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SCIENZE E RICERCHE • N° 1 • NOVEMBRE 2014 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI 11 Senza estetica non c’è etica. Per un’analisi dei tempi moderni ANGELO ARIEMMA Centro di documentazione europea Altiero Spinelli, c/o Università degli Studi di Roma La Sapienza Mi propongo di analizzare le nuove modalità di conoscenza e di pensiero che il mondo contemporaneo ha svilup- pato. Parlo a ragion veduta di “contem- poraneo” e non di “moderno”, perché credo che la parabola del “moderno”, iniziatasi con la rivoluzione scientifica del 1600, si chiuda con la caduta del Muro di Berlino. Allora si parlò di fine della Storia, ma la Storia ci ha dimo- strato, con tutta la sua crudezza, di non essere affatto finita. Però è finita la sto- ria del “moderno”, se per “moderno” intendiamo il pensiero verticale, che scava nel profondo, e riflette se stesso e la realtà circostante; se intendiamo il valore della conoscenza del passato; se intendiamo l’approccio estetico che ha impregnato la società europea, dal vol- go analfabeta ai colti e ai potenti. FILOSOFIA I l pensiero debole e il postmo- derno hanno voluto leggere il nichilismo di Nietzsche e il conservatorismo di Heidegger come rivoluzionari, portatori di valori nuovi e libertari, perché hanno preteso liberarsi della realtà fattuale, in nome delle interpretazioni soggettive; però questa libertà interpretativa ci ha portato al populismo mediatico, al rea- lity, al talk show, dove ognuno può dire tutto e il contrario di tutto, eludendo qualsiasi dimostrazione veramente co- noscitiva. Come sostiene il filosofo Maurizio Ferraris 1 si è voluto negare l’esistenza di una realtà oggettiva al di fuori delle nostre percezioni, identificando così es- sere e sapere: esiste solamente ciò che sappiamo. Invece la realtà fuori di noi esiste, non appartiene solo ai concetti e al linguaggio, e dobbiamo considerarla nel nostro valutare e agire; facendo an- 1 Maurizio Ferraris, Manifesto del nuovo realis- mo, Roma-Bari, Laterza, 2012.

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SCIENZE E RICERCHE • N° 1 • NOVEMBRE 2014 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI

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Senza estetica non c’è etica. Per un’analisi dei tempi moderni ANGELO ARIEMMACentro di documentazione europea Altiero Spinelli, c/o Università degli Studi di Roma La Sapienza

Mi propongo di analizzare le nuove modalità di conoscenza e di pensiero che il mondo contemporaneo ha svilup-pato. Parlo a ragion veduta di “contem-poraneo” e non di “moderno”, perché credo che la parabola del “moderno”, iniziatasi con la rivoluzione scientifica del 1600, si chiuda con la caduta del Muro di Berlino. Allora si parlò di fine della Storia, ma la Storia ci ha dimo-strato, con tutta la sua crudezza, di non essere affatto finita. Però è finita la sto-ria del “moderno”, se per “moderno” intendiamo il pensiero verticale, che scava nel profondo, e riflette se stesso e la realtà circostante; se intendiamo il

valore della conoscenza del passato; se intendiamo l’approccio estetico che ha impregnato la società europea, dal vol-go analfabeta ai colti e ai potenti.

FILOSOFIA

Il pensiero debole e il postmo-derno hanno voluto leggere il nichilismo di Nietzsche e il conservatorismo di Heidegger come rivoluzionari, portatori

di valori nuovi e libertari, perché hanno preteso liberarsi della realtà fattuale, in nome delle interpretazioni soggettive; però questa libertà interpretativa ci ha

portato al populismo mediatico, al rea-lity, al talk show, dove ognuno può dire tutto e il contrario di tutto, eludendo qualsiasi dimostrazione veramente co-noscitiva.

Come sostiene il filosofo Maurizio Ferraris1 si è voluto negare l’esistenza di una realtà oggettiva al di fuori delle nostre percezioni, identificando così es-sere e sapere: esiste solamente ciò che sappiamo. Invece la realtà fuori di noi esiste, non appartiene solo ai concetti e al linguaggio, e dobbiamo considerarla nel nostro valutare e agire; facendo an-

1 Maurizio Ferraris, Manifesto del nuovo realis-mo, Roma-Bari, Laterza, 2012.

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2+2=4, allora non possiamo più ascoltare il ministro uscente che ci dice che i conti sono in ordine e il ministro entrante che invece parla di buco nel bilancio, lasciandoci in balia di verità che nessuno controlla e adusi al consenso verso chi ‘parla meglio’.

Del resto, anche i maggiori fautori di questo pensiero de-costruzionista, Lyotard Derrida Foucault, che voleva essere liberatorio, alla fine hanno visto l’abisso in cui si era gettato il post-moderno, e sono tornati all’Illuminismo, alla verità socratica contro il mito nietzchiano, al sapere aude kantia-no, perché solamente chi avrà ansia di conoscenza potrà dire “quel re è nudo”. L’emancipazione, da cui era partito il pen-siero post-moderno, ci ha condotto a un mondo indistinto, dove, in mancanza di una realtà conoscibile, prevale qual-siasi fascinosa mitologia. “Dire addio alla verità è non solo un dono senza controdono che si fa al ‘Potere’, ma soprat-tutto la revoca della sola chance di emancipazione che sia data all’umanità, il realismo, contro l’illusione e il sortilegio. Ecco l’importanza del sapere: (...), il non volersi rassegnare a essere minorenni (indipendentemente dall’età anagrafica), per quanto, come scriveva ancora Kant, sia tanto comodo essere minorenni”5.

TELEVISIONE

“La televisione ha avuto un ruolo centrale nel plasmare la coscienza politica delle persone e per formare la nostra opi-nione pubblica. Non tanto per i contenuti (...) quanto perché un concetto di maggioranza come democrazia, maggioran-za come verità, maggioranza come bene sociale, ha preso il sopravvento su quei concetti illuministici e moderni, che vedevano nella tutela dei diritti delle minoranze la vera mis-sione della democrazia, nella divisione dei poteri la garanzia essenziale contro il totalitarismo, nella ricerca della verità, anche in contrapposizione all’opinione più diffusa, una ne-cessità e un dovere”6.

Il libro di Feccero ci permette di tornare, da un’altra pro-spettiva, al discorso che contrappone il moderno, come quel-la visione razionale e illuminista che nel pensiero ricercante la verità trova la sua ragion d’essere, e il postmoderno, il quale ha preteso di spazzare via questi concetti, accusati di essere borghesi e repressivi, in favore di una supposta libertà del pensiero laterale, che invece ci ha portato a non saper più distinguere i dati dalle opinioni, e a dover dare ragione a co-lui che sa alzare la voce più forte, “e attribuiamo al concetto di maggioranza e non di verità, un valore essenziale”7.

La televisione pedagogica della RAI pubblica con un solo canale, che ha cercato finalmente di unificare il paese, nella sua lingua, insegnata, attraverso il video, ai tanti rimasti an-cora analfabeti; nella sua cultura, con gli sceneggiati tratti dai grandi romanzi italiani ed europei, e il teatro di Pirandel-lo e di Eduardo, e il melodramma, allestito appositamente

5 Ivi, p. 112.6 Carlo Freccero, Televisione, Torino, Bollati Boringhieri, 2013, p. 11-12. 7 Ivi, p. 14.

che la debita distinzione tra positivismo, che delega tutto al sapere scientifico, e realismo, come quella filosofia che pos-sa dare risposte inglobando anche i saperi non propriamente scientifici: arte, storia, diritto, economia, ecc.

In questo senso viene meno il postulato del postmoderni-smo secondo cui accertare una realtà equivale ad accettarla così com’è. Niente di tutto questo, che ci ha deviato nel senso di o accettare supinamente i dati o di cercare la libertà nel pensiero avulso dai dati. “Il realismo, per come lo propongo, è una dottrina critica in due sensi. Nel senso kantiano del giu-dicare cosa è reale e che cosa non lo è, e in quello marxiano del trasformare ciò che non è giusto (...). Così, l’argomento decisivo per il realismo non è teoretico bensì morale, perché non è possibile immaginare un comportamento morale in un mondo senza fatti e senza oggetti”2 .

Dunque, stabilita l’esistenza di una realtà oggettiva fuori di noi e indipendente da noi, occorre ora distinguervi gli oggetti sociali, come quegli oggetti che, reali fuori di noi, sono però da noi emendabili, trasformabili, attraverso il nostro agire etico.

“Se l’Illuminismo collegava il sapere all’emancipazione, nel post-moderno è prevalsa la visione nietzschiana secondo cui il sapere è uno strumento di dominio e una manifesta-zione della volontà di potenza. A questo punto il solo sapere critico è una forma di contropotere che si impegna a dubitare sistematicamente del sapere, esercitando per l’appunto una decostruzione senza una ricostruzione”3. Così, il semplice sapere è stato additato come fattore di dominio e di violenza, e si è perso il vero senso della critica a chi usa violenza: “La giusta risposta a chi manifestasse il desiderio di compiere una strage in nome della verità non sarebbe attaccare la veri-tà additandone i pericoli sociali, ma, semmai, osservare che certezze non suffragate dai fatti possono sortire esiti disa-strosi, il che non è per nulla un argomento contro la verità, ma, proprio al contrario, il più forte argomento a favore della verità e della realtà”4.

POLITICA

Qui ci misuriamo con quanto male questo pensiero di decostruzione della realtà abbia fatto proprio nella lettu-ra socio-politica di questi anni. Si è costruita una ‘fabbrica del consenso’ basata sulla semplice adesione a un dire che non avesse nessuna base di verità, di oggettiva dimostrazio-ne della realtà. Questo è stato il populismo mediatico di chi agitava lo spettro del comunismo, quando questo era ormai finito. Questo è l’attuale populismo che proclama sue contro verità, senza un briciolo di dimostrazione. Questo è il va-cuo blaterare dei talk show, dove ognuno dice il suo parere, senza che ci siano fatti da mostrare, senza che il giornalista, che dovrebbe rappresentare il controllo dell’opinione pubbli-ca, porti dati di verità; ma, come non possiamo dubitare che

2 Ivi, p. 63.3 Ivi, p. 87.4 Ivi, p. 91.

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so di comprensione, ma di identificazione. Il politico si trova a svolgere un ruolo di star, condiviso con altri figuranti del mondo dello spettacolo”12, e ogni possibilità di autonomia critica si perde tra le urla che caratterizzano i talk show.

La notizia si consuma rapidamente e non viene approfon-dita; sono “reali” solamente le notizie di cui parla la tv, e chi ne detiene i meccanismi determina anche le priorità di quello di cui si discute e di quello che “deve” essere perce-pito come fondamentale; alla verità, al sapere, si sostituisco-no l’opinione e il sondaggio, questi determinano il discorso politico, questi rendono l’uomo politico non più portatore di valori “convincenti”, ma succube a sua volta dell’opinione della maggioranza, a cui tutti si adeguano, una volta che è stata “formata” da chi gestisce la “verità” televisiva; si perde la dimensione storica, e chi perde il passato perde anche il futuro, e si finisce col vivere in questo eterno presente privo di senso. Tutto questo non può non incidere sul modello di democrazia, che si svuota dei suoi valori dialettici; tutto que-sto è stato determinato dalla televisione e da chi ha “saputo” impossessarsene, a dispetto di chi ieri ne ha sottovalutato le potenzialità, e di chi oggi sogna il grande balzo nella rete; ma la rete come tale non esiste: i dibattiti e i modelli della rete sono quelli proposti dall’agenda televisiva.

“Ho sempre pensato che la spinta decisiva a scavalcare il muro e poi ad abbatterlo, fosse costituita per i cittadini dell’Est non tanto dal desiderio di libertà, quanto dall’av-vento della televisione commerciale. Il muro separava fisi-camente e materialmente due modelli di vita. Da un lato il modello comunista in cui erano garantiti i bisogni essenziali, ma non c’era possibilità di accedere al superfluo, dall’altro il liberismo occidentale in cui il minimo non è garantito, ma in cui tutti possono aspirare al massimo dei consumi”13.

1. Provocazione: Il crollo del Muro e dell’Unione sovietica e di regimi che

abbiamo avversato, salutato con entusiasmo come apertura verso libere democrazie, ha di fatto aperto altri mercati, altre possibilità di speculazione finanziaria e di arricchimento sel-vaggio e corrotto.

2. Provocazione: battere così ossessivamente sulla crisi economica, addi-

rittura paragonata alla grande crisi del 1929, sta diventando (esprimo questo dubbio dopo anni di ‘campagne mediatiche’ rivelatisi quanto meno superficiali) il cavallo di Troia per distruggere l’Unione europea, perché un’Europa che diventi una vera forza tra le altre dà fastidio; dà fastidio il suo model-lo, che ha saputo coniugare il mercato con la solidarietà, con il wellfare. In fondo, l’attacco a questo modello parte da lon-tano, dall’epoca della Teacher e di Reagan, che hanno impo-sto l’assoluta libertà del mercato, la deregulation, riportando la teoria economica alla ‘mano invisibile’ di Adam Smith, che da sola “saprebbe” regolare il benessere di ognuno.

12 Ivi, p. 86.13 Ivi, p. 126.

negli studi televisivi, e gli show, che presentavano il meglio di quanto l’arte attoriale e canora producessero. Una dimen-sione che ha sempre distinto la televisione europea da quel-la americana, da subito nata come televisione commerciale. Ora però, e soprattutto in Italia, “l’aspetto più evidente della televisione generalista di oggi è il suo interesse ossessivo per la futilità del quotidiano, l’abbandono totale dell’informazio-ne a favore del gossip: in breve, il suo passaggio dalla dimen-sione pubblica alla dimensione privata”8.

La fase di passaggio è stata rappresentata dall’apertura del mercato televisivo. Sostanziale è la parola mercato: un prodotto culturale è stato commercializzato, ed è divenuto funzionale a quel sistema economico liberista che dagli anni ottanta si è affermato come pensiero unico nel mondo. Illu-soria è stata l’idea che il concetto predominante fosse quello di libertà: alla fine degli anni settanta sono nate le televisioni “libere”, ma subito si è visto che la loro controinformazio-ne non ha fatto altro che dare voce a miriadi di imbonitori di vario genere (il web sta percorrendo lo stesso solco? ai posteri l’ardua sentenza!); finché il grosso della torta è stato fagocitato da chi aveva i mezzi economici e gli appoggi po-litici per appropriarsene, e divenire un grande monopolista, in barba alle sentenze della Corte costituzionale, del mercato concorrenziale, e della libertà.

Il liberismo economico rompe la centralità della produzio-ne e del lavoro, per puntare tutto sui consumi: l’individuo diventa un consumatore, estraneo alle logiche del gruppo-classe, ma pienamente integrato nella maggioranza omolo-gata, dall’alto al basso, dagli stessi identici consumi, che la televisione, e la pubblicità che la condiziona, trasformano in valori. E la tv verità, che prende piede dopo la caduta del muro di Berlino e l’inchiesta mani pulite, piano piano si trasforma nel talk show, nell’inutile vaniloquio di politici e non, che possono dire tutto e il contrario di tutto, senza pre-occuparsi di smentite o contraddittori, comunque vanificati in quell’unica melassa televisiva. “In questo modo l’istanza di rinnovamento espressa dalla maggioranza del paese viene strumentalizzata per conseguire il risultato opposto. Sul mo-dello dell’audience e della maggioranza è costruito anche il populismo politico berlusconiano”9.

Si arriva quindi al reality. La televisione diventa autorefe-renziale: non guarda più al mondo esterno, guarda a se stes-sa, l’unica realtà “vera” è quella che appare in televisione, e l’individuo perde la dimensione dell’essere, la dimensione del limite, e sogna di poter anche lui “apparire” in tv e svol-tare la propria esistenza. L’argomentazione di Freccero ha già trovato anche le sue icastiche rappresentazioni nei film Videocrazy10 e Reality11, che mostrano proprio come il sogno di “apparire” distrugga infine l’esistenza delle persone. Fino alla distruzione del pensiero ‘politico’: ormai “la politica non parla alla ragione, ma all’emotività. Non richiede un proces-

8 Ivi, p. 23.9 Ivi, p. 67.10 Regia di Erik Gandini, 2009.11 Regia di Matteo Garrone, 2012.

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il suo cappello metallico e resta così fulminato! Bond sa che il metallo è un conduttore elettrico, circostanza che eviden-temente il coreano, che confida unicamente sulla sua forza fisica, ignora, e con quel suo scatto di intelligenza (la famosa lampadina di Archimede Pitagorico) dimostra che la cultura può avere la meglio sulla forza bruta. Il Biondo della trilogia del dollaro di Sergio Leone, si batte, è vero, per denaro, ma contro i “cattivi”, e sempre si concede gesti di umanità: salva la donna messicana dalle grinfie di Ramon (Per un pugno di dollari); si allea con il vecchio colonnello che deve vendi-care la giovane sorella (Per qualche dollaro in più); si allea con il rubagalline, nonostante abbia cercato di farlo crepare nel deserto, contro il perfido Sentenza (Il buono, il brutto, il cattivo).

Eroi dello sport: Mazzola, Rivera, Riva, sono stati i simbo-li viventi delle loro squadre: per es. Riva non ha mai lasciato Cagliari, pur avendo offerte molto allettanti da società più blasonate.

Ma oggi? L’ultimo James Bond è un personaggio caduco, corre, suda, perde tutto il suo storico aplomb, e sconfigge i nemici con la loro stessa brutalità. La critica sostiene che è un personaggio più umano, più proletario; in realtà sembra solamente un personaggio che riproietta certa brutalità, quel-la privazione di cultura (un non-valore) che oggi sperimen-tiamo quotidianamente.

Anche i Bastardi senza gloria e Django di Quentin Taran-tino, sono “buoni” non meno crudeli e spietati dei “cattivi”.

Nello sport guardiamo la storia di Armstrong: il grande eroe. Per un decennio ha riempito le cronache con l’imma-gine del giovane eroe che, sconfitta la malattia, ha saputo dominare la scena ciclistica con imprese da record. Tutto cade. L’eroe ha compiuto le sue imprese solamente grazie a dosi massicce di doping. E il caso Pistorius, il giovane atle-ta che correva con delle protesi, improvvisamente spara alla sua donna.

Fatti che lasciano stupefatti, basiti. Fatti che ci inducono a pensare che si è perso il senso del limite. Anche per chi non ha avuto una vita facile, ma ha dovuto lottare contro le av-versità, sembra non bastare la vittoria sul male, ma si vuole di più, si pretende di più e pur di averlo si supera ogni limite.

Tanto più questo meccanismo può colpire chi, per un caso fortunato, si ritrova improvvisamente sulla ribalta, senza veri meriti e senza background culturale. P.es. Taricone, il primo vincitore del Grande fratello: improvvisamente famoso, im-provvisamente riconosciuto, improvvisamente attore senza alcuna preparazione specifica; improvvisamente si schianta su una montagna, nel fare uno di quegli sport estremi tanto di moda; forse perché ha perso il senso del limite, il limite delle sue possibilità, il limite della realtà con cui ci si confronta, quel limite che invece un Messner aveva sempre presente quando preparava e affrontava le sue imprese al limite della sopravvivenza.

Allarghiamo il discorso. come accade che giovani sportivi, i quali hanno già la fortuna di lauti guadagni, siano poi dispo-sti a truccare le partite per guadagnare ancora di più? Ancora

EROI DEL NUOVO MILLENNIO

Parliamo di eroi, come ha fatto anche Umberto Eco14, il quale affronta la questione di come l’immaginario collettivo, che prima si fondava su testi e personaggi letterari (Ulisse, Gulliver, Madame Bovary, Werther), ora si fonda sui per-sonaggi che appaiono in tv. Quando ancora la nostra televi-sione svolgeva un servizio pubblico di formazione e di tra-smissione di valori culturali fondativi della civiltà, le giovani generazioni di allora, ma anche quegli adulti, che, per ragioni storico-sociali, non avevano avuto la possibilità di istruirsi, hanno potuto avvicinarsi a tutto un materiale storico-cultura-le, dal quale altrimenti sarebbero rimasti esclusi. Così tutti, senza distinzione di classe o di reddito, per la prima volta (e purtroppo anche l’ultima), hanno conosciuto le storie della grande letteratura attraverso gli sceneggiati televisivi, si sono avvicinati al teatro di Shakespeare o di Eduardo, hanno preso visione della storia del cinema, dai film muti all’attualità. Ma ora che la televisione è diventata puro intrattenimento, spes-so becero e idiota, chi non si avvicina a tutto questo per sua propria spinta e passione, ne rimane irrimediabilmente fuori. Soprattutto l’immaginario che viene veicolato è che basta az-zeccare la scatola giusta per diventare ricchi, basta apparire in tv per diventare famosi; zittiti i valori del sano lavoro, del-le competenze specifiche, della fatica per arrivare al successo o accontentarsi dei propri limiti; e vediamo queste scorciato-ie dove ci hanno portato. Proprio recentemente mi è capitato di vedere, in una delle tante stazioni d’Italia, un mendicante racimolare i pochi spiccioli faticosamente elemosinati per acquistare cosa? un gratta e vinci! Ci sembra questa la giusta conclusione per un paese che ha voluto perdere la propria capacità propulsiva e si è lasciato abbagliare dal messaggio: arricchitevi tutti, è facile, basta solamente un po’ di fortuna!

Così anche la mitologia dell’eroe appare completamente mutata. Distinguiamo alcuni eroi dell’immaginario collettivo anni ‘60. Primo fra tutti 007, il James Bond di Sean Connery: un personaggio di classe, esperto viveur, che ha cognizioni dei gusti della vita maggiori del suo capo M, che nella sua lotta contro il male non perde mai il senso della misura e dell’humour britannico, che, certo è esperto di lotta e di arti marziali, ma sconfigge giganti più forti di lui con la “scienza” e l’intelligenza. Esempio topico in Goldfinger la lotta dentro il caveau di Fort Knox con il servo coreano armato di una bombetta a lame taglienti. Il coreano è chiaramente più forte, di stazza e di potenza fisica, inoltre ha questa arma micidiale che lancia a tagliare la testa del nostro eroe: una volta taglia un cavo elettrico ad alta tensione, un’altra si incastra nelle barre di ferro del caveau. Ecco, ora la sequenza che propone il regista è di chiara evidenza: Bond è steso a terra, colpito per l’ennesima volta dalla massa del gigante, che tutto bal-danzoso si avvicina sorridente al suo cappello incastrato tra le sbarre di ferro; ma un lampo divampa negli occhi di 007: si slancia sulla gomma del cavo elettrico che manda scintille e lo avvicina alle sbarre nel momento in cui il coreano afferra

14 Selvaggia contro Sciuellen, in “L’Espresso”, 4 ottobre 2012.

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riferimento”16. Questo oggi manca. Punti di riferimento. In-tanto la figura del padre, come garante di un “sapere” di una “forza” di una “etica”, che formano il fanciullo, a cui l’ado-lescente avrà il “dovere” di ribellarsi, facendo suoi altri punti di riferimento, primi fra tutti quelli che ci fornisce la storia e la cultura. In questo eterno presente in cui oggi viviamo i giovani non conoscono più la storia, quindi non apprendo-no più da essa, anzi continuano a ripercorrere gli errori dei padri: schifati da un certo populismo, cadono nelle braccia di un populismo opposto, che altro non è se non il rovescio della stessa medaglia. In un mondo in cui l’essenziale è ap-parire, sempre e comunque, sembrare giovani (anche se si ha il viso deturpato dal botulino), i giovani non possono più appropriarsi di quegli strumenti di misurazione che li aiuti-no a crescere e a “misurarsi” con la realtà. Come abbiamo visto, oggi, perfino gli eroi cadono miseramente “all’apparir del vero”.

NATIVI DIGITALI

Già da diverso tempo si è aperto il dibattito sul significato contingente e allo stesso tempo epocale della cultura digi-tale. Franco Ferrarotti17 analizza con crudezza la situazione dei nativi digitali, non più educati alla cultura della lettura analogica, sequenziale e quindi storicamente determinata; ma invasi e succubi della cultura dell’immagine, immediata, sempre presente, priva di passato e di futuro, perché imme-diatamente fagocitata da nuove immagini, quindi le informa-zioni, pletoriche, non sono filtrate dal sapere ‘riflesso’ dentro di sé, nelle memoria storica, che irrimediabilmente si perde. In questa riflessione nulla si salva, anzi, proprio il web, con la sua straripante ricchezza informativa, viene additato come primo responsabile di questa privazione di concentrazione critica, di memoria, di responsabilità individuale.

Invece Francesco Tissoni18 cerca di capire cosa sia e rap-presenti questo nuovo web, a cui non si risparmiano critiche, perché nella facilità di interfaccia e nella velocità di ricerca, si nasconde la trappola della scarsa pertinenza e della poca at-tendibilità dei risultati. L’analisi si sofferma allora sulle nuo-ve forme di web, che cercano di superare questa primigenia passività. Il web 2.0, che include i vari socialnetwork, i blog, tutto questo mondo in cui ognuno può immettere testi, foto, video ecc., condividendoli con i suoi ‘amici’ e comunque con l’intera rete, si propone di sfruttare l’intelligenza collettiva, senza un controllo editoriale, senza una catalogazione vera e propria, ma con semplici tag apposti dagli utenti; tuttavia il controllo dai contenuti si è spostato alla piattaforma, e la piattaforma è tale da condizionare anche il contenuto.

Una soluzione sembra essere il web semantico (o web 3.0): una infrastruttura pensata per il recupero intelligente delle informazioni, dove i dati vengono messi in relazione fra loro,

16 A. Pascale-L. Rastello, Democrazia: cosa può fare uno scrittore, Tori-no, Codice edizioni, 2011, p.13.17 Franco Ferrarotti, Un popolo di frenetici informatissimi idioti, Chieti, Solfanelli, 2012.18 L’editoria multimediale nel nuovo web, Milano, Unicopli, 2010.

la perdita del senso del limite: bisogna guadagnare sempre di più, bisogna avere sempre di più, bisogna apparire sempre e comunque in forma e vincenti, non importa come!

“In primo luogo, il potere mediatico accentua le differenze nel potere sportivo, laddove la bellezza della competizione sportiva richiederebbe che non ci sia troppo squilibrio di forze in campo. In secondo luogo, c’è un problema di cor-retto funzionamento dell’informazione sportiva. Sarà un caso, ma in Italia le denunce di comportamenti illeciti e di frodi calcistiche (a partire dallo scandalo di Calciopoli) non vengono quasi mai dal giornalismo sportivo. I giornalisti tv sono specializzati per squadra, anziché per attività sportiva, e avendo il potere di influenzare le opinioni dei tifosi, in qualche caso hanno pensato bene di usarlo per convincere gli arbitri a non essere troppo severi con la ‘propria’ squadra di riferimento”15.

Il discorso di Tito Boeri è totalmente trasferibile alla si-tuazione socio-politica: un potere mediatico in mano a un’u-nica persona (il famigerato conflitto d’interessi mai sanato); un’informazione quasi totalmente asservita a quei poteri che la finanziano e la fanno sopravvivere: tutto mischiato in un unico calderone, dove politica, informazione, affari, si ten-gono la mano per convincere il popolo, disinformato e dise-ducato, a seguirli in scelte che sono state a vantaggio solo di pochi “eletti”; mentre l’intera società si è impoverita econo-micamente, culturalmente, moralmente.

Gli altri punti evidenziati da Boeri nel calcio, ma tranquil-lamente traducibili all’intera società, sono: la disattenzione verso i giovani e il ricambio generazionale, come nel calcio le società hanno abbandonato le loro scuole calcio per affi-darsi ai grandi campioni stranieri, che richiamano gli abbo-namenti alla pay-tv, così la scuola e l’università sono stati impoveriti di valori formativi e culturali; ci troviamo così nel paradosso, già in fondo denunciato da Pasolini (che con la sua sensibilità aveva visto più lontano di tutti noi), di una scolarità di massa che rende le persone più “ignoranti” di quanto fossero i nostri genitori quasi analfabeti.

L’eccessiva sperequazione di trattamento economico tra persone che esercitano lo stesso lavoro e tra persone che la-vorano nella stessa azienda: si crea così disagio e inefficienza a tutti i livelli, dagli amministratori, spesso divenuti tali non per propri meriti, e che mai subiscono le conseguenze delle loro scelte, anzi vengono premiati con ricche buonuscite; a tutti gli altri che lavorano in condizioni disagiate e senza pro-spettive di valorizzazione del proprio lavoro.

Gli organi di controllo che dipendono dalle stesse società che dovrebbero controllare: questo tanto più evidente nel set-tore economico, dove le stesse persone siedono nei consigli di amministrazione e nelle istituzioni di controllo.

Tutto si riduce a una mancanza di misura: “la misura è un’arte, e richiede una visione d’insieme a largo spettro. Intanto si misura, sì; ma rispetto a che cosa? Per misura-re si richiede uno strumento e soprattutto è essenziale un

15 Tito Boeri, Parlerò SOLO di calcio, Bologna, Il Mulino, 2012, p. 38-39.

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trovano assolutamente d’accordo, in quanto si rivolgono a quei “migranti” digitali abbagliati e succubi passivi delle nuove tecnologie.

Ma la questione dei veri “nativi digitali” ancora non l’ab-biamo davanti: come affronteremo le problematiche di chi sa maneggiare con disinvoltura questa seconda lingua? Forse non sarà più possibile cercare di riportarli alla nostra mo-dalità di apprendimento, ma dovremo farci carico di saper intercettare la loro, che si muoverà nella rete, tra “connes-sioni neurali” esterne, diffuse, orizzontali. Questa sarà la vera sfida. La peculiarità dell’uomo è sempre stata quella di trasmettere alle generazioni future le conoscenze, i valori, acquisiti nel passato (in questo trovano senso le biblioteche, gli archivi, la storia); come continuare a farlo con chi guar-derà ai padri come meno “sapienti”, perché in possesso di una sola lingua?

1 . CONCLUSIONE: MULTITASKING

Un ragazzo di 12 anni che sul PC fa una ricerca scolasti-ca e nello stesso tempo sul Tablet gioca con un videogioco, quali svantaggi e quali vantaggi potrà avere rispetto al nostro antico modo di apprendimento?

Gli svantaggi mi sono chiari: manca la profondità di qual-siasi genere. La profondità storica: si vive in un eterno pre-sente continuamente mutabile, che mai si deposita in una costruzione consistente. La profondità geografica: si vive il qui e ora e molto poco si conosce del resto del mondo. La profondità interiore: si vive il carpe diem, il piacere qui e ora è giocare con un videogioco, e poiché ho gli strumenti a portata di mano faccio anche la mia ricerca scolastica con internet e software complessi; ma cosa me ne resta?

Più difficile per chi appartiene alla generazione del pen-siero profondo è interpretare i vantaggi di questa nuova mo-dalità di apprendimento. Forse il nostro compito di “padri” dovrebbe essere quello di aiutarli a sviluppare comunque un pensiero capace di analisi, magari non quell’analisi verticale a cui siamo abituati, ma un’analisi orizzontale, che sappia sfruttare le potenzialità del web per crescere una propria conoscenza e coscienza critica, senza perdersi e affogare nell’immenso mare informativo privo di significato.

2. CONCLUSIONE: SENZA ESTETICA NON C’È ETICA

“Cominciavamo a capire che la lettura non era una scam-pagnata in cui si coglievano quasi a caso, or qui or la, i ra-nuncoli o i bianco spini della poesia, annidata tra il letame delle zeppe strutturali, ma si affrontava il testo come cosa intera, animato di vita a diversi livelli. Pareva che anche la nostra cultura lo avesse imparato.

Perché se ne sta dimenticando, perché si sta insegnando ai giovani che per parlare di un testo non occorre un forte arma-mentario teorico, e una frequentazione a ogni livello? Che la lunga e diuturna fatica di un Contini era dannosa (...) mentre l’unico ideale critico ormai celebrato (di nuovo!) è quello di

attraverso metadati, ontologie, mappe mentali, tutto un siste-ma di organizzazione del flusso informativo della rete, che sembra aver trovato un reale sviluppo nella tecnologia dei linked data, in grado di costruire una reale rete di contenuti interconnessi.

Un’altra soluzione la propone Roberto Casati19. Il quale ha ragione nel sostenere che si esagera quando si parla di mu-tazione antropologica, però non possiamo negare che siamo di fronte a un cambiamento socio-culturale, che ci investe tutti, proprio perché questi mezzi sono talmente pervasivi da non poterli ignorare. Però, quando parliamo di “nativi digi-tali” dobbiamo fare riferimento a chi è ancora infante, a chi nasce in questo momento; per gli altri, per gli adolescenti, a cui soprattutto pensiamo quando facciamo questi discorsi, dobbiamo ancora parlare di “migrazione” al digitale, da un mondo ancora dominato dalla televisione e dal libro.

Noi, probabilmente ultima generazione nutritasi di libri e formatasi attraverso il discorso lineare, profondo, restiamo spiazzati di fronte alla nuova modalità reticolare, dove sem-bra non ci sia più bisogno di connessioni interne, profonde, poiché tutte le connessioni sono nella rete, a portata di click. Per capire questo valga l’esempio dei bambini bilingui. Chi impara una seconda lingua da adulto deve sempre resettare la sua “coscienza” per passare da una lingua all’altra, men-tre per i bambini bilingui è naturale e spontaneo fare questo passaggio, in realtà sono in possesso di due lingue-madri: questa non è una mutazione antropologica, ma sicuramente è un radicale cambiamento socio-culturale.

Negli ultimi cento anni la velocità del progresso tecnologi-co è stata tale che anche i nostri genitori hanno dovuto ripara-metrare il loro approccio al mondo che si riempiva di oggetti prima sconosciuti (automobili, televisione, telefono…). Tut-tavia questi oggetti non intaccavano la sfera dell’apprendi-mento, che restava legata alla linearità del discorso argomen-tativo. Anzi, la televisione che abbiamo conosciuto noi ha dato la possibilità di apertura conoscitiva, culturale, anche a chi non aveva avuto la fortuna di poter studiare: emblema di questo è la trasmissione Non è mai troppo tardi, che alfabe-tizzava i tanti analfabeti che, ancora negli anni ’50-’60, erano presenti in Italia. Oggi si parla di analfabetismo di ritorno: adulti che pur essendo andati a scuola, perdono le cognizioni acquisite e la capacità di comprendere discorsi complessi20. Ma questo non attiene alla digitalizzazione, attiene piuttosto a chi da 40 anni subisce una televisione volgare e diseduca-tiva.

La difficoltà odierna è invece proprio quella di trovarsi in una fase di passaggio: in cui i più sono “migranti” digitali, hanno imparato una seconda lingua, ma la usano in alternati-va alla prima, senza reali scambi tra l’una e l’altra; così sia-mo tentati, come propone anche Casati, di trovare degli esca-motage per riportare i nostri adolescenti sulla via maestra del discorso lineare e profondo. E sicuramente, le proposte di Casati di investire la scuola del suo compito primario di educare all’attenzione e all’apprendimento in profondità, ci

19 Contro il colonialismo digitale, Roma-Bari, Laterza, 2013.

Page 7: Senza estetica non c’è etica. Per un’analisi dei tempi moderni · credo che la parabola del “moderno”, iniziatasi con la rivoluzione scientifica del 1600, si chiuda con la

SCIENZE E RICERCHE • N° 1 • NOVEMBRE 2014 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI

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delle 120 giornate24, non deve scoraggiarci oltremodo. Forse non a caso questi due intellettuali, in fondo antitetici nelle loro analisi del presente, concludono la loro umana vicenda nella predizione di una disfatta. Allora mi soccorre la ‘sto-ria’ di un altro intellettuale sempre “sconfitto” nella realtà: Altiero Spinelli25, che però nella sua visione del futuro ha “visto” la giusta strada da percorrere: lavorare incessante-mente, costantemente per la Federazione Europea, anche se non se ne vedrà il risultato, perché la storia umana è come una staffetta: da loro abbiamo raccolto il testimone, e quel testimone, arricchito, rinnovato, vogliamo trasmettere alle future generazioni.

24 Salò o le 120 giornate di Sodoma, 1975.25 Fondamentale la sua autobiografia per potenza narrativa e lucidità di pensiero: Come ho tentato di diventare saggio, Bologna, Il Mulino, 1988

una mente libera che liberamente reagisce alle sollecitazioni occasionali che il testo provvede?

Personalmente vedo in questa tendenza un riflesso di altri settori della comunicazione, l’adeguarsi della critica ai ritmi e alla rata d’investimento di altre attività che si sono dimo-strate di reddito sicuro. Perché la recensione, che obbliga a leggere il libro, se vende di più sulla pagina culturale il com-mento all’intervista rilasciata dall’autore a un altro giornale? Perché mettere in scena l’Amleto per la TV, come faceva la deprecata TV degli anni sessanta, quando si ha una udienza maggiore facendo partecipare, a pari merito, lo scemo del villaggio e lo scemo del consiglio di facoltà allo stesso talk show? E perché dunque leggere un testo per anni se si può ottenere l’estasi del sublime masticando alcune foglie, senza perdere le notti e i giorni a scoprire il sublime della foglia nelle sublimi macchinazioni della fotosintesi clorofilliana?

Perché è questo il messaggio che viene quotidianamente lanciato dagli psicopompi della Nuova Critica Post-Antica: ci ripetono che chi conosce la fotosintesi clorofilliana sarà per tutta la vita insensibile alla bellezza di una foglia, che chi sa qualcosa della circolazione del sangue non saprà più far palpitare d’amore il suo cuore. E questo è falso, e bisognerà dirlo e ridirlo ad alta voce”20.

Sbaglio o siamo tornati alla diatriba tra realismo e postmo-derno? Al contrasto tra una realtà oggettiva e fattuale, e la pura sensazione, la soggettiva ‘immagine’ del mondo, all’ap-parenza liberatoria e ‘democratica’, in verità, nuova forma di assoggettamento ai tanti pifferai magici che da varie tribune ci ammanniscono la loro verità, priva di reali riscontri?

Si giustifica così anche il titolo del nostro saggio: senza estetica non c’è etica: una etica laica, che si fondi sulla real-tà oggettiva, sulla interoperabilità tra soggetti diversi, sulla vera libertà democratica nel rispetto della libertà dell’altro e dei diritti delle minoranze, non può darsi senza la compe-tenza e la capacità estetica dove essa realmente è, competen-za e capacità che accomunavano l’intera Polis greca nelle tragiche rappresentazioni, o l’intera popolazione dei Comuni italiani di fronte alle opere di Raffaello o Michelangelo, o la Londra elisabettiana accalcata nel Globe Theatre per le rappresentazioni shakespeariane, o la Milano dell’Ottocento che applaudiva o fischiava i grandi melodrammi nostrani, o i fumosi cinema romani degli anni sessanta dove le immagini di Fellini o Sordi o Visconti ammaliavano gli spettatori, o quelle stanze condominiali dove il popolo si è appassionato ai grandi sceneggiati e show televisivi.

Che fare? Siamo ancora nel pieno di quella Sfida al labi-rinto21 di cui parlava Italo Calvino, e la sconfitta dell’intellet-tuale che chiude il suo percorso narrativo con le deluse pagi-ne di Palomar22, come la sconfitta di un Pasolini cha abiura la Trilogia della vita23 per chiudere nell’abnorme disumanità

20 Eco, Sulla letteratura, Milano, Bompiani, 2008, p. 185-186.21 Saggio pubblicato in “Menabò”, 1962.22 Torino, Einaudi, 1983.23 Film che caratterizzano la sua produzione degli anni ’70; l’abiura data 1975.