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Reg. Num. 6188 A Villa Nazareth Fondazione “Comunità Domenico Tardini” ONLUS Via D. Tardini 33-35, 00167 Roma Tel. 06-895981, Fax. 06-6621754 Siti web: www.villanazareth.org, www.vnstudenti.org, www.vnservizi.it E-mail: [email protected], [email protected] , [email protected] VILLA NAZARETH “LOVE, LIVE, EAT”: LALIMENTAZIONE TRA INDIVIDUO E SOCIETÀ Seminario delle Palme 21 24 Marzo 2013

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Reg. Num. 6188 – A

Villa Nazareth – Fondazione “Comunità Domenico Tardini” ONLUS Via D. Tardini 33-35, 00167 Roma – Tel. 06-895981, Fax. 06-6621754

Siti web: www.villanazareth.org, www.vnstudenti.org, www.vnservizi.it E-mail: [email protected], [email protected], [email protected]

VILLA

NAZARETH

“LOVE, LIVE, EAT”: L’ALIMENTAZIONE TRA INDIVIDUO E SOCIETÀ

Seminario delle Palme 21 – 24 Marzo 2013

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PROGRAMMA

“LOVE, LIVE, EAT”: L’ALIMENTAZIONE TRA INDIVIDUO E SOCIETÀ

Giovedì 21 marzo

In giornata: Arrivo a Villa Nazareth ed accoglienza

Ore 20:00 Cena e saluto del card. Achille Silvestrini, di mons. Claudio Maria

Celli, di don Giuseppe Bonfrate, della prof.ssa Angela Groppelli, del

prof. Carlo Felice Casula, del dott. Marco Catarci, del dott. Massimo Gargiulo, della dott.ssa Maria Cristina Girardi.

Ore 20:30 Presentazione del seminario a cura degli studenti della

Commissione Cultura

Venerdì 22 marzo

Ore 8:30 Colazione

Ore 9:00 Partenza da Villa Nazareth per la visita guidata alla mostra: “Verso il 2015. Culturacibo. Un’identità italiana”

– Complesso del Vittoriano.

Ore 13:00 Pranzo

Ore 16:00 Conferenza: “Mens Sana in Corpore Sano”:

Riflessioni Mediche e Psicologiche

Relatori: dott.ssa Laura Dalla Ragione, responsabile del Centro disturbi

del comportamento alimentare Palazzo Francisci della Ausl 2 della

Regione Umbria dott. Carmelo Licitra, psichiatra e psicoanalista

Prof. Lorenzo M. Donini, docente della Facoltà di Medicina e Odontoiatria dell’Università di Roma “Sapienza” e medico

nutrizionista

Moderatore: Noemi Adipietro

Ore 19:00 Santa Messa

Ore 20:00 Cena

Ore 21:00 Via Crucis

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Sabato 23 marzo

Ore 8:30 Colazione

Ore 9:00 Incontro dei Gruppi regionali sul tema dell’anno

Ore 11:00 Laboratorio degli studenti

Ore 13:00 Pranzo

Ore 16:00 Conferenza: “Saperi e Sapori: Il cibo tra popoli e religioni”

Relatori: Prof. Giuseppe Domenico Schirripa, professore di

Antropologia Medica e Antropologia Religiosa dell’Università di Roma “Sapienza”

Prof. Giuseppe Bonfrate, docente di Storia della Teologia e di Patrologia alla Pontificia Università

Gregoriana

Moderatore: Francesco Santi

Ore 19:00 Primi Vespri della Domenica delle Palme

Ore 20:00 Cena

Ore 21:00 Rappresentazione teatrale

Domenica 24 marzo

Ore 11.30 Benedizione delle Palme e Processione

Ore 12:00 Santa Messa

Ore 13:00 Pranzo e conclusione del seminario. Saluti e partenze

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Indice

Biografie dei relatori – pag. 5

Articolo n.1: “Dimmi come mangi e ti dirò con chi sei: Cibi, luoghi e relazioni

nel menù del sociologo”, Domenico Secondulfo - pag. 7

Articolo n. 2: “Cibo e Cultura”, Massimo Montanari - pag. 9

Articolo n.3: “Il cibo come linguaggio”, Massimo Montanari– pag. 11

Articolo n.4: “Il significato del cibo”, Assunta Maria Amoroso – pag. 13

Articolo n. 5: “Il digiuno e le religioni”: a colloquio con padre Theodoro

Mascarenhas, officiale del Pontificio Consiglio della Cultura, Nicola Gori – pag. 15

Articolo n. 6: “Un atto primordiale”, Enzo Bianchi – pag. 19

Articolo n.7: “Dimmi cosa mangi…Il cibo tra memoria, cultura e identità”,

Marta Villa – pag. 21

Articolo n.8: “Cibo e Filosofia”, Massimo Donà– pag. 25

Articolo n.9: Come dire “ Ti voglio bene”, Enzo Bianchi – pag. 32

Articolo n.10: “A proposito della difficile costruzione dell’identità”,

Laura dalla Ragione – pag. 34

Bibliografia – pag. 37

Filmografia – pag. 41

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Biografie dei relatori

Lorenzo Maria Donini Lorenzo Maria Donini nato a Roma il 20 Aprile 1955. Dal 1991 svolge attività di ricerca presso l’Istituto di Scienza dell’Alimentazione dell’Università di Roma “La Sapienza” (ora sezione del Dipartimento di Fisiologia Medica). Dal 2001 è presidente del Corso di Laurea di 1° livello di Dietista della facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza”. Dal 2011 è direttore della Scuola di Specializzazione in Scienza dell’Alimentazione. Dal 2010 è responsabile scientifico del Laboratorio di Valutazione dello Stato di nutrizione del dipartimento di medicina sperimentale. E’ attualmente incaricato di insegnamento presso il CLS in Medicina e Chirurgia, il CL di Dietistica, le Scuole di Specializzazione in Scienza dell’Alimentazione e Endocrinologia, il Master di 1° livello “Prevenzione e assistenza a sovrappeso, obesità e disturbi del comportamento alimentare”. Carmelo Licitra Carmelo Licitra Rosa è psichiatra e psicoanalista a Roma. Già AE (analyste de l’Ècole), è membro della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi (SLP) e dell’Associazione Mondiale di Psicoanalisi (AMP), membro del Consiglio della SLP e docente della Sezione Clinica di Roma. È stato professore a contratto di psichiatria presso l’omonima Scuola di specializzazione dell’Università Cattolica di Roma. Pubblica sulle riviste del Campo freudiano La Psicoanalisi, Attualità lacaniana e su altre riviste specializzate. Ha pubblicato nel 2011 presso Alpes il libro Studi lacaniani. Ha al suo attivo diversi interventi e conferenze in varie città italiane ed estere. Laura dalla Ragione Medico Psichiatra e psicoterapeuta ha fondato e dirige il Centro della ASL 1 dell’Umbria per i disturbi del comportamento alimentare in età pediatrica e dell’età evolutiva Palazzo Francisci di Todi. E’ responsabile del Centro DAI per l’obesità e il Disturbo da

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Alimentazione Incontrollata presso Città della Pieve e la struttura Diurna Il Nido della Rondine. E’ referente scientifico per il Ministero della salute su tale patologia. Ha diretto il Progetto nazionale Le buone Pratiche nel trattamento dei DCA Ministero della salute e Ministero delle Politiche giovanili e dirige attualmente il progetto nazionale Ricerca Multicentrica nazionale sull’età evolutiva ed Infantile. È autrice di numerose pubblicazioni sul tema dei disturbi alimentari: La casa delle bambine che non mangiano (Il Pensiero Scientifico, 2005); Il cuscino di Viola (Diabasis, 2006); L'anima ha bisogno di un luogo (Tecniche Nuove, 2006); Giganti d'argilla (Il Pensiero Scientifico, 2009). Giuseppe Bonfrate Giuseppe Bonfrate ha compiuto studi e ricerche di filosofia, teologia e letteratura cristiana antica a Roma e a Cambridge (MA). Insegna presso la Facoltà di teologia della Pontificia Università Gregoriana di Roma. Giuseppe Domenico Schirripa Giuseppe Domenico Schirripa è professore associato di Discipline Demoetnoantropologiche presso il Dipartimento di Storia, Culture, Religioni della Sapienza – Università di Roma, dove insegna Antropologia Religiosa, Antropologia medica ed Etnopsichiatria ed è coordinatore del curriculum di Teorie e pratiche dell’antropologia del Corso di Laurea triennale in Storia Antropologia Religioni. Si è occupato principalmente di migrazioni; pentecostalismo; terapie religiose; sistemi medici e sanitari; produzione, distribuzione e percezione dei farmaci. Su questi argomenti ha svolto ricerche in Italia, Ghana ed Etiopia. Attualmente dirige una missione di ricerca di antropologia medica in Etiopia. Ha pubblicato numerosi articoli in riviste italiane e straniere e i volumi: Health system, sikness and social suffering in Mekelle (Tigray – Ethiopia), (2010); Terapie religiose. Neoliberismo, cura, cittadinanza nel pentecostalismo contemporaneo (2012).

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Articolo n.1: “Dimmi come mangi e ti dirò con chi sei

Cibi, luoghi e relazioni nel menù del sociologo”, Domenico

Secondulfo

Dal libro ”Foodscapes: stili, mode e culture del cibo oggi” - Alessandra Guigoni-Polimetrica2004

La funzione sociale del cibo

Tra i vari aspetti che fanno parte della cultura materiale, tra tutti gli

oggetti ed i beni che usiamo nella nostra vita, e che come un mantello ricoprono la nostra società, il cibo è senz’altro tra quelli di maggiore

spessore simbolico e significato culturale. Il suo entrare a far parte,

mescolarsi, con gli organismi che lo assumono, ne rappresenta la base metaforica su cui poggia il suo significato ed il suo sociale, che

potremmo definire, volendolo sintetizzare in una parola: fusionale.

Questo si appoggia non soltanto sull’assegnazione artificiale di un significato all’interno della cultura di un gruppo, ma su una sua

particolarissima e molto profonda connessione con il corpo umano e la

sua costruzione simbolica. Ciò che mangiamo diviene parte del corpo, e questo dato di fatto fonda il significato di fusione e di legame che

caratterizza l’uso sociale del cibo presso quasi tutte le culture conosciute,

il cibo diviene il simbolo della sfera relazionale più intima, quella comunitaria, e segna simbolicamente, la fusione sociale degli individui, in

gruppi e comunità. Tutte le situazioni in cui si crea o si riconferma la

coesione di un gruppo sociale prevedono il consumo comune di un cibo, e l’assunzione comune dello stesso cibo fonda, simbolicamente, la

fusione sociale dei singoli in un unico gruppo.

Molte religioni prevedono, come momento di fusione con la divinità e con il corpo della chiesa, l’assunzione e la condivisione di un cibo “sacro”, è

esempio della comunione non è che quello a noi più vicino.

Tra tutti gli oggetti ed i beni che costituiscono la parte visibile della nostra cultura, il cibo, ne rappresenta quindi il lato partecipativo,

fusionale, comunitario, di intima relazionalità; metafora sociale e

simbolica del farsi “corpo unico”. Nell’intreccio tra cultura e società, due sono i livelli cui agisce questa

caratteristica simbolica del cibo: il livello individuale ed il livello collettivo.

In questo scritto è senz’altro il livello collettivo quello che più ci interessa, ma ricordiamo che la forza del significato fusionale, del

rapporto simbolico con il corpo e con la sua costruzione è tale, da

rendere il nostro rapporto individuale col cibo quasi magico, infatti,

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utilizziamo il cibo come veicolo per assorbire quei significati cui noi

diamo più valore ed a cui vogliamo assimilarci. Cibi naturali, cibi dietetici, cibi energetici, tradizionali o moderni, esotici o

quotidiani, fino ai medicinali di ogni tipo, tutti hanno al loro interno uno

specifico significato simbolico: la forza e la purezza della natura, la bellezza del corpo, la forza del fisico, la memoria del passato, il

progresso, la scienza, significati che noi mescoliamo, magicamente, con

la nostra persona, mescolandovi il cibo che quel significato trasporta. Pensiamo, ad esempio, alla difesa dei cibi tradizionali da parte degli

immigrati, alle molteplici prescrizioni alimentari di tipo religioso,

all’utilizzo dei farmaci, sia naturale sia di sintesi, il cui effetto biochimico

non è provato, alle decine di diete orientate ai più diversi scopi: estetici,

energetici e perfino mistici. Sotto l’aspetto individuale quindi, il cibo rappresenta spesso il metodo

simbolico per sottolineare la propria appartenenza e la propria fusione ad

un gruppo sociale, ritenuto simbolicamente importante e fondativo per la propria identità, l’esempio della difesa dei cibi e delle preparazioni

tradizionali da parte degli emigranti, rappresenta un chiaro esempio di

questa funzione identificativa e di “costruzione simbolica” insita nel rapporto con il cibo.

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Articolo n. 2: “Cibo e Cultura”, Massimo Montanari

Dal libro “Alimentazione e cultura del Medioevo” – Massimo Montanari- Laterza 1988

Una scodella di fagioli, un pezzo di pane, una brocca di vino; e per

insaporire il tutto tre cipollotti: è il povero pasto di un contadino,

consumato sull'angolo del tavolo. Ma siamo sicuri che si tratti di un pasto così povero come appare a noi? Questo quadro è stato dipinto alla fine

del Sedicesimo secolo da Annibale Carracci, un periodo di carestie e di

epidemie, e per un contadino di quel periodo forse un pasto del genere era tutt'altro che povero. Senza cibo non si vive. Ma il cibo è anche

un'occasione per incontrarsi e per far festa, un simbolo di abbondanza e

di benessere. Per questo gli artisti lo hanno spesso inserito nelle immagini che hanno creato. Oggi poi ci sono anche cuochi che usano il

cibo per creare immagini. Da Omero a Boccaccio, da Leonardo a Kant, da

Tolstoj a Gadda, Neruda, Calvino: attraverso le testimonianze della letteratura antica, medioevale, rinascimentale, barocca sino ai più bei

brani letterari italiani ed europei contemporanei l'evolversi delle forme

storiche della cultura alimentare, usi e costumi degli uomini a tavola, piaceri e dispiaceri incontri e scontri hanno fatto del convivio

un'immagine speculare della società. Il cibo è talmente importante nella vita degli uomini che ha un ruolo fondamentale anche nella religione. Nel

Nuovo Testamento, ad esempio, sono almeno quattro i momenti in cui

l'insegnamento di Gesù si collega al cibo: Le nozze di Cana, quando Gesù trasforma l'acqua in vino; La moltiplicazione dei pani e dei pesci; L'ultima

cena e La cena di Emmaus. Dietro ai sapori, agli odori, si nascondono

tantissimi significati; dietro al gusto di sedere a tavola, ma anche di stare dietro ai fornelli, esiste una trama fitta di simboli e linguaggi che

costituiscono il variegato panorama della scienza culinaria. Il nostro

corpo, la nostra psicologia, l'educazione, la cultura, l'ambiente, la storia, sono elementi fondamentali per ripercorrere e capire l'itinerario del

piacere, poiché condizionano non solo la preparazione e la presentazione

del cibo, ma anche la percezione visiva, olfattiva e la scelta di alcuni sapori al posto di altri. Esistono poi elementi spesso ignorati ma non

meno importanti quali il desiderio, la creatività, la voglia,

l'immaginazione che trasformano i cibi e la loro preparazione in un vero e proprio linguaggio. Chi ama cucinare generalmente scopre, ricerca,

studia, fa esperienza, agisce secondo le sue conoscenze, i suoi retaggi e

cerca, grazie alla fantasia, di creare per assecondare la necessità di comunicare stati d'animo e passioni. Non dovremmo scandalizzarci

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dunque, quando sentiamo definire la culinaria un'arte. La storia

dell'alimentazione, dunque, è una storia ricca di sorprese, di civiltà alimentari che cambiano, un mondo di gusti, sapori e profumi ancora

tutti da scoprire. Un mondo che possiede naturalmente la sua storia, i

suoi usi e costumi, i suoi artisti, le sue leggende, tradizioni, e perché no, i suoi eroi, scienziati, filosofi, musicisti e poeti.

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Articolo n.3: “Il cibo come linguaggio”, Massimo Montanari

Dal libro “Alimentazione e cultura del Medioevo” – Massimo Montanari- Laterza 1988

"Convivio" rimanda etimologicamente a "cum vivere", vivere insieme.

Mangiare insieme [un altro carattere tipico, se non esclusivo, della specie

umana] è un altro modo ancora per trasformare il gesto nutrizionale dell’alimentazione in un fatto eminentemente culturale. Ciò che si fa

assieme agli altri, infatti, assume per ciò stesso un significato sociale, un

valore di comunicazione, che, nel caso del cibo, appare particolarmente forte e complesso, data l’essenzialità dell’oggetto rispetto alla

sopravvivenza dell’individuo e della specie. I messaggi possono essere di

varia natura ma, in ogni caso, trasmettono valori di identità. Identità economica: offrire cibi preziosi significa denotare la propria ricchezza.

Identità sociale: soprattutto in passato, la quantità e la qualità del cibo

erano in stretto rapporto con l’appartenenza a un certo gradino della scala gerarchica [il cibo, anzi, era il primo modo per ostentare le

differenze di classe]. Identità religiosa: il pane e il vino dei cristiani

vanno ben oltre la loro materialità, la dieta dei monaci ha sue regole, la quaresima si segnala con l’astinenza da certi cibi; in altri contesti

religiosi, certe esclusioni o tabù alimentari [il maiale e il vino dell’Islam,

la complessa casistica di cibi leciti e illeciti dell’ebraismo] hanno il ruolo prevalente di segnalare un’appartenenza. Identità filosofica: le diete

vegetariane legate al rispetto della natura vivente o, in passato, a

sistemi più strutturati come la metempsicosi o trasmigrazione delle anime. Identità etnica: il cibo come segno di solidarietà nazionale [la

pasta per gli italiani, soprattutto all’estero, non è solo un alimento ma

anche un modo per recuperare e riaffermare la propria identità culturale; lo stesso vale per il cuscus degli arabi e per tutti i cibi che, in ciascuna

tradizione, costituiscono un segno particolarmente forte della propria

storia e della propria cultura]. Anche le modalità di assunzione del pasto possono, di per sé, risultare significative: il banchetto di festa [battesimi,

matrimoni, funerali] non è una "colazione di lavoro", non solo dal punto

di vista tecnico ma anche sul piano simbolico. Tutte queste situazioni esprimono contenuti diversi, perfettamente comprensibili perché

comunicati con un linguaggio codificato all’interno di ciascuna società. E

appunto trattandosi di un linguaggio, interculturalità significa non solo disponibilità allo scambio tra culture diverse [come, ad esempio, sta

avvenendo nei paesi europei in seguito alla forte immigrazione dai paesi

islamici] ma, anche, conoscenza degli altri linguaggi, giacché è evidente

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che ciascun elemento può assumere, in contesti diversi, diverso

significato. Altrettanto evidente è che il tema centrale dell’interculturalità non consisterà nel proporre un rimescolamento e un’omologazione al

minimo denominatore comune di comportamenti strutturalmente

differenti, bensì, anche e soprattutto, aprirsi alla comprensione dell’altro e al rispetto delle diversità, nella consapevolezza che le stesse identità

non sono date una volta per tutte, ma si modificano, si aggiustano, si

rimodellano nel tempo [si pensi solo alla cosiddetta dieta "mediterranea", costituita da apporti alimentari originariamente tipici non solo dell’area

mediterranea, ma dell’Est asiatico, dell’Africa interna, dell’America: il

pomodoro, certi cereali, tante verdure ecc.]. Motivi, questi, che trovano

applicazione in ogni aspetto della vita quotidiana, ma che proprio nel

campo dell’alimentazione trovano un cruciale terreno di prova. Lo stesso vale, del resto, nel modo di affrontare le differenze all’interno di una

medesima cultura: accanto alle identità nazionali vi sono quelle regionali,

urbane, familiari. La "cucina della mamma" risulta sempre più gradita e, soprattutto, assicura conforto e preserva un’identità di cui non siamo

sempre sicuri. Rispetto delle diversità sarà, in questo caso, abituarsi a

pensare in termini di relatività ed evitare ogni sorta di intolleranza al diverso. Il comportamento alimentare diviene in questo senso un

importante "rivelatore": l’uomo è ciò che mangia, certo, ma è anche vero

che mangia ciò che è, ossia alimenti totalmente ripieni della sua cultura.

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Articolo n.4: “Il significato del cibo”, Assunta Maria

Amoroso

Da Milano Post – quotidiano di informazione e cultura

Mangiare – oltre a soddisfare un bisogno fisiologico primario e a fornire il necessario apporto energetico all’organismo – rappresenta anche un

bisogno psicologico e sociale. Il cibo accompagna tutte le fasi più

importanti e delicate della vita di un individuo. Le abitudini alimentari

nascono in famiglia dalle prime esperienze di allattamento e

svezzamento. Sin dalla nascita madre e bambino si conoscono tramite il

cibo, gettando, in tal modo, le basi del loro legame e quelle della comunicazione interpersonale. L’entrata del bambino nel mondo della

scuola lo porta a doversi confrontare con altri schemi alimentari, che non

sempre combaciano con quelli familiari; in adolescenza, il bisogno di autonomia porta i ragazzi ad allontanarsi dalle scelte della famiglia per

adeguarsi a quelle dei loro coetanei, si tende a mangiare spesso fuori

casa, da amici o in luoghi pubblici ed il cibo assume il significato di piacere di stare insieme. Anche da adulti, l’incontro a tavola favorisce la

comunicazione e riveste molteplici valenze, sociali, lavorative, affettive,

culturali. Molti incontri di lavoro si svolgono mangiando, così come si festeggia sempre mangiando, spesso al primo appuntamento con un

ragazzo/a si va a cena fuori, con gli amici ci si incontra di frequente per

consumare un pasto insieme. Anche la cultura passa attraverso la pietanza di una determinata regione o paese straniero; i piatti tipici e

tradizionali riportano le radici del popolo e tramandano antiche ricette e

vecchi sapori. E’ la famiglia che sancisce le abitudini alimentari che poi ci si porterà

dietro per tutta la vita. Il modo di alimentarsi riflette l’educazione

ricevuta, la cultura di appartenenza e la propria personalità. L’assunzione del cibo viene spesso sottovalutata nei suoi risvolti psicologici soprattutto

riguardo la formazione del carattere: al cibo sono collegate numerose

emozioni che scaturiscano da scelte di vita, scelte religiose, culturali, educative; al cibo si associano anche molte emozioni legate a momenti

piacevoli o spiacevoli.

Ma il cibo è anche un campo di battaglia tra figli e genitori soprattutto nell’infanzia. Forzare il bambino a mangiare, premiarlo o punirlo con il

cibo è diseducativo sia in famiglia che a scuola. Il bambino impara, suo

malgrado, che il cibo è un terreno di rappresaglia, di ripicca, di contrattazione. Con esso può ricattare, attirare l’attenzione, far contenti i

genitori o punirli per qualcosa che non hanno fatto o che non gli hanno

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concesso. Anche gli adulti usano il cibo per diverse motivazioni, per

colmare vuoti affettivi, compensare insoddisfazione, ansia, stress, rabbia, delusione, attesa. Abitudini alimentari e vita emotiva vanno di

pari passo. Emozioni e sentimenti influenzano l’appetito e la scelta dei

cibi fino ad arrivare, in casi estremi, a patologie alimentari. Studi recenti hanno evidenziato che mangiare senza scegliere e senza godersi il cibo

fa male. Si mangia, o meglio ci si “riempie”, perlopiù in modo meccanico

e con frequenti interruzioni. Invece, ogni volta che ci si siede a tavola, ci si dovrebbe chiedere “Che cosa mi piace? di che cosa ho voglia?” e

gustarsi ciò che si è scelto. Senza alzarsi di continuo, come fanno la

maggior parte delle mamme e delle mogli, e senza forzarsi. E’ un modo

per volersi bene, per ritrovare un giusto rapporto col proprio corpo ed

acquistare un buon equilibrio psicofisico. E per dimagrire. Infatti, per perdere peso senza diete affamanti o farmaci, è

fondamentale non accettare passivamente tutte le pietanze ma solo

quelle che si desiderano. Volersi bene vuol dire anche saper ascoltare i propri desideri a tavola, senza mangiare perché il cibo è già pronto, è già

cucinato per altri o perché andrebbe sprecato. Bisogna imparare ad

ascoltare ciò di cui si ha voglia e di cui non se ne ha, senza costringersi, cercando di entrare in sintonia coi propri bisogni interiori ed alimentari.

Anche per dimagrire è necessario volersi bene e imparare ad ascoltarsi.

Forzarsi in diete rigide e ossessive non produce buoni risultati ma aumenta solo il disagio e rende sempre più difficile accettare il proprio

aspetto fisico. Dando per scontato che se i desideri riguardano solo e

sempre cibi pesanti, calorici o molto elaborati, forse, il messaggio sottostante è da approfondire con uno specialista.

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Articolo n. 5: “Il digiuno e le religioni”: a colloquio con padre Theodoro Mascarenhas, officiale del Pontificio Consiglio della Cultura, Nicola Gori dal sito dell’Osservatore Romano – www.osservatoreromano.va - 06 marzo

2009

Strumento di autocontrollo, precetto dottrinale, metodo di ascesi,

richiamo alla sobrietà, veicolo di elevazione al trascendente: nel corso dei secoli tutte le grandi religioni del mondo hanno dedicato particolare

attenzione al rapporto dell'uomo con il suo corpo, in particolare alla

pratica del digiuno. L'astensione dal cibo assume di volta in volta significati diversi. Con padre Theodoro Mascarenhas, officiale del

Pontificio Consiglio della Cultura e docente di teologia biblica

all'Angelicum, abbiamo parlato della tradizione del digiuno nell'islam e in alcune religioni orientali. La pratica del digiuno nell'islam sembra

sostenere tutta l'impalcatura religiosa. Ma qual è il fine ultimo del

digiuno per gli islamici? Per i musulmani il motivo del digiuno è l'autocontrollo. Secondo questa religione monoteista, quando una

persona è vinta dai desideri e dalle brame materiali, diventa negligente

riguardo al proprio essere spirituale e indifferente agli obblighi imposti dal Creatore. Perciò, per aiutare l'uomo a combattere queste bramosie

materiali, l'Onnipotente ha imposto il digiuno come obbligo. Il digiuno

durante il mese del ramadan non è per un'espiazione o un pentimento. Non è neppure una specie di castigo; è, invece, un rito religioso

caratterizzato da un proposito positivo. Questo è spiegato bene nel

Corano: "O voi che credete, vi è prescritto il digiuno come era stato prescritto a coloro che vi hanno preceduto. Forse diverrete timorati"

(Surat ul-Baqarah, 2: 183). Il digiuno, dunque, ha un significato

spirituale e sociale. I musulmani credono che, attraverso il digiuno, l'anima dell'uomo viene liberata dalle catene delle sue voglie e vola verso

l'Altissimo. Il digiuno chiude le porte alle tentazioni. Come il diavolo

attacca l'uomo, più spesso sulla debolezza della lingua e del corpo, così l'astensione dal cibo e dal sesso blocca queste aggressioni. Il digiuno fa

diventare la persona timorata di Dio. Per questo motivo, ogni adulto deve

praticarlo, insieme all'obbligo di leggere una parte del Corano ogni giorno del periodo di digiuno e di partecipare al culto comunitario. Inoltre, c'è la

dimensione sociale. Con il digiuno la persona può avere una conoscenza

migliore dei doni di Dio ricevuti e, così, aprirsi con più compassione e carità verso i disagiati e gli emarginati. Il digiuno include l'astensione,

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dall'alba al tramonto, da tutti i piaceri carnali come, ad esempio, il cibo e

il sesso. Tra le religioni orientali forse quella buddista è la più conosciuta nel mondo occidentale. Ci può spiegare qual è la filosofia che sottende

all'idea del digiuno in questa religione? È vero che le religioni orientali

dedicano una attenzione particolare al rapporto con il corpo. Il digiuno è un modo per esercitare il controllo sul proprio corpo. Nel buddismo, il

digiuno è un mezzo per ottenere un livello più alto di spiritualità, cioè

"svegliarsi", una fase iniziale di autodisciplina. Per Buddha, il Nirvana è uno stato di pace perfetta della mente, libera dal desiderio, dalla rabbia e

da altre condizioni che la imprigionano. Il desiderio, secondo Buddha, era

la causa e la radice del male. Il cibo è il desiderio più basilare dell'uomo.

Quindi è necessario rinunciare al desiderio per ottenere la libertà dai

grovigli mondani. Il digiuno è uno dei dhutanga che i monaci praticano per "scuotersi" o per "rinvigorirsi". Buddha stesso aveva digiunato prima

di essere "illuminato". L'illuminazione spirituale di Buddha è strettamente

legata al digiuno, ma egli vi è arrivato non durante il digiuno ma subito dopo, cioè dopo averlo interrotto. Così si arriva alla conclusione che non

è il cibo, né l'astensione da esso che porta alla "liberazione", ma la

moderazione. Allora, il digiuno è un esercizio pratico per andare verso il Nirvana. È tanto diversa la prassi del digiuno nell'induismo? Qualcosa in

comune ce l'hanno, anche se le differenze sono a volte sostanziali. Gli

indù sono profondamente religiosi. L'obiettivo della vita è l'autorealizzazione o il raggiungimento della consapevolezza

dell'assoluto. Il digiuno controlla la passione e argina le emozioni e i

sensi. Come l'oro è purificato dal fuoco, così la mente viene lentamente purificata dal digiuno ripetuto. Secondo le scritture indù, il digiuno è un

grande strumento di autodisciplina che stabilisce un rapporto armonioso

tra il corpo e l'anima, portando l'uomo ad accordarsi con l'assoluto. La parola sanskrita upvas, digiuno, che significa letteralmente sedere vicino

(a Dio), già indica questo movimento di unione con l'assoluto. Il digiuno,

quindi, è una negazione delle necessità del corpo per un guadagno

spirituale. Secondo la filosofia indù, il cibo significa gratificazione del

corpo e, invece, affamare i sensi vuol dire elevarli alla contemplazione.

Attraverso il controllo del corpo fisico, delle emozioni e della mente, si può arrivare all'obiettivo finale della conoscenza incondizionata, o

liberazione dal ciclo della rinascita, in unione con il trascendente sia

personale, sia impersonale. Inoltre, nell'induismo, una persona può digiunare per adempiere un voto religioso, vrata. In questo senso, il

digiuno e l'astinenza portano al raggiungimento del merito religioso, il

quale può poi essere usato per ottenere l'obiettivo per cui si era fatto il voto. Si coglie qualcosa di comune, dunque, in questo percorso spirituale

che attraversa il digiuno in queste tre religioni. Di cosa si tratta?

Certamente il percorso spirituale di queste tre religioni ha alcune cose in

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comune. Tutte le religioni parlano e incoraggiano a usare il digiuno come

forma di disciplina e di purificazione della persona. In tutte tre esiste la motivazione dell'autocontrollo e dell'autodisciplina. Inoltre, si vede che

un pensiero fondamentale di tutte le culture e di tutte le religioni del

mondo è che "l'uomo non vive solo di pane" ma c'è qualcosa che trascende il mondo materiale. Il digiuno, cioè l'astensione dall'alimentare

le forze del corpo, porta l'uomo alla conoscenza di un potere superiore,

prima di tutto dentro se stesso, che, nel caso dell'islam e dell'induismo porta ad una conoscenza dell'Essere assoluto. In cosa si differenzia la

pratica del digiuno di queste religioni da quella cristiana? È difficile

indicare una differenza generale. Si può fare una distinzione tra la pratica

cristiana del digiuno rispetto alle altre religioni. Ad esempio: se nel

buddismo il digiuno è quasi fine a se stesso - ricordiamo che il buddismo è una religione di matrice ateistica - per i cristiani rappresenta un mezzo

per vivere con Dio. Per citare le parole di Benedetto XVI nel suo

messaggio per la quaresima, il digiuno serve per "aiutarci a mortificare il nostro egoismo e ad aprire il cuore all'amore di Dio e del prossimo,

primo e sommo comandamento della nuova legge e compendio di tutto il

Vangelo". La differenza tra la pratica cristiana e quella induista del digiuno si distingue per il fatto che l'induismo è una religione politeista,

dove ognuno fa il voto secondo i suoi bisogni e secondo il proprio modo

di concepire la divinità. Infatti, nell'induismo il digiuno è individuale e volontario, mentre nel cristianesimo, come nell'islam, il digiuno è

obbligatorio almeno nei giorni prescritti. Inoltre, nell'induismo lo sforzo

mira a liberare la mente e a rompere il ciclo della rinascita; invece nella pratica cristiana - come afferma il Papa nel suo messaggio quaresimale -

"la fedele pratica del digiuno contribuisce inoltre a conferire unità alla

persona, corpo ed anima, aiutandola ad evitare il peccato e a crescere nell'intimità con il Signore". La pratica nell'islam sembra avvicinarsi di

più alla pratica del digiuno cristiano. Infatti, in entrambe il digiuno aiuta

a liberare la persona per amare Dio e il prossimo. Tuttavia, mentre i

musulmani digiunano durante il mese di ramadan dall'alba al tramonto e

poi possono mangiare quanto vogliono, nella pratica cristiana non c'è

questa distinzione netta tra il periodo di digiuno dal periodo in cui non è prescritta tale pratica. Ancora, nell'islam c'è, talvolta, una attenzione ai

tempi, alle forme e alle norme, mentre nel cristianesimo si pone

l'accento più sulla disposizione interiore. Il digiuno, nella religione cristiana, fa parte normalmente del tempo di quaresima, che viene

indicato come un tempo di penitenza. Lo spirito di penitenza pervade

tutto il periodo quaresimale e il digiuno è solo una delle forme di penitenza. Per citare ancora Benedetto XVI nel suo messaggio: "Usiamo

in modo più sobrio parole, cibi, bevande, sonno e giochi, e rimaniamo

con maggior attenzione vigilanti". Che cosa possono imparare i cristiani

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dal modo di concepire il digiuno dei fedeli di queste religioni? La pratica

del digiuno nelle tre religioni sulle quali ci siamo soffermati possono arricchire il nostro modo di concepire e di osservare il digiuno. Dal

buddismo, in particolare dalla sua concezione della liberazione della

mente attraverso il digiuno, possiamo imparare a rafforzare la nostra antica nozione del digiuno, come spiegato da Benedetto XVI nel suo

messaggio, cioè che il digiuno sia "di grande aiuto per evitare il peccato

e tutto ciò che ad esso induce". Dalla pratica nell'induismo impariamo che il digiuno può diventare una forma di preghiera, come afferma il

Papa: il digiuno può "aprire nel cuore del credente la strada a Dio". Nella

Chiesa cattolica il digiuno è una pratica regolata da norme minime e

lasciata quasi interamente alla coscienza del credente. L'islam, invece, ha

regole e leggi molto prescrittive e richiede la pratica rigorosa del digiuno da parte dei credenti. Forse un po' di questo rigore, senza esagerazioni,

farebbe bene alla pratica cristiana. Questo potrebbe aiutare a recuperare

l'indifferenza che, talvolta, si mostra verso la pratica del digiuno. Per i musulmani leggere il Corano e partecipare al culto, durante il periodo di

digiuno, è obbligatorio. In questo senso, noi cristiani accogliamo l'appello

del Pontefice "ad un maggior impegno nella preghiera, nella lectio divina, nel ricorso al sacramento della riconciliazione e nell'attiva partecipazione

all'Eucaristia, soprattutto alla messa domenicale".

.

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Articolo n. 6: “Un atto primordiale”, Enzo Bianchi

dal libro “Ingordigia. Il rapporto deformato con il cibo” – Enzo Bianchi – San Paolo Edizioni 2013

L’atto del mangiare non ha a che fare semplicemente con il nutrimento

fisico, ma più in profondità appartiene al registro del desiderio, riveste

importanti connotazioni affettive e simboliche: il mangiare è atto primordiale e riconoscimento iniziale del mondo, come testimonia

l’esperienza originaria del neonato che, perduto il paradiso del grembo

materno, cerca il piacere con la sua bocca. Così comincia a relazionarsi con il mondo esterno succhiando il seno materno per cibarsi, e poi

succhiando tutto ciò che può portare alla bocca. Il neonato cerca il seno

materno con desiderio prepotente e quasi insaziabile, e, animato da questa pulsione, non sa distinguere tra la matrice e la persona della

madre: vorrebbe divorare questa matrice, fonte e termine di ogni suo

desiderio e bisogno, vorrebbe averla tutta per sé. E noi oggi siamo avvertiti sul fatto che questa esperienza iniziale di desiderio e di

conoscenza, così come eventuali esperienze traumatiche vissute dal

bambino nelle relazioni con la madre, soprattutto nella fase dell’allattamento e dello svezzamento, rischiano di causare fissazioni o

regressioni a comportamenti infantili, allo «stadio orale».

Proprio quelle frustrazioni orali che segnano in profondità il nostro inconscio possono generare fami divoranti o altrettanto divoranti

astensioni dal cibo. È nel rapporto con il cibo, infatti, che si cercano

soluzioni al proprio malessere, con conseguenze mortifere: bisogno di ingurgitare grandi quantità di cibo o di bevande, fino alla bulimia, per

soddisfare un’irrefrenabile pulsione orale; oppure, al contrario, rifiuto di

ingerire il nutrimento necessario, fino all’anoressia. Prima di essere indice di un malessere spirituale, l’ingordigia si manifesta pertanto come

una furiosa perversione del desiderio, che può assumere il volto della

psicosi e della nevrosi: che cosa sono infatti bulimia e anoressia se non indici di turbamenti affettivi che si ripercuotono sull’alimentazione? E così

il cibo finisce per sostituirsi all’amore, e il rapporto con esso diventa un

mezzo per occultare la sofferenza: l’amore è irraggiungibile, mentre il cibo è a portata di mano… Con la bocca noi mangiamo, parliamo e anche

baciamo: le sfere della comunicazione, dell’affettività, della sessualità

sono implicate nell’oralità e sono simbolicamente presenti nell’atto dell’assunzione del cibo. Tuttavia nella voracità avviene lo stravolgimento

del mezzo in fine: il cibo non è più inteso come uno strumento per

vivere, per condividere e festeggiare, ma come una sorta di fine in se

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stesso, come piacere teso alla propria soddisfazione fino all’eccesso!

Ecco perché il percorso di crescita umana e spirituale richiede necessariamente la capacità di ordinare tutti i nostri appetiti, a partire da

quello fondamentale del cibo. Non si dimentichi inoltre che sta nello

spazio dell’ingordigia anche il cibo che con voracità acquistiamo oltre i nostri reali bisogni e che poi buttiamo via.

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Articolo n.7: “Dimmi cosa mangi…Il cibo tra memoria,

cultura e identità”, Marta Villa

Dal sito internet www.martavilla1.wordpress.com

La cucina di un popolo è la sola esatta testimonianza della sua civiltà. E. Briffault [1846]

Come mai la madaleine, quella piccola e apparentemente insignificante

focaccina dolce è diventata un paradigma letterario senza tempo?

Perché il cibo oltre che a nutrirci ci regala delle sensazioni e delle vere e

proprie emozioni a cui alle volte non sappiamo trovare una ragionevolezza? Marcel Proust nella sua “Recherche” descrive il suo

rencontre con un sapore dimenticato, quello della madaleine: “Ed ecco,

macchinalmente, oppresso dalla giornata grigia e dalla prospettiva d’un triste domani, portai alle labbra un cucchiaino di tè in cui avevo

inzuppato un pezzo di maddalena. Ma nel momento stesso che quel

sorso misto a briciole di focaccia toccò il mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva in me di straordinario. Un piacere delizioso m’aveva

invaso, isolato, senza nozione della sua causa”. Probabilmente a molti la

madaleine non dice nulla, ma basterebbe soltanto sostituire il mezzo del trasalimento proustiano, e si avrebbero la comparsa degli stessi sintomi

e degli stessi effetti. La madaleine è un paradigma anche per Proust:

quello che invece ci interessa sono le parole usate per descrivere le sensazioni: “trasalii, [...] avveniva in me di straordinario”. Quando un

sapore si affaccia agli organi sensoriali umani [olfatto e papille gustative]

e fa riemergere il profondo, ciascun individuo compie un viaggio emotivo a ritroso: un viaggio della memoria. Per l’antropologia questa

associazione di sapore e memoria è molto importante perché è una

operazione solo e squisitamente culturale. Un cibo potrebbe riportare alla

mente l’infanzia, un tempo perduto esteriormente ma assolutamente

vitale ed energico dentro di noi, oppure luoghi e tempi della vita legati a

ricordi, la potenza di un sapore è la capacità di far rivivere: per questo siamo incapaci di trovare una spiegazione plausibile con una parte del

nostro cervello, il sinistro, parlante e calcolatore, ad un’esperienza fatta

con l’emisfero destro, emotivo e sensoriale. Questo episodio letterario racconta molto dell’essere umano e del suo rapporto con il cibo. Un

grande antropologo e filosofo, recentemente scomparso, Claude Levi-

Strauss in diversi suoi scritti ha trattato il tema dell’alimentazione, portando all’evidenza molti esempi etnografici e permettendoci. Levi-

Strauss in particolare ha schematizzato le tradizioni alimentari dei popoli

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del mondo in un triangolo molto importante. Partendo dall’analisi dei

“miti della digestione”, come lui stesso li chiama, che raccontano molto dell’ideologia di ogni tradizione culturale, ha individuato uno schema

teorico che tentasse il più possibile di descrivere il rapporto con il cibo

delle diverse culture del mondo. Il celeberrimo “triangolo culinario levi-straussiano” vede ai tre apici le tre modalità comuni a tutte le culture di

trattare gli alimenti: il crudo, il cotto e il putrido. Questa suddivisione è

molto importante e ha permesso all’antropologo francese di classificare le cucine di molti popoli. Ma vediamo semplicemente lo schema teorico:

rispetto alla cucina, il crudo costituisce il polo non marcato, mentre gli

altri sono fortemente marcati, ma in direzioni opposte; il cotto come

trasformazione culturale del crudo e il putrido come sua trasformazione

naturale. La distinzione tra i tre poli del triangolo vede quindi delle ulteriori suddivisioni: elaborato/non elaborato da un lato e cultura/natura

dall’altro [...]. Lasciamo il triangolo di Levi-Strauss e ripercorriamo,

tenendolo però sempre in sottofondo, gli albori dell’umanità. I cacciatori paleo-mesolitici si nutrivano grazie alla selvaggina e alla raccolta dei

frutti spontanei, arrostivano le carni e spostandosi continuamente

esaurivano momentaneamente le risorse di un determinato luogo; seguivano le piste di caccia tracciate dalle loro prede e in questo modo

esploravano diversi territori. Circa 10.000 anni fa ci fu la grande

rivoluzione neolitica: “un vero e proprio mistero, perché peggiorò la vita dell’uomo, e non solo da un punto di vista nutrizionale. Non a caso, un

antropologo ha definito l’adozione dell’agricoltura il peggiore errore nella

storia della razza umana[3]”. Cambiarono le abitudini di vita e di conseguenza anche quelle alimentari: vennero selezionati semi e colture

più redditizie ma meno nutritive e animali più docili per essere allevati

senza pericolo. L’uomo si stanzia e incomincia a trasformare il territorio e il paesaggio in cui vive. Come i cacciatori nomadi anche questi contadini

rimangono comunque condizionati da due variabili importanti: il tempo,

la stagionalità che lega a sé i prodotti della terra, e lo spazio. L’uomo dal

neolitico in poi è riuscito con l’ingegno a rendere determinabili anche

queste due imprevedibili variabili. Molti agricoltori cercarono di inseguire

il mito dell’eterno Eden, di biblica memoria, e attraverso selezioni e serre riuscirono a far maturare frutti e verdure in stagioni diverse dal loro

normale ciclo biologico. Il fuoco fu sicuramente una delle scoperte più

importanti che permise di incominciare a trasformare gli alimenti: molte culture raccontano lo stesso mito prometeico del furto del fuoco agli dei.

L’uomo è l’unico essere vivente che ha trovato nel fuoco un alleato

formidabile per alimentarsi: i raffinati romani che amavano dilettarsi in banchetti dalle portate strabilianti provavano orrore per i popoli barbari

che consumavano carne cruda in sella ai loro cavalli, come racconta lo

stesso Tacito per i germani. Il cibo con il fuoco in effetti diventa più

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igienico e secondo la medicina galenica combina perfettamente i quattro

umori di cui si pensava fosse costituito l’essere umano e che solo in equilibrio davano il perfetto stato di salute. Nascono così dai romani in

poi da un lato i libri de coquina e dall’altro consigli e ricette tramandati

essenzialmente dalla cultura orale. Proprio le ricette della memoria investono quella dimensione di emozione che ancora oggi lega ciascuno

di noi alla propria identità: “a casa si mangia sempre meglio”, parole

proverbiali, che hanno una fondatezza. Fin da piccoli siamo abituati a mangiare quello che ci cucina la mamma; il nostro gusto, come lo stesso

galateo a tavola, sono appresi tramite un insegnamento agito, più che

teorico. [...]. Muller nel suo “Piccola etnologia del mangiare e del bere”

così difende la cucina della nonna: “il vero piacere del palato è quello

della buona vecchia cucina casalinga, sempre che si cresca in condizioni familiari ordinate, in cui sia possibile coltivare e rispettare le tradizioni.

Non è un caso che recentemente si stia diffondendo la nostalgia per la

cucina della mamma e persino della nonna”. Questo fenomeno ha spiegazioni profonde: il gusto è parte integrante della costruzione

identitaria di ciascun individuo, “siamo quello che mangiamo”, come

ricordava Brillant-Savarin, e la cultura è riconoscibile anche a tavola: ci sono alimenti e modalità di consumarli che in ogni cultura rientrano nella

sfera del sacro, come il riso nel Sudest asiatico, o il mais presso gli

indiani pueblo, il pane e il vino, cibi basilari nella cultura occidentale mediterranea, o l’olio d’oliva, da sempre usato per l’unzione in cerimonie

sacre fondamentali. Vi sono infatti alimenti che per alcune culture sono

assolutamente buoni e necessari e per altre nocivi e che servono ad includere nel gruppo: come il latte per i Nuer del Sudan, i cactus e le

piante selvatiche per i papato dell’Arizona, il miglio per i contadini

yemeniti. Gli stranieri invece sono allontanati da certi cibi perché soltanto il loro tocco o sguardo li renderebbe immangiabili: accade così al latte

presso i pastori hima nell’Africa orientale che viene bevuto solo dai

consanguinei, ai contenitori di birra presso i baka etiopi. Ma

l’allontanamento dalla tavola avveniva anche per i fuori legge del gruppo,

ossia coloro che avevano commesso infrazioni più o meno gravi. [...].

L’uomo moderno mangia sempre più spesso qualunque cosa, in qualunque momento e in modo qualunque; il pasto, quindi, così

destrutturato, induce a nutrirsi con un piatto unico o a stuzzicare

passando indifferentemente da un cibo ad un altro, con sempre maggiore apatia, soprattutto nelle metropoli, dove non si ha più tempo di

mangiare”. Alcune recenti ricerche hanno scoperto che in Germania, ad

esempio, la metà delle famiglie mangia insieme solo la domenica. I tempi e la flessibilità degli orari causati dalle attività lavorative hanno

ristabilito anche i modi del mangiare comunitario. I nostri nonni si

mettevano a tavola in base al sole quindi ad ore diverse nei diversi

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periodi dell’anno, ora invece si mangia ad orari stabiliti dalle pause

lavorative o ancora peggio dai programmi della televisione. La globalizzazione dei gusti sta mettendo in serio pericolo questo patrimonio

culturale: l’era dei fast-food, come è stato definito il nostro momento

storico dal dopoguerra in poi, cerca di rendere sapori tradizionali i vari mcpanini e le patatine fritte in ogni parte del mondo. Ancora Ariés

afferma che “il consumatore di hamburger diviene così un uomo senza

storia, senza memoria, che non mangia più per desiderio o per tradizione, ma per bisogno impulsivo o imitativo”. Fino a quando la

nostra madaleine ci farà trasalire forse saremo ancora immuni da questa

perdita di memoria e di identità: il problema forse sarà quello di trovare

ancora una madaleine o di averne fatto almeno una volta l’esperienza.

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Articolo n.8: “Cibo e Filosofia”, Massimo Donà

Da Micromega, Il Cibo e l’Impegno - quaderno gennaio 2005

Attraverso Feuerbach, Aristotele, Pitagora, Spinoza, Hegel, Agostino, Kant. Freud, Platone, Heidegger, Rousseau e altri, una riflessione sui

rapporti tra cibo e filosofia - il che significa, in ultima analisi, una riflessione su quel sempre diversamente mangiante che è l’uomo.

Nel 1850 uno dei più irrequieti allievi del grande Hegel recensiva assai favorevolmente uno scritto di Moleshott sull’alimentazione, interpretata

come ciò che avrebbe reso possibile il costituirsi e perfezionarsi della cultura umana. In base a tale prospettiva sembrava che il progresso di

ogni popolo dipendesse in primis da un imprescindibile miglioramento

dell’alimentazione. Significativo è in questo senso anche il titolo di un interessante scritto

del filosofo in questione: Il mistero del sacrificio o l'uomo è ciò che

mangia (1862). Secondo il quale si trattava appunto di rinvenire e sperimentare l’unità inscindibile fra psiche e corpo. Infatti, era proprio

per pensare meglio che sembrava necessario migliorare l’umana

alimentazione. Il filosofo in questione mal sopportava la pretesa ultimatività del sistema

hegeliano, e soprattutto riteneva quanto mai necessario sottoporre a

dura critica ogni forma di illusione religiosa. Un vero e proprio capovolgimento della prospettiva idealistica fu

insomma quello cui venne data vita da parte di Ludwig Feuerbach.

Abbiamo voluto riferirci subito a Feuerbach per introdurre un tema quanto mai spinoso e delicato: quello dei rapporti tra cibo e filosofia. Con

chi, altrimenti, avremmo potuto iniziare? Con chi, se non con colui il

quale ebbe il coraggio di affermare che l'uomo non è pensiero,

linguaggio, coscienza, anima, o qualche altra determinazione

metafisica... bensì, innanzitutto e soprattutto, ciò che ingerisce, magari

mosso da un istinto animale come quello della fame? Beh, la posta in gioco non è da poco; è evidente. Si tratta infatti di

tornare a fare i conti con l’antichissima questione dell’essenza dell'uomo.

L’affermazione di Feuerbach, dunque, sembra implicare la volontà di caratterizzare la natura umana non per distinzione (non, cioè,

distinguendola da quella degli altri animali), ma per identificazione

(riconducendola a ciò che vi sarebbe di comune tra l’uomo e gli animali). Ma è davvero così? Davvero l’uomo mangia come qualsiasi altro

animale?

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Certo, Aristotele definiva l’essere umano «animale dotato di logos». Ma

non va neppure dimenticato che, a definirsi animale, è, in Aristotele, un uomo che è tale solo «nel» e «per» il logos da cui è originariamente

costituito. D’altronde, è proprio «nel» e «dal» logos che viene

riconosciuta la sua originaria animalità. La duplicità costituente la natura umana non si dà cioè come semplice risultato di un addizione. Mai

l’animalità è nell’uomo realmente separabile dalla sua co-originaria

logicità. Insomma, l’animalità dell’ uomo è tutta e costantemente permeata di

«logicità» e razionalità. Mai un uomo è stato «dapprincipio» solo

animale. Il logos non risulta da una condizione originariamente animale.

Ma, di più ancora: anche l’animalità degli animali (degli esseri viventi

non umani) è solo dal logos riconosciuta quale insieme di funzioni analoghe a quelle caratterizzanti la vita dell’essere umano, e non

costituenti, neppure nell’uomo, una mera espressione del suo essere

logico. E cioè il logos a riconoscere negli animali la presenza di qualcosa che sarebbe appunto puramente «animale»; e, in quanto tale, analogo a

ciò che nell’uomo convivrebbe invece con la sua disposizione

raziocinante, pensante e linguistica. E il logos, dunque, a distinguere ciò che nel «parlante» direbbe la sua

semplice infanzia... ovvero una animalità analoga a quella «muta» (dal

punto di vista «logico») propria degli animali - ossia, di quegli esseri che non argomentano, non ragionano e non «parlano» in senso proprio. E il

logos feuerbachiano, infatti, a riconoscere la centralità di quella funzione

propriamente «animale» che consisterebbe appunto nell’atto del cibarsi. Il fatto è che quello del cibarsi è sempre e comunque un atto «logico».

Anzi, si costituisce come un vero e proprio concetto. Come negarlo?

Ossia, un concetto che, solo in quanto esprimente la vita di un vivente privo di logos, può alludere ad un atto in sé ripetitivo, sempre uguale a

sé, e privo di caratterizzazioni distinguenti - se non altro all’interno di

una medesima specie animale.

Insomma, l’ animalità, ossia la sua comunque ineliminabile «naturalità»

è nella vita dell’essere umano ab origine s-naturata. E cioè l’altro che il

medesimo riconosce in primis come «proprio» - ossia, come la sua stessa alterità... come alterità di sé rispetto a sé. E quindi come alterità

originariamente sottoposta all’imperium dell’identico.

Ma l’identico nell’uomo dice appunto «vocazione» alla distinzione, all’analisi, alla de-finizione. E dunque l’altro - ovvero, la monotona

identità della funzione animale - è nell’uomo originariamente distratto

dalla propria essenza. Ossia, è originariamente «distinto» e «distinguente». Perciò il mangiare è nell’uomo tutt’altro che una funzione

puramente animale. Anche il mangiare, nell’ uomo, è elemento logico e

distinguente. Perciò in Cina non si mangia come in Inghilterra, e neppure

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in Messico ci si sfama come in Romania. Perciò gli uomini «si

distinguono» anche per il modo in cui mangiano. Perciò l’uomo può essere sempre anche «in ciò che mangia». O meglio, può essere definito

nella propria essenza specifica come il sempre diversamente mangiante.

Come quel mangiarne che, nell’atto del cibarsi, non si ripete affatto. Perciò l’uomo può distinguersi come mangiante, e, nel mangiare, può

distinguersi anche rispetto agli altri esseri viventi.

Perciò, rilevare che, al contrario dei pitagorici - che non mangiavano carne - Nietzsche amava alquanto la trippa e i salami piemontesi (da lui

assaporati durante la nota permanenza a Torino), significa non solo

offrire qualche curiosa notizia sui gusti culinari dei filosofi, ma, assai più

radicalmente, determinare una caratteristica peculiare di quelle

determinate esistenze. Il misuratissimo Leibniz, poi tentava di non eccedere mai né nel cibarsi

né nel bere: proprio come Campanella, il quale invitava sì alla

temperanza nel mangiare e nel bere, ma sempre anche nelle altre attitudini etico-morali. Comunque, per il filosofo-teologo calabrese si

trattava di tener bene a mente che cibo e bevande vanno concepite

innanzitutto come «medicine». Da cui l’idea di un cibarsi inteso come un vero e proprio modo per curarsi.

Ma già al tempo della scuola pitagorica, molti sarebbero stati i filosofi

capaci di proiettare sul cibo e sulla sua assunzione un vero e proprio orizzonte di «senso»: rinviarne a un modo di essere mai scollegabile o

astrattamente distinguibile dalla pura meccanica dell’apparato fisiologico.

E in numero forse non minore sarebbero stati poi quelli capaci di individuare nel cibo una vera e propria fonte di piena felicità. In tale

prospettiva, il cibo e la sua assunzione alludevano a qualcosa che solo ad

un certo punto e per una fase ben delimitata dell’esistenza, avrebbe potuto aver a che fare con la mera sussistenza fisica (da cui la

considerazione di tutto il resto come «mero supplemento»). D’ altro

canto, anche per un filosofo come Spinoza il desiderio smodato di buona

carne e di buon vino sarebbe stato da condannare non in quanto tale,

ma solo perché animato da astratte e dunque incontrollabili passioni. Ma

soprattutto il teorico della dialettica, ossia il grande Hegel, pur lasciandosi non di rado andare a veri e propri resoconti culinari, estranei

in quanto tali a qualsivoglia giustificazione filosofico-teoretica (si

ricordino a questo proposito le suggestive pagine del suo Diario di viaggio sulle Alpi cernesi), avrebbe rigorosamente evitato di soffermarsi

a giudicare le pietanze. Eppure vi sono pagine straordinarie, dedicate,

sempre dal teorico della dialettica, al rapporto originario con il cibo da parte dell’animalità; ci stiamo riferendo alla Enciclopedia delle scienze

filosofiche - in cui, quello che potrebbe apparire come puro meccanismo

fisiologico, sostanzialmente estrinseco rispetto alla soggettività del

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vivente, si rivela custode di una complessità concettuale-filosofica

assolutamente stupefacente... dal medesimo peraltro sempre e comunque implicata, e valevole appunto quale momento essenziale di

un’articolazione universale e originariamente spirituale - dove, lo Spirito

è tale, per l’appunto, solo dopo essersi fatto logica, e quindi natura. E quindi anche «animalità» - ossia istinto.

D’altro canto, la fame, per Hegel, è innanzitutto un istinto; un istinto che

isola le cose inorganiche e le assimila consumandole. Ovvero, annullando le loro qualità particolari. Un istinto che fa dunque, della vita stessa in

cui trova espressione, «il conflitto continuo in cui essa prevale su questa

esteriorità».

Ma il processo connesso all’istinto della fame è per Hegel oltremodo

complesso - fatto come di un primo momento puramente meccanico: quello dell’impossessamento; e di un secondo... quello dell’assimilazione

(solo grazie a quest’ultimo l’esteriorità verrebbe ai suoi occhi rovesciata

nell’Unità del Sé), che, in quanto affezione di un organismo superiore, è vera e propria mediazione, e quindi digestione. Dove, «il ritorno entro sé

è la stessa negazione dell’attività rivolta verso l’esterno».

Insomma, proprio nel rapporto con il cibo, la vivente soggettività si fa soggetto concreto: e riesce a farsi tale solo nel suo corrispondente farsi

perfetta Universalità e autocertificantesi vita della physis.

Così il singolo individuo si ritrova totalità originaria perfettamente corrispondente all’Identità che tutto abbraccia e che già gli antichi

chiamavano Natura. Di più. in questo modo egli esiste come se stesso:

ossia continua ad esistere e vivere nella mera ripetibilità di un gesto che solo al logos è dato riconoscere e comprendere nella sua verità.

Eppure piacere e dolore sono sempre costitutivamente in gioco nella

dialettica del mangiare. Lo sapeva bene, ad esempio, sant’Agostino: che, proprio in tale connessione, aveva individuato il punto critico di un

esperienza altrimenti davvero puramente «naturale» - e perciò stesso

ingiudicabile, ossia perfettamente conforme alla Verità del Principio.

E qui, davvero, Hegel sembra lasciar trasparire, come in poche altre

pagine della sua monumentale opera filosofica, la radice profondamente

cristiana del proprio logos. Hegel sembra aver saputo far tesoro del monito agostiniano; anzi, sembra averlo saputo fare nel modo più

radicale.

Del gusto non si dice: perché - ben lo rilevava Agostino nelle Confessiones - esso è «compagno pericoloso», che spesso tenta di

prendere il sopravvento «in modo che si faccia per lui quello che si dice e

si vorrebbe fare per necessità di vita». Perciò Agostino avrebbe lottato con tutte le proprie forze contro tal

compagno; contro il godimento da esso comunque promesso. Lo avrebbe

fatto combattendo «una guerra di ogni giorno per mezzo del digiuno». E

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si sarebbe rivolto al Signore nella lucida consapevolezza della sostanziale

ineliminabilità di un tale peccato. Così si esprimeva l’autore del De Trinitate: «Tu mi hai insegnato ad accostarmi alla mensa come se

dovessi prendere una medicina. Ma quando passo dalla molestia della

fame al benessere della sazietà, ecco pronto ad insidiarmi, nel passaggio, il laccio della concupiscenza».

Una tentazione che è sia quella di godere di qualcosa che è pura fonte di

sostentamento(e che dunque non dovrebbe meritare riconoscenza alcuna, in quanto astrattamente considerato, nella sua finita e povera

individualità), sia quella di desiderare più del necessario (sempre

conseguentemente all’incombente potenza attrattiva di un’esteriorità

finita e facilmente raggiungibile).

D’altro canto, gli esempi cui guarda Agostino sono oltremodo illustri - già Esaù si era lasciato ingannare per la cupidigia di un piatto di lenticchie.

Per non dire di Davide, che rimproverò a se stesso il desiderio di un po’

d’acqua. Ma anche Gesù Cristo fu tentato dal pane, e non dalla carne (dopo il digiuno di quaranta giorni nel deserto). D’altronde, anche il

popolo ebraico nel deserto meritò di essere rimproverato, e non per il

desiderio di mangiar carne, ma perché, per il desiderio di carne, avrebbe mormorato contro il Signore.

E, se già Socrate preferiva mangiare per vivere piuttosto che vivere per

mangiare, anche il «critico» Kant riteneva saggio ascoltare il consiglio della natura; per lui infatti c'è una regola nella dieta del mangiare e del

bere; una regola che invita a smettere di mangiare se, dopo una piccola

pausa, si nota che essa (la natura) non ha bisogno più di nulla, anzi rifiuti il cibo.

Lo sapeva bene Sigmund Freud. Sapeva bene il medico viennese che

nell’ atto del mangiare vengono a galla pulsioni totalmente «libere» dalle catene dell’ordinamento logico tanto caro alla coscienza! E comunque,

sempre per il medico viennese, è proprio alla fondamentale funzione di

autoconservazione dell’lo (esprimentesi appunto nel soddisfacimento del

bisogno di cibo) che si appoggia - per dir così - la pulsione sessuale,

prima di guadagnare la propria indipendenza; ossia, prima di trovare le

proprie fonti organiche, e quindi una precisa direzione e nello stesso tempo un oggetto suo proprio.

Solo in seguito, e non sempre, comunque, il bisogno di ripetere il

soddisfacimento sessuale verrebbe diviso dal bisogno dell’ assunzione di cibo. Ma la complessità del legame tra bisogno nutrizionale e pulsione

inconscia è reso quanto mai evidente innanzitutto dal fatto (tra l’ altro

sempre più diffusamente rilevabile) che molto spesso un organismo affamato può finire per non manifestare alcuna pulsione al cibo, così

come un organismo sostanzialmente sazio può non veder in alcun modo

diminuita la propria pulsione alimentare.

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E poi, se il cibarsi non avesse a che fare con la torbida e misteriosa

dimensione dell’ inconscio, come potremmo spiegare la contraddittorietà caratterizzante l’atteggiamento del grande Wittgenstein? Il quale, se da

un lato, nelle Ricerche filosofiche, consigliava di darsi alla varietà della

dieta filosofica (senza la quale ci si ammalerebbe, a suo avviso, di vero e proprio «unilateralismo»), dall’altro si dichiarava sostanzialmente

indifferente a quel che gli avrebbero dato da mangiare, purché si

trattasse sempre della stessa cosa. Resta fermo comunque il fatto che anche il cibo, come il vino, non è cosa

che riguardi solamente il «sentire» - esso muove e smuove la riflessione,

il logos, la parola... il discorso.

Platone riteneva la culinaria una pseudoarte, che mirerebbe ad un

piacere risolutamente astratto; non convergente cioè verso il «bene» - che, del bene, costituirebbe anzi la massima confutazione. Perché

destinato a sedurre l’anima e il corpo con le proprie illusorie promesse -

sì da fare del godimento il dominatore incontrastato di una fragilissima contingenza, destinata peraltro all’immediato naufragio.

Eppure lo stesso fondatore dell’Accademia soleva paragonare la verbosità

e l’eloquio gratuito all’ intemperanza alimentare - per lui, infatti, il piacere della parola e il piacere del cibo coincidono nella bocca, ovvero

nel luogo assoluto della colpa.

Vero e proprio luogo dell’ambiguità, quindi, la bocca - della colpa e del peccato, ma anche della transizione, del passaggio dall’esterno all’

interno, della prima fase della digestione... ma soprattutto dell’incipit

cronologico (e forse non solo) dell’umana sessualità. E dunque dell’origine stessa della passione delle passioni; o anche, di quel patire

per cui siamo chiamati al desiderio prima ancora che un qualsivoglia

oggetto si stagli di contro a noi nella sua individualità determinata. Per bocca, cioè, siamo ab origine «desideranti» e dunque tutt’altro che

agenti o attori della nostra comunque fragile esistenza.

L’atto del mangiare non può esser inteso come semplice appropriazione

di un mondo esperito nella sua mera disponibilità, ma sempre come

evento dispiegantesi nell’incrocio di un doppio movimento - del mondo

che si offre, si evidenzia, si mostra e si sottrae, e dell’essere umano che si appropria di quello stesso mondo e ne dischiude l’avvento. Perciò il

mangiare è - come sapeva bene la grande tradizione cristiana- momento

di un appropriazione che ha da esser sempre anche un rendere grazie alla trascendenza che per esso si fa vera e propria occasione di

trasformazione. Esperienze di vera e propria comunione tra natura e

cultura, tra trascendenza ed immanenza, dunque, il buon cibo e le buone libagioni forniscono l’occasione di un’autentica koinonia che è sempre

anche in un legame multiplo e costitutivamente comunitario. Quello che,

nel nostro stesso stare a tavola (lo sapeva bene Rousseau), si fa anello

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di una catena che, sola, è in grado di attuare quella «società dei cuori»

cui veniva fatto cenno nella Nuova Eloisa a proposito dei pasti di Giulia e Wohnar.

Una societas erotik., mossa da «amor» che move il cielo e l’altre stelle, e

quindi da quell’eros che dalla bocca proviene e alla bocca tutto conduce. Una bocca che brama il cibo, perché solo nel cibo prolunga quel

desiderio, quella passione, quell’inappagabile passione che è sempre un

altro a comandare, a decidere, e quindi a trasfigurare in pura «philo-sophia» - teoria o visione appagante di un bello cui la manìa erotik

impedisce ogni volta di «stare».

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Articolo n.9: “Come dire “ Ti voglio bene”, Enzo Bianchi

da “Il pane di ieri” - Enzo Bianchi – Einaudi 2008

Parliamo di cibo. Non se ne può fare a meno, soprattutto per noi

monferrini: il cibo è qualcosa per cui si ha cura, si deve “aver cura” perché è proprio dal mangiare, dalla tavola che si ricevono lezioni e

insegnamenti, oltre che consolazioni. La tavola possiede o, meglio, possedeva un grande magistero: oggi purtroppo per molti il cibo è

diventato un carburante e la tavola una mensola su cui posare ciò che si

consuma. Si mangia qualsiasi cosa, a qualsiasi ora, in qualsiasi modo, accanto e non “insieme” a chiunque e, possibilmente in fretta.

Invece per me la tavola è stata sempre, e lo è tuttora, il luogo

privilegiato per imparare, per ascoltare, per umanizzarmi. Non è stato forse cosi fin dall’inizio della vicenda umana? E’ quanto affermano gli

antropologi, ma anche quello che verifichiamo noi stessi se usiamo

l’intelligenza per esercitarci alla consapevolezza di quello che facciamo. L’umanizzazione è passato principalmente attraverso la tavola, dalla

nutrizione alla gastronomia [intesa nel senso letterale di “legge del

mangiare”], dalla scoperta della coltivazione all’adozione del piatto, all’uso della tavola come luogo di incontro e di festa. L’uomo ha cessato

di essere un divoratore, un consumatore, frapponendo fra sé e il cibo riti

di macellazione, tecniche di cottura, maestria di miscelazioni, arte della presentazione dei piatti, del cibo e del vino: insomma, l’uomo ha

abbandonato l’atteggiamento dell’uomo cacciatore che mangia la sua

preda per assumere quello di chi crea un rapporto con il cibo. L’uomo è un essere che ha fame e il mondo intero è il suo cibo, l’uomo

deve mangiare per vivere, deve assumere il mondo e trasformarlo nella

propria carne e nel proprio sangue. L’uomo è quel che mangia e il mondo è la sua tavola universale, ma in questa operazione c’è lotta contro ciò

che è animalesco e c’è tragitto di cultura, di comunicazione, in vista di

una comunione non solo tra gli esseri umani, ma tra l’umanità e il mondo.

La cucina è la palestra d’esercizio di tutti i sensi, perché è soprattutto in

essa che si impara fin da bambini a distinguere il buono dal cattivo, il duro dal tenero, il dolce dall’amaro: la prima esperienza che noi abbiamo

fatto del buono e del cattivo è passata attraverso il cibo, cosi che per

tutta la vita usiamo queste due categorie per definire persone o eventi; perfino nel campo della morale il parametro con cui determinare ciò che

è bene e ciò che è male si rifà alla distinzione primordiale tra buono e

cattivo. La “semantica” fondamentale l’abbiamo imparata con la bocca:

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ciò che è commestibile e ciò che non lo è, ciò che possiamo mettere

dentro, mangiare, assimilare e ciò che assolutamente deve restare fuori. Pochi ci pensano, ma il cibo, come il linguaggio parlato, serve a

comunicare, a conoscere e scambiare le identità perché esprime si

l’identità di una terra e della sua cultura, ma sa assumere anche prodotti che vengono da altri lidi e altre culture: anche il semplice ragù è

tributario di regioni cosi lontane.

Accanto all’officina della cucina c’è poi l’epifania della tavola: li la cultura spicca il volo, il mangiare diventa convivio, l’occasione quotidiana di

comunicazione e comunione. Gli animali mangiano cibo crudo, senza

prepararlo, ognuno per sé, ma noi uomini abbiamo inventato il mangiare

insieme, la tavola, polo verso cui convergiamo ogni giorno. Ma cosa fa di

un tavolo una “tavola”? Innanzitutto il fatto di incontrarsi guardandosi in faccia, comunicando con il volto la gioia, la fatica, la sofferenza, la

speranza che ciascuno porta dentro di sé e desidera condividere. Si

pranzare o cenare insieme non è mai anodino: qualcosa dell’istante dell’evento si inscrive profondamente in noi e certi momenti pur effimeri

assumono un senso di eternità. Anche per questo nella tradizione

cristiana antica prima di iniziare a mangiare, si diceva una preghiera, si pronunciava una benedizione. Certo, per chi crede, i cibi sono già

benedetti: li ha creati Dio e non c’è nessuno “scongiuro”da fare su di

loro, ma questa tradizione serve all’uomo per dire grazie al Signore, per prendere consapevolezza di quello che sta davanti a noi sulla tavola e

quindi respingere la tentazione di divorare quanto sta nel piatto.

Davvero la cucina e la tavola sono l’epifania dei rapporti e della comunione. Del resto il cibo è come la sessualità: o è parlato oppure è

aggressività, consumismo; o è contemplato e ordinato oppure è

animalesco; o è esercizio in cui si tiene conto degli altri oppure è codificato e svilito; o è trasfigurato in modo estatico oppure è

condannato alla monotonia e alla banalità. Il cibo cucinato e condiviso –

il pasto – è allora luogo di comunione, di incontro e di amicizia: se infatti

mangiare significa conservare e incrementare la vita, preparare da

mangiare per un altro significa testimoniargli il nostro desiderio che egli

viva e condividere la mensa testimonia la volontà di unire la propria vita a quella del commensale. Si, perché nella preparazione, nella

condivisione e nell’assunzione del cibo si celebra il mistero della vita e

chi ne è cosciente sa scorgere approntato sulla tavola il culmine di una serie di atti d’amore compiuti da parte di chi il cibo lo ha cucinato e

offerto come dono all’amico. Far da mangiare per una persona amata,

prepararle un pranzo o una cena è il modo più concreto e semplice per dirgli: “Ti amo, perciò voglio che tu viva e viva bene, nella gioia!”

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Articolo n.10: “A proposito della difficile costruzione

dell’identità”, Laura Dalla Ragione

Amare è una grande fatica, perché per accogliere un amore o un amico bisogna preparare uno

spazio nell’anima e nella mente.

(Alda Merini 2005 )

Il tema della costruzione dell’identità , una ricerca continua, disperata,

affamata di identità è lo sfondo di queste malattie , ed è il punto da cui

si dipanano i discorsi intorno alle sindromi, ai sintomi difficili da

sottomettere alle classificazioni, ai numeri sconcertanti di questo fenomeno nuovo, che appare oltre alla forma psicopatologica, come una

nuova forma di soggettività.

Oggi il tema della costruzione dell’identità è strettamente collegato a molti disturbi degli adolescenti e non solo ( tossicodipendenze,

depressione precoce, autolesionismo, bullismo, disadattamento sociale) e

ci rimanda alla difficoltà di sostenere la propria idea di Sé in questo mondo, dove le condizioni della vita sono migliorate ma l’incertezza del

proprio essere nel mondo è paradossalmente aumentata.

Come avviene la descrizione di un'identità e la sua esternazione? La nostra identità non è ciò che noi siamo. Ma soprattutto per i giovani

l’identità è fatta dalle cose di cui si vestono, le parole che usano, la

gestualità che esprimono. Ma soprattutto è la possibilità che lo sguardo degli altri sappia riconoscerli e perciò possa decidere di accettarci per ciò

che siamo, o di rifiutarci per ciò che essi non vogliono per sé.

Il processo di costruzione dell’identità, processo difficile e mai concluso, continua fino all’ultimo giorno della nostra vita .Ma nel caso dei giovani

del nostro tempo entra in scena la potenza delle immagini dei

media1,che sono una fabbrica continua , inarrestabile di corpi inanimati e

aggiornati, di identità fasulle e senza etica. .

L'idea in fondo è che o si sta sulla scena o si è trascinati giù, nel vuoto,

nel nulla. Da questo punto di vista la società dello spettacolo (ma forse sarebbe più giusto definirla società dell'avanspettacolo) rappresenta un

perfetto rovesciamento della concezione socratica (ma poi anche

platonica e cristiana) della vita. Diceva Socrate : non importa se quel che fai qualcuno lo vede, lo approva, lo disapprova, e così via. Importa

che corrisponda al bene. Se sarà così, quel che avrai fatto è per sempre,

è tutt'uno con quel che è giusto che sia, e tu sei salvo. Invece noi diciamo (pensiamo): non importa se quel che fai è bene o male, importa

1 \Thompson J.B..Mezzi di comunicazione e modernità, Il Mulino,Bologna,1998

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che qualcuno lo veda, insomma che sia messo in scena, e allora anche il

gesto più ignobile, anche la vita più miserabile, saranno salvati dal fatto di avere un pubblico che nello stesso tempo ti deride e ti ammira.

Che cosa è accaduto? E' accaduto che la bellezza non è (non è più) se

non il fatto di apparire, cioè il fatto di essere in mostra. Quella luce della bellezza che un tempo sembrava disvelare misteriose profondità e

scoprire enigmi, oggi non indica altro che il fatto di essere sotto i

riflettori. Perciò la bellezza è diventata quella cosa banale e volgare che si mostra nei reality o nelle pagine dei giornali.

Più di una volta,in questi anni, mi sono interrogata di fronte alla

sofferenza di tante giovani vite, identità in costruzione, pezzi di mondo

senza ricomposizione. La partita che si gioca all’interno di tutti questi

disturbi è proprio quella dell’identità E’ un corpo a corpo senza rete in cui ognuno è libero e solo di fronte a se stesso, privato di quella placenta

sociale che consente nutrimento e protezione.

Senza rete significa, in primo luogo, senza la protezione di quello che per un bambino e un adolescente dovrebbe essere la principale

intermediazione con il mondo e cioè la famiglia., che vive in questo

momento , a sua volta, una difficoltà immensa a costruire una solidità di valori da trasmettere . Accanto a ciò una disattivazione emotiva di quei

vincoli che intrecciano amore,valori, sentimenti ed istituzioni.

Ma ancora più profondamente, la deriva dell’identità ha a che fare con qualcosa di più intimamente connesso alla relazione che ogni essere

umano ha oggi con il proprio mondo.

Soggetto e oggetto non si fronteggiano più nella modernità , come nella fisica e nella metafisica classiche,quali entità compatte che si sfidano.

Questi due poli tradizionali si articolano invece su schemi di massima

complessità e mobilità, in cui gli scontri sono meno liberi e gli antagonisti cambiano continuamente fisionomia e posizione: si moltiplicano,si

deformano, si mascherano, abbandonano in genere la semplicità

operativa di quelle che Sartre chiama “filosofie alimentari”( mai metafora

fu più indicata al tema) in cui il soggetto divora l’oggetto o viceversa. E

questo non riguarda , naturalmente solo il versante dell’oggetto che

abbiamo prima considerato ,la struttura del mondo fisico, del “cielo stellato” sopra di noi, ma anche ciò che sta dentro di noi.

Questa malattia ci consente di osservare direttamente, da un punto di

vista davvero particolare, i processi faticosi della costituzione dell’identità in un mondo globalizzato e dalla mitologia incerta, restituendoci

interrogativi non solo rispetto alla psicopatologia del disturbo, nelle sue

molteplici configurazioni,ma anche rispetto alla capacità dell’Io ,oggi,di costruire se stesso.

Non c’è dubbio che la rappresentazione di questo disturbo rimanda ad

una modernità dove l’abbondanza e l’accessibilità di cibo, in una certa

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parte del mondo, spinge gli individui più fragili e vulnerabili ad usare ciò

che è fonte di vita e nutrimento come uno strumento autodistruttivo. Ma è anche possibile, nella modalità alimentare che abbiamo descritto,

cogliere l’aspetto mercificato che sottintende un tale uso di Sé e del

cibo. Assistiamo ad una sorta di spostamento di emozioni e desideri, vivi e tra loro interagenti, verso oggetti disumanizzati , come in questo caso

il cibo: ma nelle società moderne, dove virtualmente ogni dimensione

dell’esistenza umana e del sentimento è stata gradatamente pervasa dal cosiddetto feticismo della merce, è possibile che un bene materiale, sia

esso un vestito firmato, una scarpa di tendenza, un dolce al mascarpone

oppure un elettrodomestico, si possa sostituire alla reciprocità

dell’attenzione spontanea e gratuita dell’amore, dell’ammirazione e

dell’accettazione. Nella legge del consumo, nell’idolatria degli oggetti che si diffonde

rapidamente , prodigare la propria attenzione amorosa a cose o a

persone può diventare un dilemma quotidiano. Fin dalla più tenera età, i bambini apprendono che i beni materiali sono un sostituito di sicurezza,

autostima e amore. E comprare sicurezza, ammirazione e amore è più

facile che non affrontare la complessità dei rapporti con esseri umani pericolosamente vivi ed imprevedibili. Il cibo può svolgere questa

funzione: la restrizione esasperata, l’avidità furibonda , il vomito ripetuto

per ore, nasconde la paura di relazioni autentiche, e diventa un modo per prevenire l’ansia, la depressione, la paura di vivere.

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Bibliografia

Libro : La casa delle bambine che non mangiano Autore: Laura Dalla Ragione Editore: Il pensiero scientifico Anno: 2005

Libro : L’anima ha bisogno di un luogo Autore: Laura Dalla Ragione e Simonetta Marucci Editore: Tecniche nuove Anno: 2007

Libro : Il vaso di Pandora Autore: Cesvol

Libro : Giganti d’argilla. I disturbi alimentari maschili Autore: Laura Dalla Ragione Marta Scoppetta Editore: Il pensiero scientifico Anno: 2009

Libro: L'inganno dello specchio. Immagine corporea e disturbi del comportamento alimentare in adolescenza Autore: Laura Dalla Ragione e Sabrina Mencarelli Editore: Franco Angeli Anno: 2012

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Libro: Guida alle regole alimentari ebraiche Autore: Assemblea dei Rabbini d’Italia

Editore: Lamed

Anno: 1996

Libro: Religione come cibo e cibo come religione Autore: Omar Marchisio

Editore: Franco Angeli

Anno: 2005

Libro: L’Islam a tavola. Dal medioevo a oggi Autore: L. Zaouali

Editore: Laterza

Anno: 2004

Libro: A tavola con le religioni Autore: M. Salani

Editore: Dehoniane

Anno: 2007

Libro: Sangue e diritto nella chiesa Autore: G. Boni, A. Zanotti

Editore: Il mulino

Anno: 2009

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Libro: Cibo e conflitti Autore: E. Pellecchia

Editore: Cnr

Anno: 2010

Libro: Il pane di ieri Autore: E. Bianchi

Editore: Einaudi

Anno: 2008

Libro: Il cibo come cultura Autore: M. Montanari

Editore: Laterza

Anno: 2005

Libro: Cibo, vino e religione Autore: Luciano Venzano

Editore: Erga

Anno: 2010

Libro: Come mangiamo Autore: L. Rappoport, M. Taborelli

Editore: Ponte alle grazie

Anno: 2003

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Libro: Come mangiamo Autore: P. Singer, Jm Mason

Editore: Il saggiatore

Anno: 2007

Libro: Sono infelice e mangio! Autore: Vincent Luise

Editore: Paoline

Anno: 2002

Libro: Perchè mangiamo troppo Autore: Kessler David A.

Editore: Garzanti

Anno: 2010

Libro: L’italiano a tavola Autore: Lo Cascio V.

Editore: Plan

Anno: 2009

Libro: Fatto in casa Autore: Manuela Vanni

Editore: Ponte alla grazie

Anno: 2010

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Filmografia

Soul Kitchen di Fatih Akin. Germania 2009 (99').

Ad Amburgo, un cuoco di origine greca, Zinos, gestisce un infimo

ristorante denominato Soul Kitchen. La clientela abituale sono i rozzi

abitanti della periferia, interessati solo a tracannare birra e ingurgitare

piatti surgelati o preconfezionati. Dentro e fuori dal Soul Kitchen ruota

tutto il microuniverso di Zinos e relativi problemi. Un'ernia al disco

improvvisa impone a Zinos delle sedute di fisioterapia e gli inibisce l'uso

cucina, così che viene assunto un nuovo cuoco esperto di haute

cuisine che, dopo uno scetticismo iniziale, trasforma il ristorante in un

locale molto in voga capace di offrire buon cibo e musica soul.

La grande abbuffata di Marco Ferreri. Italia - Francia 1973 (132')

Un gruppo di ricchi borghesi (uno chef, un giudice, un pilota d'aereo),

cui si aggiunge accidentalmente una maestrina, si riuniscono in una villa

fuori Parigi per una ininterrotta serie di incredibili mangiate. In realtà, il

loro fine è il sucidio. Sarà la maestrina a curarsi, personalmente, della

loro sepoltura.

Il pranzo di Babette di Gabriel Axel. Danimarca 1987 (103')

La cuoca parigina Babette Harsant, dopo aver perso il figlio e il marito

nella rivoluzione, si e’ trasferita in uno sperduto villaggio dello Jutland e

ha maturato una certa influenza sulla vita di due signore danesi delle

quali e’ governante. Un giorno Babette vince diecimila franchi alla

lotteria e decide di organizzare per le donne e alcuni conoscenti della

comunita’ un sontuoso pranzo. Nel corso del convivio emergono passioni

e sentimenti che fino a quel momento parevano sopiti.

Chocolat di Lasse Hallstrom. Usa 2000 (121')

Francia, 1959. In una notte ventosa la misteriosa Vianne e sua figlioletta

Anouk giungono nel paesino di Lansquenet-sous-Tannes. Vianne affitta

un negozio dalla vedova Armande e pochi giorni dopo apre un raffinato

negozio di cioccolata. Il negozio si trova proprio di fronte alla chiesa e

desta subito l'attenzione della piccola comunità. Il sindaco, conte di

Reynaud, giudice della morale pubblica non vede di buon occhio la

novità. Per di più Vianne ha una sorta di sesto senso per intuire le

debolezze di ognuno e per consigliare la pralina giusta per ogni

desiderio. In poco tempo il suo negozio diventa il più frequentato...

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Love, Live, Eat! 21-24 Marzo

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Il pranzo di ferragosto di Gianni Di Gregorio. Italia 2008 (75')

Gianni ha un lavoro: occuparsi dell'anziana madre, una nobildonna

decaduta, capricciosa e un tantino opprimente. Madre e figlio vivono soli

in un fatiscente appartamento nel centro di Roma e faticano a tirare

avanti, ricoperti di debiti come sono. Nel bel mezzo dell'afa estiva

Alfonso, l'amministratore, si presenta alla loro porta per riscuotere

quanto gli è dovuto, ma propone a Gianni l'estinzione di tutte le spese

condominiali in cambio di un favore: ospitare la madre per la notte e il

successivo pranzo di ferragosto in modo che lui possa partire per le

terme...

Mangiare bere uomo donna di Ang Lee. Taiwan 1944 (124')

Un cuoco vedovo, il miglior chef di Taipei, riacquista il suo gusto una

volta che le sue tre figlie se ne vanno di casa. Dopo Pushing Hands

(1991), inedito in Italia, e Il banchetto di nozze (1993), questa "soup-

opera" chiude un'ideale trilogia sui rapporti tra genitori e figli del sino-

americano A. Lee. I suoi due temi centrali sono la cucina (il cibo come

mezzo di comunicazione, metafora dell'esistenza, offerta di affetto che ne

diventa il sostituto) e il mangiare insieme come rito familiare che

esorcizza l'incapacità di comunicazione verbale dei sentimenti.

La finestra di fronte di Ferzan Ozpetek. Italia 1973 (87')

Giovanna e Filippo hanno due figli e, nonostante la loro giovane età,

sono sposati già da otto anni. È Giovanna a portare avanti la famiglia e

per questo ha rinunciato a tutti i suoi sogni. L'unico passatempo segreto è

quello di spiare la vita di un ragazzo che vive nell'appartamento di fronte.

Un giorno Giovanna e Filippo incontrano per strada un distinto signore

anziano che ha perso la memoria. L'uomo verrà accolto in casa loro e il

lento percorso per il recupero della memoria porterà Giovanna a indagare

le sue passioni e a ritrovare se stessa.

Pranzo reale di Malcolm Mombray. Gran Bretagna 1984 (93')

In una cittadina dello Yorkshire nell'immediato dopoguerra, i notabili

vogliono organizzare un pranzo, nonostante i razionamenti postbellici, in

onore del matrimonio di Filippo ed Elisabetta. Allevano così, di nascosto,

un maiale. Ma la moglie del callista, offesa per non essere stata invitata,

ruba l'animale. Sceneggiata da Alan Bennett e diretta dal suo ex

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assistente M. Mowbray, è una delle più acide descrizioni della società

inglese, condita con umorismo al vetriolo. Ottimo cast con due applausi

speciali: M. Palin, il pedicure, e M. Smith, la petulante consorte.

Cous Cous di Abdel Chechiche. Francia 2007 (151')

Beiji, 6o anni, lavora alla riparazione delle imbarcazioni nel porto di

Sète, vicino a Marsiglia. Poco disposto alla flessibilità che la nuova

organizzazione impone, viene licenziato. Beiji è divorziato e ha una

nuova compagna ma non ha perso i contatti con la famiglia. Ora l'uomo

vuole realizzare un sogno: ristrutturare una vecchia imbarcazione e

trasformarla in un ristorante in cui proporre come piatto forte il cuscus al

pesce. Nonostante le difficoltà economiche Beiji trova l'aiuto di tutti i

familiari e l'impresa pare destinata al successo.

Tampopo di Juzo Itami. Giappone 1986 (114').

Tampopo è il nome di una vedova proprietaria di un posto di ristoro in

cui si cucinano i "ramen" (spaghetti giapponesi). Con l'aiuto del

camionista Goro il suo ristorante diventerà il più noto della città. Film

allegro e divertente che non è soltanto un inno all'arte culinaria, ma

anche a quella del raccontare, dell'appendere aneddoti e divagazioni su

un unico filo conduttore. Itami (vero nome Yoshihiro Ikeuchi), figlio del

regista Mansaku Itami, attore (55 giorni a Pechino, Lord Jim), regista dal

1984, morì suicida nel '97 gettandosi dall'8° piano di un palazzo in cui

aveva l'ufficio. La mafia giapponese potrebbe non essere estranea alla

sua morte.

Piovono polpette di Phil Lord, Chris Miller. Usa 2009 (90')

Flint Lockwood fin da piccolo ha avuto la passione per le invenzioni ma

c'era sempre qualcosa che non andava a buon fine. Come quando aveva

inventato lo spray che creava dal nulla scarpe che aderivano

perfettamente al piede dimenticando però di inventare il modo per

poterle sfilare. Divenuto adulto, e abitando in un'isola la cui unica

produzione fonte di alimentazione sono le sardine, prova ad inventare un

marchingegno che trasformi l'acqua in alimenti. Anche in questo caso

sembra destinato al fallimento ma quando, per un eccesso di energia, la

macchina finisce con l'essere lanciata nel cielo sopra l'isola accade un

fatto mai visto prima. I fenomeni atmosferici si trasformano in

precipitazioni di cibo.

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Big Night di Stanley Tucci. Usa 1996 (107')

Due fratelli emigrati calabresi hanno aperto un ristorante in una cittadina

del New Jersey negli anni '50. Devono offrire una cena di gala, per il

rilancio del locale, a Louis Prima, famoso musicista e intrattenitore

italoamericano. Commedia agrodolce con molti meriti. Attraverso le

fessure filtra più di un tema serio. Merita un posto d'onore nel cinema

che ha il cibo come epicentro.

Super size me di Morgan Spurlock. Usa 2004 (98’)

Morgan Spurlock si sottopone ad una ferrea dieta a base di grassi. Per tre

volte al giorno dovrà consumare i pasti da MacDonald's, avvalendosi

della vasta scelta di percorsi calorici da loro consigliati, sempre in

formato "supersize". Il tutto per un mese. Tre esperti, un cardiologo, un

nutrizionista e un gastroenterologo seguono il cammino dietetico del

regista, prima, durante e dopo. Le conseguenze mediche, subite dal corpo

di Spurlock, sono ciò che il film si propone di dimostrare. Una ricerca

stilistica e visiva eccellente per il genere e un ritmo piacevole, divertente,

a tratti degno di una commedia, rendono questo documentario di livello

mondiale, adatto a tutti, educativo, oltre che manifesto reale di un quadro

lucido e cinico della società americana.

Food di AA. VV. Italia 2012 (90')

23 giovani registi di 23 nazioni diverse si alternano per trattare il tema

dello spreco di cibo nel mondo. La fame nel mondo è prevista

raggiungere un livello storico con 1,02 miliardi di persone in stato di

sotto - nutrizione. La pericolosa combinazione della recessione

economica mondiale e dei persistenti alti prezzi dei beni alimentari in

molti paesi ha portato circa 100 milioni di persone oltre la soglia della

denutrizione e della povertà croniche.

Satyricon di Federico Fellini. Italia 1969 (137')

Da Petronio Arbitro (I secolo d.C.): peripezie di Encolpio e Ascilto, due

giovani parassiti che vivono di espedienti, nella Roma di Nerone. Nella

sua struttura di ricognizione onirica di un passato inconoscibile e di

rapporto fantastorico sulla Roma imperiale al tramonto, come guardata

attraverso l'oblò di un'astronave, non nasconde le sue ambizioni di essere

un film sull'oggi.

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Un ringraziamento particolare a tutti gli studenti e le studentesse che hanno offerto la loro collaborazione e il loro supporto nella realizzazione del seminario:

Noemi Adipietro, Anna Bordin, Michele Brescia, Luigi Campa, Anna Maria Cimino, Gaia Coltorti, Luisa Muccilli, Matteo Mancini, Gabriele Tucciarone, Angelo Tumminelli, Giuseppe Varricchione.

Valentina Mezza

Valentina Piras

Giulia Santi

Camilla Valentini

Gennaro Cataldo

Adolfo Perrotta