Semestrale di filosofia, consulenza e pratiche filosofiche...Chiara Zanella Comitato scientifico:...
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Semestrale di filosofia,consulenza e
pratiche filosofiche
Anno VII, numero 13 Ottobre 2009
Phronesis
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PhronesisSemestrale di filosofia,
consulenza e pratiche filosofiche
Anno VII, numero 13, ottobre 2009
Direzione: Davide Miccione, Neri Pollastri
Redazione: Francesco Dipalo, Giorgio Giacometti,Moreno Montanari, Stefano ZampieriChiara Zanella
Comitato scientifico: Giuseppe Ferraro, Umberto Galimberti,Pier Aldo Rovatti, Luigi Lombardi Vallauri,Alessandro Volpone
Per contatti e contributi scrivere a: [email protected]
ISSN 2038-1263Reg. Tribunale di Firenze n. 5282 del 23 giugno 2003Editore: Neri Pollastri, per conto di Phronesis, Associazione Italiana per la ConsulenzaFilosofica, via Blaserna 101, 00146 RomaDirettore responsabile: Neri PollastriLa rivista telematica è posta allâURL: www.phronesis.info/RivistaI.htmlService provider: Technorail s.r.l, Piazza Garibaldi 8, 52010 Soci Bibbiena (AR).ŠPhronesis, Associazione Italiana per la Consulenza Filosofica.Tutti i diritti riservati
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Indice
Editoriale di Neri Pollastri 5
SAGGIQuattro glosse sulla pratica della pratica filosoficadi Davide Miccione 9
ESPERIENZEI temi della consulenza filosofica. Unâindaginedi Stefano Zampieri 29
CONVERSAZIONITavola rotonda su âPratica Filosofica e scritturaâ 47
DIRITTO E ROVESCIO
Vito Mancuso, La vita autentica(di Augusto Cavadi e Neri Pollastri) 75
REPERTORIO
EugĂŠnie Vegleris, Manager con filosofia(di Paolo Cervari) 93Roberta De Monticelli, La novitĂ di ognuno(di Anna Colaiacovo) 101
Iona Heat, Modi di morire(di Augusto Cavadi) 107Robert Louis Stevenson, Elogio dellâozio(di Giuseppe Speranza) 111
NOTIZIARIO
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Editoriale
di Neri Pollastri
Questo tredicesimo numero della nostra rivista porta con sĂŠ una gran-de e attesa novitĂ : la sua uscita a stampa, con lâeditore Aracne. La rivistacontinuerĂ ancora ad essere reperibile in formato pdf sul sito webdellâAssociazione, ma potrĂ essere acquistata in forma cartacea sui prin-cipali siti librari presenti in rete o direttamente dallâEditore. Ă prevista laprogressiva stampa anche dei numeri precedenti.
Il passaggio a stampa impone un livello qualitativo che speriamo diaver raggiunto - i commenti che abbiamo raccolto in proposito ci con-fortano - ma che non sarĂ facile mantenere. Una sfida in piĂš per la rivi-sta, per lâAssociazione e per tutti coloro che si muovono con serietĂ ecompetenza nel mondo delle pratiche filosofiche.
Proprio per affrontare tale sfida in modo appropriato abbiamo cercatoe ottenuto il supporto di alcune tra le personalitĂ piĂš eminenti della filo-sofia italiana che si occupano di questo settore e che, in questi anni, han-no collaborato con noi. Da questo numero, infatti, faranno parte del co-mitato scientifico Giuseppe Ferraro, Luigi Lombardi Vallauri e Pier AldoRovatti, che si aggiungono a Umberto Galimberti. Onorati della loropresenza, li ringraziamo e contiamo sul loro contributo, sia critico checostruttivo, per far ancora crescere la rivista e lâAssociazione.
Come avrete già notato, il passaggio a stampa ha richiesto anche unamodifica del formato della rivista, adesso leggermente piÚ ampio. Anchequesto era un cambiamento invocato da molti lettori, che ritenevano ilvecchio formato poco pratico. Speriamo con ciò di averli accontentati.
Passando ai contenuti, per questo numero a suo modo âstoricoâ pos-siamo vantare la presenza di importanti contributori.
Nella sezione âSaggiâ abbiamo infatti un interessante articolo del con-direttore Davide Miccione, che fa lucidamente il punto su alcuni deimolti temi caldi e delicati della consulenza filosofica, proponendo rifles-sioni critiche che certo non lasceranno indifferenti professionisti e stu-diosi.
Nella sezione âEsperienzeâ, inaugurata nel numero precedente, tro-viamo uno studio statistico del Presidente di Phronesis, Stefano Zampieri,che affronta il tema - finora troppo trascurato - delle âtipologieâ di per-
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sone e problematiche che a oggi si incontrano nella consulenza filosofica.Lo studio ha, volutamente, un carattere orientativo e non avanza pretesedi completezza o definizione, ma merita una seria e attenta considerazio-ne, specie alla luce della convinzione - dentro Phronesis ampiamente con-divisa - che sia giunta lâora di dedicare gran parte delle forze di coloroche si muovono nel campo a sviluppare e, possibilmente, affermare ilpotenziale professionale delle pratiche filosofiche.
Le âConversazioniâ sono stavolta giocate âin casaâ: riportano infatti lasbobinatura di un confronto dialogico svoltosi il 17 luglio 2009nellâambito del VII Seminario Nazionale di Phronesis, tenutosi a San Feli-ce di Benaco, sul Lago di Garda. Vi presero parte, con il sottoscritto,Giorgio Giacometti, Davide Miccione e Stefano Zampieri. Il tema - ilrapporto tra pratica filosofica e scrittura - è tra i piĂš rilevanti, dal mo-mento che su di esso si gioca, a torto o a ragione, una delle principali dif-ferenze tra pratiche filosofiche e filosofia tout court. Come si potrĂ vedere,le posizioni espresse sono assai diversificate e di conseguenza - una cosain filosofia sempre auspicabile - non si giunge a conclusioni definitive. Allettore, dunque, lâultima (sua) parola.
Nello spirito di questa ricerca di nuove e originali forme di scrittura perla pratica filosofica, la sezione âDiritto e rovescioâ riporta un contrad-dittorio âepistolareâ su La vita autentica, ultimo lavoro di un autore chegode oggi di forte popolaritĂ qual è Vito Mancuso. Questa modalitĂ âdialogicaâ di interpretare criticamente degli scritti ci sembra infatti piĂšcongrua allo spirito della pratica e perciò abbiamo pensato di adottarlanella nuova rubrica.
âRepertorioâ presenta invece la recensione dellâinteressante libro Mana-ger con filosofia della francese EugĂŠnie Vegleris, una delle poche consulentifilosofiche al mondo a lavorare con continuitĂ e successo con le aziende.Accanto a esso, recensioni dellâultimo lavoro di Roberta De Monticelli,dellâinteressante lavoro di Iona Heat Modi di morire - che tocca il tema pernoi rilevantissimo del rapporto con persone prossime alla fine della vita -e di un curioso lavoro di un importante autore classico come RobertLouis Stevenson.
Infine, nel âNotiziarioâ, assieme alle ultime uscite del settore, trovereteil resoconto di un interessante convegno sui rapporti tra filosofia, psico-logia e psichiatria.
Non ci resta a questo punto che augurarvi, come sempre,
buona lettura!
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Saggi
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Quattro glosse sulla praticadella pratica filosofica
di Davide Miccione
IntroduzioneIn principio ognuno cavava da sĂŠ la consulenza âsenza macchiarsi con
lâempiriaâ. Essa veniva costruita iuxta propria principia. Dal concetto diconsulenza e da quello di filosofia, variamente alternati, opposti, conci-liati, ibridati, confusi, nasceva la trattazione sulla consulenza filosofica.Achenbach del resto non avrebbe potuto fare altrimenti e, limitandociallâItalia, anche Andrea Poma, come primo teorico di un movimento cheancora non esisteva, era ben giustificato ad agire in tal guisa1; giĂ LucianaRegina, però, qualche anno dopo riteneva fosse il caso, per farlo, di ante-porre una giustificazione teorica al fatto, effettivamente singolare ma nonsconosciuto alla storia del pensiero, di dover mettere tra parentesi tuttociò che si era scritto finora su un argomento e proporre una monografiasul medesimo che partisse dalla sola definizione e venisse da questa inte-ramente tratta.2 Anche in anni a noi piĂš vicini la âconsulenza a prioriâ hamietuto successi, benchĂŠ progressivamente meno innocenti: si pensi adesempio a Dal Lago, e alla sua piccola impresa consistente nella stesuradi un pamphlet di condanna della disciplina senza conoscerla, coprendoappena il solipsistico godimento con le foglie di fico di alcuni testi rac-cattati in siti internet3.
A parte questi casi residuali il dibattito però, seppur discontinuo, ormai
1 Andrea Poma, La consulenza filosofica, in âKykĂŠionâ, N. 8, settembre 2002, pp. 37-54.2 Cfr. Luciana Regina, Consulenza filosofica: un fare che è pensare, Unicopli, Milano 2006, pp. 13-14.
Non diversamente mi sembra agisca Pier Aldo Rovatti nel suo La filosofia può curare?, RaffaelloCortina, Milano 2006.
3 Alessandro Dal Lago, Il business del pensiero, Manifestolibri, Roma 2007. Ancor piĂš di recente lostorico della filosofia Luciano Malusa si è prodotto in una presa di distanza dalla consulenza filo-sofica, piĂš elegante ed equilibrata di quella proposta da Dal Lago, ma non meno estranea a ognianalisi delle teorie e delle narrazioni concrete che il mondo della consulenza da anni ormai produ-ce. Cfr. Luciano Malusa, Riflessioni sulle âpratiche filosoficheâ: luci ed ombre della consulenza filosoficaÂť, inFrancesco Coniglione (a cura di), Interpretare, vivere, con-filosofare. Studi in Memoria di Rosaria Longo,Bonanno, Acireale-Roma 2010. Uno sguardo piĂš ampio su quello che qui abbiamo scherzosa-mente (e anche un poâ amaramente) definito âconsulenza a prioriâ in Neri Pollastri, Consulentefilosofico cercasi, Apogeo, Milano 2007, pp. 8-20.
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esiste ed esiste anche la letteratura secondaria. Altra questione è se questaletteratura stia adempiendo i suoi molteplici compiti. Se cosĂŹ fosse avreiqualche difficoltĂ a spiegare lâimbarazzo provato qualche tempo fa nelrispondere a una normale richiesta di riferimenti bibliografici da parte diun neofita. Lâargomento specifico su cui venivano richiesti lumi (o me-glio, dove questi lumi stessero) in teoria sarebbe dovuto essere del tuttoovvio e potrebbe discorsivamente essere cosĂŹ riassunto: cosa accade con-cretamente in consulenza?
Il mio interlocutore, dopo aver dato un veloce ma non sommariosguardo alla bibliografia piĂš facilmente reperibile, mi confidava la sensa-zione di trovarsi di fronte a tanti testi che gli spiegavano il senso dellaconsulenza, il suo posto nella filosofia, la sua differenza con la psicologia,temi assai astratti a suo dire. Oppure - antiteticamente - scritti che lomettevano a parte di casi specifici di consulenza, raccontati spesso inmodo tale da rendere assai difficile da parte del lettore (ancor piĂš se nonesperiente) lâidentificazione delle differenze con una seduta di psicotera-pia o comunque la generalizzazione del tipo di atteggiamento. Mai nullache rispondesse alle domande banali di uno che voglia âimmaginarsiâ,anche solo per gioco, consulente o consultante. Che queste richieste re-stino inevase colpisce ancor di piĂš se si pensa che quasi tutti coloro chehanno tenuto corsi o presentazioni sul tema hanno ricevuto domande as-sai concrete: sulla presenza o meno, in seduta, di testi scritti, da assegnareo leggere insieme; sulle citazioni di opere o di passi; sul rapporto con leteorie dei filosofi e la loro esattezza filologica; su quanto parlare rispettoal partner dialogico; se si può dare torto al consultante; se si può dire chenon si è dâaccordo eccetera. Insomma hanno ricevuto, sotto difformispoglie, la domanda: âcosa accade concretamente in consulenza?â.
Ovviamente lâidea di aprire un libro e trovare la risposta a queste do-mande non sarebbe filosofica nĂŠ educativa per lâaspirante consulente,non sarebbe neppure un segno di salute per il mondo della pratica filoso-fica. Dubito però che, come accade, il non trovare le risposte e neppure ilsemplice confronto tra consulenti su questi temi sia anchâesso un gransegno di salute.
La sensazione è dunque che nella letteratura secondaria di cui da qual-che tempo iniziamo ad andare fieri ci siano dei grossi buchi. Per rifletteresulla storia della consulenza o fare una panoramica delle figure dei con-sulenti e delle loro teorie i testi non mancano, nĂŠ mancano i tentativi diraccordare la pratica alle correnti della filosofia contemporanea (penso aFrega, Galimberti, Rovatti, Volpone) o di indagare lâaraba fenice dello
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statuto epistemologico. Sparsi qui e lĂ non mancano neppure i resocontidi casi. Dunque da una parte avremmo i casi che è possibile raccattarenei vari libri dei consulenti, dallâaltra dotte disquisizioni di metapratica. Enel mezzo? Cosa ci andrebbe nel mezzo? Probabilmente ci andrebbelâesperienza del filosofo pratico non schiacciata sui singoli casi, ma nean-che esclusivamente assorta nella contemplazione del ruolo o del fonda-mento o della storia della consulenza filosofica.
Non credo che questa voragine tematica sia casuale. Piuttosto è figlia(come sempre) di una biografia, della peculiare biografia della consulenzain Italia. Innanzitutto la posterioritĂ della pratica rispetto alla teorizzazio-ne. Difficile nei primi anni poter esercitare con frequenza, dunque diffi-cile affrontare i problemi della âpratica della praticaâ. A questo vuoto diesperienze (non solo italiano) si è risposto perlopiĂš avvitandosi in un la-voro storico-epistemologico-identitario. Esso era necessario per giustifi-care lâesistenza della consulenza filosofica in un panorama giĂ affollato eper presentarsi decentemente negli ambienti della filosofia accademica.Una vocazione tipicamente giovanile, comprensibile ma indubitabilmentedifensiva.
Il problema fondamentale, inizialmente, era costituito dallâannoso con-fronto con le psicoterapie ed era (è) complicato dalla crisi delle medesi-me. Chi si è trovato a diffondere e presentare la consulenza filosoficaaveva davanti, ossessionante e inarginabile, la richiesta di differenziarsidalle psicoterapie. Ma come differenziarsi in due parole da qualcosa inpossesso di unâidentitĂ sempre piĂš labile e divaricata? La miriade di psi-coterapie brevi, a loro volta alla ricerca di qualcosa per differenziarsi leune dalle altre, alla ricerca di stimoli e ibridazioni, sembrava coprire ilcampo dellâimmaginabile. Se lâapologeta della consulenza filosofica face-va risaltare la differenza con la sua disciplina a partire dai temidellâinconscio, rapida era la risposta di un seguace della corrente com-portamentale razionale emotiva (irrilevante qui se fosse uno studioso, unterapeuta, un simpatizzante, un ex o attuale paziente) nel sostenere che lostesso era per loro, che anche loro infatti nellâinconscio non credevano4.
4 Mostrando con queste discipline un rapporto meno competitivo e ansioso non sono pochi
comunque, i consulenti che in questi anni, in varie guise e da varie angolazioni, hanno messo inevidenza aspetti di affinitĂ tra la consulenza filosofica e lâuniverso delle psicoterapie brevi, conparticolare riguardo ai lavori di Ellis, Rogers e Frankl. Si veda ad esempio Elliot D. Cohen, Il pro-cesso della logic-based therapy: un approccio alla consulenza filosofica, in âPratiche filosoficheâ, n. 2,Ottobre 2003; Stefano Zampieri, Una certa somiglianza di famiglia. Consulenza filosofica e psicologia uma-nistica, in âPhronesisâ, Anno IV, n. 6; Monica CavallĂŠ, La consulenza filosofica e le emozioni:
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Se si tematizzava la questione della pari dignitĂ dei dialoganti, era un ro-gersiano a dirti che âquestaâ lâavevano inventata loro;, se parlavi di signi-ficato, terreno prediletto della filosofia, era il frankliano a rintuzzarti.Persone che avevano fatto della frequentazione di svariate terapie quasiun hobby erano pronte a riconoscere (senza troppi distinguo in veritĂ ) inquello che dicevi un tratto identico a quello fondamentale della terza oquartâultima terapia a cui si erano sottoposte.
Qualche consulente ha cercato di inserire delle note di saggezza, operlomeno una maggiore articolazione, in questa convulsa faccenda.Ruschmann, ad esempio, ha ricordato come la cosiddetta psicologiaumanistica nel suo presentarsi, a partire dagli anni Sessanta del Nove-cento, avesse ampiamente saccheggiato la filosofia: ÂŤmolte delle persona-litĂ coinvolte erano fortemente influenzate da filosofi, alcuni si definiva-no âpsicoterapeuti esistenzialiâ e facevano riferimento a Kierkegaard,Nietzsche, Heidegger, Sartre, Buber, Tillich, Ortega y Gasset ecceteraÂť ecome lo sguardo dei contemporanei leggesse le critiche della psicologiaumanistica a psicoanalisi e comportamentismo ÂŤcome aventi un carattereâfilosoficoâ piĂš che âpsicologicoâÂť5. Ciò avrebbe dovuto indurre a mag-giore prudenza chi ravvisava plagi in somiglianze tra consulenza filosofi-ca e alcuni indirizzi della psicologia che qualche anno prima avevanoprelevato questi elementi dal generoso patrimonio della riflessione filoso-fica stessa. Ma la questione nasceva stortignaccola fin dallâinizio, dal pec-cato originale di aver presentato la consulenza filosofica (di rimbalzodallâesperienza statunitense) in modo sfavorevole: schiacciata sul counse-ling psicologico fin dal nome6. Ancora nel 2006, Moreno Montanari, tra iteorici piĂš ambiziosi del panorama pratico-filosofico italiano esordiva inuna prefazione a un volume sulla consulenza con questa frase: ÂŤnono-stante le importanti peculiaritĂ che questo libro vuole mettere in eviden-
unâapplicazione degli insegnamenti di EpittetoÂť, in âPhronesisâ, Anno V, n. 8; Neri Pollastri, Il pensiero ela vita, Apogeo, Milano 2004, pp. 110-124.
5 Eckart Ruschmann, Consulenza filosofica. Prima parte, a cura di Rosaria Longo, Armando Sicilia-no, Messina 2004, p. 70. Similmente sul tema si esprime Ran Lahav, Comprendere la vita, Apogeo,Milano 2004, p. 19.
6 Per una ricostruzione ânominalisticaâ della vicenda mi permetto di rimandare al mio La consu-lenza filosofica, Xenia, Milano 2007, in part. le pp. 16-17. Per una riflessione sulle ricadutedellâequivoco che ha portato alla costruzione di quello che ho definito il âsosiaâ e sulle possibilivie dâuscita concettuali verso una pratica filosofica emancipata dalla scarsa libertĂ concessa da unalettura terapeutica della disciplina si veda il mio Achenbach come educatore. Considerazioni inattuali sullapratica filosofica, in Neri Pollastri, Davide Miccione, Lâuomo è ciò che pensa. Sullâavvenire della praticafilosofica, Di Girolamo, Trapani 2008, in part. le pp. 81-106.
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za, la consulenza filosofica è ascrivibile al piĂš ampio orizzonte delle atti-vitĂ di counseling dâindirizzo umanisticoÂť7. Un errore che Achenbach avevacercato di contrastare fin da principio e che in una societĂ ossessionatadalla terapia (psicologica o meno)8 si paga profondamente e a lungo.Dopo unâora di âAchenbachismiâ, in una lezione di âIntroduzione allepratiche filosoficheâ per la Scuola di Specializzazione allâInsegnamentoSecondario (SIS) una specializzanda laureata in Psicologia mi chiese(ignorando tutte le possibili questioni filosofiche) se la consulenza venivafatta in poltrona o lettino. Mi trovai a destare il suo scandalo sostenendoche, in fondo, se non câera troppo traffico, andava bene anche una pas-seggiata in bicicletta. Costei urlò inorridita: âe il setting dove va a finire?â.
Difficile intendersi. Difficile spiegare in unâepoca dove al linguaggiopsicoterapeutico viene assegnato dâufficio il compito di parlare di tuttociò che non ricada immediatamente sotto lâaltro linguaggio, quello tecno-cratico-mercantile. In un periodo in cui si pensa comunemente chelâempatia sia un termine inventato dalla psicoanalisi è assai improbo pro-vare insieme a ripensare il rapporto intersoggettivo a âprimaâ della lettu-ra che ne fa la psicologia. Difficile soprattutto se non si ricorda piĂš, perabitudine e ignoranza, che quella psicoanalitica e psicoterapeutica è unalettura - geniale o sciocca qui non conta - tra le tante possibili.
In questa situazione era comprensibile che i consulenti filosofici parlas-sero con piĂš agio di Kant che non della deontologia e dei suoi vincoli, adesempio, o della distanza da tenere nei confronti dei consultanti, insom-ma delle domande di cui prima davamo qualche saggio. Senza accorger-cene abbiamo cercato di parlare dâaltro. Il buco bibliografico nasce, inol-tre, anche dalla reazione che i teorici piĂš avvertiti hanno avuto di fronteal primitivo (si intenda qui lâaggettivo non solo in senso cronologico)tentativo di otturarlo con materiali di risulta, cioè di dubbia provenienzae dubbia soliditĂ . Per intendersi corre lâobbligo qui di citare il nefastometodo PEACE (acronimo delle cinque fasi: Problema, Emozione, Ana-lisi, Contemplazione ed equilibrio) di Marinoff, metodo che, a suo stessodire però, non veniva caricato di soverchio significato: ÂŤ(âŚ) dâaltra parte,se non câè un metodo generale per filosofeggiare, come può essercene
7 Moreno Montanari, Prefazione, in Moreno Montanari (a cura di ), La consulenza filosofica: terapia o
formazione?, Lâorecchio di Van Gogh, Ancona 2006, p. 7.8 Sulla ossessione per la lettura terapeutica del reale rimando al bel libro di Frank Furedi, Il nuovo
conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, Feltrinelli, Milano 2005 (ed. or. Terapy Culture,Routledge, London 2004). Ho tentato una lettura filosofica della questione nel mio Guida filosoficaalla sopravvivenza, Apogeo, Milano 2008, in part. le pp. 55-80.
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uno per la consulenza filosofica? Ciononostante, lâesperienza mi ha inse-gnato che molti casi si adattano efficacemente a un approccio in cinquefasi che io chiamo procedimento PEACEÂť9. Meno naĂŻf, ma non menofilosoficamente evasiva, la proposta dei quattro stadi di Peter Raabe nonsi discostava dalla costruzione di modelli su base empirico-pragmatica.10
Oggi questa non sembra una via proponibile. Chi fa pratica filosoficaha bisogno di fondare argomentativamente e, qui sĂŹ, iuxta propria principia,le modalitĂ della consulenza. Dire: âio inizio sempre con una barzellettaâ,o âio li faccio parlare 40 minuti e poi li interrompoâ sono consigli empi-rici (oltrechĂŠ di infimo livello). Ipotizzare questo o molteplici step non ri-conducibili ad un significato filosofico significa fondare la pratica dellapratica filosofica su rilievi empirici o di tipo psicologico (di una psicolo-gia ingenua e non vagliata). Significa basare la filosofia su questioni nonfilosofiche. Con ragione Pollastri ci mette in guardia ricordandoci cheÂŤassumere regole vuol dire infatti dare per buoni, sottraendoli alla riflessio-ne, aspetti della visione del mondo implicita dei dialoganti, ovvero assu-mere giĂ una certa filosofia, o ideologia che dir si vogliaÂť11.
La via indicata da Achenbach è sicuramente estranea alle banalitĂ delleregolette nonchĂŠ al vizio âterapeuticoâ originario, ma dopo aver saggia-mente sbarrato la porta allâossessione per il metodo, messo in guardiadalla modellistica implicita nel resoconto dei propri casi, non mi sembrache il fondatore della philosophische Praxis abbia lavorato alla possibilitĂ ditrarre filosoficamente dal carattere filosofico della disciplina indicazioni sullapratica della pratica. Che sia stato il timore di venire trasformato suomalgrado in modello anche nelle sue âostensioniâ antimetodologiche osia una costitutiva allergia alla costruzione, certo è che Achenbach, dopoil prezioso esordio, sembra il perfetto esempio del parlar dâaltro citatoqualche riga fa. Su questo tema, si fa a questo punto imprescindibile ilcontributo di Pollastri, che con caparbietĂ e chiarezza insiste nel cercareuna via filosofica che non sia meramente negativa (tale cioè che si possa
9 Lou Marinoff, Platone è meglio del Prozac, Piemme, Casale Monferrato 2001, p. 57.10 Cfr. Peter B. Raabe, Teoria e pratica della consulenza filosofica, Apogeo, Milano 2006, in part. pp.
138-194. Il fascino esercitato dalla âfacilitĂ â dei modelli, dalla loro mediaticitĂ , trasmissibilitĂ , ap-plicabilità è evidente anche fuori dallâItalia. Ad esempio nel manuale spagnolo di consulenza filo-sofica di Barrientos si tende a dedicare spazi ampi alle varie proposte di modellizzazione e ad es-sere piĂš cauti nei confronti di proposte piĂš organiche e articolate come quella achenbachiana. Cfr.JosĂŠ Barrientos Rastrojo, IntroducciĂłn al asesoriamento y la orientaciĂłn filosĂłfica, Ediciones Idea, SantaCruz de Tenerife 2005.
11 Neri Pollastri, La consulenza filosofica come âpuraâ filosofia, in (a cura di) C. Brentari, R. Madera, S.Natoli e L. Vero Tarca, Pratiche filosofiche e cura di sĂŠ, Bruno Mondadori, Milano 2006, p. 176.
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dire solo ciò che non è) allâesercizio concreto della pratica filosofica.Da qui probabilmente, dalla percezione della giustezza ma anche della
friabilitĂ del crinale in cui si è venuta collocando la Praxis di Achenbach,nasce lâinsistenza di Pollastri nel tentare di riportare per quanto sia possi-bile la consulenza filosofica nella pratica filosofica e questa nella filosofiatout court12.
Molte delle questioni, anche minime, che il consulente si pone prendo-no un altro aspetto se si tiene chiaramente ferma lâidea che si stia sempli-cemente facendo filosofia: io faccio filosofia con le persone, non risolvo iloro problemi, non li curo, non solidarizzo con loro, non offro conforto.Tutto ciò può succedere, ma non mi riguarda. Può succedere che unostia meglio, che si senta confortato, che i suoi problemi si dissolvano. Manon era ciò che stavo cercando, ciò che si cercava era un autentico, sin-cero dialogo filosofico. Questo è un ottimo punto di partenza. Spazza viatante ossessioni, regolette, pesature con il bilancino del farmacista. Pure,ripartendo da questa visione della questione, alcune riflessioni secondome si dovrebbero fare. Cavare dallâaderenza della consulenza filosoficaalla filosofia alcune indicazioni generali sulla prassi del consulente è me-no immediato di quanto si possa pensare, necessitĂ di rigore filosofico ecapacitĂ di pensare altrimenti rispetto a questioni che ci vengono co-stantemente presentate in un certo modo. Un esempio di questa rara ca-pacitĂ si può rintracciare a moâ di esempio nel lavoro di GiacomettisullâidentitĂ e i limiti della professione di consulente filosofico13.
Propongo qui dunque quattro brevi questioni: 1) se si possa fare con-sulenza filosofica con chiunque, indipendentemente dalla relazione esi-stente, fuori dal rapporto di consulenza, tra consulente e consultante; 2)se il consulente debba parlare di sĂŠ in consulenza; 3) se le convinzionifilosofiche del consulente pesino sulla consulenza; 4) se lâidea di fornireun resoconto dei propri casi abbia senso.
Non è detto che siano le questioni piÚ pressanti o importanti, sonosoltanto alcune delle tante possibili. PiÚ che quattro piccole trattazionivanno intese come semplici stimoli al dibattito, come segnalazione che lÏ
12 Il tema dellâidentitĂ possibile di filosofia e consulenza filosofica è assai presente nella biblio-
grafia di Neri Pollastri. Tra i suoi scritti sul tema si veda: Pratica della filosofia e consulenza filosofica, in(a cura di) Rosaria Longo e Davide Miccione, Vivere con filosofia, Bonanno, Acireale-Roma 2006;La consulenza filosofica come âpuraâ filosofia, cit.; Filosofia, nientâaltro che filosofia, in Aa.Vv., Filosofia prati-cata, Di Girolamo, Trapani 2008.
13 Cfr. Giorgio Giacometti, Una professione impossibile?, in AA.VV., Filosofia praticata, cit., e La con-sulenza filosofica come professione, in âPhronesisâ, IV, n. 7.
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può esserci qualcosa di cui vale la pena discutere. Alcune di esse riman-dano a dibattiti, prassi e regole tipiche dellâuniverso terapeutico. Ciò, lun-gi dallo scoraggiarci, dovrebbe portarci a riflettervi sopra, con le armi chela filosofia ci mette a disposizione e per il senso che nel fare filosofiapossono avere, e a iniziare a parlarne. Queste quattro glosse non costitui-scono delle tesi ma semplicemente delle riflessioni in pubblico e un im-plicito invito, rivolto ai consulenti filosofici, a riflettere anche su questio-ni meno elevate ma non meno importanti.
1. Il migliore amico di Sofia, non tuoFacendo consulenza io faccio filosofia con un altro uomo. Non terapia,
cura, ascolto empatico, bensĂŹ filosofia. Però la faccio con questâuomo e apartire (per poi ritornare) dalla vita e dalle richieste di questâuomo. Postoche la consulenza filosofica sia un dialogo filosofico, essa è uno specificogenere di dialogo filosofico. AffinchĂŠ non sia una lezione, un seminario,unâastratta chiacchierata bisogna ricordare che deve essere lui (il consul-tante), come dice Achenbach, che ÂŤmuove il bianco e ha la prima mos-saÂť14. Lâurgenza è sua, il problema è suo. Ciò non esclude che anchâio ri-fletta e impari, anzi lo include, ma i ruoli vanno definiti. Lâunica asim-metria è dunque il riflettore dellâattenzione posto sul consultante e nonsul consulente. Anzi è la decisione su dove questo âriflettoreâ vada pun-tato a fare di qualcuno il consultante e dellâaltro il consulente, giacchĂŠ lapreparazione come discrimine è accidentale.
PerlopiĂš il consulente filosofico è piĂš preparato filosoficamente e affi-nato nella riflessione logica del consultante ma ciò è casuale, non struttu-rale. Non fa di lui un consulente. Ă fondamentale che il consulente filo-sofico sia preparato, lucido, abituato a pensare filosoficamente la propriavita, non che sia piĂš preparato, piĂš lucido, piĂš abituato a pensare filosofi-camente la propria vita del suo interlocutore. Se entrambi hanno la pre-parazione, la vocazione e lo sguardo del filosofo pratico, sarĂ in ogni ca-so lâassunzione del ruolo a fare di uno il consulente e dellâaltro il consul-tante.
A chi scrive è capitato di fare consulenza in veste di consultante: purriconoscendo al mio consulente saggezza e preparazione, non collegavoal mio essere consultante una implicita patente di minore preparazionefilosofica o minore saggezza rispetto a chi in quel momento faceva daconsulente. Dunque ciò che lo rendeva consulente e mi rendeva consul-
14 Gerd Achenbach, La consulenza filosofica, Apogeo, Milano 2004, p. 92.
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tante era il fatto che al centro fosse posta lâanalisi filosofica di un mioproblema, di un mio quesito, e solo di rimbalzo dei suoi.
AffinchĂŠ però il mio problema sia occasione e non pretesto15 per il suoampliamento concettuale attraverso il dialogo filosofico; affinchĂŠ adesempio il problema del mio rapporto con il mio corpo non diventilâuniversale problema del rapporto con il corpo ma si tenda versolâuniversalitĂ dei concetti senza separarsi dalla mia biografia, affinchĂŠ siconnetta a piĂš ampie reti di significato continuando a parlare di me sep-pure non soltanto di me, è necessario che non ci si trinceri dietro il pro-blema astratto ma si abbia il coraggio di esplorarlo per come si presentanella mia esistenza. Ciò necessita della chiarezza, della possibilitĂ diesprimere non solo ciò che si pensa ma anche ciò che si è vissuto.
Diventa dunque necessario stabilire unâintimitĂ . Intendo qui con que-sto termine il semplice venire a conoscenza dei vari fatti, pareri, aneddoti,pensieri che compongono la vita di ognuno. I concetti che vengono di-scussi insieme non sono concetti puri ma ibridi, impastati con la situa-zione, la prospettiva di vita dellâuomo che ci sta davanti: ÂŤnella consulen-za non si chiede al filosofo: âcosâè la felicitĂ ?â, ma gli si parladellâinfelicitĂ . Nessuno gli chiederĂ âcosâè il coraggioâ ma certamente gliverrĂ raccontato lo smacco di una vita vileÂť16. Entriamo nella vita delconsultante, che noi lo si voglia o no, veniamo a sapere di dolori, piaceri,pregiudizi, sbagli, speranze, ecc. Lâaltro ha bisogno di piena libertĂ dipoter dire, raccontare, confessare.
Se è cosĂŹ, il problema dellâeventuale rapporto esistente tra consulente econsultante prima o al di fuori della relazione di consulenza ritorna adavere un qualche valore seppure per motivi e con caratteristiche del tuttodiverse da consimili questioni esistenti nel rapporto di terapia psicologi-ca.
Il problema non è però esprimibile attraverso una semplice distinzionetra licet e non licet. Non ci sono tabĂš, bensĂŹ il mettere da conto una mag-giore libertĂ di pensiero nella consulenza, data dalla possibilitĂ di nonsottrarre nulla allâanalisi congiunta del problema del consultante. Non mipare la questione sia mai stata posta nella comunitĂ dei consulenti. Hoassistito a un seminario dove un consulente presentava e analizzava, con
15 Per una tematizzazione della differenza tra occasione e pretesto rimando al mio Achenbach come
educatore. Considerazioni inattuali sulla pratica filosofica, in Neri Pollastri, Davide Miccione, Lâuomo è ciòche pensa, cit., in part. le pp. 97-106.
16 Gerd Achenbach, La consulenza filosofica, cit., p. 92.
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equilibrio e acutezza, un caso da lui portato avanti lâanno precedente,svoltosi allâinterno di un progetto in una scuola. Nessuno sembrava peròcogliere un problema, alla mia mente affiorante in modo tanto piĂš pres-sante perchĂŠ apparentemente lontano dalle menti dei partecipanti. Ilproblema, ovvio in quel caso, costituito dalle identitĂ del consulente e delconsultante, i quali, fuori da quellâora di confronto, non erano estranei oconoscenti ma rispettivamente un docente di filosofia del liceo e lo stu-dente della sua stessa classe. Mi chiedo: è possibile che ciò non renda po-co sincera la relazione? E anche se lo fosse, la sua intangibilitĂ rispettoalla questione è tale dallâesimerci anche dal semplice porsi della questio-ne? Dal non avvertirla neanche piĂš?
Il problema, per un consulente filosofico, non è connesso con com-plesse questioni simboliche, proiezioni, sovrapposizioni del docente co-me autorità , ma dalla semplice domanda che sempre il consulente do-vrebbe porsi: ci sono le condizioni per un autentico dialogo filosoficoconsulenziale? Ci sono le condizioni per la piena sincerità , per la parrèsia,il parlar franco che spesso viene tirato in causa nella consulenza? Se nonsi tratta solo di filosofare sul concreto ma di partire dal concreto17, ciòin questa specifica situazione è possibile pienamente e in libertà ?
Di passaggio si potrebbe notare come andando dal mio docente io siagiĂ al corrente - e non per sentito dire ma direttamente attraversolâascolto delle parole, lâosservazione dei comportamenti, lâinterazione - diquali siano le sue convinzioni su quello che riguarda la scuola, il rapportocon la condotta e con lo studio che non sono piccola parte nella vita diuno studente di liceo. In che misura il consulente può verosimilmenterecuperare una neutralitĂ ideologica, assicurare quello spazio di libertĂ , dinon giudizio? Se io fossi studente-consultante direi al mio docente-consulente che mi faccio fare i compiti, comprese le tesine di filosofia, damio fratello maggiore? E se questo fosse uno dei miei problemi? Direi almio docente-consulente che faccio uso di cannabis, e che utilizzo smoda-tamente pornografia scaricandola dal computer di mia madre?
Ognuno di noi potrebbe tranquillamente mettersi a tavolino e immagi-nare figure con cui abbiamo rapporti forti e pensare a tutte le cose cheavremmo difficoltĂ a dire loro. A una donna con cui in passato avessiavuto una storia e mi facesse da consulente direi che tutti i rapporti pre-cedenti alla storia che sto vivendo sono stati senza importanza e che que-sto mi porta a riflettere sul senso dellâamore e del sesso per me? A un
17 Op. cit., p. 19.
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mio caro amico che mi fa da consulente potrei dire che io non ho mairitenuto i miei amici sinceri nei miei confronti e che penso abbiano tuttiun secondo fine? E in che misura un dialogo di consulenza filosofica puòsopravvivere alle omissioni dei dialoganti?
2. Te fabula narraturIl filosofo pratico rappresenta egli stesso lâistituzione della consulenza
incarnata in sÊ. PiÚ esattamente e con le parole di Achenbach, si potreb-be dire la forma concreta della filosofia è il filosofo e questi, in quantoistituzione della filosofia in un singolo caso, è la consulenza filosofica18.A lui non sono concesse le prese di distanza che da secoli il filosofomette tra la propria vita e il pensato: il pericolo piÚ grande sarebbe chemi servissi di un pensiero che non potessi poi giustificare con la mia stes-sa intera esistenza19. à difficile per un consulente filosofico conciliare, sele condivide, queste asserzioni con la figura muta del consulente filosofi-co che ascolta compassato tacendo tutto di sÊ. Se qualche pagina primaabbiamo messo in evidenza come la consulenza abbia la necessità diconcentrarsi sul consultante, questo spostamento di attenzione non eli-mina la costruzione di un dialogo in comune. Se il consulente è un part-ner di dialogo e non un terapeuta sovraordinato, come fa a chiedere sin-cerità e apertura restando abbottonato?
La ricerca della pariteticitĂ , è fondamentale per distinguere la consulen-za dalla terapia da una parte e dallâaltra dalla pedagogia, per far sĂŹ che sipossa parlare di dialogo e non di confessione, analisi, oppure di lezione oseminario20. Credo che la tematizzazione del ricorso esplicito del consu-lente al racconto della sua esistenza possa contribuire a portare avantiquesto percorso di simmetria per essenza. Che sia la vita del consultantee non quella del consulente ad essere posta al centro della discussione èovvio, giacchĂŠ è il primo a cercare il secondo e non viceversa, è il primoa pagare il secondo e non viceversa, ecc. Ciò crea una situazione in cui siparla del primo ma si potrebbe anche parlare del secondo. Mettersi ingioco con episodi della propria vita mostra allâaltro che si sta davverogiocando in due, e anche se âbatteâ lui e ârispondoâ io ciò non fa dei no-stri ruoli qualcosa di separato, ma solo di distinto. Ovviamente gli episo-
18 Op. cit., p. 143.19 Op. cit., p. 22.20 Neri Pollastri, Un estraneo in famiglia. Sulla relazione tra consulenza filosofica e psicoanalisi, in Giornale
storico del centro studi di psicologia e letteratura, n. 6, aprile 2008, in part. le pp. 184-185 e 198-199.
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di della propria vita non possono essere portati in consulenza dal consu-lente in modo o con intento didattico, creando una agiografica vita delconsulente o un rosario di exempla di virtĂš da mostrare al consultante,quanto per aumentare il materiale di vita messo a disposizione, per porresotto la lente del logos altre situazioni che si conoscano bene. Per riflettereinsieme su questioni che noi conosciamo bene ma sufficientementeestranee al consultante da permettergli di allenare lâocchio allâanalisi con-cettuale della vita, per aumentare la simmetria che da anni asseriamo. Perdimostrare a noi stessi e al nostro compagno di dialogo che la filosofia èriesame continuo e senza luoghi sacri di fronte ai quali si debba dismette-re lâindagine razionale.
3. LâenormitĂ del sapere minimoFin dallâinizio la consulenza filosofica ha messo in chiaro come essa
non avesse una dottrina cui fare riferimento: detto in modo conciso, latesi che è stata presentata è che la consulenza filosofica sulla vita non di-spone in senso positivo di alcuna teoria che sia solo applicabile21.
Il consulente non giudicava le cose e i consultanti a partire dalla suateoria filosofica sul mondo. Improbabile tra lâaltro che ne avesse unapropria e originale, dunque il rischio era, piĂš che altro, di avere in giroconsulenti heideggeriani, hegeliani, derridiani eccetera (come nel bel ro-manzo di Irwin Yalom che ha per protagonista un consulente schopen-haueriano)22, secondo le mode o la prevalenza degli autori nel curricolodi studi universitari.
Questo assunto, chiaro e reiterato fin da principio, si limitava a metterein evidenza ciò che era considerato stupido o intollerabile, non spiegavaquale strada si sarebbe dovuta intraprendere per un rapporto costruttivocon la propria cultura filosofica e con il proprio consultante. La sensa-zione è che allâinizio si sia perlopiĂš inteso rispondere al divieto di giudi-care il mondo e il malcapitato consultante a partire dalla dottrina di unfilosofo con una soluzione al ribasso: frammentare i propri riferimenti,insomma limitarsi a un eclettismo spesso di terza mano. âNon possoschiacciare la consulenza su un autore, prenderò allora qualcosa daognunoâ sembra lâinconfessata idea del consulente filosofico. In alcunicasi (quando la cultura dei protagonisti sia tale da non permettere loro di
21 Gerd Achenbach, La consulenza filosofica, cit., p. 83.22 Irwin Yalom, La cura Schopenhauer, Neri Pozza, Vicenza 2005 (ed. or. The Schopenhauer Cure,
HarperCollins, New York 2005).
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cogliere la mediocritĂ intellettuale dellâoperazione) questo bricolage filo-sofico non è neanche inconfessato. Si pensi ad esempio ad alcuniânotevoliâ passi di Marinoff sul tema: ÂŤIl grande vantaggio di disporre dimigliaia di anni di riflessione a cui attingere consiste in questo: che moltedelle menti piĂš fertili della storia hanno meditato su questi argomenti ehanno lasciato concezioni e linee di condotta a nostro beneficioÂť23. O an-cora: ÂŤSe ti rivolgi a me, potrai discutere ad esempio i pensieri di Kierke-gaard sul modo di affrontare la morte, le idee di Ayn Rand sulle virtĂšdellâinteresse personale o il consiglio di Aristotele di seguire in ogni si-tuazione ragione e moderazioneÂť24.
La questione, cosĂŹ angolata, mi sembra irrisolvibile. Lâeclettismo fram-menta solo il problema ma lasciandolo âin circoloâ forse piĂš insidiosa-mente. Che significa, come propone Marinoff, pescare nei duemilacin-quecento anni di riflessione per dare qualcosa al consultante? Come de-cidere in quale borsa, delle tante create e riempite dalla attivitĂ filosoficanei secoli, pescare? La scelta non sarĂ semplicemente condizionata dallanostra ignoranza e dalla parzialissima conoscenza della enorme varietĂ didottrine della filosofia? Inoltre, qual è il metacriterio che ci fa scegliereper questâuomo che ci troviamo ora davanti il discorso scettico e perquellâaltro il discorso stoico25? SarĂ chiaramente il metacriterio la vera fi-losofia del consulente, quella che rappresenta una visione del mondo nonmeno âforteâ del temuto ricorso a una sola dottrina, giacchĂŠ sussumesotto di sĂŠ tutte le altre filosofie e pretende di poterle cogliere in un uni-co sguardo e sapere come giostrarle e assegnarle al caso singolo. Se ciòfosse un metacriterio consapevole ci troveremmo davanti nuovamenteuna filosofia ben precisa seppure eclettica; se ciò fosse inconsapevole ciritroveremmo invece di fronte a un consulente immerso in quello statodi minoritĂ da cui pretende di emancipare gli altri.
Un altro itinerario tende a tematizzare la sospensione del giudizio. Ilconsulente non fa entrare le sue convinzioni in consulenza, le sospendemetodologicamente, le mette tra parentesi. Egli non giudica e non
23 Lou Marinoff, Platone è meglio del Prozac, Piemme, Casale Monferrato 2001, p. 14.24 Op. cit., p. 15.25 CosĂŹ lâimmancabile Marinoff si esprime sulla âposologiaâ delle teorie esistenzialiste in uno dei
suoi migliori pezzi di umorismo involontario: questa scuola di pensiero di certo attrae alcunepersonalità e spesso porta a un loro aggravamento. Ritengo che abbia inutilmente reso infelicimolte persone. Raramente prescrivo letture esistenzialiste ai miei clienti, a meno che non stianotalmente bene da desiderare un cambiamento e provare un certo sottile malessere, ma è un casorarissimo, Lou Marinoff, Le pillole di Aristotele, Piemme, Casale Monferrato, 2003, p. 47.
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schiaccia lâesistenza del consultante sulla propria visione del mondo, chesi suppone comunque formata dalla frequentazione con certi autori.
Questa seconda via non sembra meno perigliosa. Come convincere sestessi e gli altri che si sia veramente sospeso il giudizio? Come pensareche un consulente filosofico che ritiene lâomosessualitĂ una malattia dacui guarire possa sospendere il suo giudizio e parlare serenamente dellaquestione? Come escludere (precipitando con ciò nel gorgo della psico-logia) che egli non sia semplicemente convinto di sospendere le sue con-vinzioni e tutti i suoi interventi consulenziali cerchino di riapprodare allasua Itaca teorica forzatamente lasciata?
La questione va colta invece da unâaltra angolazione, strettamente con-nessa allo statuto della filosofia, che mi sembra giĂ presente in Achen-bach. Non câè nessun convincimento da mettere tra parentesi perchĂŠ noncâè alcun convincimento che ne possa stare fuori quando stiamo eserci-tandoci filosoficamente. Il filosofo consulente è tale proprio perchĂŠ ponele sue convinzioni costantemente sotto la lente della propria e altrui criti-ca. Il percorso di consulenza costituisce in tal senso per lui una grazia.Per poter ottenere questa grazia il consulente gioca ad essere un altro,cioè a pensare nei panni dellâaltro con i ritmi e i problemi dellâaltro. Perfare ciò rinuncia metodologicamente a se stesso ma solo nella misura incui non ha mai davvero âacquistatoâ se stesso ma si è sempre, dallâinizio,considerato âin noleggioâ. Il filosofo che considera sua proprietĂ inalie-nabile le proprie convinzioni, cioè inattaccabili, fuori dalla messa in que-stione, ha giĂ smesso di essere filosofo, ed è sapiente, guru. AttivitĂ edidentitĂ forse anche in possesso di un alto grado di efficacia, ma giĂ post-filosofiche. Al peggio, in mancanza di carisma è, come dice Achenbach,un informatore: ÂŤChi (âŚ) risponde senza riflettere nĂŠ pensare, senza cioèaver prima chiesto a se stesso la risposta, beâ questi non risponde: chi avevagiĂ la risposta, non risponde, ma dĂ unâinformazione, cosa che è tipicadegli informatori e dei cosiddetti âportavoceâ (il mondo ne è pieno)Âť.26
Dire quindi al filosofo di sospendere il suo giudizio significa in una certamisura offenderlo giacchÊ quando lui pensa esso è perennemente sospe-so. Significa solo ricordargli, come certi moniti medievali alla fragilità della vita umana, di essere davvero filosofo.
Quanto ai contenuti positivi dei filosofi consulenti sarebbe il caso di ri-flettere sulla possibilitĂ di pensare una consulenza filosofica senza alcontempo immaginare una implicita dottrina minima sotto la cui soglia
26 Gerd Achenbach, Del giusto nel falso, Apogeo, Milano 2008, p. 104.
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nessun consulente riesce a scendere. Lâidea della neutralitĂ assoluta dellaconsulenza filosofica, cosĂŹ considerata, non ha un gran senso. Ciò nonostacola la riflessione sui singoli problemi della vita, si pone piuttostocome fondamento delle condizioni di possibilitĂ della consulenza.
Ognuno potrĂ cercare per proprio conto queste âconvinzioni filosofi-che minimeâ del consulente. Trovo difficile, però, immaginare un con-sulente filosofico che pensi che tra esseri umani non si sia in grado dicomprendersi linguisticamente. In caso contrario non si capirebbe il sen-so filosofico del suo lavoro.
Non è questa, in sede filosofica, unâassunzione da poco. La consulenzafilosofica, per avere un senso, deve dare per assunte diverse posizionisulla realtĂ e predica, che il consulente filosofico lo voglia o no,unâantropologia filosofica minima. Pensa, ad esempio, che in qualchemodo lo sviluppo di concetti possa influenzare le azioni o le emozioni,che questo sviluppo possa passare anche dal semplice dialogo e non daeventi dellâesistenza o accessi a dimensioni pre-coscienti. Ancora, la con-sulenza predica implicitamente che si possa fare filosofia sulla quotidia-nitĂ . E, fatta la tara di ogni critica al problem solving e alla centralitĂ dellâaiuto, ha implicito che la consapevolezza sia meglio dellâinconsa-pevolezza.
Suppongo che, a rifletterci, altre connessioni necessarie possano esseretrovate. Pollastri, ponendosi domande simili, vede nella consulenza,chiunque la impersoni, una dimensione critica strutturale, traendola dallafilosofia di cui è emanazione27. Forse queste annotazioni minime su ciòche giĂ pensa un consulente per il solo fatto di essere un consulente noncostituiranno un sistema filosofico, ma rendono di certo difficile, a rigo-re, parlare dellâassoluta neutralitĂ del filosofo.
4. Scrivere per casiSarĂ la vecchia condanna crociana che agisce senza che noi lo si sappia,
sarĂ lâidea, a volte pensata ai limiti del parodistico, che la filosofia restiintatta nelle relazioni che intrattiene, sta di fatto che il filosofo di rado ri-flette sui generi letterari che di volta in volta si trova prevalentemente adutilizzare. Questa mancata riflessione porta spesso a non pensare nean-che altri temi che ad essa potrebbero fruttuosamente collegarsi, come laquestione della stesura dei casi nella consulenza filosofica.
27 Cfr. Neri Pollastri, Consulente filosofico cercasi, Apogeo, Milano 2007, pp. 52-54; oppure Filosofia,
nientâaltro che filosofia, in AA. VV., Filosofia praticata, cit., pp. 26-27.
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Eppure i resoconti di casi ormai sono assai diffusi nella letteratura sullaconsulenza. A volte interessanti e altre meno, a volte in grado di mostra-re una specificitĂ filosofica e altre in grado solo di aumentare la giĂ nonridotta confusione generale. Nonostante la diffusione e nonostante lacondanna netta di Achenbach alla costruzione di un genere siffatto, ladiscussione sulla necessitĂ e lâutilitĂ di resocontare gli incontri di consu-lenza non è mai decollata. E lâidea che siano meglio di niente, che dianounâidea di ciò che succede in consulenza, non credo risolva gli eventualiproblemi, nĂŠ porti molto avanti il dibattito.
Io mi concentrerei innanzitutto sulla accennata questione del genereletterario. Il resoconto casi non è un genere letterario neutro (anche per-chĂŠ forse un genere neutro non esiste) ma tende con forza verso alcunitopoi, con tanta piĂš forza quanta piĂš è lâinconsapevolezza dello scrittoreche si trovi a subirli.
La compiutezza innanzi tutto. La spinta a far coincidere la chiusura delcaso con la soluzione se non di un problema pratico perlomeno di unproblema teorico (qualcosa che ricordi il lieto fine). La compiutezza,quella cosa che dovremmo riconoscere (se câè) alla fine, si insinua nellamente dellâestensore dei casi e lo porta a costruire un organismo con uncapo e una coda anche se lui, queste due parti del corpo, mentre facevaconsulenza non avrebbe saputo dire dove stessero. Lâeffetto è semprequello di descrivere qualcosa di ordinato dove digressioni, giri viziosi,perdite di tempo, strade senza sbocco non esistano. Direi che il reso-conto dei casi sta al concreto rapporto di consulenza come la pornografiasta al reale rapporto sessuale.
Un altro pericolo è quello di cercare, scrivere e rendere esemplare, an-che ad uso didattico, il âmomento filosoficoâ, equivalente del momentoterapeutico della psicoanalisi. Ci sarebbe cioè un momento in cui la vitasi trasforma in concetto, questo concetto rivela una profonda strutturafilosofica su cui il dialogo agisce e questa rivelazione ritorna sulla vita, il-luminandola di un diverso significato. Sebbene ciò possa succedere, lamia impressione è che non sia nĂŠ cosĂŹ frequente nĂŠ necessario: ÂŤnon ba-sta indicare âil momentoâ nel quale qualcosa è cambiato, perchĂŠ questonon câè; viceversa è necessario narrare come il dialogo si sia sviluppato,producendo una vasta serie di piccole variazioni di comprensione e disensoÂť28.
28 Neri Pollastri, In consulenza da un filosofo. Per dar senso al racconto dellâesistenza, in Moreno Monta-
nari (a cura di), La consulenza filosofica: terapia o formazione?, cit., p. 24.
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Câè invece un lavoro di manovale del quotidiano, un confrontarsi sullepiccole cose, un ripulire i propri concetti, un guardare le proprie idee avolte piĂš da vicino a volte piĂš da lontano, un tornare sugli stessi argo-menti con sempre maggiore profonditĂ , un conoscere la propria posizio-ne sul mondo. Soprattutto un dare i nomi alle cose, un costruire un lin-guaggio comune che ci serva per pensare. Tendo a pensare che questotipo di lavoro sia il miglior successo di una consulenza e che sia presso-chĂŠ irrappresentabile per iscritto, ritengo paradossalmente che il casorappresentabile perfettamente sia invece quello meno significativo, cioèquello dellâuomo che viene dal consulente con uno specifico problema,lo analizza, insieme trovano una chiave per leggerlo diversamente equindi âagirloâ diversamente.
Il lavoro quotidiano di una relazione di consulenza, invece, credo diffi-cilmente possa essere narrato. Narrare gli spostamenti di chi pensa in si-tuazione è possibile, ma solo ai pochi toccati dalla grazia della letteraturae non con i vincoli che il racconto di un caso di consulenza pone. In at-tesa di un Dostoevskij o uno Schnitzler prestati alla consulenza, sarebbeforse il caso di non confondere il nome con la cosa, la consulenza con unsuo schema.
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Esperienze
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I temi della consulenza filosofica. Unâindagine
di Stefano Zampieri
Introduzione
Una delle caratteristiche piĂš evidenti e ribadite del colloquio filosoficoconsiste sicuramente nel rifiuto di ogni forma di catalogazionedellâospite, e anzi, proprio lâatteggiamento classificatorio e modellizzanteè indicato universalmente come il limite proprio di altre forme di aiutodialogico, rispetto alle quali la praxis filosofica intende prendere netta-mente le distanze. Tuttavia, fin da quando ho cominciato ad esercitarecome filosofo consulente, mi sono trovato sempre a riflettere intorno aimiei ospiti, in primo luogo per far tesoro, di volta in volta, delle espe-rienze di dialogo che andavo facendo, ma poi anche, inevitabilmente, perfarmi unâidea piĂš chiara della persona a cui la consulenza filosofica, ingenerale, si rivolge. Mi sono reso conto in questo modo che le proble-matiche portate nel mio studio in questi anni appartengono ad alcunearee ben determinate e definite. Capiamoci, non sto dicendo affatto chetali aree tematiche rappresentino ciò a cui il colloquio sa dare risposta; vero èche, nel sentire comune di coloro che cercano aiuto da un filosofo piut-tosto che da un altro operatore, vi sono alcuni punti fermi, in buonaparte non adeguatamente discussi. Forse sullo sfondo vi è, anche, qual-che pregiudizio rispetto ai limiti della filosofia praticata, e qualche confu-sione relativamente ai suoi rapporti con lâambito delle psicoterapie. Tut-tavia, mi pare necessario partire proprio da qui, perchĂŠ questo è il puntodi partenza reale: lâimmagine percepita della consulenza filosofica a li-vello pubblico. Se vogliamo comprendere a fondo in che modo il collo-quio filosofico sia attualmente appreso e accettato nel nostro Paese è daqueste aree tematiche che dobbiamo partire. La presente indagine, dun-que, non vuole affatto indicare ciò che il colloquio filosofico può fare, achi può rivolgersi e perchĂŠ, ma al contrario, testimoniare dello statodellâarte: chi si sente interpellato in questo momento da simile nuova op-portunitĂ ? E per quali motivi?
Ciò non significa in alcun modo che altri ospiti e altri temi non possa-no in futuro essere accolti in consulenza, mano a mano che la conoscen-za pubblica di essa si svilupperà e la sua immagine si farà piÚ ricca, e piÚ
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adeguata alle sue effettive potenzialitĂ .Resta però da precisare che, allâorigine di questo lavoro, vi è anche un
mio personale sospetto relativo al fatto che il mio campionario personaledi consulenze non fosse abbastanza rappresentativo in termini generali, edalla sensazione che, vista dalla mia prospettiva di consulente filosoficoattivo in una determinata regione, il Veneto, in una cittĂ di medie dimen-sioni, Mestre, e forse anche in un ambiente circoscritto alle mie personalifrequentazioni, la mia idea dellâospite fosse in fondo parziale e inade-guata. Ho cioè sentito il bisogno di confrontare la mia esperienza conquella di altri consulenti operativi in altre regioni dâItalia e in altri am-bienti. Lâoccasione mi è stata fornita dal fatto di essere stato parte, dal2008 in poi, della commissione per il riconoscimento del titolo di consu-lente filosofico di Phronesis; ho cosĂŹ potuto prendere visione delle schede-caso prodotte da una quarantina di candidati provenienti da ogni partedel paese, e da ogni personale esperienza di formazione. Ad esse ho ag-giunto le schede relative al mio lavoro personale dellâultimo anno, equelle fornitemi dal collega Giorgio Giacometti. In questo modo ho rac-colto un campione complessivo di ben 155 casi di consulenza e fra questiho cercato di verificare le mie intuizioni personali e le mie stesse espe-rienze. Se lo scopo immediato è quello di descrivere fenomenologica-mente il colloquio filosofico, lo scopo a piĂš lungo termine è forse quellodi ripensare in modo adeguato la promozione del nostro lavoro. Ciò chenon si potrĂ mai fare nel modo dovuto se non si comprendono le moda-litĂ di ricezione di esso. E questo è soltanto un primissimo passo in taledirezione.
Prima di illustrare i risultati della mia indagine, voglio segnalare i dueimportanti precedenti che ho tenuto presenti. In primo luogo vi è laormai pionieristica ricerca di Ran Lahav1, che però ha lavorato su uncampione molto piĂš ristretto (13 consulenze) e soprattutto molto omo-geneo: studenti universitari tra i 20 e i 29 anni. Esaminando i temi pro-posti in quel gruppo appaiono preponderanti le tematiche che qui horaccolto nellâarea âDisagio personaleâ (sensazione di smarrimento gene-rale, sensazione di essere inautentico, difficoltĂ nellâesprimere il proprioessere interiore ecc.), seguite dalle questioni relative ai rapporti con glialtri e quelle relative alla costruzione del progetto esistenziale. Ma è chia-ro che lâomogeneitĂ anagrafica e di provenienza del campione rende la
1 Ran Lahav, Lâefficacia della consulenza filosofica: un primo studio sui risultati in Comprendere la vita,
Apogeo, Milano 2004, pp. 79-104. Lâarticolo è uscito la prima volta nel 2001.
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ricerca assai poco esportabile e generalizzabile e quindi non può che dareuna indicazione di massima, molto contingente.
Lâaltro precedente è lâimportante lavoro di Neri Pollastri a propositodel suo sportello di consulenza filosofica di quartiere realizzato a Firenzenel 2003-20042. In questo caso il campione è un poâ piĂš largo e menoomogeneo (33 consulenze, 21% uomini e 79 % donne, per il 60% di etĂ compresa fra i 40 e i 50). Sinteticamente, i temi che raccoglie Pollastrisono per il 36 % difficoltĂ relazionali (relazione con gli altri, in famiglia osul lavoro), per il 54 % difficoltĂ di natura affettiva. Una percentuale mi-nore ha presentato problemi specifici (lutti, malattie ecc.).
Entrambe queste indagini, tuttavia, hanno piĂš lo scopo di mostrarelâefficacia e la praticabilitĂ della consulenza filosofica in una fase in cuiancora essa non era attestata, e sembrano quindi, giustamente, piĂš inte-ressate a indagare il ruolo del filosofo consulente, delle sue risposte e delmodo in cui esse vengono accolte dallâospite, piuttosto che il moventeche porta la persona in consulenza.
La particolaritĂ della presente indagine è invece proprio quella di essereinteramente mirata a riflettere sullâospite, chi è e perchĂŠ si rivolge ad unfilosofo. Naturalmente non è necessario sottolineare che si tratta, co-munque, di una ricerca che ha puro valore indicativo, e che non ha alcu-na pretesa di scientificitĂ . Il suo obiettivo non è stabilire dati in modo in-confutabile, ma solo indicare vie di riflessione alle analisi future.
La questione dellâetĂ e del genere
Balza agli occhi immediatamente che sono due le fasce di etĂ che sem-brano percepire piĂš nitidamente il senso e lâutilitĂ del colloquio filosofi-co: quella compresa tra 26 e 30 e quella compresa tra 36 e 40 anni (Figu-ra 1). Câè da osservare che il dato relativo alla fascia inferiore ai 20 è fal-sato dal fatto che un certo numero di casi sono stati raccolti allâinterno disportelli di consulenza attivati nelle scuole superiori. Lo stesso dicasi peril dato relativo agli over 56, dal momento che alcuni colloqui sono statifatti nellâambito di un servizio di sostegno allâanziano. Si tratta cioè didue modalitĂ particolari di fruizione del colloquio, non tanto nella formadel singolo che si rivolge al filosofo, quanto piuttosto, al contrario, di unaofferta che il filosofo propone in un determinato ambiente. Tornerò ariflettere su questa importante distinzione nella parte conclusiva.
2 Si può leggere in âAut autâ n. 332, ottobre-dicembre 2006, pp. 86-122.
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Figura 1 EtĂ degli ospiti
Il campione, come si è detto, non è scientificamente costituito, quinditutti questi dati vanno naturalmente relativizzati: non devono essere letticome valori assoluti ma solo come linee di tendenza. Anche con questolimite tuttavia, mi pare possano dare indicazioni molto interessanti.
La sensazione è che, per quanto riguarda la richiesta di consulenza, essaincontri maggiore attenzione intorno a due snodi importantidellâesistenza: quello del giovane che entra nella vita, che cioè deve co-struire la propria esistenza, la propria famiglia, la propria vita di coppia, ilproprio lavoro, e vive talvolta con difficoltĂ questi momenti di costru-zione dei rapporti e della sua stessa fisionomia: è il momento in cui farele scelte che resteranno, quelle che determineranno tutta la sua esistenza,e questo mette la persona in una situazione di difficoltĂ e di incertezza.Dâaltra parte câè un secondo snodo esistenziale, quello che ruota intornoai 36-40 anni, cioè al momento in cui bisogna cominciare a guardare chisi è, cosa si è diventati, e fare quindi il bilancio delle scelte operate, è ilmomento in cui la condizione familiare può rivelarsi inadeguata, e il lavo-ro può riservare brutte sorprese, o ci si può rendere conto delle inade-guatezze del progetto esistenziale realizzato fino a quel momento. Ă ilmomento in cui deve apparire la traccia di una condizione di adultitĂ chenon è semplice da delineare.
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Figura 2 Genere degli ospiti (valori percentuali)
Altro dato molto evidente è che il campione è prevalentemente di generefemminile (per il 70%, Figura 2). Non credo che in ciò abbia un pesoparticolarmente rilevante il fatto che nel gruppo di consulenti preso inesame ci sia una leggera prevalenza femminile (il 61%)3. PerchĂŠ mi pareche qualsiasi consulente si sia reso conto che è, comunque, molto piĂšfemminile lâattitudine al prendersi cura di sĂŠ, allâinterrogarsi, al mettersi inquestione; e anche la disponibilitĂ ad affidarsi ad un altro, il cercare aiuto,è atteggiamento sicuramente meno diffuso nel mondo maschile. A que-sto proposito si potrebbero fare delle riflessioni di natura sociologica sulfatto che la riflessività è sempre piĂš marginalizzata nella nostra societĂ ,non soltanto sul lavoro, ma anche nella vita comune, quasi si trattasse diuna debolezza che è meglio non mostrare, o di una perdita di tempo e dienergie che sarebbe meglio impiegare diversamente. Questa ripulsa neiconfronti della riflessivitĂ , è forse una delle malattie del nostro tempo. Ela consulenza filosofica avrĂ vita difficile per ricavarsi uno spazio autore-vole in simile contesto.
3 Faccio notare per inciso che, attualmente, la percentuale maschi/femmine tra i consulenti ri-
conosciuti di Phronesis è esattamente divisa al 50%.
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Le aree tematiche
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Relazion
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Figura 3 Le aree tematiche emerse (in percentuale)
La distinzione delle consulenze per temi è ovviamente una mia inter-pretazione, dal momento che non sempre è immediato riconoscerne lapresenza e lo sviluppo. Spesso la consulenza si muove a partire da affer-mazioni assai generiche, il âproblemaâ è indicato con termini piuttostovaghi come confusione, disorientamento, insoddisfazione, incertezza, difficoltĂ , crisiecc. e soltanto lo sviluppo del colloquio ci consente di far emergere iltema dominante. In secondo luogo, è necessario chiarire che la colloca-zione in aree generali è di nuovo una mia valutazione, e dunque rappre-senta una scelta sicuramente discutibile, nel senso che la stessa indagineavrebbe forse potuto dispiegarsi attraverso aree differenti. StupirĂ adesempio la mancanza di un riferimento ai valori messi in gioco in ognisingolo colloquio. Ciò è dovuto essenzialmente a un fatto pratico, e cioèche ricavare il valore messo in gioco nellâevento di consulenza dalla sem-plice lettura di una scheda riassuntiva sarebbe stato nella maggior partedei casi piuttosto arduo. Ho scelto di individuare ciò che appariva piĂšimmediatamente evidente ad un osservatore esterno come sono stato ionel corso di questa indagine (tranne ovviamente per i casi miei personali).
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Questa è dunque la mia interpretazione dei fatti, e di conseguenza la miaproposta di analisi.
In secondo luogo câè da chiarire che le cinque aree generali che io pro-pongo, ci sono dâaiuto solo per orientarci nella pluralitĂ dei colloqui,sempre tutti diversi e non immediatamente paragonabili lâuno allâaltro.Lâho giĂ detto e lo ribadisco, la consulenza filosofica muove dal principiodellâimprevedibilitĂ dellâospite e della sua assoluta originalitĂ e questa in-dagine non vuole affatto attenuare il principio di base, quanto piuttostoaiutarci a capire quel che accade. Ma le aree generali a loro volta corronoil rischio di introdurre un elemento di eccessiva astrattezza, cioè di ri-portare allâambito di una teoria generale il concreto divenire di ogni sin-gola personalitĂ . Ă un pericolo che bisogna scongiurare: ciò che sembravuoto nel discorso in realtà è pieno, ciò che sembra astratto resta asso-lutamente concreto, nel senso che le aree generali sono in realtĂ la rac-colta di azioni concrete, le uniche davvero importanti per il colloquio.
CosĂŹ, ancora, partendo dalle situazioni reali avrei potuto insistere piĂšsulle combinazioni, per cui le relazioni familiari appartengono certo, co-me sottoinsieme, al genere delle relazioni con gli altri, ma le relazioni congli altri, a loro volta, mettono in gioco il sistema dei valori, e determinanocondizioni di disagio personale, e spesso richiedono una revisione delprogetto esistenziale. Insomma è chiaro che la distinzione è netta soloperchĂŠ artificiale, la realtĂ del colloquio, e quella dellâesistenza, è tale percui in ogni nostro agire mettiamo in campo le diverse componenti dellanostra natura, tanto quelle relazionali, quanto quelle relative alla nostraidentitĂ , quanto quelle relative al nostro essere liberi.
Le aree generali sono elencate e descritte in ordine di importanza ri-spetto al campione, da quelle emerse piĂš frequentemente a quelle emersemeno frequentemente, cosĂŹ ugualmente i singoli temi.
1a area: le relazioni familiari
Ben al di lĂ di quanto solitamente si legge nella letteratura specifica (cheevidentemente è ancora troppo teorica), lâindagine sul campo mostra chei temi proposti al colloquio sono in primo luogo appartenenti alla sferadelle relazioni familiari, o meglio, delle relazioni stabilizzate (sancite omeno dal matrimonio).
Allâinterno di questo spazio dobbiamo mettere in evidenza in primoluogo la crisi del rapporto coniugale (o di coppia) sia nei termini di diffi-coltĂ dei rapporti con il coniuge, sia nel caso delle relazioni extra coniu-
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gali, sia, infine, nel caso della separazione. In secondo luogo bisognacollocare le difficoltĂ di comprensione, interazione, condivisione, con ifigli. E persino le crisi che si realizzano alla nascita degli stessi, o di fronteallâincapacitĂ di averne, o alla decisione se averne o meno.
Area Le relazioni familiari Frequenza:28,5%
Temi emersi Crisi coniugale Separazione Tradimento DifficoltĂ nei rapporti con i figli Rapporto con i genitori Separazione dei genitori Rapporto con la famiglia acquisita
Le situazioni nelle quali uno dei due coniugi incontra unâaltra personasono anchâesse fra quelle piĂš frequentemente proposte alla consulenza inquanto evidentemente suscitano enormi problemi di relazione, sensi dicolpa, necessitĂ di ricostruire interamente il proprio progetto esistenzialea fronte di un naufragare di quello precedente, e allâinterno di una terre-moto relazionale al quale sembra difficile porre rimedio. Lo stesso si puòdire per quanto riguarda le separazioni vere e proprie, cioè le vicendenelle quali i coniugi decidono di separarsi e che costituiscono sempre, onella maggior parte dei casi, situazione di conflitto, di incomprensione, diaccuse reciproche, di braccio di ferro rispetto ai figli, e risultano fre-quentemente oggetto di consulenza proprio nella misura in cui si rendenecessario uscire da una forma ossessiva e dolorosa di rapporto provan-do a pensare una strada nuova, una possibilitĂ nuova, una nuova occa-sione, tale che consenta di rimettere ordine alle cose, ricostituire rapporticivili, aprire lâambito delle possibilitĂ esistenziali che quel conflitto ha in-vece occluso.
Fondamentale tra le situazioni tematiche proposte è certamente ancheil punto di vista del figlio; incontriamo infatti tra i temi le difficoltĂ con-seguenti alla separazione dei genitori, o anche in generale le difficoltĂ dirapporto con la madre o con il padre. Talvolta si tratta di situazioni tipi-che dellâadolescenza, anche se certo non esclusivamente, in quanto anchein etĂ adulta, e persino in etĂ avanzata, è possibile trovarsi a vivere consofferenza la complessa relazione con i propri genitori.
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Vi è infine da segnalare una tematica interessante: quella relativa allasituazione di difficoltĂ che si realizza allâingresso in una famiglia acquisi-ta, ad esempio, con il matrimonio o con una convivenza. Talvoltalâingresso in una nuova famiglia corrisponde a una situazione di chiusura,alla costituzione di una sorta di gabbia, il piĂš delle volte imprevista e im-prevedibile, che mette in difficoltĂ , se non in crisi, il rapporto da cui èscaturita.
2a area: la relazione con gli altri
Area La relazione con gli altri Frequenza:28,5%
Temi emersi Crisi coniugale Separazione Tradimento DifficoltĂ nei rapporti con i figli Rapporto con i genitori Separazione dei genitori Rapporto con la famiglia acquisita DifficoltĂ di adattamento (straniero)
La distinzione tra relazioni familiari e relazioni con gli altri può apparireforzata (e in parte lo è), ma emerge forte dagli ospiti stessi. Indica infattiquelle situazioni esterne allâambito familiare, di solito piĂš tipiche delle fa-sce di etĂ piĂš giovani. In questo contesto troviamo il tema in assoluto piĂšampiamente proposto al colloquio: le difficoltĂ di relazione con gli altri, sia intermini piĂš strettamente affettivi, e sia in quelli conseguenti alle incertez-ze nello stringere relazioni, alla rottura delle stesse, allâincapacitĂ di pre-sentarsi agli altri e quindi di sottoporsi a una dinamica di riconoscimento.
Appaiono qui molto evidenti tutte le fragilitĂ delle giovani generazionitravolte da una generale incertezza, sia per quanto riguarda la propriaidentitĂ , sia per quanto riguarda la propria capacitĂ di intrecciare relazionisolide, o di riannodare rapporti interrotti, o infine di far tesoro delleesperienze relazionali giĂ acquisite. Appare la difficoltĂ che ogni sempliceevento di rottura determina, dal momento che esso richiede ogni voltauna profonda ristrutturazione di sĂŠ e del proprio progetto esistenziale,che molti non sono in grado di realizzare da soli.
A questa area ho associato anche le tematiche relative ai dubbi etici,
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perchĂŠ in ogni caso si tratta di mettere a punto delle forme soddisfacenti(per sĂŠ, per i propri valori, ma anche per la condivisione) di rapporto congli altri.
In generale, lâaltissima incidenza di queste tematiche segnala un ambitodi intervento della consulenza filosofica del tutto particolare, perchĂŠ èproprio qui che si evidenzia il vuoto lasciato dal venir meno delle formestoriche di condivisione dei rapporti interpersonali. CosĂŹ, di fronte alprogressivo individualizzarsi della societĂ , il tema del rapporto con lâaltro(in tutte le sue sfaccettature) appare come una urgenza sociale di questonostro tempo, alla quale la consulenza filosofica non può porre rimedio,ma che può cominciare a tematizzare in modo piĂš concreto e reale tantodella teoria filosofica (che pure su questo ha molto prodotto) o sociolo-gica, quanto delle pratiche psicoterapeutiche, inesorabilmente portate aspostare lâattenzione al dentro proprio nel momento in cui, invece, è ne-cessario spostarla sul fuori.
3a area: la costruzione del progetto esistenziale
Area La costruzione del progettoesistenziale
Frequenza:20,5%
Temi emersi Problemi relativi alla scelta Mancata realizzazione professionale o perso-nale
Incertezza rispetto al futuro DifficoltĂ scolastiche Costruzione del progetto comune (matrimo-nio)
Senso di precarietĂ Desiderio di uscire dalla quotidianitĂ DifficoltĂ di adattamento (straniero)
Ho raccolto sotto questo capitolo una serie di temi caratterizzati dalfatto di richiedere una costruzione o ricostruzione del progetto esisten-ziale, primo fra tutti il tema della scelta in tutte le sue articolazioni, daquelle che dovremmo chiamare di orientamento scolastico e professio-nale (scelta del percorso di studi o dellâattivitĂ lavorativa), a quelle relativealle conseguenze di un lutto, che impone alla persona di rivedere tutti isuoi punti di riferimento, le sue aspettative e i suoi rapporti con gli altri.
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Ma a questo capitolo appartengono anche le tematiche relative alla man-cata realizzazione professionale o personale, fondendosi in questo caso,soprattutto negli ospiti meno giovani, con la necessitĂ di fare il bilanciodella propria esistenza.
Qui si collocano anche quelle situazioni nelle quali si vive lâansia per ilfuturo soprattutto in concomitanza con alcuni passaggi di etĂ , il passag-gio dallâadolescenza alla giovinezza (per esempio la fine di un ciclo distudi), il passaggio dalla giovinezza alla maturitĂ , o dalla maturitĂ alla vec-chiaia. Tutte fasi nelle quali bisogna riprogettarsi per costruire il propriofuturo.
Ma qualcosa di non dissimile accade anche quando si necessita di rive-dere i propri limiti, di tracciare la misura giusta del proprio vivere e delproprio modo di affrontare lâesistenza a venire. Passaggio, questo, essen-ziale anche nel caso delle relazioni che nascono (matrimonio o rapportostabile di coppia), che esigono una progettazione comune, una condivi-sione di tempi e spazi, una posizione di limiti reciproci di libertĂ .
E infine, ma si tratta ancora di situazioni sporadiche, câè il caso dellostraniero che vive la difficoltĂ di adattamento in un ambiente nuovo.Non sappiamo se, nella prospettiva di una societĂ multietnica, questopotrebbe essere un tema destinato a svilupparsi; certo, se cosĂŹ fosse, essopotrebbe porre interessanti questioni di confronto con culture altre, tra-dizionalmente poco coinvolte nel discorso filosofico. Una bella sfida.
4a area: il disagio personale
Area Il disagio personale Frequenza:11,9%
Temi emersi Tristezza, delusione, rinuncia⌠Preoccupazione Stato di frustrazione Rapporto con la malattia e la morte Rapporto con la propria identità sessuale
Vi è poi un quarto gruppo, abbastanza poco rilevante nel campionepreso in esame, che raccoglie una serie di tematiche che potremmo defi-nire in modo piuttosto largo attinenti alla sfera del disagio personale.
Non si può fare a meno di osservare che le tematiche raccolte inquestâarea esigono una certa attenzione perchĂŠ hanno a che fare con un
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risvolto particolarmente delicato dellâumano, quello che riguarda la no-stra identitĂ individuale cosĂŹ come noi la percepiamo privatamente, cioèprima del movimento in cui ci esponiamo allâaltro, al rapporto, alla con-divisione, allo scambio, alla relazione. Stiamo parlando di quel che in-contriamo quando rivolgiamo la nostra attenzione a noi stessi, cercandodi delineare la nostra fisionomia interiore, il nostro essere questi e nonaltri, la nostra specificitĂ irripetibile (ciò che altrove si potrebbe chiamarelâio), cioè quello stato di immediatezza che cerchiamo e insieme rendiamoimpossibile con la nostra stessa interrogazione, che rompe ogni identifi-cazione e ci costringe a fare i conti con un io che è di giĂ un altro inquanto interlocutore, in quanto osservato, in quanto immagine che iostesso guardo, in quanto, soprattutto, profilo che io stesso plasmo neltempo. In questo senso preferisco usare il termine sĂŠ piuttosto che il ter-mine io, che è ambigua illusione a una trasparenza che non esiste.4
Ma ciò che va ribadito con forza è che qui intendo riferirmi a condi-zioni di natura strettamente esistenziale e non patologica, che il filosofoconsulente può affrontare efficacemente proprio perchĂŠ ha cancellatodalla sua pratica ogni intento terapeutico (se non addiritturaâpatologizzanteâ), e quindi è capace di affrontare tutte le diverse sfuma-ture del disagio personale dal punto di vista delle componenti valorialiche mettono in gioco. E soprattutto è capace di muoverle dalla strettaosservazione dellâio alla dimensione in cui lâio diviene relazione, con sĂŠ econ altri. Spostando il focus dellâattenzione dalle dinamiche interiori alledinamiche sociali, il filosofo consulente è in grado di proporre soluzioninon scontate e non interamente rivolte allâisolata individualitĂ dellâospite.
Si trovano, dunque, qui raccolti una serie di temi e di condizioni pro-blematiche che in qualche modo attengono alla sfera della persona inrapporto a se stessa. Si tratta per esempio di ciò che gli ospiti chiamanoun poâ genericamente e confusamente, âtristezzaâ, o âdelusioneâ, oâcondizione di rinunciaâ per indicare, con termini appunto molto vaghi emolto approssimativi, una vasta gamma di condizioni esistenziali negati-ve spesso assai diverse le une dalle altre. In ogni caso, va detto, si trattasempre della necessitĂ di una ricostruzione interiore, della revisione dellaidentitĂ personale, che deve essere definita e riconosciuta per potersiesplicitare poi di fronte agli altri nellâagire.
4 Non sviluppo qui questa delicata tematica, Mi limito a riconoscere il mio debito nella scelta del
termine al percorso di riflessione di Paul Ricoeur, cfr. in particolare SĂŠ come un altro, Jaca Book,Roma 1993.
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Non diversamente possiamo pensare allo sviluppo di quelle tematicheche partono dallâesperienza di sentimenti di frustrazione generica rispettoal proprio vivere e alle proprie aspettative, o di preoccupazione profondain relazione al rapporto con la malattia (e con la morte), tematiche cheprima di essere svolte in funzione dellâagire immediato della persona, edella costruzione del suo progetto esistenziale, richiedono lo sviluppo diuna interrogazione interiore, richiedono il passaggio attraverso una messain questione della propria identitĂ cosĂŹ come emerge dalla narrazione chesi è in grado di farne, a partire dal passo indietro che esige la filosofia.
Appartengono, secondo me, a questo capitolo anche le tematiche rela-tive al percorso di accettazione della propria identitĂ sessuale, e non solonel caso dellâomosessualitĂ . Prima di poter lavorare nel colloquio sui rap-porti esterni, sulle relazioni, sulla esposizione allâaltro, è necessario averfatto chiarezza sulla fisionomia interiore della persona, che deve averepreventivamente riconosciuto se stessa prima di offrirsi al riconosci-mento dellâaltro. Ă quanto accade anche nel caso di chi deve confrontarsicon gravi malattie, e che deve in qualche modo rielaborare la propriaidentitĂ in funzione di questa sua nuova condizione che travolge nonsolo lâintero campo delle aspettative e delle possibilitĂ , ma deforma itratti stessi della personalitĂ , il modo in cui sentiamo di essere quello chesiamo.
à chiaro che quasi tutti questi temi contengono, rispetto a quelli dellealtre aree, la specificità di una piÚ viva sofferenza fisica, e quindi espon-gono il colloquio alle difficoltà di un confronto con il dolore che è sem-pre coinvolgente e problematico per il filosofo consulente.
5a area: questioni di lavoro
Area Questioni di lavoro Frequenza:9,9%
Temi emersi Insoddisfazione/disagio sul lavoro DifficoltĂ di lavorare in gruppo Rapporti con i colleghi Dubbi sulle scelte professionali Rapporti con i dipendenti Licenziamento
La sottostima delle problematiche inerenti il lavoro fra quelle proposte
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è certo anche legata a fattori contingenti; tuttavia se la prendiamo sul se-rio, come indicativa di una tendenza, allora dovremmo interrogarci se-riamente intorno alla questione seguente: in questo momento il pubblicopotenziale della consulenza filosofica individuale forse non ritiene che lastessa possa rappresentare una risposta alle difficoltĂ che si sviluppanoallâinterno della condizione lavorativa. Dâaltra parte si può osservare chefra i temi specifici proposti quello (di gran lunga) piĂš frequente è manife-stazione di un disagio generico, di una insoddisfazione rispetto al lavorosvolto; solo dopo vengono tematiche piĂš dettagliate, relative alla diffi-coltĂ di lavorare in gruppo e ai rapporti con i colleghi (o con i dipenden-ti). La filosofia evidentemente è piĂš facilmente associata a questioni ge-nerali relative alla condizione esistenziale della persona, che a singole di-sfunzioni operative in un ambiente specifico come quello lavorativo. Câè,in questo, un ampio margine di miglioramento dal punto di vistadellâimmagine pubblica della consulenza filosofica. PerchĂŠ, viceversa, es-sa potrebbe aprire uno spazio nuovo, ancora ampiamente non percorso,nel quale portare le problematiche attuali del lavoro a una piĂš alta consa-pevolezza individuale, ma anche a una condivisione tale da rendere pos-sibile la costituzione di un discorso critico comune che interroghi nonsoltanto il singolo nei suoi rapporti e nei suoi disagi, ma anche le istitu-zioni, nelle loro pretese e nelle loro articolazioni.
Forse in questa direzione è opportuno pensare a una interazione ope-rativa molto stretta tra attività di gruppo e attività di consulenza indivi-duale per ricavarne la proposta piÚ ricca che la pratica filosofica è in gra-do di fare in questo momento.
Conclusione
Ho giĂ fatto notare come questa indagine contenga in sĂŠ il rischio realedi far emergere un profilo tipo dellâospite della consulenza filosofica indivi-duale, e di pensare che esso rappresenti lâinterlocutore principale.
In realtĂ quel che appare, pur con tutti i limiti e le approssimazionidella ricerca, è piuttosto, come giĂ si è detto nellâintroduzione, un profiloapprossimativo ma credibile, di chi sta accogliendo piĂš facilmente laproposta della consulenza filosofica in questo momento in cui essa sipresenta in modo indifferenziato. Certo, la donna fra i 30 e i 40, che sof-fre delle sue crisi coniugali, è in questo momento lâospite piĂš frequentedello studio di consulenza filosofica. Ma se ci fermiamo a questa osser-vazione dimentichiamo i fattori essenziali per comprendere lâautentica
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natura di questa attivitĂ .Qualcuno potrĂ restare forse deluso osservando che buona parte del
lavoro di consulenza, visto alla luce di una ricostruzione di questo tipo,sembra somigliare fin troppo alle molte pratiche dâaiuto giĂ presenti sulmercato. Ă però un errore prospettico: lâevidenziare soltanto il tema dellaconsulenza ovviamente fa perdere tutta lâoriginalitĂ del suo trattamentoin termini filosofici; ma qui non si è trattato per nulla della intima naturadi questa forma di colloquio, che possiede una sua assoluta specificitĂ .
Il fatto poi che, in assoluto, i temi piĂš frequenti nei colloqui abbiano ache fare con le questioni relazionali e in particolare con quelle di originefamiliare, potrebbe far temere uno sviluppo futuro che configurilâapproccio filosofico sul modello di una specie di consultorio familiare.Ă unâimpressione legittima, ma non corretta, il rischio esiste ma solo senon ci rendiamo conto di almeno tre fattori essenziali.
In primo luogo, il fatto che la consulenza filosofica non è soltanto ri-chiesta, ma anche offerta, e lâofferta ha giĂ iniziato a specificarsi in am-bienti determinati nei quali sta trovando interesse e rispondenza; pensia-mo ai progetti di sportello scolastico alle attivitĂ con gli anziani, alle of-ferte rivolte a precise categorie professionali (medici, infermieri, formato-ri eccetera). Da questo punto di vista è propriamente il modello dellostudio di consulenza individuale, cioè quello al quale un cliente genericosi rivolge di sua iniziativa, che va interpretato in modo diverso rispetto aimodelli canonici delle psicoterapie per scongiurare il rischio di riproporrepedissequamente forme di aiuto non originali e tali, soprattutto, da de-terminare una pratica al suo livello piĂš basso, perchĂŠ sacrifica le reali po-tenzialitĂ della parola filosofica. Lo studio di consulenza non può esserecentrato esclusivamente sullâincontro duale, ma deve probabilmentesempre piĂš articolarsi attraverso attivitĂ di laboratorio, di seminario, diconfronto collettivo.
In secondo luogo, non bisogna mai dimenticare che la natura della filo-sofia in quanto pratica è quella di rivolgersi a tutti, uomini e donne, ado-lescenti, giovani, adulti, anziani. La pratica filosofica non è nĂŠ limitata, nĂŠconfinata ad un rapporto speciale con una speciale fascia di etĂ , anche seprobabilmente il modo in cui essa viene realizzata condiziona la risposta.Per lâadolescente funzionano meglio azioni come quella dello sportello,che è strettamente legato allâambiente scolastico e si presenta come of-ferta specifica, rivolta a quella specifica classe di etĂ . Il professionista,ugualmente, è piĂš probabile che risponda a una offerta piuttosto che es-sere lui in prima persona a cercarla. Ancora, bisognerebbe valutare, ad
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esempio, le modalitĂ del diversificarsi della risposta nel caso di attivitĂ digruppo, in cui è meno forte lâelemento di esposizione personale.
Infine, ma a mio modo di vedere è sicuramente la questione essenziale,dovrebbe essere ben chiaro a chi entra nella dimensione della pratica fi-losofica che lâobiettivo finale non può essere quello pur legittimo, anzinecessario, di trovare risposte alla condizione di disagio dellâospite, mache si deve puntare piĂš in alto, a introdurre a una vera e propria vita filo-sofica; ciò che si può fare attraverso un percorso di consulenza filosoficanon brevissimo, ma soprattutto attraverso un passaggio dal rapportoduale al rapporto di gruppo (e viceversa). Ă questa la direzione che laconsulenza, a mio avviso, deve intraprendere: dal dialogo a due verso ildialogo di gruppo e dalle situazioni collettive al confronto duale, i duemovimenti non possono essere pensati separatamente ma devono essereprobabilmente composti in funzione di un obiettivo generale relativoallâacquisizione di unâattitudine filosofica rispetto alla vita. PerchĂŠ lo sco-po del colloquio filosofico è solo marginalmente quello di risolvere il pro-blema, e mettiamo pure in evidenza il termine per intenderlo nel modopiĂš largo possibile: risolvere nel senso di superare, o di dissolvere, o di arti-colare, o di decostruire, o di ridescrivere, o di imparare a convivere, ecc.Il tema proposto dallâospite deve comunque essere affrontato, perchĂŠaltrimenti verrebbe meno, semplicemente, il senso della consulenza filo-sofica; ma lo scopo finale di essa, nel momento stesso in cui affronto iltema, deve essere quello di mettere lâospite in condizione di acquisire al-cune disposizioni e attitudini, di esercitarlo ad alcune pratiche:lâinterrogazione, lâesame di sĂŠ, la messa in questione dei propri terminichiave, lâelaborazione consapevole dei propri rapporti, la capacitĂ diesporsi allâaltro, ecc. che costituiscono la complessa articolazione dellavita filosofica, o di quel che altri chiamano âsaggezzaâ. Bisogna rendersiconto che non si tratta di due fasi separate (prima risolvere il problema epoi allargare la prospettiva alla persona), ma di un agire filosofico chenello stesso tempo opera su diversi piani con lâintento di passare costan-temente dalla parola al gesto, dal discorso allâazione, dal colloquio allavita quotidiana.
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Conversazioni
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Tavola rotonda suâPratica Filosofica e scritturaâ
Il 17 luglio 2009 nellâambito del VII Seminario Nazionale di Phronesis, dal titolo Il cuoree i confini del colloquio filosofico (tenutosi a San Felice di Benaco, sul Lago di Garda, dal 16al 19 dello stesso mese), si è svolta una tavola rotonda sui temi del rapporto tra praticafilosofica e scrittura. Vi hanno partecipato Giorgio Giacometti, Davide Miccione, NeriPollastri e Stefano Zampieri. Sperando di fare cosa utile e gradita ai lettori diâPhronesisâ ne riportiamo per iscritto i contenuti.
Davide Miccione - Tema di questa tavola rotonda è il rapporto tra oralitĂ e scrittura allâinterno della pratica filosofica. La scelta di questo temanasce occasionalmente dal dialogo pubblicato nella seconda parte dellibro scritto da Neri Pollastri e da me, pubblicato col titolo Dietro lequinte. Un dialogo sullâutopia della pratica filosofica scritta1, e piĂš specifica-mente dalla franchezza (tipica di questa associazione) del nostro presi-dente Stefano Zampieri che ci ha detto, appena letto il dialogo, âIo nonsono dâaccordo su niente di quello che avete dettoâ. A quel punto ab-biamo pensato che poteva essere interessante eviscerare i temi del di-saccordo e quindi farne un confronto, magari un confronto di praticafilosofica.
Giorgio Giacometti - Io dico due cose sulla mia presenza non prevista enon gradita. Mi sono inserito proditoriamente quando ancora si pensa-va che non avrei fatto altro durante questo Seminario (cosa che poi si èrivelata falsa), perchÊ da tempo e per altre ragioni, come i colleghi san-no, mi occupo del rapporto tra oralità e scrittura. Quindi mi sembravautile dare un contributo che spero, però, limitato e parziale.
D. Miccione - Il tema è ovviamente enorme, quindi io descriverò som-mariamente le linee principali del nostro affrontarlo e poi passerò laparola a Stefano Zampieri per sapere un poâ che cosa ne pensa. NeriPollastri ed io ci siamo occupati del problema della pratica e del pro-blema della scrittura, una questione che giĂ , cosĂŹ posta, mi lasciava per-
1 Si tratta di Neri Pollastri, Davide Miccione, Lâuomo è ciò che pensa. Sullâavvenire della pratica filosofi-
ca, Di Girolamo, Trapani 2008.
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plesso; nel senso che io tendo a vedere la pratica come oralitĂ e lascrittura un poâ come cristallizzazione o pacificazione: ovviamente lascrittura letta, perchĂŠ la scrittura nel suo farsi è anchâessa in qualchemodo una pratica; però in questo caso ci stiamo occupando dellascrittura nella sua dimensione socializzata, insomma nella suaâdimensione pubblicataâ, per cosĂŹ dire.A me sembra, però, che il tema della scrittura, per chi si occupa di pra-tica filosofica, sia anche occasione di meditare su una serie di posizioniche emergono, spesso sotto traccia, e che sono rivelative. Una di que-ste, ad esempio, è la questione della lingua, cioè la questione, direi an-che, del gergo, del tipo di lingua che il consulente filosofico può o deveo dovrebbe avere. La questione è innanzitutto il capire se sia un temaassolutamente irrilevante, cioè se il consulente ha la lingua che ha, cosĂŹcome ogni filosofo lavora sul tipo di linguaggio che ha; oppure se il suoessere consulente, se il suo essere filosofo pratico lo porti invece versolâadempimento di alcuni doveri, ad esempio il dovere della chiarezza.Se questo dovere della chiarezza - e scusatemi se adesso sto piĂš che al-tro creando confusione, ma lâintenzione è di rendere piĂš ricche le do-mande, per quanto riguarda le risposte spero che qualcuna, parziale,emerga piĂš avanti nella discussione - si configuri come una semplifica-zione, come molti temono; oppure si configuri quasi come un ritornoad una veritĂ piĂš vicina allâesistenza e quindi una veritĂ che cerchi inqualche modo di evitare i tecnicismi. Dunque se rappresenti o menouna perdita. Una cosa che capita spesso di vedere nellâambito dellapratica filosofica ad esempio è questa: persone che parlano in modomolto chiaro e scrivono in modo criptico e difficilissimo. Câè chi diceche ciò sia giustificato dalla diversitĂ delle due dimensioni. Come tali,nella dimensione della scrittura dobbiamo riacquistare un rigore, unaricchezza di riferimenti che nella pratica invece, per necessitĂ , trala-sciamo. Questa potrebbe essere una prima questione. Ad essa si con-nette, a mio parere, quella della divulgazione: cosa possa essere la di-vulgazione, cosa possa essere un libro di pratica (se esista un libro dipratica), e se le due cose abbiano davvero a che fare lâuna con lâaltra.Che esistano libri sulla pratica è abbastanza ovvio. Immaginiamo giĂ unlibro sulla pratica nel senso di una storia della pratica filosofica o dellaconsulenza filosofica, una tesi di laurea o di dottorato sulla consulenzafilosofica: sono di fatto dei libri dove si cerca di parlare dallâesterno diprocessi, di autori, delle loro idee. Resta il dubbio se sia un libro di pra-tica. Potremmo anche analizzare altri libri che solitamente vengono de-
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finiti di pratica: pensiamo, non so, a un libro come quello di Galimber-ti, La casa di psiche. In realtĂ di cosa sia la consulenza filosofica o, se vo-gliamo cambiare domanda, di che cosa accada dentro la consulenza fi-losofica, durante una consulenza filosofica quel libro non parla mai. Siparla in maniera molto affascinante (e a mio parere utile) di quale puòessere la linea della contemporaneitĂ entro cui possa inserirsi la consu-lenza filosofica; si parla di quale possa essere lâutilitĂ della consulenzafilosofica, di quale possa essere lâorizzonte entro cui si inserisce; ma diche diavolo dicano questi due, consulente e consultante, quando sonochiusi lĂ dentro non si ha la piĂš pallida idea.Qualcosa di quel succede lĂŹ dentro, per esempio, occhieggia nei libri diLahav. Possiamo definire allora âpratica filosoficaâ quei libri perchĂŠ sidescrive ciò? Non lo so. Probabilmente credo che Pollastri direbbe dino; i miei due altri interlocutori non saprei dire. Oppure potremmopensare che pratica sia la narrazione della pratica, cioè una narrazionein prima persona dellâesperienza di una pratica? Oppure pratica è solola pratica in atto, cioè quel filosofare, facendo la spola tra la quotidia-nitĂ , il proprio vissuto, la dimensione biografica e la dimensione filoso-fica dellâuniversalizzazione? Ecco questi sono tutti temi, secondo me,che hanno poi una ricaduta su quella che è la nostra visione della prati-ca filosofica e della consulenza filosofica. Io a questo punto mi ferme-rei qui e passerei la parola a Stefano Zampieri.
Stefano Zampieri - Innanzitutto devo chiarire che, al di lĂ dellâintrodu-zione che ha fatto Davide, la mia opinione su questo libro è moltobuona. Secondo me questo è un bel libro e quindi anche il fatto che ioabbia fatto una critica a un particolare aspetto di questo libro, cioè alcapitolo dedicato a una conversazione tra Davide e Neri sulla scrittura,va inteso in questo senso: come il riconoscimento di un libro moltoben fatto che pone delle questioni tali da giustificare il fatto che si siadeciso di dedicare un capitolo apposito a un confronto tra voi due suquesto specifico argomento. PerchĂŠ la cosa è problematica. Non lo fos-se stato, quel capitolo sarebbe stato inutile. Allora, che la cosa presentidei problemi credo che ce ne siamo resi conto tutti benissimo. Io nonmi riconosco in alcune delle proposte che voi avete fatto in quel capi-tolo, e questa è la mia critica, proverò a spiegare perchĂŠ. Ma le cose chetu hai detto adesso, in introduzione, sono molto interessanti; perchĂŠ èevidente che da quando siamo entrati in questa dimensione, quella dellapratica filosofica, ci siamo trovati di fronte al problema del testo di prati-
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ca filosofica. Ci siamo resi conto subito che câera una contraddizione. Lapratica filosofica, se è unâaltra pratica della filosofia, non può che avereanche un linguaggio suo. E allora fare pratica filosofica attraverso il lin-guaggio della tradizione filosofica è difficile; se non forse, io credo, im-possibile. Lâelenco dei libri che hai fatto tu, Davide, è molto emblema-tico. Sono libri che la maggior parte di noi conoscono bene: sono i libridi Galimberti, di Lahav, aggiungerei i libri di Neri Pollastri, natural-mente. Sono libri di pratica filosofica? Sono libri sulla pratica filosofica,non câè dubbio. Che siano libri di pratica filosofica, beh, questo secon-do me giĂ apre delle questioni. Cosa vuol dire? Che non si deve scrive-re? Ad esempio non si deve fare storia della pratica filosofica? Il li-bretto di Davide, della Xenia, che è una storia della pratica filosofica, èun libro molto interessante, molto importante, molto utile, perchĂŠ ciaiuta a ricostruire una dimensione. Non è un libro di pratica filosofica,però, mi pare. Ă evidente, no? E dâaltra parte lâalternativa qual è? Tuhai posto giĂ unâalternativa in cui io non mi riconosco: si tratta sempli-cemente di narrare esperienze? Io non lo credo. Io credo che questa siauna falsa alternativa. Mi spiego meglio: credo che ci sia una falsa alter-nativa tra parola scritta e parola orale. Se pensiamo che la parola scrittasia, come dire, parola di auctoritas, mentre la parola orale sia pratica di-scorsiva, che si esaurisce nellâevento, secondo me stiamo commettendoun errore, cioè stiamo vedendo le cose in maniera manichea, troppoforzata. Io credo che il termine chiave nel quale io mi riconosco èâesperienzaâ, come dico sempre, anche nel mio libro2, in cui parlo diparola di esperienza. Quando io dico âparola di esperienzaâ non intendodire che qui si tratta semplicemente di narrare esperienze. Dico una cosache per me è diversa. E dico qualcosa che può essere tanto parola oralequanto parola scritta. Mi spiego: secondo me è possibile arrivare a unaparola scritta, a una forma di scrittura, che sia propria della pratica eche non sia nĂŠ la divulgazione e che non sia nemmeno il romanzo, cioèla narrazione romanzata di esperienze. Io credo che esista una terzapossibilitĂ : quella di un linguaggio che è filosofico ma che è anche lin-guaggio di esperienza. Ora come sia possibile che una parola scritta sialinguaggio di esperienza e, insieme, anche linguaggio filosofico, è que-sta per me la domanda importante. Dico subito: secondo me non esisteun esempio da poter presentare. Cioè non posso dire: âEcco, lâesempio
2 Stefano Zampieri, Lâesercizio della filosofia, Apogeo, Milano 2007.
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è questoâ; perchĂŠ anche il mio libro, che ho cercato di costruire conquesta logica, in realtĂ fa diversi esperimenti. Câè una prima parte che èpiĂš di ricerca filosofica, a tratti molto brevi, non dico aforismi, ma qua-si: ed è un percorso, dove, diciamo cosĂŹ, il passaggio dalla parola auto-revole della tradizione filosofica alla parola che io chiamo dâesperienzasta nel fatto che non ci sono le note a piè di pagina. Che non è una co-sa cosĂŹ banale (poi magari ci ritorno). Un altro esperimento è in un al-tro capitolo dove tento di riportare un certo numero di colloqui filoso-fici con una scrittura originale, cioè tentando di raccontare che cosa èsuccesso a me consulente in quella particolare situazione: quindi senzafare la storia del caso, la descrizione delle persone, ma facendo emerge-re sensazioni, difficoltĂ , ipotesi, domande, ecc. Ă un tentativo. Câè unultimo capitolo in cui addirittura io faccio una bio-bibliografia, cioèfaccio un percorso mio personale attraverso i testi che mi hanno se-gnato. Sono soltanto degli esperimenti e nessuno di questi è il modelloche io sto proponendo. Tuttavia secondo me questa deve essere la di-rezione, cioè un processo di ricerca nel quale non si parla di divulga-zioneâŚ. Cioè si può fare divulgazione con altri intenti, ma la scritturadella pratica filosofica, a mio modo di vedere, non è divulgazione e nonè romanzo; è una forma di scrittura filosofica, ma mediata dallâesperienza.Io mi fermo qui perchĂŠ so che vi sono cose che Neri deve dire sicura-mente.
Neri Pollastri - Innanzitutto mi sembra necessario premettere che il pro-blema sta anche in quello che si intende per âpratica filosoficaâ. Ma quisi aprirebbe un capitolo troppo lungo, per cui mi limiterò a dire chepersonalmente credo che sia pratica filosofica anche la filosofia tradi-zionale - nonostante questâultima abbia determinate derive che la ren-dono autoreferente, iperspecializzata, lontana dal concreto ecc. ecc.Questa premessa la devo fare perchĂŠ, secondo me, quello che poi di-venta essenziale per distinguere un testo filosofico da un romanzo èche la scrittura conservi quel rigore disciplinare che è proprio della filoso-fia. E sottolineo della filosofia, perchĂŠ quel rigore non è specifico dellapratica filosofica, ma proprio della filosofia.Ma, detto questo, allora la pratica filosofica che cosâè? Cosa la distinguedalla filosofia tradizionalmente intesa? E specifico che per âfilosofiatradizionalmente intesaâ evidentemente non intendo le glosse a quelche hanno detto e scritto coloro che ci hanno preceduto - perchĂŠquella non è tanto filosofia, quanto storia della filosofia, storiografia filo-
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sofica, ecc. - ma quel che troviamo in tante opere classiche e contem-poranee, nelle quali si cerca di analizzare certi processi, certi fenomeni,certi aspetti della realtĂ , e lo si fa a un livello di astrazione piĂš o menoalto. Cito ad esempio Ermanno Bencivenga, il quale - quando scrissilâintroduzione alla sua intervista su âPhronesisâ - mi contestò di averaffermato che lui scrivesse opere divulgative. ÂŤNo, io non penso di faredivulgazione. Le mie opere sono un tentativo di fare filosofia in unamaniera accessibileÂť, mi disse. E aveva ragione, era stato un mio erroreessermi lasciato sfuggire âopere divulgativeâ: i suoi lavori sono âoperedi filosofiaâ, ma sono scritte in modo che tutti possano frequentarla etrarne i vantaggi che la filosofia può dare. Per il resto non è diversa daquella che Bencivenga fa ad âalti livelliâ.Il problema è che se io dico che anche la filosofia tradizionale è âpraticadella filosofiaâ, questâultima formulazione può apparire ridondante, ba-stando il solo termine âfilosofiaâ. A mio parere, invece, non lo è, per-chĂŠ âpratica della filosofiaâ mette lâaccento sul fatto - di solito trascu-rato - che anche âfare filosofiaâ in modo tradizionale è una pratica. Equesto ha tutte le sue - anchâesse trascurate - conseguenze.
S. Zampieri - Scusami, ma questo è un punto dirimente, su cui ti chiedodi chiarire. Tu dici anche la filosofia tradizionale è pratica filosofica. Iodico: anche la filosofia tradizionale è una pratica. Mi pare un poâ diver-so. Quando io penso alla filosofia penso alle varie pratiche attraverso lequali si concretizza, si materializza. E allora la pratica della tradizionenon è la pratica della pratica filosofica. Scusate la ridondanza del termi-ne, peròâŚ.
N. Pollastri - Non sono completamente convinto di questo.
S. Zampieri - Beh, ci sono una presentazione diversa, una necessitĂ lin-guistica diversa, quello che tu hai chiamato il ârigore disciplinareâ. Co-me si vede il rigore disciplinare? Ă una forma retorica il rigore discipli-nare. Ă una forma retorica, cioè è quella che ti costringe a parlare,quando io faccio la filosofia accademica, mettendoci le note a piè dipagina, giustificando quello che dico, ricostruendo il percorso delle mieideeâŚ.
N. Pollastri - In Platone ci sono le note a fondo pagina? In Kierkegaardci sono le note a fondo pagina? Le note a fondo pagina esistono nella
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letteratura secondaria! Allora, forzando forse un poâ le cose, diciamoche neppure la letteratura secondaria della filosofia è filosofia, ovveronon è esattamente pratica della filosofia, ma solo una meta-riflessionesulla filosofia.
S. Zampieri - Nella filosofia contemporanea ti sfido a definire che cosâèla letteratura secondaria. O è tutta letteratura secondaria o è tutta lette-ratura primaria. Questa distinzione è difficile da fare.
N. Pollastri - Ci sono una quantitĂ di libri di filosofia contemporaneapressochĂŠ privi di note a fondo pagina. E ci sono scritti che fannoparte della filosofia accademica ma sono assai vicini alla pratica filoso-fica, cosĂŹ come la intendiamo da alcuni anni. Mi viene in mentelâautobiografia di Feyerabend, scritta pochi mesi prima della sua morte.Sono riflessioni sul suo tragitto intellettuale: non proprio unâautobio-grafia, piuttosto direi una riflessione filosofica, molto sentita, di unuomo che stava morendo di tumore. Alcune considerazioni che avevafatto nellâambito della filosofia della scienza assumevano a quel puntouna valenza sul piano della sua stessa esistenza. Ă un esempio, ma tan-tissima filosofia si muove anche su questo piano.Poi, ovviamente, ci livelli ben diversi di astrazione, e su questo sonodâaccordo a distinguere. La Critica della ragion pura è filosofia, senzâaltro,però è lontana dal piano della pratica filosofica cosĂŹ come la pensiamooggi. Ma allora si tratta di distinguere non tanto nei termini del rigoredisciplinare, quanto in quelli dei diversi livelli di astrazione. Su questo sipotrebbe cominciare ad aprire un discorso.Ripartendo, però, dal problema del rapporto oralitĂ -scrittura: sonodâaccordo con quanto è stato detto a proposito delle diverse forme diopere che sono state prodotte da noi e da altri, e sono dâaccordo ancheche sia difficile individuare un vero e proprio âmodelloâ di scritturaâpratico-filosoficaâ. Tuttavia - come ho scritto anche nel mio ultimolibro - qualcosa forse câè: ad esempio, almeno alcuni dei libri di Giu-seppe Ferraro mi sembrano un esempio di possibile modello. E infattinon mi sembra un caso che molti filosofi accademici li guardino consospetto, come qualcosa che non appartiene alla loro letteratura. Eppuredentro ci sono riflessioni di un rigore disciplinare che mi tocca moltoda vicino. Ecco, questo per me è decisivo: che al di lĂ del contenuto, diquello che Ferraro scrive, sono proprio i processi che mi toccano.Fino ad oggi, io credo di avere scritto tutta meta-pratica - per riprendere
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il termine che abbiamo usato nel dialogo con Davide in Lâuomo è ciò chepensa. Tutta meta-pratica, ad esclusione proprio della prima parte deLâuomo è ciò che pensa: quella, io credo, non è semplicemente meta-pratica, bensĂŹ una possibile modalitĂ di fare pratica filosofica scritta. Per-chĂŠ? PerchĂŠ alla fin fine - affrontando una serie di questioni senza maichiuderle, ma mantenendole aperte e fluide - cerco di mostrarvi unprocesso di pensiero che è il mio stesso rapporto con il pensiero, con lafilosofia. Con la filosofia, si badi, intesa come atteggiamento e come ri-gore disciplinare, non come corpus letterario o scuola condotta da Mae-stri. Questo rapporto processuale io, in quel libro, cerco in qualchemodo di farlo vedere: non lo descrivo, non ne detto le norme. Lo mo-stro, lo presento allâopera, in esercizio - in pratica.Poi, certo, quel testo è una piccola cosa, oltretutto non ripetibile, inquanto ancora parla di se stesso: è filosofia che mostra in esercizio lafilosofia. Però non è proprio metapratica, perchĂŠ non parla della disci-plina: come ho detto, cerca di mostrarla allâopera, quello è il suo in-tento.Volendo andare oltre questo esempio, con i suoi pregi e i suoi limiti,credo che se si vuol cercare di indicare le possibili linee direttrici diopere di pratica filosofica, io le identificherei nellâordine di cose chescrive Galimberti nei suoi libri cosiddetti divulgativi. Non La casa di Psi-che, che è ancora anche metapratica, ma piuttosto Le cose dellâamore oLâospite inquietante. Libri che a me personalmente non entusiasmanoparticolarmente - anche se sono spesso ricchi di spunti importanti - mache non a caso sono capaci di toccare qualcosa in un gran numero dipersone, di produrre un certo tipo di riflessione. PerchĂŠ penso cheproprio questa sia una direttrice che merita di essere esplorata se si cer-cano esempi e modelli di scrittura pratico-filosofica? PerchĂŠ in quei li-bri viene portato avanti un lavoro che è tradizionalmente filosofico:non nel senso che si fanno glosse alle opere altrui o si fa usoâscientificoâ delle note a fondo pagina (che non ci sono), ma nel sensoche si utilizza una formazione filosofica (una, quella dello scrittore, e qui ilbello della filosofia e quindi il bello della scrittura di pratica filosofica èproprio che ci siano persone diverse di formazione diversa, piĂš ap-procci sullo stesso argomento) per analizzare, vagliare, sottoporre acritica, aprire prospettive - in breve, per filosofare - su problemi condivisida una quantitĂ di persone. Che poi sono spesso i problemi che fini-scono sui titoli dei giornali.Questo mi sembra essere la cosa piĂš rilevante della pratica filosofica (e
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osserverei come almeno una parte dei seminari di pratica di Achenbachsi muovano allo stesso modo): argomentare con il rigore della filosofia attornoa questioni quotidiane. Con qualche riferimento ai filosofi, quando serve,ma sempre finalizzati a esplicitare e precisare cosa ne pensiamo e cosacapiamo di un problema noi stessi. E questo si può fare tanto oral-mente, quanto per iscritto, sebbene con modalità abbastanza diverse.Proprio ieri, in un laboratorio, ho fatto un esempio di pratica filosoficaa partire dalla domanda se sia giusto o meno affermare che gli immi-grati devono tornare a casa loro. Ed abbiamo visto come, aldilà dellaprovocazione e degli schieramenti ideologici, scegliere la risposta nonsia per nulla semplice. Ecco, cerchiamo di utilizzare gli strumenti e leprocessualità della filosofia per fare questo, anche per iscritto.
D. Miccione - Io vorrei sentire Giorgio per allargare anche un poâ ilcampo.
G. Giacometti - SĂŹ, cerco di non mettere troppa carne al fuoco, facendopiĂš che altro delle domande. Io vi chiedo se questa disquisizione sullaquestione dellâoralitĂ e della scrittura non ci porti un poâ fuori strada.Vi propongo unâipotesi. Partiamo dallâassioma o dallâipotesi che Neri,tra lâaltro, in vari testi, ci ripropone, cioè che la pratica filosofica siaâfilosofia e nientâaltroâ, cioè sia un esercizio del pensiero e della filoso-fia. Anche adesso Neri citava: âLa pratica del pensiero è filosofare, èpensareâ. Ma se lâevento del filosofare è il pensiero - questo mi ricordaun caro filosofo a tutti molto vicino, soprattutto [con ironia] per le suescelte politiche, tale Giovanni Gentile, ma lasciamolo perdere - co-munque, se il filosofare è lâevento del pensiero o semplicemente è ilpensiero, allora lâoralitĂ , la scrittura o anche, ad esempio, lâimmaginesono dei medium attraverso cui può o meno prodursi - in chi producequesti medium, scrive, parla o dipinge, e in chi fruisce di questi medium -lâevento in cui risiede il filosofare, che è il pensare. Allora, ci sono, di-ciamo, forme in cui questo tipo di evento si produce con maggiore dif-ficoltĂ (il monologo, la conferenza, il libro scritto), in cui non câè lapossibilitĂ , come dice Neri anche in questo testo, del contraddittorio,dellâapprofondimento, dellâevento del pensiero, o in cui ciò è piĂš diffi-cile, non impossibile; e forme, invece, in cui questo avviene piĂš facil-mente, che, ad esempio, sono quelle che noi comunemente chiamiamopratiche, cioè la consulenza individuale, il colloquio, anche la pratica digruppo, perchĂŠ il dialogo favorisce lâevento del pensiero. Ma questo
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non esclude che la meditazione, che ne so, di Montaigne o di autori piĂšvicini a noi, letta, generi nel lettore lâevento del pensiero; ma può anchenon generarlo. O, non so, la poesia La ginestra di Leopardi. Nel sensoche noi non dovremmo confondere il medium con il pensiero. Questonon vuol significare che esista un pensiero libero dal linguaggio. Pro-babilmente non si pensa se non attraverso il linguaggio, attraverso lediverse forme del linguaggio. Ma io distinguerei il prodursi del pensierodai vari media. Se parliamo dei vari media, come ho giĂ accennato, alcuneforme - giĂ Platone ce lo racconta - sono meno, come dire, facili (ancheNeri lo dice in questo testo): come la scrittura, il monologo, il discorsocontinuo che non ammette la contestazione; altri sono un pochino piĂš,diciamo, permeati dallâevento del pensiero. Tra questi - Neri nel suo te-sto suggeriva e anche adesso nel suo intervento, in parte, vi alludeva -anche i libri scritti (e qui le note a fondo pagina possono svolgere il lo-ro bravo ruolo) possono essere intesi come un gioco di dialoghi a di-stanza tra autori che in qualche modo si scrivono come dei messaggi esi rispondono (una pratica per la quale qualcuno potrebbe utilizzareanche altri media, per esempio la posta elettronica, ma questa la chiudocome parentesi). Allora questa modalitĂ , di usare il medium della scrittu-ra per svolgere un dialogo, sia pure a distanza, potrebbe essere unaforma alternativa per favorire lâevento del pensare. Ma secondo me,come dimostrano le difficoltĂ a intendersi quando anche si usa la solaposta elettronica, il problema della scrittura è che, quando noi usiamoquesto genere di medium, oltre allâatteggiamento di tipo critico e di ri-cerca, diciamo cosĂŹ, della veritĂ , che si può attivare anche nel dialogoorale, oltre a questo si sovrappone il problema ermeneutico, della com-prensione di che cosa diavolo costui voleva dire. Infatti Platone ci dice:âNon possiamo interrogare il testo perchĂŠ ci risponde sempre le stessecoseâ. Quindi la scrittura è piĂš opaca allâevento del pensiero perchĂŠnon si presta a questo stesso evento (il che non esclude che esso sipossa produrre). Ultima cosa che vorrei dire. Nella mia esperienza iocredo che forme di scrittura che sono vicine a quelle a cui alludeva Ste-fano, come ad esempio la meditazione di Montaigne, gli aforismi equantâaltre, possano essere piĂš di altre favorevoli a questo evento, manon lo garantiscano; per cui non potremo mai sapere se sia stata o me-no una pratica prima cheâŚ. O meglio: lo sa lâautore che esercitava sudi sĂŠ questa cosa come pratica; lo potrebbe confermare qualche lettore(infatti i libri di Nietzsche sono scritti âper tutti e per nessunoâ) nelmomento in cui in lui si producesse lâevento del pensiero, mentre qual-
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che altro lettore potrebbe dire: âNo, queste sono chiacchiere, cose checon la filosofia non hanno niente a che fareâ.
D. Miccione - Per capire meglio. Questa sarebbe quasi unâimmagine so-ciologica del sapere. Invece vorrei sapere se tu identifichi dei criteri at-traverso cui un certo tipo di scrittura, ad esempio quella di Montaigneche si cita sempre, piuttosto che la Critica della ragion pratica, sarebbe piĂšadatta a essere pratica
G. Giacometti - Ma io, a differenza di Stefano, sono molto piĂš ecumeni-co, nel senso che io credo che molte forme di scrittura, sia quelle con lenote a fondo pagina, sia quelle a forma di essay, possano generarelâevento. Direi che lâelemento (che penso sia quello su cui insiste moltoNeri) discriminante è quel tipo di scrittura che favorisce nel lettorelâattivazione di un processo, diciamo lo sviluppo di un ragionamento ditipo logico, possibilmente quando questo ragionamento riguarda deipresupposti, dei fondamenti che vengono messi in crisi, mettendo inluce dei punti di aporia. Quando qualunque lettura genera come effettoquesto genere di produzione per cui chi legge si trova in qualche ma-niera sconcertato, messo in discussione rispetto alle sue credenze, iocredo che si sia prodotto un evento di pensiero. Quando il lettore si ri-conosce in quello che câè scritto (âAh, io lâho sempre detto. Lo diceKant? Ma lo pensavo anchâio prima di leggerlo!â), Kant non ha pro-dotto alcun evento di pensiero.
D. Miccione - Scusate ma io ho bisogno di riordinarmi il cervello in pub-blico. Allora, se la pratica è solo filosofia, io avverto una certa difficol-tĂ ; se la pratica filosofica è nientâaltro che filosofia, nella sua sostanza enel suo accidente, io ho difficoltĂ a costruire poi degli addentellati spe-cifici nella dimensione della scrittura. Per questo ti ho chiesto qual èper te il criterio. Tu hai avanzato lâipotesi, quasi di buon senso, per cuiun certo tipo di autori, Montaigne meglio magari della Fenomenologia diHegel, al di lĂ della complessitĂ , possano stimolare o entrare in con-tatto. Io ti ho chiesto se câera un criterio.
G. Giacometti - Lâultima cosa che posso dire, forse, se ho ben capito latua domanda, per quanto riguarda la nostra questione piĂš urgente (ecosĂŹ vorrei ripassare la palla agli altri), a cui anche Stefano accennava,cioè come noi comunque possiamo metterci in relazione attraverso la
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scrittura con le pratiche che svolgiamo invece nella formadellâoralitĂ âŚ. PerchĂŠ sotterraneamente câè anche questa questione,come noi possiamo metterci in relazione con le cose che svolgiamocome consulenti o come conduttori di pratiche orali, nel momento incui ci rimettiamo in gioco in rapporto a queste. La risposta è che noipotremmo esercitare una sorta di gioco di specchi per cui ci facciamouna consulenza sul nostro essere consulenti, facciamo una pratica filo-sofica sul nostro fare pratiche. Quindi la pratica originaria potrebbe es-sere stata orale, una serie di esperienze di pratiche di colloqui con sestessi o con altri, di forma orale, come quelli che vanno sotto il nomedi pratiche filosofiche. Scriverne, come suggeriva Stefano, potrebbe es-sere non una storia - che potrebbe scrivere anche un non filosofo - diquesto, ma potrebbe essere una meditazione su quello che queste prati-che hanno avuto o meno di filosofico, il che si può tradurre in unaforma di scrittura - e qui mi avvicino alla tesi di Stefano - forse, per iltipo di cose su cui questa meditazione si esercita, piĂš adatta: una formasaggistica, aforistica, che non è la forma del saggio tradizionale, con lenote a piè di pagina.
S. Zampieri - Aggiungerei alla risposta di Giorgio: tu chiedi un criterio,ma è evidente che questo criterio non siamo in grado di darlo, nessunoè in grado di darlo. Se fossimo in grado di darlo, questo criterio,avremmo risolto il problema, sapremmo che cosa distingue una scrittu-ra âaccademicaâ da una scrittura di pratica filosofica. Io penso peròche, sia in parte nelle cose che diceva adesso Giorgio, sia nelle cose chediceva Neri, ci sia un elemento comune che vorrei sottolineare, perchĂŠsecondo me è un elemento fondamentale nel mondo delle pratiche fi-losofiche, per cui secondo me è bene metterlo in chiaro in manieranetta. Riprendo una frase detta da Neri che è molto emblematica. âIoho scritto essenzialmente testi di metapratica, tranne il capitolo di cuistiamo parlando che è un dialogo trascrittoâ.
D. Miccione - No, Neri parlava del suo saggio iniziale. Un equivoco tipi-co dellâoralitĂ , direi.
S. Zampieri - Io avevo capito che tu, Neri, alludessi al dialogo trascrittotra te e Davide; perchÊ se diciamo che è pratica il dialogo sarebbe ba-nale. Però secondo me questo pone un problema molto serio che èquesto (vado anche al di là di quello che dicono Neri e Giorgio), e cioè
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il fatto che nel mondo delle pratiche filosofiche câè secondo me unasorta di mito dellâoralitĂ . Certo, la pratica è oralitĂ , nel senso che è even-to, e quindi è inevitabilmente anche oralitĂ . Ma secondo me câè un veroe proprio mito dellâoralitĂ che è legato a un secondo mito, tipico dellepratiche filosofiche, che è quello del socratismo: Socrate, un Socrateperaltro molto superficiale e stereotipato, inteso come modello opera-tivo del consulente filosofico; un mito che si lega a un altro elementoche viene fortemente sopravvalutato nel mondo delle pratiche filosofi-che, che è Hadot. Le pratiche filosofiche sembrano fatte tutte discen-dere da Hadot. Io non credo che sia cosĂŹ. E câè in tutto questo unalettura che risale a Platone, cioè câè un mito dellâoralitĂ che sembracontrapporsi alla scrittura, come se, quando si scrive, si sottraesse qual-cosa; come se la scrittura non facesse altro che tradurre unâoralitĂ e,nellâatto in cui la traduce, la tradisce, perchĂŠ impoverisce, perchĂŠ toglie.Che cosa toglie? Toglie il fatto che il testo, come dice Platone, non ri-sponde mai: lo interroghi e lui sta zitto. Io credo che questa sia unalettura assolutamente inadeguata, inadeguata alla comprensione che noioggi possiamo avere della natura del testo, che non è quella che potevaavere Platone. Io credo che Platone, quando scriveva quelle cose, laSettima Lettera ecc., secondo me pensava ad altro, non pensava al pro-blema della scrittura, pensava al problema dellâoralitĂ , aveva un altroproblema da risolvere, secondo me. Ma questo meriterebbe un discor-so a parte. Ciò che noi dobbiamo avere è una diversa consapevolezzadella natura del testo, della testualitĂ . Ă questo il punto chiave. Non èvero che la testualitĂ toglie immediatezza, capacitĂ di contraddittorio,capacitĂ di risposta, produce difficoltĂ di intendersi. Produce la diffi-coltĂ di intendersi che produce anche lâoralitĂ . Invece io ritengo che bi-sognerebbe cominciare a pensare alla scrittura in altro modo, cioè perquello che aggiunge alla comunicazione. La scrittura aggiunge delle coseche sono importanti, secondo me. Ci sono degli esempi che adesso ap-pariranno, se volete, un poâ superficiali, un poâ presuntuosi. Però câètutta una bibliografia su queste cose. Aggiunge, ad esempio, una diver-sa esperienza dellâessere soggetto, cioè dellâio, perchĂŠ lâio che si pre-senta nel testo non è piĂš lâio che dice âioâ, Stefano Zampieri, hic et nunc,qui presente, ma è un io che diventa un âegliâ, una neutralitĂ che si ri-pete, è un evento che diventa âioâ ogni volta che ognuno di noi prendeun testo in mano, lo apre, e quellâio evidentemente è diventato un nuo-vo io: io, io. Ă un io che si ripete, è un io che diventa una neutralitĂ .Questo significa, attenzione!, una diversa esperienza della soggettivitĂ .
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Non vorrei che si trascurasse lâenormitĂ di questa piccola cosa. Oppu-re: la testualitĂ introduce un elemento che non câè nellâoralitĂ , che è undiverso rapporto con la temporalitĂ . Ă unâaggiunta che fa il testo, non èuna diminutio, è unâaggiunta. La temporalitĂ che si esperisce allâinternodel testo scritto non è quella lineare che viviamo, ad esempio mentre iosto parlando in questo momento. Ă una temporalitĂ ciclica e ripetitiva.Ă stato citato Nietzsche, in proposito, e la sua esperienza della scritturaframmentaria, aforistica. Ă scrittura di ripetizione. E, ancora, cosa ag-giunge il testo scritto? Aggiunge visibilitĂ , permanenza. VisibilitĂ epermanenza che cosa significano? Ma scusate, come nasce la dimensio-ne sociale del nostro essere? Lâevento orale è un evento che si concludenel momento in cui appare, lĂŹ finisce. Ă la testualitĂ che lo trasforma instoria. Ă la testualitĂ che ci rende partecipi di una dimensione storico-sociale e politica. Ancora: la visione tradizionale, quella che poteva ave-re Platone, secondo me, ma che è veramente antica, della testualitĂ co-me distinzione tra lâautore e il lettore, è roba vecchia, insomma. Pro-viamo a pensare alle cose in maniera diversa. La fenomenologiaâŚ.
G. Giacometti - Scusami, ti voglio fare una domanda, solo una, su questopunto, perchĂŠ in realtĂ per certi aspetti sono molto dâaccordo, nono-stante quello che sembrava. Io parlavo del fatto che non è una questio-ne di opposizione tra oralitĂ e scrittura: non è che ora bisogna sacraliz-zare lâoralitĂ dopo che si è sacralizzata la scrittura. Però, non ne fareiuna questione storico-culturale (Platone, i suoi tempi, i nostri tempi).Io ne faccio una questione di esperienza, quindi epistemologica. A questopunto devo richiamare le problematiche che si producono attraverso loscambio di posta elettronica, ma lo faccio in modo pertinente. Recen-temente abbiamo avuto una controversia, io e Neri, sulla nozione diâragioneâ, nel senso che, usando questo termine in modo differente, cisi arrabattava, argomentando e controargomentando, senza renderciconto che, in realtĂ , - almeno questa è la mia interpretazione, perchĂŠappunto ne dovremmo discutere oralmente, cosa che non abbiamo an-cora fatto - forse dicevamo la stessa cosa con altre parole. Allora se io eNeri discutiamo a cena, questo si risolve cosĂŹ: âMa scusa, ma tu che co-sa intendi per ragione, ecc.â. Abbiamo, cioè, lâaccelerazione del tempodello scambio, che può essere fatto magari in una chat, per dire, (qui ionon sacralizzo, come fai tu in altri contesti, la presenza fisica, anche selĂŹ ci sarebbe tutto il discorso della comunicazione non verbale, del cor-po ecc.); diciamo: è lâaccelerazione delle modalitĂ comunicative dello
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scambio che favorisce la comunicazione reciproca. Se io scrivo un libroche unâaltra persona legge dopo cento anni è chiaro che componenti divaria natura producono delle difficoltĂ di comprensione; o meglio - equi mi riallaccio a quello che dicevi tu - forse non câè comprensione trai due, tra lettore e autore, perchĂŠ ognuno intendeva la cosa piĂš dispa-rata rispetto a quella che lâaltro poteva pensare, cosĂŹ come accadequando noi leggiamo Dante: chissĂ che cosa pensava quando noi lointerpretiamo in un certo modo! Questo, però, cioè la mancata comu-nicazione tra i due, non esclude affatto quello che dici tu, cioè che ioleggendo Dante faccia unâesperienza filosofica intensissima che nullaha a che fare con quello che Dante pensava e che io la faccia su di luicome la faccio - richiamando cose che sono state dette in altri contesti -guardando unâopera dâarte contemporanea. PerchĂŠ se dobbiamo aprire,apriamo, a questo punto, a tutte le forme di espressione, non solo lascrittura e lâoralitĂ dal punto di vista del linguaggio verbale.
D. Miccione - Io provo a rientrare ancora sulla pratica, e provo a restrin-gere, tanto poi voi vi riallargherete: mi sono rassegnato! A mio parere ilcriterio è giĂ stato indicato, quel criterio per cui si potrebbe parlare omeno di pratica filosofica. Forse prima câè da provare a dire che cosâèla pratica filosofica, a questo punto. Essendo una declinazione della fi-losofia, questa declinazione dovrĂ pur âdeclinarsiâ verso qualche dire-zione. Questa direzione per me è la singolaritĂ . Anche nella versione piĂšhard della consulenza, quella di Neri (cioè dove viene posto fortementelâaccento sulla ragione e sullâargomentazione) lâuniversale viene ricon-quistato dopo essere passato attraverso la singolaritĂ e non viene mairiconquistato, come dire, in maniera assoluta o erga omnes. Quindi ci sicongiunge sempre e si resta accanto a questa singolaritĂ . La filosofiapropriamente detta, per me, coltiva il sogno - a cui sono anche affezio-nato e che non vorrei dismettere - di sviluppare un qualche rapportocon la veritĂ o anche un qualche rapporto di negazione della non-veritĂ che in qualche modo è sempre erga omnes. Quindi questa singolaritĂ nonla incontra molto spesso. Io non arrivo a questo passando da Hadot, ciarrivo, anzi ci arrivai riflettendo sulla Zambrano degli anni Trenta,Quaranta e Cinquanta, che sosteneva come questo sogno, anche glo-rioso, della filosofia di costruire il trattato (bisognerebbe parlare di ge-neri filosofici, come si parla altrove di generi letterari), cioè una veritĂ che non avesse nĂŠ mittenti, nĂŠ destinatari, che stesse lĂŹ quasi come undiamante, era tutto sommato un sogno non assoluto della filosofia. La
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Zambrano faceva notare poi come, nei fatti, andando a vedere anchenumericamente, nelle espressioni della filosofia si trovava perlopiĂš al-tro, cioè si trovava una quantitĂ enorme di epistole, di dialoghi, di gui-de, di confessioni. Tutti questi generi filosofici erano caratterizzati dallareintroduzione tematica, dalla reintroduzione voluta di un aspetto dellasingolaritĂ . La Confessione è cosĂŹ la filosofia che si piega a cercare laveritĂ sullâindividuo che la scrive. La Guida non può essere il trattatomorale, perchĂŠ la Guida, le Lettere a Lucilio ad esempio, tiene conto diLucilio, (sennò sono Lettere a nessuno ed è un altro libro). Le Lettere a Lu-cilio sono tali perchĂŠ questo Lucilio ci deve essere, sennò è un puropretesto. Tutto questo mi sembra che si leghi - e qui la cosa, Stefano, inqualche modo forse potrebbe anche incontrarsi col discorsodellâesperienza. Per me câè una filosofia che si declina praticamentequando câè appunto lâincontro con la situazione, con la singolaritĂ , conlâesperienza. Questo provo a rintracciare - secondo me câè giĂ qualchecaso di filosofia che ha queste caratteristiche - e per questo credo chein qualche modo un criterio ci possa essere. Quando ho scritto, nellaGuida filosofica alla sopravvivenza, lâattacco del secondo capitolo, che poiera uno dei piĂš comici, quello sul tecnopellegrino, questo tipo che sifaceva portare i bagagli in taxi facendo il pellegrinaggio di Santiago,non lâho fatto solo affinchĂŠ il lettore non si annoiasse e provasse a leg-gere il resto, ma perchĂŠ effettivamente quella è stata per me la rivelazionedi un aspetto della contemporaneitĂ . Era il mio linguaggio di esperien-za, che in quel momento mi ha fatto pensare: âMa cose da pazzi!â. Poiquesto âCose da pazziâ a casa, anzi non a casa, nellâostello dei pellegri-ni, riflettendo, si è incominciato a strutturare. Allora secondo me quan-do il consulente filosofico scrive o quando vuole provare a dare unadeclinazione pratica alla scrittura, questa scrittura dovrebbe in qualchemodo tener conto - lo scrivo anche nel dialogo - dellâoccasione in cui siè generata e della situazione in cui si è generata.
G. Giacometti - Posso aggiungere una cosa, su questâultima asserzione?Un aspetto su cui insisto anche molto e che in questa discussione hotrascurato è quello dei destinatari. Un modo per riattivare nella scritturala dimensione dellâoralitĂ o della dialogicitĂ , per capirci, è quello di pen-sare a un potenziale destinatario, che può essere un poâ generico, manon troppo. Per dire: unâipotetica collana di unâipotetica associazionedi pratiche filosofiche potrebbe essere mirata a un pubblico di non filo-sofi e deve essere scritta in modo completamente diverso da una colla-
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na rivolta a filosofi praticanti in formazione o da unâaltra collana anco-ra orientata affinchĂŠ i filosofi âaccademiciâ, cosiddetti, comprendanolâimportanza delle pratiche filosofiche. Una collana di questo tipo do-vrebbe essere scritta con un bel âpienoneâ di note e di citazioni, perchĂŠquesto è quel tipo di discorso che mette in rapporto il nostro modo diintendere le cose con quello, per esempio, di questo universo. Quindi iltener conto, in forme diverse, del potenziale destinatario a me sembramolto importante per riattivare una dimensione dialogica della scrittura.
S. Zampieri - Rapidamente su questo. Questa, però, è una dimensionestrategica, diciamo, che condivido. Però francamente non risolve la que-stione. La domanda era: è possibile una scrittura della pratica filosofica?Questo non è soltanto legato al destinatario.
G. Giacometti - Non è una questione strategica nella misura in cui ildialogo si produce per il fatto che si desidera essere compresi, non per-chĂŠ si voglia plagiare lâaltro.
D. Miccione - Vorrei ricordare: ho citato le Lettere a Lucilio, non le Letterea un romano di ventisette anni con livello culturale X. Câè una bella differenza.
N. Pollastri - Tutto questo presuppone tutta una serie di pregiudizi cultu-rali. Presuppone, per esempio, che io abbia individuato un potenzialelettore e che esso, se dicessi qualcosa di piÚ complesso, faccia fatica acapirlo. Il risultato, però, potrebbe essere perfino controproducente.Nella mia esperienza di consulenza individuale il consultante, che è poiil potenziale lettore, anche quando ha fatto la terza media i discorsicomplessi li capisce benissimo. Se glieli facessi piÚ facili non ascolte-rebbe con la stessa attenzione, perchÊ gli sembrerebbero banali.
G. Giacometti - E perchĂŠ non parli in inglese, allora, adesso, Neri? Parliin italiano. Parli perchĂŠ comunque ti aspetti che ti capiscano.
N. Pollastri - La tecnica del pensiero ce lâhanno a disposizione tutti, nonè un linguaggio che qualcuno debba imparare. Semmai devono affinar-la. Ma anche i passaggi piĂš ardui che può capitare di fare, se fatti con igiusti tempi e con la giusta relazione dialogica, sono alla portata diqualunque persona.
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G. Giacometti - Su questo sono dâaccordo.
N. Pollastri - Lâobiezione del âdiscorso troppo difficileâ lâho sentita farespesso, ma è del tutto sconfessata dai fatti. Posso dire di avere avutoesperienza di persone di bassissima cultura che, anche se si arrivava afare discorsi complessi, seguivano. Lâintelligenza non è proporzionalealla cultura, sono due cose ben diverse.
S. Zampieri - Però, scusa Neri, non puoi nemmeno ridurre la questione auna questione di stile. Non è una questione di stile: scrivere facile, scri-vere difficile. Ă una questione diversa, cioè di natura dello scrivere. Per-chĂŠ, come diceva secondo me molto bene Davide, ci sono alcuni ele-menti chiave sui quali dovremmo interrogarci. Cioè il fatto che è possi-bile (ma forse ci vorrebbe un punto di domanda) una pratica di scrittu-ra che testimonia la nostra esperienza di pratica filosofica. Diceva, Da-vide, di usare il termine âsingolaritĂ â. Io, che non sono hegeliano, usotermini differenti, come tu ben sai. A me piace di piĂš il termineâappropriazioneâ. Io credo che in un testo scritto che volesse essere dipratiche filosofiche ci dovrebbe essere un processo di appropriazionedi ciò che si dice: faccio mio ciò che sto dicendo. E allora questo impli-ca anche un rapporto diverso con la veritĂ - lâaltro termine chiave cheha introdotto Davide - che è fondamentale. Qual è il valore di veritĂ ,qual è la funzione di veritĂ legata a un testo di pratica filosofica? Noncerto quello del testo tradizionale. Questo è un punto chiave. Gliesempi che faceva Davide sono perfetti, la Zambrano in realtĂ , parlavadi generi letterari come le confessioni, o i dialoghi, e noi possiamochiederci con lei: qual è la natura del testo che noi chiamiamoâconfessioniâ? Che sia Rousseau, che sia qualcun altro, è il fatto che haun rapporto differente con la veritĂ . Ă unâaltra la veritĂ di cui parlaRousseau. Peraltro fra Rousseau e tutti gli altri scrittori di confessionipotremmo trovare una varietĂ infinita di riflessioni sulla veritĂ , cioènon troviamo un modello di veritĂ da adottare. Però troviamounâesperienza della veritĂ che non è quella del testo canonico, del testotradizionale di filosofia, e che si avvicina - qui uso una parola che micosterĂ cara - a un termine della veritĂ che è diverso e che è il termineâsinceritĂ â. In Rousseau ci sono pagine e pagine in cui si discute pro-prio di questo. âSono un uomo sinceroâ, dice, âe voi dovete ascoltareecc. ecc.â. La sua diviene una versione della veritĂ che è trasfigurata at-traverso lâassunzione di responsabilitĂ . Allora il testo, come io lo inten-
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do e come in qualche maniera emerge da queste esperienze, ha questecaratteristiche, e queste sono anche alcune delle caratteristiche del testoche io chiamo di pratica filosofica; cioè un testo nel quale ciò che io di-co è stato da me appropriato, mi appartiene, è roba mia. Ciò che io di-co è detto con un intento che non è quello di dimostrarvi: âLe cosestanno cosĂŹ. Vi dimostro che cosâè la scritturaâ. Questo lo fa un accade-mico. Secondo me non è un lavoro di pratica filosofica dimostrare checosâè la scrittura. Io vi posso provare a testimoniare il percorso attraverso ilquale io ho assunto dei valori che sono quelli relativi alla scrittura. Nonvi devo persuadere di questo. Vi devo testimoniare questo. Ciò mette incampo, ad esempio, unâaltra retorica.
N. Pollastri - Posso anche seguirti. Però a me, francamente, se leggoscritture anche interessanti, filosofiche, in cui si fa testimonianza, nonsuccede nulla. Questo genere di scritti personalmente non mi toccano.Se invece leggo un testo dove - senza perdersi nei rivoli delle contro-deduzioni delle tesi del tale autore, dellâermeneutica, della scuola deltale e del tal altro, ecc. ecc. - si fa un discorso rigoroso e,sullâargomento che mi interessa di comprendere, mi persuade, quellomi tocca. Se io leggo Montaigne, mi addormento. Non mi trasmettenulla. Lo stesso vale per gran parte di NietzscheâŚ.
D. Miccione - Non è un problema di Montaigne e di NietzscheâŚ.
N. Pollastri - Certo che no, ma neppure mio: casomai è un problema direlazione, di sensibilitĂ diverse. Ed è proprio quello che volevo dimo-strare: non è pratica filosofica solo o principalmente quello che si muovesul piano del pensiero testimoniante, del pensiero che vasullâesperienziale, delle Lettere a Lucilio. Sono io che lo testimonio, perlâappunto, perchĂŠ se leggo libri di questo genere, che fanno testimo-nianza, mi annoio mortalmente, piĂš che leggendo âglosse accademi-cheâ!
S. Zampieri - Stai usando la parola sbagliata. Stai usando la parola che hointrodotto io, ma in maniera scorretta. Non sto dicendo: âlibri di testi-monianzaâ, ma libri che non hanno per obiettivo quello di dire:âQuesta è la veritĂ che ora ti spiegoâ. Ma hanno per obiettivo di dire:âQuesta è ciò che io ho assunto per veritĂ e che ora ti mostroâ. Testi-moniare nel senso di mostrare il percorso che io ho fatto per stabilire
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che cosâè la veritĂ .
N. Pollastri - Ma la sincerità non è necessario dichiararla in prima perso-na. La sincerità si può praticare anche scrivendo un libro e scrivendoloin maniera sincera. Io non credo che tutti i filosofi del passato, mentrescrivevano, avessero per obiettivo semplicemente di fare un atto dipersuasione violenta e di imposizione di una verità .
S. Zampieri - Dai un valore morale a cose che per me non hanno questovalore. Stai attribuendo degli elementi morali a delle cose che non lihanno. Lo scrittore antico non ha il problema di essere perfido perchÊnon è sincero. Non sto dicendo che è perfido in questo senso. Sto di-cendo che lo scopo, il fine, il lavoro della sua scrittura è diverso; che illavoro della sua scrittura è il lavoro della verità intesa in un certo modo.Io sto dicendo: possiamo provare ad avventurarci in un campo discrittura in cui si intenda la verità in un altro modo.
N. Pollastri - Stefano, il punto è questo: io leggo la stragrande maggio-ranza delle opere filosofiche tradizionali in un modo che tu invece ri-tieni sia impossibile e per il quale pensi sia necessario scrivere cose di-verse, proprio quelle cose che invece a me non comunicano nienteâŚAnche questo non è un problema degli autori di quei libri, come non èun problema di Montaigne che io non lo sappia apprezzare.Io, quando leggo lâopera di un filosofo, non penso che mi stiaârivelando la VeritĂ â, ma piuttosto che mi stia conducendo in un certoprocesso di pensiero - una sua personale e originale lettura delle cosedel mondo - che non è lâunico possibile; è per questo che, ascoltandolo,sento di dover tener conto di altri possibili processi di pensiero, me-scolarli con quello e con ciò che giĂ pensavo, per ottenere il mio proces-so di pensiero, quello che a me sembra piĂš persuasivo e coerente.Questa è la ragione per cui impiego il mio tempo a leggere libri di filoso-fia, a confrontarmi e a dialogare con Hegel e con Heidegger, con Pla-tone e con Gadamer, e via dicendo: perchĂŠ alla fine voglio produrre ilmio processo di pensiero.Questo voglio intendere quando affermo che non vedo ragione di di-stinguere in termini di intenzioni di veritĂ o di testimonianza e che ilproblema non sta nel tipo di scrittura che facciamo: perchĂŠ - come di-mostro io stesso, con la mia allergia agli scritti âesistenzialiâ - che untesto tocchi o meno una persona dipende dalla persona e non dal tipo
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di scritto.Ma, allora, anche il problema della scrittura si trasforma: non è piĂšcentrale come si scrive, ma piuttosto come ci si pone di fronte allo scritto. CosĂŹ,anche tutto quello che dicevi prima cambia senso - tanto che io, mentreti ascoltavo, pensavo che in realtĂ condividevo quasi tutto. Visto chenon posso commentare punto a punto, specifico solo che, rispettoallâoralitĂ , il testo scritto - lo si voglia o meno - aggiunge un sacco dicose, tra le quali câè anche il rigore: infatti, oralmente non si può mante-nere lo stesso livello di rigore argomentativo che invece si può osserva-re scrivendo. Anzi, questa è proprio una delle ragioni per cui nasce lascrittura: per ricordarsi quello che sâera detto prima e poter controllareche non si fossero dette delle sciocchezze, per non dimenticare le coseessenziali, per verificare che non si cada in palesi contraddizioni.Avrei raccolto una gran quantitĂ di osservazioni da fare, ma mi limiteròa una conseguenza di quel che stavo dicendo: se ci si mette davanti altesto in un certo modo, senza ritenerlo âsacroâ - cioè senza presuppor-re sempre che abbia la pretesa di affermare la veritĂ - beh, allora si puòvalutare laicamente, con i loro rispettivi pregi e difetti, sia gli scrittiâteoreticiâ, sia quelli âesistenzialiâ e narrativi. Poi sta alla sensibilitĂ personale la scelta: per la mia, i testi che parlano dellâesistenza dei loroautori, che insistono sulla narrazione e la testimonianza, sono menointeressanti, stimolanti, profondi. A questi lavori assegno tuttavia unvalore, che mi è balzato agli occhi molto recentemente e sul quale cre-do meriti fare una breve riflessione.In occasione di una serie di incontri pubblici con autori che ho coordi-nato tempo fa, in alcuni di essi - tra cui câera proprio Giuseppe Ferraro,assieme però a diversi scrittori di narrativa - tornava e ritornava il temadellâimportanza, oggi, di rivalutare la narrazione - anzi, proprio il rac-conto - per incarnare quelle categorie universali il cui abuso nellâultimosecolo (anche se loro facevano riferimento piĂš alla politica che alla filo-sofia, ma si sa quanto le due cose siano vicine e tra loro collegate) haportato a perderne il significato. Ad esempio, è difficile esprimere il si-gnificato delle parole chiave di tipo etico senza darne esemplificazionein una narrazione - la quale può anche includere la narrazionedellâesperienza attraverso cui si è personalmente arrivati al riconosci-mento di valore, non lo nego. Questa esemplificazione narrativa fa ri-saltare il valore concreto del termine universale, mostra lâaspetto vivodella norma e del valore. Però - attenzione! - questa narrazione non èuna cosa necessaria: si può benissimo capire anche senza di essa, solo pen-
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sando pienamente lâuniversale. Probabilmente oggi, in questo momentostorico, narrare e âincarnareâ gli universali è una cosa urgente, perchĂŠ siviene da una fase in cui si è esagerato nellâintellettualizzare, nel parlare aun livello alto di astrazione - e le universitĂ hanno contribuito a taleesagerazione. Ma, ripeto, non si tratta di un elemento strutturale dellafilosofia, che è fondamentalmente - in tutte le sue manifestazioni, in-clusa la pratica filosofica - astrazione ed elaborazione teorica. Che è poiciò che personalmente mi tocca e influenza la mia esistenza e il miosentire, mentre molto piĂš raramente mi toccano ed influenzano la miaesistenza le cosiddette narrazioni filosofiche.
G. Giacometti - Scusate, questo mi sembra un punto - sembra di no - maanche di convergenza possibile (anche perchĂŠ credo che dobbiamo av-viarci verso la conclusione). PerchĂŠ se ci pensate bene, in fondo, qui iocredo si sia sperimentato quello a cui io alludevo prima: Stefano e Nerileggono i classici della filosofia in forme diverse. A Neri i classici su-scitano un senso per cui âqui câè pensiero, câè filosofiaâ; a Stefano sĂŹ,anche, ma in forma diversa: comunque quando lui parla di tradizioneaccademica, lo diceva allâinizio, parla di pratiche che non sono necessa-riamente filosofia o comunque non sono la filosofia che lui intende siaimportante fare, in qualche modo. Viceversa, mi pare di capire, semprenel caso di Stefano, la forma di scrittura che Stefano predilige e checonsidera piĂš propria del filosofare è quella, diciamo, delle confessionio delle forme di cui dicevamo prima. Quindi qui abbiamo innanzituttodue letture diverse, due modi, due reazioni (lo diceva anche Neri:âQuesta cosa non mi dice niente, mi lascia freddoâ), due forme diversedi reagire allo stesso testo. PerchĂŠ uno si sente dominato dalla dimostra-zione come qualche cosa che ti costringe a pensare a una veritĂ , mentreNeri diceva: âNon è mica vero, io mi leggo Kant ma della sua VeritĂ non mi importa proprio nullaâ. Quindi vedete come la scrittura fun-ziona: chi legge, come diceva il vecchio Platone, legge quello che vuole,diciamo cosĂŹ alla buona. Quindi câè una pluralitĂ di letture delle scrittu-re, di interpretazioni, e câè una pluralitĂ âŚ. anche Neri concedeva qual-cosa a Stefano, diceva: âIo privilegio una certa forma, quella tradizio-nale, ma non escludo anche quella a cui Stefano fa riferimentoâ. Alloraio mi domando, e vorrei arrivare a una conclusioneâŚ. Quello che di-ceva Neri, lâultimo spunto mi sembra molto interessante: âForse oggi siè esagerato con una certa formaâ quella che Stefano chiama accademi-ca, tradizionale. Forse quella, aggiungo io, non è molto adatta a un
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certo tipo di testimonianza delle pratiche come noi le concepiamo (equi, un colpo al cerchio, un colpo alla botte, mi sembra che Stefanonon avesse tutti i torti). A questo punto io dico: ma perchĂŠ vogliamo,cosĂŹ amichevolmente, simpaticamente, scannarci su una questione chea mio giudizio evidentemente implica (visto che noi qua non siamodâaccordo e siamo teoricamente i responsabili di unâassociazione dipratiche filosofiche) un evidente pluralismo di prospettive e la necessitĂ di aprire ecumenicamente a tutte queste prospettive? PerchĂŠ non èpossibile che uno abbia ragione e lâaltro torto, insomma diciamolochiaramente.
N. Pollastri - PerchĂŠ ci dobbiamo amichevolmente scannare? Ma perchiarirci le idee, per che altro? Per andare a determinare che cosa câè dicomune e cosa di diverso nelle nostre sensazioni personali, nelle defini-zioni che diamo, e per vedere - sulla base delle differenze e delle affi-nitĂ - se possiamo imparare lâuno dallâaltro cose che ci aiutino a indivi-duare un modello che non abbiamo. PerchĂŠ, comunque, nessuno di noice lâha.
D. Miccione - Io direi di fare lâultimo giro, ovviamente per chi ritiene diavere qualcosa da puntualizzare. Secondo me la torsione che ha datoStefano alla questione, per quel che riguarda la mia visione, è una partedi un insieme piĂš ampio. E su questa torsione Neri, a mio parere, è an-dato un poâ in una direzione che lo fa imbufalire. La torsione che hodato io era quella di una filosofia situazionale. Non a caso avevo mo-strato una versione di filosofia che inseriva il âdestinatarioâ (le Lettere aLucilio) e una versione di filosofia che inseriva il âmittenteâ, che coinci-deva poi con il destinatario (la confessione). Stefano parlava della di-mensione diaristica, della dimensione della confessione, che fannoparte di tutto questo. Ma in realtĂ , per come la vedo io, mittente e de-stinatario sono in questo caso, semplicemente, due specificazioni diuna questione che è quella della situazione - anche quando nella situa-zione possiamo vedere lâoccasione della dimensione âsituazionataâ delpensiero, che secondo me è caratteristica della pratica - può essere dia-ristica, può anche non essere affatto diaristica. Secondo me Anders siavvicina molto, Ortega si avvicina molto. Sono autori che non sonodiaristici, ma sono sempre âsituazionatiâ (credo dovrebbero dare menofastidio a Neri). In ogni caso anche quando Neri: âMi tocca di piĂš, nonso, Spinozaâ, mi viene da rispondere: ti tocca perchĂŠ tu leggi Spinoza,
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poi te lo mastichi, lo metabolizzi, e te lo situazioni. La minore digeribi-litĂ , per dir cosĂŹ, ti dĂ un senso di azione intellettuale maggiore. Chi èpiĂš pigro o ha mascelle meno forti o allenate, può provare la stessa at-tivazione con autori giĂ âsemidigeritiâ.
S. Zampieri - Anche io sarò brevissimo. Sono dâaccordo con quello chehai detto tu, per cui non ho nessuna difficoltĂ . Vorrei non aver datounâidea sbagliata. Non sto assolutamente dicendo che bisogna buttare amare un certo tipo di scrittura filosofica, di cui peraltro io stesso sonostato responsabile: ne ho fatta, ne faccio, ne farò ancora. Ci serve lascrittura filosofica nel senso âaccademicoâ. Ă il nostro pane quotidia-no. Li leggo anchâio Spinoza, Leibniz, Heidegger e Platone. Ă di questoche mi nutro. Mica mi nutro soltanto di romanzi o cose del genere!Non sto nemmeno dicendo che bisogna accedere a una scrittura chesia semplicemente diaristica. Altri lo pensano. O che sia semplicementela confessione o che sia semplicemente la testimonianza nel senso bas-so in cui sta usando il termine Neri. Io sto dicendo una cosa molto piĂšimpegnativa, molto piĂš complicata, se vogliamo, e cioè che è necessariosperimentare una forma nuova di scrittura. Purtroppo io non holâesempio: e questo rende tutto il discorso difficile. Ma ho dato molteindicazioni. Si tratta di essere testimoni; non nel senso di fare semplicetestimonianza. Si tratta di fare filosofia. E quindi articolare pensiero, maanche pensiero pesante, non semplicemente le memorie della casalinga.Si tratta di riuscire a fare testi che siano di filosofia, autentica filosofia,senza essere i testi della tradizione, e, quindi, situati, ad esempio, equindi che testimoniano un tempo e unâesperienza, che siano frutto diunâesperienza, e che mostrino il procedere di unâesperienza, che sianoimpostati sulla base di un diverso modello di veritĂ .
G. Giacometti - In che cosa questa forma che tu dici nuova di praticache mette in gioco lâesistenza, se ho capito bene, sarebbe diversa dallatradizionale meditazione, appunto, dalla confessione e quantâaltro?Questo mi sfugge.
S. Zampieri - Sarebbe diversa perchÊ frutto di questa pratica che noi nel2009 stiamo facendo, che non è quella di Rousseau.
G. Giacometti - Ma in relazione o meno - perchĂŠ questo vorrei capirlo,ingenuamente - con le altre pratiche?
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S. Zampieri - Non necessariamente.
G. Giacometti - Quindi indipendentemente dallâessere filosofo pratico oconsulente, quindi proprio come un filosofare autonomo?
S. Zampieri - Io sto dicendo che questa pratica filosofica ha la necessitĂ ditrovare una forma testuale di riferimento.
G. Giacometti - Ma quale âquestaâ?
S. Zampieri - La pratica filosofica, la consulenza filosofica.
G. Giacometti - Quindi non, però, come forma di scrittura che non èevidentemente il colloquio orale con il consultante, ma come scritturache si affianca a questo, ed è la scrittura del consulente quando non ècon il consultante.
S. Zampieri - Certo.
N. Pollastri - Io vorrei sottolineare una cosa che ho giĂ detto, ma allaquale tengo. Non si tratta di squalificare un certo tipo di scrittura o uncerto tipo di opere di filosofia. Si tratta di non spostare lâaccento esclusi-vamente su alcune di esse, di non cadere nellâerrore che ci siano alcunigeneri di scrittura vocati alla pratica filosofica e altri che invece le sianototalmente alieni. E si tratta di fare questo perchĂŠ, se è vero che quellaforma di scrittura ha in qualche modo il vantaggio di incarnare le ideeattraverso una costruzione letteraria che, essendo narrativa, si avvicinafacilmente allâesperienza (magari proprio di colui che ha prodotto queltipo di riflessione), è anche vero che proprio tale vantaggio nascondeun pesante svantaggio. Mi spiego.Il mio ideale di filosofia - e non soltanto di pratica filosofica, perquanto le due cose, quando le penso in questo contesto, per me siidentifichino - è che si riesca ad essere motivati dai concetti, cioè spinti adagire ed emotivamente mutati non da âesempi concretiâ ma propriodalle idee astratte che si ascoltano e di leggono. E questo non perchĂŠ essesiano (o vengano considerate) VeritĂ , ma solo perchĂŠ ci persuadonocon il loro rigore argomentativo. PerchĂŠ questo possa avvenire - comediceva Davide - è certo necessario che ognuno queste idee le mastichi e
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le metabolizzi, che ne faccia un certo uso. Ma lâimpiego di esempi,esercizi, testimonianze, e quantâaltro, per quanto possa avere vantaggiin termini di âefficaciaâ, ha uno svantaggio in termini di ciò che chia-merei âmotivazione filosoficaâ: è infatti motivazionalmente funzionale,ma non grazie alla âforza del pensieroâ. PoichĂŠ è questa che a me sta acuore, quando mi sento sollecitato da altro reagisco negativamente enon ne vengo toccato.E allora è forse per questo che indicavo i libri di Galimberti (ma potreiaggiungere quelli di GĂźnther Anders, che non a caso Galimberti consi-dera uno dei suoi maestri) come scritti da cui trarre ispirazione per unpossibile modello: perchĂŠ in quei libri si punta proprio a motivare con iconcetti e non con le narrazioni. Si fa riferimento al pensiero forte, tradi-zionale, ma non lo si prende come qualcosa di vero, di valido assoluta-mente, di riconosciuto come autentico perchĂŠ autorevolmente convali-dato. No: lo si considera come uno strumento per la costruzione delmio proprio pensiero. Uno strumento che ha pregi e difetti, che si puòsottoporre continuamente a critica. A me, francamente, se un autore mipersuade completamente, non mi soddisfa gran che: mi ha detto coseche giĂ sapevo! O dissento almeno un poâ dallâautore che sto leggendo,oppure non mi ha rivelato nulla di nuovo, non mi ha trasmesso nulla.Per questo diffido di quegli autori aforistici ed edificanti che esprimonoâproprio quel che pensavo, ma non cosĂŹ beneâ: perchĂŠ confermano senzaampliare il pensiero critico, perchĂŠ non permettono di apprendere per diffe-renza.Ci sono tanti modi di ricevere qualcosa dal pensiero. Quello che mi stapiĂš a cuore è idealmente quel modo attraverso il quale si leggono testidove si fa teoria, si sta attenti a capire cosa essa significa nella pratica e,grazie alla coerenza e alla potenza di quella teoria, si arriva tanto a dire:âAh ecco, ho capito qual è la scelta giusta qui e ora!â, quanto ad averele motivazioni per mettere in pratica quella conclusione. E perchĂŠ ciòaccada la conclusione non può scaturire dal rispetto per una normascritta, dallâossequio a un legge kantiana, dallâautoritĂ dei tanti scrittidella storia della filosofia, ma deve essere una comprensione maturataattraverso un processo di pensiero che, intrecciandosi coerentementecon il mio, porti una chiarificazione che mi motivi, che muova delle co-se allâinterno di me stesso.
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Diritto e Rovescio
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Lettere suVito Mancuso, La vita autentica(Raffaello Cortina, Milano 2009)
di Augusto Cavadi e Neri Pollastri
Caro Neri,
devo premettere, per correttezza intellettuale, che non sono un lettoreabbastanza âoggettivoâ delle cose di Vito Mancuso. Non lo ero prima dileggere - per presentarlo, con lui, a Palermo - il suo best-seller intitolatoLâanima e il suo destino (il fatto che insegnasse in una facoltĂ universitariaprivata, e perfino diretta da un prete amico di Berlusconi, me lo facevaimmaginare come teologo di corte); non lo sono adesso perchĂŠ - dopoavere letto quel suo libro straordinario e, soprattutto, dopo essere statoaffascinato dalla sua personalitĂ cosĂŹ sommessamente incisiva - sonocondizionato, in senso esattamente opposto, dalla stima e dallâaffetto.
Comunque, da Aristotele in poi, è noto che noi filosofi ci sforziamo,per quanto possibile, di evitare che una qualsivoglia pre-comprensione -anche se fondata su relazioni umane significative e preziose - prevalgasulla ricerca della âveritĂ â (a prescindere da ciò che ognuno di noi inten-de con questo semantema impegnativo). Proverò dunque, un poâ sche-maticamente, non solo a dirti quali siano i passaggi dellâultimo saggio diMancuso, La vita autentica, che ritengo interessanti per noi - intendo: perla consulenza filosofica - ma anche quali altri suscitino in me delle per-plessitĂ critiche.
Inizierò da quelle che definirei âsintonie metodologicheâ.Come ci siamo detti tante volte, il pluriverso delle pratiche filosofiche è
accomunato dalla condivisione non tanto di dottrine quanto di una certaconcezione del filosofare: una concezione che, senza minimamente negare nĂŠla rilevanza dellâesegesi testuale nĂŠ la valenza teoretica, enfatizza le impli-canze pratiche (individuali e collettive) del filosofare. Da questa angola-zione posso dire che - sia pur del tutto preterintenzionalmente - Mancu-so è uno di noi. Lo evinco da una sua dichiarazione presente giĂ nellaPrefazione: ÂŤIo ritengo che tra le finalitĂ delle scienze dellâuomo (âŚ) vi siala delineazione dei criteri di autenticitĂ della vita umana. Anzi, aggiungoche si tratta di una tematica di cosĂŹ vitale importanza da misurare il valore
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delle singole competenze, in particolare nel campo della psicologia, dellafilosofia e della teologia. Il metro che le misura, mettendo alla provaquanto siano effettivamente sapere e non solo erudizione, è la capacitĂ diilluminare la vita concretaÂť (p. 11). Ă vero che per Mancuso la âvita con-cretaâ è direttamente la vita del soggetto, della persona (ÂŤNon si tratta didisquisire gratuitamente ma di trovare la prospettiva giusta per dare unaforma autentica alla propria vita, a questa esistenza qui e ora, nella suasolitudine e nella sua capacitĂ di relazione con gli altri: è questo che ha acuore il piĂš profondo pensareÂť, p. 128); ma indirettamente, e conse-guentemente, âvita concretaâ abbraccia anche la rete dei rapporti sociali edelle istituzioni: ÂŤla medicina, il diritto, la politica, lâeconomia raggiungo-no tanto piĂš il loro obiettivo quanto piĂš sanno creare relazioni ordinate,e lâazione a favore di un mondo piĂš giusto riproduce la medesima logicache governa lâessere naturale del mondo, cioè la relazione ordinataÂť (p.158). Nessuna scissione dunque fra prospettiva sul singolo e prospettivasul sociale: ÂŤil collettivo può esistere solo grazie al fatto che prima ancoracâè la dimensione del sĂŠ, ed è qui che si gioca la vera partitaÂť (p. 94).
Si può intendere la filosofia come âilluminazioneâ della âvita concretaâse si adotta un linguaggio tecnico, arduo, per iniziati? In linea astratta-mente teorica, Mancuso risponde affermativamente. A proposito di Hei-degger, ad esempio, scrive (ritengo con un eccesso di benevolenza versoil pur grande pensatore tedesco che, a mio sommesso avviso, ha cedutoun poâ al vezzo dello stile cripticamente oracolare): ÂŤHeidegger è un pen-satore profondo ma uno scrittore oscuro. Anzi, è uno scrittore oscuroproprio a causa della profonditĂ del pensiero, nel senso che il suo lin-guaggio ermetico non dipende dal fatto che non sapesse scrivere, madallâesigenza di piegare il linguaggio comune alla novitĂ del pensieroÂť (p.95). Però, in concreto, Mancuso si affretta ad aggiungere: ÂŤio appartengoalla scuola opposta, quella che si sforza di esprimere il suo pensiero il piĂšpossibile chiaramente, ritenendo la chiarezza un dovere, soprattutto inquesti tempiÂť (Ibidem).
Oltre le citate sintonie, ne rilevo in Mancuso anche alcune altre, che de-finirei âsintonie contenutisticheâ.
Se non è necessario che le âaffinitĂ elettiveâ fra filosofi pratici vadanooltre il piano âmetodologicoâ dello âstatuto epistemologicoâ del filosofa-re, è un dato di fatto statistico che la stragrande maggioranza di lorocondivide anche alcune convinzioni antropologiche. Come non è pernulla necessario che un docente universitario sia un poâ borioso, un poâsprezzante, un poâ troppo elastico eticamente, ma in effetti lâesperienza
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attesta che la maggior parte dei docenti universitari sia caratterizzato dasimili tratti, cosĂŹ - pur non essendo per nulla necessario in linea di princi-pio - di fatto la maggioranza dei filosofi pratici appare esente da com-plessi di superioritĂ , da tendenze alla rivalitĂ , da tentazioni esibizionisti-che. Ă come se, pur non essendo previsto da nessun codice, chi si dedicaalle pratiche filosofiche fosse abbastanza spontaneamente estraneo aimaneggi, cosĂŹ frequenti in altri ambienti anche filosofici, funzionaliallâincremento di potere e di denaro.
Ebbene anche su questo versante - potremmo dire dei âcontenutiâ fi-losofici - ho trovato in Mancuso delle convergenze intriganti (e confor-tanti). Potrei citare, fra i tanti aspetti, una caratteristica che egli attribuiscea ÂŤqualunque forma di leadership, dalla politica allâeconomia allo sportÂť eche a me ha evocato il ruolo che tendenzialmente gioca in una comunitĂ di ricerca un filosofo pratico: ÂŤI migliori leader non sono coloro che im-pongono se stessi a dispetto degli altri e contro gli altri, ma coloro chesanno creare sistema, squadra, organizzazione, cioè concerti di relazioniordinateÂť (p. 159). In queste rapide pennellate mi pare venga misurata,efficacemente, la distanza abissale fra il filosofo guru, âmaestroâ, capo-scuola (e, se può, barone accademico e feudatario editoriale) ed il filosofoconsulente, âdiaconoâ, nomade.
Ma, per andare allâessenziale, mi pare che la maggior parte dei filosofi-in-pratica che ho sinora conosciuto condividano lâidentikit dellâuomoâautenticoâ tratteggiato da Mancuso in tre âtesiâ principali: ÂŤlâuomo au-tenticoÂť è ÂŤlâuomo liberoÂť (p. 76); ÂŤlâuomo fedele a sĂŠ stessoÂť (p. 123);ÂŤlâuomo che vive per la giustizia, il bene, la veritĂ Âť (p. 137).
Mi fermerei qui, per il momento, rimandando a piĂš tardi le mie per-plessitĂ sul lavoro di Mancuso.
Augusto
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Caro Augusto,
una delle ragioni per cui mi fa particolarmente piacere discutere con tequesto libro sta proprio nel fatto che io, diversamente da te, non cono-sco per niente Mancuso, se non per il successo pubblico che ha recente-mente riscosso. Ora, del successo solitamente diffido, ma so anche supe-rare tale diffidenza (mi è successo, ad esempio, nel caso di due âeccellenti
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Umbertoâ, Eco e Galimberti, che ho imparato ad apprezzare nonostante illoro successo); inoltre, in questo caso ho le tue ottime referenze - e, si sa,gli attestati di stima da parte di una persona che si stima, come sei tu,non possono che essere accolte positivamente. Di Mancuso, quindi,parlerò solo relativamente a La vita autentica e sarò ben lieto di accoglierele tue eventuali considerazioni di piĂš ampio respiro.
Per iniziare in via generale, direi che questo libro ha prodotto in me re-azioni contrastanti: è un libro chiaro e ben scritto ma, al tempo stesso,per i miei gusti un poâ scolastico; è palesemente âapertoâ e tuttavia unpoâ assertorio; il tema centrale - appunto, la vita âautenticaâ - è ben defi-nito (anche se forse con qualche ritardo, cioè solo alle pp. 76 e sg.), ma altempo stesso tuttâaltro che sottratto alle sue numerose ambiguitĂ . Unaspetto, questâultimo, su cui mi soffermerò a lungo piĂš avanti.
Per seguire lâordine delle tue considerazioni, direi che concordo con tesulle âsintonie metodologicheâ, palesi sin dalla chiarezza dâesposizione (eforse anche dalle per me eccessive âsottotitolazioni professoraliâ, alla finfine utili per un lettore inesperto), ma che al tempo stesso trovo troppoâdirettivoâ e poco problematico (in seguito ti spiegherò meglio perchĂŠ) ilpercorso disegnato dal libro. Quanto poi alle âsintonie contenutisticheâ,tralascio la questione del leader perchĂŠ ci porterebbe lontano (la mia ideadel leader è un poâ piĂš articolata e singolare, credo che il leader non si do-vrebbe neppure vedere, cioè dovrebbe esser riconosciuto come tale soloquando cessa di svolgere il proprio ruoloâŚ) e passo a quel che chiamiÂŤlâessenzialeÂť. Sul quale, caro Augusto, non sono poi cosĂŹ dâaccordo, nelsenso che dubito fortemente abbia senso affermare che ÂŤlâuomo autenti-coÂť sia ÂŤlâuomo liberoÂť, o ÂŤlâuomo fedele a sĂŠ stessoÂť, o anche ÂŤlâuomoche vive per la giustizia, il bene, la veritĂ Âť (p. 137).
La ragione di questa mia perplessitĂ ci riconduce al tema stessodellâautenticitĂ - concetto al quale, come forse sai, sono decisamenteâallergicoâ, ma che proprio per questo mi appassiona nella sua disaminacritica. Lo trovo infatti pericolosamente ambiguo: è un termine descrittivoche, in ambito filosofico, si finisce per usare in senso valutativo, conferen-do in tal modo oggettivitĂ a un giudizio soggettivo. Si tratta di uno dei potentiinsegnamenti che mi sono stati dati dal mio piĂš stimato insegnante di fi-losofia, Sergio Landucci.
Vediamo cosa dice il dizionario alla voce âautenticoâ: in senso proprio,ÂŤche è vero e dimostrato come taleÂť (il riferimento è a testi, storie, copie con-validate da autoritĂ competenti); in senso figurato, ÂŤoriginaleÂť (il riferi-mento è alla mobilia del Settecento) e, ÂŤnella filosofia esistenzialistica,
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(âŚ) ciò che in un essere umano è originale, durevole, profondo, in op-posizione a ciò che è accettato dallâesterno, per imitazione, in modo su-perficialeÂť. Dunque, per parlare di qualcosa di âautenticoâ pare necessa-rio riferirsi ad altro: allââoriginaleâ, che serva da metro o criterio, cioè daâveroâ. Non a caso Sautet, nel suo Socrate al caffè, riconduce immediata-mente e con necessitĂ il concetto al pensiero religioso e alle Sacre Scrittu-re, criterio di autenticitĂ per antonomasia. Questo âoriginaleâ, nel casodellâuomo, è qualcosa di âprofondoâ e âdurevoleâ, di ânon accettatodallâesternoâ: ovvero il âproprioâ (eigen) dellâautenticitĂ heideggeriana(Eigentlichkeit).
Ora, a me questi usi linguistici fanno diffidare dellâaccezioneâesistenzialistaâ, in quanto essa mi sembra richiedere necessariamenteunâassunzione antropologica (e, soprattutto, ontologica) straordinaria-mente forte e tuttavia inconsistente: che vi sia oggettivamente unâoriginaleâ di ciascun uomo, o di ciascuna vita. Un âoriginaleâ che - perfungere da criterio - sia durevole, ossia statico (anche solo idealmente), chenon muti, non divenga man mano che la vita procede e che lâuomo cresce,apprende, si modifica.
Un tale presupposto antropologico sembra essere ricusato anche daMancuso, che sposa esplicitamente unâÂŤantropologia dinamicaÂť (p. 109) edefinisce lâautenticitĂ in modo (solo apparentemente) diverso: ÂŤlâuomoautentico è lâuomo libero, lâuomo che costruisce la sua vita su un fonda-mento interiore tutto suo, sulla sua consapevole e autonoma personalitĂ Âť(p. 76); lâuomo inautentico, invece, è quello che introduce ÂŤla falsitĂ , lamenzogna, il raggiroÂť (p. 80).
Purtroppo, questa definizione mette nero su bianco proprio ciò che piĂštemo dallâuso di âautenticoâ: la cancellazione (non argomentata) delladifferenza fatto/valore, la trasformazione di un giudizio di valore in ungiudizio di fatto. PerchĂŠ la definizione di Mancuso è quella del termineâsinceritĂ â, e a tutta prima non si capisce perchĂŠ sia usata per definireâautenticitĂ ââŚ.
Sono andato a cercare la risposta nel riferimento che Mancuso, subitodopo, fa ad Heidegger (pp. 94 e sg.), cercando di superarne proprio il ri-ferimento al âproprioâ. Di esso viene riconosciuta la pericolositĂ , dovutaalla riduzione dellâautenticitĂ a una ÂŤâfedeltĂ a se stessiâÂť (p. 100) poten-zialmente individualistica: lâuomo autentico fedele a se stesso è a rischiodi un autismo sordo a tutto ciò che lo circonda. Purtroppo, però, Man-cuso cerca di risolvere il problema stigmatizzando in HeideggerÂŤlâassenza di un valore ultimo nel leggere la realtĂ Âť, cioè di nuovo riman-
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dando a pretese âoggettivitĂ â nellâambito dei valori: ancora una volta,lââautenticoâ accampa pretese descrittive, ma si palesa solo come valuta-tivo!
Mancuso percepisce tuttavia che questo spostamento non è e non puòessere automatico. Che richiede, cioè, una autenticazione dei valori. Infatti,subito dopo si addentra nel problema della veritĂ e cita, facendola sua, laconcezione di Bonhoeffer (che so lasciare perplesso anche te, Augusto):una veritĂ ÂŤche non è riducibile allâesattezza, ma che è anche misura, giu-stizia, bene, bellezza, decoroÂť (p. 119). Con ciò il cerchio si chiude, ma sichiude molto male: la veritĂ - termine coniato per lâappunto al fine di in-dicare lâesattezza - non è piĂš esattezza, bensĂŹ valore! E che valore, poi:non solo ÂŤmisura, giustizia, beneÂť - sui quali ancora si potrebbe discuterecirca una possibile oggettivazione - ma persino ÂŤbellezza, decoroÂť - cioèvalori soggettivi per antonomasia!
Caro Augusto, io sinceramente credo che questo sia il piĂš perfettoesempio di quanto ho capito tanti anni fa, cioè che âveroâ e âautenticoâ,quando usati in contesti impropri, hanno solo una funzione retorico-esortativa per rafforzare il proprio giudizio di valore: autentico è lâuomobuono. Ovviamente, secondo il criterio di bontĂ che ciascuno ritiene vero,facendo cosĂŹ cadere in una perniciosa circolaritĂ : autentico è il buono, manon un buono qualunque, bensĂŹ il buono⌠autentico!
In tal modo, non basta piĂš essere sinceri, perchĂŠ il sincero che procurasofferenze non è buono, ergo non è piĂš autentico⌠NĂŠ ha piĂš senso di-scutere sulle differenze delle gerarchie di valore (una per tutte, citata daMancuso: su quali basi dovremmo ritenere un male la morte degli anima-li, specie se procurata senza sofferenza?) o sui fondamenti dellâetica (ivalori valgono di per sĂŠ, oppure sono relativi ad altro?): non ha piĂš sensoperchĂŠ, ad esempio, il mentitore - che per essere autentico non può nonmentire - se mente producendo sofferenza è ipso facto inautentico, dunqueprivato della sua dignitĂ di essere umano (è infatti un essere âfalsificatoâ).
Prima di congedarmi e di passare ad attendere le tue risposte, caro Au-gusto, vorrei sottolineare come questa concezione dellâautenticitĂ siscontri con lo stesso dettato di Mancuso. Il quale, infatti, ripetutamentesi appella alla sinceritĂ , per poi negarla nellâesempio di Bonhoeffer; si ri-ferisce allâinterioritĂ , per poi trovarsi a negarla con la relazione alle rela-zioni con gli altri; richiama il vero convertendolo nel bene, per poi fon-dare il bene sul vero; parla di libertĂ , ma dimentica che la costituzionerelazionale dellâuomo (e che egli afferma con tanta enfasi e che io preferi-rei chiamare intersoggettivitĂ ) limita necessariamente la nostra libertĂ âŚ.
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Non stupisce perciò che al centro del suo pensiero ci sia la discutibilissi-ma concezione di una insuperabile âcontraddizione realeâ (per superarela quale, alla fin fine, non si può che ricorrere al concetto di DioâŚ): per-chĂŠ è lui stesso ad aver seminato antinomie!
Ma qui mi fermo e aspetto le tue considerazioni.Neri
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Caro Neri,
ognuno di noi - come dimenticarlo dopo Gadamer? - legge un testosulla base di una personale pre-comprensione. Ă chiaro che discutendodi questo libro di Mancuso non possiamo mettere a tema le nostre duedifferenti pre-comprensioni: sarebbe impresa troppo laboriosa (e non sodi quale interesse per i lettori). Mi limito dunque a una sola considerazio-ne: se ti capisco bene, da hegeliano storicista tu neghi qualsiasiâoggettivitĂ â e âmeta-temporalitĂ â ai valori e riduci a âsoggettivitĂ â nonsolo la âbellezzaâ e il âdecoroâ di unâesistenza, ma anche la âgiustiziaâ, ilâbeneâ e la âveritĂ â. Mancuso, che è hegeliano come te ma non imme-more della lezione platonica e kantiana, ritiene che la storia sia un dina-mismo finalizzato a qualcosa di meta-storico. Di metafisico. Di assoluto.Di normativo, dunqueâŚ
Che aggiungere? Ognuno di noi usa il metro di giudizio di cui è in pos-sesso: lâimportante è che, come avviene da anni fra noi due, si sia dispostia metterlo in crisi davanti ad eventuali confutazioni convincenti.
In questa sede posso solo precisare che, per quanto piĂš vicino alle po-sizioni di Mancuso che alle tue, ho anchâio le mie perplessitĂ su un volu-me di cui nella lettera precedente ho avuto modo di parlare solo positi-vamente. Certo, a fronte di tante ragioni di consenso, le riserve sono diminor peso. Eppure in filosofia servono come combustibile per alimen-tare, incessantemente, la riflessione. Provo ad accennarne alcune in ordi-ne crescente di rilievo.
a) Comincerei dal ÂŤcarico di dolore innocente che la vita comporta atutti i livelli, a cominciare dalla nutrizione che impone la macellazione dimilioni di animali da parte degli uomini e lo squartamento di un numeroancora maggiore di animali da parte degli stessi animaliÂť (p. 165). Pre-messo che lâautore di un saggio non può inseguire, mentre segue un filorosso principale, gli innumerevoli rivoli secondari del suo discorso, per-
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sonalmente non metterei nello stesso elenco ÂŤla macellazioneÂť da partedegli uomini con ÂŤlo squartamentoÂť fra animali: quanto inevitabile è il se-condo, tanto evitabile è la prima. Con lâevoluzione della specie umanaabbiamo imparato a superare lâidea che il cannibalismo sia ânaturaleâ;stiamo imparando a superare anche lâidea che ânaturaleâ sia la guerracome strumento di risoluzione delle contese fra gli Stati; perchĂŠ esclude-re che si arrivi a capire che ci si possa procurare le proteine attraversoalimenti diversi dalla carne animale? E, anche ammesso e non concessoche fosse inevitabile il consumo di carni animali, non metterei sullo stes-so piano lâuccisione di (pochi) bisonti o (poche) mucche che trascorrononelle praterie la loro vita e la macellazione di (innumerevoli) buoi o galli-ne o agnellini o suini che vengono concepiti, partoriti, allevati e stermi-nati in campi di sterminio rispetto ai quali i gulag stalinisti o i lager hitleria-ni possono considerarsi luoghi di villeggiatura.
b) Passerei ad un secondo ordine di interrogativi. Mancuso condivide laprospettiva di Bonhoeffer secondo cui ÂŤla parola veridica non è unagrandezza costante in sĂŠ: è vivente come la vita stessa. Quando (âŚ)qualcuno dice la veritĂ senza tenere conto della persona a cui parla, câèlâapparenza ma non la sostanza della veritĂ Âť (p. 117). Lâesempio di Bon-hoeffer che Mancuso riporta è illuminante: ÂŤUn maestro chiede a unbambino dinanzi a tutta la classe se è vero che suo padre spesso torni acasa ubriaco. Ă vero, ma il bambino nega. (âŚ) Si può dire che la rispostadel bambino è una bugia, ma è una bugia che contiene piĂš veritĂ , ossiache è piĂš conforme alla veritĂ che non una risposta in cui egli avesseammesso davanti a tutta la classe la debolezza paternaÂť (pp. 114-115).Personalmente non sono dâaccordo con questa lettura. Penso, con Kant,che la veritĂ sia una veritĂ e la bugia una bugia: che poi, spostandoci dalpunto di vista teoretico al punto di vista etico, ci possano essere veritĂ che si dicono per ferire (e dunque lâatto di dirle è immorale) e bugie chesi dicono per soccorrere (e dunque lâatto di dirle può essere lecito o addi-rittura doveroso) è unâaltra questione. Ancora Kant sostiene che se unamico, perseguitato ingiustamente dalla polizia, si rifugia a casa tua,nellâipotesi che un poliziotto ti chieda se egli è nascosto presso di te, tudebba dire come stanno effettivamente le cose. Mi pare unâesagerazioneda âcrucchiâ. Ma se dico, come direi, che a casa mia non câè nessuno, lamia bugia non diventa veritĂ : resta una bugia ed io sono eticamente me-ritevole di lode per non aver detto la veritĂ nel momento sbagliato e allapersona sbagliata.
c) Un terzo grappolo di interrogativi critici lo potrei catalogare sotto
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lâetichetta âAristoteleâ. Infatti, in nome di un hegelismo piĂš praticato cheproclamato, Mancuso attacca il povero Aristotele su diverse teorie quali-ficanti del suo sistema (e immagino che a te, hegelista e in parte hegelia-no impenitente, questi passaggi rendano Mancuso ancora piĂš simpatico).Non ho il tempo - e forse neppure la competenza - per affrontare le cri-tiche al concetto di âsostanzaâ (anche se ho il sospetto teoretico che nonsia vero che ÂŤla relazione è anteriore alla sostanza in quanto la costitui-sceÂť, come si legge ad esempio a p. 153, bensĂŹ che la rete di relazioni incui siamo inseriti strutturalmente consente alla sostanza potenziale - unseme, un ovulo fecondato - di diventare sostanza in atto; che le relazioni,insomma, siano condizione di possibilitĂ e non causa della genesi delle sostanzeâprimeâ). Ma almeno un accenno al ÂŤprincipio contraddizioneÂť (p. 40)non posso proprio evitarlo. Mancuso, con toni suggestivi, riprende Kant(ed implicitamente Hegel) asserendo che ÂŤquando la ragione si pone da-vanti alla vita in modo puro, senza ideologismi tendenti a priori verso ilsenso assoluto o il non senso assoluto, quando si dispone con weberianodisincanto a vedere la vita quale realmente è, essa incontra necessaria-mente la contraddizione (âŚ). La contraddizione vista, riconosciuta epensata si chiama antinomia, ovvero scontro tra due nĂłmoi, tra due leggi,entrambe legittime ma in opposizione lâuna con lâaltraÂť (pp. 41-43). Eb-bene, mi sembra di intuire che cosa voglia dire Mancuso ma mi pare che- se intende dire ciò che intuisco - lo formula in maniera inutilmenteequivoca. Mi spiego meglio. Se vuole affermare che la ricerca di una teo-ria generale dellâessere, di una interpretazione ontologica complessiva è -di fatto - talmente ardua che la ragione umana, anche delle menti piĂšprofonde sostenute dalla massima sinceritĂ dâanimo, approda a conclu-sioni opposte, divergenti, inconciliabili, non posso che concordare. Ăquasi unâevidenza storica. Ma dobbiamo stare attenti, a mio sommessoavviso, a non scambiare una difficoltĂ effettuale, o esistenziale, con unaimpossibilitĂ di principio. Se, di fatto, lâumanitĂ non è ancora riuscita asciogliere i dilemmi della metafisica ma, di diritto, potrebbe, ha sensocontinuare la ricerca: ha senso leggere Hegel che fa della contraddizioneâgnoseologicaâ kantiana la legge âontologicaâ fondamentale; ha sensoleggere Marx che fa della contraddizione la formula âscientificaâdellâevoluzione storica; ha senso leggere le contro-obiezioni di un Gusta-vo Bontadini o di un Emanuele Severino o di un Enrico BertiâŚ. Ma sepotessimo asserire, senza timore di essere contraddetti, che la contraddi-zione è, per âprincipioâ, il cuore del mondo e dunque del pensiero chepensa il mondo, staremmo asserendo (non so quanto coerentemente e
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intelligibilmente) che lâuniverso, il nostro pianeta, la vita dellâuomo, sonointrinsecamente âassurdiâ. Ă questo che intende sostenere Mancuso(magari per legittimare, come ragionevole, il âsaltoâ nella fede, sia purnella âfede filosoficaâ)? Non saprei. Ma, se cosĂŹ fosse, mi troverei abba-stanza distante. Se ciò che è non è solo sconosciuto (de facto) ma incono-scibile (de iure), non possiamo saperlo neppure un minuto prima che laricerca di intelligibilitĂ , di non-contraddittorietĂ intrinseca, abbia termine.Ecco perchĂŠ riterrei molto piĂš aderente a ciò che possiamo dire - e a ciòsu cui dobbiamo tacere - asserire che nella natura del cosmo come nellastoria dellâumanitĂ vi siano non âcontraddizioniâ ma âaspetti contrastan-tiâ, âleggi opposteâ, âtendenze contrarieâ. Come diceva Romano Guar-dini, âgegenâŚâ e non âwiderâŚâ.
Forse queste contro-obiezioni, dal punto di vista di un aristotelico-tomista non del tutto pentito, possono risuonare troppo tecniche, se nonaddirittura capziose. Ma sono dettate dallâintenzione di avvalorare la tesiprincipale di Mancuso stesso: che la vita dellâuomo abbia senso solo invista della veritĂ , del bene e della giustizia. Se questa âveritĂ â non è unvolto dellâessere (anche se un volto velato, solo progressivamente e soloparzialmente svelabile) - in quanto lâessere, in sĂŠ, sarebbeâcontraddittorioâ (e dunque impensabile) - perchĂŠ riconoscervi la metafondamentale del cammino umano?
d) Solo come nota in margine (perchĂŠ, rispetto alle questioni toccate inprecedenza, questa può sembrare veramente di lana caprina a lettori comete notoriamente distanti dalle problematiche teologiche) aggiungerei cheMancuso parla sempre della ricerca del bene da parte dellâuomo. Ălâamore come eros: molto greco e molto essenziale alla realizzazionedellâesistenza umana. Una vita autentica può chiamarsi tale anche se, peripotesi, escludesse dal proprio orizzonte mentale, e soprattutto dalla pro-pria prassi, lâamore agapico (assai poco greco, molto biblico e altrettantoessenziale alla realizzazione dellâesistenza umana)? Mi riferisco nonallâamore-bisogno, allâamore centripeto che accoglie il bene a integrazio-ne delle proprie lacune e a lenimento delle proprie ferite, ma allâamore-dono, allâamore centrifugo che opera il bene altrui per colmare la famealtrui e per lenire le altrui ferite. Personalmente sono convinto chelâamore-desiderio (di matrice filosofica) e lâamore-benevolenza (di matri-ce teologica) siano entrambi necessari, come il pane e lâacqua. Non so seallâamore âoblativoâ si possa giungere solo in forza di un ragionamentopuramente razionale o se esso non presupponga uno slancio ulteriore: sosolo che, se la fede ha un senso, è precisamente questo osare darsi senza
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nessuna previsione di restituzione. Ă significativo che Mancuso, dopoaver citato Marco 8, 34 (ÂŤSe qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi sestessoÂť), ne dia una esegesi non solo comprensibile, ma anche accatti-vante: ÂŤSarebbe meglio rendere il verbo greco aparnĂŠomai con ânegareânel senso di âvincereâ, âsuperareâ: se qualcuno vuol venire dietro di me,si deve negare, si deve superare. Non si tratta di rinnegare se stessi quasiin odio a se stessi, ma si tratta di superare i propri interessi particolari perrealizzarsi veramente nellâadesione a qualcosa di piĂš grande. Solo uscen-do dal mio orizzonte inevitabilmente limitato sarò infatti nella condizio-ne di incontrare qualcosa di piĂš grande e di piĂš stabile del mio piccolo einstabile Io, affidandomi al quale il mio Io nella sua profonditĂ (lâanimaspirituale) non si perde, ma si guadagna, si fortifica, si compieÂť (p. 109).Una esegesi comprensibile e accattivante, dicevo; ma anche esauriente?Direi che, a questo primo livello, siamo sul piano del buon sensoânaturaleâ o, per non gettare neppure il sospetto di voler essere riduttivi,della âsaggezzaâ. Ma GesĂš, sulla scia del profetismo ebraico anteriore,annunziava solo questo? O, anche, ad un secondo piĂš profondo livello,la âfolliaâ (del tutto facoltativa) di chi gioca la vita per rendere migliore lavita altrui, di un âprossimoâ conosciuto o dellâumanitĂ intera? Conlâesegesi di Mancuso legittimiamo lâesodo di un Giovanni Falcone o di unPaolo Borsellino dal guscio dellâindividualismo piccolo-borghese, daquellâinferno cosĂŹ ben definito da Hegel (in un brano di Fede e sapere citatonello stesso saggio a p. 88) come ÂŤlâessere eternamente legati allâazionesoggettiva, lâesser soli con il proprio appartenere a sĂŠ stessiÂť, come ilÂŤtormento dellâeterna contemplazione di sĂŠ stessiÂť. Ma quando, una voltadedicatisi al bene e alla giustizia, si profila il rischio di morire, è ancoraragionevole perseverare? Forse lâesegesi integrale del brano suggerisceche per Falcone e Borsellino, come per tutti i martiri di tutte le cause, siarealmente - anche se enigmaticamente - sensato andare oltre i limiti delbuon senso e della saggezza, accettando di inabissarsi come il seme nellaterra invernale senza nessuna garanzia di risurrezione. (Ovviamente stoconsiderando una âleggeâ oggettiva che vale non solo per chi, come unBorsellino, lâaccettasse consapevolmente per fede ma anche per chi, co-me un Falcone, affrontasse il rischio della morte per motivazioni altre,totalmente âlaicheâ).
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Caro Augusto,
no, io non nego âoggettivitĂ â a niente: desidererei solo che quando siusa questo termine si dichiarasse chiaramente lâimpegno ontologico checi si assume e si mostrasse anche che tale impegno è assunto con logicacoerenza (o almeno con moderata e responsabile incoerenza). Io il mioimpegno ontologico riguardo lâoggettivitĂ lâho ben chiaro e lo richiamomolto spesso (anche in queste lettere, quanto parlo di intersoggettivitĂ ); allibro di Mancuso contesto proprio lâassenza di questa chiarezza ontologi-ca, che poi lo porta a ripetute contraddizioni anche espositive.
Apro una breve parentesi: dovremmo confrontarci molto, molto di piĂšsulle rispettive precomprensioni (e non parlo di me e di te, ma di noiuomini tutti), perchĂŠ proprio tale confronto critico è la filosofia! Lasciareche ciascuno abbia la propria precomprensione senza confronti serrati (eteoreticamente anche âferociâ) è banale quieto vivere, spesso peraltroanche foriero di futuri e insanabili scontri.
Ma per tornare al libro su cui stiamo dialogando, concordo con la tuaperplessitĂ riguardo al ÂŤcarico di dolore innocenteÂť: come avevo accen-nato giĂ nella mia precedente, non sono affatto sicuro che si possaestendere sic et simpliciter lâetica al mondo animale, perchĂŠ anche in questocaso è necessario esplicitare un impegno ontologico (relativo ai âvaloriâ,ai concetti di âanimaleâ e di âuomoâ, e a tutto ciò che la messa in campodi questi impegni porta inevitabilmente con sĂŠ).
Quanto poi alle posizioni di Bonhoeffer e Kant, credo che negarelâimmoralitĂ della sinceritĂ nel caso della difesa di un amico perseguitatoingiustamente sia ben peggio che âunâesagerazione da crucchiâ: si trattainfatti della ricusazione dellâetica filosofica - dinamico campo nel quale siconfrontano, con tutti i loro inevitabili conflitti, i molteplici valori checiascun uomo assume - a favore di una morale codificata e solidificata -comoda da assumere, perchĂŠ scarica dalle responsabilitĂ delle proprieazioni e le rimanda a chi garantisce i codici. Purtroppo Kant ha inclinatospesso verso questa ricusazione, per un eccesso di platonismo, e merite-rebbe riflettere di piĂš sulle alternative offerte dalla riflessione etica con-temporanea (penso a Richard M. Hare, a Charles L. Stevenson e a Wil-liam K. Frankena), spesso venate da un utilitarismo etico che il maestrodi KĂśnigsberg avrebbe certo guardato con orroreâŚ. Tuttavia, la posizio-ne di Bonhoeffer - almeno cosĂŹ come lâassume Mancuso - ha a mio pare-re un neo gravissimo: è arbitraria. Chi e con quali criteri decide che undeterminato valore (nel caso specifico, la sinceritĂ ) debba essere sacrifi-
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cato? Lâutilitarismo etico ha i suoi criteri rigorosi, non lascia la sceltasemplicemente alla sensibilitĂ personale. Caro Augusto, il nostro disgra-ziatissimo Paese è giustappunto affetto dallâidea dilagante che il âveroâsia quel che è piĂš adeguato alla situazione: bisogna stare molto, moltoattenti a citare esempi come quello di Bonhoeffer! Il quale - non mi di-lungo perchĂŠ non è la sede - non mi sembra neppure poi cosĂŹ âgiustoâdal punto di vista delle conseguenze: non sarebbe stato meglio dire le co-se come stavano e aiutare il ragazzo a prendere distacco dalla figura delpadre? Ma forse per Bonhoeffer questâopzione era impensabileâŚ.
Sul âterzo grappolo di interrogativiâ qualcosa ho giĂ detto, ma vorreicalcare la mano: quando afferma che ÂŤla contraddizione vista, ricono-sciuta e pensata si chiama antinomia, ovvero scontro tra due nĂłmoi, tradue leggi, entrambe legittime ma in opposizione lâuna con lâaltraÂť, ancorauna volta Mancuso non esplicita il proprio impegno ontologico. Due leggi?Ma stipulate da chi? Nel mio personale impegno ontologico direidallâuomo, che quindi per superare la contraddizione non ha da far altroche cambiare le leggi; in quello di Mancuso non so. So però che se la suaontologia non permette il superamento dellâantinomia, ebbene, è unâon-tologia inconsistente, dunque invalida e da abbandonare: se Mancusonon vuol farlo, non dia poi la colpa al mondo!
Lâultimo tema che tocchi richiederebbe davvero altri contesti per essereaffrontato. Io non credo che sia cosĂŹ opportuno distinguere (se non ana-liticamente) eros e agape, perchĂŠ sono due facce della medesima medaglia:non si può ricevere senza dare (almeno, non in un rapporto dâamore), maal tempo stesso non è vero che si doni senza attendere niente in cambio(come spiegano bene le riflessioni di Godbout sul paradigma del dono).Ciò che fa la differenza è il calcolo economico del dare e dellâavere, che neldono (e quindi nelle relazioni affettive) non câè, o meglio non è un calcolo,ma solo unâattesa. Se doni, doni, doni e non ricevi mai nulla indietro(quanto meno riconoscimento o affetto), alla fine o smetti di donare, osemplicemente non provi piĂš amore per lâaltro.
Concordo comunque con te che in Mancuso sembri mancare (almenonegli argomenti) una componente âpoliticaâ: cosâè quel ÂŤqualcosa di piĂšgrande e di piĂš stabile del mio piccolo e instabile IoÂť a cui fa riferimento?Per me (di nuovo, sulla base del mio personale impegno ontologico) nonè niente di âprofondoâ o di âtrascendenteâ, bensĂŹ sono gli altri, tutti glialtri - e perciò ne segue che il âsuperamentoâ di sĂŠ si gioca sul piano dellapolitica (nel senso greco del termine). In Mancuso - azzardo - câè in piĂšun elemento di trascendenza o, come dici tu, di âresurrezioneâ, reso ne-
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cessario dal suo inesplicito ma tangibile assunto ontologico individualista:ÂŤil collettivo può esistere solo grazie al fatto che prima ancora câè la di-mensione del sĂŠ, ed è qui che si gioca la vera partitaÂť (p. 94). Ora, assu-mere che il sĂŠ sia ontologicamente prioritario pospone irrimediabilmentela dimensione etico-politica, per recuperare la quale è richiesto un inter-vento trascendente: ÂŤio sono convinto che la dimensione etica, (âŚ), sia ilfondamento autentico del pensiero del divino nella coscienza umana ditutti i tempiÂť (p. 136). Nota bene che lâintervento è fideistico - Mancusoè ÂŤconvintoÂť, perchĂŠ non può argomentare, e richiama il ÂŤdivinoÂť comegarante - ed è tale solo perchĂŠ serve a âsalvareâ dallâinconsistenzalâargomento; ed è anche confortante per chi, come Mancuso, afferma diÂŤsentire un grande bisogno di certezza, di soliditĂ , di fondazione, di sicu-rezzaÂť - tutte cose che il filosofo può cercare sapendo di non trovarlemai, mentre per il teologo sono a portata di mano - anche se fuori dal sa-pere e riposte nella fede.
Ma lâassunto ontologico di Mancuso, purtroppo, contraddice anche unsuo altro dichiarato caposaldo: quello di ÂŤuna concezione della vita alvertice della quale câè la relazionalitĂ dellâessereÂť (p. 116), una ÂŤrelazione(âŚ) costitutiva, originaria, essenziale per lâIo, il quale esiste in quantofrutto delle relazioniÂť (p. 151). Ma non aveva affermato sessanta pagineprima che la dimensione del sĂŠ è precedente al collettivo? Delle duelâuna!
Caro Augusto, qui non siamo di fronte a una mia precomprensione:questa è una vera e propria inconsistenza nel pensiero di Mancuso, con-seguenza palese della sua assunzione della prioritĂ ontologica del sĂŠ(dellâanima?) individuale. Unâassunzione incompatibile con la relaziona-litĂ dellâessere, ma invece coerente con la visione del mondo cristiana,che anzi proprio con la sua inconsistenza rende urgente: se lâanima indi-viduale ha una prioritĂ ontologica, è necessario che non svanisca nelnulla, ma si conservi in eterno o risorga; se è invece prioritaria la relazio-nalitĂ , ovvero lâintersoggettivitĂ , allora la scomparsa dellâindividuo non è piĂšscomparsa dellâessere - perchĂŠ resta lâaltro dal sĂŠ - e lâanima non è piĂš ne-cessaria, nĂŠ lo è un Dio che serve alla fin fine proprio a garantirequellâeterna esistenza del sĂŠâŚ.
Beh, lo sapevo, siamo finiti a parlare di religione e di ateismoâŚ. Ti ri-passo la palla, anche se so che non potremo trattare qui questo tema co-me si converrebbe. Mi sembra giĂ molto aver mostrato ai nostri pazientilettori come il fare filosofia, anche nella sua forma pratica, riconduca ine-vitabilmente ai cosiddetti âgrandi problemiâ, perchĂŠ essi si annidano
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dietro ogni discorso che facciamo anche nella nostra vita quotidiana!Neri
***Caro Neri,
sĂŹ, hai ragione. I nostri lettori (se qualcuno è riuscito a resistere sino aqueste mie righeâŚ) sono stati sin troppo pazienti. Se ci interrompiamoqui, forse qualcuno avrĂ ancora la curiositĂ di spostarsi direttamente sultesto di Mancuso e potrĂ valutare con contezza le nostre rispettive opi-nioni. Tanto, lo sappiamo: in filosofia non si conclude mai, si sospendeper riprendere fiato e - poi- ricominciare lĂ dove ci si era interrotti.
Augusto
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Repertorio
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AnalisiEugĂŠnie Vegleris, Manager con la filosofia(Apogeo, Milano 2008)
di Paolo Cervari
Ora che il lettore ha percorso il suo cammino al fianco di alcuni grandi filosofi,tutto comincia!Ora infatti non si tratta piĂš di leggere, ma di lavorare con la filosofia. Non sitratta piĂš di capire, ma di realizzarsi attraverso le azioni. Cambiare atteggia-mento significa assumersi un rischio e agire in maniera diversa significa accettarelâincertezza. Lâincertezza fa paura, la vita fa paura. Ă per questo che chi nonrischia nulla non ottiene nulla e chi non cambia è giĂ morto.Fare filosofia in azienda significa: Porre domande quando tutto sembra chiaro Definire quando tutto sembra evidente Passare dalla comunicazione al dialogo Dare un fondamento quando tutto passa Essere creativi in un ambiente standardizzato Apparire in accordo con se stessi Bisogna andare controcorrente in unâepoca che preferisce: Le cifre alle domande I fuochi artificiali alla luce del giorno I discorsi al dialogo Il visibile allâinvisibile La sicurezza alla fiducia La trasparenza alla chiarezzaLavorando in questo modo, il manager di oggi crea il mondo di domani!
La lunga citazione sopra riportata è il testo conclusivo della parte piĂšimportante e pertinente del bel saggio di EugĂŠnie Vegleris Manager con lafilosofia, ovvero la âparte secondaâ, intitolata âLa filosofia nel quotidia-noâ, laddove per quotidiano va inteso il lavoro aziendale, le opere di ognigiorno. Testo conclusivo, dicevo, e quindi con valore di manifesto, e perquesto lâho scelto. In esso infatti traspare, a mio avviso, gran parte delsenso del lavoro di Vegleris, insieme al suo spirito, ovvero, per essere piĂšprosaici, il âmodusâ o assetto valoriale a partire da cui la consulente filo-
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sofica francese lavora1.Se infatti analizziamo con attenzione i âpunti elencoâ (stilema di tipica
tradizione aziendale, peraltro) del testo citato e tentiamo, magari conlâaiuto del libro stesso di Vegleris, ma anche, perchĂŠ no, con dispositivi dilettura provenienti da altre testualitĂ , di âesploderliâ (come per lâappuntosi direbbe in azienda) possiamo scoprire un mondo ricco e complessoche espone molte scelte di metodo e di prassi.
Ma prima ancora di fare questo, e adottando invece uno stile di inter-rogazione propriamente filosofico, vorrei invitare il lettore a fare un pas-so indietro e osservare i suddetti punti elenco da un punto di vista piĂšcomplessivo e distaccato, secondo una specie di âepochèâ.
A un primo sguardo colpisce lâeterogeneitĂ degli argomenti. Per limi-tarci al solo primo elenco, quello che in apparenza, come vedremo, èmaggiormente construens, elementi come âdefinireâ, âdialogareâ, âfonda-reâ, âcreareâ e âaccordareâ (apparenza e propria sostanza, dice lâautrice,cosa che mi verrebbe da tradurre con âessere coerentiâ o âautenticiâ)colpiscono per la loro dispersione rispetto a un qualsiasi campo semanti-co: non si sta parlando solo di discorsi, ma anche di atti; non ci si limita aun punto di vista âcostruttivistaâ ormai facile e di maniera, ma si adom-bra un certo realismo, al punto che si parla di fondamenti e di autenticitĂ (non espressamente qui a dire il vero, ma la parola fa parte dellâarsenalecategoriale dellâautrice messo in campo nel testo), non ci si occupa solodi questioni gnoseologiche ma si percepisce anche un afflato etico (e chivorrĂ leggere il libro coglierĂ con chiarezza qua e lĂ unâattenzione nonbanale nĂŠ di maniera anche allâestetica)âŚ. Insomma in poche frasi sispazia per ogni dove. PerchĂŠ?
La risposta piĂš semplice che mi viene in mente è questa: perchĂŠ Vegle-ris sta parlando, anzi riassumendo, ovvero esponendo cosa è importanteper lei al riguardo di una certa questione, vale dire la rilevanza e lâutilitĂ della filosofia per le aziende. Insomma il suo intento non è epistemico,nĂŠ metateorico, ma piuttosto in senso eminente pratico: rivolto a com-prendere i principi guida dellâazione sulla base di esperienze proprie edaltrui.
E in questo sta certamente uno dei maggiori meriti di questo libro.Il saggio, infatti, in primo luogo ha lâintento di riportarci e trasferirci il
1 Conosco EugĂŠnie Vegleris anche attraverso carteggi e interviste da lei rilasciate in vista della
redazione di un libro sulle pratiche filosofiche nelle organizzazioni che sto scrivendo con NeriPollastri.
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senso di unâesperienza, quella del consulente filosofico, in un certo con-testo, vale a dire lâazienda. E di questo contesto Vegleris ha ottima cono-scenza, avendo lavorato per numerose aziende, sia grandi che menograndi, comunque anche con numerose multinazionali, per molti anni2. Edâaltra parte che si tratti di un lavoro schiettamente filosofico ci si rendeben conto anche soltanto considerando, ancora una volta, i punti elencodi cui sopra: è chiaro che il campo preso in esame è un campo filosofico,in modo precipuo e specifico, e configurato, in quelle poche parole, inuna maniera che ci sentiamo di condividere profondamente. E se si puòdare una sintesi del lavoro della pratica filosofica, di certo questa è unadelle migliori. Il che suppone unâesperienza e un pensiero cogenti e bendiretti, sintetici e profondi.
Ciò appare ancora piĂš chiaro, peraltro, nel momento in cui iniziamo aleggere il libro di Vegleris , a partire dallâintroduzione, unâaccorata âLet-tera a un managerâ in cui si afferma, per esempio, che âamare la saggezzasignifica desiderare di comprendere per agire con efficacia e vivere me-glioâ, una sintesi ardita che definisce la filosofia in modo che forse ad al-cuni non piacerĂ , ma che di certo ha il pregio di essere molto orientataalla pratica e molto comprensibile da parte di un manager. Non si pensicomunque a un testo di âfintaâ consulenza filosofica annegata e diluita inun mare di pensiero organizzativo, per quanto sofisticato, con scivola-menti e ammiccamenti al problem solving che a molti pare la chiave perâvendersiâ alle organizzazioni. Tuttâaltro: il libro di Vegleris è profonda-mente filosofico, critico, problematico e riflessivo. Valga ad esempio ilseguente passaggio, a mio avviso assolutamente paradigmatico:
Nel portare avanti questa mia battaglia, grazie alla resistenza che mi ha postoun interlocutore, ho scoperto la possibilitĂ di gettare un ponte tra la filosofia e ilmanager. Questo mio interlocutore era il responsabile del settore sviluppo di unagrossa azienda automobilistica. Stavo per descrivergli il dialogo filosofico, quandoè intervenuto con la domanda: âQual è la sua griglia di osservazione?â. La suadomanda mi ha procurato un sentimento cosĂŹ forte, misto di oppressione e di ir-ritazione, che non ho potuto reprimerlo. Mi sono sentita prigioniera di una gab-bia, costretta a percepire il paesaggio solo attraverso le sbarre. Notando il lin-guaggio del mio corpo, precisò: âMa qualunque consulente osserva e lavora apartire da una teoria!â. Nella mia testa si accavallavano le teorie contraddittoriedei filosofi che avevano nutrito il mio spirito senza mai farlo fermare su una diesse. In questo accalcarsi, ciascuna brillava per la sua capacitĂ di esplorare
2 Comunicazione privata dellâautrice.
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lâinsieme della realtĂ senza levarle le zone dâombra. (âŚ) Risposi: âNon ho al-cuna grigliaâ. La mia risposta evidentemente lo stupĂŹ. âMa lei dice di essere unfilosofo. Ha delle competenze nel settore delle scienze umane, quindi la sua gri-glia deve essere necessariamente sistemicaâ. Questo aggettivo alla moda, ovunquee quotidianamente proposto dai consulenti ai loro potenziali clienti, mi fece pas-sare dal malessere alla rivolta piena. Diventato âgriglia di interpretazioneâ,lâaggettivo sistemico si trovava subito depauperato del suo senso: la coscienzadella complessitĂ . CosĂŹ spoglio, produceva solo lâillusione di una specializzazione.E questa illusione rassicurava un interlocutore preoccupato di âaddestrareâ i suoimanager, oberati di complessitĂ e di lavoro, a âgestireâ ârapidamenteâ laâcomplessitĂ â che incontrano ogni giorno nella loro professione. Ho precisato al-lora la mia risposta: âNon ho nessuna griglia, ma delle finestreâ. Rispondere co-sĂŹ mi diede sollievo. Al posto del cortile di una prigione avevo di nuovo davanti ame un giardino. Anche il mio interlocutore sembrò capire e attraverso questabreccia una corrente dâaria attraversava il nostro spirito. Ho compreso improvvi-samente ciò che ho sempre pensato. La filosofia apre le porte allâinterioritĂ e, at-traverso questo ponte tra esterno e interno, lega gli individui tra loro, gli individuial loro ambiente prossimo, lâambiente professionale al mondo e alla condizioneumana. La filosofia non ha idee precostituite, essa interroga la realtĂ . Interro-gando, cerca il senso e non la veritĂ (pp. 23-24).
Penso che con questo sia chiaro tutto quanto concerne lâintento del li-bro. Passando alla struttura del testo, dopo una prima parte spesa per da-re il âlĂ â - che si conclude con il brano riportato - Vegleris passa alla giĂ citata seconda parte, quella intitolata âLa filosofia nel quotidianoâ, checostituisce il cuore e il nerbo del libro, la sua officina: vi si parla infatti,come giĂ accennato, del concreto lavoro filosofico che si può svolgere inazienda.
Tale materia viene disposta in sei capitoli, ognuno dedicato a uno deiprimi sei punti elenco sopra riportati, ovvero, citando con precisione ititoli:
- stupirsi per progredire- definire per chiarire- dialogare per costruire- dare un fondamento per durare nel tempo- essere creativi- essere per apparire
Ciascuno di essi viene costruito mediante un schema stabile, che si puòriassumere cosĂŹ: trattazione filosofica generale dellâargomento con riferi-
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menti a questioni di rilevanza pratica e quotidiana attinenti a contestiaziendali, sociali e organizzativi; esposizione di casi di lavoro aziendaledellâautrice utili a chiarificare il senso delle categorie utilizzate; sunto an-tologico di autori filosofici cari allâautrice e adatti ad approfondire il te-ma.
E qui vengono le dolenti note. O meglio, le lamentazioni - idiosincrati-che, sia chiaro - del recensore. PerchĂŠ se è vero che il testo e la scritturadi Vegleris ci rimandano il senso di unâesperienza, si spendono con forzaed efficacia nel farci comprendere principi guida e tipologie di strumentidi azione, ci fanno vivere con emozione e coinvolgimento quella che nona caso lâautrice chiama una âbattagliaâ, di fatto sulle modalitĂ operative diquesta battaglia Vegleris non ci dice gran chĂŠ.
In sintesi, se chiarisce molto bene il âcosaâ, ci espone poco il âcomeâ,ovvero i processi, le fasi, le concrete azioni mediante i quali si svolgono isuoi interventi. Da questo punto di vista i casi riportati, circa uno o dueper ogni capitolo, si mostrano esili: chiari quanto al âmovimentoâ con-cettuale e filosofico in essi compiuto, ma abbastanza opachi quanto allemodalitĂ operative con cui il movimento stesso è stato realizzato.
Va detto che questa è una deficienza comune tanto alla letteratura rela-tiva alle pratiche filosofiche, quanto alla letteratura concernente la con-sulenza aziendale. E per motivi non banali, uno dei quali ha a che farecon i rischi della diffusione di know how, ovvero con la necessitĂ , fondata,di difendersi dalle ruberie. Lâaltro, ancora piĂš essenziale, ha a che farecon la difficoltĂ di rendere leggibili processi complessi, dove molto spes-so ci si gioca tutto su una sfumatura linguistica, un momento di silenziocarico di emozione, momenti di ristrutturazione esperienziale di difficilerappresentazione. A meno di non procedere per processi formattati, cheperaltro non risolvono a fondo il problema dellâesposizione, e che co-munque non mi pare siano nelle corde di Vegleris, che utilizza prevalen-temente consulenze individuali abbastanza tradizionali e gruppi di di-scussione dove si avvale di parti variamente mescolate di diversi processi,tra cui il Dialogo Socratico e la ComunitĂ di Ricerca, muovendosi conmodalitĂ nel complesso abbastanza imprevedibili e difficilmente riducibilia modelli.
Quindi, si comprende la difficoltĂ . Ma - ribadisco, in modo del tuttoidiosincratico, essendo collega e ricercatore nello stesso settore frequen-tato da Vegleris - resto un poco dispiaciuto di non avere maggiori lumisu come opera concretamente sul campo la consulente filosofica france-se. Tanto piĂš che, a richiesta, lei stessa mi ha fornito, allâinterno di
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unâintervista, interessanti resoconti, per certi versi molto piĂš operativi emolto meno filosofici, ma proprio per questo molto piĂš esplicativi, di al-cuni interventi da lei realizzati con alcune aziende. Dâaltra parte va dettoche proprio questi resoconti, cosĂŹ come quelli che io stesso e tanti altripotremmo imbastire, una volta scritti perdono molto del senso e del sa-pore dellâesperienza cui si riferiscono, risolvendosi in una sorta di elenca-zione di procedure e riunioni, con il loro oggetto e le loro fasi (quandopossibile) e i loro risultati (quando va bene).
Sembra, insomma, che per certi tipi di lavoro - particolarmente per leconsulenze di processo, in cui possono essere incluse a mio avviso lepratiche filosofiche, e comunque per le pratiche filosofiche in ogni caso -si debba ancora inventare il linguaggio che le racconti. Oppure forse no,forse il linguaggio câè, per lâappunto quello narrativo, magari frammisto asintesi concettuali, secondo una modalitĂ che potrei forse ricondurre allacritica letteraria, ma resta difficile da realizzare e praticare, in ogni casoimpegnativo e rischioso.
Tanto piĂš che oggi lâesigenza principale, prima ancora di spiegare afondo di che si tratta, è quella di convincere e perorare la causa della pra-tiche filosofiche, ovvero di combattere la âbattagliaâ combattuta, inmodo egregio, da Vegleris. Câè esigenza di distinguersi (vedi la secondaserie dei punti elenco con cui abbiamo aperto questo scritto, tutta giocatasulla differenza da pratiche e atteggiamenti comuni sia nella societĂ chenelle aziende). Câè esigenza di affermare la propria specificitĂ . Câè esigen-za di non farsi assimilare ad altre forme di consulenza aziendale - magari,e sarebbe orribile, mostrandosi come quella oggi piĂš trendy.
Ă in questo contesto che si deve porre il libro di Vegleris, che non acaso, si rivolge in modo esplicito ai manager, con scelte a prima vista an-che un poâ âfaciliâ, come per esempio il largo uso di citazioni tratte da Ilpiccolo principe (libro peraltro meraviglioso e ricchissimo di contenuti filo-sofico-pratici). Ed è in relazione allo stesso intento di parlare a un pub-blico non facile, e non tradizionale, che si deve interpretare la scelta, co-raggiosa, di spendere la terza parte del volume, idealmente proseguitadallâappendice sul âlessicoâ, in una serie di schede di âcultura generaleâche rappresentano altrettanti utili concetti che la filosofia e le scienzeumane possono trasferire al mondo del management. Si tratta, insommadi un tentativo di trovare il giusto livello di linguaggio, nĂŠ troppo filoso-fico, nĂŠ troppo aziendalista.
Provarci è un gran merito. Provarci da parte di una delle piÚ importanticonsulenti filosofiche per le organizzazioni del mondo era un dovere. Ri-
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uscirci⌠era una sfida e credo che il giudizio non stia a me, ma al lettore(specie se manager). Che in ogni caso troverĂ nel libro e nella scrittura diEugènie Vegleris, ampia materia di stimolo e riflessione, alcune utili in-formazioni sul suo modo di operare nel mondo aziendale, interessanti eprofonde osservazioni, spesso inevitabilmente molto personali, sul pos-sibile legame intercorrente tra diverse idee filosofiche e il mondo di oggi;e, unito a ciò, un entusiasmo in senso tecnico e aziendale âmissionarioâche costituisce a mio avviso il dono piĂš grande di questa opera, perchĂŠ ciconferma come la propensione alla meraviglia, allo stupore, sia tuttora,come un tempo, alla base del lavoro, e della vita, dei filosofi - specie sepratici, o comunque consulenti.
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AnalisiRoberta De Monticelli, La novitĂ di ognuno. Persona elibertĂ (Garzanti, Milano 2009)
di Anna Colaiacovo
Ciò che ci distingue come persone - secondo Roberta De Monticelli - èil potere di portare il nuovo al mondo, poichĂŠ siamo ontologicamente non ri-ducibili alla nostra identitĂ biologica. Come testimonia il racconto diAdamo ed Eva, lâavventura umana inizia con una libera decisione;lâesperienza della libertà è lâesperienza che facciamo del nostro esserepersone.
Ă questa la tesi sostenuta con forza ne La NovitĂ di ognuno, con un ap-proccio fenomenologico che ha sempre come sfondo la ricerca scientifi-ca in campo neurobiologico e neuropsicologico.
Il testo analizza, nella prima parte, il tema della libertà attraverso treimmagini che la rappresentano e propone, nella seconda, una teoria dellibero volere, che è poi una teoria della persona per come emerge dallarealtà naturale e sociale.
Ecco le immagini della libertĂ :- Lâuomo che spezza le catene;- Lâuomo che si trova di fronte a un bivio;- La figura della danzatrice nel mezzo di una evoluzione armonio-
sa.Il primo tipo di libertĂ indica la possibilitĂ di agire senza essere costretti
da altri, conformemente al proprio volere. Secondo De Monticelli, que-sto aspetto, che potremmo definire politico in senso lato, ha indubbia-mente una grande importanza nella vita di ognuno ed è quello che ilbambino sperimenta per primo, ma:
- non esaurisce lâesperienza che noi facciamo della libertĂ ;- non ci dice nulla di positivo sulla natura del volere, cioè sulla na-
tura delle decisioni e della sceltaMa, è proprio vero, come sostiene la filosofa, che si possa rappresenta-
re lâaspetto politico con questa figura? Nelle democrazie del nostro tem-po ci sembra che la costrizione sia scomparsa e dilaghino, invece, il con-dizionamento e la seduzione, per cui non spezziamo piĂš catene (che non
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vediamo neppure), ma ci conformiamo senza confrontarci. La stessa DeMonticelli, nella seconda parte del suo libro, scrive: Dietro il trionfo dellamediocritĂ in tutti i campi che hanno visibilitĂ pubblica, cosĂŹ caratteristico della nostraepoca, câè la nostra acquiescenza (pp. 314-315).
La seconda immagine di libertĂ - lâessere al bivio - porta lâautrice a de-finire la libertĂ come potere di determinarsi a unâazione, ovvero comevolontĂ (libero arbitrio) e, quindi, la libertà è considerata una caratteristi-ca essenziale della volontĂ . Lâanalisi ci conduce ai fondamenti della re-sponsabilitĂ non solo giuridica, ma anche morale delle persone. Certosappiamo benissimo che molto non dipende da noi, per es. le alternativetra cui dobbiamo scegliere, ma attraverso le nostre decisioni abbiamo unpotere sul mondo, ci riconosciamo agenti capaci di rispondere delle no-stre azioni e di spiegare il perchĂŠ delle nostre decisioni.
Oppure tutto questo - la nostra libertà - è solo una grande illusione?Richiamandosi a Platone, De Monticelli sostiene che occorre salvare i
fenomeni, di contro la cultura del sospetto e a gran parte della culturascientifica del nostro tempo. Se tutto è sistematica illusione, cosa siamonoi se non siamo ciò che lâesperienza ci fa credere, cioè agenti liberi? Perla filosofa, la volontĂ delle persone ha nel mondo unâenorme efficaciacausale e per fondare questo dato sostiene che occorre esaminare piĂš afondo il tema della volontĂ e della responsabilitĂ .
La terza immagine della libertĂ - la danzatrice- è la libertĂ come poteredi essere in accordo con il dovuto. LibertĂ come coerenza, integritĂ , ar-monia, come capacitĂ di vivere spontaneamente, senza conflitto. Ă que-sto, anche secondo Spinoza (che pure nega il libero arbitrio), il livello piĂšalto di libertĂ : è di per sĂŠ un bene, è phronesis. Secondo De Monticelli,questo livello rappresenta una fase avanzata di maturazione nellâeserciziodel volere. Chi la incarna manifesta uno stile proprio che desta ammira-zione. Potremmo trarre, da qui, molti spunti per abbozzare un profilo diconsulente filosofico e per individuare le finalitĂ della consulenza stessa.
Ma torniamo al punto lasciato in sospeso: la volontà è libera? Quandoparliamo di volontĂ indichiamo la volontĂ di qualcuno e con âliberaâ in-tendiamo la dipendenza dellâazione dallâagente. Unâazione è libera se ècaratterizzata dallâiniziativa e dalla possibilitĂ di fare altrimenti. Lâatto delvolere per eccellenza è la decisione. La volontà è quella disposizione dicui le decisioni sono gli atti. Lâazione libera è caratterizzata da una lacunacausale tra uno strato precedente e uno successivo del pezzo di mondocoinvolto nellâazione, o meglio la decisione è lâatto che riempie lâapparente lacu-na causale tra unâazione e i suoi motivi (p. 149), che trasforma un motivo pos-
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sibile in un motivo efficace dâazione.De Monticelli sa bene che, secondo i deterministi, questa lacuna è illu-
soria perchÊ le nostre decisioni sono causalmente determinate da creden-ze e da desideri; ma i deterministi - sostiene - trascurano la distinzione tramotivo e causa, cioè tra azione volontaria ed evento: una causa non habisogno di un agente per produrre il suo effetto, un motivo sÏ.
Le leggi della natura e della scienza non riescono a dare ragione dellalibertĂ , che rimane un mistero. De Monticelli non nega lâimportanza dellaricerca scientifica nello studio dellâuomo (non ha, infatti, alcuna simpatiaper la posizione heideggeriana), ma ritiene che siano necessarie risorseconcettuali nuove, filosofiche, quando si esaminano enti di tipo nuovo.
Nella descrizione ânaturalizzataâ della nostra vita si utilizza il termineâstatoâ anche per indicare uno stato mentale; ma la nostra vita è una suc-cessione di stati o una concatenazione di atti? In realtĂ , noi facciamocontinuamente esperienza di atti e sappiamo che la concatenazione deglistessi è data dalla relazione di motivazioni, e qui De Monticelli riprendeHusserl che utilizza il termine atto nel senso di vissuto intenzionale. Glieventi accadono, gli stati hanno luogo, gli atti vengono compiuti e com-portano sempre delle prese di posizione. Il soggetto è un essere capace diprendere posizione rispetto ai suoi atti: si diventa persone emergendo sui propristati mediante i propri atti (p. 188).
Esiste una gerarchia degli atti. Ogni nostra esperienza passa attraversogli atti di base: percezioni ed emozioni; prendiamo atto della cosa perce-pita (posizione dossica) e diamo valore positivo o negativo a una data co-sa o situazione (posizione assiologica). Queste posizioni di primo livellonon sono libere, anche se occorre sottolineare, ancora una volta,lâimportanza degli atti di base, che rappresentano i mattoni su cui co-struiamo la nostra esperienza di realtĂ e che ci permettono di distinguerela realtĂ stessa dal sogno e dallâimmaginazione. Le posizioni di base sonotalmente ânaturaliâ per noi che occorre, secondo Husserl, una loro so-spensione (epochĂŠ) per far sĂŹ che nasca la filosofia.
Gli atti di base costituiscono il primo passo nella trasformazione dellarelazione animale-ambiente nella relazione persona-mondo. Le posizioniche prendiamo sugli atti di base sono âlibereâ in senso lato, ma non ne-cessariamente coscienti. Gli atti liberi in senso proprio sono quelli me-diante i quali avalliamo una ragione dellâagire impegnandoci nei confrontidi noi stessi per il futuro. Attraverso gli atti liberi gestiamo le nostreazioni.
Dunque, seguendo De Monticelli, dovremmo sostenere che:
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- una persona è essenzialmente un soggetto di atti in senso pieno oin nuce (capace di atti di base);
- il gap tra persona e persona va cercato proprio nel passaggio dagliatti liberi in senso lato agli atti liberi in senso proprio, con presedi posizione, capacitĂ di interazione intersoggettiva, responsabi-litĂ verso gli altri e autoprogettazione
La natura razionale dellâuomo, che inizia dagli atti di base (percezionied emozioni, che molti ritengono irrazionali), è la disposizione a compie-re atti in base a motivazioni appropriate. I nessi motivazionali sono il tes-suto della nostra vita quotidiana e ci distinguono dagli animali. Ă interes-sante notare, a tal proposito, la convergenza tra questa visione e quellasottesa alla consulenza filosofica, la cui particolarità è la capacitĂ di rap-portarsi con lâospite come con una persona- e non un malato - investen-dolo di responsabilitĂ , favorendo la chiarezza intorno alle motivazioni efacilitando in lui la consapevolezza del significato e delle conseguenzedelle sue azioni.
Rispetto alle ricerche scientifiche, in particolare De Monticelli si riferi-sce alla ricerca neurobiologica e neuropsicologica, la teoria degli atti nonsi pone in contrapposizione, ma sostiene che lo studio della mente e delcervello, pur importanti, non diano conto della persona. La teoria degliatti mostra che cosa si debba aggiungere agli stati del cervello o agli stati mentali per-chĂŠ ci siano persone, e di conseguenza anche esperienza, cosĂŹ come noi la conosciamo(p. 216).
La nostra vita non consiste mai in semplici impatti dellâambiente su dinoi, poichĂŠ diverse sono, giĂ al livello della percezione, le cose che cicolpiscono. Ognuno è dotato di funzioni sensoriali, ma varie sono le di-sposizioni allâesercizio di queste funzioni, cioè ai relativi atti. Noi non vi-viamo semplicemente, ma interveniamo sul nostro vivere dirigendolo inun modo o in un altro.
La posizione fenomenologica di De Monticelli presuppone, quindi, sialâesistenza dellâessere degli oggetti degli atti, e questo è un vincoloallâarbitrio, sia lâesistenza di una discrezionalitĂ nel dirigere il corso dellanostra esperienza. Con gli atti vengono al mondo ragione e volontĂ . Gliatti liberi sono caratterizzati oltre che dalla posizionalitĂ , dalla autorialitĂ (sono affermazioni di noi stessi), dalla attorialitĂ (capacitĂ di assumere emantenere impegni).
Ma, se la persona è caratterizzata da una libera volontà , come spie-ghiamo il comportamento di coloro che sembrano non avere questo po-
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tere? Non ci riferiamo alle diverse forme di follia in cui câè unâalterazionedelle salienze, cioè del valore attribuito normalmente a eventi e situazio-ni, ma alle diffuse forme di dipendenza (tossicodipendenze, anoressia,bulimia, etc.) Secondo la filosofa, è nella zona grigia degli atti liberi insenso lato (quando passiamo allâazione consentendo o no ai contenutidellâesperienza di base di motivarci ulteriormente) che si può collocareun punto di non ritorno verso la dipendenza o la coazione a ripetere. LalibertĂ degli atti che imprigionano precede la formazione di una volontĂ equindi lâappello alla volontà è inutile perchĂŠ non si è costituito il soggettopersonale di questa libertĂ . Occorre lâaiuto degli altri per far sĂŹ che si ri-avvii il processo di crescita della persona. Non sono le funzioni e i lorocorrelati biologici a far sĂŹ che diventiamo persone; per conquistare la no-stra indipendenza noi dipendiamo radicalmente dagli altri.
Il fenomeno da cui partire è il carattere di ognuno, ma nel carattere lalibertà è ancora il cieco pulsare della posizionalitĂ . Attraverso la disciplinadei divieti e dei consensi, si attua un apprendistato di realtĂ e valore e siforma una seconda natura âculturaleâ. Lâapprendimento sociale si basa,infatti, su una condivisione percettivo-emotiva: non può esserci matura-zione psicologica senza una fondamentale fiducia nella realtĂ , un sinto-nizzare le posizioni di base su quelle di chi ha cura di noi. Ci accorgiamodellâimportanza di questa base sub-personale, pre-soggettiva nei casi diperdita della ragione stessa.
La posizione di De Monticelli esclude qualsiasi forma di dualismo enon tollera una indipendenza nĂŠ ontologica, nĂŠ funzionale mente-corpo:
- nella percezione è coinvolta lâintera persona;- non câè esperienza di sĂŠ senza esperienza del corpo e del mondo;- non câè esperienza di sĂŠ e degli oggetti senza empatia primaria
degli altri.Lâindividuazione primaria è lâaccesso dellâessere umano al livello della
soggettivitĂ . Certo, il caso ha un ruolo enorme in quello che diveniamo,ma non dobbiamo sottovalutare la possibilitĂ di lasciarci motivaredallâesperienza, che è davvero nostro (lâordine di prioritĂ valoriale).LâidentitĂ , in ciò che ha di individuale, si afferma per differenziazione eopposizione rispetto allâambiente; lâidentitĂ emerge dallâambiente e moltidegli atti liberi sono atti nuovi. Ogni persona è un punto di vistasullâuniverso e un centro di azione su di esso. Tutta la nostra esperienzaattesta lâesistenza di qualcosa come una natura individuale, una haecceitasche, pur inglobando le circostanze contingenti della vita tra i caratteri co-
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stitutivi della sua identitĂ , non la riduce a questi. Una persona è lâintero con-tenuto della sua individualitĂ che costantemente si rinnova e si ridefinisce attraverso isuoi atti: ecco perchĂŠ impariamo, di noi stessi, piĂš dai romanzi, in cui i vissuti sonoindividuati, che dalla psicologia, che tende al generale (p. 326).
Ed ecco perchĂŠ, possiamo aggiungere, un approccio filosofico - di pra-tica filosofica - che non intende comprendere lâaltro mediante un mo-dello, una teoria, ma punta a cogliere lâindividuale, è in grado di dare va-lore alla unicitĂ di ognuno e a ciò che questa unicitĂ , attraverso il pensie-ro e le azioni, può portare al mondo.
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AnalisiIona Heath, Modi di morire(Bollati Boringhieri, Torino 2009)
di Augusto Cavadi
ÂŤSi muore una volta sola, ma ci sono molte maniere diverse di morireÂť:lâosservazione di Joseph Conrad (p. 31) può considerarsi la chiave di let-tura di questo breve ma intenso saggio della dottoressa inglese IonaHeath (edito in italiano dalla Bollati Boringhieri a cura di Maria Nadotti).Si tratta, infatti, di uno scritto - dalla difficile collocazione in un genereletterario canonico - nel quale lâautrice, sulla base di una pratica medicapluridecennale, riflette sulle svariate modalitĂ con cui la gente affronta ilmomento del decesso e su alcuni interrogativi ad esse legati. E lo fa in uncontesto storico-sociale che, nellâincisiva postfazione, il sociologo JohnBerger sa magistralmente sintetizzare prendendo spunto dalla morte inospedale di F., un novantacinquenne di sua conoscenza:
Quando F. era giovane, in questa regione alpina câerano pochi medici e gli abi-tanti erano abituati ad affrontare tra loro la malattia (e la morte). Quando sononati i suoi figli, esisteva un servizio medico nazionale; i dottori rispondevano allechiamate in piena notte e venivano a casa, gli ospedali si erano ingranditi. I pae-sani hanno cominciato a dipendere sempre piĂš dalla pratica medica professionalee a prendere sempre meno decisioni per proprio conto. Dieci anni fa, con la pri-vatizzazione e la deregolamentazione, le cose sono cambiate ancora. Oggilâassistenza medica in un pronto soccorso si è ridotta a un servizio di trasportocoatto. F. è morto da nessuna parte (pp. 104-105).
Quanto al contesto socio-culturale, lâautrice ribadisce ciò che ormai èdiventato âsenso comuneâ: la morte è un tabĂš, un incidente scabroso daoccultare nei fatti e da rimuovere dalla mente. Di questo ÂŤpericoloso edisastroso diniego della morteÂť sono responsabili certamente ÂŤlâarroganzae lâambizione della scienza biomedicaÂť ma, almeno altrettanto, ÂŤla turpi-tudine genocida di tutta la morte che ha contrassegnato il secolo che si èappena conclusoÂť (p. 22) . Ci sfugge il dato paradossale che, ÂŤse disto-gliamo gli occhi dalla morte, pregiudichiamo anche la gioia di vivereÂť; cheÂŤmeno avvertiamo la morte, meno viviamoÂť (p. 26); che, insomma, lamorte non è solo lacerazione e sconfitta, ma anche liberazione dai vincolitemporali e, per citare Sven Lindqvist, monito ÂŤallâessenzialitĂ Âť (p. 27). In
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una parola: è - o può anche essere intesa come - ÂŤdonoÂť (p. 23). Due parole per spiegare la stranezza, o se si preferisce lâoriginalitĂ , del
genere letterario: una sorta di ÂŤpersonale crestomazia annotata della lin-gua che si accompagna allâesperienza del morireÂť (p. 6), di frammentitratti da dichiarazioni di pazienti, da lettere private di amici, da opere diletteratura. Lâorigine dei materiali collezionati si spiega con la tesi centraledella Heath: nellâaffrontare la fenomenologia del morire - ÂŤsenza cercarerifugio nel dettaglio dei sintomi corporei evitando cosĂŹ di misurarsi con lapaura, la rabbia, lâangoscia e la sconfittaÂť -ÂŤi medici hanno bisogno diaiuto, e, per me, lâaiuto maggiore (âŚ) viene dagli scrittori e in particolaredai poetiÂť (p. 98). Se ÂŤil dono del poetaÂť è ÂŤfar luce senza semplificareÂť edil ÂŤdono della scienzaÂť, allâopposto, ÂŤcercare di capire attraverso la sem-plificazioneÂť, fra poesia e scienza vâè ÂŤcomplementarietĂ Âť: ÂŤi medici han-no bisogno sia della scienza sia della poesia, piĂš che mai quando si pren-dono cura di pazienti che stanno morendoÂť (pp. 99-100).
Lâautrice, a conclusione delle sue pagine, prova a elencare le (nove)ÂŤprioritĂ Âť (ÂŤevidentiÂť ma che ÂŤvanno di continuo riaffermateÂť) attestatedalla convergente esperienza dei medici e dei poeti:
Quando è possibile, i pazienti dovrebbero morire a casa o in un altro luogoamato e familiare.Non bisognerebbe morire da soli e lâassistenza dovrebbe essere prestata da perso-ne che i morenti conoscono e a cui, preferibilmente, sono legati da rapporti di af-fetto.Ă essenziale che tra medico e morente ci siano un rapporto e un dialogo ininter-rotti.La comunicazione è mediata dalle parole e dal contatto fisico.A volte il dolore serve a sentirsi vivi.La speranza si riferisce al futuro, ma è contenuta nella cornice del presente e puòessere indirizzata verso i piccoli piaceri sensoriali: musica, contatto fisico, la vistadi un volto amato, la luce del sole.Rivivere e condividere di nuovo i ricordi consente di arrivare a una storia di vitacoerente.Bisogna trovare lo spazio per ringraziare della risoluzione della vita e della pro-spettiva di liberarsi da un corpo che sta cedendo.La profonditĂ del tempo è piĂš importante della durata.(pp. 100-101).
Per ciascuno di questi punti si potrebbero rintracciare dei rimandi a ri-cordi autobiografici e a citazioni letterarie: morire nel proprio ambientefamiliare? Abbiamo giĂ udito il racconto di Berger su F. , ÂŤrimosso preci-
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pitosamente da casaÂť e ÂŤmorto da nessuna parteÂť (pp. 104-105). Morirefra persone care? ÂŤCosa non ti dice una mano quando la si toccaÂť (cosĂŹJoyce evocato a p. 91). Avere con il proprio medico una relazione conti-nua? ÂŤUno degli incontri piĂš sciagurati della medicina moderna è quellotra un vecchio fragile, indifeso e ormai prossimo alla morte e un giovanee scattante medico interno agli inizi della carrieraÂť (lo scrittore B. Keizercitato a p. 21). Comunicare con lâintera persona mettendosi in gioco in-tegralmente ? ÂŤQuel che la mano, lâocchio e il cuore possono fare, e fan-no, e dipingono, non potrĂ mai essere sostituitoÂť (il pittore David Hoc-kney ripreso a p. 72). La funzione non esclusivamente distruttrice deldolore? ÂŤIl dolore ci aiuta ad accorgerci che siamo vivi. Tutti chiedonoansiosamente âhai male da qualche parte?â. Dovrebbe essere il contrarioÂť(la paziente terminale dellâEast End londinese secondo la testimonianzadel sociologo Michael Young a p. 41). La strutturale apertura alla speran-za? ÂŤIn un senso ben reale, ogni uso del futuro del verbo essere è una ne-gazione, anche se soltanto parziale, della mortalitĂ . E ogni subordinataipotetica è un rifiuto dellâinevitabilitĂ brutale, del dispotismo dei fatti. Iâfaròâ, i âsaròâ e i âseâ, nel loro gravitare in campi intricati di forza se-mantica intorno a un centro o nucleo nascosto di potenzialitĂ , sono lepassword verso la speranzaÂť (George Steiner citato a p. 62). Lâesigenza ditrovare retrospettivamente un filo conduttore della propria esistenza? ÂŤLastoria della nostra vita non è mai unâautobiografia, ma sempre un roman-zo (âŚ). I ricordi non sono che lâennesimo espediente narrativoÂť (JulianBarnes a p. 37). Una possibile conciliazione con la morte? Lâaveva benintuito Primo Levi ad Auschwitz: ÂŤla sicurezza della morte impone unlimite a ogni gioia, ma anche a ogni doloreÂť (cit. a p. 29). La prioritĂ dellaqualitĂ della vita rispetto alla quantitĂ ? ÂŤLâuomo buono o forte è coluiche esiste cosĂŹ pienamente o cosĂŹ intensamente, al punto da aver conqui-stato lâeternitĂ durante la propria vita, e che la morte, sempre estensiva,sempre esteriore, è poca cosa per luiÂť (Deleuze, che interpreta Spinoza, ap. 59).
Quando si chiude il libro e lo si ripone in libreria è difficile non porsialmeno un interrogativo: come mai la Heath invoca per la medicina la si-nergia della poesia e non della filosofia? La questione non viene certovanificata dalla considerazione che, fra le decine di autori citati, ci sianoGadamer (pp. 42-43, 46, 48-49, 73) o Deleuze (p. 51, 59): come com-menterebbe Aristotele, due rondini non fanno primavera. Assumendolacon serietà , la domanda suggerisce risposte differenti e non alternative.Una prima può ipotizzare un limite nella formazione personale
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dellâautrice: la quale, forse, ha preferito fruire del linguaggio evocativo esuggestivo di romanzieri e poeti piuttosto che dedicarsi a decodificare te-sti piĂš impegnativi, ed emotivamente meno gratificanti, redatti da filoso-fi.Ma il mondo dei filosofi, da parte sua, non ha nulla da rimproverarsi
davanti a silenzi del genere? Quanti sono i pensatori teoretici e gli storicidella filosofia che, come Gadamer, hanno tematizzato problematiche co-sĂŹ âbasseâ, cosĂŹ âquotidianeâ, come il senso delle malattie fisiche e psi-chiche, delle terapie cliniche e farmaceutiche, dellâagonia e del decesso?La bioetica ha iniziato da alcuni decenni ad introdurre lo sguardo filoso-fico nei momenti aurorali e crepuscolari dellâesistere, anche se in terminiinevitabilmente generali: tocca alla filosofia-in-pratica e alle sue speri-mentazioni pratiche compiere il passo ulteriore; provare a svegliare il fi-losofo che dorme in ogni paziente e in ogni medico; coinvolgere la rifles-sione filosofica nel circolo virtuoso della co-implicazione teo-ria/esperienza. A disposizione di chi volesse lavorare in questa direzione,dissodando un terreno pressochĂŠ vergine, non mi pare ci siano moltistrumenti, ma sarebbe bene non ignorarli: per esempio Lâesperienza di uninfermiere filosofo (in AA. VV., Leadership riflessive. La ricerca di anima nelle or-ganizzazioni, Apogeo, Milano 2007, pp. 191-197) di Andrea Vitullo e Laconsulenza filosofica nellâambito delle cure di fine vita (in AA.VV., Filosofia prati-cata. Su consulenza filosofica e dintorni, Di Girolamo, Trapani 2008, pp. 122)di Luisa Sesino.
In conclusione: libri come questo della Health possono offrire al filo-sofo-in-pratica intuizioni da assumere come piste di ricerca ed ipotesi dilavoro piĂš che narrazioni di percorsi in qualche misura compiuti. Ciònon toglie preziositĂ al contributo che ben si affianca, a mio parere, a te-sti simili in cui professionisti impegnati concretamente nel campo sanita-rio mettono a disposizione dei filosofi consulenti (anche senza volerlointenzionalmente !) testimonianze, interviste, analisi interessanti: a testi,intendo, come Lâassistenza ai morenti (Red edizioni, Como 1997) di RenĂŠeSebag-Lanoe; La morte opportuna. I diritti dei viventi sulla fine della loro vita(Avverbi, Roma 2004) di Jacques Pohier; Il lutto infantile e giovanile (Edi-zioni CVS, Roma 2005) di Aldo Lamberto.
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AnalisiRobert Louis Stevenson, Elogio dellâozio(La Vita Felice, Milano 2008)
di Giuseppe Sapienza
Nel momento in cui la societĂ basata sul culto del lavoro manifestatutte le sue contraddizioni e si spacca in chi si affanna a lavorare e chi siaffanna cercando un lavoro, sembra indispensabile ripercorrere le tappedi un pensiero in cui lâozio, svestendo i panni di vizio morale e peccatosociale, diventa non solo una prospettiva di felicitĂ individuale ma ancheun possibile modello di organizzazione collettiva. Per questo è di parti-colare importanza il libretto di Robert Luis Stevenson, Elogio dellâozio,pubblicato dalla Vita Felice, con la curatela di Franco Venturi, testo in-glese a fronte, giunto alla quarta edizione (Settembre 2009.
Sullâozio, hanno scritto: Seneca, De otio; Paul Lafargue, Il diritto alla pi-grizia; Bertrand Russell, Elogio dellâozio; Itsuo Tsuda, Il non fare. E ognunolo ha visto secondo la prospettiva dellâindole e dei tempi; in che mododunque può pensare lâozio uno scrittore scozzese della seconda metĂ dellâOttocento, autore di testi quali Lâisola del tesoro e Dott. Jekyll e Mr.Hyde, con una giovinezza vissuta in polemica con il padre e con il purita-nesimo borghese che lo spinse a viaggiare a lungo in Europa e in Ameri-ca per stabilirsi infine nelle isole Samoa?
Quando scrive, nel 1877, cosciente delle ragioni di quanti avrebberopotuto seppellirlo sotto mille evidenze in favore dellâoperositĂ , non vo-lendo oltrepassare il buon senso, Stevenson precisa che si tratta diunâapologia; il titolo originale è An apology for idlers.
Lâambito in cui Stevenson si sente certo di poter opporre la pigriziaallâoperosità è la gioventĂš, ritenendo difficile per un giovane conservare ilproprio ingegno educandolo o sopportando che venga educato. Conside-rando i libri un anemico sostituto della vita, Stevenson vede il ragazzoche segue noiose lezioni uscire con un contegno antiquato, simile a ungufo, arido, schematico, e anche dopo aver fatto fortuna, in fondo volga-re e sciocco; mentre il pigro, che si è preso cura della propria salute e delproprio spirito, quando recita nel ÂŤteatro della vitaÂť è ÂŤtuttâun altro vede-reÂť; e a riprova di ciò, come esperienza vissuta in prima persona, Steven-son paragona quanto lo abbia arricchito sapere cosa siano lâequilibrio ci-
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netico, lâenfiteusi o lo stillicidio con le piccole e grandi cose che ha impa-rato per strada quando marinava la scuola.
Lâopposizione a cui pensa Stevenson è quella tra un ragazzo ÂŤche va abattersi per gli scelliniÂť, e uno che se ne sta ÂŤsdraiato con un fazzoletto intesta e un bicchiere a portata di manoÂť; e ricorda come Alessandro, con-quistatore di popoli, sia colpito da Diogene a cui basta starsene in pace alsole, o come i barbari entrati in senato trovassero i padri fondatori sedutiin silenzio impassibili di fronte ai loro successi.
Come sono dunque questi uomini operosi che imparano i teoremi diEuclide a scapito dei teoremi della vita? Lâoperoso ÂŤsemina fretta e mietemal di pancia; si spende in una grande quantitĂ di attivitĂ per niente inte-ressanti e in cambio ne riceve in larga misura un esaurimento nervoso. Siestranea totalmente da ogni compagnia e vive come un recluso in unasoffitta, in pantofole e con un calamaio di piombo; oppure se viene tra lagente, frettoloso e acido, con i nervi a fior di pelle, è per scaricare un poâdi rabbia prima di tornare a lavoroÂť.
Osservando gli uomini che non sanno darsi alla pigrizia, li vede caderein uno stato di trance ad occhi aperti se un contrattempo li costringe adaspettare un treno per unâora; li vede trascorrere in una specie di coma leore che non sono dedicate alla furia di arricchirsi.
Lâattaccamento a ciò che gli uomini chiamano âi loro affariâ avviene ascapito di molte altre cose, e quando si chiede a che pro tutto questo,Stevenson sembra abbracciare la posizione taoista, dellââagire senza agi-reâ, âinsegnare senza insegnareâ, âaiutare lo sviluppo senza indirizzareâ;si chiede infatti cosa importa al mondo se un uomo scriva tre o trentaarticoli e a che pro un commerciante si affanna negli affari.
Può essere interessante paragonare lâelogio della pigrizia di Stevensoncon quelli che lo seguiranno, in particolar modo con Il diritto alla pigriziadi Lafargue, di soli tre anni dopo (1880).
Lâozio di cui parla Stevenson, il ÂŤfare tanto di quel che i dogmatici for-mulari della classe dirigente non riconosconoÂť si pone oltre quanti vedo-no nellâoperositĂ la condizione ideale per una crescita spirituale: opponepiacere a dovere, natura a cultura, ma non si oppone alla societĂ del lavo-ro; si tratta appunto di un esaltazione dei pigri non della pigrizia; in que-sto modo lâozioso non può che essere un ribelle, che tuttavia si ribella inderoga a una societĂ del lavoro che complessivamente viene accettata; alcontrario Lafargue, ponendosi allâesterno del buon senso borghese eallâinterno di una concezione proletaria, vede la pigrizia non piĂš comeuna provocazione, ma come una reale alternativa alla cultura del lavoro.
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Mentre lâozio di Stevenson non può essere elevato a massima, non es-sendogli riconosciuta la capacitĂ di creare la societĂ industriale della qualemolti vedevano gli appariscenti risultati in quegli anni, Lafargue propo-neva concretamente la riduzione delle giornate lavorative a tre ore.
La preoccupazione di Stevenson è il ragazzo che sgobba sui libri di-ventando cupo e mediocre, quella di Lafargue sono le condizioni delleenormi masse di operai che lavorano in condizioni disumane.
Allo stadio attuale quando la produzione oltrepassa il necessario, esaltail superfluo, si compiace del capriccioso, giustifica lâinsolente, e lâevolu-zione della tecnica e dellâorganizzazione genera masse di disoccupati, illavoro deve diminuire ed essere ugualmente distribuito, per evitare comedice Bertrand Russell, che a una parte lavori troppo e una massa enormedi gente rimanga senza niente da fare se non dannarsi cercando lavoro.Per Jeremy Rifkin la âfine del lavoroâ è il momento finale della capacitĂ produttiva che emancipa lâuomo dalla necessitĂ e lo porta ad abbracciarelâeconomia sociale. Ma Lafargue, Russell e Rifkin possono parlaredellâozio come della normale valvola di sfogo della massima occupazionesolo abbracciando posizioni socialiste, o comunque tese a creare un nuo-vo ordine sociale, perchĂŠ nel sistema di competizione capitalista chi oziaè schiacciato da chi si industria, sebbene nel momento in cui una societĂ di operosi - in cui il lavoro si presenta come modello sociale e lâoperositĂ ,esasperata come una necessitĂ , finisce per collassare - lâozio possa essererivalutato come ciò a cui lâuomo era stato destinato prima della cacciatadal paradiso quando dio condannò lâuomo a lavorare.
Le contraddizioni di un sistema basato sulla trinitĂ della societĂ con-temporanea, lavoro-denaro-scienza, che trasforma i mezzi in fini, spro-fonda la mente nella ragione strumentale, e produce uomini âa una di-mensioneâ, manifesta le sue contraddizioni a Lafargue, a Russell, aRifkin, nellâuniversale della disumanitĂ della societĂ industriale, o nelladisoccupazione di massa contemporanea, come a Stevenson nel partico-lare, nellâassurditĂ di un ragazzo curvo sui libri per dare un giornolâassalto alla diligenza sociale, per un bottino di cui non saprĂ cosa farse-ne, sottratto a chi non saprĂ come farne a meno, come se non fosse perdei reali vantaggi che lâuomo si affanna a studiare cose che non lo inte-ressano, per lavorare un giorno piĂš di quanto gli serva e guadagnarequanto non saprĂ come spendere, mosso da quellâinfelicitĂ che Pascalpensava derivasse dallâincapacitĂ dellâuomo di starsene nella sua stanza dasolo.
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Notiziario
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âFilosofia, Psicologia e Psichiatria,tre discipline in sinergiaâ
Convegno del 3 ottobre 2009 a Torino
di Anna Ficco
Sabato 3 ottobre 2009 presso lâIstitutoSuperiore di ricerca e formazione in Filo-sofia, Psicologia, Psichiatria -ISFiPP- si èsvolto il convegno âFilosofia, Psicologia ePsichiatria, tre discipline in sinergiaâ pres-so la consueta sede dellâIstituto Rebau-dengo a Torino.
Dopo la presentazione da parte deldott. Lodovico E. Berra, medico speciali-sta in psichiatria, psicoterapeuta e counselorad orientamento filosofico-esistenziale,docente stabilizzato dellâUniversitĂ Ponti-ficia Salesiana (UPS), direttore dellaScuola Superiore di Counseling Filosofi-co, presidente fondatore della SocietĂ Ita-liana Counseling Filosofico (SICoF), sonoseguite nel corso della mattinata le rela-zioni di Luca Nave (Filosofia e medicina),Elena Gozzoli (Neuroscienza e filosofia),Pietro Pontremoli (Filosofia della mente edelle scienze cognitive), Fabrizio Biasin(Antropologia e psicopatologia fenome-nologica ed esistenziale), Silvana G. Cere-sa (Psicologia e filosofia esistenziale). Nelpomeriggio si sono succedute le relazionidi Giovanni Reginato (La psicoanalisi diFreud e la filosofia), di Giorgio Risari (Ilpensiero di Erich Fromm tra filosofia epsicologia), di Carlo Molteni (Filosofiapreventiva. Può la consulenza filosoficaprevenire il burn-out negli insegnanti?). Lerelazioni corrispondono ad altrettantearee di ricerca delle quali i relatori sonoresponsabili e referenti per i discenti dellaScuola di Counseling e del Master Uni-versitario di II livello di Counseling Filoso-fico.
La prima relazione della mattinata, te-nuta dal dott. Luca Nave (insegnante difilosofia e counselor filosofico), a titoloâFilosofia e medicinaâ, è orientata adidentificare e comprendere i sottili legamiche collegano la filosofia e la medicina. Ildott. Nave parte dalla differenza tra tera-pia e cura, e proprio in questa differenzariesce a trovare la via di accesso per la fi-losofia nellâarea della cura.
Lâorigine comune di medicina e filoso-fia che avevano nel pathos (il sentimentodi vita impedita) il loro elemento centrale,si è perduta a partire dal XVII secolo conlâavvento della scienza sperimentale.
Con Bacone il sapere assume sempre dipiĂš le sembianze del potere e lâambitodella âterapiaâ aumenta a scapito dellaâcuraâ. Ma il sapere non coincide neces-sariamente con la possibilitĂ di curare.Sempre di piĂš nei medici aumenta la con-vinzione di doversi affrancare dalla filoso-fia, sia essa materialista o metafisica, perpoter essere buoni professionisti.
Il relatore sottolinea che la rivoluzionetecnico-scientifica ha prodotto uno stiledi pensiero di tipo âbiologico-meccanicis-tico-sperimentaleâ allâinterno del qualelâessere umano assume le sembianze del-lâuomo-macchina. La malattia, che eraconsiderata un malessere globale dai tem-pi di Ippocrate e Galeno, diventa un fattolocale del corpo: e se la patologia riguardasolo il corpo, il medico deve essere unoscienziato. Per Ippocrate invece non esi-stevano le malattie, ma solo i singoli ma-lati.
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La contemporaneitĂ registra, insieme altrionfo della medicina tecnico-scientifica,una crisi che sta incrinando il paradigmabiologico-scientifico-sperimentale a favo-re di un nuovo paradigma: quello bio-psico-sociale. La crisi riguarda sia la me-dicina come scienza âduraâ esclusiva-mente interessata a fatti e cause, sia ilrapporto medico-paziente: il paternalismotradizionale lascia il posto allâautonomiadel paziente, sempre piĂš consapevole eautodeterminato.
Inoltre la scienza psicosomatica mandain crisi la visione cartesiana della medici-na. Vanno in crisi i concetti di fatto e cau-sa. Il concetto di bene non sempre coin-cide nellâidea del medico e in quella delpaziente. Fatte queste considerazioni, ilrelatore sottolinea il valore che potrebbeavere un rinnovato legame tra filosofia emedicina. Le iniziative in questo sensonon mancano: il relatore è responsabile diun progetto di counseling filosofico per lemalattie rare che vede coinvolti tre ospe-dali torinesi. Egli ritiene che si sia sullastrada giusta per superare il pregiudiziocorrente che considera la filosofia inutileper la medicina e lâidea che i medici deb-bano âfareâ senza perdere tempo a filoso-fare.
La seconda relazione, tenuta dalladott.ssa Elena Gozzoli, filosofa, psicolo-ga, psicosocioanalista e counselor, riguardail rapporto tra filosofia e neuroscienze. Leneuroscienze rappresentano per il XXIsecolo quello che la genetica e la biologiamolecolare hanno rappresentato per ilXX. La comprensione dei meccanismiche determinano la funzione cerebralepassa attraverso la considerazione delconcetto di complessitĂ il quale non siconcilia con lâottica riduzionista e la par-zializzazione caratteristiche della menta-litĂ iperspecialistica della medicina con-temporanea.
La complessitĂ caratterizza la natura
stessa del corpo umano. Secondo la rela-trice bisogna creare una cultura dellacomplessitĂ che ci permetta di indicare lecoordinate per promuovere una crescitaesistenziale. Il pensiero della complessitĂ introduce a criteri della relazione edellâosmosi interdisciplinare.
Il rischio riduzionistico sarebbe presen-te, per la relatrice, soprattutto nellâareadella medicina intesa come tecnica. Lâevo-luzione tecnico-applicativa con le innu-merevoli possibilitĂ che offre ne sarebberesponsabile. Lâillusione di poter control-lare la realtĂ prende sempre piĂš piede. Lamente è un prodotto del nostro cervello,un insieme complesso di percezioni, diattenzione, di memoria; la coscienza, il sĂŠ,lâidentitĂ hanno unâessenziale complessitĂ .La visione riduzionista semplifica e perciòdistorce. La relatrice riferisce il concettodi âpersonaâ cosĂŹ come è definito dallaTreccani e cioè come ânome generico diuomo-donnaâ considerato perlopiĂš neisuoi valori sociali. La persona è in rela-zione con se stessa e si realizza in relazio-ne agli altri: la relatrice ironizza dicendoche persino la sintesi proteica è influen-zata dallâambiente.
Secondo la relatrice perchĂŠ ci sia un ve-ro sviluppo dellâintelligenza è necessarioeducare alla formulazione delle âformedel sensoâ. Il senso è ciò rispetto a cuiqualcosa può essere concepito nella suapossibilitĂ e comprensibilitĂ . Bisogna a-prire orizzonti conoscitivi di comprensio-ne della persona in una responsabile pro-spettiva interdisciplinare e multidisciplina-re altrimenti la ricerca scientifica perde ilsuo senso ultimo. Qual è il senso dellagenetica? Il filosofo deve rientrare a pienotitolo nellâattivitĂ scientifica: deve cono-scere la genetica e le neuroscienze. Ă te-nuto ad apprendere per capire.
Il dott. Pietro Pontremoli, filosofo ecounselor filosofico, ha tenuto la relazionededicata alla filosofia della mente e delle
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scienze cognitive. Lo studio della menteha numerose e interessanti applicazioniche spaziano dallo sviluppo tecnologico(simulazione di processi cognitivi),dallâeducazione e riparazione del sistemacognitivo (insegnamento, terapie, ecc.),dalla previsione delle scelte sociali fino aprogetti per migliorare prodotti e vendita.Ma la scienza cognitiva ha fondamental-mente radici filosofiche e ha influenzatola filosofia e lâidea di umanitĂ . I filosofidella mente lavorano con i neuroscienzia-ti, studiano i rapporti mente-cervello, lapossibilitĂ da parte di un sistema fisicocome il cervello di dare luogo a statimentali. Ma la maggior parte dei filosofidella mente appoggiano la posizione ma-terialistica alla base della quale câè lâiden-titĂ tra mente e corpo: secondo lâelimina-tivismo la mente è solo unâinvenzione e ilcomportamentismo logico ritiene che lamente sia solo unâinvenzione per raziona-lizzare il comportamento. La filosofiadella mente studia anche il rapporto tramente e mondo: come ci è dato il mondonel pensiero? Ă opportuno sostenere chela mente è un sistema di rappresentazionie cioè che la mente ha dei contenuti. Lostudio dei contenuti è pertinenza di diver-se discipline come la linguistica, lâantro-pologia ecc. La filosofia della mente stu-dia la coscienza fenomenica, la coscienzadi accesso (che ci rende consapevolidellâesperienza), e la consapevolezza indi-viduale. Studia anche gli aspetti soggettividi uno stato mentale: ad esempio, che ef-fetto fa essere un pipistrello?
Il dott. Fabrizio Biasin, psicologo,membro della Scuola italiana di psicotera-pia esistenziale e counselor filosofico, hatenuto una relazione su antropologia epsicopatologia fenomenologica ed esi-stenziale. Il relatore ritiene che la psico-patologia abbia un rapporto stretto con lafilosofia inerente soprattutto lâambito fe-nomenologico-esistenziale. Husserl, filo-
sofo, cerca un sapere fondativo partendodai fenomeni di coscienza, dal vissuto,dalla coscienza intenzionale: ogni feno-meno di coscienza ci dĂ un saperesullâessenza delle cose. Con metodo rigo-roso vengono messi da parte tutti i con-tenuti della soggettivitĂ trascendentaleriuscendo a cogliere con la coscienzalâessenza stessa dei fenomeni attraverso lariduzione eidetica. Per riuscire a dare unadimensione formale dellâessenza di qual-cosa, ad esempio per dire che cosâè unsuono, ci si mette allâascolto di un suono.Quando gli psicologi utilizzano la feno-menologia e lâesistenzialismo per spiegareil comportamento del soggetto hannomaggiori difficoltĂ ad etichettarelâindividuo come sano/malato, in quantolâapproccio fenomenologico-esistenzialeprende in considerazione il vissuto. Se-condo il relatore la psicopatologia esi-stenziale ha aumentato il livello diâcomprensione umanaâ dei comporta-menti. Riportare lâattenzione sul soggettosenza abbandonare il concetto di malattiaè lo sforzo continuo di questo orienta-mento. Bisogna non cedere ad unâim-magine fissa di salute e considerare anchele possibilitĂ intrinseche allâessere umanodi svilupparsi, le sue possibilitĂ di salute alivello individuale e a livello storico-sociale. Il relatore ritiene che ci si debbasempre chiedere che cosâè lâuomo e comefunzioni in questa societĂ . Lâidea di unsoggetto libero, forte, responsabile cheaveva guidato un certo esistenzialismoviene messa in crisi dalla psicopatologia:lâuomo si scopre fragile (L. Binswanger).Sono molti gli ambiti interessanti in cui sipuò fare ricerca, ad esempio:- studio psicopatologico e terapeuticodella soggettivitĂ fenomenologica ed esi-stenziale;- studio filosofico e antropologico dellasoggettivitĂ fenomenologica ed esisten-ziale;
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- studio delle forme contemporanee dellasoggettivitĂ fenomenologica ed esisten-ziale.
Ecco la domanda fondamentale che se-condo il relatore dobbiamo farci: lâuomocosâè adesso? Ă interessante fare ricerca,ad esempio, sulle trasformazioni del cor-po in una societĂ tecnologizzata: cosa èlâuomo con queste trasformazioni? Cosacambia nella costituzione del mondo inquesto soggetto/corpo trasformato? Co-me cambia la concezione e il vissuto deltempo data la dimensione virtuale speri-mentata tramite la tecnica? Oppure unariflessione sulla cura: come si cura oggi?Lo studio filosofico può approfondire cri-ticamente le conoscenze. Si può mettere aconfronto il modello fenomenologico edesistenziale con altre immagini dellâuomo.
Secondo il relatore le crisi storiche delrapporto tra il soggetto e il suo mondopossono provocare il sorgere di proget-tualitĂ destinate allo scacco, ma anchemettere in discussione le dinamiche co-stitutive piĂš profonde della coscienza.
La dott.ssa Silvana Ceresa ha tenutouna relazione intitolata âPsicologia e filo-sofia esistenzialeâ. Qui la ricerca filosoficasi sposta dalla ricerca della veritĂ allâanalisidellâesistenza.
La riflessione della relatrice si concentrasullâesistenza come modo dâessere pro-prio dellâuomo, sullâesistenza come rap-porto con lâessere, sullâesistenza comerealtĂ compiuta ed autosufficiente maaperta ad un oltre. Lâesistenza non èlâessere, ma ricerca dellâessere. Allâesseredella persona attiene lâesistere e il viverecon atti intenzionali. Lâesistere si configu-ra come un atteggiamento spirituale.
Interessanti gli esiti legati alla riflessionesullâidentitĂ : lâIo non è il Me, io non pos-so cogliermi come oggetto riflessivo, in-fatti non è nel sentirmi che io mi colgo,ma posso conoscermi soltanto essendooggetto dellâaltro. La coscienza del Me
implica âlâessere per altriâ, il Me âoggettoper altriâ è lâunico modo di essere dellâIoche posso conoscere.
Anche lâanalisi del rapporto con lâaltroè esistenziale, in quanto è unâanalisi diaspetti dellâesistenza umana condotta apartire dalle sue caratteristiche specifiche.
Secondo la relatrice, la feconditĂ dellafilosofia è condizionata dalla sua capacitĂ di spogliarsi della polemica, di penetrarenella vita quotidiana e di farsi strumentoefficace e permanente del pensiero uma-no. Lâ uomo è il vivente capace di paroleed è uomo in quanto è âcolui che parlaâ.Lâuomo non è solo persona ma ancheprogetto; e la filosofia è, secondo la rela-trice, âil chiarificatore dellâesistenzaâ.
La filosofia istituisce un nuovo puntodi vista rispetto a quello della considera-zione oggettiva e scientifica: il punto divista inoggettivabile dellâuomo come esi-stenza che emerge al di sopra del mondooggettivo. Secondo la relatrice è necessa-rio smascherare il dualismo cartesiano, ildualismo platonico, lâimmagine eideticadella filosofia. Bisogna ridurre le preco-gnizioni attraverso la coscienza dei propricondizionamenti. Bisogna raggiungere lacomprensione di sĂŠ partecipando intera-mente (testa-cuore-sensi) come cono-scenza ed ermeneutica del costitutivoprogetto del mondo che è nel suo âes-sere-se-stessoâ. Bisogna rifiutare unâesis-tenza inautentica, priva di significato, ol-trepassare lo smarrimento come perditadi individualitĂ nel mondo del SI (si deve,si faâŚ), bisogna non adeguarsi allâam-biente. Bisogna essere responsabili delproprio progetto esistenziale assumendoil senso-significato dellâesserci nella pro-pria situazione esistenziale.
Il bene-essere non è mancanza di male-essere: il bene-essere si trova nellâauten-ticitĂ della piena consapevolezza dellacondizione umana; il male-essere è nellaesistenza alienata che nega in malafede le
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âcose dellâesistenzaâ. Lo spaesamentodellâangoscia, espressione della reazionealla minaccia del non-essere, rivela la pos-sibilitĂ dellâesserci. La filosofia è, nel pen-siero della relatrice, âespressione dellasoggettivitĂ â.
Nel pomeriggio il dott. Giovanni Regi-nato ha tenuto una relazione intitolataâLa psicoanalisi di Freud e la filosofiaâ. Ildott. Reginato fa parte dellâIstituto Freuddi Treviso e si occupa di analisi transge-nerazionale.Questo tipo di analisi è fedelealla psicoanalisi freudiana ma tiene contoanche di altre attuali conoscenze sia ditipo psicologico che di altre aree del sape-re, come la filosofia, il diritto, lâetica. Se-condo il relatore la psicoanalisi difende ladignitĂ della persona e la sua libertĂ , nonè solo una tecnica di benessere tesaallâevacuazione del dolore, di Dio, ecc. Ilsapere psicanalitico è un sapere antropo-logico. La ricerca transgenerazionale di cui ilrelatore è esperto, cerca di identificare neinuclei rappresentativi dei pazienti la mo-dalitĂ di trascrizione patologica transgene-razionale. Cerca di capire quellâenigma percui la psiche organizza, con tracce mne-stiche e memorie categoriali (che sonoforme dellâesperienza), un sistema pulsio-nale dellâesperienza. Secondo gli studi delrelatore ciò che si trasmette fra le genera-zioni è la trascrizione di una sorta diâlessico familiareâ tramite il quale i ri-mossi non verrebbero mai annientati matenderebbero a ricomparire pur se defor-mati. Perciò la memoria va intesa inmodo allargato, nel susseguirsi delle gene-razioni. Nel campo della patologia psichi-ca, una generazione riceve i traumi daquella precedente che, in quanto ânondettiâ, diventano âimmaginabiliâ. Allaterza generazione il ânon pensatoâ di-venta âagitoâ a causa di un rapporto alte-rato con il ânoumenoâ.
Il trauma dei nonni sarĂ âinnominabileâper i genitori e âimpensabileâ per i nipoti.
Il relatore racconta la storia di Ivano, unadolescente che a causa di un brutto vototenta di impiccarsi.
Lâanalisi svela che al tempo in cui lamadre era incinta di Ivano perse il pro-prio fratello che morĂŹ improvvisamente.Questo fatto provocò in lei grande doloree senso di colpa al punto di farla pensareal suicidio per impiccagione. Da questielementi il relatore spiega il tentativo disuicidio dellâadolescente.
Il relatore esprime anche una profondapreoccupazione per la attuale âculturafamiliareâ che a suo avviso sarebbe per-vertita: oggi è lâadulto ad andare a scuoladallâadolescente, oggi il fanciullo âha ucci-so il padreâ e fa lâadulto cullando i suoigenitori in unâapparente eterna giovinez-za. Il mondo contemporaneo occidentalesarebbe, nel suo pensiero, un immensoasilo infantile, un mondo senza adulti,senza legge, senza colpa, senza dolore.Però questo mondo moderno e seducentenasconderebbe non una torre ma unâpozzo di Babeleâ. Câè solo confusione,smarrimento di identitĂ e il moltiplicarsidelle forme di abuso e crudeltĂ . Oggilâuomo non sa in che modo deve realiz-zarsi, per questo lo scoprirlo deve essereil suo impegno. Secondo il relatore la ri-cerca di senso richiede o un percorso diriflessione o un percorso terapeutico: en-trambi richiedono unâinterioritĂ che siapra intenzionalmente, che divenga di-sponibile alla ricerca. Si può creare unacoscienza etica solo perseguendo la stradaimpervia nella quale veniamo ai ferri corticon la nostra esistenza, solo impegnando-ci in una lotta attenta, onesta, discrimi-nante, virtuosaâŚ. Solo cosĂŹ si misurano ipropri limiti. Ă in questo, secondo il re-latore, il legame tra filosofia e psicoanalisi:in questo cercare e non eludere i proprilimiti, volgendo lo sguardo alla progettua-litĂ della vita e al suo scopo.
Il dott. Giorgio Risari ha parlato del
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pensiero di Erich Fromm tra filosofia epsicoanalisi.
Fromm, psicoanalista e filosofo, uniscele due discipline in modo esemplare. Sichiede: chi è lâuomo? Esiste una naturaumana? A questa domanda si può dareuna risposta psicologica o filosofica.Fromm fa una revisione dialettica dellapsicoanalisi di Freud nella quale la dimen-sione speculativa della filosofia incontra ladimensione della psicologia/ psicoanalisi.Entrambe sono necessarie allâarte di vive-re. Fromm postula lâesistenza di un in-conscio umanistico che produce anche leidee, perciò il pensiero filosofico non sa-rebbe mai solo astrazione ma sempre an-che qualcosa di concreto. SecondoFromm si pensa anche con il corpo, coimuscoli: il corpo non sarebbe altro che ilsimbolo dellâanima, per questo Fromm siinteressa di psicosomatica.
Secondo Fromm il pensiero critico ten-de a âtagliare in dueâ in quanto cerca unarealtĂ oggettiva contrapposta alla ragionela quale, invece, âvedeâ le cose solo nelladimensione dellâessere. Invece lâintelletto,in quanto orientato allâagire tecnico-pratico, è opposto alla ragione (pur es-sendo quasi sempre âspacciatoâ per ra-gione).
Secondo Fromm e secondo il relatoresolo il pensiero critico-razionale può dareuna misura che è andata perduta, puòprodurre un carattere terapeutico di chia-rificazione del senso e una persona che hachiarito il senso ha piĂš probabilitĂ di fareuna vita buona. E a pensare criticamentesi può imparare. La psicologia separatadalla filosofia cade nella stessa trappoladel pensiero âscientificoâ, anche per que-sto il relatore ritiene che si debba com-porre la frattura tra psicologia e filosofia.
Secondo Fromm lâinconscio umanisticoè eidetico, uguale per tutti. Lâuomo deveavere la libertĂ di realizzare ciò che è inpotenza: se questo dinamismo si blocca
sorgono nevrosi e disagio esistenziale. Perapprocciarsi a questa sofferenza ci vuoleuna comprensione sapiente, un ascoltointeressato, un dialogo in cui poter fareun esame critico delle idee. SecondoFromm ogni soggetto è unico e irripeti-bile, perciò non devono esistere tecnicheterapeutiche rigidamente fissate per aiu-tarlo. Il paziente è intrappolato in un pro-blema che non riesce a definire nĂŠ a risol-vere. Il problema possiede il cliente, lodomina inceppando lâespressione dellesue facoltĂ umane.
Si tratta di rendere il paziente consape-vole del fatto che quel problema è diven-tato un ostacolo in quanto lo rende inca-pace di riflettere e di porsi le domandegiuste. Il problema deve essere distaccatodal paziente (epochè), e si devono cercare lerisposte nel pensiero. Si tratta di ripro-gettarsi, di cercare nel pensiero e nel-lâanima unâalternativa al sintomo provo-cato dal problema. Alla fine del dialogomaieutico si produce il pensiero o lâazionegiusta da adottare in quella situazioneproblematica. Ciò richiede il âcoraggio diessereâ (la relatrice allude a Paul Tillich).Questo approccio non considera mai ilsoggetto come âuna macchiaâ, un sinto-mo. Secondo la relatrice Fromm è statoun counselor filosofico ante-litteram.
Lâultima relazione del pomeriggio èstata tenuta dal Prof. Carlo Molteni, eaveva come titolo âFilosofia preventivadel burn-outâ.
Il burn-out non è nel DSM-IV (il ma-nuale ufficiale di psicopatologia).
I sintomi del burn-out, secondo la dott.s-sa Maslach (la psicologa che ha âinven-tatoâ il burn-out) consisterebbero in:- affaticamento emotivo;- atteggiamento distaccato e apatico neirapporti interpersonali;- sentimento di frustrazione dovuto allamancata realizzazione delle proprieaspettative;
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- perdita della capacitĂ di valutare nellagiusta dimensione le proprie esperienzelavorative.
La BOS viene distinta dalla nevrosi (in-dividuale) in quanto disturbo del ruololavorativo e non della personalitĂ . Non sitratta di semplice âdistressâ (lo stress ne-gativo). Ma sorgono questi interrogativi: èun disturbo che riguarda piĂš la persona opiĂš lâorganizzazione? PerchĂŠ altri soggetti,pur lavorando nello stesso ambiente diquelli colpiti dal burn-out, non ne cadonovittime?
La prevenzione del burn-out può essere:- primaria: viene effettuata prima che sor-ga il disagio;- secondaria: viene effettuata su un pro-blema che câè giĂ bloccando le complica-zioni su un target ritenuto a rischio;- terziaria: è diretta a evitare peggiora-menti in sottogruppi specifici che manife-stino i sintomi.
Il relatore propone il counseling filosoficocome mezzo preventivo del burn-out: nelsuo testo âFilosofia Preventiva: il philo-sophical counseling per la prevenzione delburn-out negli insegnantiâ racconta la suaesperienza di counselor in ambito scolasti-co.
Ecco i risultati attesi da un interventodi filosofia preventiva:- far partorire il filosofo implicito in ognipersonalitĂ ;- far âtrascendereâ cioè portare lâutenza inuna prospettiva piĂš ampia rispetto al pro-blema.
Il counselor deve però dar prova diâabling professionsâ nellâinteragire con i suoiinterlocutori.
Inoltre, perchĂŠ il counseling filosofico informa gruppale possa ottenere un effettodi prevenzione del disagio bisogna seguirealcune regole di comunicazione biografi-co-solidale (il relatore cita K. O. Apel eRomano MĂ dera). Ecco le regole che ilrelatore riferisce:
- riferimento allâesperienza;- no agli interventi âopponitiviâ che es-cludono la veritĂ dellâaltro;- ascolto non sospettoso o giudicante;- offerta âanamorficaâ di ciascuno.
Ecco alcuni aforismi proposti dal rela-tore a scopo riflessivo:- lâuomo libero ha molti legami;- la creatività è un valore aggiunto;- la coscienza e il successo: il tuo valorenon si riduce al riconoscimento da partealtrui;- il senso del limite: io non sono onnipo-tente;- lâulterioritĂ della persona: hai sbagliato,non sei sbagliato;- il soggetto non si riduce al mondo;- lâesperienza parziale è fallace: focalizzagli aspetti positivi.
Il testo del relatore riporta lâanalisi deipunti di forza e dei limiti dellâesperienzaeffettuata con gruppi di insegnanti.
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Segnalazioni bibliografiche
Augusto Cavadi, Filosofia di strada (Trapani, Di Girolamo, 2010)
Da circa trentâanni, a partire dalla Philosophische Praxis del tedesco Gerd Achenbach, siva diffondendo nel mondo la professione del filosofo âpraticoâ. In cosa consiste questaprofessione? PerchĂŠ qualcuno potrebbe bussare allo studio di un filosofo e chiederne laconsulenza? Quali gli elementi di continuitĂ e le novitĂ rispetto alla millenaria tradizione filo-sofica occidentale? Che caratteristiche differenziano le pratiche filosofiche rispettoallâinsegnamento della filosofia, alle psicoterapie e alla assistenza spirituale di tipo reli-gioso?
A queste domande risponde uno dei pionieri della âfilosofia-in-praticaâ con una trat-tazione che, per la prima volta nella letteratura internazionale sullâargomento, offre unquadro completo della tematica: ad uso soprattutto degli aspiranti filosofi professionisti,ma anche dei potenziali âvisitatoriâ.
Paolo Dordoni, Il dialogo socratico (Milano, Apogeo, 2009)
Questo testo offre unâintroduzione critica al âdialogo socraticoâ corredata da un ac-cesso diretto alle fonti. Non si tratta solo di una metodologia discorsiva peculiare, ma diuna pratica filosofica, distillato a sua volta di un progetto politico, filosofico e pedagogi-co nato in Germania nel solco della resistenza al nazionalsocialismo.
Nel saggio introduttivo viene tracciata la vicenda biografica del fondatore, LeonardNelson, assieme alla storia e allâepistemologia del metodo, con attenzione al suo svilup-po attuale.
Nella sezione successiva sono tradotti per la prima volta tre saggi fondativi. Il primo èla conferenza di Nelson sul metodo socratico del 1922, una sorta di manifesto pro-grammatico; il secondo un testo di Heckmann, âIl discorso socraticoâ, in cui lâautore,avvalendosi di resoconti di dialoghi socratici da lui condotti, spiega le caratteristiche delmetodo; infine un articolo di Minna Specht sulla pratica del dialogo socratico condottain esilio negli anni Trenta con un gruppo di bambini e di discepoli di Nelson.
La postfazione offre ulteriori spunti di riflessione su alcuni dei nodi filosofici presentinel dialogo, ne dĂ un primo bilancio e fornisce indicazioni per il suo sviluppo nei conte-sti attuali.
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Alessandro Volpone (a cura di), FilosoFare, cura e orientamentoal valore (Napoli, Liguori, 2009)
La filosofia non può sottrarsi ad una tensione intrinseca di natura operativa: essa èunâattivitĂ libera, gratuita, non subordinabile ad alcun fine diverso dallâamore per la sa-pienza, o per la conoscenza, ma chi la esercita non può fare a meno di supporre che es-sa non lasci indifferenti gli uomini, o gli animi intatti.
Questo nuovo volume dei Quaderni di Pratica Filosofica propone riflessioni critiche,storiche e, soprattutto, filosoficamente fondate sulle nozioni di âcuraâ (in senso nonterapeutico) e di âorientamento al valoreâ. Centrale risulta essere lâidea, sfaccettata evariamente suffragata dal punto di vista teorico, di pensiero caring, base di quella comu-ne coscienza relazionale che determina la premura, la preoccupazione e lâaffanno tantonei confronti del SĂŠ quanto dellâAltro da sĂŠ; e, piĂš in generale, stimola lâattenzione neiconfronti del Mondo, nel senso, appunto, del âprendersi curaâ.
La âcuraâ rappresenta un tema oggi ampiamente dibattuto nel panorama filosoficoitaliano e i contributi qui offerti, seguendo diversi filoni di ragionamento, provano sia aindicare delle prospettive di apertura che a tracciare i limiti entro i quali è forse oppor-tuno discuterne in seno alla filosofia.
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Questo numero è stato concluso il 4 agosto 2010