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SENATO DELLA REPUBBLICA – CAMERA DEI DEPUTATI XV Legislatura Commissioni permanenti Affari costituzionali Indagine conoscitiva sul titolo V della parte II della Costituzione Osservazioni dell’Associazione Bancaria Italiana Ottobre 2006

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SENATO DELLA REPUBBLICA – CAMERA DEI DEPUTATI

XV Legislatura

Commissioni permanenti Affari costituzionali

Indagine conoscitiva sul titolo V della parte II della Costituzione

Osservazioni dell’Associazione Bancaria Italiana

Ottobre 2006

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In relazione alle modifiche al titolo V della parte seconda della Costitu-zione apportate dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, vengo-no svolte di seguito talune considerazioni organizzate in due parti. Nella prima parte si esaminano le linee generali della riforma, inquadrandole nella disciplina come completatasi a seguito della c.d. “legge La Loggia” e del successivo decreto legislativo in materia di banche regionali. Nella seconda parte vengono esposti taluni problemi in relazione a speci-fici campi di attività del sistema bancario e finanziario, e in particolare: • all’attività bancaria; • agli interventi in favore delle attività produttive; • al federalismo fiscale; • ai profili giuslavoristici.

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SOMMARIO

1. LINEE GENERALI DELLA RIFORMA

1.1. Premessa 1.2. Potestà legislativa 1.3. Esercizio della potestà legislativa concorrente e potestà regola-

mentare 1.4. Regionalismo differenziato 1.5. Esternalizzazione delle funzioni amministrative 1.6. La determinazione dei “principi fondamentali” 1.7. I principi fondamentali con riferimento alle banche regionali

2. PROBLEMI APPLICATIVI APERTI IN RELAZIONE A SPECIFICI SETTORI DI ATTI-VITÀ DEL SISTEMA BANCARIO E FINANZIARIO 2.1. Attività bancaria 2.2. Interventi in favore delle attività produttive 2.3. Federalismo fiscale 2.3.1. Introduzione 2.3.2. Evoluzione del concetto di “federalismo fiscale” 2.3.3. Il federalismo fiscale nelle “nuova” Costituzione

2.3.4. Il concetto di tributi propri 2.3.5. I recenti interventi del legislatore e le possibili evoluzioni

2.4. Profili giuslavoristici 2.4.1. Formazione professionale 2.4.2. Politiche attive del lavoro e collocamento ordinario 2.4.3. Salute e sicurezza dei lavoratori

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1. LINEE GENERALI DELLA RIFORMA 1.1. Premessa Il passaggio delle competenze dalle Amministrazioni centrali agli enti lo-cali, in particolare alle Regioni, è stato finora perseguito attraverso tre modifiche della Costituzione, nonché attraverso le varie “leggi Bassanini” (leggi nn. 59/1997 e 127/1997) che si sono susseguite dalla seconda metà degli anni novanta. Con legge costituzionale del 22 novembre 1999, n. 1, sono stati modif i-cati gli artt. 121, 122, 123 e 126 in materia di elezione diretta dei presi-denti delle Regioni, di autonomia statutaria delle Regioni a statuto ordi-nario e di altre disposizioni costituzionali. Successivamente, la legge co-stituzionale del 31 gennaio 2001, n. 2, ha modificato gli statuti delle cin-que Regioni ad autonomia speciale di cui all’art. 116 e, rispetto alla for-ma di Governo ed alla legge elettorale, ha previsto l’elezione diretta del Presidente di Regione e introdotto una norma di rango costituzionale per favorire l’equilibrio della rappresentanza degli stessi. L’ultimo passo è stato compiuto con la legge costituzionale del 18 otto-bre 2001, n. 3, recante “Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione”, che: § riconosce, in via costituzionale, il c.d. “federalismo fiscale” (peraltro

già disciplinato da una legge ordinaria del 1990), vale a dire l’autonomia finanziaria dei Comuni, delle Province, delle Città metro-politane e delle Regioni, nonché la possibilità per detti enti di avere risorse autonome e di stabilire ed applicare tributi ed entrate pro-prie;

§ ridistribuisce le attribuzioni legislative tra Stato e Regioni; § affida, in via prevalente, alle Regioni la potestà regolamentare; § affida, in via prevalente, ai Comuni la potestà amministrativa, intro-

ducendo il c.d. “federalismo amministrativo”. È altresì per completezza da segnalare la riforma costituzionale elabora-ta con la legge che non ha superato il referendum confermativo dei mesi scorsi e che quindi non ha prodotto alcun effetto sull’assetto della Costi-tuzione vigente.

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1.2. Potestà legislativa La ridistribuzione tra Stato e Regioni della potestà legislativa e regola-mentare costituisce uno degli aspetti qualificanti della riforma effettuata. Al riguardo, preme tuttavia rilevare che - conformemente a quanto os-servato dalla stessa relazione illustrativa della legge n. 3/2001 - uno dei motivi principali della riforma «è dato dall’esigenza di adeguare l’ambito materiale delle competenze regionali, tanto legislative quanto ammini-strative, alla nuova impostazione che l’ordinamento si è dato a seguito della legge n. 59 del 1997, la quale non solo ha enormemente aumenta-to le competenze regionali, ma ha anche invertito la relazione tra legi-slazione ed amministrazione, precedentemente vigente, ponendo il prin-cipio che l’amministrazione spetta per regola alle Regioni (e ai poteri lo-cali) anche nella materie di competenza legislativa statale, salva espres-sa attribuzione legislativa allo Stato. Questa scelta, così come è stata configurata dalla legislazione ordinaria, è conforme al sistema costitu-zionale vigente; essa necessita tuttavia di un completamento, di una le-gittimazione a livello costituzionale, perché altrimenti resterebbe sogget-ta ad ogni cambiamento di umore che sulle singole materie può emerge-re in sede parlamentare». In tale prospettiva, detta legge riconosce: § alle Regioni la potestà legislativa esclusiva in riferimento a ogni ma-

teria non espressamente riservata allo Stato; § alle Regioni la potestà legislativa concorrente con lo Stato su una se-

rie di materie e, segnatamente: commercio con l’estero; sostegno all’innovazione per i settori produttivi; ricerca scientifica e tecnologi-ca; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di tra-sporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produ-zione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale, enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale;

§ allo Stato la potestà legislativa esclusiva su determinate materie e, segnatamente: moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tu-tela della concorrenza; sistema valutario.

1.3. Esercizio della potestà legislativa concorrente e potestà regolamentare Secondo quanto stabilito dalla legge costituzionale in discorso, nelle ma-terie a legislazione concorrente:

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§ spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determina-zione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato;

§ le Regioni (e le province autonome di Trento e di Bolzano) partecipa-no alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunita-ri e provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi interna-zionali e degli atti dell’Unione europea.

Nelle materie in cui le Regioni esplicano potestà legislativa esclusiva e concorrente, le stesse esercitano una potestà regolamentare in via e-sclusiva. Diversamente, nelle materie in cui la potestà legislativa è di esclusiva pertinenza dello Stato, la potestà regolamentare è affidata allo Stato che può però delegarla alle Regioni medesime. 1.4. Regionalismo differenziato Quella appena evidenziata è la ripartizione, per cosi dire, “standard” dei poteri legislativi e amministrativi tra Stato e Regioni. La nuova formulazione dell’art. 116 Cost. - laddove stabilisce che «ulte-riori forme e condizioni di autonomia, concernenti le materie a legisla-zione concorrente e talune di quelle a legislazione esclusiva dello Stato (giustizia, limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, istru-zione, tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali) possono essere attribuite alle Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali» - introduce il c.d. “Regionali-smo differenziato”. Secondo quanto chiarito dalla stessa relazione parlamentare il “Regiona-lismo differenziato” - introdotto sulla base del modello spagnolo - «attri-buisce alle Regioni la possibilità di negoziare con lo Stato forme e condi-zioni particolari di autonomia che incidono, soprattutto, sul piano ammi-nistrativo e finanziario, ma che possono estendersi al versante legislati-vo». Nella sfera della potestà legislativa l’autonomia differenziata potrà con-sentire il passaggio dalla competenza concorrente alla competenza e-sclusiva di tutte le materie a legislazione concorrente e in alcune riser-vate alla potestà legislativa esclusiva dello Stato (giustizia, limitatame n-te all’organizzazione della giustizia di pace, istruzione, tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali). La relativa decisione è adottata con legge approvata dalle due Camere a maggioranza assoluta dei componenti, previa intesa tra lo Stato e la Re-gione interessata.

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1.5. Esternalizzazione delle funzioni amministrative Il concetto di “federalismo amministrativo” ha introdotto, quindi, un nuovo disegno dei rapporti tra i diversi livelli di governo, che sono ispira-ti ad un principio di derivazione comunitaria: quello di sussidiarietà. Il principio di sussidiarietà, che si colloca nel nostro ordinamento all’interno del processo di integrazione europea, sviluppa la sua portata in due direzioni, una verticale ed una orizzontale, così da assumere un duplice significato: nell’un senso significa che il potere pubblico deve es-sere esercitato dalle autorità più vicine ai cittadini; nell’altro implica che una determinata attività può essere esercitata dal potere pubblico, solo ove non possa essere svolta dai soggetti privati. In questo contesto, il fenomeno dell’esternalizzazione si è rafforzato, trovando sostegno nel principio di sussidiarietà orizzontale. Detto princi-pio permette di realizzare un sistema misto tra pubblico e privato, con-temperando la tendenza che induce il pubblico ad avere come obiettivo l’efficacia ed il privato ad ottimizzare le risorse in una logica di effic ien-za. È in tale legislazione, con l’avvento del “federalismo amministrativo”, come accennato in precedenza, che trova collocazione in modo più o meno ampio l’affermazione del principio di collaborazione tra pubblico e privato, da cui possono farsi discendere le concrete esperienze di affi-damento all’esterno di funzioni e compiti amministrativi. L’esternalizzazione di funzioni amministrative a questo livello gioca un ruolo fondamentale nella definizione dei processi decisionali ed operativi della Regione, sia dal punto di vista della possibilità di far fronte a que-stioni innovative e ancora poco conosciute, sia per meglio definire la mission pubblica imprescindibile delle amministrazioni regionali. Per quanto riguarda questo secondo aspetto, essenziale delle ammini-strazioni regionali, assume rilievo l’affermazione per cui l’affidamento all’esterno di attività istruttorie o complementari della fase decisionale pura, cioè nel momento dell’adozione delle scelte prioritarie regionali, consente all’amministrazione regionale di concentrarsi, sia a livello di ca-rico di lavoro sia di risorse umane e patrimoniali impegnate, nella fase della definizione delle scelte prioritarie. 1.6. La determinazione dei “principi fondamentali” Come si è precisato, la potestà legislativa regionale concorrente deve essere esercitata nell’ambito dei principi fondamentali, determinati con legislazione statale.

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In esecuzione di questa disposizione, la legge 5 giugno 2003, n. 131 (c.d. “legge La Loggia”) ha stabilito alcuni principi. Da un lato ha ribadito che, «nelle materie appartenenti alla legislazione concorrente, le Regioni esercitano la potestà legislativa nell’ambito dei principi fondamentali e-spressamente determinati dallo Stato o, in difetto, quali desumibili dalle leggi statali vigenti» (comma 3); dall’altro, che, «in sede di prima appli-cazione, per orientare l’iniziativa legislativa dello Stato e delle Regioni fino all’entrata in vigore delle leggi con le quali il Parlamento definirà i nuovi principi fondamentali, il Governo è delegato ad adottare, entro tre anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, su proposta del Presidente del consiglio dei ministri e di concerto con i Ministri interessa-ti, uno o più decreti legislativi meramente ricognitivi dei principi fonda-mentali che si traggono dalle leggi vigenti, nelle materie previste dall’art. 117, comma 3, Cost., attenendosi ai principi della esclusività, adeguatezza, chiarezza, proporzionalità ed omogeneità» (comma 4). Si è così prefigurata una individuazione in due fasi dei principi fonda-mentali: quella definitiva, che deve avvenire con leggi dello Stato; quella provvisoria, che deve avvenire attraverso decreti delegati. Questa impostazione è stata oggetto di talune questioni di costituzionali-tà, sollevate da alcune Regioni, soprattutto con riferimento al menziona-to comma 4. In particolare, verrebbe violato l’art. 76 Cost. per l’evidente incongruità di una delega avente ad oggetto proprio quella porzione del-la legislazione (i principi) necessariamente di pertinenza del Parlamento; inoltre, i principi direttivi della delega, in quanto funzionali all’individuazione di detti principi, sarebbero assolutamente impalpabili ed evanescenti, inidonei a orientare l’attività del legislatore delegato. La norma inoltre consentirebbe ampi margini di manovra al Governo (nono-stante il riferimento a un’attività meramente ricognitiva), in virtù dei quali esso potrebbe disegnare, senza osservare di fatto alcun principio di delega prescrittivi, i principi che ritenesse più opportuni per le singole materie. La Corte costituzionale, con decisione n. 280/2004, ha parzialmente ac-colto le argomentazioni delle Regioni, fornendo una lettura “minimale” della delega (peraltro l’unica conforme alla Costituzione), interpretando il comma 4 dell’art. 1 «alla stregua delle formule testuali adottate, del contesto normativo in cui si colloca e delle finalità della stessa legge n. 131, quali risultano dai relativi lavori preparatori». Dunque, quel che il legislatore delegato deve tratteggiare è un mero «quadro ricognitivo di principi già esistenti, utilizzabile transitoriamente fino a quando il nuovo assetto delle competenze legislative regionali (…) andrà a regime (…), un quadro di primo orientamento destinato ad agevolare - contribuendo al superamento di possibili dubbi interpretativi - il legislatore regionale nella fase di predisposizione delle proprie iniziative legislative, senza pe-raltro avere carattere vincolante e senza comunque costituire di per sé un parametro di validità delle leggi regionali».

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I decreti ricognitivi esprimeranno dunque una forza di legge, per così di-re, “depotenziata”, assimilabile a quella propria «dei testi unici di coor-dinamento e la semplificazione di una pluralità di disposizioni vigenti in una determinata materia». 1.7. I principi fondamentali con riferimento alle banche regio-nali In attuazione della delega, è stato emanato il d.lgs. 18 aprile 2006, n. 171, recante “Ricognizione dei principi fondamentali in materia di casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale, enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale”, che ha completato, per il settore bancario, l’ iter normativo della riforma costituzionale, salva ovviamente la determinazione definitiva, per legge, dei principi fonda-mentali. Con questo provvedimento vengono fornite alcune importanti precisa-zioni, utili a risolvere almeno le più rilevanti questioni interpretative po-ste dal testo dell’art. 117 Cost. Viene infatti stabilito: a) che non rientrano nell’ambito del decreto (e dunque in quello della potestà legislativa regionale) la disciplina di vigilanza di cui al tub, nonché quella di cui al tit. IV della legge n. 262/2005 (“legge tutela ri-sparmio”), trattandosi in entrambi i casi di materie attinenti alla moneta, alla tutela del risparmio e dei mercati finanziari e al sistema valutario (art. 2, comma 3); b) che «sono caratteristiche di una banca a carattere regionale l’ubicazione della sede e delle succursali nel territorio di una stessa re-gione, la localizzazione regionale della sua operatività, nonché, ove la banca appartenga a un gruppo bancario, la circostanza che anche le al-tre componenti bancarie del gruppo e la capogruppo presentino caratte-re regionale ai sensi del presente articolo. L’esercizio di una marginale operatività al di fuori del territorio della regione non fa venir meno il ca-rattere regionale della banca» (art. 2, comma 2); c) che «la localizzazione regionale dell’operatività è determinata dalla Banca d’Italia, in conformità ai criteri deliberati dal CICR, che ten-gano conto delle caratteristiche dell’attività della banca e dell’effettivo legame dell’operatività aziendale con il territorio regionale» (art. 2, comma 3); d) che «le Regioni esercitano la potestà legislativa concorrente in materia di banche a carattere regionale nel rispetto della Costituzione, dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, nonché dalle norme e dagli obblighi internazionali e nei limiti dei principi fondamentali indiv i-duati nel presente decreto» (art. 3, comma 1);

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e) che costituiscono principi fondamentali quelli contenuti nell’art. 159 tub (che determina i limiti della competenza legislativa delle Regioni a statuto speciale in materia creditizia) (art. 3, comma 2), sicché la le g-ge regionale può disciplinare (art. 3, comma 3): • l’istituzione di un albo delle banche a carattere regionale; • l’adozione, previo parere vincolante della Banca d’Italia, dei provve-

dimenti relativi all’autorizzazione all’attività bancaria, alle modifiche statutarie, ivi comprese quelle dipendenti da trasformazioni, fusioni e scissioni, nel rispetto delle competenze antitrust stabilite dall’art. 19, comma 12 della legge n. 262/2005, di tutela del risparmio;

• le modalità di verifica dei requisiti di esperienza e onorabilità degli esponenti aziendali.

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2. PROBLEMI APPLICATIVI APERTI IN RELAZIONE A SPECIFICI SETTORI DI ATTIVITÀ

DEL SISTEMA BANCARIO E FINANZIARIO 2.1. Attività bancaria Si è in più sedi ripetuto - e l’ABI non ha mancato di sottolinearlo nel cor-so delle audizioni sul tema - che la dizione utilizzata dall’art. 117, com-ma 3 Cost. (richiamando le “casse di risparmio”, le “casse rurali”, le “a-ziende di credito”, nonché gli “enti di credito fondiario e agrario”) non tiene conto dell’evoluzione dell’ordinamento in materia di legislazione bancaria e utilizza una terminologia ormai desueta e superata alla luce della nozione di banca universale predicata dal tub. Tale rilievo è stato fra l’altro autorevolmente formulato dal Governatore della Banca d’Italia il 12 dicembre 2001 nel corso dell’audizione convocata innanzi alla Commissione Affari costituzionali del Senato nell’ambito dell’“Indagine conoscitiva sugli effetti nell’ordinamento delle revisioni del titolo V della parte II della Costituzione”. Tuttavia, al di là della questione terminologica (che alla prima occasione utile può essere agevolmente risolta), si lamentava la mancanza di indici affidabili attraverso i quali ricostruire la fattispecie “banca regionale” og-getto di disciplina da parte delle Regioni. Questo problema è stato ora risolto dalla formulazione contenuta nel d.lgs. n. 171/2006, la quale, fra l’altro, colma un’altra importante lacuna del testo costituzionale, vale a dire la mancanza di rinvii al fenomeno del gruppo bancario. Pertanto, alla luce delle soddisfacenti integrazioni della norma primaria, le perplessità sollevate dalla norma costituzionale sembrano, sotto l’aspetto considerato, superate. La puntuale individuazione degli ambiti riconosciuti alla competenza legi-slativa concorrente delle Regioni evita situazioni di disomogeneità nella regolamentazione tra intermediari bancari e finanziari operanti nelle di-verse aree regionali. La normativa comunitaria nella materia in discorso è ispirata a delineare principi funzionali alla creazione di un mercato unico europeo (si pensi al principio del mutuo riconoscimento, all’autorizzazione unica, ecc.). Nel settore bancario differenze anche minime di regole sono sufficienti a creare profonde segmentazioni nel mercato.

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Orbene, se questo è il quadro a livello comunitario, occorre evitare che a livello nazionale l’esplicarsi della potestà regionale produca quella seg-mentazione del mercato di riferimento che si vuol evitare in sede euro-pea, sicché appare saggia la scelta operata dal legislatore nazionale. Ta-le scelta ha infatti scongiurato il rischio - che molti commentatori teme-vano alla luce del mero disposto costituzionale - di sovrapposizione di regole (con il connesso moltiplicarsi di costi di adempimento) e di diver-sificazione delle stesse, con conseguente segmentazione del mercato creditizio e finanziario nazionale. È evidente del resto che l’esigenza di regole comuni rappresenta un e-lemento indefettibile, da un lato, come è evidente, per la costruzione di una disciplina unitaria del mercato unico bancario ma, dall’altro, per un armonico ed efficiente inserimento in questo mercato degli intermediari italiani. Un mercato creditizio nazionale frammentato sarebbe d’ostacolo alla competitività degli operatori e pregiudicherebbe proprio quell’unitarietà che a livello comunitario si è costantemente perseguita. 2.2. Interventi in favore delle attività produttive Come accennato in premessa, un passo decisivo verso il decentramento amministrativo era stato compiuto con le c.d. “leggi Bassanini” (legge n. 59 del 1997 e successive), con le quali era stata avviata una modifica radicale nella distribuzione dei poteri tra Stato, Regioni, Province e Co-muni. La prima legge Bassanini del 1997, in particolare, ha attribuito al Gover-no un’ampia delega per il conferimento alle Regioni e agli enti territoriali di tutte le funzioni non espressamente conservate allo Stato. A tale le g-ge ha fatto seguito una serie di decreti legislativi (d.lgs. n. 143/1997, d.lgs. n. 422/1997, d.lgs. n. 469/1997, d.lgs. n. 112/1998), attuati at-traverso oltre 100 decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, che hanno consentito una riorganizzazione nella distribuzione delle funzioni conferite dallo Stato all’interno delle Regioni, trasferendo le correlate ri-sorse economiche, umane e strumentali. In questo quadro, si collocano i DPCM (n. 7) intervenuti per consentire i trasferimenti in materia di incentivi alle imprese; anche tale trasferimen-to è stato adottato sulla base dei criteri concertat ivi sopra descritti. In realtà, ciò che è peculiare per la materia “incentivi alle imprese” è, per così dire, la “funzione” trasferita. In questo caso non si tratta di tra-sferimento di vere e proprie attività amministrative, bensì di “scelte di politica economica”, seppure da realizzare secondo i dettami delle leggi statali che regolano la materia.

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Può ben affermarsi che il trasferimento delle funzioni in materia di incen-tivi alle imprese è quello più fortemente connotabile come trasferimento di tipo “federalistico”, in quanto ha consentito agli enti interessati di compiere delle scelte strategiche riguardanti il proprio territorio, pur pre-figurate nella loro dinamica generale da leggi dello Stato. A tal proposito, si rileva che - proprio con riferimento al tema degli in-centivi alle imprese - è stato applicato pienamente il principio introdotto dal federalismo amministrativo, ossia l’esternalizzazione delle funzioni amministrative, che ha consentito alle Regioni di affidare al sistema bancario la gestione dei più importanti strumenti regionali di incentiva-zione alle imprese. Con particolare riferimento al finanziamento delle funzioni delegate alle Regioni, ed in parte quindi alle banche, in base a quanto previsto dal d.lgs. 28 febbraio 2000, n. 56 (concernente il federalismo fiscale ed e-manato in attuazione della delega contenuta nell’art. 10, comma 1, della legge n. 133 del 1999), le somme relative alle risorse finanziarie indiv i-duate dai decreti di trasferimento, ad esclusione delle risorse una tan-tum, avrebbero costituito oggetto di trasferimento per i successivi due anni, me ntre a partire dal terzo anno sarebbero entrate a far parte del c.d. “federalismo fiscale”, trasformandosi in aliquota di partecipazione alle entrate fiscali. Quando il processo avviato dalla legge n. 59/1997 non era stato ancora portato a compimento, è intervenuta la riforma del titolo V della Costitu-zione, attuata con la menzionata legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001. Secondo le regole disposte dall’art. 7 della su citata legge n. 131/2003 (c.d. “legge La Loggia”), il trasferimento delle risorse alle Regioni dovrà avvenire a costo zero, secondo un meccanismo già collaudato con il de-centramento delle funzioni amministrative intervenuto ai sensi del d.lgs. n. 112/1998, mediante trasferimenti annuali dal bilancio dello Stato e fino all’attuazione del federalismo fiscale previsto dall’art. 119 Cost. Tale ultimo articolo riconosce a ciascuna Regione e a ciascun ente locale ri-sorse autonome costituite da tributi ed entrate proprie e da comparteci-pazioni a tributi erariali. Accanto al principio dell’autonomia finanziaria, si affianca, nella norma costituzionale, quello della coesione, attraverso la revisione di un meccanismo di perequazione rivolto ad assicurare a ciascun ente territoriale risorse atte a compensare la minore capacità fi-scale del territorio. Nell’ottica della piena attuazione del federalismo fiscale, insomma, ven-gono eliminati i trasferimenti statali, mentre il previsto fondo perequati-vo è finalizzato esclusivamente alla perequazione della minore capacità fiscale dei territori e degli enti.

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Dalla illustrazione del meccanismo in sintesi riportata, si ricava la forte dipendenza fra federalismo fiscale e federalismo amministrativo, tenuto conto che nessun sistema fiscale può essere costruito se non in relazio-ne al costo delle funzioni che le Regioni e gli enti locali sono chiamati ad esplicare. Con particolare riferimento al sistema delle “agevolazioni alle imprese”, si rileva che appare necessario rafforzare la strada intrapresa del “fede-ralismo delle scelte” da parte delle Regioni. Ciò dovrà avvenire, tuttavia, secondo precisi indirizzi che prendano corpo in normative statali che ga-rantiscono sul territorio una politica comune. Poco importa se le eroga-zioni saranno attribuite, poi, attingendo a compartecipazioni di imposte statali o mediante tributi propri degli enti territoriali. Quello che qui inte-ressa è che nelle scelte propedeutiche generali che si dovranno determi-nare siano coinvolti tutti i soggetti interessati. In questi anni, si è assistito ad una proliferazione di leggi regionali di co-stituzione di nuovi strumenti di incentivazione e alla poca chiarezza su quelli che devono essere gli ambiti di intervento dello Stato, con il con-seguente rischio di sovrapposizione di competenze. Basti ricordare che ad oggi esistono ben 95 strumenti agevolativi a carattere nazionale, ol-tre alle centinaia di iniziative a carattere regionale, ma il 90% delle ri-chieste da parte delle imprese e il 75% delle agevolazioni concesse si concentra soltanto su 17 di loro. Appare necessario definire chiaramente la distribuzione e l’attribuzione delle competenze normative ed operative delle Regioni e prevedere meccanismi di coordinamento delle rispettive azioni di intervento privile-giando formule che prevedano il ricorso al “cofinanziamento”, nonché definire a livello centrale un centro di coordinamento. Inoltre, non meno importante, in attesa della piena attuazione dell’art. 119 Cost. sul federalismo fiscale, è necessario procedere con il trasferi-mento delle risorse finanziarie dal bilancio dello Stato alle Regioni, fino alla completa attuazione del federalismo fiscale, al fine di consentire loro di esercitare autonomamente le funzioni loro conferite e dare modo alle banche di operare attraverso l’erogazione degli incentivi regionali da loro gestiti, al fine di consentire al tessuto imprenditoriale locale di beneficia-rie dell’aiuto pubblico nello sviluppo degli investimenti produttivi.

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2.3. Federalismo fiscale 2.3.1. Introduzione – «L’esperienza ormai secolare di una tormentosa e pressoché continua serie di tentativi, progetti parziali, riforme ed espe-rimenti, sta a dimostrare che in realtà un soddisfacente assetto della fi-nanza locale non può raggiungersi per via di semplici espedienti di tecni-ca tributaria» e occorre affermare «il diritto di tutti i cittadini ad ottenere a parità di aggravio tributario in tutto il territorio dello Stato quanto me-no i pubblici servizi obbligatoriamente rimessi alle amministrazioni locali e che corrispondono ad uno standard minimo indispensabile alla vita ci-vile col corrispondente obbligo dello Stato di perequare il fabbisogno fi-nanziario locale, secondo le norme dettate dalla legge, perché le relative spese possano essere fronteggiate a parità di aliquote»; la citazione di apertura, che, di certo, sorprende per attualità e coerenza, non è lo stralcio di un quotidiano fresco di stampa o di qualche recente pro-gramma elettorale, bensì parte della Relazione alla Sottocommissione per la Finanza, redatta in sede di lavori preparatori della nostra Costitu-zione repubblicana. Parole scritte 60 anni fa che, tuttavia, attestano - con semplicità e immediatezza - come il problema di un sistema tributa-rio inefficiente e la parallela esigenza di rilanciare, sul fronte delle entra-te, le autonomie locali - superando deresponsabilizzazione e sprechi - abbiano sempre accompagnato la storia del nostro Paese. Il tema del federalismo fiscale che si impone oggi, con rilievo e urgenza, al centro dei nostri dibattiti, non è dunque un tema nuovo, anche se le istanze politiche e gli studi degli ultimi anni, hanno contribuito a precisa-re meglio il concetto e a definirne significato e valenza. Recenti studi e riforme hanno, invero, contribuito a delineare un primo nucleo di federa-lismo fiscale, tuttavia ancora abbastanza asistemico e carente di un pro-getto c ompiuto, di una visione organica e coerente. Le istanze federaliste, in generale, sono la voce di sollecitazioni “periferi-che” e di quelle esigenze di rilettura del rapporto periferia/centro, volte ad evitare che una rigida centralizzazione dei processi decisionali, delle funzioni e dei servizi pubblici, metta in secondo piano le reali esigenze delle realtà locali. Nel più ristretto ambito fiscale, l’esigenza, urgente e improcrastinabile, appare quella di una più diretta correlazione tra tributi pagati e servizi resi dagli enti locali territoriali, contestualmente ad un controllo più diretto ed efficace, da parte del cittadino-contribuente, del-le decisioni di spesa e di entrata assunte dagli amministratori. 2.3.2. Evoluzione del concetto di “federalismo fiscale” - Un federalismo fiscale in nuce si sarebbe potuto attuare già sulla base del testo ante ri-forma dell’art. 119 Cost. che statuiva: «Le Regioni hanno autonomia fi-nanziaria nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi della Repubblica, che la coordinano con la finanza dello Stato, delle Province e dei Comuni». Alla

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pronta attuazione di questa disposizione, che si collocava nel solco della rivalutazione delle autonomie locali sancita dagli artt. 5 e 128, Cost., si opponeva, tuttavia, una lettura restrittiva, che evidenziava i limiti legi-slativi al potere normativo delle Regioni, anche in virtù di una lettura ri-gorosa del principio della riserva di legge di cui all'art. 23 del testo cost i-tuzionale; la stessa lettura restrittiva veniva data al criterio della legisla-zione concorrente di cui all’art. 117, Cost. che stabiliva che le Regioni avessero una potestà normativa in una serie di materie, ma «nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, sempreché le norme stesse non siano in contrasto con l’interesse nazionale e con quello di altre Regioni». Tra le materie elencate, non era contemplata esplicitamente la materia fiscale e il potere legislativo regionale era cir-coscritto entro l’ambito di leggi statali “ordinamentali”, invero molto det-tagliate, che nei fatti lasciavano alle Regioni un’autonomia di rango solo regolamentare. La riforma del 1970 non mutò sostanzialmente questo assetto poiché si scelse la strada di un c.d. “regionalismo debole”; l’autonomia finanziaria degli enti substatali divenne, nei fatti, poca cosa1. La successiva riforma fiscale impresse al nostro assetto tributario una svolta fortemente centralista con l’abolizione delle principali imposte di-rette e indirette, improntata ad un concetto di autonomia finanziaria de-clinata solo sul piano della spesa e intesa come libertà di bilancio; la fi-nanza regionale e quella locale finirono per diventare finanze quasi inte-ramente derivate, con un progressivo smantellamento della finanza lo-cale sostituito da una finanza derivata soggetta a pesanti vincoli di de-stinazione. In un siffatto assetto, le Regioni e gli enti substatali si “limi-tavano” a gestire i trasferimenti statali, decisi e contrattati anno per an-no. La scarsa efficienza del sistema fiscale statale sotto il profilo della raccol-ta di gettito, i progressivi dissesti della finanza locale e l’ammontare cre-scente del nostro debito pubblico riportarono in auge, già negli anni ‘80, il tema dell’autonomia tributaria, vista come una possibile soluzione allo stato di crisi della finanza pubblica, cui si accompagnava una rivaluta-zione del principio di responsabilità dei livelli di governo substatali; il no-stro Paese, fortemente articolato, faceva emergere problemi di estrema rilevanza e urgenza, primo tra tutti, un problema di equità in ambiti ter-ritoriali a volte anche molto diversi tra loro, accanto ad un generale pro-blema di efficienza.

1 In particolare, nel 1970, si attribuirono alle Regioni ordinarie quattro tributi: la

tassa di circolazione, la tassa per l’occupazione degli spazi ed aree pubbliche, la tassa sulle concessioni regionali e l’imposta sulle concessioni statali dei beni del demanio e del patri-monio indisponibile: si trattava, tuttavia, di tributi dal gettito evidentemente insufficiente a soddisfare il fabbisogno finanziario regionale, e soprattutto ancora disciplinati da leggi del-lo Stato, per i quali era concessa al legislatore regionale la sola facoltà di determinare le aliquote, entro minimi e massimi prefissati.

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È a partire dagli anni ‘90 che si è registrata, anche sul piano normativo, una decisa inversione di tendenza, attestata, in particolare, da una serie di interventi, a partire dal riconoscimento agli enti locali di una “auto-nomia finanziaria fondata su certezza di risorse proprie e trasferite” e da una potestà impositiva esplicantesi in imposte proprie, addizionali, tasse e diritti per servizi pubblici. Ciò ha determinato, dapprima, una riforma della finanza locale, incentra-ta sull’istituzione dell’Imposta comunale sugli immobili (d.lgs. n. 504/1992), e culminata nelle addizionali alle imposte sul reddito e nell’introduzione dell’Irap, imposta che, istituita con d.lgs. n. 446/1997, secondo la relazione di accompagnamento, avrebbe dovuto realizzare un «significativo decentramento del prelievo dallo Stato alle Regioni ed agli enti locali, dotando questi livelli di governo dell’autonomia finanziaria necessaria per svolgere un’autonoma e responsabile politica di bilancio, presupposto di una evoluzione in senso federale dello Stato». È di questo stesso periodo una norma di grande saggezza, l’art. 54 della legge n. 142 del 1990 che, allorquando prevede che il prelievo fiscale debba comprendere una parte delle spese indispensabili e, soprattutto, le spese necessarie per lo sviluppo della comunità locale, enuclea il sen-so più autentico del federalismo fiscale, che diventa criterio guida per ogni ulteriore passo del legislatore in questa direzione. Strumenti più recenti sono il d.lgs. n. 56 del 2000 che rappresenta la normativa di rango ordinario cui far riferimento in tema di federalismo fiscale “in atto” e la riforma del titolo V della Costituzione attuata nel 2001. Nel 2000 si è disposta, infatti, la soppressione dei trasferimenti erariali, compensati con la compartecipazione regionale all’Iva, l'aumen-to dell'aliquota dell'addizionale regionale dell’Irpef e l’aumento della compartecipazione regionale all’accisa sulle benzine; è stato istituito, i-noltre, un Fondo perequativo nazionale, al fine di consentire che una parte del gettito della compartecipazione all’Iva venga destinata alla realizzazione degli obiettivi di solidarietà interregionale; è stato introdot-to un vincolo di destinazione delle spese sanitarie con procedure di mo-nitoraggio dell'assistenza sanitaria; nello stesso d.lgs. n. 56 è, altresì, prevista la partecipazione delle Regioni a statuto ordinario all'attività di accertamento dei tributi erariali, l’abolizione della compartecipazione dei Comuni e delle Province al gettito Irap. La riforma del titolo V della Costituzione, attuata con legge costituziona-le 18 ottobre 2001, n. 3, ha determinato un mutamento nel rapporto tra Stato, Regioni ed enti locali per quanto concerne sia il potere normativo in materia di tributi, sia, e di conseguenza, il riparto delle risorse finan-ziarie. La legge è stata foriera di cambiamenti ancora in gran parte in fa-se embrionale, o esplicitamente posticipati e tuttora oggetto di riflessio-ni, studi e dibattiti2.

2 Si è parlato, a proposito della riforma del 2001, di un federalismo fiscale ispi-rato al “solidarismo cooperativo”, certamente avulso dai modelli di tipo confederale che interessano la forma stessa dello Stato. Se ne sono rinvenuti aspetti di analogia, anche se non di piena sovrapposizione, con il modello tedesco, nel quale però l’equilibrio tra auto-

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La riforma ha superato, peraltro, due prove referendarie, la prima - di approvazione - nell’ottobre del 2001, la seconda - di indiretta conferma - lo scorso giugno 2006, con la caducazione della delibera legislativa ap-provata dal Parlamento nel novembre 2005. 2.3.3. Il federalismo fiscale nelle “nuova” Costituzione - Il perimetro nel quale ci muoviamo oggi è, dunque, la riforma del 2001, integrata dalle indicazioni della giurisprudenza di questi anni e degli studi, in varie sedi, condotti. Cuore della riforma è il riconoscimento di pari dignità costituzionale a tutti gli enti politici territoriali, divenuti contitolari, nei limiti reciproci stabiliti dalla stessa Costituzione, dei poteri e delle attribuzioni loro con-ferite; la nuova formulazione dell’art. 114, Cost. dispone, infatti, che «la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropoli-tane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Province, le Città metro-politane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e fun-zioni secondo i principi fissati dalla Costituzione. Roma è la capitale del-la Repubblica. La legge dello Stato disciplina il suo ordinamento». Il nuovo art. 117 Cost., si colloca in sostanziale continuità con la prece-dente formulazione costituzionale, in quanto la “legge” resta la forma ti-pica di potestà normativa dello Stato e delle Regioni; per quel che ci in-teressa, in realtà la materia tributaria viene inclusa, nell’ambito di legi-slazione tanto esclusiva, quanto concorrente, laddove, in particolare, in base al comma 2, lett. e) la legislazione è esclusivamente attribuita allo Stato per il sistema tributario e contabile nazionale; mentre nel comma 3, nell’ambito della legislazione concorrente, è incluso, tra le altre mate-rie, il «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario». Si potrebbe pertanto affermare che, nel quadro fin qui delineato, alle leggi dello Stato sia rimessa la disciplina e regolamentazione del sistema tributario nel suo complesso, nonché di numero, tipologie, caratteristi-che dei tributi e dei principi generali in materia di accertamento, conten-zioso, sanzioni; per alcune materie, poi, la legge dello Stato potrebbe la-sciare facoltà alle Regioni, di introdurre o meno un tributo, concedere deduzioni di imponibile, differenziare aliquote o ideare modalità di ri-scossione diverse da quelle ordinarie.

nomia e solidarismo ha raggiunto un grado di maggiore compiutezza, in specie sotto il pro-filo della perequazione e della compartecipazione, sì da compensare, mediante trasferi-menti, le diversità geografiche tra la dotazione di risorse e i bisogni dei cittadini dei vari Länder; si è rigettato il federalismo fiscale “competitivo spinto” di tipo americano, secondo il quale ciascun livello di governo, dallo Stato federale fino al comune, avrebbe il potere di istituire liberamente qualsiasi tipo di tributo su qualsiasi base imponibile, senza dover ri-spettare i limiti posti dalle leggi di grado superiore (in molti casi la leva fiscale conduce al richiamo di operatori economici da uno Stato all’altro grazie alle agevolazioni tributarie in-trodotte con lo scopo di incentivare insediamenti produttivi sul territorio. Si crea, quindi, una vera e propria concorrenza fiscale tra Stati: la cosiddetta fiscal competition).

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Gli enti-sub-regionali o locali in senso stretto, invece, hanno una potestà normativa formalmente regolamentare, individuata dalla possibilità di stabilire ed istituire non meglio precisati «tributi propri», nei limiti della conformità alla Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario generale. Il concetto di «tributi propri» è, nella specie, introdotto dall’art. 119, per identificare entrate tributarie locali, diverse dalle «compartecipazioni al gettito di tributi era-riali»; Comuni, Città metropolitane, Province e Regioni hanno «risorse autonome »; «stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri». Con questa disposizione, l’autonomia finanziaria di spesa si correla, dunque, ad un’ampia autonomia di entrata riconosciuta agli enti territoriali, «in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario» (art. 119, comma 2, Cost.), per quelle imprescindibili esigenze di unitarietà e di equilibrio del siste-ma nel suo complesso. Ma a parte queste “dichiarazioni di principio”, ben poco, finora si è visto in tema di tributi propri; non stupisce, allora, che la Corte Costituzionale con due sentenze del 2004 (nn. 37 e 241) abbia escluso l’attuale esi-stenza di «tributi propri». 2.3.4. Il concetto di tributi propri - La Corte Costituzione ha, infatti, in queste occasioni, chiarito che il sistema finanziario, così come delineato dall’art. 119 della Costituzione, richiede, quale necessario presupposto, un intervento del legislatore statale per fissare i principi di coordinamen-to dell'insieme della finanza pubblica, nonché le linee guida dell'intero sistema tributario, definendo limiti e spazi entro i quali può esplicarsi la potestà impositiva di Stato, Regioni ed enti locali3. Invero, alcune Re-gioni avevano sostenuto una interpretazione in senso estensivo dell’art. 119, ritenendosi legittimate a legiferare intervenendo sulla disciplina di tributi regionali (in particolare, Irap e tassa automobilistica) regolati da leggi statali. Una lettura di tal genere era, tuttavia, già stata univoca-mente respinta dalla Corte Costituzionale, con le sentenze nn. 296, 297 e 311 del 2003. Per ciò che concerne, in particolare, l’Irap - imposta per alcuni aspetti controversa4, - la Corte Costituzionale è intervenuta, disattendendo le

3 La Corte ha, in queste occasioni, lanciato un chiaro monito al legislatore, sulla

necessità di approntare una disciplina transitoria volta a consentire l’ordinato passaggio dall’attuale sistema - caratterizzato dalla permanenza di una finanza regionale e locale an-cora in non piccola parte ‘derivata’, cioè dipendente dal bilancio statale, e da una disciplina statale unitaria di tutti i tributi, con limitate possibilità riconosciute a Regioni ed Enti locali di effettuare autonome scelte, ad un nuovo sistema. L’unica condizione di legittimità dell’intervento statale è costituita, secondo la Corte, dal divieto di procedere in senso in-volutivo e inverso rispetto a quanto prescritto dal nuovo art. 119 della Costituzione, sop-primendo gli spazi di autonomia già riconosciuti dalle leggi statali, o configurando un si-stema finanziario che nel suo complesso sia in contraddizione con l’art. 119.

4 Già “salvata” dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 156 del 2001 (da cui è scaturito un notevole contenzioso, in termini di liti di rimborso), destinata ad essere sop-

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attese di chi riteneva che vi fosse una diretta correlazione tra percezione del gettito e titolarità dell’imposta, al di là del fatto che la medesima fos-se (ancora) disciplinata da una legge statale. In realtà, l’Irap era stata qualificata come “tributo proprio delle Regioni” dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 138 del 1999, ma nel senso in cui la nozione di tributo proprio era presente nella originaria formulazione dell’art. 119 della Co-stituzione, laddove prevedeva che alle Regioni fossero “attribuiti” tributi propri (e quote di tributi erariali) 5; con successive pronunce, invece, i Giudici costituzionali hanno preso atto del mutato quadro normativo e di una diversa e aggiornata nozione di tributo proprio; secondo la sentenza n. 296 del 2003, la disciplina sostanziale dell’Irap, indipendentemente dalla denominazione della stessa, deve farsi rientrare, tuttora, nella competenza statale esclusiva in materia di tributi erariali, riferendosi l’attuale art. 119, comma 2, della Costituzione, ai soli nuovi tributi isti-tuiti dalle Regioni con propria legge e nel rispetto dei principi di coordi-namento con il sistema tributario. Alle Regioni spettano per ora, secondo la Consulta, solo competenze di carattere attuativo6. Per quanto concerne la questione inerente ai tipi di tributi ed entrate che, concretamente, Regioni ed enti locali possono introdurre, è da e-scludere che le Regioni possano procedere in ordine sparso7; si è ritenu-to, innanzitutto, che la finanza regionale e locale non possa comprende-re tributi che abbiano gli stessi presupposti e gli stessi soggetti passivi di

pressa, gradualmente, ai sensi dell’art. 8 della legge delega n. 80 del 2003 e, da ultimo, ritenuta compatibile con l’ordinamento comunitario.

5 In tale ottica, i Giudici avevano escluso la lesione dell’autonomia della Regione Sicilia, titolare sotto questo profilo delle medesime prerogative delle Regioni ordinarie, fondando l’interpretazione del previgente art. 119 della Costituzione su due elementi con-nessi: da un lato, sulla circostanza che la potestà impositiva era conferita alle Regioni dal-le leggi di coordinamento, volte a stabilire forme e limiti dell’autonomia finanziaria e ad attribuire alle Regioni i tributi propri; dall’altro, sul fatto che questa potestà - distinta dalla potestà legislativa di cui al precedente art. 117, comma 1, della Costituzione - non era di tipo concorrente ma di tipo “attuativo”, alla stregua di quanto previsto dall’ultimo comma dello stesso art. 117.

6 Le tre pronunce della Corte Costituzionale del 2003 citate supra parevano aver chiuso la questione in merito alla potestà regionale di intervenire in materia di Irap e di tasse automobilistiche. Sennonché, a distanza di poco tempo, quelle leggi regionali di cui si era acclarata la illegittimità in parte qua sono state sottoposte ad una strana reviviscen-za, o, meglio, il loro contenuto è stato fatto proprio dalla legge finanziaria (statale) per il 2004 (legge 24 dicembre 2003, n. 350 art. 2, comma 22). Di fatto, con ciò il legislatore statale ha “sanato” il vizio delle leggi regionali che avevano disciplinato materie riservate allo Stato, con una soluzione che, pur sostanzialmente corretta sul piano giuridico, ha pre-stato il fianco a rilievi di tipo politico. Siamo dunque, al momento, in una situazione di sta-si, in cui, cioè, le Regioni non dispongono di alcun potere di modificare le norme statali che disciplinano tributi regionali, come se fosse anche vigente il vecchio art. 119.

7 Come è accaduto, provocando il subitaneo intervento del Ministero dell’economia e delle finanze; l’Amministrazione finanziaria ha infatti dato risposta negativa al quesito se i poteri comunali di cui al nuovo testo dell’art. 119, comma 2, della Costituzione permetta-no l’istituzione di un’imposta comunale di soggiorno a titolo di “tributo proprio” (lasciando intendere che, semmai, tale potere potrebbe in futuro essere esercitato a seguito di inte r-vento normativo della Regione). La questione dell’imposta di soggiorno si è ulteriormente aggiornata con il recente intervento del legislatore che, nell’art. 9 del disegno di legge fi-nanziaria per il 2007, ha autorizzato i Comuni ad istituire un contributo di soggiorno per i soggetti non residenti.

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tributi già istituiti dallo Stato; la creazione di tributi regionali e locali sul reddito o sul patrimonio che si risolvano in un duplicato, per struttura e disciplina, di quelli erariali già esistenti, non sarebbe ammessa. 2.3.5. I recenti interventi del legislatore e le possibili evoluzioni - Tuttavia, in questo senso, i più recenti interventi del legislatore, forni-scono nuovi spunti di riflessione e sembrano introdurre innovazioni di ri-lievo in materia; la legge finanziaria per il 2007 sembra (finalmente) de-lineare interventi concreti e definiti sulla via del federalismo fiscale, me-diante l’individuazione di nuove forme di finanziamento degli enti locali, basate su di un diretto collegamento tra “cosa tassata” e “cosa ammini-strata”. In questa direzione si muovono, infatti, le disposizioni dirette ad assicurare ai Comuni maggiore elasticità per il reperimento delle proprie risorse finanziarie, attraverso la istituzione di imposte di scopo per la re-alizzazione di opere pubbliche, ovvero contributi di ingresso e di sog-giorno, con i quali sopperire ad interventi di manutenzione urbana e di valorizzazione dei centri storici. Un intervento di tal genere va sicuramente guardato con favore ed è condivisibile la scelta di una politica tributaria degli enti locali orientata su tributi paracommutativi o tributi di scopo finalizzati, ad esempio, al finanziamento di servizi ed opere pubbliche, o aventi la finalità di pro-muovere particolari attività economiche (come il turismo) in una certa area. Queste misure devono, tuttavia, essere sottoposte al vaglio di compati-bilità con i principi costituzionali e comunitari, nonché accompagnate da una serie di misure di coordinamento. In primo luogo, vanno considerati i sempre più stringenti vincoli comuni-tari. A tal riguardo, va ricordato il caso della Regione Sicilia, regione a statuto speciale, che aveva istituito un tributo regionale - con legge 26 marzo 2002, n. 2, art. 6 - il cui presupposto era costituito dalla presenza di gasdotti sul territorio regionale. Soggetto passivo era il proprietario del gasdotto; la base imponibile era costituita dal volume di metri cubi trasportato del gasdotto e il quantum da una grandezza pecuniaria fissa per metro cubo di gasdotto. Nelle intenzioni del legislatore regionale, si trattava di un tributo di scopo a carattere “ambientale”, in quanto il get-tito era espressamente vincolato al finanziamento di investimenti per la riduzione e la prevenzione del danno ambientale causato dalla presenza delle condotte, e, più in generale, al reperimento di risorse volte alla salvaguardia, alla tutela ed al miglioramento dell’ambiente. Orbene, questo tributo è stato immediatamente sottoposto a “censura”, sia da parte dei Giudici interni, sia in sede comunitaria, per incompatibilità con il diritto comunitario, che vieta di porre restrizioni alla libera circolazione

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delle merci e di adottare una politica commerciale e tariffaria con i Paesi terzi divergente da quella comunitaria 8. Inoltre, tributi siffatti, anche sul fronte del diritto interno, possono pre-starsi a rilievi alla luce dell’art. 120 Cost., il quale statuisce che «la Re-gione non può istituire dazi di importazione o esportazione o transito tra le Regioni, né adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni». Nella fase istitutiva bisognerà, pertanto, assicurare che tributi siffatti non collidano con i principi di libera circolazione, eguaglianza e capacità contributiva, in quanto rivolti prevalentemente a categorie di contribuen-ti e non alla generalità. Per quanto concerne quello che ancora si può fare, ricordiamo che l’Alta Commissione di studio sul federalismo fiscale ha fornito un quadro dei possibili interventi in relazione ai singoli tributi, in linea generale condi-visi dall’Associazione. Ad esempio, si è sottolineato come la tassazione immobiliare potrebbe essere campo ideale di esplicazione della potestà tributaria dei Comuni, in ragione della loro specializzazione urbanistica e del loro “dominio” sul territorio; i fabbricati rappresentano infatti una “naturale” base imponi-bile idonea al finanziamento degli enti locali, che si presta, sul fronte dei servizi resi dall’ente, ad essere presupposto d’imposizione in chiave au-tonomistica9. Per quanto concerne l’Irap, scelta coerente sarebbe, sempre alla luce delle indicazioni della Commissione, che il gettito Irap affluisse allo Sta-to; tuttavia, in una fase transitoria, l’ipotesi più realistica è che una par-te soltanto vada allo Stato, mentre una quota notevole del gettito ri-manga alle Regioni. Inoltre, il potere d’intervenire sull’Irap da parte del-le Regioni potrebbe essere rivisto e coordinato con l’Irpef. L’Irap, una volta divenuta imposta prevalentemente statale, cost ituirebbe un pre-zioso strumento per lo sviluppo della produzione e dell’occupazione; po-trebbero, infatti, essere previsti la deduzione degli investimenti, o altri accorgimenti per stimolare le attività produttive. Per il delicato fronte dei prelievi sui redditi (costituiti essenzialmente da Irpef e Ires) che si situano a fronte di prestazioni di sicurezza sociale e-rogate soprattutto dallo Stato (come pensioni, indennità di malattia e di-soccupazione) e di quelle assistenziali che gravano prevalentemente sul Comune (rette degli ospizi per anziani a basso reddito, degli asili e delle

8 Interessanti spunti sulla posizione assunta recentemente dalla Corte di Giustizia

in tema di finanza locale e regionale si leggono nelle sentenze n. 72/2003 (Caso “Tassa sui marmi”), n. 544/2003 e n. 545/2003 (su cavi e antenne GSM); n. 196/2004 (Caso “Rya-nair”).

9 In questo senso si è peraltro orientata parte della dottrina; tra tutti, TESAURO F., Istituzioni di diritto tributario, parte speciale, Torino, 2003, pag. 308.

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scuole materne per famiglie bisognose; integrazione dei canoni di affitto per chi non è in condizione di corrisponderli), appare ragionevole che buona quota di questi rimanga al livello centrale, cui spetta l’oneroso compito di finanziare il deficit degli enti previdenziali. Tuttavia, accanto a tale quota, pare ragionevole prevedere due sovrim-poste (o eventualmente addizionali): • una a livello regionale, su cui gravano la sanità e (in prospettiva)

l’istruzione, e per compensare le esenzioni e le agevolazioni sui ticket e sulle tariffe;

• una a livello comunale, che, come si è visto, eroga sostanziose pre-stazioni di assistenza.

Su tali sovrimposte (o addizionali) gli enti dovrebbero avere margini di manovrabilità. Nel caso dell’Irpef, la legge generale sul sistema tributa-rio potrebbe quantificare la sovrimposta (o l’addizionale) o quantomeno fissarne l’aliquota massima, per poi precisarla in una norma successiva e stabilire, almeno a grandi linee, in quali termini Comuni e Regioni pos-sano intervenire sul gettito. Sarebbe opportuno che gli Enti, oltre a poter modulare l’aliquota, possano introdurre deduzioni10. L’Ires, invece, rimarrebbe al centro: la collocazione del gettito al livello statale pare in linea con il principio di correlazione; gli incentivi alle atti-vità produttive, gran parte dei quali riguardano le sole società di capitali vengono erogati, infatti, a livello di Governo centrale; inoltre, sullo Stato pesano gli effetti dei deficit derivanti dagli investimenti pubblici in infra-strutture, di cui beneficiano soprattutto le grandi imprese - anche in termini di commesse. Infine, la difficoltà di attribuire a ciascun territorio il corrispondente gettito IRES rende particolarmente sfavorevole il de-centramento di tale tributo. Ad esempio è evidente che gli utili d’impresa hanno una variabilità ciclica molto elevata (e mancano dunque della sta-bilità nel tempo del gettito che tradizionalmente è considerata elemento fondante della fiscalità locale); è inoltre difficile una loro ripartizione ter-ritoriale; il calcolo degli utili prodotti in ciascuna Regione sarebbe ammi-nistrativamente molto complesso per i contribuenti-società, costretti a tenere una contabilità fiscale separata per ciascun ambito regionale, e darebbe luogo a contenziosi in materia di prezzi di trasferimento, come nella tassazione internazionale; utilizzare, poi la residenza del contri-buente sembra controproducente, in quanto genererebbe forti sperequa-zioni nell’attribuzione del gettito e, data la facilità con cui la residenza

10 In questo senso depone ad esempio il sistema spagnolo, che prevede per le Re-

gioni la possibilità di intervenire sull’aliquota e di introdurre deduzioni per circostanze per-sonali e familiari e per investimenti, con piena autonomia nel decidere su quali basi attri-buire le deduzioni, e nel quantificarne i limiti. Conviene precisare che, a differenza di quan-to accade nel contesto iberico, sarebbe invece opportuno mantenere allo Stato il compito di stabilire la progressività dell’imposta; a Regioni e Comuni spetterebbe solo di fissare l’aliquota della sovrimposta o dell’addizionale.

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può essere cambiata, si presterebbe a forme indesiderabili di competi-zione fiscale tra le Regioni e di tax planning da parte dei contribuenti. Qualche dubbio sussiste, tuttavia, da parte dell’Associazione, per quanto concerne l’Iva. L’Iva, essendo un’imposta sui consumi normali, potrebbe essere utilizzata per finanziare i consumi meritori, come i servizi sociali, in primis sanità ed istruzione. Secondo le indicazioni della Commissione, l’Iva potrebbe essere riarticolata mediante: • una compartecipazione regionale, per finanziare i servizi sociali più

gravosi (appunto, sanità ed istruzione, qualora quest’ultima diventi di competenza regionale con la riforma costituzionale all’esame del Parlamento). Potrebbe garantirsi che l’Iva destinata alle Regioni de-rivi effettivamente dal consumo e non dall’intero imponibile assog-gettato all’Iva, stabilendo che il gettito su cui è calcolata la compar-tecipazione giunga dalle sole vendite al consumo; in questo senso, già la finanziaria per il 2004 prevede l’individuazione nella dichiara-zione Iva delle vendite al consumo;

• una compartecipazione comunale, volta a sostenere i servizi sociali erogati dal livello di governo più vicino al cittadino. Tale comparteci-pazione potrebbe avere caratteristiche peculiari, limitandosi alla sola Iva sulle vendite raccolta da alcune attività, come le edicole, i distri-butori di carburante, le rivendite di sali e tabacchi, gli alberghi e i pubblici esercizi. A medio termine, si può pensare anche a dei poteri d’intervento sulle aliquote Iva, per le quali è tuttavia necessario il preventivo assenso dell’Unione europea11.

L’intero assetto ipotizzato per l’Iva suscita, tuttavia, come anticipato, perplessità circa la compatibilità con i principi e l’ordinamento comunita-rio e, in particolare, con la VI direttiva. Lo sviluppo del federalismo richiede lo smantellamento delle discrimina-zioni settoriali: tal che se il territorio richiede aumenti di imposte, essi vadano ad incidere sul complesso degli operatori economici. A questo ri-guardo, elementi di preoccupazione derivano dalla prevista possibilità

11 Dalla compartecipazione all’Iva potrebbero poi derivare effetti virtuosi per lo

stesso mercato di consumo: gli Enti territoriali sarebbero stimolati a conoscere più detta-gliatamente il mercato, per influenzare il gettito del tributo. Una maggiore conoscenza del territorio avrebbe dei riflessi positivi sulla politica di rilascio delle licenze commerciali, di servizi alle imprese e più generalmente di insediamento delle attività. Il risultato comples-sivo della riorganizzazione dei tributi vedrebbe il passaggio dal centro alla periferia di con-sistenti porzioni di gettito, cui si accompagnerebbero rilevanti poteri d’intervento sulle en-trate. L’effetto sarebbe generalmente responsabilizzante, perché incentiverebbe le politi-che regionali e locali volte ad aumentare la base imponibile e la lotta all’evasione. Ad e-sempio, nel caso dell’Iva sarebbe relativamente agevole individuare la consistenza dell’evasione, in base alla differenza tra consumi regionali misurati dall’ISTAT e quelli con-tenuto nelle dichiarazioni fiscali. Per contro, l’unico tributo ad accentrarsi sarebbe l’Irap, la cui collocazione regionale ha finora destato discussioni: la base imponibile è decisamente disomogenea tra i territori del Paese, e dà luogo a gettiti fortemente sperequati. La collo-cazione al livello prevalentemente statale costituirebbe, quindi, una ragionevole soluzione per eliminare il problema emerso.

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per le Regioni di utilizzare lo strumento delle maggiorazioni Irpef e Irap per il bilanciamento della propria situazione finanziaria, in modo indefini-to e senza direttive specifiche. L’art. 88 del disegno di legge finanziaria prevede, infatti, la possibilità di procedere alle dette maggiorazioni oltre l’aliquota massima, fino all’integrale copertura degli obiettivi c.d. inter-medi, nei casi, cioè, di dissesto finanziario dell’ente locale. Fermo re-stando che elementi di certezza nel campo dell’imposizione fiscale sa-rebbero altamente desiderabili, rimarchiamo anche a questo riguardo che il mantenimento di margini di manovra delle maggiorazioni IRAP a favore delle Regioni dovrebbe essere subordinato all’inserimento di una norma diretta ad impedire che le maggiorazioni abbiano effetti discrimi-natori, evitando cioè aggravi diretti a colpire solo taluni comparti produt-tivi. Lo spazio che l’art. 119 Cost. delinea per i tributi propri ed all’autonomia finanziaria lascia aperta la strada a forme poco auspicabili di competizio-ne fiscale, sia pure nell’ambito dei principi di coordinamento stabiliti da una legge dello Stato; la questione è alquanto delicata, perché a questo punto dell’evoluzione del sistema occorre ricercare il non facile equilibrio tra una fair competition fiscale a livello locale, legittima ed in parte au-spicabile, nella misura in cui contribuisca ad elevare il grado di efficienza nella gestione delle risorse degli enti substatali, ed i rischi di una fram-mentazione del sistema tributario, ovvero di una moltiplic azione dei tipi di tributo, con inevitabile aumento dei compliance costs. Ciò che si vuole e si deve evitare è che la creazione di un sistema com-plicato e troppo differenziato a livello locale finisca per nuocere ai citta-dini-contribuenti e per essere difficilmente gestibile dall’amministrazione. Parimenti, è da tenere nel massimo conto che una troppo accentuata differenziazione nel carico fiscale tra Regione e Re-gione, e tra enti locali, potrebbe influenzare i criteri di localizzazione del-le attività economiche, soprattutto da parte delle imprese, analogamen-te a quanto si verifica in campo transnazionale, alimentando scelte di tax planning fino ad ora inedite in campo locale. In ogni caso, la pres-sione fiscale complessiva non deve aumentare; l’autonomia dei diversi livelli di governo va contemperata con i “diritti dei contribuenti” e con la necessità di costruire un sistema impositivo improntato alla chiarezza, alla semplicità e alla gestibilità senza imporre eccessivi oneri di ademp i-mento. In ultima analisi, le sfide che si pongono al legislatore sono non da poco: oltre alla necessità di individuare tributi propri di facile applic a-zione e accertamento, evitando le “trappole” della doppia imposizione, ed alla necessità di precisare quali e quante frazioni di tributi erariali verranno via via devolute alle Regioni ed agli enti locali, oltre al perfe-zionamento di un meccanismo efficace ed equo di perequazione, si profi-la anche una sfida sul piano della gestione della funzione tributaria, non solo da parte degli enti locali, ma anche, soprattutto, da parte delle Re-gioni (poco “avvezze” per ragioni tralatizie ad occuparsi della gestione dei tributi). Non da ultimo, il tema dei controlli e della lotta all’evasione

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fiscale comporta la necessità di individuare procedure di coordinamento tra amministrazione finanziaria dello Stato ed uffici locali12. Si tratta di obiettivi importanti, se si vuole veramente che il federalismo fiscale, nel divenire fatto compiuto, rappresenti concreta espressione del principio di sussidiarietà, coniugato con i principi di responsabilità dei livelli di governo substatali e di solidarietà economica e sociale. Ogni intervento normativo deve, però, sempre aver presente che il «s i-stema tributario» è «uno» e «unitario» e pur sempre orientato - alla lu-ce della nostra Costituzione - ad assolvere ad una funzione solidaristica e di redistribuzione della ricchezza, su base individuale (art. 53 Cost.). È quanto mai urgente allora, riaffermare e rendere concreta l’essenziale funzione solidaristica e redistributiva del tributo e del sistema, nel suo complesso. Non è sufficiente trasferire risorse su base territoriale (pere-quazione), occorre anche prelevarne in misura eguale, intesa questa «individualmente» (o relativamente), come «qualità» e non come «quantità». Proprio questo aspetto è stato peraltro enfatizzato dalla giu-risprudenza costituzionale maturata sull’originario testo del titolo V, in materia di eguaglianza tributaria sostanziale, nella misura in cui il con-temperamento tra il valore individuale e redistributivo della fiscalità, da una parte, ed il valore dell’autonomia tributaria, dall’altra, veniva prefi-gurato sul terreno della qualità del prelievo tributario, giustificandosi, in-vece, differenziazioni quantitative - dovute all’operare congiunto e su base individuale di più livelli di imposizione territoriale - che non sconfi-nino in una mortific azione del principio di uguale trattamento ed uguali possibilità per tutti gli individui. Il fondamentale principio dell’eguaglianza dei cittadini di fronte al carico tributario (artt. 3 e 53 Cost.) va, quindi, considerato in armonia con il principio dell’autonomia tributaria e finanziaria degli enti sub-statali (art. 119 Cost.): mentre è ovvio che la possibilità stessa di applicare, disap-plicare o diversamente conformare tributi propri, persino quella di isti-tuirne unilateralmente, implichi, necessariamente, carichi diversi gra-vanti sui contribuenti, senza che ciò determini una violazione del princi-pio di eguaglianza tributaria sostanziale, in relazione ai singoli tributi.

12 Va, peraltro, meglio approfondita l’ipotesi dell’istituzione del senato federale;

l’attribuzione, infatti, alle Regioni di piena ed esclusiva responsabilità in determinate mate-rie, comporterebbe, inevitabilmente, una notevole richiesta finanziaria; è evidente, d’altra parte, che la necessità di risorse richieste dal passaggio dalla competenza statale a quelle regionale o locale, non potrebbe essere totalmente soddisfatta con il ricorso a tributi pro-pri; queste difficoltà potrebbero rendere inefficace la ampia autonomia normativa in mate-ria tributaria sì da valorizzare altre forme di finanziamento, quali addizionali o sovrimposte o da compartecipazieni per le quali determinante, è il ruolo dello stato centrale; emerge-rebbe, pertanto, la necessità di far partecipare attivamente le Regioni al processo decisio-nale sulla finanza pubblica, mediante meccanismi partecipativi, quali, ad esempio la parte-cipazione al Senato federale.

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2.4. Profili giuslavoristici Anche con riferimento alle tematiche giuslavoristiche ampiamente inte-se, l’art. 117 cost ., nella formulazione introdotta dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3 del 2001, ha determinato notevoli incertezze applic a-tive. Il nuovo titolo V della Costituzione, infatti, invertendo il sistema prece-dente, ha assegnato alle Regioni - in via esclusiva - potestà legislativa in tutti gli ambiti non assegnati espressamente alla competenza legislativa concorrente, o a quella esclusiva dello Stato, ma l’assenza di una elen-cazione delle materie proprie dell’ambito esclusivo regionale ha reso problematica la ricostruzione, per via esegetica, del relativo quadro di competenze. La menzionata operazione ha rappresentato, d’altra parte, uno dei pas-saggi nevralgici e più delicati nell’attuazione della riforma costituzionale. Si sono prospettati, e tuttora sono senza soluzione, diversi interrogativi circa i profili del diritto del lavoro e sindacale appartenenti allo spatium agendi delle Regioni. Certo è che la previsione di una competenza legislativa generale delle Regioni (competenza rispetto alla quale lo Stato è sprovvisto della pos-sibilità di concorrere alla determinazione delle relative regole) ha talvolta favorito la formazione di regole disomogenee, con effetti negativi per le aziende bancarie che operano normalmente a livello pluriregionale. Ciò premesso, si evidenziano qui di seguito taluni profili della materia la-voristica che sono senz’altro riconducibili al potere esclusivo delle Regio-ni. 2.4.1. Formazione professionale - La novità rispetto al passato sta in ciò che anteriormente alla riforma costituzionale la competenza legislativa delle Regioni era di tipo concorrente, mentre ora è diventata esclusiva. In tal senso, al fine di evitare che, anche in tale materia, si assista ad una produzione normativa regionale disarticolata, appare necessario e-laborare efficaci forme di coordinamento dei vari interventi territoriali, al fine di evitare ripercussioni negative su tutte le aziende aventi una di-mensione operativa nazionale. Si fa riferimento, in tal senso, agli aspetti concernenti, ad esempio, i profili formativi dell’apprendistato professionalizzante; gli incentivi alla formazione; la regolamentazione dei corsi connessi ai contratti a conte-nuto formativo; la definizione dei Programmi Operativi Regionali (POR) mediante i quali vengono utilizzate le risorse dei Fondi Strutturali;

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l’accreditamento dei centri di formazione; la certificazione dell’attività formativa, ecc. 2.4.2. Politiche attive del lavoro e collocamento ordinario - Anche per tali tematiche permane tuttora la preoccupazione del settore bancario in ordine alla possibilità che la regolamentazione del collocamento ordina-rio e la definizione dei relativi provvedimenti possa seguire percorsi e regole diversificate e disomogenee fra le Regioni, con gravi ed evidenti ripercussioni negative, soprattutto per le imprese “di dimensione nazio-nale”. Ci si riferisce, in particolare, ai provvedimenti riguardanti le procedure di collocamento, la definizione di una quota di riserva, in caso di assunzio-ni, per particolari categorie di lavoratori a rischio di esclusione sociale, l’emanazione di provvedimenti di incentivazione al lavoro, la definizione di convenzioni in materia; ecc.. 2.4.3. Salute e sicurezza dei lavoratori - La materia della salute e sicu-rezza nei luoghi di lavoro rientra tra quelle oggetto di “legislazione con-corrente” tra Stato e regioni. La sovrapposizione di competenze - in una con la scarsa chiarezza dei limiti entro i quali debbono muoversi i due legislatori (spettando, a quello nazionale, la fissazione dei “principi fon-damentali”, e a quello regionale la relativa “disciplina di dettaglio”) - è stata causa di non pochi problemi applicativi. Basti pensare alla vicenda relativa alla regolamentazione del mobbing (su cui si sono avute diverse sentenze della Corte Costituzionale) e al Testo Unico sulla sicurezza, la cui mancata adozione è dipesa per l’appunto dalla sovrapposizione (rectius: confusione) di competenza tra Stato e Regioni. In ragione delle considerazioni che precedono, ABI auspica un rinnovato intervento del legislatore costituzionale volto a delineare con maggiore chiarezza le materie di rispettiva competenza tra Stato e Regioni, elimi-nando preferibilmente la “zona grigia” costituita dalla legislazione con-corrente. In particolare, si ritiene necessario attribuire alla competenza esclusiva dello Stato le materie attinenti alla “salute e sicurezza del lavoro”, non-ché alla “previdenza sociale” (intesa quest’ultima come omnicomprensi-va di quella “complementare ed integrativa”, attualmente attribuite alla legislazione concorrente).