a coz-zare e a depositarsi contro la muragliaartificiale, e infatti gli ingegneri hannodovuto costruire una seconda diga,sommersa, per reggere l’urto. Hannoprogettato sistemi speciali per ripulirecostantemente i fondali.

Ma siamo ancora in fase di rodaggio,non si può dire con certezza quel cheaccadrà nel lungo periodo. Ai terreninaturali, trasportati da tempi imme-morabili dallo Yangtze verso le grandipianure e fino al Pacifico, negli ultimianni si è aggiunta una quantità cre-scente di detriti tossici e non riciclabi-li, gli scarichi mortali dell’industriapesante a Chongqing e in tutto lo Si-chuan, a monte della grande diga. Gliscenari più apocalittici riguardano ilrischio di un cedimento della diga. InCina dal 1949 a oggi ne sono crollatetremila. Il disastro più grave, dopo inubifragi torrenziali del 1975 nello

Henan, vide cadere 62 dighe nuove,una dopo l’altra come le tessere di undomino. Morirono in 250.000, la veritàfu nascosta fino al 1994. È meglio nonimmaginare che cosa succederebbe seun terremoto dovesse far franare in ac-qua il picco instabile di Huangla: 100milioni di metri cubi a pochi chilome-tri a Nord della diga. C’è chi teme chelo stesso “mare” artificiale delle TreGole possa innescare un sisma, aven-do alterato con il suo peso gli equilibrigeostatici di tutta la regione.

Duemilacinquecento anni fa propriole dighe furono al centro di una ferocedisputa teologica fra i taoisti e i seguacidi Confucio. I taoisti volevano lasciarscorrere i fiumi come li ha disegnati ma-dre natura, per non violentare l’ordinedel cosmo. I confuciani, più fiduciosinella potenza del governo degli uomini,invocavano grandi lavori pubblici perdeviare i fiumi e moltiplicare le ricchez-ze della società. Dal 1919, da quando ilpadre della Repubblica cinese Sun Yat-sen si innamorò del progetto delle TreGole come simbolo della modernizza-zione del suo paese, fino a Mao e DengXiaoping e ai loro successori attuali, ilpotere è in mano ai confuciani.

Nella città di Fulin, ancora pochi me-si prima che venisse evacuata e som-mersa, un manuale scolastico educavagli allievi delle medie ad affrontare l’av-vento della diga con lo spirito giusto:«Non possiamo smettere di mangiaresolo per paura che un boccone ci vadadi traverso».

A Pechino oggi comandano il presi-dente Hu Jintao e il premier Wen Jia-bao. Tutti e due da giovani facevanogli ingegneri. La loro passione più re-cente è un faraonico progetto di “di-versione idrica”, di dimensioni maiviste al mondo: miliardi di tonnellated’acqua da dirottare dallo Yangtzeverso l’arido settentrione della Cina,la Nuova Frontiera da popolare e in-dustrializzare. Perfino la madre di tut-te le dighe impallidisce al confronto diquello che si prepara.

‘‘Mao ZedongNuotando/

muri di pietrasi ergeranno

contro corrente,guardando

verso Ovest/Per trattenere

le nuvole e le pioggedi Wushan/

Finché un lago piattonon sorgerà

nelle vicine gole/La dea della montagna,

se ancora esiste/Si meraviglierà

di un mondocosì cambiato

Versi della poesia “Nuotare”

dedicata alle Tre Gole

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Page 8: senza smog Vivere - la Repubblica

le storieReligione e politica

VITTORIO ZUCCONI

IWASHINGTON

l profeta del Dio perdente oravende i propri libri a pacchi, chesi sciolgono sui tavoli delle libre-rie come ghiaccioli nel Sahara.

Da sei settimane filate, dal giorno del-l’uscita, siede fra i dieci piú venduti delNew York Times, una cosa mai succes-sa per le altre sue opere, dignitosamen-te esiliate tra gli scaffali di teologia,quelli che ci vuole la scaletta per rag-giungerli. Improvvisamente, e inaspet-tatamente, una voce americana chegridava flebile nel deserto della teolo-gia della conservazione per dire che ilDio vincente della Destra é una truffaelettorale (la destra, non Dio) ha trova-to orecchie per ascoltarla, sotto il fra-stuono assordante degli organi di Bu-sh. «Ovviamente, Dio è uno solo e nonè né di destra né di sinistra» mi dice lavoce di colui che non grida più nel de-serto. Ovviamente. «E chi mi dà del cri-stiano evangelico di sinistra non ha ca-pito niente della Bibbia e non ha nep-pure letto il titolo del mio libro». Leg-giamolo: God’s politics, la politica diDio. Sottotilo: “Perché la Destra sbagliae la Sinistra non capisce”. Autore, JimWallis, 58 anni, pastore, reverendo, be-st selling author, padre di famiglia,ospite di show televisivi che lo ignora-vano. E cavaliere, per ora un po’ solita-rio, della crociata per strappare il Si-gnore al calvario della strumentalizza-zione elettorale e militante alla quale ladestra lo vuole inchiodare.

Decenni di preti operai, teologi dellaliberazione, missionari scarmigliaticon il baschetto del Che, vescovi pro-tettori di campesinos con il passamon-tagna e il mitra hanno — magari ingiu-stamente — prodotto sentimenti diidiosincrasia e di stanchezza davanti alforzato sincretismo tra rosari e Kalash-nikov. E confesso quindi una qualchediffidenza, frutto di antiche fregature,aspettando il reverendo Jim Wallis inuna di quelle rarissime librerie di Wa-shington ancora indipendenti, questasi chiama Politics and Prose, dove iclienti sembrano tutti usciti da un vec-chio film di Woody Allen, con le sottanesmesse da Diane Keaton e le giacche divelluto con le pezze ai gomiti. Ma il si-gnore di mezza età abbondante perfet-tamente ravviato, in abito scuro e ma-glioncino nero, con una vaga e piace-vole somiglianza con James Cagney,fuga immediatamente ogni ansia. Lasua, è America completamente,confortevolmente “mainstream”, nelcentro del fiume. Soltanto la fuga a de-stra della propaganda dominante ogginei media e nella cultura popolare do-po l’11 settembre può raccontarla co-me estremista.

Un patto alla Faust«Nell’America scossa e affamata dibussole e di giroscopi spirituali — midice con voce quieta e bassa — moltipredicatori e uomini di fede e in buonfede si sono fatti sedurre e hanno ven-duto il messaggio della Bibbia a un par-tito. Hanno creduto di fare il lavoro diDio, affittando il loro pulpito e cedendole loro mailing list, gli elenchi dei fedelie dei contribuenti, al partito repubbli-cano». E ne sono stati ricompensati, lointerrompo, con questo ritorno prepo-tente di religiosità, di versetti biblici,nei discorsi di Bush imbottiti di salmi egiaculatorie. «Sì, esattamente comeFaust fu ricompensato da Satana. An-che noi uomini di fede, uomini che siproclamano di Dio, cadiamo nella piùantica e classica delle trappole diaboli-che. Dimentichiamo che il potere, sen-za spiritualità, che è cosa ben diversadalla ostentazione di religiosità, cor-rompe. Il successo del mio libro, sor-prendente anche per me, segnala chemolti americani cominciano a capireche questa appropriazione di Dio daparte un gruppo politico per mantene-re il potere e addirittura per giustificarele guerre è sbagliata e Dio deve essereuna bussola, non un volante che si ma-novra per guidare l’automobile».

Molti americani? E dove erano i“molti americani”, reverendo, queldue novembre del 2004, quando Bush

ha vinto? «Erano nelle chiese battistedei neri, erano nelle chiese cattolichedove Kerry ha preso più voti di Bush,erano nelle congregazioni protestantidegli stati blu, gli stati democratici, do-ve 59 milioni di persone, non due o treliberal ostinati, hanno votato diversa-mente. Questo non significa che chi havotato Democratico avesse la giusta vi-sione di Dio e della spiritualità. Guai apensarlo, perché significherebbe ac-creditare il disprezzo intellettuale,l’arroganza, il senso di superiorità mo-rale che la sinistra americana mostraper chi pensa diversamente e che hatanto aiutato la demagogia populista epseudo cristiana dei repubblicani. Si-gnifica soltanto che una metà dei citta-dini non crede che per essere buonicristiani si debba votare per chi ha unostrano concetto della carità e della giu-stizia e continua a negare un’assicura-zione sanitaria a quasi 50 milioni diamericani, per chi manda a letto con lafame milioni di bambini ogni sera, quinella terra benedetta. I repubblicani, ei predicatori che predicano per loro,preferiscono ignorare che nella Bibbiaci sono tremila versetti, dico tremila,che indicano la povertà come la massi-

ma offesa al Signore e solo pochissimiriferimenti ai peccati della carne, alsesso, che invece tanto ossessiona ladestra. Quante volte, nel discorso del-le beatitudini, Cristo parla di sesso?».Neppure di sesso omologo, se ricordobene? «Neppure. Io penso che il matri-monio religioso debba essere riservatoall’unione fra un uomo e una donna, suquesto la Bibbia è chiarissima, ma nonvedo che cosa c’entrino le chiese conun contratto civile, un patto legalizza-to da un comune o da uno stato fra per-sone dello stesso sesso. A meno che l’A-merica, la nazione che ha salvato la re-ligione dalla corruzione del potere po-litico europeo, separando stato e chie-sa, non intenda demolire proprio quelmuro, come purtroppo sta facendo ilpatto faustiano tra predicatori allaJerry Falwell e politici decisi a tutto purdi vincere».

Forse lei dimentica un uomo chia-mato Bill Clinton e l’effetto che i suoipeccatucci, come li chiamavano i so-stenitori, hanno avuto? «No, non lo di-mentico, e l’impatto negativo di quellastoria è stato enorme, ancora lo pa-ghiamo carissimo. I valori morali sonoimportanti, fondamentali, in un leader

politico. Il Signore è stato arruolato dairepubblicani nel nome dei valori mora-li che i democratici e i progressisti sem-bravano aver dimenticato e irriso, conil loro secolarismo, il relativismo, il per-missivismo, la libertà di aborto, soprat-tutto nella sensazione che essere di si-nistra volesse dire avere abbandonatola famiglia, l’educazione dei bambini,le distinzioni tra il bene e il male, lo scri-va minuscolo per favore», ecco fatto.

E non avevano forse ragione, reve-rendissimo padre? Non è forse veroche, per proteggere le proprie basi elet-torali perdenti, i democratici si sonofatti rinchiudere in recinti ideologiciche poi la destra ha avuto gioco facilenel descrivere come empi, blasfemi,come cultura di morte di immoralità?«È vero, e per questo scrivo nel mio li-bro che la sinistra non ha capito che de-ve tornare a essere quella che fu conMartin Luther King, che era un mini-stro ordinato, e dire a voce alta che la fa-miglia si difende prima di tutto metten-do padri e madri in condizione di so-pravvivere finanziariamente, di sentir-si abbastanza sicuri per accudire aipropri figli, che l’aborto è una tragedia,per la società e per la donna che lo devesubire. E invece di preoccuparsi diquanto colesterolo ci sia in una polpet-ta o di quante parolacce dicano i comi-ci in televisione, deve creare istituzioni,strumenti educativi, sostegni che eviti-no alle ragazze di restare incinta e inco-raggino le madri che non possono onon vogliono crescere i loro bambini adarli in adozione. Lo sa che ci sono mi-gliaia di neonati nati negli Stati Unitiche nessuno adotta, mentre le coppieamericane battono in lungo e in largol’Asia, l’Europa Orientale, l’Africa e pa-gano decine di migliaia di dollari percomperare un figlio?».

L’elogio di RooseveltColpa mia, non lo sapevo. «Chi ha fattodi più, per la famiglia americana: unpresidente come Roosevelt che hacreato lavoro e qualche sicurezza so-ciale attorno ai diseredati dalla depres-sione, o Bush che vuole trasformare lepensioni garantite dallo stato in por-tafogli privati di obbligazioni e titoli? Èfacile parlare e predicare di values, divalori morali, e dimenticare che tra i va-lori morali ordinati da Dio ci sono lagiustizia, la pace, anche quando la pa-ce è difficile, soprattutto quando la pa-ce è difficile, la custodia del mondo cheda Lui ci è stato affidato non perché lodevastassimo, ma perché lo preservas-simo per i nostri figli».

Non sarà facile, oltre le mura acco-glienti di questa libreria, oltre le mi-gliaia, di americani che comperanoquesto libro di Jim Wallis spezzare lasanta, o empia, alleanza faustiana trala teologia e i conservatori, con un pre-sidente che pubblicizza a ogni occa-sione il proprio telefono celeste con ilSignore. Specialmente ora che fanati-ci religiosi hanno attaccato l’Americaprovocando il prevedibile effetto spe-culare di un revival di controfanati-smo. «Come cristiano evangelico, ioero e sono contrario alla guerra in Iraq.Se le conseguenze saranno buone perquella gente, ne sarò felice, ma nonposso accettare la dottrina della leggedel più forte che fa di esso automatica-mente il più giusto. Combattere il ter-rore non può essere una battaglia se-lettiva, oggi libero il paese A, ma igno-ro quello B, altrettanto malvagio, per-ché non mi conviene invaderlo, comefa questa amministrazione. Le zanza-re della malaria si distruggono con lebonifiche, prosciugando la paludedell’ignoranza e della disperazioneche le nutrono, il resto è politica di po-tere o, peggio, è il peggiore dei peccaticondannati da Cristo, è ipocrisia».

E il resto è fede, reverendo. Anzi, perrestare nelle virtù, è speranza, che que-sto universo di “valori morali” si riequi-libri verso il Dio perdente, nell’Ameri-ca del Dio vincente di Bush. «Ma ap-punto, io ho fede. Un giorno ci scuote-remo e diremo, come fece 150 anni orsono un repubblicano, Lincoln, oh myGod, come possiamo dirci cristiani epossedere schiavi?».

PASTORE E SCRITTORESopra, il reverendo Jim Wallis, autore

del best seller “God’s Politics”. In alto,

la processione del Venerdì Santo

sul ponte di Brooklyn a New York

Da sei settimane il suo libro è nella classifica deipiù venduti del New York Times. È la prima,piccola vittoria, della battaglia che stacombattendo il reverendo Jim Wallis:sottrarre a George Bush e ai suoi “teocon”il monopolio di Dio e della Bibbia

Se il Predicatoresfida il Presidente

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 27 FEBBRAIO 2005

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i luoghiViaggio in Persia

Non nacque per raccogliere la corrente dei commerci,non per governare uno Stato, non per elevare preghiere aglidei e nemmeno per essere abitata. Èunica al mondo perchémai, prima e dopo di allora, qualcuno concepì una cittàsolo simbolica. E il pretesto della sua nascita va cercatoin un’eclissi che, 2500 anni fa, sottrasse il sole alla terra

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 FEBBRAIO 2005

MPERSEPOLI

entre ci aggiriamo tra lerovine di Persepoli, nonfiniamo di chiederciquale città fosse questa.

Non era nata per raccogliere nelle suestrade o lungo le rive di un fiume la cor-rente dei commerci; non era nata per go-vernare e amministrare uno Stato; néperché i suoi templi elevassero preghie-re agli dei, e nemmeno per venire abita-ta. Persepoli è una città unica al mondo,perché mai prima e dopo di allora qual-cuno concepì una città esclusivamentesimbolica. Le sue colonne, i suoi animalialati, i suoi mostri, i suoi cortei, le sueguardie rappresentano un’allegoria nel-la quale tutto l’impero persiano si rico-nosceva. I simboli tra i quali gli uomini vi-vono hanno spesso il loro modello nei ri-cami del cielo. Così ci pare giusto che ilpretesto della nascita di Persepoli vadacercato in qualcosa che accadde, duemi-lacinquecento anni or sono, nelle regio-ni del cielo.

Il 10 giugno del 521 avanti Cristo, la Per-sia fu colpita da un’eclissi di sole. SopraPersepoli il cielo era coperto da un’oscu-ra caligine, e dall’alba fino a sera scintilla-rono continuamente le stelle. Dapprimail sole si assottigliò, assumendo la formadi una lievissima falce di luna. Poi scom-parve: ogni luce venne meno. Così il cie-lo fu nascosto da tenebre sempre piùdense, da ombre che si allungavano sini-stramente sopra i volti, le mani, le cose diogni giorno. Possiamo immaginare qua-li terrori si sparsero quel 10 giugno. Il so-le sarebbe tornato a risplendere sopra laPersia? «Quando il sole si scalda, — dice-va l’Avesta, il libro sacro iranico — allora igenii celesti si alzano a centinaia e a mi-gliaia: raccolgono la sua Gloria, trasmet-tono la sua Gloria, distribuiscono la suaGloria alla terra creata, per accrescere ilcorpo del bene. La terra si purifica, le ac-que correnti si purificano, le acque dellesorgenti si purificano, l’acqua del mare sipurifica, l’acqua degli stagni si purifica.Tutta la buona creazione si purifica».

Se il sole non si alzasse o tardasse an-che un poco, tutti i demoni si abbando-nerebbero alla loro opera di morte, di-struggendo la creazione, e nessuna delledivinità celesti saprebbe respingerli e re-sistere loro in questo mondo. Qualchetempo prima, era accaduto un avveni-mento analogo: la regalità persiana erastata eclissata. Nel 522, Cambise, figlio diCiro il Grande, era morto, dopo aver fat-to uccidere segretamente il fratello; e unsacerdote della Media usurpò il trono, af-fermando di essere il fratello del re. Allo-ra — come commentò più tardi DarioPrimo — «la Menzogna si estese sulla ter-ra, nella Persia, nella Media e nelle altreregioni: i santuari vennero distrutti; e alpopolo furono sottratti i pascoli, le greg-gi, i beni domestici, i beni del villaggio».

Nel 520, l’anno dopo l’eclissi, gli archi-tetti, gli astronomi e i sacerdoti di Dariocominciarono a disegnare la pianta diPersepoli: studiarono la posizione degliastri; e una moltitudine di artigiani giun-se fino sotto le rocce della «Montagnadella Misericordia», vicino alla città. Il si-gnificato della costruzione, che comin-ciò a sorgere da quelle mani industriose,era unico. Il sole aveva ripreso in cielo ilsuo antico dominio, e tornava a inviaresulla terra i raggi benefici che ci trasmet-tono la sua Gloria. Quando percorriamo

la reggia, ne abbiamo la conferma a ognipasso. Intorno alla figura del re e ai grup-pi di guardie, il nostro occhio scorge ungrande bassorilievo, ripetuto decine divolte. Un leone assale un toro: gli enormiocchi, il naso schiacciato, la zampa pos-sente del leone, la sua bocca affondatanelle terga del toro ci sembrano incarna-re soltanto la forza selvaggia. Ma gli occhidei persiani sapevano scorgere dietro leapparenze animalesche. Il trionfo delleone sul toro rappresentava un’eclissi diluna: era la negazione di ciò che era acca-duto il 10 giugno del 521; giacché il leonesimboleggia il sole, e un toro luminosotrascina il carro tiepido della luna. Intan-to, anche il re aveva trionfato dei suoi av-versari. Confidando nel soccorso di Ahu-ra Mazda, il dio supremo. Dario era pe-netrato nella fortezza dove l’usurpatoreviveva rinchiuso: l’aveva ucciso nel buio,mostrando la sua testa recisa al popolodella Persia.

* * *

Il trionfo di Dario culminava il 21 giu-gno d’ogni anno, il giorno del solstiziod’estate, quando una maggior ricchezzadi luce bagna la terra. Quella mattina, ilsole si levava verso le cinque dietro la«Montagna della Misericordia»; e i suoiprimi raggi illuminavano la vasta pianu-ra di Persepoli, fino alle montagne brunee grigie che limitano l’orizzonte. Costrui-ta ai piedi della montagna, la terrazza conle sale d’udienza e i palazzi di Dario e diSerse restava coperta dall’ombra. Passa-va circa un’ora. Anch’essi nascosti dal-l’ombra, i principi medi e persiani, gli in-viati di Susa e di Babilonia, di Armenia edi Lidia, i Battriani, gli Arachosii, i Chora-smi, gli Arabi, gli Egiziani, i Cappadoci, iCilici, gli Indiani, i Drangiani, che eranogiunti fino a Persepoli dalle più lontaneregioni dell’impero persiano, attendeva-no la piena apparizione della luce. Alle seie dieci, i raggi del sole toccavano il palaz-zo di Dario, insinuandosi nella sala cen-trale. Per sette minuti, tutte le altre partidella costruzione rimanevano avvoltedalle ultime nebbie della notte.

Era il momento più alto e significativodell’anno. Dario Primo era solo, chiusonel suo palazzo, illuminato dal sole: pro-babilmente stava seduto sul trono, con inmano il bastone e il fiore di loto, e i piediappoggiati allo sgabello. Intanto, tutti i si-gnori e gli inviati dell’impero, raccoltinell’ombra del cortile, contemplavanoda lontano la sua irradiazione; e si inchi-navano a lui in silenzio. In quei sette mi-nuti, mentre i raggi colpivano in volto il reavvolgendo soltanto la sua figura, avevainizio l’Anno Nuovo. Poi quei minuti ma-gici — quei minuti fuori del tempo in cuiil tempo aveva inizio — prendevano fine.I raggi del sole si insinuavano nella salad’udienza ed estendevano sempre più illoro potere, illuminando le colonne, gliarchi, le porte, le finestre, le pietre del-l’immenso edificio.

Questo spettacolo, a cui tuttoil cosmo partecipava, espri-meva ciò che ogni per-siano immaginavadel proprio re. Lavera natura di Da-rio era quella lu-minosa e ar-dente del fuo-co, figlio diDio e riflesso

del sole. Egli era nato in una colonna difuoco, che collegava la terra e il cielo.Nelle tre notti che ne avevano prece-duto la nascita le pareti del palazzosembrarono di fiamma, e il paese bril-lava di un fulgore così accecante, che lagente fuggì credendo che un incendiobruciasse ogni cosa. Quando Dario erabambino, il suo sorriso faceva splen-dere le pareti, le armi, le vesti, gli og-getti di casa. A quindici anni, stava se-duto nella stanza più interna del pa-lazzo. Nessuna fiamma la illuminava;eppure, la luce racchiusa nel suo cor-po faceva splendere quella stanzamolto più del salone dove i servi ave-vano acceso il fuoco.

La luce si concentrava nell’occhio diDario. Egli possedeva la stessa acutis-sima forza visiva, che dalle alte regionidell’aria fa scoprire all’avvoltoio unbrandello di carne o la punta luccican-te di un ago posati sul suolo; e condu-ce in salvo i pesci attraverso i vortici pe-ricolosi dei fiumi. Questo acume visi-vo non era soltanto una qualità passi-va. Usciva dalle profondità del corpo,attraversava l’occhio, e si congiungevaal fulgore egualmente divino, che di-scende dagli spazi infiniti. Dario eradunque un veggente. Il 21 giugno, «eglisorgeva simile a un sole, e la luce rag-giava da lui, quasi egli fosse il sole». Co-me ogni luce, quella di Dario emettevaun suono: il suono che costituisce ilcorpo vibrante delle parole. Tutte leparole, pronunciate dagli uomini, gliappartenevano. Così egli raccoglievanei vasti arsenali della sua mente lepreghiere pronunciate dai sacerdotipersiani, le tradizioni tramandate dal-la voce del popolo, tutto ciò che venivadetto e meritava di essere conservato.Egli era insieme un veggente, e la me-moria del proprio mondo.

* * *

Mentre avvenivano le cerimoniedell’anno nuovo, sopra il capo di Darioin trono appariva uno strano simbolo.Un uomo barbuto e dai folti capelli ric-ciuti, con un alto cappello quasi cilin-drico, indossava una veste che discen-deva a ricche pieghe sino ai polsi: nel-la mano sinistra teneva l’anello dellasovranità, mentre la destra si levavabenedicendo. Egli assomigliava al recome un padre vecchio, ironico e infi-nitamente esperto può assomigliare al

figlio, che vive ancora nell’ingenuofiore della maturità. Ma la figura delvecchio si interrompeva di colpo. Ec-co il suo busto insinuarsi in un anellocircolare — la sfera del sole —, da cuidiscendevano due linee incurvate,forse fulmini pietrificati. Intorno all’a-nello, si aprivano ali larghissime, qua-si rettangolari, folte di penne, che di-ventavano più grandi allargandosiverso l’esterno. Quando Dario appari-va al popolo, l’immagine scintillavadei più ricchi colori — azzurro turche-se, azzurro lapislazzuli, scarlatto chia-ro, porpora cupo, giallo oro —, chespiccavano su un fondo nerissimo.

Che significava quest’immaginecolorata, questo strano uomo-uccel-lo, che allungava sopra Dario la manobenedicente? Le grandi ali dell’uccellosvelavano a Dario il xvarnah, la «luce digloria», discesa in terra dalle Luci Infi-nite del cielo. Essa avvolgeva il re comeun nimbo luminoso, o lo seguiva comeun animale. Se Dario fissava le ali dalcolor azzurro chiarissimo o rosso cu-po, che brillavano sopra di lui, con-templava nel sasso la propria energialuminosa, che doveva permettergli diraggiungere il fine destinato dal cielo.

Anche il vecchio barbuto raffigura-va una parte di Dario. Era la sua frava-shi, l’archetipo celeste, che era statapresente alla creazione del mondo esarebbe stata presente al rinnova-mento del mondo, e dunque aveva vis-suto prima della sua nascita e avrebbecontinuato a vivere dopo la sua morte.Tutte le fravashi degli dei, degli uomi-ni e degli animali formano insieme ilcorpo dei giusti. Esse prescrivono leorbite al sole, alla luna e alle stelle; ten-gono in ordine la terra, le acque guari-trici, le piante e le greggi; fanno soffia-re i venti e crescere i semi, spingono lenubi, proteggono il bambino nel senodella madre e l’avvolgono in modo chenon muoia; vegliano sopra il lago Ka-su, dove si nasconde il germe di Za-rathustra, dal quale alla fine dei tempinascerà il Salvatore del mondo. Quan-do i demoni assalgono la terra, non ciresta che invocarle, levando in alto lemani per domandare soccorso: «Re-state quaggiù, buone fravashi dei giu-sti! Amiche e bene accolte, restate inquesta casa, in questi borghi, in questidistretti, in questi paesi!». Allora le agi-li e robuste fravashiindossano il casco,

la corazza, lo scudo e le armi di ferro,come guerrieri cinti dalla loro armatu-ra; a centinaia, a migliaia, a miriadi; eferiscono e mettono in fuga gli esercitidemoniaci.

* * *

Tutta la reggia di Persepoli, tutto losterminato ciclo di bassorilievi che sirichiamano l’uno con l’altro come no-te di una melodia pietrificata, era lospecchio dove Dario contemplavasenza fine se stesso e i suoi compiti disovrano. Il leone che uccide il toro gliricordava la sua forza solare; il vecchiocon le ali gli richiamava alla memoriail suo xvarnah e la sua fravashi. Seguardava le porte del proprio palazzo,ritrovava nuove immagini del proprioio. Era raffigurato mentre combattevaun toro, un leone e un mostro alato, iquali lottavano come guerrieri controdi lui. Egli estraeva la spada dal fodero.Nel tentativo di difendersi, gli animaligli puntavano le zampe contro il brac-cio e il ginocchio. Il re sopportava gli ar-tigli, e la sua spada lenta e crudele pe-netrava nel ventre delle tre belve.

Mentre uccideva il toro, Dario rin-novava la fecondità della terra. Secombatteva contro il leone, incontra-va un simbolo della propria energiasolare; e quando lo uccideva, vincevasé stesso come l’asceta vince sé stessonei propri esercizi. Purificava la pro-pria forza solare dall’eccesso, cheavrebbe potuto distruggerla: vinceval’ira, la collera, l’orgoglio, e — come fe-ce scrivere sulla sua tomba rupestre —«le padroneggiava saldamente» den-tro il suo animo.

Nella terza battaglia, Dario aveva difronte un mostro alato, con la testa e lezampe anteriori del leone; le zampeposteriori di un uccello da preda; e lacoda nodosa di uno scorpione, che sitorceva terribilmente intorno a séstessa. Lo scorpione era una delle crea-ture del dio del male, e i fedeli di Zo-roastro dovevano sterminarlo. Dopoaver purificato se stesso, Dario com-batteva dunque la battaglia suprema:quella contro i mostri sempre in ag-guato, contro i demoni tenebrosi chedi continuo assaltano la creazione diDio, così debole e minacciata. Egli di-fendeva se stesso e il mondo dal peri-colo che ogni istante rischia di cor-romperlo e distruggerlo.

PIETRO CITATI

Persepoli, specchio del cielo

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 27 FEBBRAIO 2005

LE ROVINENella foto grande

a fondo pagina, l’Apadana,

il palazzo dove i re tenevano

le udienze e dove si svolgevano

le celebrazioni. È uno

degli edifici più noti

e importanti di Persepoli.

Nelle foto qui accanto,

il dettaglio di due bassorilievi

persiani di particolare

bellezza

Dario era un uomo come gli altri, chevenne sepolto in una tomba fatta a formadi croce. Non conosciamo il suo volto:giacché il volto scolpito a Persepoli, a Bi-sotun e a Naqsh-i Rustam è l’immagineideale di ogni re della Persia. Possiamosoltanto fantasticare intorno ai suoi ge-sti. Sopra le pietre, nelle iscrizioni e nei li-bri, egli conserva la calma sicura e tran-quilla di chi porta con sé tutta la regalitàche gli dei concedono agli uomini. Quan-do esce dal palazzo, non posa i piedi sul-la terra. Sale a cavallo o sul carro, che l’a-vrebbe portato a migliaia di chilometridalla sua reggia, nel cuore nevoso dellaScizia e nei templi costruiti nei desertid’Egitto. Nessuna scultura ce lo mostramentre uccide nemici o li fa prigionieri,come un faraone egiziano o un re assiro.Egli non ha bisogno di combattere. Ap-pena si mostra, avvolto dalla luce, i suoinemici si chinano profondamente da-vanti a lui, portandolo in alto sul trono,così aereo e leggero, che le punte delle di-ta bastano a sollevarlo.

In una sola notizia, la statua di marmosembra ammorbidirsi e rivelare una per-sona umana. Non riguarda Dario, ma Ser-se, il figlio, che appare come un’ombradietro il suo trono: ce la racconta Erodoto;ed è probabilmente falsa. Quando i per-siani giunsero ad Abido, sull’Ellesponto,Serse volle vedere tutto il suo esercito. Al-lora gli abitanti di Abido costruirono so-pra la cima di un colle un «alto seggio dimarmo bianco», dal quale Serse contem-plò le acque dell’Ellesponto dove si affol-lavano le sue navi, e le rive e le pianure co-perte dai suoi popoli, ognuno con le vestie le armi della tradizione. Come dice Ero-doto, «Serse si stimò felice; ma poco dopopianse». E quando lo zio gli chiese perchémai avesse pianto, Serse rispose: «Fui col-to da pietà pensando quanto sia breve

l’intera vita dell’uomo: di tutta questagente non rimarrà nessuno fra cent’an-ni». Seduto là in alto, sopra l’inutile tronodi marmo, con tutto il potere nelle suemani, il sovrano comprese la vanità delpotere, l’inutilità delle sue imprese e del-la sua gloria, che fra poco l’avrebbero con-dotto in una tomba fatta a forma di croce.Aveva quest’unico privilegio sugli altriuomini. Egli stava in alto, da dove gli uo-mini possono conoscere meglio la veritàdelle cose.

* * *

Ancora più in alto del re, stava soltantoil Dio supremo, Ahura Mazda. Dario erail suo rappresentante in terra. Tra AhuraMazda e Dario, correva un rapportoesclusivo e geloso. Il sovrano sapeva didover tutto al suo Dio. Non diceva: «Hoconquistato da solo il mio impero» ma«questi paesi vennero a me per volontà diAhura Mazda». Non diceva: «Sono diven-tato re per mia forza» ma «per volere diAhura Mazda, io sono re. Ciò che io ho fat-to, tutto ho fatto per volere di Ahura Maz-da». D’altra parte, il Dio aveva scelto luisolo, e approvava quanto egli faceva:«Ahura Mazda mi portò aiuto. Ciò che eradeciso da me, questo egli compiva perme». Un cerchio ininterrotto di intenzio-ni, di opere e di soccorsi saliva dalle manilevate di Dario fino a Dio; e dal cielo ridi-scendeva sopra il capo di Dario.

Dov’era dunque questo Dio? Dove sta-va Ahura Mazda, di cui leggiamo decine divolte il nome, inciso sulle pietre dellamontagna? Alla fine del nostro cammino,speriamo di incontrare la sua immagine,nascosta nelle profondità di un tempio,come un dio egiziano. Ma Ahura Mazdanon compare mai: nessuna pietra portaincisi i suoi lineamenti terreni; ed eglisembra assente dallo spettacolo che do-

vrebbe culminare nella sua figura. Nem-meno il segno inciso sulle rocce è il suonome: Ahura Mazda è soltanto una paro-la, che nasconde il vero nome, il quale nonpuò venire scritto sulle pietre, né pronun-ciato dai fedeli. Solo pochi lo conosconosegretamente. Supponiamo allora chetutti questi misteri si rivelino nel cielo, eche là il Dio senza nome splenda a tutti nelproprio nome e nella propria gloria.Nemmeno questo accade. Quando vuo-le, Ahura Mazda si sottrae alla vista deglialtri dei: egli è il più invisibile tra tutti glispiriti invisibili; e la sua Gloria resta inaf-ferrabile nel cielo come nella terra.

Eppure, questo Dio senza immagine esenza nome è la più onnipresente fra le fi-gure divine. Egli abita nella Luce Infinitae Increata, la quale costituisce il suo verocorpo; e da essa trae quella terrestre, cheè la sua forma visibile. Il sole è l’occhio diAhura Mazda; il cielo il mantello, di cuinessuno riesce a vedere le ultime frange;le stelle sono le sue spie. I persiani incon-travano Dio nella luce che li avvolgeva e libagnava come una benedizione; nellaluce che percorre l’aria come una musi-ca, e fa riecheggiare il suono che portadentro di sé sulle pietre dei monti, sulleacque delle sorgenti e dei fiumi, sullecampagne verdissime estese ai piedi diPersepoli.

* * *

Tra le rovine di Persepoli, un altro crea-tore è ugualmente sconosciuto e visibile,ignoto e onnipresente: il grande architet-to-astronomo, che costruì gli edifici so-pra la terrazza. Ignoriamo quale nomeabbia avuto, e persino se sia mai esistito.Tutto è nato col tempo, palazzo dopo pa-lazzo, sala dopo sala, scultura dopo scul-tura, nel corso dei due secoli tra i regni diDario I e di Artaserse III. Piani sono statimutati; bassorilievi cambiati di posto; eartigiani di tutte le parti dell’impero han-no portato qui le loro diverse tradizioninazionali. Quale edificio dovrebbe esse-re più composito di questo? Eppure la co-struzione sembra nata da una mente uni-

ca, la quale ha lungamente meditato l’in-sieme, disegnato un ordine, imposto unritmo, ripetendo e variando i motivi, co-me se attraverso i secoli stesse scrivendoun solo libro.

L’ignoto architetto costruì i palazzi so-pra una terrazza; e vi raccontò cosa acca-deva nello spazio di un giorno, dall’albaal tramonto. Era un giorno privilegiato, lafesta del Nawruzche iniziava l’anno nuo-vo, e si ripeteva ogni anno, da quel lonta-no 21 giugno del 520 fino ad altri, sempreuguali, sempre diversi Nawruz. Tutti ipopoli dell’impero portavano al re i lorodoni; i templi del fuoco erano purificati;ognuno si alzava presto, mangiava zuc-chero e miele, andava al fiume a lavarsi, esi infilava l’uno dopo l’altro sette vestiti,quasi a indicare che anche lui, come ilmondo, «cambiava pelle». Malgrado tut-to, era soltanto un qualsiasi giorno dellavita, futile e transitorio. Pochi anni dopo,quei corpi sarebbero morti, quei doni alsovrano sarebbero passati ad altri sovra-ni, e gli alberi della terrazza avrebberoperso il loro verde. Ma l’architetto nonpensò a questo: incise i corpi, i doni e glialberi, pietrificò tutti gli attimi di quellagiornata, come se fossero eterni.

Chi racconta un giorno della vita, nonpuò fare a meno di raccontare la vita del-l’intero universo. Così l’architetto di Per-sepoli rappresentò le alte montagne del-l’Iran nella forma simbolica dei merli,sotto i quali sfilano le guardie e le delega-zioni; i boschi di palme nascosti nella sel-va delle colonne, i pini con il tenue foglia-me e le tenui scaglie dei tronchi; il leone eil cavallo, lo zebù di Babilonia e il cam-mello della Battriana, il dromedario el’okapi; e i doni che venivano offerti a unre — vasi d’oro, braccialetti, coppe, archi,scudi, carri da guerra. Rappresentò tuttele popolazioni dell’impero, da quelle chene occupavano il cuore fino agli Egiziani,agli Etiopi, a chi abitava le valli dell’Indoe le steppe lungo il mare d’Aral, gli uni ac-canto agli altri, come membra di un solocorpo vivente; i dignitari di Persia e di Me-dia, che si tengono per mano e discorro-

no con gesti di una quasi commoven-te dolcezza; centinaia di guardie

con l’arco, la faretra e la lancia; e lamoltitudine dei servi che porta icibi per il banchetto. Provenen-do da ogni parte, incrociando-si a poco a poco, questa folla

sale le scale della terrazza, procedendoverso il luogo dove li attende il re in trono.

Mentre scolpiva questa scena di fol-la, il creatore di Persepoli aveva in men-te un ritmo unico: una modulazionelenta, delicata e solenne. Se posiamo ilpasso sulle ampie scalinate, siamo co-stretti a salirle dolcemente, senza arre-starci mai, come egli voleva. Le delega-zioni dei popoli si muovono ancora piùlente di noi, col passo segnato da un se-greto metronomo. Nessun dignitario siaffretta, e cerca di sciogliersi dalla mo-dulazione che l’incanta. Qualcuno è al-tissimo; qualcuno di statura mediocre;qualcuno è quasi un nano. L’architettoha disposto le persone più alte e quellepiù basse su gradini diversi in modoche risultino allo stesso livello, e la sali-ta avvenga secondo un’armonia co-stante, a dolci ondate successive.

Come ogni costruttore di sinfonie, l’ar-chitetto sapeva di aver bisogno di pochimotivi; e diede ordine ai suoi artigiani diripeterli continuamente. Davanti a ogniscalinata, il volto immane del leoneaffonda nelle carni del toro, che si rivoltaindietro inutilmente, con il suo teneropelame infantile; il re combatte decine divolte un toro, un leone e un mostro alato,che mostrano ogni volta le stesse fauci ela stessa coda velenosa; decine di guardietutte eguali impugnano con lo stesso ge-sto la lancia e portano sulle spalle lo stes-so arco; e, da ogni parte, un orafo ha scol-pito i rami e le foglie dei pini. Ma questimotivi non sono tutti trattati allo stessomodo. Subito dopo aver raccomandatoai suoi artigiani di obbedire all’eterna ri-petizione, l’architetto ha chiesto loro diinsinuare qualche ritocco. Le pieghe diuna veste mutano inclinazione in modoquasi inavvertibile: le guardie si volgonoora verso destra ora verso sinistra, chi hala lancia, chi solo lo scudo. La grande co-struzione era un blocco pietrificato disuoni, dove la ripetizione e la variazioneintrecciano eternamente i loro giochi.

Alla fine del viaggio, i nostri sguardicredono di aver contemplato ogni pietradi Persepoli. Il suo ultimo segreto ci è an-cora ignoto. Possiamo comprenderlo so-lo per analogia, guardando coppe poste-riori di qualche secolo, dove il trono di unaltro re vola nel cielo, trascinato da tori eguidato da angeli. Forse Persepoli era co-me quel trono. L’immensa reggia, che cisembra così solida e ancorata alla terra,era una reggia volante, trascinata nel cie-lo dagli enormi tori che aprono le ali allesue porte, dai grifoni e dagli altri animaliinsediati sopra i suoi capitelli. La terraz-za, le scalinate, la sala delle udienze, la sa-la delle cento colonne, i palazzi di Dario,di Serse e di Artaserse non sono qui, dovenoi li abbiamo ammirati, ma veleggianonegli spazi del cielo, verso la Luce Infini-ta dalla quale la loro luce è discesa.

Italo CalvinoForse questa reggia è l’utopia dell’impero perfetto:una grande scatola vuota per accogliere le ombre

del mondo, una sfilata di figure di profilo, piatte, senzaspessore, attorno a un trono vuoto e senza peso

Da SAGGI 1945-1985

a cura di Mario Barenghi - Arnoldo Mondadori Editore

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34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 FEBBRAIO 2005

Si chiama Hungarian Pastry Shop la pasticceria newyorkese diventataun luogo di culto per autori e saggisti che, consumando le specialitàungheresi della casa, hanno formato una comunità intellettuale

e trovato l’ispirazione per le loro opere. Qui Woody Allen ha girato il film“Mariti e mogli”qui Nathan Englander ha scritto a mano il libro “Per alleviare insopportabili impulsi”e Sebastian Junger “La tempesta perfetta”

ANEW YORK

vederla da fuori, la pa-sticceria sembrerebbeun posto come tanti, senon fosse per la qualifica

etnica e gastronomica decisamenteanomala per il quartiere: storica-mente l’emigrazione ungherese si èstabilita nella zona detta Yorkville, tral’Upper East Side ed il Barrio, e qui, apochi passi dalla Columbia Univer-sity, non c’è mai stata traccia di unacomunità numerosa al punto da giu-stificare un luogo di ritrovo. Ma la“Hungarian Pastry Shop” non deve lapropria popolarità alla qualità o al-l’autenticità del cibo, ma al fatto di es-sere il posto in cui siritrovano, discutonoe scrivono, roman-zieri affermati, aspi-ranti scrittori, intel-lettuali in erba ed al-cuni tra i più impor-tanti docenti dellaColumbia. Il localenon ha nulla di parti-colarmente attraen-te, e sembra cristal-lizzato nel 1961, l’an-no in cui fu aperto daun emigrante di no-me Joshi Vekony, chelo ha ceduto quindicianni dopo a Peter Bi-nioris, un greco orgo-glioso e di poche pa-role che ne è da allora il proprietario el’anima. All’esterno resistono anched’inverno tre tavolini di plastica ver-de, e nella vetrata è esposta la vec-chissima bilancia utilizzata tuttoraper pesare i vassoi di paste. Il localeaccanto è un ritrovo di studenti chia-mato “PW Sandwich Shop”, che con-fina a sua volta con “Cafè Bengal”, unristorante indiano sospettosamentea buon mercato. La disposizione deitre locali in fila sembra una dimostra-zione accademica delle contraddi-

zioni del melting pot newyorkese:con l’eccezione di una parziale inte-razione tra la pasticceria ed il bar de-gli studenti, non esiste alcuna formadi comunicazione tra i luoghi di ritro-vo, e i clienti abituali non cambiereb-bero per nulla al mondo la propriascelta quotidiana. Le reciproche in-fluenze culturali ed antropologicherimangono su un piano puramenteparallelo, e un atteggiamento cheoscilla tra la tolleranza e l’indifferen-za prevale sulla reale integrazione.

Non c’è frequentatore della “Hun-garian Pastry Shop” che non dichiaridi prediligere il locale per la tranquil-lità, ma all’interno risuona perenne-mente un brusio che solo i più ro-mantici riescono a definire “creati-vo”. È l’esterno semmai ad essere fintroppo tranquillo: l’area, al confinetra la zona universitaria della Colum-bia e la parte meridionale di Harlemnon ha mai conosciuto un aggressivo

sviluppo immobiliare, e resiste anco-ra alla “gentrification” che sta inve-stendo il quartiere afro-americano: inegozi non sono certamente alla mo-da, e l’unica attrazione turistica è of-ferta dal cupo neogotico di St. Johnthe Divine, la cattedrale episcopaleche ha osato sfidare in grandezza SanPietro e non è ancora terminata dopocentododici anni dall’inizio della co-struzione, meritandosi l’appellativo“St. John the incomplete”. Fa una cer-ta impressione il contrasto tra un luo-go così austero di preghiera e lo spiri-to da festa mobile della pasticceria, ametà strada tra i caffè parigini di He-mingway ed il vitale disordinenewyorkese. Nei primi anni, i trentatavolini del locale hanno raccoltoquasi esclusivamente studenti e gio-vani scrittori, ma già all’inizio deglianni Settanta si è cominciata a forma-re una sinergia con i docenti. Secon-do un signore di mezza età che pren-

de appunti da una versione paper-back dell’Autunno del Patriarca, ilmotivo è dovuto «all’attrazione pro-vata dai professori nei confronti dellestudentesse più disinvolte e procaci».

Sarà pure una battuta politicamen-te scorretta, ma Woody Allen ha scel-to di ambientare proprio qui una sce-na di Mariti e Mogli nella quale acca-de qualcosa di estremamente simile.Le riprese del film bloccarono la“Hungarian Pastry Shop” per tre gior-ni, e gli avventori ricordano l’episodiocon un senso di profanazione: l’artenon veniva creata all’interno del loca-le ma arrivava dall’esterno per tra-sformare la pasticceria in una sempli-ce scenografia realistica. Non solo:quello che per gli scrittori doveva ri-manere “the best kept secret in town”diveniva di dominio pubblico, in unfilm che avrebbe anche messo inpiazza i rapporti adulterini del regi-sta. Negli ultimi anni sono stati moltigli autori che hanno scritto degli inte-ri libri mentre sorbivano i tre diffe-renti tipi di caffè (viennese, unghere-se e russo) e mangiavano le specialitàdella casa, tra le quali sono molto ce-lebrate le ungheresi come il rigo ed ildobos, oltre, ovviamente, allo stru-del. Nathan Englander ha scritto amano su questi tavoli Per alleviare in-sopportabili impulsi, ed ha appenacompletato le seicento pagine del suoultimo libro nella parte più silenziosae meno illuminata del locale. Consi-dera la pasticceria molto più di unaseconda casa (“è l’unico posto almondo dove si ricordano di festeggia-re il mio compleanno”) e ritiene asso-lutamente inconcepibile l’idea discrivere altrove. Prende appunti edelabora le proprie idee su questi tavo-lini il saggista Andrew Delbanco, in-sieme a una lunga serie di scrittorimeno celebrati come Caleb Crain,Scott Zwirer, Cynthia Zarn e JulieOtaka. Sul muro alla destra dell’in-gresso Peter Binioris ha incorniciatole copertine dei libri che ama (c’è an-che Almost Blue di Carlo Lucarelli)insieme a quelli scritti almeno inparte nel suo locale, tra le quali spic-cano anche La tempesta perfetta diSebastian Junger, A new ProtestantEthic at Work di Ken Estey. Ce n’è per

LA CREATIVITÀ SUI MURINella foto grande, i graffiti

della toilette e varie immagini

dell’ “Hungarian Pastry Shop”.

Qualcuno sopra il lavandino ha

scritto “Dio è morto”, firmato

Nietzsche, ma un avventore

successivo ha disegnato un

eloquente punto interrogativo. Un

altro ha ricordato che “Gilgamesh è

vivo” e una penna beffarda ha

aggiunto “anche Elvis”

scrittoriCaffèIl

degliHarlem, l’ultimo rifugio segreto

ANTONIO MONDA

‘‘Umberto SabaCaffè Tergeste

ai tuoi tavolibianchi ripete

l’ubbriaco il suodelirio; ed io ci scrivoi miei più allegri canti

Da ANTOLOGIA DEL CANZONIERE

Torino, Einaudi, 1987

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 27 FEBBRAIO 2005

GLI ALTRI CIRCOLI

ZURIGO

Il movimento dadaista

nasce nel 1916 tra le pareti

del caffè letterario Cabaret

Voltaire. Grandi serate

dedicate all’arte russa

e francese che videro

protagonisti Tristan

Tzara, Janco, Arp,

Picabia, Hugo Ball,

Duchamp

FIRENZE

Le “ Giubbe Rosse” venne

aperto all’inizio del

Novecento nell’attuale

piazza della Repubblica.

Sede fissa dal 1913 del

gruppo di “Lacerba”

fu testimone

dell’aggressione di

Marinetti, Boccioni e Carrà

ad Ardengo Soffici

PARIGI

“Le Flore” è stato aperto

nel 1870 a Saint-

Germain-des-Prés.

Apollinaire che abitava lì

vicino ci invitata tutti i

suoi amici il martedì alle

18. È stato frequentato

da Cocteau, Prévert,

Sartre, Simone de

Beauvior, Genet

tutti i gusti, ma gran parte dei testievidenziano uno sguardo intimista enello stesso tempo anticonformista.

È come se questi autori avesserobisogno di riunirsi in una comunitàper riscoprire la propria voce più in-tima, e quindi differenziare i propripunti di vista nel momento del con-fronto e della creazione. David Alt-man, un giovane “attore-fotografo-romanziere” che sfoggia un Borsali-no anni’30, spiega che sceglie la pa-sticceria perchè è il posto di NewYork più simile all’Europa, e poi rac-conta di passare l’intera giornata adiscutere della possibile redenzioneofferta dall’arte. Solo “Ozzy’s” aBrooklyn ha una clientela paragona-bile da un punto di vista intellettua-le, ma quello che caratterizza la pa-sticceria è l’aspetto prettamentecreativo: se gli scrittori della cosid-detta scuola di Brooklyn resistono difronte all’idea di scrivere in pubbli-

co, coloro che frequentano il localeungherese portano da casa i compu-ter portatili ed i quaderni di appunti,esigendo quotidianamente lo stessotavolino nel quale sostengono di tro-vare la concentrazione perfetta. Nonc’è da stupirsi quindi se raccontanocon fastidio la comparsa occasiona-le di qualche personalità (Al Pacino,Peter Jennings, Caroline Kennedy)attirata dalla fama di cultura e crea-tività, e c’è un evidente tacito accor-do tra il gestore e gli avventori affin-ché lo spirito alternativo e pauperi-sta non subisca alcun tipo di muta-zione genetica. Ancora adesso è im-possibile ordinare un vero e propriopranzo (è necessario andare da “PWSandwich Shop” e riportare i panininella pasticceria) e non c’è nessunoche osi criticare i quadri, a dir pocodiscutibili, e l’incomprensibile seriedi angeli affissa sopra l’ingresso, incui vengono ricordate le virtù della

tolleranza, gioia, pazienza e onestà.Sono tutti consapevoli del fatto checi sia qualcosa di intimamente con-servatore in questa strenua cristal-lizzazione di uno spirito bohemien-ne, ma è certamente questo l’ele-mento maggiore di fascino di un lo-cale che snobba le regole e le oppor-tunità del mercato, e continua a pro-porre dolci pesanti e coloratissimi,una illuminazione troppo bassa euna delle ultime toilette in cui nonsono stati cancellati i graffiti. Gliscrittori ed i clienti ne sono tutti or-gogliosi, e partecipano con diverti-mento al rito del dialogo murale:qualcuno ha scritto sopra il lavandi-no “Dio è morto” a firma di Nietz-sche, ma un avventore successivo haaggiunto un eloquente punto inter-rogativo. C’è un signore che si è esi-bito in una lunghissima dichiarazio-ne esistenziale che termina con undisperato “io esisto!”, ed un altro che

s ir i f e r i -sce esplicita-mente a Bush quandoscrive “non in nostro nome, bastar-do fascista bugiardo”.

Un avventore ha sentito la neces-sità di ricordare a tutti che “Gilga-mesh è vivo”, ma una penna beffar-da ha aggiunto “anche Elvis”. Sonomoltissimi gli scambi di battute sul-la politica (“la Francia è una nazioneinsignificante” è stato corretto inuna “nazione magnifica”) ed i giochidi parole (“Buck Fush”), ma colpi-scono soprattutto gli epiteti razziali(“che si fottano tutti i gentili”, ri-guardo al quale qualcuno ha aggiun-to “nessun ebreo scriverebbe maiuna cosa del genere”) ed omofobici,tra i quali spicca un “let’s enjoy somefruit”, dove la frutta in questione dagodere è una violenta espressione

gergale per“gay” . Non

manca la lista dellecitazioni dotte, ma l’i-

ronia di un commento finisceper ridimensionarle: “voi intellet-tuali avete proprio una brutta calli-grafia”. Gli scrittori e lo stesso Binio-ris sanno bene che i graffiti della toi-lette rappresentano la verità viscera-le di un locale che vuole far sentire aproprio agio l’avventore al punto danon offrirgli nulla se non l’eterna ri-petizione dell’identico, e sanno an-cor meglio che ciò che caratterizzal’odierna capitale del mondo rispet-to a quelle del passato è un’idea di li-bertà assoluta e contraddittoria, nel-la quale l’atmosfera profondamenteretrò che viene rievocata quotidia-namente tra i tavolini della pasticce-ria è il retroterra imprescindibile perle proposte più affascinanti ed inno-vative dell’avanguardia.

PRAGA

Il Cafe Arco era il luogo

d’incontro del gruppo di

autori di lingua tedesca

che si raccoglieva intorno

a Franz Werfel. Lo

frequentaronoanche Milea

Jesenská, Max Brod,

Oskar Baum, Franz Kafka

che qui nel 1912 conobbe

Rudolf Fuchs

FOTO THEO VOLPATTI/CONTRASTO

Page 13: senza smog Vivere - la Repubblica

Abbiamo chiesto ai lettori di Repubblica.it di scegliere le canzoni,gli interpreti, i presentatori e le vallette che hanno segnato la kermessepiù amata dagli italiani. Una rassegna che, soprattutto nel passato, ha

portato alla ribalta le star della nostra musica. A partire dal personaggio più popolare:autore, cantante, ed anche eminenza grigia di brani firmati da altri. Ecco la cronacadelle edizioni 1966-’71, sei anni di Lucio sul palco e dietro le quinte dell’Ariston

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 FEBBRAIO 2005

Il Battisti fantasma del Festival

C’è Sanremo e Sanremo.C’è festival e festival.Ovvero c’è la kermessetelevisiva lunga unasettimana, che produ-ce e riproduce se stessa,

e c’è il festival dell’età di mezzo, nel tem-po della maturità festivaliera, allorché ilpaese aveva smesso di spaccarsi sulla ri-valità fra Claudio Villa e Domenico Mo-dugno, ma continuava a guardare Sanre-mo come un evento irrinunciabile.Quando si poteva ancora pensare che ilfestival fosse un’immagine del paese, delsuo costume, e soprattutto della sua mu-sica. Consideriamo per esempio il lungofestival semidimenticato di Lucio Batti-sti. Cioè del massimo musicista popolareitaliano. Che sfiora Sanremo, lo lambisce,una volta addirittura ci gareggia, riesce anon esserne travolto, prima del successoclamoroso e della sparizione dalle scenepubbliche.

Bastava poco allora per perdere unacarriera, al festival. Nell’anno di grazia1966 erano sbarcati sulla Riviera i “com-plessi”, come si diceva allora. Gli Yard-birds, che avevano come chitarrista unfuturo mostro sacro, Jeff Beck, e che sta-vano spopolando con canzoni come Foryour Love e Heart Full of Soul, e si sareb-bero immolati davanti a Mike Bongiornocantando con Lucio Dalla e Bobby Solo. Epoi i Renegades, i Minstrels, e per restarein casa nostra l’Équipe 84 e i Ribelli. Tuttimassacrati dal gusto reazionario dellegiurie, che condividevano il giudizio diMike Bongiorno sui «gallinacci» e i capel-loni.

Vedi caso, l’anno dopo arrivò un grup-

po inglese, in cui suonava la chitarra ecantava un certo Graham Nash. Si chia-mavano The Hollies, altrimenti detti an-che «i Beatles di Manchester». Li misero incoppia con un giovane cantante italiano,Mino Reitano, alle prese con una canzo-ne intitolata Non prego per me. Autori ilgià famosissimo Mogol e un semiscono-sciuto giovane chitarrista, Lucio Battisti.

Inutile dire che il brano fu eliminatoimmediatamente, nonostante ancoraoggi la chitarra degli Hollies, nella strofa,risuoni nitida e a suo modo suggestiva, inpiena consonanza con il suono dell’erabeat. Battisti aveva esordito come autorel’anno prima, con Per una lira, una can-zone affidata ai Ribelli, il complesso delClan Celentano. Era stato notato dai gior-

nali e dalle riviste di tendenza come CiaoAmici. Qualche box di pubblicità che losegnalava come il compositore del pezzoindicava che qualcuno, non soltanto Giu-lio Rapetti in arte Mogol, stava investen-do su di lui.

Con ogni evidenza, Sanremo non do-veva essere il palcoscenico più appro-priato per un musicista che stava tentan-do una miscela singolare, un tocco dirhythm’n’blues sulla melodia italiana,con arrangiamenti mutuati dai Beatles eda Oltremanica, un orecchio a Otis Red-ding e a Dylan. E nemmeno lui doveva es-sere convinto che il festival fosse un tram-polino giusto per lui, se è vero che nell’e-dizione del 1968 (ricordata ancora oggiper una stralunata presenza di LouisArmstrong, che rifiutava di uscire di sce-na dopo avere proposto Mi va di cantarein coppia con Lara Saint Paul) presentòforse la sua canzone più sfortunata, Lafarfalla impazzita. Un pezzo che forsedoveva alludere a qualche sogno alluci-nato, un effetto da Lsd dei poveri, ma chefu affidato a una star inconsapevole, PaulAnka, e a un crooner nazionalpopolarecome Johnny Dorelli, e dopo essere statosbattuto fuori dalla finale fu dimenticatopiù o meno per sempre.

Eppure l’anno dopo, 1969, ci provò dipersona, superando scontrosità e timi-dezze. Come compositore aveva già allespalle Dolce di giorno, la canzoncina concui i Dik Dik erano stati ammessi a Ban-diera gialla, programma rivoluzionariodi Gianni Boncompagni «con la compli-cità di Renzo Arbore», e soprattutto il suc-cesso clamoroso di 29 settembre, primanella hit parade nella versione dell’Équi-pe 84. Allora il suo look comprendeva i ca-pelli lunghi ed elettrificati, e per qualche

tempo anche un paio di baffetti che ave-vano del posticcio, un segno vagamentemachista su un volto da putto.

Si presentò sul palcoscenico in una del-le numerose versioni del Contadino, o delProvinciale, i personaggi pensati per luidal talento pubblicitario di Mogol, con lagiacchetta strettissima e un maxi-foulardbianco e impossibile, gambotte corte egluteo pimpante. Era piuttosto chiaroche doveva essere almeno nelle intenzio-ni una sintesi fra l’Italia post-rurale, usci-ta dal miracolo economico, dall’urbane-simo e dalla “congiuntura”, e un accennodi flower power, spirito country e amorecome ideologia.

Era il 30 gennaio, di lì a qualche mesesarebbe arrivato un autunno caldissimo,e intanto lui si permetteva di annunciareil verbo mogoliano secondo cui «non puòessere soltanto una primavera»: autunnocaldo, primavera tiepida. Annunciato daGabriella Farinon, «accompagnato dalmaestro Reverberi», aveva esordito conqualche incertezza di intonazione nel-l’attacco di Un’avventura, e poi inveceaveva proseguito guadagnando una con-fidenza crescente, con gesti via via più si-curi, prima facendo schioccare le dita,snap, e poi battendo addirittura le mani aritmo, e infine concedendosi un tocco ap-pena un po’ esagerato, come succede aitimidi, di spavalderia beat, roteando a ri-petizione l’avambraccio nel mezzo del ri-tornello: «Perché non è una promessa...».

Proprio come avrebbe potuto fare conmeno remore e un tono più esplicita-mente nashvilliano un allegro trucidonealla Little Tony, o un fratello minore diAdriano Celentano, ma anche il suo com-plice di quella edizione, il tostissimo Wil-son Pickett. Eppure l’avventura del festi-

EDMONDO BERSELLI

SanremoIl meglio

di

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 27 FEBBRAIO 2005

val non era del tutto finita, per il futuro“maestro solitario”. Nel 1970 infatti par-tono favoriti proprio Little Tony e PattyPravo, titolari di una canzone passataperlomeno alla cronaca del festival, senon alla storia. Si intitolava La spada nelcuore. Canzone a effetto, colpi di scenaemozionali, un tradimento annunciato:«Quando tu l’hai visto sei cambiata, ti seiilluminata… È simpatia… Non era ve-ro…». Il brano portava la firma Mogol-Donida, ma fin da allora si sparse la voceche Battisti era intervenuto almeno sul-l’arrangiamento, forse sulla struttura del-la canzone, chissà, magari nell’inciso, chein effetti mostrava stimmate drammati-camente battistiane (onorevole quintoposto in classifica delle vendite per LittleTony, tornato al ciuffo dopo qualche ten-tativo di frangetta beatlesiana).

Sono sfumature e indizi impagabili perla tribù molto feticista dei battistiani, cheancora oggi rincorrono reliquie del loroidolo e sperano sempre nella pubblica-zione di inediti, a dispetto di smentite e di

dinieghi degli avvocati di famiglia. E che adistanza di tanti anni trovano sibillineconferme, se è vero che l’ultima ciclopicaraccolta battistiana, cinquanta canzonisotto il titolo Le Avventure di Lucio Batti-sti e Mogol, rende pubblica proprio la ver-sione di quella canzone, La spada nel cuo-re, eseguita da “Lui”, un demo che era cir-colato per anni su nastri pirata e assapo-rato viziosamente di nascosto dai devoti.Nella nuova antologia è ancora firmataDonida, un musicista tradizionale ma as-sai stimato da Battisti (che incise due suecanzoni, Prigioniero del mondo, a iniziodi carriera, e la struggente La compagnia,con i suoi falsetti strappacuore).

L’ultimo indizio sanremese di Battisti,la traccia estrema, risale al 1971, allorchésempre Little Tony e la Formula 3, il grup-po che era stato miracolato da alcunecanzoni battistiane come Eppur mi sonscordato di te, furono in gara con La follecorsa. Un’altra canzone composta daMogol e Donida. Un altro brano di cui cir-cola un bootleg trafugato dallo studio di

registrazione, che Battisti esegue con al-legra vivacità e un buon tiro.

Poi le tracce si perdono. Passato qual-che anno, accorciati i capelli ed elimina-ti i baffi, Lucio lo si sarebbe visto come unadulto sobrio e sicuro di sé, consapevoledi quello che sta facendo, perfettamentea suo agio nel proprio ruolo, nella pro-pria identità, e certo del proprio valore. Avolte con certi maglioni girocollo che glidavano un’aria da giovane professionaldurante il weekend. Niente enfasi, so-brietà assoluta, indimenticabile in unaesecuzione intimistica di E penso a te.Sempre meno “cantante” e sempre piùtecnico e gestore dei propri suoni. Stavaper piantare tutto. Si sarebbe inoltrato inuna ricerca maniacale, pubblicando di-schi impossibili, senza Mogol, affidan-dosi ai giochi verbali di un poeta ermeti-co, Pasquale Panella. Per lui il festival diSanremo era diventato una galassia re-mota, una scheggia di universo da cui erafuggito: ma da cui qualcosa esce semprea ricordarlo.

I PROTAGONISTINell’immagine, in prima fila da sinistra:

Lorella Cuccarini, Vasco Rossi, Alice, Wilson

Pickett, Gigliola Cinquetti, Pippo Baudo,Tony

Renis, Iva Zanicchi, Adriano Celentano, Anna

Falchi, Carla Boni, Gene Pitney, Pino Donaggio,

Nada. In seconda fila: Elisa, Domenico

Modugno, Ines Sastre, Eros Ramazzotti, Miguel

Bosé, Dalida, Antonella Ruggiero, Giorgia,

Fausto Cigliano, Edoardo De Crescenzo,

Simona Ventura, Johnny Dorelli, Mia Martini,

Caludio Villa. In terza fila: Riccardo Cocciante,

Raffaella Carrà, Massimo Ranieri, Alexia, Lucio

Battisti, Sabina Ciuffini, Renato Rascel, Mike

Bongiorno, Nunzio Filogamo, Anna Oxa, Fabio

Fazio, Claudia Koll, Gianni Morandi, Patty Pravo.

In quarta fila: Elisabetta Gardini, Bobby

Solo, Claudio Cecchetto, Laetitia Casta,

Lucio Dalla, Andrea Bocelli, Serena Autieri,

Nilla Pizzi, Valeria Marini, Sergio Endrigo,

Équipe 84, Luigi Tenco, Laura Efrikian,

Raimondo Vianello

Nella foto a sinistra, Lucio Battisti con Loretta

Goggi e Patty Pravo a Sanremo

Modugno, Giorgia, Martinisono loro i magnifici tre

Il voto premia anche Fazio e Laetitia Casta

GINO CASTALDO

Qual è la più bella canzone proposta dal festi-val nei suoi cinquantacinque anni di vita? Do-manda non facile, certo, considerando che a

Sanremo sono passate circa 1.500 canzoni, masappiamo anche che non sempre la qualità è statapredominante nelle scelte degli organizzatori. Al-la fine di canzoni di indiscutibile bellezza, degne dirimanere nella storia della canzone, non ce ne so-no state più di una cinquantina. Tra queste ne ab-biamo scelte quindici e su questa lista abbiamoproposto un sondaggio ai lettori di Repubblica.it,che hanno risposto numerosissimi (oltre 15.000suffragi raccolti in pochissimi giorni). Grazie aquesti risultati, possiamo delineare un immagina-rio podio.

Vince, a sorpresa, Almeno tu nell’universo, lasplendida canzone firmata da Bruno Lauzi eMaurizio Fabrizio che Mia Martini portò all’Ari-ston nel 1989. Arrivò appena nona, ma continuòad avere una sua vita autonoma negli anni se-guenti. Per molti, anzi, incarnava tutta la rabbio-sa passione della cantante, un potente inno ca-noro contro la sfortuna che l’aveva perseguitata.Il netto distacco con cui ha vinto (il 23 per centodei voti) potrebbe avere il sapore di un risarci-mento per una cantante che non ha avuto in vitaquello che meritava, ma sicuramente il successolo si deve anche al fatto che un paio d’anni fa Eli-sa, che in italiano non canta quasi mai, ne ha in-ciso una acclamatissima versione, altrettantobella, anche se saggiamente lontana dall’inter-pretazione che ne offrì la Martini.

Al secondo posto (14 per cento dei voti) si piaz-za Vita spericolata, che Vasco Rossi portò al fe-stival nel 1983 e che, ventidue anni dopo, canterànella prossima edizione, nella serata di sabato.Anche Vita spericolata secondo quello che è di-ventato un ricorrente luogo comune della rasse-gna, non ebbe fortuna al momento della sua ese-cuzione. Non arrivò neanche vicino al podio, macome sanno tutti è diventata nel tempo una del-le più importanti canzoni del nostro repertorio,amata soprattutto dal pubblico giovanile chel’ha trasformata in una bandiera generazionale.Di misura (col 13 per cento dei voti) si piazza alterzo posto il pezzo-simbolo del festival ovveroNel blu dipinto di blu di Domenico Modugno, lacanzone che nel 1958 spalancò le porte alla mo-dernità della melodia italiana. Seguono con am-pio distacco 4 marzo 43 di Lucio Dalla e Un’av-ventura di Lucio Battisti.

Modugno si prende una bella rivincita vincen-do col 24 per cento dei voti la classifica dei can-tanti che hanno vinto almeno una volta il festi-val, seguito da Adriano Celentano ed Eros Ra-mazzotti. Tra le donne vince Giorgia con un so-nante 31 per cento dei voti raccolti, seguita daElisa e Alice. In questa votazione ha chiaramen-te ha avuto il sopravvento il gusto dei più giova-ni, che raramente trovano nelle proposte del fe-stival qualcosa che gli assomigli. Il dato più sin-golare casomai è il terzo posto di Alice, che vinsenel 1981 con una canzone di Franco Battiato, equello fu l’anno che segnò l’inizio della rinascitadel festival dopo anni bui in cui la Rai aveva smes-so perfino di trasmettere in diretta le serate.

Abbiamo chiesto ai lettori di indicare anche ilnome del presentatore preferito e in questa par-ticolare classifica l’ha spuntata Fabio Fazio col38 per cento dei voti a fronte del 27 per cento rac-colto da Pippo Baudo e il 13 per cento di Rai-mondo Vianello. La scelta di Fazio fa riflettere. Èin fondo il meno “sanremese” tra tutti i presen-tatori, ma il dato coincide col successo che le sueedizioni ebbero sui dati d’ascolto. Pochi voglio-no ricordarlo ma la sua edizione ha segnato il re-cord degli ultimi dieci anni, segno che alcune in-novazioni intelligenti sono possibili senza di-struggere il patrimonio popolare accumulatodalla rassegna. Dulcis in fundo, le vallette. Tra ledecine di bionde e brune che hanno affiancato iconduttori, con gaffe proverbiali, mutismi, eperfino qualche scena di pianto, i lettori hannoscelto il volto elegante di Laetizia Casta (24 percento dei voti), seguita con un buon margine didistacco da Serena Autieri (17 per cento) e, parimerito, da Lorella Cuccarini e Claudia Koll, en-trambe al 15 per cento.

La classifica su InternetLe hit sono il risultato di una consultazione tra i lettori di Repubblica.it alla quale hanno partecipato oltre 15.000 utenti unici

LE CANZONI

Vacanze romane (Matia Bazar)

4 marzo 1943 (Lucio Dalla)

Il ragazzo della via Gluck (A.Celentano)

Un’avventura (Lucio Battisti)

Ancora (Eduardo De Crescenzo)

Ciao amore ciao (Luigi Tenco)

E dimmi che non vuoi morire (Patty Pravo)

Con te partirò (Andrea Bocelli)

Io che non vivo (Pino Donaggio)

Una lacrima sul viso (Bobby Solo)

E se domani (Fausto Cigliano)

Quando quando quando (Tony Renis)

Almeno tu nell'universo(Mia Martini) 23%

Vita spericolata (Vasco Rossi) 14%

Nel blu dipinto di blu(Domenico Modugno) 13%

CANTANTI VINCITORI

Massimo Ranieri

Gianni Morandi

Riccardo Cocciante

Sergio Endrigo

Claudio Villa

Renato Rascel

Bobby Solo

D. Modugno 24%

A. Celentano 18%

E. Ramazzotti 14%

CANTANTI VINCITRICI

Anna Oxa

Gigliola Cinquetti

Nada

Alexia

Nilla Pizzi

Iva Zanicchi

Carla Boni

Giorgia 31%

Elisa 22%

Alice 14%

PRESENTATORI

Simona Ventura

Mike Bongiorno

Raffaella Carrà

Johnny Dorelli

Nunzio Filogamo

Claudio Cecchetto

Miguel Bosé

Fabio Fazio 38%

Pippo Baudo 27%

R. Vianello 13%

VALLETTE

Ines Sastre

Sabina Ciuffini

Anna Falchi

Laura Efrikian

Valeria Marini

Elisabetta Gardini

Laetitia Casta 24%

Serena Autieri 17%

L. Cuccarini 15%

C. Koll 15%

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le scienzeEsperimenti di frontiera

Dopo aver ottenuto il via libera dal comitato etico,gli studiosi dell’università di Stanford hanno trapiantato consuccesso neuroni umani nel cervello di un topo, ottenendocosì un organo ibrido. Agli incroci biologici stannolavorando sempre più ricercatori sperando cosìdi trovare cure alternative per le malattie neurologiche

In laboratorio sonostati creati maialinelle cui vene scorresangue umanoe pecore a cui è statoimpiantato il fegatoex novo. E a Shanghaisi tentano test conovociti di coniglio

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 FEBBRAIO 2005

Alla ricerca della nuova chimera

Il Mito racconta che fu Bellerofon-te, eroe dei Corinzi, a uccidere laChimera, l’animale fantastico.Chi sarà a uccidere, oggi, la Chi-mera che la Scienza — non Echid-na e Tifone, i genitori dell’anima-

le con testa di leone, corpo di capra e co-da di serpente — hanno iniziato a gene-rare? Se Irving Weissman, biologo del-l’università di Stanford, oltre a conosce-re i mondi della genetica conoscesse imisteri del Mito, avrebbe qualchepreoccupazione. Questi animali fanta-stici, minotauri, draghi o unicorni (peravere quest’ultimo, assicurano gli Dei,basta associare un dente di narvalo, unmammifero marino, al corpo del caval-lo), non sono certo antenati, neppurelontani, del piccolo topo con cervello diuomo che Weissman è stato pochi gior-ni fa autorizzato a creare dal Comitatoetico della prestigiosa università ameri-cana. Ne evocano il fascino dell’incer-tezza dei confini e delle contaminazio-ni, ma sono distanti per una questionecentrale: quelli, gli unicorni e i draghi,erano il frutto della mente immagi-nifica dell’uomo e tutt’al più nepotevano occupare gli incubi eagitarne le ansie; questo, il pic-colo “topumano”, invece, ci fatornare con i piedi per terra, ali-menta le speranze mediche dicura per malattie neurologichefinora impossibili da aggredire,al massimo promette di gonfiarel’Ego di un ricercatore (forse an-che il suo portafoglio) e il suo sognodi coronare con un Nobel una pre-stigiosa — e magari anche spregiudica-ta — carriera.

Weissman è in buona compagnia.Nel mondo scientifico, dove non esi-stono barriere etiche e giuridiche, la ri-cerca sulle chimere affascina molti al-tri centri universitari. Sarà perché glixenotrapianti sono meno popolari diun tempo, per il pericolo virus che l’or-gano animale porta con se quando vie-ne trapiantato sull’uomo (nemmenole valvole con tessuto di maiale si usa-no più: davano problemi e sono statesostituite da materiali sintetici), sta difatto che dagli Stati Uniti al Canada al-la Cina la caccia alla chimera è aperta.Maiali che vivono — e bene — con san-gue umano, pecore del Nevada chehanno il fegato per l’80 per cento uma-no, embrioni di uomo-coniglio chehanno resistito alcune settimane in unlaboratorio di Shanghai, galline chefanno il verso e muovono la testa comele quaglie perché il professor Balaban,della McGill University di Montreal, hafatto crescere neuroni di quaglia nelcervello delle galline.

L’ultima scoperta in ordine di tempoviene da Israele. Spiega il professor Giu-seppe Novelli, ordinario di genetica al-l’università Tor Vergata di Roma: «È sta-to dimostrato che cellule staminali em-

brionali di maiale, se inserite al mo-mento giusto del loro sviluppo, posso-no essere utilizzate per produrre organicome fegato, pancreas e polmoni dausare nell’uomo. Hanno scoperto il ti-ming esatto, che finora non era noto».

Anche l’esperimento della StanfordUniversity è molto promettente. Checosa sta facendo il professor Weis-sman? Sta trapiantando neuroni umaninel cervello di topi da laboratorio. Il la-voro, condotto in team dalla universitàcaliforniana e dall’azienda biotecnolo-gia Stem Cells di Palo Alto, procede ra-pidamente. Le linee di ricerca sono es-senzialmente due, una prevede l’inseri-mento di cellule umane malate dentrotopi in salute, un’altra cellule umane sa-ne in topi malati. L’ultimo stadio, soloteorico per la profonda diversità dei duecervelli, è la sostituzione totale dellecellule neuronali del topo con quelleumane. Ma difficilmente arriveremo al-la situazione immaginata da H. G. Wel-ls nell’Isola del dottor Moreau (1896):folli sperimentatori che si divertono a

unire parti umane con parti animali.Molto più realisticamente la ricerca

punta a seguire l’evoluzione dei neuro-ni umani per tentare di capire comequesti diventano difettosi. Weissman eil suo team hanno iniettato neuroniumani in feti di topi creando una clas-sica chimera, topi con cervello per cir-ca l’uno per cento umano, e questo haloro consentito di osservare come lecellule umane si aggregano a quelle deltopo, come si moltiplicano, quali con-nessioni fanno. «Ora aggiungeremocellule di neuroni umani malate diAlzheimer, o della malattia di Lou Geh-rig o di altri difetti cerebrali e osserve-remo le conseguenze nel cervello deltopo. Stiamo imparando una lezioneche sarebbe stata impensabile con unbando etico nella ricerca sulle chime-re», specifica Weissman.

Cogliere dunque l’attimo in cui unacellula modifica in peggio la sua esi-stenza e provoca nel cervello una sortadi tsunami biologico. Ecco l’obiettivodelle chimere create a Stanford. In futu-

ro potrebbero essere sostituite regionimalate del cervello del topo con celluleumane sane ottenute dai feti. Ci sonomalattie del sistema nervoso di cui nonsappiamo ancora nulla. Non sappiamo,ad esempio, come la paralisi che ha col-pito l’astrofisico Hawking sia emersa,né immaginiamo che cosa l’abbia sca-tenata. Non sappiamo ancora abba-stanza del Parkinson e dell’Alzheimer,né della schizofrenia o dell’autismo odella sclerosi. In fondo, la ricerca dellaStanford punta a creare una sorta di“provetta da test con i peli”. Ian Wilmut,il creatore della pecora Dolly, è stato au-torizzato quindici giorni fa a produrreneuroni umani a partire da malati gravidel sistema nervoso attraverso la clona-zione, Weissman è andato oltre: Wil-mut fa esperimenti in provetta, Weis-sman li fa su un animale e per questo lasua avventura scientifica si incamminaverso il confine sottile che separa la co-noscenza dall’oblio. Qui si tratta di cer-vello, dove dovrebbe trovare posto lacoscienza, quel che — dicono — ci dif-ferenzia dalle altre specie animali.

Gli americani comunque ci credono.Per la prima volta, infatti, è stato posto ilproblema della creazione delle chimeree il Comitato etico universitario diStanford ha autorizzato formalmente laricerca di Weissman. Il via libera è stato

motivato così da Henry T. Greely, di-rettore del Centro per la legge e le

scienze biologiche nonché capodel Comitato etico: «Abbiamo de-ciso che se vedremo un qualchesegnale che ci riconduce al cer-vello umano o se il topo mostracomportamenti simili a quellidell’uomo, del genere di una ac-

cresciuta memoria o di una mag-giore capacità di risolvere i proble-

mi, ci fermeremo». L’università ca-liforniana affronta dunque, prima

nel mondo non solo negli Stati Uniti,la seguente questione filosofica: quan-

do una chimera smette di essere anima-le e comincia a diventare uomo?

La sindrome di Frankenstein è in ag-guato. «La biotecnologia sta arrivando alsuo limite», accusa Wesley J. Smith, delDiscovery Institute. Già lo scorso anno ilCanada ha specificamente messo albando la creazione di chimere a scoposcientifico e Cynthia Cohen, membrodel Canada’s Stem Cell Oversight Com-mittee, suggerisce: «Anche negli StatiUniti le chimere dovrebbero essere im-pedite, mischiare uomo e animale dimi-nuisce la dignità umana». La NationalAcademy of Sciences, cui spetta il compi-

to di consigliare il governo fede-rale sulle decisioni da

assumere nellequestioni scientifi-che, sta studiando

la materia. Il prossi-mo mese presenteran-

no un piano agli scien-ziati con le linee guida da

seguire in caso di ricerche

LA STATUADI AREZZOLa statua bronzea della

Chimera del IV-V secolo

avanti Cristo conservata

al museo archeologico

nazionale di Firenze

EMILIO PIERVINCENZI

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 27 FEBBRAIO 2005

sulle chimere. Greely dunque, che hamesso nel conto di trasformarsi nel Bel-lerofonte del ventunesimo secolo, non èil solo a doversi preoccupare delle chi-mere scientifiche. Sostiene ThomasStarzl, uno dei massimi sostenitori dellachimerizzazione umana: «Assumere lostraniero in corpo ha un obbiettivo pre-ciso: migliorare la specie umana».

Roberto Marchesini, direttore deiQuaderni di Bioetica, che sulle chime-re ha scritto un bel libro (La fabbricadelle chimere, Bollati Boringhieri), spo-sta l’angolo di osservazione, dal labora-torio di Stanford a quello che definisce«uno dei maggiori movimenti culturaliche si affacciano sul XXI secolo, il post-umano». Dice: «Non si tratta solo di di-scutere sulla quallina o sulla caprape-

cora, ibridi animali realmente ottenutidai ricercatori alla fine degli anni No-vanta, o di dire se si sta dalla parte diWeissman o da quella di chi alza un mu-ro davanti alla ricerca sugli embrioniumani — argomenta Marchesini — lachimerizzazione della società è sottogli occhi di tutti, basta riflettere sullamodificazione culturale dell’immagi-ne dell’uomo. È un’epoca, la nostra, incui i tabù della purezza sono superati,in cui la contaminazione di specie di-verse, di organico e inorganico, uomo eanimale, è diventata un paradigma cul-turale affascinante e ormai abbastanzacomune. Piacciono gli esseri umanicon parti meccaniche, oppure capacidi ospitare cervelli e sensazioni so-prannaturali, basti pensare al successo

di film come Blade Runner e Matrix.Esiste inoltre la ricerca artistica sullachimera, come quella che fa Daniel Leecon i suoi grandi quadri, che a New Yorkhanno raggiunto quotazioni inarriva-bili, dove i protagonisti sono un po’ uo-mini e un po’ animali. Ma c’è anche unatendenza estetica, forse più effimera ecommerciale, ma molto in crescita.Sempre più donne, in particolare negliStati Uniti, si rifanno a modelli anima-li: si felinizzano il viso, lavorando sul ta-glio degli occhi, gli zigomi, i padiglioniauricolari. Sì, piace la donna-gatto.Forse una legge può fermare la ricercascientifica, come accade in Italia che incampi come questi è drammaticamen-te fuorigioco. Ma certamente nessunopuò frenare una tendenza culturale».

Quando la tecnicainfrange il tabù

Ma senza la politica è un rischio

UMBERTO GALIMBERTI

Come si fa a impedire alla tecnica che può dinon fare ciò che può? Questa è la domandache oggi si pone di fronte ai tentativi, esperi-

ti in diversi laboratori del mondo, di contamina-zione tra materiale biologico umano e materialebiologico animale.

Dopo la clonazione della pecora Dolly, il suocreatore Jan Wilmut è stato autorizzato a produrreneuroni umani attraverso la clonazione. AllaStanford University, il professor Weissman sta tra-piantando neuroni umani nel cervello dei topi. AShanghai biologi cinesi studiano gli effetti dell’u-nione di cellule di uomo e ovociti di coniglio. NelMinnesota sono stati creati animali con sangueumano che scorre nelle loro vene. Nel Nevada si so-no ottenute pecore con fegati e cuori formati dacellule umane. E questi sono solo alcuni esempi disperimentazioni in cui si oltrepassa il confine tramondo umano e mondo animale.

La cosa è allarmante sia per chi pensa, alla ma-niera degli antichi greci, che le leggi di natura nonpossono essere violate, sia per chi pensa, comevuole la tradizione giudaico-cristiana, che la natu-ra possa essere dominata e posta al servizio del-l’uomo, ma nel rispetto delle sue leggi. Queste dueconcezioni, e le etiche che le difendono, sono en-trambi inadeguate nell’età della tecnica, perchéformulate in epoche in cui la tecnica non era in gra-do di modificare la natura, e il potere dell’uomosulla natura era praticamente nullo. Oggi non è piùcosì. La natura non è più l’immutabile perché è inogni suo aspetto manipolabile e modificabile dal-l’intervento tecnico.

La tecnica, a sua volta, non è più in potere del-l’uomo perché i risultati che consegue non nasconoda indicazioni umane, ma dagli esiti delle sue proce-dure, in cui è rintracciabile quella che potremmo de-finire “l’etica della tecnoscienza” che risponde al-l’imperativo: «Si deve conoscere tutto ciò che si puòconoscere, e quindi fare tutto ciò che si può fare».

Così formulata, l’etica della tecnoscienza ha co-me obiettivo solo il suo autopotenziamento, come èevidente, ad esempio, nelle ricerche sul potenzia-mento delle armi atomiche, anche se ne disponia-mo abbastanza per distruggere la terra almeno die-cimila volte. E non collima con l’etica antropologi-ca che ha in vista il miglioramento delle condizioniumane. E questo non collimare non è solo un datodi fatto, ma è un contrasto di principio, perché latecnica non è più uno strumento nelle mani del-l’uomo, come ostinatamente si continua a credere,ma è diventata il vero soggetto della storia, e cometale esprime non più il potere dell’uomo sulla natu-ra, ma il suo potere sull’uomo e sulla natura.

Oggi si è giunti alle estreme conseguenze diquell’intuizione che Bacone aveva avuto alle origi-ni della scienza moderna e che aveva espresso inquella formula «scientia est potentia». Una formu-la divenuta minacciosamente coerente con sestessa nel momento in cui il sapere si è autonomiz-zato dall’uomo che l’ha escogitato, sottraendo aquest’ultimo il potere che al sapere è intimamenteconnesso. In questo scenario, di fronte alla tecni-ca, l’etica diventa pat-etica. Può invocare la tecni-ca che può di non fare ciò che può. E quando s’è maivisto nella storia un’autolimitazione della potenzada parte di chi la detiene?

Finita l’epoca in cui, per insufficienza tecnica, lanatura era pensata come l’immutabile; finita l’e-poca in cui l’uomo poteva concepire la tecnica co-me “mezzo” per agevolare il suo dominio sulla na-tura, oggi siamo nell’epoca in cui la tecnica guardasia l’uomo sia la natura come semplice materia sucui compiere la sua sperimentazione. E se i risulta-ti che la tecnica è in grado di conseguire coincido-no con gli interessi economici, sembra non ci siaetica in grado di fermare questa collusione, dal mo-mento che non pare che il mondo sia governato daaltri valori che non siano il valore del denaro che latecnica concorre a potenziare.

Ci si chiede a questo punto: che fare? Platone di-ceva che siccome la tecnica non ha scopi è neces-saria quella «tecnica regia», come lui la chiama, cheè la politica, in grado di assegnare alla tecnica i suoiscopi. Ma oggi la politica ha in vista il primato del-l’uomo, il riscatto delle sue condizioni di vita inmolte parti del mondo subumane, o, come pare, hain vista solo l’esercizio della sua potenza? In que-sto caso la sua alleanza, quando non la sua subor-dinazione alla tecnica sembrano inevitabili.

E allora il confronto non è, come sempre si dice,tra etica e tecnica dove non c’è partita, ma, all’in-terno della politica, per come la politica pensa sestessa: se come puro esercizio della potenza, o co-me quella forma di sovranità a servizio dell’uomoin grado di assegnare allo sviluppo tecnico, in séafinalizzato, il suo scopo.

La vera domanda allora non è quella che solita-mente si pone, ovvero se la tecnica debba essere in-coraggiata o arrestata nel suo sviluppo, ma se la po-litica è in grado di ripensare se stessa e considera-re se la sua legittimazione le deriva dall’eserciziodella potenza, come sembra oggi accada, o dalla di-fesa della condizione umana che non rientra nellefinalità specifiche della tecnica. Se la politica sapràrispondere a questa domanda, allora anche lo svi-luppo imprevedibile della tecnica cesserà di appa-rirci minaccioso.

Omero

da ILIADE

Libro VI

LA CHIMERA

Era il mostro d’origine divinalion la testa, il petto capra,e drago la coda; e dalla bocca orrendevampe vomitava di foco. E nondimenocol favor degli Dei l’eroe la spense

‘‘

I MANIMALS DI LEEQuattro “Manimals”,

ovvero creature

antropomorfe create

dall’artista Daniel Lee

Le opere sono

realizzate con

assemblaggi digitali

tra foto di uomini

e animali.

Daniel Lee, che vive

e lavora a New York,

ha esposto in musei

e gallerie di tutto

il mondo

I TEST IN CORSO

MAIALE-UOMO

Dopo gli esperimenti

sulle scimmie con cuore

di maiale, alla Mayo Clinic

a Rochester, in Minnesota,

Jeffrey Platt ha creato anche

maiali con sangue umano

nelle vene, aggiungendo

il sangue dell’uomo

a quello del suino

PECORA-UOMO

Esmail Sanjani, responsabile

del dipartimento

biotecnologie animali

della Nevada University,

aggiungendo cellule

staminali umane ai feti delle

pecore ha prodotto ovini

con fegati composti per l’80

per cento da cellule umane

CONIGLIO-UOMO

L’uomo coniglio è quasi

una realtà. Gli studiosi della

Shanghai University hanno

creato embrioni ibridi,

unendo ovuli di coniglio

e Dna umano per vedere

se è possibile produrre

in questo modo cellule

staminali

QUAGLIA-GALLINA

Trapiantando sezioni

di cervello di quaglia

nelle galline, all’università

canadese McGill sono state

create le “qualline”: animali

con il corpo di gallina,

ma che fanno il verso

e i movimenti di testa tipici

della piccola quaglia

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 27 FEBBRAIO 2005

le tendenzeRevival femminili

Anche ai tempi del femmini-smo si discusse sapiente-mente di uncinetto e di la-voro a maglia: c’era unacorrente che giudicandolitipici lavori femminili im-

posti dalla società patriarcale, li ritenevaumilianti per le donne e quindi da cancel-lare; un’altra corrente invece li definiva trale poche possibilità che le donne avevanoavuto in passato per manifestare la lorocreatività. Se arazzi e ricami antichi eranogiudicati capolavori (tanto che si attribui-vano quasi sempre a mani maschili) diquelle che si chiamano arti applicate, per-ché non le maglie casalinghe e donneschefatte all’uncinetto o ai ferri? Nel movi-mento poi, c’era anche la necessità di tro-varsi un abbigliamento consono alla rivo-luzione in atto, quindi tendente al prole-tario, all’antiestablishment e soprattuttoall’antichic: ci volevano cose etnicozinga-resche, indoperuviane e chi non avevauna nonna paziente e volonterosa che siadattava a confezionare maglioni molli edenormi e gonnellone svolazzanti e colora-te, doveva arrangiarsi: farseli da sé, vuoi aiferri o all’uncinetto, disfando preziosi golfaltamoda della mamma per usarne la la-na.

Venne fuori poi che anche gli uominiadoravano tricottare, orrido verbo, o un-cinettare, ancor peggio: soprattutto nellecarceri, dove maschi del tipo bruto si con-fezionavano scialletti per tenersi calde lespalle e sciarpe civettuole da regalare atemporanei fidanzati. Dall’Inghilterra ar-rivarono i nuovi giovani stilisti da nascon-dere sotto le grandi firme, molto abili a

cercare colori, sfumature, morbidezze,facendo loro stessi dei campioni a maglia.Avendo perso l’identità di genere, a pocoa poco mettersi lì a sferruzzare divenneuna bizzarria, una perdita di tempo se nonper le casalinghe che adorando la tivu po-meridiana, per riscattarsi da ogni senso dicolpa divennero molto abili a fare maglio-ni verde marcio al marito. Deve essere sta-ta la successiva ribellione maschile aglistessi e alle sciarpe pizzicanti, e quella ditutta la famiglia ai golfetti sempre sbaglia-ti di misura e assolutamente fuori moda,ad attenuare l’alacre laboratorio casalin-go. Per un po’ le riviste femminili conti-nuarono, come ai tempi del fascismo, adavere la pagina del lavoro a maglia, che in-segnava punti difficilissimi e orribili da ve-dere. Poi si arresero all’evidenza: semprepiù donne lavoravano fuori casa, sempremeno donne ritenevano sensato, nel po-co tempo libero, e con tutta la maglieria in

nascosta di signore che ne traggono mas-simo godimento creativo: ancora oggi cisono uomini che entrando in una casa, seci trovano una signora china sul bisso can-dido, che attraversa ritmicamente, pacifi-camente, con un ago e un filo colorato, nerimangono folgorati per sempre, inna-morandosi di quell’antica immagine diuna femminilità silenziosa e laboriosa,molto rimpianta. Più problematico il fa-moso piccolo punto, che ebbe il suo mo-mento di pericolosa gloria negli anni ’70:nervosissime signore facevano a gara a chiricamava più cuscini o fondi di sedia senon addirittura divani, riducendo le lorocase, e quelle dei disgraziati cui venivanodonati, delle specie di suk sovraccarichi.

Quanto alle dive che si fanno fotografa-re mentre sferruzzano (sempre senza oc-chiali), non mi convincono: forse voglio-no semplicemente occupare spazio an-che nelle riviste popolari, soprattuttoamericane, di lavori donneschi, forse nonsanno più a che santo votarsi per destareun minimo di curiosità. Perché lavorare amaglia o all’uncinetto fa parte di quelleoccupazioni assolutamente private, di ri-poso, di relax, in cui seguire coi punti ipropri pensieri diventa una specie di au-toanalisi solitaria. Sbandierare così leproprie intime propensioni pare più pe-ricoloso che parlare dei propri amanti. Epoi inutile pensare che le star lancerannouna moda: loro non solo hanno tantotempo vuoto fra un film e l’altro, ma an-che una squadra di domestici. E la gior-nata va pur riempita, non si può farlo so-lo con gli spasimanti. Ma poi: chi indos-serà davvero le loro uncinettate?

NATALIA ASPESI

Ferri

GLI STRUMENTIEsistono tre tipi di ferri: a una

punta, 2 punte, circolare. Un

numero indica la grandezza

del ferro, che viene scelto in

base allo spessore del filato

I PUNTI BASEI due punti fondamentali

per il lavoro a maglia sono

il diritto e il rovescio:

costituiscono la base per

l’esecuzione dei punti operati

I FILATISono tanti e diversi per peso,

composizione e struttura i

filati per il lavoro a maglia: si

sceglie in base al capo che si

vuole eseguire e all’utilizzo

Uncinetto

GLI STRUMENTIGli uncinetti sono simili ad

aghi da maglia, ma più corti

e con un uncino all’estremità

Prodotti in diverse misure,

indicate da un numero

È solo a partire dal XIX

secolo che l’uncinetto

comincia ad essere

usato per adornare la

biancheria intima e di casa

Per prime furono le suore

ad utilizzarlo per realizzare

bordure e accessori

dell’abbigliamento

ecclesiastico

XIX sec.

Le persone riunite, lo

scorso anno, al Victoria

and Abert Museum

per lavorare a maglia

3 mila

Sono le donne americane

che oggi si dedicano al

lavoro a maglia secondo

un recente sondaggio

38 mln

Fin dal 1400

nobildonne,

dame, suore

ma anche

popolane

si dedicavano

al lavoro

all’uncinetto,

che veniva

elencato

negli inventari

della dote

1400

Il lavoro

a maglia

ha origini

antichissime

I primi

esemplari

risalgono a

1.300 anni

fa e furono

ritrovati nelle

tombe dei

faraoni egizi

1.300

È dai tempi del femminismo che le donne si dividono su ricamoe tricot: lavori imposti dalla società patriarcale o hobbycreativi? Adesso le dive di Hollywood riscoprono gli aghida calza come rimedio anti-stress. E così rinasce una moda

Da UmaThurman a

Geri Halliwella Kristin Davis

la mania del“knitting” dilaga

anche sul setSembra di essere

tornati aglianni Sessanta

quando trionfaval’hand made

Un diritto e un rovesciopassatempo delle star

giro già fatta e alla moda, mettersi a farecose che magari prendevano anni: comele famose coperte all’uncinetto fatte diquadratini che si finiva per piantare ametà, un mucchio sporchiccio di presi-ne, perché intanto il trend dell’arreda-mento volgeva ai piumoni e al leopar-dato.

Oggi la maggior parte delle ragazzenon sa fare niente in casa, neppurecucinare, figuriamoci sferruzzare, enon per femminismo ma perchénessuno glielo insegna o impone,o anche perché, saggiamente, neintuiscono l’assoluta inutilità.Eppure non mancano ovunquenegozi che vendono filati, masinceramente soprattutto seteda ricamo (con modelli di ba-vaglini e tovaglie), perché il ri-camo invece resta l’occupa-zione accanita di una setta

Maglia

I FILATILa scelta è tra lana, cotone o

seta: l’importante è abbinare

al filato il giusto uncinetto

Esistono fili sottilissimi

per i centrini più delicati

I PUNTI BASENell’uncinetto

il punto basso e il

punto alto costituiscono

la base di ogni lavoro. Si comincia

sempre con l’eseguire la catenella

Geri Halliwell Audrey Hepburn Julie Benz Ingrid Bergman Uma Thurman Bettie Davis Kristin Davis

Page 18: senza smog Vivere - la Repubblica

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 FEBBRAIO 2005

i saporiAccoglienza e alta cucina

Esce in Italia la nuova guida dei Relais&ChateauxÈ lo spunto per andare in cerca degli hotel che meglio hannorealizzato la ricetta di un’ospitalità calda fatta di fascinodei luoghi, ambienti raffinati, piatti eccellenti, attenzioneal servizio. Ideali per incorniciare un momento feliceo per scappare da stress e malinconie

Uno chalet da cartolina immerso

nel parco del Gran Paradiso, dove la

montagna dà il meglio di sé, tra ghiacciai e

passeggiate super rilassanti. L’offerta

gastronomica si traduce in due ristoranti,

panoramico e gourmand, una brasserie

e un irresistibile bar-à-fromage

BELLEVUEVia Gran Paradiso 22

Cogne (Ao)

Tel. 0165 74825

Camera doppia da 154 euro

Ristorante Le Petit Restaurant

Chef Sergio Sesone

Menù a partire da 50 euro

www.hotelbellevue.it

Cogne (Aosta)Il bel monastero francescano del 1600,

appoggiato sulle colline delle Langhe,

è stato ristrutturato con garbo e rispetto

Felice la scelta di dislocare il ristorante,

gestito dalla famiglia-principe dell’alta

cucina piemontese, nelle suggestive

vecchie cantine

RELAIS SAN MAURIZIOLocalità San Maurizio 39

Santo Stefano Belbo (Cn)

Tel. 0141 841900

Camera doppia da 205 euro

Ristorante Guido da Costigliole

Chef Andrea e Lidia Alciati

Menù a partire da 50 euro

www.relaissanmaurizio.it

S.Stefano Belbo (Cuneo)Una storia lunga più di 150 anni per questa

locanda immersa nel paesaggio magico

del lago Maggiore. Una manciata di

suadenti camere “con vista”, la possibilità

di cenare, benissimo, in

una sala di cristallo — d’inverno —

o sotto il pergolato sul lago in estate

IL SOLE DI RANCOPiazza Venezia 5

Ranco (Va)

Tel. 0331 976507

Camera doppia da 180 euro

Ristorante Il Sole

Chef Davide Brovelli

Menù a partire da 75 euro

www.ilsolediranco.it

Ranco (Varese)

Paradiso degli sciatori e dei freddolosi,

grazie a un centro benessere accogliente e

super attrezzato. Rigenerati da un

massaggio, o felicemente provati

da una giornata sulle piste, la cena

sarà comunque l’esperienza più

entusiasmante del soggiorno

ROSA ALPINAStrada Micura de Ru 20

San Cassiano (Bz)

Tel. 0471849500

Camera doppia da 195 euro

Ristorante St. Hubertus

Chef Norbert Niederkofler

Menù a partire da 60 euro

www.rosalpina.it

S.Cassiano (Bolzano)Una struttura del 1400 incantevolmente

restaurata, dove l’unica fatica è scegliere

tra camere con giardino, sale affrescate,

biblioteca d’antan e la piscina nascosta

dietro un roseto. Il chiostro adornato

ad arte per le cene estive è un vero luogo

di delizie gourmand

CERTOSA DI MAGGIANOStrada di Certosa 82

Siena

Tel. 0577 288180

Camera doppia da 300 euro

Ristorante Il Canto

Chef Paolo Lo Priore

Menù a partire da 60 euro

www.certosadimaggiano.com

SienaUna casa di campagna del 1600, dai toni

morbidi per arredi e accoglienza, nel cuore

di una corposa tenuta, dove la famiglia

Baracchi produce due vini rossi

e un extravergine biologico. Rituale

pre-cena: un buon bicchiere di vino

nel giardino d’inverno

RELAIS IL FALCONIERE Località San Martino 370

Cortona (Ar)

Tel. 0575 612679

Camera doppia da 260 euro

Ristorante Il Falconiere

Chef Richard Titi

Menù a partire da 65 euro

www.ilfalconiere.it

Cortona (Arezzo)

dola uguale: a patto di conservare lastessa, impagabile magia, una formu-la alchemica di charme, coccole, sedu-zione per occhi e palato.

Insomma, decidete di rapire il vo-stro amore per regalarvi qualche gior-no da fiaba. Per portarlo dove? Qual-che idea interessante ci sarà svelatadomani, quando l’associazione deiRelais&Chateaux presenterà la versio-ne italiana della sua guida, ricca di 440indirizzi vincolati alla regola delle cin-que C: charme, calma, carattere, corte-sia. E cucina.

Perché si può affondare nel letto piùaccogliente e tentatore, farsi avvolgeredalle bollicine ayurvediche dell’idro-massaggio e poi infilarsi nell’accappa-toio candido di superspugna, incan-

tarsi davanti alla vetrata che riflette ibagliori di un ghiacciaio, le onde mor-bide del mare, l’acqua placida del lago.Ma prima o poi, questione di ore o mi-nuti, si comincia ad avvertire un lan-guore poco estinguibile con le noccio-line in dotazione nel minibar.

Voglia di mettere fuori il naso dal-l’albergo per cercare un buon ristoran-te, zero: guai a interrompere l’incantoirripetibile trovato fuori e dentro lamaison che vi ospita. Esistono grandiristoranti d’albergo (dalla Pergola del-l’Hilton in giù) e grandi ristoranti conbelle camere annesse (come Le Calan-dre). Ma il rapimento amoroso richie-de un cocktail più raffinato e particola-re. Il “fuori” — quella che le guide ame-ricane chiamano location — deve es-

sere da mozzafiato. Allo stesso modo,il “dentro” — arredi, accoglienza, det-tagli — non può che rivelarsi intimo,complice, seducente. E completato dauna cena strepitosa.

Certo, i prezzi sono alti. Ma questo ti-po di albergo — Relais& Chateaux, Ro-mantik Hotels, Leading Hotels, Char-ming Hotels, eccetera — sa essere cosìintrigante e fascinoso da farsi apprez-zare sempre più spesso anche fuori daiperiodi canonici (la cosiddetta alta sta-gione), quando le tariffe sono più ac-cessibili, le offerte speciali frequenti,gli chef liberi di sperimentare nuove ri-cette e di dedicarvi il loro tempo, ancheproponendo veri e propri mini-corsi dicucina (preziosissimi).

Ma prima di decidere se ritagliarsi

Per rendere piùvario e interessanteil soggiornoqualcuno proponemini-corsi dicucina tenuti dallochef della maison

LICIA GRANELLO

Festa o fugaecco dove andare

AlberghiL’

amore a lungo insegui-to vi ha finalmente det-to di sì. Oppure è in ar-rivo un bimbo e vi sem-bra di toccare il cielocon un dito. Il capo ha

scoperto che gli siete indispensabili evi ha dato la promozione tanto spera-ta. Siete tra quelli che festeggiano de-gnamente l’anniversario di nozze,convivenza, fidanzamento, o sempli-cemente il compleanno.

Esistono svariati motivi, tutti sacro-santi, per organizzare una fuga ro-mantica e golosa, di quelle da segnaresul calendario e non dimenticare finoa che memoria terrà. Da raccontareagli amici e da ripetere (se possibile),variando la destinazione o mantenen-

LA GUIDALa guida R&C

stampata in un

milione di copie

e in quattro lingue

Page 19: senza smog Vivere - la Repubblica

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 27 FEBBRAIO 2005

Una famiglia di imprenditori edili,

i Moretti, appassionati bon vivant,

vocazione tradotta in produzioni di vini

d’alta gamma e nell’attività di albergatori Il

relais dell’Albereta, il loro gioiello-simbolo,

ospita al suo interno

uno dei ristoranti-culto italiani

L’ALBERETAVia Vittorio Emanuele 25

Erbusco (Bs)

Tel. 030 7760550

Camera doppia da 245 euro

Ristorante Gualtiero Marchesi

Chef Gualtiero Marchesi

Menù a partire da 90 euro

www.albereta.it

Erbusco (Brescia)Una villa patrizia del 1500 affondata tra

i vigneti della Valpolicella, ristrutturata

privilegiando spazi ampi e mobili d’epoca

Verde, silenzio, una piscina maestosa,

un bellissimo giardino d’inverno. E un

ristorante dove la cena è un lungo rito

appagante

VILLA DEL QUARVia Quar 12

San Pietro in Cariano (Vr)

Tel. 045 6800681

Camera doppia da 260 euro

Ristorante L’Arquade

Chef Bruno Barbieri

Menù a partire da 70 euro

www.hotelvilladelquar.it

S.Pietro in Cariano (Verona)Una grande villa liberty, buen retiro di

D’Annunzio, posizionata pieds dans l’eau:

si esce dalla camera e ci si immerge

nelle acque verdi del lago di Garda

La cucina è all’altezza del luogo. Dopo

cena musicale nell’affascinante torretta

a fianco, tra pini e ulivi

VILLA FIORDALISOCorso Zanardelli 150

Gardone Riviera (Vr)

Tel. 0365 20158

Camera doppia da 200 euro

Ristorante Villa Fiordaliso

Chef Riccardo Camanini

Menù a partire da 65 euro

www.villafiordaliso.it

Gardone Riviera (Verona)

Affacciato sul promontorio dell’Argentario,

un relais frammentato

tra la costruzione centrale e delle piccole

ville nascoste nel verde di un grande,

delizioso giardino con piante

mediterranee. Quando il tempo lo

permette, si mangia in terrazza dove

la vista è strepitosa

SBARCATELLOPorto Ercole (Gr)

Tel. 0564 858111

Camera doppia da 328 euro

Ristorante Il Pellicano

Chef Antonio Guida

Menù a partire da 82 euro

www.pellicanohotel.com

Porto Ercole (Grosseto)Un palazzo di mille anni fa arrampicato

sulla collina più alta di Ravello, il magnifico

borgo che domina dall’alto

la costiera amalfitana. Piscine, terrazze

con vista mozzafiato, e un ristorante

che coniuga con eleganza cucina

regionale e internazionale

PALAZZO SASSOVia San Giovanni del Toro 28

Ravello (Sa)

Tel. 089 818181

Camera doppia da 300 euro

Ristorante Rossellinis

Chef Pino Lavarra

Menù a partire da 70 euro

www.palazzosasso.com

Ravello (Salerno)Il luogo è di straordinaria bellezza,

la struttura senza offese per il paesaggio,

il servizio cordiale e personalizzato. Per

guadagnarsi aperitivo in terrazza e cena, si

può percorrere a ritroso la vertiginosa

discesa di gradini di pietra che porta

al mare

IL SAN PIETRO Via Laurito 2

Positano (Sa)

Tel. 089 875455

Camera doppia da 380 euro

Ristorante San Pietro

Chef Alois Vanlangenaeker

Menù a partire da 65 euro

www.ilsanpietro.it

Positano (Salerno)

una parentesi di un paio d’ore per im-parare i trucchi del mestiere dei fornel-li, godetevi il piacere di una seratagourmand. Sprofondatevi nella pol-trona accanto al camino, uscite nel pa-tio che domina la valle, accoccolatevi abordo piscina, e fatevi servire un ape-ritivo con adeguati stuzzichini (moltomeglio delle noccioline). Mentre losorseggiate, vi porteranno il menù e lacarta dei vini. Se siete curiosi, lanciate-vi nel menu degustazione, che rac-chiude il meglio del sapere gastrono-mico degli chef, quasi sempre piutto-sto giovani, entusiasti, scelti fra i mi-gliori in circolazione, capaci di regalar-vi due ore di godimento assoluto per ilpalato, senza costringervi a coricarvicon la bottiglia d’acqua sul comodino.

Anzi, quando il mattino dopo, dopouna notte meravigliosa, vi alzarete conla sensazione netta di non volervi ac-contentare del solito caffè, sappiateche questi sono i luoghi della GrandeColazione. Lo stesso chef che vi ha de-liziato a cena, vi tenterà con le irresisti-bili brioches farcite di crema inglese, ilvero yogurt naturale, la torta di melepiù buona del mondo, le miniquichesdi verdura e le marmellate preparatecon i prodotti dell’orto di casa, coltiva-to con passione certosina. Facilmente,vi regaleranno un vasetto di squisitez-ze per svegliarvi con il buon umore an-che nei giorni a seguire. E voi torneretea casa con addosso una tale allegria chenemmeno il saldo della carta di credi-to riuscirà a scalfire.

Sono 440 in tutto

il mondo gli esercizi

associati alla catena

Relais & Chateaux

440Sono 50 nel mondo

i Paesi in cui è possibile

trovare un hotel della

catena Relais & Chateaux

50

È di un miliardo e

300mila euro il fatturato

mondiale dei Relais

& Chateaux nel 2004

1.300mlnSono 33 gli hotel che

appartengono alla catena

Relais & Chateaux

presenti in Italia

33

Il proprietario del “San Pietro” di Positano

Tratta il clientecome te stesso

Siamo sinceri: fare l’albergatore sulla costiera amal-fitana è quasi facile. Ti guardi in giro e trasecoli: labellezza naturale di questi luoghi è assoluta, a volte

perfino dolente nella sua semplicità. L’Italia è piena diposti incantevoli, non è una questione di classifiche. Peròqui non abbiamo nemmeno bisogno “che arrivi la bellastagione”. I colori, gli scorci, i paesaggi sono così coin-volgenti da farsi beffe delle previsioni del tempo. Chi havisto Positano sotto la pioggia sa di che cosa parlo.

Però la bellezza non basta. Il nostro registro degli ospi-ti dice in maniera incontrovertibile che molti di loro, unavolta scoperto il San Pietro, ci tornano ancora e ancora:abbiamo coppie e famiglie che hanno fatto del soggior-no qui un appuntamento fisso nella loro agenda annua-le. Un po’ come quando si pianifica la visita ai parenti: lodai per scontato, se non lo facessi ti mancherebbe da mo-rire. Del tipo: ogni anno andiamo a trovare zia Alda. Ognianno passiamo una settimana al San Pietro.

Ripeto, la bellezza dei luoghi fa sicuramente la sua par-te. Ma noi sappiamo bene che quanto si trova “dentro”l’albergo è altrettanto importante per determinare il suc-cesso. In ogni pozione vi è un qualcosa che scatena la ma-gia: il nostro ingrediente è un’ospitalitàattenta, ricercata ma sempre discreta. Ilsegreto? Tanto semplice quanto sor-prendentemente efficace: l’empatia.

A ogni inizio di stagione ci mettiamonei panni dei nostri clienti. Detto cosìsembra scontato, ma nella sostanza so-no convinto che non sia una pratica mol-to diffusa. Altrimenti il livello della no-stra offerta alberghiera sarebbe più altoe diffuso di quanto è oggi nel nostro pae-se. Ci chiediamo: come dovrebbe esserel’accoglienza se fossimo noi ad arrivarein albergo? Che atmosfera vorremmotrovare? Con chi ci piacerebbe parlare?Cosa vorremmo trovare nel menu o nel-la lista dei vini? Discutiamo con mia madre, mio fratello,i nostri collaboratori. E adeguiamo l’ospitalità ai sugge-rimenti e alle esigenze che emergono.

Questo atteggiamento empatico crea un’atmosferacordiale che rilassa l’ospite. L’ambiente è di classe masenza l’austerità che un luogo raffinato comporta. Il per-sonale del Ricevimento indossa la giacca di sera, quandolo richiedono le luci soffuse e la musica di sottofondo neisaloni, ma non di giorno, quando le ampie vetrate inon-dano di luce naturale la hall e gli ospiti si sentono a pro-prio agio sui divani come nel salone di casa. Le tovagliesono allegre, i toni professionali ma amichevoli, la di-sponibilità ad aderire ai desideri degli ospiti totale.

L’unica vera regola è che non si rincorrono regole. Nes-suna tecnica ardita di marketing o strategie di vendita,nessun rigido schema imprenditoriale, pur essendoun’azienda considerevole, con un organico che supera ilcentinaio di dipendenti e un rapporto di personale adospite di due a uno. Nient’altro che semplicità unita al-l’incanto dei luoghi. Così da far dire a Luciano De Cre-scenzo: «Il San Pietro di Positano? Più o meno il paradisome lo immagino così».

L’autore è proprietario del San Pietro di Positano

VITO CINQUE

Vito

Cinque

Mario Vargas Llosa

da LA FESTA DEL CAPRONE

Madrid 2000

LA MEMORIA

Allora, l’Hotel Jaragua guardavail Malecón... Li avevano sistematia un tavolo vicino alla finestrae Uranita poteva vedere l’ampiogiardino e la piscina...

‘‘Marcel Proust

da LA STRADA DI SWANN

Parigi 1919

L’IMMAGINE

Tra le camere di cui più spesso rievocol’immagine…quelle del Grand Hotel dela Plage, a Balbec, i cui muri riverniciaticontenevano, come le pareti levigated’una piscina…, un’aria pura, azzurrina

‘‘

Page 20: senza smog Vivere - la Repubblica

l’incontroDonne e potere

CINZIA SASSO

L’HELSINKI

annuncio è il tic-tic di un paio discarpette col tac-co, qui, dove le

strade sono sempre coperte di neve edove oggi il termometro, mite, a mez-zogiorno segna meno sei. Il passo èleggero ma non perché Sari Baldauf,cinquant’anni il prossimo dieci diagosto, da un paio di settimane è unadonna libera: era leggero anche prima,quando era la signora della Nokia, ilcolosso europeo delle telecomunica-zioni, membro del board di un’azien-da da 55mila dipendenti, il vice presi-dente esecutivo e general managerdelle reti, le infrastrutture sulle qualicorrono da un capo all’altro del mon-do le informazioni. Ora, la signora cheil Financial Times ha eletto come ladonna più influente del business eu-ropeo e che era orgogliosa di esserlo,quella che alcuni nella comunità degliaffari si aspettavano di vedere prende-re il posto di Jorma Ollila, il Ceo concontratto in scadenza, non è più nes-suno. È tornata ad essere solo quellocui tiene davvero: Sari, una persona,non più un ruolo; un nome sempliceda rintracciare alla B sull’elenco del te-lefono, non l’unico nome femminilenel consiglio di amministrazione del-l’azienda; una che passa il tempo a leg-gere, andare in palestra, sciare con i ni-poti, non l’infaticabile business wo-man che salta su e giù dagli aerei a fir-mare contratti da una parte all’altra diquesto inquieto mondo.

Stringe la mano con il massimo ca-lore possibile per un finlandese, sorri-de solo con gli occhi, occhi azzurrissi-mi e un poco taglienti; sfila la pellicciadi visone a cappa, con il cappuccio, si-stema la sciarpa di un rosso vermiglio

proprio come il rossetto e si scusa: «Houna fame terribile, devo chiedere unsandwich». Ha capelli neri cortissimi,è piccolina minuta e piuttosto elegan-te per una tarda mattina: pantaloni egiacca nera, scarpe, appunto, col tac-co. Questo non è più il suo posto di la-voro; non ama, ma capisce, la curiositàsulla sua scelta e dunque eccola dinuovo, per una breve parentesi, inquella che per vent’anni è stata la suasala riunioni — divani bianchi, tavolodi cristallo, un tappeto di piccole or-chidee bianche, dalle vetrate il golfo diFinlandia ghiacciato con i traghettiche sembrano di cartone, sospesi —disposta a rispondere “alla” doman-da: perché mai una persona nel pienodella carriera, destinata a mete ancorapiù alte, potente, uno stipendio da ol-tre 900mila euro l’anno, influente, inbuona salute, giovane ancora, amatadai suoi azionisti, decide di lasciaretutto? Forse perché, dopo vent’anni dilavoro, è sopraffatta dalla stanchezza?

Sari, stavolta, sorride davvero: «Ono, non sono affatto stanca. Ho dor-mito abbastanza in questi dieci gior-ni». Poi torna seria: «Quando fai qual-cosa di molto interessante, che tiprende tanto, è davvero difficile capi-re quando fermarsi. Quando ho co-minciato, ventuno anni fa, a lavorarein Nokia, pensavo di restarci tre anni epoi di mettermi a fare ricerca. Inveceho scoperto che era molto più bello fa-re le cose nella pratica che studiarlenella teoria. Ma essere in cima e avereil potere non è mai stato il mio obietti-vo: mi ha sempre mosso il gusto di farfunzionare le cose. E così mi sono ri-trovata in un meccanismo che andavaveloce, sempre più veloce. Lavoravodalle dodici alle quattordici ore al gior-no, e quando viaggi molto le ore sonomolte di più: finisci le riunioni, la cenad’affari, vai in albergo e ti colleghi coltuo pc per leggere la posta che nel frat-tempo hai ricevuto in Finlandia.Quando sei in un ruolo globale, senzaconfini, quando oggi sei in Cina e do-mani a Parigi, stai in servizio venti-quattro ore al giorno per sette giorni susette. Non ho rimpianti, è stato entu-siasmante. Ma arriva un momento incui invece vuoi molto più tempo per ituoi interessi personali, per te. Io amole cose semplici — andare a funghi neiboschi per esempio — e nell’utilizzodel tempo ci sono dei limiti».

Hanno scritto che Sari si darà animae corpo all’International Youth Foun-dation, che si occupa del futuro deigiovani, di preparare, per i ragazzi, unfuturo. Ma è vero solo in parte: già dacinque anni è nel direttivo dell’asso-ciazione e Nokia con loro ha lanciatoun progetto per consentire alle comu-nità più periferiche di connettersi conil resto del mondo. Non è come la Ire-ne del Cuore Sacro di Ozpetek, non halasciato perché ha scoperto il volonta-riato. I bisogni degli altri, Sari, li cono-sceva da tempo. In uno dei suoi ultimi

piena dalla mattina alla sera, e questo èun pericolo, perché sono una personache tende a farsi tirare dentro alle cose;non vorrei sentirmi ancora rimprove-rare da mia madre, che si lamenta per-ché sono sempre in volo». La decisionedi oggi, dice, era già presa da tempo «bi-sogna fare delle pianificazioni, perchésennò la vita fa i suoi piani che si ante-pongono ai tuoi e ti tiene dentro». Treanni fa lo aveva comunicato al suo pre-sidente, e dieci anni fa aveva fatto unprimo passo, «una mossa legata logica-mente a quello che ho deciso adesso»:sei mesi di aspettativa per andare suglisci e per studiare la storia dell’Europa ela cultura dell’Asia. «Davvero, non èstanchezza. Io voglio lavorare ancora enon sarei capace di non farlo. Ma ci sa-ranno altri modi. Ho sempre pensatoche non voglio perdere la mia identità,che non voglio confondere la mia per-sona con il ruolo che esercito. Io voglioessere me stessa. Nokia è un ottimo po-sto dove lavorare, c’è molto rispetto,ma io dovevo ritrovarmi». Continua adalzarsi tra le sei e del sette del mattinoperché «è bello avere una lunga giorna-ta davanti»; gioca a tennis, va in monta-gna, nella sua bellissima villa sulla co-sta meridionale della Finlandia; verràpresto in Italia «a Siena, la Toscana è co-sì dolce», a studiare una delle poche lin-gue che non conosce, l’italiano. E ora,finito il sandwich di pane nero, ha unpo’ fretta: deve andare in palestra.

L’americana Gail Sheehy direbbeche, entrata «nella seconda età adulta»,quella della maturità piena che però og-gi è ancora giovinezza, ha raggiunto «lapadronanza»: il momento in cui unapersona prende in mano le redini dellapropria vita, libera finalmente dai con-dizionamenti. «Per una donna — diceSari — è più semplice scegliere se lavo-rare o stare a casa. Gli uomini sono me-no liberi, devono subire una pressionesociale più forte. Se un uomo avessepreso la mia decisione, se ne parlereb-be di più, e forse non avrebbe avuto lamia stessa libertà di farlo». Ma è l’unicadifferenza di genere che concede:«Quando lavori sei te stesso. Non credoche esista un modo femminile o unomaschile di esercitare il potere. È unostereotipo, un’opinione datata, vec-chia, superata: io non mi sono mai sen-tita di dover essere come un uomo, ného mai percepito che questo fosse ciòche gli altri si aspettavano da me. Le dif-ferenze sono solo culturali, e personali.Forse per le donne è solo più facile esse-re aperte alle emozioni, attente ai biso-gni degli altri, capaci di ascoltare. Forsehanno soprattutto dei vantaggi». Diffe-renze sfumate, certo, in un Paese nordi-co: in Finlandia le donne hanno avuto ildiritto di voto nel 1906, quarant’anniprima che in Italia. Il presidente dellaRepubblica è una donna e così la metàdei ministri al governo; al Parlamento ledonne deputato sono 75 e 125 gli uomi-ni; se in Italia le laureate sono il 10 percento, in Finlandia sono il 36.

discorsi da “lady Nokia”, imbarazzataper essere chiamata a parlare comesuper donna, si è quasi scusata dellasua condizione di privilegio: «La no-stra educazione, il diritto che ci è rico-nosciuto di occuparci di noi stessi, lapossibilità di avere un lavoro, ci ren-dono molto diversi da altre personeche pure sono come noi; rendono di-versa me da altre donne come base dipartenza e dunque, è ovvio, anche co-me meta di arrivo. Metà della popola-zione mondiale vive con meno di duedollari al giorno; metà della popola-zione ha meno di 25 anni e l’85 per cen-to dei giovani vive in un Paese povero;il 40 per cento dei disoccupati sono ra-gazzi». A loro Sari Baldauf ha pensatoanche nei suoi anni ai vertici.

Dunque: «Adesso, per sei mesi, nonfarò nulla. Ho deciso di prendermi unperiodo di stacco, e poi di vedere. Nonvorrei ritrovarmi di nuovo con l’agenda

Sari Baldauf non ama parlare di sestessa. «La mia è una famiglia ordina-ria, non c’è niente da raccontare». Ènata in un paesino al confine con laRussia ma a tre anni si è trasferita sullacosta meridionale, a Kotka. Suo padreera un uomo d’affari, lei la maggiore diquattro fratelli; voleva diventare unmedico, poi, però, influenzata da quelche aveva sempre respirato in fami-glia, si è iscritta a economia. La laurea,il matrimonio, il primo lavoro comemarketing manager ad Abu Dhabi, do-ve aveva seguito il marito. Più tardi undottorato onorario alla Helsinki Uni-versity of Tecnology. Nel 1983 l’incon-tro con Nokia. E da allora un successosempre crescente. Ma anche un di-stacco crescente: «Il successo non èqualcosa di garantito, che raggiungiuna volta per tutte. Lo devi guadagna-re giorno per giorno. E se ti lasci tra-sportare puoi finire nell’arroganza onell’autocompiacimento: non ascoltipiù, o diventi pigro. E comunque il suc-cesso non è mai di una persona, è di ungruppo. Non esiste l’uomo di successo,il mago del business; esiste un buonteam, allenato a rendere al massimo,ognuno con il proprio potenziale».Non per forza “cosa buona”: «Il suc-cesso è pericoloso per i singoli, ma an-che per i Paesi, le società. E bisogna sta-re attenti perché è sempre relativo».

E il denaro? «C’è chi ne ha molto epensa di non averne mai abbastanza. Isoldi sono un privilegio perché ti dan-no la libertà di scelta: se non devipreoccuparti delle cose di tutti i gior-ni, puoi davvero pensare a cosa è me-glio per te». E così a 49 anni, dopo averpassato in azienda gli anni d’oro deitrionfi e delle stock option, lady Nokiaha deciso di approfittare del suo vero,concreto privilegio. Ha scritto una let-tera, «Caro presidente, vi lascio», e si èripresa la vita. Come dice un vecchioproverbio cinese: «Anche il viaggio piùlungo inizia con il primo passo».

Il successonon lo raggiungiuna volta per tutte,te lo devi guadagnareogni giorno. E seti lasci trasportarefinisci per diventarearrogante:non ascolti più,diventi pigro

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‘‘A 49 anni, con uno stipendio da900mila euro e un ruolo chiave nelcolosso europeo dei telefonini, hascritto una lettera:“Caro presidente,vi lascio”. Esi è ripresa la vita

Adesso Sari Baldaufci raccontale sue nuove giornate,ci descrive l’impegnosociale a favore deigiovani dei paesi poveri,e ci rivela il motivodel suo gesto: “Amo

le cose semplici, andare a funghinei boschi, per esempio. E nell’utilizzodel tempo ci sono dei limiti”

Lady Nokia

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 FEBBRAIO 2005