SECONDO NUMERO, Novembre/Dicembre, a.s. 2013/2014

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2 L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° 2

sommarioPag

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scuola laica

emergency in afghanistanpaola bonzi

concorso

bookcityorientamento

olivetti

storia della prostituzionemilano

cinema

audiophiles

daft punk

vasco rossi

monsieur dumont

3120battiti di cigliavita e morte

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fumetti

macchie d’inchiostro

tweet anatomy

giochi

concorso letterario

di Martina BrandiL’editoriale

La redazione dell’oblò

6 Dicembre 2013. Fa uno strano effetto svegliarsi la mattina e sentire alla radio che Nel-son Mandela è morto. Nella semioscurità della cucina, ancora tra il sonno e la veg-

lia, il pensiero torna ad offuscarsi e nella testa si espandono come in un sog-no gli orizzonti infiniti del Sudafrica... La radio riporta stralci dei discorsi di Madiba, seguiti dalle affettuose parole pronunciate in sua memoria dai grandi della terra; una frase, in particolare, mi colpisce, del presidente Obama: “Un uomo che visse seguendo le sue speranze, non le sue paure”. Sono scossa: può forse il brulichio umano proseguire imperterrito dopo lo spegnersi di una simile fiamma, che fu un barlume nella notte terre-na? Eppure sì, nulla si ferma, il tempo continua a compiere imperturbabile il suo corso. Assale la voglia di essere forti, per poter riem-pire quei buchi lasciati vuoti nella ma-glia umana dall’inarrestabile scomparsa dei “giganti giusti”. Con questo spirito, Carducciani, vorrei introdurvi oggi alla lettura di questo Oblò: in tempi incerti e precari come quelli correnti, in Italia soprattutto, è bene che le nostre miglio-ri speranze siano salde e che il nel nos-tro impegno rimanga lucido e coerente sempre. Ma vorrei introdurvi a questo Oblò anche con una punta d’orgoglio, inevitabile per una direttrice davanti a un lavoro

ben riuscito. Come avrete già notato dal peso, questo numero, il secondo, è riuscito di 40 pagine, evento incredibile per la storia del giornale: ancora ricordo lo scarno Oblò in cui scrissi il mio primo articolo, ormai cinque anni fa. Merito di un tale miglioramento è da attribuirsi sicuramente al succedersi di ottime amministrazioni ma, soprattutto, alle redazioni che di anno in anno vedono affiancarsi ai veterani storici nuovi re-dattori. Quest’anno, in particolare, il fattore di “ripopolamento” è stato sba-lorditivo!

E così, al mio ultimo anno, vedo con piacere realiz-

zarsi sotto i miei oc-chi quella che fin dall’inizio è stata la mia idea di giorn-alino scolastico: un’occasione di in-contro, confronto e collaborazione fra gli studenti del li-

ceo, per mettersi in gioco e scoprire che,

attraverso la fatica e l’impegno comune, si ot-

tengono dei risultati; una piattaforma di libera espressione; una sfaccettatura diversa e stimolante della altrimenti solita routine; una palestra di crescita dove si imparano a svilup-pare responsabilità e competenza; una fonte di soddisfazione e, perché no, di successo. Incoraggio dunque, chi ancora titubasse, a scrivere, scrivere, scrivere, per condividere i propri pensieri e punti di vista, per arricchire gli altri ma so-prattutto se stessi. Vi auguro buone vacanze, che siano siano per tutti foriere di riposo...

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redattori | Cleo Bissong, Francesco Bonzanino, Bianca Carnesale, Giulio Castelli, Ju-lia Cavana, Rebecca Daniotti, Alice De Gennaro, Federica Del Percio, Letizia Foschi, Sofia Franchini, Alice de Kormotzij, Martina Locatelli, Edo Mazzi, Beatrice Penzo, Francesca Petrella, Carlo Polvara, Beatrice Sacco, Claudia Sangalli, Andrea Sarassi, Sara Sorbo, Alessia Tesio, Alessandra Veneziavignettisti | Leonardo Zoia, Silena BertoncelliDIRETTRICE | Martina BrandiCapo redattore | Chiara ConselvanDocente referente | Giorgio GiovannettiCollaboratori esterni | Francesca Bassini, Bianca Brinza, Cristina Isgrò, Pietro Klaus-ner, Matteo Lorenzi, Filippo Nicotra, Simone Possenti, Michele Spinicci

greenpeace

cdi 2013

shadowhunters

museo del 900

milano

OSTRICHE SENZA PERLA

trova il personaggio

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3 Novembre - Dicembre 2013 | L'Oblo' sul Cortile

MUOvi-mi

Una parola perché ci attiri deve essere efficace e fac-ile da ricordare, e questo il mondo della pubblicità lo sa bene: le parole ci devo-no suonare fin da subito fa-

miliari, quasi amiche direi, per portarci a mostrare interesse verso un determi-nato articolo. La parola della mobilità milanese è ormai da qualche tempo: “sharing”, e già so che avete capito tut-to. Bike sharing, e-sharing, car sharing stanno aprendo Milano alla modernità e all’ecologia. Ma andiamo con ordine.“BikeMi” è un servizio comunale at-tivo dal 2008 che solo quest’anno ha aumentato i suoi abbonamenti del 46%. L’utilizzo delle bici a Milano è in crescita e il Comune ha saputo cogliere questa novità. Qualche pecca però c’è: le stazioni per il parcheggio sono molte, più di 170, ma si trovano solo all’interno della zona delimitata dalla circon-vallazione esterna (per capirci entro il percorso di 90 e 91), e per chi, come me, vive all’esterno di esse, il servizio è pressoché inutile.Ma la bici non è per tutte le stagioni. L’inverno è il vero nemico dei ciclisti: freddo, pioggia e talvolta addirittura neve rendono difficile il tragitto. Ed ecco che, arrivati a diciotto anni, la pat-ente appare come la grande conquista.

E la macchina comoda, chiusa e soprat-tutto riscaldata risolve ogni problema.Già da tempo è presente il car shar-ing “GuidaMi”, sempre del Comune di Milano, che propone modelli di diverse dimensioni e funziona a tariffa oraria o giornaliera. Per fortuna stavolta le stazioni di parcheggio si trovano in tutta Milano e nelle zone limitrofe.Da agosto, in vista dell’Expo 2015, il servizio non è più il solo. Il sindaco Pisapia ha lib-eralizzato il car sharing e la prima a farsi avanti è stata la compagnia “Car-2Go” operativa, oltre che a Milano, in undici città europee (tra cui Amburgo, Amsterdam, Berlino, Londra e Vienna) e in dieci città tra Canada e Stati Uniti. Quest’estate in poche settimane ha rag-giunto i 50 mila abbonati e ora si sta spostando verso Roma. Il principio è lo stesso di “GuidaMi” ma con un’ottima innovazione: il problema del parcheg-gio è risolto dato che la macchina si può lasciare sulle strisce gialle, su quelle blu o nell’Area C senza costi aggiuntivi. Più di 400 Smart (ecologiche) sono disponi-bili al costo di 29 centesimi al minuto. A breve si aspetta anche un nuovo car sharing: Eni ci mette l’energia, Fiat le auto (modello 500) e Trenitalia, che in

contemporanea promuove i Frecciar-ossa (infatti il colore sarà rosso).(?) Il prezzo dovrebbe essere più competitivo (25 centesimi al minuto) e alcune auto dovrebbero essere alimentate a gas e persino a metano. Abbiamo parlato di sostenibilità anche per quanto riguarda le auto, ma forse non ancora abbastanza. Per i più inguar-ibili “eco-friendly” c’è anche il car shar-

ing elettrico. Zone di par-cheggio chiamate “isole digitali”, per il momento solo una quindicina, ospi-tano quadricicli elettrici a due posti e rappresentano anche uno spazio in cui si può accedere al wifi gra-

tuito, ricaricare il cellulare o informarsi sulle novità milanesi grazie ad uno sch-ermo. Il progetto si chiama “EqSharing” e a mio parere è il più interessante: 30 euro di abbonamento annuale più un costo di 13 centesimi al minuto.L’obiettivo è la riduzione, entro il 2030, del 50% del numero delle auto tradizion-ali (benzina o diesel) nelle nostre città e la loro totale eliminazione entro il 2050. Milano ci sta offrendo tante possibilità per vivere in modo più pratico e sano la nostra città: non lasciamocele scap-pare!

di Chiara Conselvan

La parola della mobilità

milanese è ormai da

qualche tempo: “sharing”.

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Attualità

Il tema del rapporto e della relazi-one intercorrenti tra lo Stato e le differenti comunità religiose è sem-pre stato uno dei più dibattuti. At-tualmente il modello di riferimento nei paesi democratici è o dovrebbe

essere quello dello “Stato laico”. In effetti è superfluo e quasi pleonastico distinguere tra stato democratico e stato laico: essi infatti sono necessari-amente coesistenti e imprescindibili l’ uno dall’ altro. Se democrazia significa partecipazione dell’ intero corpo so-ciale, naturalmente attraverso forme e metodi di rappresentanza definiti, pluralisti, rispettosi delle minoranze, è inevitabile che lo stato democratico sia assoluto (nel senso letterale di ab- solu-tus), cioè sciolto da qualunque potere o condizionamento estranei al pronun-ciamento diretto (elezioni) o indiretto (Costituzioni) dei cit-tadini. Lo stato laico è per sua natura anche lo stato in cui vige la libertà religiosa, che al-tro non è se non una derivazi-one della libertà di pensiero. Esso tutela ogni convinzione filosofica o credo religioso purchè essi non nuocciano all’ ordine pubblico o alla libertà altrui. Tuttavia esso esige che nell’ amministrazione dello stato e in tutti i settori di per-tinenza statale i cittadini non debbano obbedire o applicare altro se non le leggi dello stato stesso. Ciò, lungi dal compor-tare totalitarismo, prevede semplicemente che nessuno si trovi in una condizione diversa da un altro in ragione del suo credo filosofico-religioso. Il luogo in cui tale principio deve essere applicato in maniera ancor più rigorosa è la scuola statale. La scu-ola statale è laica. All’ interno di essa si è valutati in funzione di molti parametri da cui è rigidamente esclusa l’ appart-enenza a una religione o una scuola di pensiero. Questo comporta che lo Stato debba educare i suoi studenti attraverso programmi totalmente epurati da ogni forma di condizionamento ideale, filoso-

fico o ideologico, consistenti quindi “nei puri contenuti”? No, perché ciò è impos-sibile. In una globale educazione dell’ individuo non si può prescindere dalla proposizione di un modello umano e val-oriale. Questo può apparire in contrad-dizione con quanto sostenuto prima in merito all’ assoluta indipendenza della scuola dello stato da qualsivoglia ade-sione personale ad un singolo gruppo. In realtà tale apparente contraddizione si risolve attraverso l’ esplicitazione del sopraddetto modello.Il modello culturale è quello proposto dallo Stato e tratto dai principi fonda-mentali dello Stato stesso. Principi che, lungi dall’ opporsi e dallo scontrarsi con altri, fungono da substrato su cui si in-nestano le differenti scuole di pensiero. In questo senso ogni cittadino all’ in-

terno della scuola costruisce il proprio sistema di valori liberamente sulla base comune che costituisce il collante e il fondamento della nostra società e della nostra comunità. Tale funzione educati-va non espropria affatto le famiglie dal proprio ruolo: la famiglia resta la prima e fondamentale cellula formativa dell’ individuo, ma non è mai esclusiva. E’ lo stesso senso comune a dirci che, in pre-senza di modelli educativi familiari che ledono la libertà e la dignità del bam-bino, è preciso compito dello stato o di

altri agenti completare o correggere il processo educativo. Anche escludendo questi casi estremi, la famiglia non ha mai comunque il monopolio sull’ edu-cazione: infatti l’ associarsi stesso dei bambini in comunità come quelle sco-lastiche impone l’ adozione di un sis-tema di regole comuni che mai potrà essere perfettamente aderente a quello di un singolo nucleo familiare. Entrando maggiormente nel merito, i valori da tr-asmettere all’ interno della scuola sono essenzialmente quelli di democrazia e libertà, con tutto ciò che esso comporta nell’ ambito di rispetto delle differenze e della dignità altrui, di partecipazione attiva e responsabile alla vita della co-munità e di tutela della possibilità per ognuno di esprimere le proprie posizioni senza vincolare in nessun modo ad esse

quelle degli altri. La scuola quindi ci forma tutti come persone e come cittadini. Si possono compiere tutte le scelte possibili ma mai si può prescindere da questa iden-tità di persone e cittadini. Lo stato non potrà accettare che ci si appelli alla propria reli-gione per disobbedire alle sue leggi: tale disobbedienza, che comunque potrebbe essere un atto lodevole a livello mo-rale, non può essere tutelata e giustificata dalle leggi dello stato. Avvallare una differen-za normativa in nome di una differenza religiosa significa di fatto negare l’ uguaglianza di tutti i cittadini. Natural-

mente la laicità prevede una relazione reciproca: l’ intervento dello stato è da ritenersi illegittimo e dunque non vin-colante quando effettua un potere co-ercitivo su un individuo nell’ ambito di una scelta morale. Naturalmente in tale scelta l’inclinazione di un individuo ver-so l’ uno o l’ altro parere non deve com-portare a sua volta un’ azione coercitiva o lesiva della libertà di un altro uomo. Il rischio potrebbe essere quello di re-stringere la sfera morale e religiosa a un ambito esclusivamente privato, negando

di Carlo Polvara

scuola laica:un altro punto di vista

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5 Novembre - Dicembre 2013 | L'Oblo' sul Cortile

l’ importanza culturale e sociale delle varie comunità. Questo rischio è tutta-via inevitabile se vogliamo mantenere le singole persone come principali deten-tori di diritti. Riaffermare l’importanza vitale delle persone, intese come indi-vidui liberi e dotati di diritti è, a mio parere, una delle questioni cruciali dei nostri tempi. La laicità è strumento im-prescindibile per garantire davvero la dignità e la libertà degli esseri umani. In un momento di ridefinizione e scon-volgimento del mondo occidentale, è essenziale che tutti gli uomini di buona volontà si ancorino su questo sistema di valori. Tale ancoraggio comune è possi-bile in quanto la grande divisione delle società contemporanee non è “tra cre-denti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti” (C. M. Martini): i “pen-santi “, proprio in quanto tali, trover-anno sempre un accordo, una forma di dialogo, una mediazione, mai al ribasso, senza mai svilire il proprio credo di ap-partenenza, Purtroppo, specie in tempi recenti, sono state formulate teorie sul-la laicità “diverse”, che criticano dura-mente il principio della neutralità dello Stato rispetto all’esperienza religiosa: senza tale neutralità, tuttavia, è la lai-cità stessa a decadere. Analizzandole

attentamente, tali teorie si mostrano chiaramente per ciò che sono: tenta-tivi di creare uno stato “cripto-confes-sionale” che nelle intenzioni dei suoi fautori dovrebbe difendere la società dal “secolarismo”. In cosa si esplicher-ebbe tale “difesa dal secolarismo?”. Semplicemente nella negazione o nell’ indifferenza verso diritti che tutelano tutti i cittadini, non ledendo affatto la libertà di singole persone o comunità nell’ambito della loro esperienza re-ligiosa, in nome di concezioni antropo-logiche o sociali del tutto personali, non necessariamente condivisibili per tutti. Questi tuttavia sono casi nobili, in cui si dibatte di valori , morale, etica. In altre situazioni sembra che la miglior cura dal secolarismo della laicista scu-ola statale siano delle nutrite prolusioni di denaro pubblico alle scuole private e alle famiglie che di esse si avvalgono, a tutela “della libertà di scelta”. Sin-ceramente fatico a comprendere come il semplice, logico, lineare principio che lo stato finanzi solo le scuole dello stato possa ledere alla religione o alla fede, tuttavia posso intuire che spesso dietro le grandi “questioni di principio” stiano nascosti interessi, posizioni di potere o anche soltanto piccole “zone franche” .

Troppo spesso da questa situazione de-rivano grandi mali per le comunità reli-giose: la laicità dello stato è infatti la miglior garanzia per le religioni stesse, che possono autogovernarsi senza tema di pressanti influenze interne da parte di autorità esterne e senza correre il rischio che relazioni troppo ambigue con l’esercizio del potere inficino la stessa esperienza religiosa. La laicità comporta una scelta coraggiosa sia per lo stato, che deve giustificare le pro-prie scelte senza ricorrere a criteri che non gli sono propri, sia per le religioni, che devono ora abbandonare posizioni conquistate nei secoli per divenire cred-ibili in un mondo così mutato. La laicità contribuisce però a generare immensi vantaggi: la costruzione di una società di liberi ed eguali, fondata sulla dignità e sul rispetto reciproco, superando una visione “tollerante”, che comunque prevede l’esistenza di una cultura migliore o superiore che ne “sopporta” altre, in favore di una davvero pluralis-ta , in cui le persone, libere di riconosc-ersi nel credo in cui più si riconoscono o in alcuno credo, unite da un sistema di valori comuni tutelati dallo Stato, cos-truiscono insieme un avvenire di libertà, uguaglianza, fraternità.

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6 L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° 2

Attualità

18 settembre 2013: due at-tivisti dell’associazione am-bientalista Greenpeace ven-gono fermati dal governo russo in seguito ad un blitz su una piattaforma petrolif-

era della Gazprom, colosso del set-tore energetico. Il giorno dopo altri venticinque at-tivisti a bordo della “Artic Sunrise” vengono fermati dalla polizia russa in acque internazionali, con un’ abbor-daggio che il direttore internazionale di Greenpeace, Kumi Naidoo, ritiene decisamente illegale. Gli attivisti vengono incriminati con un’ accusa di pirateria, rischiando quindici anni di carcere. La vicenda, sin da subito, suscita l’indignazione a livello mondiale, che in tantissimi paesi (primi fra tutti quelli che hanno qualche connazion-ale tra i sequestrati) viene manifes-tata con proteste pacifiche, proprio come quella di Greenpeace. Ciò che stupisce è la durezza esercitata dal governo russo nei confronti di una protesta assolutamente non violen-ta. Gli ambientalisti infatti si trova-

vano nel mare a nord della Russia per protestare contro le trivellazioni del-la Gazprom, poiché quelle sono zone con un delicato equilibrio ambientale che le trivellazioni mettono a serio rischio. I due attivisti che sono stati fermati dalla guardia costiera russa avevano tentato di scalare la piatta-forma petrolifera per appendere uno striscione. Loro, e i venticinque com-pagni sequestrati il giorno seguente, sono stati portati a Murmansk, dove sono cominciati i processi. Durante i mesi di detenzione, da tutti gli angoli del mondo, sono arrivate a Vladimir Putin lettere, singole o collettive, che chiedevano la scarc-erazione dei ragazzi di Greenpeace. Tra coloro che hanno mandato le let-tere, ci sono undici premi Nobel per la pace, l’ENI, Paul McCartney e molte altre personalità in vista nei più svari-ati campi. L’attenzione che ha ricevuto questo evento a livello mondiale è incredi-bile. Benché abbia probabilmente in-fluito il fatto che in un gruppo di trenta persone ci fossero ragazzi di diciotto nazionalità diverse, la partecipazione

di così tante persone ad una protesta per un’ unica causa non è cosa che si vede tutti i giorni. L’odissea degli am-bientalisti è stata seguita in tantissimi paesi e molti hanno tirato un sospiro di sollievo quando, dietro cauzione, sono stati liberati i primi tre ragazzi. A questi ne sono seguiti altri sette, tra cui Cristian D’Alessandro, unico italiano della spedizione. Infine, il 28 novembre, è stato scar-cerato l’ultimo attivista, Colin Rus-sell. Questo però non vuol dire che le accuse siano cadute. Infatti gli attivisti, anche se non corrono più il rischio di essere incriminati come “pi-rati”, potrebbero diventare “vandali” e, nonostante gli anni di detenzione previsti per il vandalismo siano meno (sette) in confronto ai quindici per pi-rateria, non ci si può ancora del tutto rilassare. Greenpeace però non si ar-rende. Lo dimostra Cristian D’Alessandro, che dopo la scarcerazione ha dichi-arato che continuerà a combattere per l’Artico, per evitare che, come ha scritto in una lettera alla Stampa, “si tinga di nero”.

di Beatrice Penzo

the artic 30

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7 Novembre - Dicembre 2013 | L'Oblo' sul Cortile

Emergency vi dà il benv-enuto nella valle del Panshir! L’unica zona dell’Afghanistan senza tale-bani, né oppio né militari della Nato. È qui che Emer-

gency ha deciso di aprire il centro di Maternità affiancandolo all’ospedale già costruito nel 1999.

Forse la prima domanda che vi sorgerà spontanea è che cosa abbia di spe-ciale un’iniziativa di questo di tipo: beh, siamo in Afghanistan, dove la violazione dei diritti delle donne è purtroppo all’ordine del giorno. Nel 1996, quando i talebani sono saliti al potere, molte donne esercitavano le più diverse professioni: erano ingeg-neri, infermiere, medici. Oggi invece sono nascoste sotto il burqa e segre-gate in casa. Secondo l’ultimo rapporto dello Hu-man Rights Watch (Hrw) la condizione femminile in Afghanistan è in continuo peggioramento. La donna è un ogget-to, da vendere al miglior offerente. Scappare di casa è per molte l’unica via di salvezza, ma per la Corte Supre-ma è un «crimine contro la moralità», punito con la prigione fino a quindi-ci anni. Da vittima la donna diventa criminale. Le sue colpe: fuggire da mariti violenti o da matrimoni forzati; avere rapporti sessuali fuori dal mat-rimonio, anche se ciò accade perché stuprata o costretta a prostituirsi. Inoltre solo un anno fa il presidente

afghano Hamid Karzai ha firmato la di-chiarazione del consiglio degli Ulema (i dotti islamici, principale autorità religiosa) che afferma che le donne non dovrebbero «mischiarsi a uomini estranei in attività di carattere so-ciale come l’istruzione, nei mercati, negli uffici e in altri aspetti della vita» e che «molestare, importunare e pic-chiare le donne» è vietato «a meno che non avvenga per un motivo legato alla shari’a (legge islamica)». Questo malgrado il fatto che la costituzione afghana consenta alle donne il diritto di voto, il diritto all’istruzione, il di-ritto al lavoro in ogni genere di con-testo e il diritto a viaggiare da sole.

Alla luce di tutto ciò, il ruolo del Cen-tro di maternità di Anabah assume profondi significati che vanno al di là dell’assistenza sanitaria. In questi dieci anni, infatti, Emergency non si è occupata solo di questo ma anche del-la formazione del personale afghano, un’ équipe solo al femminile che ha la possibilità di studiare, laurearsi e spe-cializzarsi per diventare ginecologa, ostetrica o infermiera. Al momento quattro donne stanno frequentando la specializzazione in ginecologia nel centro di maternità e fra quattro anni saranno ginecologhe riconosciute dal Ministero della sanità.

Durante i suoi dieci anni di attività il centro di maternità di Emergency ha dimostrato di essere un centro in-

dispensabile per la salute di donne e bambini. L’ Hrw ha denunciato che in Afghanistan la mortalità infantile è 115 volte più elevata che in Italia: quello che da noi è la normalità – es-sere seguiti durante il parto e poter partorire in condizioni di sicurezza – in Afghanistan è una rara eccezione. Sono moltissime infatti le donne che vengono da lontano pur di far nascere i loro bambini al Centro. Esso infatti è l’unica struttura specializzata e com-pletamente gratuita in un’area molto vasta, abitata da almeno 250.000 persone che possono usufruire di as-sistenza ginecologica, ostetrica, pre-natale e neonatale.

Quando dieci anni fa Emergency ha aperto il Centro di maternità, la prima cosa che la gente ha pensato è stata: «Un Centro di maternità in Afghanistan? Voi siete pazzi». Quella che poteva sembrare una pazzia, per Emergency è stata invece un’impresa riuscita. L’Associazione umanitaria ha dato vita a un Centro che aiuta a nascere e a ri-nascere. Infatti impeg-narsi anche sul fronte dell’istruzione e della formazione del personale fem-minile afghano significa contribuire ogni giorno a far rinascere il futuro delle donne in Afghanistan, renden-dole sempre più autonome ed in-dipendenti. L’Associazione afferma infatti: “il nostro obiettivo è fare in modo, un giorno, di non essere più necessari.”

di Rebecca Daniotti

emergency, apre il centro di maternità in Afghanistana scuola per (ri)nascere

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8 L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° 2

Attualità

La notte tra il 21 e il 22 no-vembre a Palazzo Marino si sono svolte le votazioni per l’assegnazione dell’Ambrogino d’oro, onorificenza conferita dal comune di Milano a person-

alità rilevanti per il loro impegno civile. Tra i 52 premiati o con la medaglia d’oro o con gli attestati di civica benemer-enza, compare il nome di Paola Marozzi Bonzi, fondatrice e direttore del Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli che, il 7 dicembre, riceverà la medaglia d’oro.

Paola, cos’era in origine e cos’è oggi il Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli?Il Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli è attivo dal 12 novembre dell’84, e da al-lora ha incontrato più di 18mila donne in gravidanza con problemi di accettazi-one della maternità. Oggi come allora, il nostro modo di as-coltare la donna ha le modalità del me-todo consultoriale, tanto che dal 2002 siamo anche un consultorio familiare, chiamato “Genitori Oggi”, accreditato a tutti gli effetti.Lo strumento principale del nostro in-tervento è il colloquio, un colloquio di counseling umanistico-esistenziale, ispirato ad autori come Karl Rogers ed Eric Fromm. Secondo questa “scuola” al centro sta la persona e non i suoi prob-lemi.Quindi quando noi incontriamo una nos-tra utente, che sia la donna o la coppia, ci adoperiamo per stabilire una relazi-one d’aiuto in cui si prendano in consid-erazione tutte le sue difficoltà che un po’ alla volta esamineremo insieme per trovare le risposte adeguate.

Qual è stato l’evento, l’intuizione che ha maturato e che l’ha portata a fond-are il CAV Mangiagalli?La prima motivazione è personale: per una grave malattia che ha colpito i miei occhi, i medici avevano sconsigliato una seconda gravidanza. Non ho avuto dubbi e, fortunatamente, mio figlio è nato “in barba” a tutti i consigli negativi.La seconda motivazione viene da lon-tano: era il tempo di Solidarnosch e, in Polonia, a Varsavia, donne solidali stazionavano fuori dall’ospedale dove si andava per interrompere la gravidanza.Si accostavano con serenità alle donne che entravano per offrire il loro esserci e le cose che sarebbero state utili al bambino se fosse nato.

Dal punto di vista organizzativo, com’è strutturato il Centro?Siamo aperti tutti i giorni feriali dalle 9 alle 18, anche nelle vacanze di Natale, di Pasqua e di ferragosto, quindi ci sia-mo sempre. Al CAV Mangiagalli si può arrivare senza appuntamento e, ogni mattina, tre operatori sono pronti per i colloqui.

Come aiutate concretamente a diven-tare mamme le donne che vogliono abortire?Esiste un’espressione di Silvia Vegetti Finzi, grembo psichico, che cerchiamo di tradurre in pratica facendo sentire la donna accolta perché, facendole provare questa sensazione, anche lei sia in grado di accogliere suo figlio. Il nos-tro slogan è, infatti, “OGGI È NATA UNA MAMMA”.A tutto ciò si aggiungono quegli aiuti ma-teriali perché sia la mamma sia il bam-bino, se nascerà, possano godere di ciò che è indispensabile: sussidi economici, accoglienza in una delle nostre case, visite mediche, corso di preparazione alla nascita, incontri con l’ostetrica per l’allattamento al seno, massaggio del neonato, gruppi bebè per l’osservazione della buona crescita, scuola dei genitori,

corredino e attrezzature per il neonato, pannolini fino all’anno del bambino.

State vivendo anche voi un momen-to di crisi: cosa vi sostiene e cosa vi spinge a continuare?La forza della vita, perché noi, quando incontriamo una donna che accetta il nostro aiuto per continuare la gravidan-za, siamo così felici che ci diamo da fare in tutti i modi per mantenere le promesse che le facciamo durante il colloquio. Quindi ci rivolgiamo prima a noi stessi, poi alle altre persone, poi agli enti pub-blici. Organizziamo eventi, incontri,… insomma, ci manca di fare i clown e tut-to il resto lo abbiamo già fatto in questi 29 anni. (ride) Però sono nati 16mila bambini e non è poco! Cosa ne dici?

Alcuni vi accusano di condizionare la libertà della donna, e di essere spinti da ideologie medioevali ormai super-ate da leggi come la 194, definita da questi una legge di civiltà.La 194 è quella legge che ci ha permes-so di entrare all’interno dell’ospedale. Infatti, intitolandosi “Norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria della gravidan-za”, ha una parte positiva dove afferma

di Giulio Castelli

come far nascere una mammaIntervista a Paola Bonzi, fondatrice del Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli

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9 Novembre - Dicembre 2013 | L'Oblo' sul Cortile

che bisogna mettere in campo tutti gli aiuti, ordinari e straordinari, perché la donna non vada ad abortire. La donna soffre per un aborto; magari pensa che finita la sala operatoria tut-to sia terminato e invece no, perché i problemi veri vengono dopo e spesso in-sorgono situazioni difficili a livello psico-logico che le impediscono di vivere ser-enamente. Quindi è giusto proporre un’alternativa.

Secondo lei la legge an-drebbe modificata?Dal mio punto di vista non serve tanto cambiare la legge ma cambiare la mentalità. Viviamo una solidarietà con la donna gravida, che spesso si sente da sola, condividi-amo con lei le sue diffi-coltà, facciamoci vicini e probabilmente la sua scel-ta sarà per la vita.

Mi ha colpito nel suo libro “Oggi è nata una mamma” l’importanza che lei dà all’ascolto, perché?Viviamo in una società in cui tutti par-liamo, tutti vogliamo dire la nostra; se tutti parlano, però, nessuno ascolta. Noi consideriamo l’ascolto un’arte, qualche cosa per cui ci prepariamo, che continuiamo ad affinare. L’esperienza dell’ascolto fa sentire le persone ac-colte e importanti, è la parte essenziale del nostro lavoro.

Cosa si sente dire più spesso dalle donne che incontra nei colloqui alla Mangiagalli? Io tutti i giorni scrivo sul mio blog, che è una specie di diario, tutti i casi parti-colari che abbiamo incontrato la mat-tina e le cose che dicono più spesso le donne sono: “non posso, non ce la fac-cio, sono da sola, non me la sento, tutti mi dicono di interrompere, il padre del bambino non lo vuole, la mia famiglia non è d’accordo…” tutte cose negative che incidono sul desiderio di vita della donna. La loro fatica è una fatica di vivere anche concreta, per questo dob-biamo trovare delle risposte altrettanto concrete.

E lei cosa risponde, come le affronta?Anzitutto cercando di ascoltare e di decodificare la domanda che loro por-tano; poi insieme si fa un progetto di aiuto conseguente a una relazione di aiuto che speriamo di essere riusciti a stabilire. È un continuo cercare di es-sere pronti a quello che ci succederà e che non sappiamo mai che cosa sarà. Quando una donna apre la porta della mia stanza io non so chi entrerà, non so che cosa mi chiederà, quindi bisogna es-sere pronti un po’ a tutto, magari anche a qualche salto nel buio.

Giuliano Ferrara nella prefazione del suo libro afferma che “nella sua sem-plicità di stile, di vita, di eloquenza, di prassi, non è difficile scoprire qualco-sa di eroico, di santo e di profetico”. E dopo aver incontrato l’esperienza del suo Centro, lo descrive come “l’umile, modesta e gloriosa esperien-za di una piena intesa umana, di una

convinzione etica prepo-litica e ultrapolitica, de-cisiva per una battaglia che tutti dicono di voler fare e che solo i pazzi, gli scriteriati, i visionari hanno la forza di intra-prendere”. Lei, Paola, si sente un eroe, una santa o una pazza visionaria?Niente di tutto questo, io mi sento scriteriata, un po’ pazza, tutto il resto no, e con la voglia di in-contrare il maggior nume-

ro possibile di donne.

Qual è la persona, che più l’ha soste-nuta nel suo sì alla vita? Io continuo a pensare che, avendo dedi-cato questa nostra opera alla Madon-nina del Duomo, Maria Nascente, Lei ci abbia dato una mano. Vediamo anche la Madonnina dalle fin-estre della nostra se-greteria, quindi direi che ci è molto vicina.

C’è un motto o una frase per lei illumi-nante e significa-tiva?Questo nostro slo-gan “Oggi è nata una mamma” credo dica tutto il nostro impeg-no a far nascere nella donna la madre, che non è così automa-tico. Una donna ac-colta fa l’esperienza dell’accoglienza e forse trova la voglia di far provare tutto questo al suo bam-bino e quindi porta avanti la gravidanza. La mia frase person-ale, che forse non sanno nemmeno le persone che lavora-no al CAV, è questa: “Vivi come se dovessi morire domani. Ama come se non dovessi morire mai.”

Vuole raccontarci l’incontro che più l’ha segnata negli anni trascorsi al CAV?

Sono tantissimi gli incontri e le storie di donne coraggiose che mi hanno anche insegnato tanto. Ma c’è stato un incon-tro molto significativo con una persona che non aveva nessun bisogno econom-ico. Era una studentessa di filosofia, ed era andata a prenotarsi per abortire. Dopo essersi prenotata ha chiesto il colloquio di riflessione previsto dalla legge e alla segreteria della 194 l’hanno spedita da noi. Ha raccontato la sua storia che ho ascoltato profondamente, e le problematiche emerse erano, ap-punto, che la sua famiglia il bambino non lo voleva, il padre non lo voleva, lei studiava ma faceva anche teatro... Alla fine io ho detto: “Va bene: lei ora farà quello che le sembrerà meglio per la sua vita sapendo che noi siamo qui e se vorrà tornare..” questa persona non è più tornata e io ero convinta che fosse andata ad abortire. Un giorno è arrivata lei col suo bambino e la sua mamma, portandoci dei vestitini che questo Tom-maso non aveva mai potuto mettere perché era nato cicciottello. Questa donna, senza alcun problema econom-ico, ha veramente preso una decisione diversa per il colloquio che abbiamo fatto insieme. Per questo io considero il colloquio una occasione particolare, anzi fondamen-tale.

Questo nostro slogan

“Oggi è nata una mamma”

credo dica tutto il nostri impegno

a far nascere nella donna la madre,

che non è così automatico.

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° 210

cronache carducciane

“Il consiglio di circolo o di istituto elabora e adotta gli indirizzi generali e de-termina le forme di autofi-nanziamento. Esso delibera il bilancio preventivo, il

conto consuntivo e dispone in ordine all’impiego dei mezzi finanziari per quanto concerne il funzionamento amministrativo e didattico del circolo o dell’istituto.” Questo sono i due primi paragrafi dedicati alle attribuzioni del con-siglio d’istituto. Infatti, il primo com-pito di quest’organo è la gestione delle risorse di cui la scuola dispone, risorse che possono provenire da due fonti: private e pubbliche. Le entrate provenienti da privati, che al Car-ducci nel 2012 sono state l’88% del totale, sono costituite per la mag-gior parte dal contributo volontario delle famiglie (quei 120 euro che sono richiesti a inizio anno), ma anche da enti esterni che utilizzano i locali della nostra scuola, come l’università della terza età, o il nostro bar. Le entrate pubbliche sono costituite da soldi che la provincia e lo stato ero-gano alle scuole. La prima consid-erazione che viene da fare, è che i primi finanziatori di questo istituto sono i suoi studenti e le loro famiglie, in forma diretta. E’ ancora più vero quindi dire che il CdI deve rispondere delle sue azioni a voi che leggete. Ma come ha lavorato e quali sono state le

linee guida del consiglio nel 2012-13? Senza voler semplificare eccessiva-mente, i principali imperativi sono stati due: l’ammodernamento degli ambienti scolastici e l’aumento del numero d’iscrizioni. Vi sarete accorti che nell’ultimo anno diverse aule sono state imbiancate o i disgustosi bagni del pianterreno ristruttu-rati, che sono state ac-quistate 4 lavagne LIM, che l’istituto ha una nuova rete WiFi e i pro-fessori dei tablet al posto dei registri. Tutte queste novità derivano da una scelta del CDI: investire più risorse sugli spazi e le tecnologie. Questo sia per garantire ambienti di lavoro decorosi, che in molti casi ancora mancano, sia per permettere al nos-tro istituto di rimanere al passo con i tempi. Queste due forme di progresso sono ovviamente funzionali anche per il secondo imperativo: attrarre nuovi studenti al Carducci e fermare il calo d’iscrizioni. Avrete forse sentito, e se siete in questa scuola da qualche anno non potete non averlo notato, che il nostro istituto ha sempre meno iscritti. Questa è una tendenza tipica dei licei classici, ma particolarmente accentuata dalle parti di via Beroldo 9, dove cominciavano ad aleggiare i timori di un possibile “accorpamento”

ad altre scuole. Il CdI ha quindi lavora-to principalmente per evitare questo e manovre significative in questo senso, oltre a quelle già citate, sono state

l’ammodernamento del sito, il maggiore inves-timento negli open day o anche la giornata ap-erta, organizzata dagli studenti. Per questo secondo imperativo, il risultato è stato piut-tosto buono, anche se non ancora sufficiente; infatti, nel 2013-14 qui al Carducci si sono for-

mate 6 prime. E’doveroso dire che ov-viamente ad ogni maggior investimen-to da una parte, corrispondono tagli da un’altra. Il nostro CdI ha tagliato fortemente le spese per i progetti e le consulenze esterne, di cui un esempio sono i corsi teatrali, il torneo Perrone, questo stesso giornalino o gli esperti che vengono al Carducci ricevendo un cachet. La cifra spesa per le consu-lenze esterne è stata di circa 40 mila euro (il 43% in meno dell’anno prec-edente). Il tentativo è sempre quello di operare una “razionalizzazione”, ovvero spendere meno e in modo più oculato, garantendo un arricchimento ampio dell’offerta formativa, senza essere costretti a spendere grandi cifre. Potrà sembrare fazioso, ma personalmente sono convinto che sia qualcosa di assolutamente possibile.

di Michele Spinicci

cdi 2012-2013APPLICATA STRATEGIA DI “RAZIONALIZZAZIONE” DEI FONDI DI ISTITUTO

I principali imperativi

sono stati due: l’ammodernamento

degli ambienti scolastici e l’aumento del numero d’iscrizioni

Come mettersi in contatto con noi:1) attraverso la mail [email protected];2) attraverso la pagina facebook (dove potrete trovare il numero online a colori, i bandi di tutti i concorsi, novità, aggornamenti e notizie dell’ultimo minuto, gli arti-coli in forma integrale o quelli non pubblicati);3) lasciando un bigliettino all’interno della scatola posta in ingresso presso il banco della signora Elena.Sono ben accette critiche, consigli, idee, commenti riguardanti il giornalino; articoli di cronaca, attualità, cultura generale, cinema e musica; racconti; pensieri, poesie e componimenti liberi; indovinelli, dediche, lettere; disegni; “strafalcioni” detti in classe e diligentemente appuntati...e chi più ne ha più ne metta!

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Novembre - Dicembre 2013 | L'Oblo' sul Cortile 11

odore di vernice al carducci

Ormai il 2013 sta per finire e guardandosi in-dietro si può fare un bi-lancio di quali propositi siano stati portati a ter-mine e in che misura. A

dir la verità, dall’analisi che segue, si può evincere che molti degli obbiet-tivi che ci si era preposti sono stati raggiunti, soprattutto dal punto di vista dell’ammodernamento e della manutenzione dell’edificio.I più importanti passi fatti in questa direzione sono stati 1) l’imbiancatura di tutte le aule al piano terra, i cui muri, come in tutte le classi, erano scrostati e imbrattati di scritte (spesa: circa 3.500 euro); 2) il rifacimento dei bagni al piano terra, sia maschili che femminili, dove oltre alla riverniciatura è stato effettutato un cambio di tutti i sani-tari (spesa: circa 5.000 euro);

3) il cablaggio dell’intero istituto (sp-esa: circa 20.000 euro);4) l’acquisto di 60 tablet, preventi-vamente più del necessario, per per-mettere l’utilizzo del registro on-line (spesa: circa 14.000 euro); 5) la sostituzione di tutte le lampade a neon e la messa a norma dell’intero impianto elettrico, che a quanto pare prima non lo era (spesa: circa 3.500 euro);6) l’imbiancatura e il riarredo dell’aula professori, con 4 nuovi com-puter e cassettiere metalliche dotate di chiavi (spesa: circa 4.000 euro);7) la compera di moderni e specifici apparecchi destinati al laboratorio di fisica e chimica (spesa: circa 2.500 euro);8) la riabilitazione della palestrina nel seminterrato con la messa in sicurezzadi tutte le macchine;9) la sostituzione o la pulitura di tutte le tende della scuola;10) l’inserimento di 4 bidoni per piano per la raccolta differenziata.Sono inoltre state adibite due delle aule vuote dell’istituto al laboratorio di lingue (3° piano) e al laboratorio di storia dell’arte (piano terra). In fine, alle due aule lim già esistenti e

anch’esse rimesse a nuovo, se ne sono aggiunte altre due. Tuttavia, sebbene l’idea iniziale fosse quella di fornire in pochi anni ogni classe della propria lavagna multimediale, si è optato in seguito per un cambio di rotta; le at-tuali aule lim sono dunque rimaste per il momento di comune utilizzo. Certo è che non si è rimasti con le mani in mano!Per il nuovo anno si è deciso di inve-stire, a grande richiesta, sul rifaci-mento del campetto da calcio e del laboratorio di informatica; si pensa di intervenire, inoltre, sul fronte bib-lioteca, i cui libri, una volta ripuliti e ben catalogati, potrebbero essere messi a disposizione dell’intera co-munità cittadina, in modo da valor-izzare, finalmente, il patrimonio che essi costituiscono.La nostra scuola, insomma, si sta rimettendo in brevissimo tempo al passo con i tempi: si sta trasformando in un ambiente dedicato ai suoi giova-ni studenti, per i quali mette a dispo-sizione non solo spazi ma anche nuove tecnologie, e in un polo culturale di una certa rilevanza all’interno della città e aperto ai suoi cittadini.

di Martina Brandi

APPELLO AI CARDUCCIANIViSTE LE INGENTI SOMME SPESE PER RIVERNICIARE, AMMODERNARE E RIMETTERE A NUOVO GLI AMBIENTI SCOLASTICI, è NEL NOSTRO INTERESSE NON IMBRATTARE Nè DETURPARE IN AL-CUN MODO MURI, ARREDI O APPARECCHIATURE ELETTRONICHE DEL LICEO. DIMOSTRIAMOCI CO-SCIENZIOSI E RISPETTOSI NEI RIGUARDI DI CIò CHE è NOSTRO MA NON CI APPARTIENE.

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° 212

1. Nessuna difficoltà, tutte le materie si iniziano da capo e i 5 anni al Carducci danno sicura-mente un ottimo metodo di studio e capacità di concentrazione 2. L’approccio è sia scientifico che umano e dal 3^ anno anche pratico 3. Bisogna avere molta determinazione perché si studia tanto, tanto, tanto. Materie os-tiche? Per ora anatomia. 4. Si molto selettivo. In questo il classico non aiuta, bisogna studiare tanto da soli e recu-perare le lacune nelle materie scientifiche ma la gente del classico che entra è molta, non sarà un caso (anche del Carducci siamo un po’) , quindi basta rimboccarsi le maniche! Nes-suna particolare predisposizione. 5. Statale di Milano Polo Centrale. Nel complesso molto bene, ma dipende come sempre dagli insegnanti che capitano. Le iniziative ci sono, basta saperle sfruttare. Il rapporto tra compagni è come in tutti gli ambienti scolastici; da noi si è creata molta collaborazione e amicizia ma dipende dalle persone. 6. si mi piace molto, lo consiglio a chi ha abbastanza determinazione e voglia. Anche se è lungo è un percorso molto affascinante e che dà molte soddisfazioni!

giulia freddi, medicina in statale, ii anno

1. Il fatto di passare da un liceo classico a una facoltà scientifica penalizza da un punto di vista matematico/fisico, ma devo dire che gli anni passati al Carducci mi hanno insegnato un metodo, ponendo le fondamenta che permettono di recuperare in breve tempo. Inoltre al primo anno di Medicina le difficoltà derivano da materie nuove, anche per gli scientifici, come l’istologia o l’anatomia che sono decisamente materie di studio per cui bisogna pas-sare molto tempo sui libri (e in questo il Carducci aiuta) e che non richiedono particolari competenze. 2. Il programma del primo anno di Medicina è diverso a seconda del polo; nel mio caso si studiano: chimica, fisica, e materie nuove come introduzione alla medicina (un corso com-posto da diverse materie: igiene, storia della medicina, bioetica e una sorta di statistica), istologia (studio della cellula e dei tessuti, affiancato anche allo studio dell’embriologia) e anatomia (l’ esame-incubo del primo anno ma decisamente il più bello!). 3. Le ore di lezione sono variabili. Il primo semestre del primo anno è decisamente pieno (circa 6 ore al giorno), ma già dal secondo semestre le ore diminuiscono (si fa solo anatomia e biologia), ora invece (primo semestre del secondo anno) ho solo 14 ore a settimana. Ma lo studio individuale è sempre molto e probabilmente tende ad aumentare con gli anni. Le materie considerate più ostiche sono: anatomia, fisiologia e patologia. Questi infatti sono gli studi base per poter capire le materie cliniche che si affrontano dal 4° anno e che ov-viamente non possono essere più facili. 4. Il test per entrare a medicina comprende domande di logica, cultura generale, chimica, fisica, matematica e biologia. Io lo ho preparato in circa 20 giorni di studio pieni, che du-rante l’estate sono tanti (per questo è meglio non affrontarli da soli), e ho partecipato ai Prepost: 3-4 giorni di aiuto per il test organizzati da ragazzi delle facoltà sanitarie a cui ho contribuito quest’anno. Penso che per passare il test sia più utile saper ragionare e avere dimestichezza con il tipo di verifica piuttosto che sapere tutto di tutto (c’è sicuramente qualcosa che non saprai!!) ma andare in panico alla prima incertezza. 5. Frequento la facoltà di Medicina e Chirurgia della Statale di Milano al Polo Centrale. La qualità dell’insegnamento è buona, ma ovviamente certi corsi sono fatti meglio di altri e certi professori sono più competenti e appassionati di altri (come al liceo del resto). L’università offre la possibilità di partecipare a corsi elettivi svolti in laboratori di ricerca o reparti che permettono di ottenere un certo numero di crediti da raggiungere entro i 6 anni. Pochi sono gli studenti che fanno anni all’estero o erasmus, ma la possibilità esiste. 6. Sono soddisfatto della mia scelta perché sto cominciando a capire come siamo fatti e quali sono i meccanismi affascinanti che stanno alla base anche delle più semplici funzioni dell’organismo. Per questo consiglierei la medicina a chi è innanzitutto curioso e, in qualche modo, artista.

sergio cereghini, medicina in statale, ii anno

le domande1) Dopo un percorso di 5 anni al Carducci, quali difficoltà si riscontrano scegliendo la facoltà di (...) dal punto di vista della preparazione ai contenuti, del metodo e delle ore di studio? In cosa invece si è facilitati?

2) A cosa va incontro lo stu-dente che sceglie la facoltà di (...)? Che cosa si studia, di fatto? Quali competenze si assumono? A quali aspetta-tive risponde un tale corso di studi?

3) Quanto è impegnativa questa facoltà in termini di ore di lezione + ore di studio individuale? Ci sono materie riconosciute dalla maggior parte come particolarmente ostiche?

4) E’ previsto un test d’ammissione? Se sì, quanto lo hai trovato difficile, quanto e come ti sei preparato, quanto il risultato incide sulla pos-sibilità di essere ammessi o meno all’università? In gen-erale, quali competenze sono richieste allo studente di (...), in cosa dev’essere portato?

5) Quale università (milanese/italiana/estera) frequenti? Come hai trovato la qual-ità dell’insegnamento? Quali servizi (laboratori/stage/scambi....) offre la tua uni-versità? Com’è l’ambiente che si viene a creare fra gli stu-denti?

6) Sei soddisfatto della scelta che hai fatto? Perché? Con-siglieresti la tua facoltà (o il tuo corso nello specifico)? Perché?

7) Se sei al terzo anno: quali sbocchi concreti per il futuro offre il tuo corso di studi? Sai già cosa vuoi fare dopo?

Cosa fare dopo, questo è il dilemma. Beati quelli, pochi, che sin dalla prima elementare hanno già idea di “cosa fare da grandi” e fin da allora non hanno fatto altro che perseguire quel sogno. Per gli altri comuni mortali, invece, arrivati solitamente a questo punto della vita, il futuro si prospetta come un grosso punto di domanda, a partire dalla scelta dell’università. Ecco dunque che mille dubbi si affollano nella testa. Ed è proprio questi dubbi che le seguenti pagine di orientamento tentano di risolvere, almeno

parzialmente. Si succederanno, perciò, di numero in numero, le risposte che ex carducciani hanno dato alle nostre domande, ogni volta in merito a facoltà universitarie diverse, una scientifica e una umanistica. Purtroppo, per motivi di spazio, alcune risposte sono state tagliate; troverete tuttavia la versione integrale sulla pagina facebook dell’Oblò, unitamente agli scritti di altri ex carducciani. Tutti loro, inoltre, hanno dato la disponibilità a essere contattati privatamente per ulteriori chiarimenti. Buon orientamento!

cronache carducciane medicina

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Novembre - Dicembre 2013 | L'Oblo' sul Cortile 13

1. A lettere classiche si affrontano per lo più materie con cui si ha una certa dimestichezza e su cui si è già sviluppato un metodo di studio, quindi le difficoltà sono minori rispetto ad altri corsi di laurea. Tuttavia si incontra un livello omogenea-mente alto e soprattutto all’inizio mi è sembrato di avere qualche lacuna perché non padroneggiavo con destrezza ogni minimio dettaglio, ma mi sono resa conto che il Carducci aveva supplito a una preparazione meno “nozionistica” fornen-domi solide basi su cui poter lavorare, oltre che tutti gli strumenti per sviluppare senso critico e capacità di ragionamento. 2. Chi sceglie lettere si dedica principalmente alla letteratura ma ci sono anche materie come la filologia o la linguistica che per-mettono di acquisire competenze di tipo tecnico e che costituiscono un supporto alla letteratura stessa. Per il versante antichis-tico, nello specifico, non ci sono versioni da tradurre se non per un brevissimo periodo prima degli scritti, la traduzione in aula è svolta rapidamente senza indugiare troppo sulla ricostruzione dei periodi o sulla grammatica.3. La frequenza non è obbligatoria per nessun corso, ma per alcuni è quasi necessaria, sia per capire meglio sia per non ritrovarsi un programma infinito. Lo studio a casa varia principalmente a seconda del valore in crediti di ciascun esame, dalle due settimane ai due mesi.4. L’accesso è libero, ma è previsto un test valutativo per chi abbia riportato meno di 70/100 alla maturità. 5. Frequento la Statale di Milano. La preparazione dei professori è sempre molto alta, ma purtroppo non sono sempre stata soddis-fatta del loro approccio alla materia e agli studenti. Alcuni tendono a semplificare, altri al contrario indugiano eccessivamente su particolari secondari, arrivando a fare un’autopsia al testo più che a renderlo vivo. C’è poi una tendenza a una concezione elitaria della cultura e dell’insegnamento che spesso sfocia in atteggiamento di supponenza o in una scarsa considerazione degli studenti. Tuttavia non mancano felici eccezioni di professori che ricercano un costante confronto coi ragazzi. Tra i servizi che offre la Statale ci sono vari laboratori, il progetto Erasmus con circa 15 sedi convenzionate e stage di formazione presso aziende e associazioni. Per quanto riguarda il rapporto con gli altri studenti in generale ho trovato un ambiente vivace e tante persone con cui scambiare opinioni, consigli, e condividere passioni.6. Sono molto soddisfatta della mia scelta: sotto esame mi manca frequentare i corsi, vivere l’università e vedere i miei compagni. Quando studio, pur nella comprensibile stanchezza e a volte esasperazione, rimango convinta che non potrebbe esserci un’altra facoltà capace di donarmi lo stesso entusiasmo. Consiglierei lettere classiche, ovviamente a chi nutre una viva ed autentica pas-sione, per la stessa ragione per cui si può consigliare un liceo classico: una preparazione solida, ampia, che predispone a una dut-tilità in più campi. 7. Quando dico che studio lettere classiche la domanda che mi rivolgono può essere, in alternativa:-“Ma poi che cosa vai a fare?” (intendendo in realtà “Ma poi rimani disoccupata?”). Lettere non prepara ad un lavoro preciso, ben riconoscibile, come architettura o medicina, e perciò la tendenza è credere che non esista un’effettiva possibilità di occupazione. E se invece pensassimo che proprio il non tracciare confini netti induca a una versatilità in grado di aprire più porte? Una prova è data dalla varietà di magistrali a cui si può accedere: editoria, archeologia, filologia, critica dell’arte,musicologia… - “Quindi vuoi insegnare?”. L’insegnamento è forse lo sbocco lavorativo più classico e naturale, pur con tutti le problematiche di questo periodo, tra concorsi e precariato. Da parte mia, sono certa di voler proseguire con la magistrale in “Filologia, letterature e storia dell’antichità” (un nome altiso-nante che indica semplicemente la seconda tranche di lettere classiche), ma ancora non ho idea del lavoro che mi piacerebbe fare. Per il momento mi godo il momento dello studio, sperando di chiarirmi le idee man mano!

nadia brigandì, lettere classiche in statale, iii anno

lettere1. Certamente aver frequentato il liceo classico facilita il percorso di chi decida di iniziare la facoltà di lettere moderne. Non-ostante si sia abituati ad una imponente mole di studio, però, l’approccio con l’università presenta sempre dei rischi: io stessa al primo anno ho pensato che non ci volesse poi tanto a preparare un esame per poi ritrovarmi con quattro libri da studiare in due settimane. Il mio consiglio quindi è questo: non si deve pensare di essere preparati a tutto “solo” perchè si è fatto il Carducci. 2. Non si studia solo letteratura, si affrontano anche materie mai viste (linguistica, filologia romanza e così via). Si ha la quasi completa responsabilità nella scelta del proprio piano di studi, questo vuol dire che solo 5 o 6 esami sono davvero obbligatori, per il resto dovrete scegliere tra vari elenchi di esami, anche di altre facoltà (geografia, filosofia, beni culturali ecc.). In ogni caso af-frontare questa facoltà porta ad avere una conoscenza a 360° sulla letteratura. Si tratta di un corso per cui è fondamentale fare una specialistica per avere uno sguardo attento sui singoli autori.3. Per quanto riguarda le ore di lezione forse la mia è la facoltà meno “impegnativa”: nessuna lezione è obbligatoria, anche perché si hanno molti corsi a scelta. Altro discorso, invece, sono le ore di studio: questo è un corso che presuppone uno studio approfondito di un’intensa mole di libri (dai 3 agli 8, dipende), quindi per riuscire a fare le cose con calma bisogna prendersi un po’ di tempo e tendenzialmente non dedicare meno di 3/4 settimane ad un esame. In generale i corsi riconosciuti come parecchio ostici sono Letteratura Latina, Linguistica Italiana.4. Non è previsto alcun test, ma se si prende meno di 70 alla maturità si deve fare un piccolo esame di accertamento delle proprie conoscenze, una cosa assolutamente formale e molto banale.5. Io frequento la Statale di Milano. Finora mi sono trovata piuttosto bene, il livello dell’insegnamento è alto (a parte rare ec-cezioni). A mio parere però non vengono affrontati abbastanza da vicino i testi, e spesso in alcuni argomenti si finisce con l’avere una preparazione solo manualistica. In Statale c’è un ampia scelta di laboratori (bisogna farne 2 entro i 3 anni). Un problema della statale è l’organizzazione quindi se le cose non vai a cercartele probabilmente potresti non scoprirne mai l’esistenza. 6. Sì, in generale posso dirmi soddisfatta, ho scelto bene, continuo ad essere interessata al corso che ho scelto come al primo anno. Certamente la consiglierei perchè chiunque si senta veramente appassionato dagli studi letterari troverà un ambiente stimolate e insegnanti validi. 7) Sì, sono al terzo anno e ho già deciso che frequenterò la specialistica. Per quanto mi riguarda quello che vorrei fare dopo è iniziare ad insegnare italiano e latino al liceo. Si sa però che parlando degli sbocchi lavorativi di lettere che si entra in un campo difficile.

giulia biolcati,lettere moderne in statale, iii anno

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° 214

cultura

Fiumi e fiumi di persone ac-correvano per un libro, una lettura, un dialogo, uno spettacolo, una mostra. Fiumi e fiumi di parole scor-revano da una bocca a un

orecchio. Anche quest’anno, come il precedente, dal 21 al 24 novembre Milano ci ha regalato Bookcity: un evento sempre e comunque nuovo. E’ un’iniziativa voluta dal Comune di Milano e dal Comitato Promotore, composto da vari sponsor. Molti tra gli editori italiani si sono rimboccati le maniche realizzare questa mani-festazione culturale, incentrata sul libro, la lettura e i lettori e che si è sviluppata in una serie di incontri in spazi pubblici di Milano, a partire da Piazza Castello, dedicando anche un giorno alle scuole. A disposizione per tutti un programma da cui scegliere l’incontro ideale tra un lungo ordine di proposte. Dalla semplice lettura ad alta voce di un libro antico ad una aperta riflessione su un testo nuovo, da uno spettacolo teatrale a una con-ferenza scientifica: ogni personalità ha scelto un modo diverso di presen-tarsi. Uno spazio accogliente e aperto a tutti, adulti e bambini: ciascuno ha avuto la possibilità di trovare un an-golino per sé. Per farvi assaporare giusto una punta degli incontri che si sono tenuti, vi propongo qualche frammento dalle relazioni di studenti carducciani:

Diversamente Svezia, di Beatrice Sacco“Diversamente” in che senso? La Sve-zia è un Paese modello e ideale agli occhi di tutti, dove tutti vorrebbero andare a vivere, dove tutto funziona, dove la società è perfetta e si prende

cura del cittadino, ma solo alcuni han-no saputo coglierne il cosiddetto Dark Side, il lato oscuro, e questo è ció che l’autore Marco Buemi ci ha spiegato. Infatti la Svezia è uno Stato-paradosso perché al suo interno ci sono una se-rie di problemi latenti, riguardanti in particolare il fenomeno della violenza sulle donne e quello degli immigrati (disuguaglianze e discriminazioni so-ciali), che rendono questo paese in contraddizione con se stesso.

Il codice Trivulzianodi Irene BusoliIl codice Trivulziano di Leonardo da Vinci è un libretto degli appunti in cui Leonardo scriveva per associazione di idee tutto quello che gli passava per la testa e spesso troviamo pagine con disegni artistici, (connotati da una bellezza incomparabile o al contrario mostruosi dato che riteneva la bellez-za e la bruttezza i due poli attraverso cui si impara la vita umana) associati a poderose liste lessicali che ci proi-ettano la simultaneità sorprendente della sua mente.

Bankitalia of America insieme al Cas-tello Sforzesco si stanno impegnando per crearne una copia online, affinché quella originale non si deteriori e per far sì che sia reso accessibile a tutti.

Città e adoloscenti,di Giulia Villa“Educare al futuro”, questo è il ti-tolo scelto per il libro di Lamberto Bertolè e Paolo Tartaglione, due dei quattro professionisti invitati a ques-to incontro di bookcity e partecipanti alla comunità educativa ARIMO per il sostegno di adolescenti con problem-atiche familiari, vittime di bullismo o con problemi con la giustizia. Un libro che nasce dalla voglia di raccontare l’esperienza di giovani che si tro-vano in un contesto educativo molto carente e che per questo frequen-tano comunità che permettono loro di guardare al proprio futuro. Infatti un problema che accomuna tutti gli adolescenti, dal più bisognoso d’aiuto al più autonomo, è cercare la propria identità e ricevere un’educazione utile per aprire le porte del destino.

di Beatrice Sacco

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Novembre - Dicembre 2013 | L'Oblo' sul Cortile 15

Una realtà sconvolta. Una scelta negata. Una lotta senza fine. Questa è la vita ordinaria degli Shad-owhunters: cacciatori di demoni fin dalla nascita,

evitano che interferiscano con la nos-tra realtà. Ma siamo veramente sicuri di conoscerla? Questo è il mistero che si cela dietro alla saga bestseller Ur-ban Fantasy - Young Adult di Cassandra Clare. Gli Shadowhunters, o Nephilim, sono generazioni che portano con sé sangue di angelo, donatogli tempo fa dall’angelo Raziel, come narra la leg-genda: la loro intera vita si basa su discendenza, abilità e coraggio. Cre-dete che sia la solita nauseante sto-ria d’amore? Pur coinvolgendo varie storie d’amore (come molti altri libri apprezzabili), la saga racconta un mondo ancora sconosciuto a molti, più crudele e intrigante di quanto si possa mai immaginare. I dettagli sono la sua forza: particolari interessanti fanno di questi libri una fresca e pro-vocante novità nella realtà che ab-biamo sempre conosciuto, o meglio, creduto di conoscere. La quotidianità si scontra con problemi che, pur es-sendo completamente diversi, sono spesso paralleli a quelli che da sem-pre affrontiamo anche noi: due mondi che si fondono, desideri e paure di en-trambi, tutti in un’irresistibile epopea che ipnotizza le più varie fasce di età. La saga è divisa in tre “sotto-saghe”:

The Infernal Devices, The Mortal In-struments e, confermata ma non an-cora pubblicata, The Dark Artificies. Mentre la prima è ambientata nel tar-do 1800, le altre sono ambientate ris-pettivamente nel 2008 e nel 2012, ma - anche a distanza di tempo - la storia alla base dei libri resta un’eccitante realtà parallela, che ha emozionato le più disparate zone del mondo. Della seconda, The Mortal Instruments, è uscito nelle sale italiane a fine ago-sto l’adattamento cinematografico della Eagle Pictures e della Sony Pic-tures del primo libro, Città di Ossa, che vede protagonista la quindicenne Clary Fray, Cacciatrice dal dono molto speciale, il cui destino è indissolubil-mente legato agli Strumenti Mortali, come spiega il titolo: strumenti di immenso potere legati alle origini de-gli Shadowhunters. Il film, diretto dal regista Harold Zwart il cui produttore è Martin Moszkovicz, ha come protag-onisti Lily Collins (Clary Fray) e Jamie Campbell Bower (Jace Wayland). La prima saga invece, parla della giovane Tessa Gray, in viaggio a Londra per andare a vivere con suo fratello Nate dopo la morte della zia: circostanza che potrebbe rivelarsi un inganno in-gegnoso e che la porterà a scoprire un mondo completamente diverso da quello che conosceva. Si trovano fre-quenti collegamenti tra il primo e il secondo episodio che creano un’aura di mistero intorno all’intero mondo

degli Shadowhunters. La storia fa rif-erimento a molti luoghi realmente es-istenti e a vari fatti storici, rendendo appassionante il labile confine tra re-altà e finzione. Un particolare molto interessante consiste nella citazione di libri, famosi e non, all’inizio di ogni capitolo, ma anche tra le righe dell’intera vicenda di Shadowhunt-ers,. I carducciani più accaniti trover-anno non di rado citazioni, formule, motti e molto altro in latino, lingua alla base del Mondo delle Ombre. Sono già usciti in kindle i primi libri della saga spin-off Cronache di Mag-nus Bane, personaggio spesso consid-erato onnisciente, tanto da renderlo misterioso e intrigante agli occhi dei lettori, l’unico a comparire in tutti i libri. Per il 2014 ci sono grandi pro-getti: tra questi la pubblicazione dell’ultimo libro della saga The Mor-tal Instruments (City of Heavenly Fire) e del primo libro dell’ultima (o forse no?) The Dark Artificies (Lady Midnight), nonché l’uscita al cinema del secondo film, Città di Cenere. Tra vampiri e lupi mannari, fate e stre-goni, demoni e angeli, in un modo per nulla stereotipato, la saga di Shadow-hunters è un’epopea coinvolgente, misteriosa e affascinante, una brez-za di novità in qualunque direzione: una nuova verità, un nuovo modo di vedere il mondo, un’ originalità intri-gante. E tu? Pensi di essere all’altezza della sfida?

di Alice De Gennaro

Shadowhunters:prescelti dalla nascita

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° 216

cultura

I computer non sono sempre stati piccoli e compatti come li conos-ciamo, anzi; prima del 1965 erano grossi (occupavano interi stanzo-ni!), costosi e difficilissimi da us-are: solo una ristretta cerchia di

tecnici ne era capace. Questi enormi calcolatori erano impiegati soprat-tutto in ambito militare o per gestire movimenti finanziari, tasse e molte altre funzioni statali; erano estranei alla vita quotidiana e la gente, in un certo senso, li temeva, vedeva in loro uno strumento di controllo da parte del governo.Nel 1962, però, Roberto Olivetti, capo dell’omonima azienda, diede il compito a una squadra di ingegneri di creare un nuovo, rivoluzionario mac-chinario, differente da quelli esisten-ti. Il capo del gruppo, Pier Giorgio Per-otto, propose un’idea rivoluzionaria: un computer personale, accessibile a tutti per prezzo e possibilità d’uso e abbastanza piccolo da stare su un ta-volo. Nei due anni seguenti, si lavorò duramente per realizzare questo pro-getto. Uno dei più grandi ostacoli fu creare una memoria interna che fosse

sia poco ingombrante sia economica; a tale scopo ne inventarono una, chia-mata linea magnetostrittiva. Ancora, dovettero creare un linguaggio di pro-grammazione (quello che serve per interagire col computer) accessibile a tutti; dobbiamo sempre ricordarci che prima di allora i computer pote-vano essere usati solo da pochissimi specialisti. Anche questa difficoltà venne superata. Infine, l’ingegner Perotto ebbe un’ultima, geniale idea: la carta magnetica. Era una carta sul cui retro vi era una striscia magnetica che aveva le istruzioni per far comp-iere al computer determinate azioni;

una volta inserita, la macchina ne es-eguiva i comandi. Questa carta mag-netica non era altro che il predeces-sore dei dischi. Nel 1964 il PC era pronto. Tuttavia la nuova direzione dell’Olivetti non aveva fiducia in questo rivoluzionario oggetto, poiché pensava che, se gli americani non l’avevano ancora in-ventato, allora era inutile.Passò un altro anno e si arrivò l’occasione per presentare la 101: una fiera sul futuro e i progressi tecnologici a New York. In una saletta secondaria dell’esposizione Olivetti, il primo PC fu mostrato al pubblico. Il successo fu immenso e la 101 divenne l’attrazione principale della fiera, lasciando tutti increduli. I giornalisti americani, en-tusiasti, scrissero pagine e pagine su questo miracolo tecnologico, che, tra tutti i suoi punti di forza, aveva anche il prezzo: costava 3’500 $ contro gli almeno 100’000 degli altri computer.La Programma 101 entrò nella vita quotidiana del mondo e ne furono vendute oltre 44’000 unità. La stessa NASA ne utilizzò molte per il progetto Luna. Era il 25 ottobre 1965. Neanche 50 anni fa, un gruppo di ingegneri ital-iani, che aveva osato sfidare i colossi americani, allora leader indiscussi nel campo dell’informatica, aveva appena gettato le basi per il mondo che oggi conosciamo. E pensare che di questo vanto italiano pochissimi sono a conoscenza.

di Pietro Klausner

come gli italiani inventarono il pc

la programma 101

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Novembre - Dicembre 2013 | L'Oblo' sul Cortile 17

Oggi il modo più veloce per comunicare è Inter-net. E prima? Come si comunicavano le pro-prie critiche, i propri pensieri? Quale sfogo

aveva la gente? Per molti, anche solo parlare del ‘900, risulta quasi un rac-conto da libro di storia. Ma quanto ci ha veramente coinvolto questo peri-odo storico? 100 anni di ribellione, di innovazione, di emozioni: 100 anni di arte. Le più grandi correnti artis-tiche come il futurismo e molte altre si sono sviluppate nell’ultimo secolo. Ma come si possono rivivere i fatti di allora, come si può sentire il vento di innovazi-one soffiare anche in noi? La risposta è l’arte. Nell’ultimo secolo la pittura si è fusa con la scultura, il bidimensionale con il tridimensionale. Il museo del ‘900, aperto nel dicembre 2010, è un portale per un altro mondo: infiniti pensieri dipinti su tela o scolpiti su marmo, e racchiusi in un edificio che cat-apulta in una nuova (o antica) realtà. Il museo è strutturato su 5 piani e l’ingresso è gratis per gli Under 25. Partendo da una scala a vortice senza gradini, si arriva man mano al primo piano, e così via, attraverso vari percorsi, fino all’ultimo, dal quale si può ammirare uno dei lati più favolosi di Milano. Una sottile vetrata separa i due secoli e, come in uno specchio, le opere che hanno segnato la storia si riflettono nell’arte che costruiamo noi tutti i giorni, con il lavoro e il desiderio di un

futuro migliore. Il primo quadro che si vede è Il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo, il quale rappre-senta un duro e significativo messag-gio: la miseria, il lavoro, la fatica, il desiderio di una vita migliore, la lotta del proletariato; si muovono insieme, verso un mondo più luminoso, donne, uomini e bambini uniti, per una lotta che è durata fin troppo, e a cui adesso vogliono mettere fine una volta per tutte; questo quadro rappresenta la determinazione, nonostante la situ-azione disperata, di questi individui estremamente poveri: una richiesta,

rivolta anche a noi, non di sognare il futuro, ma di cambiare il presente. Un’altra esposizione degna di nota è quella del quinto piano: oltre a pot-er ammirare Milano nel suo massimo splendore odierno, appesa al soffitto troviamo una fantastica struttura al neon di Lucio Fontana, famoso per i suoi “tagli nelle tele”, alcuni dei quali sono rappresentati nell’apposita sala;

lo scopo di questi tagli era quello di abolire le barriere tra pittura e scultura, fondere l’arte in un solo grande concetto, detto appunto Con-cetto Spaziale; la struttura appesa al soffitto sembra quasi sospesa al di fuori dello spazio-tempo: un’opera ferma per sempre nella sua impostazi-one astratta e irraggiungibile, come lo spazio, come il futuro. Infine si può apprezzare un’esposizione tempora-nea, nel corridoio del piano terra, di un video che rappresenta l’essenza del ‘900: le condizioni degli operai, la fatica, il lavoro; il video sembra vol-

erci catapultare nella loro re-altà e mostrarci chi e in quale modo ci ha portati al nostro presente; la sofferenza che noi non conosciamo, la fatica che, grazie a loro, non prov-eremo mai. Il museo del ‘900 riflette perfettamente la vita del secolo scorso, facendoci al-lontanare, anche se solo per un attimo, dall’oggi, e trasportan-doci in un passato che pensia-mo di conoscere, ma che forse non conosciamo veramente: può sembrare utopia ciò che si è potuto fare in un secolo di lavoro e fatiche, proteste e

guerre. Eppure, ce l’hanno fatta. E noi? Cosa siamo destinati a fare noi? Solo il futuro potrà dircelo, ma una cosa è certa: non possiamo affermare di conoscere veramente il presente, senza prima conoscere il passato. Non possiamo veramente capire la mental-ità dei suoi protagonisti se prima non capiamo le loro emozioni, la loro re-altà, la loro arte.

100 anni su teladi Alice De Gennaro

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18 L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° I

cultura

Digitando su Google ‘pros-tituzione femminile’ compaiono in prima pa-gina una sfilza di siti in-ternet dal titolo “Lotta alla prostituzione”, “Ra-

gazze doccia”, “Allarme prostitute”, “Prostituzione a Milano”, “Baby prostituzione”. Tutta attualità che è bene conoscere: ma perché non spingersi un po’ oltre, per tornare indietro nei secoli fino alle origini di questo fenomeno? E’ una pratica così antica, che è impossibile stabilire con precisione quando sia nata. Per questo motivo è interessante analiz-zare la prostituzione femminile delle due più grandi antiche civiltà eu-ropee, quella greca e quella romana.

A Roma la presenza delle prostitute nella società e le relazioni amorose che intrattenevano specialmente con uomini giovani non erano fatti anoma-li ma venivano definite da Cicerone nella Pro Caelio “consuetudi-ni degli antenati e usanze dei contemporanei”.Nel mondo greco e romano era una vera e propria attività che a certi livelli godeva di est imazi-one so-ciale. Le c a r a t t e r -istiche che accomunava-no le numer-ose categorie di prostitute di ter-ritori limitrofi o dis-tanti erano: la retribuzi-one del rapporto sessuale, la pluralità dei rapporti e l’assenza di coinvolgimento emotivo in essi. La prostituzione poi prevedeva cause, fini, ma soprattutto denominazioni differenti. In Grecia e nella Magna

Grecia per l’influenza fenicia si svi-luppò prevalentemente la prostituzi-one cosiddetta “sacra”. A Roma, oltre a questa, troviamo la “profana” svolta dalle etere, dalle arpiste o dalle musicanti. Poi vi erano le prostitute di livello inferiore, le mer-etrici. Tra di loro c’erano molte donne straniere prese come bottino di guerra e rese schiave. Mentre le etere erano emancipate, di nobili origini e avevano contatti esclu-sivamente con uomini pubblici, le mer-etrici erano proprietà di un lenone, un protettore, e a partire dall’impero di Caligola, furono registrate e tas-sate sul denaro retribuito. Si trova-vano facilmente presso i lupanari ma erano presenti anche nei luoghi pub-blici molto frequentati come osterie,

alloggi, forni etc.. Si riconoscevano dalle toghe maschili che dovevano indossare sopra gli abiti. Queste pov-erette che di madre in figlia, spinte

dalla miseria, si procuravano il denaro con il proprio corpo erano screditate agli occhi della società e non pote-

vano assolutamente spo-sarsi con un uomo libero. Plauto giudica le mer-etrici molto attrattive come personaggi comici. Nelle commedie plautine queste fanciulle sono sp-esso oggetto di desiderio dei protagonisti e alla fine delle vicende vengo-

no riconosciute come di liberi natali o altrimenti vengono riscattate dai loro ruffiani con del denaro, potendosi così unire con gli amanti in un matrimonio accettabile. La figura del lenone nella società era quella di un uomo intol-lerante al lavoro che viveva dei prof-itti delle sue donne riscuotendo ogni volta la metà dei loro guadagni. Il fenomeno di prostituzione femminile

più interessante dell’antichità è però la prostituzione sacra,

perché questa pratica è distante dal nos-

tro mondo ed è qualcosa che

difficilmente riusciamo ad immaginarci dal mo-mento che era consid-erata un obbligo re-ligioso.

La “iero-por-neia” presenta

in sé due dis-tinzioni. La prima

forma di prostituzi-one sacra era quella tem-

plare, che era permanente, in quanto praticata da donne con-

sacrate che vivevano in un santuario dove tra gli altri compiti, quali la sor-veglianza, la cura del tempio e altre mansioni ad esso collegate, vi era ap-punto la vendita del proprio corpo,

di Martina Locatelli

il mestierepiù antico del mondo

Il fenomeno di prostituzione

femminile più interessante

dell’antichità è però la

prostituzione sacra.

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Novembre - Dicembre 2013 | L'Oblo' sul Cortile 19

ritenuta del tutto consueta. Proba-bilmente per questo motivo le fonti che ci documentano la prostituzione templare sono scarse. Possediamo no-tizie riguardanti singole situazioni e manifestazioni di questo fenomeno, sicuramente presente presso il san-tuario etrusco-fenicio di Pyrgi, porto sulla costa laziale, e quello di Erice in Sicilia. Sembra infatti che i Feni-ci entrando in contatto con le coste italiane del Mediterraneo e fondan-do colonie in Sicilia abbiano portato con sé la venerazione e la devozione per la loro dea della fertilità, della fecondità e della guerra Astarte, cor-rispondente alla greca Afrodite. Il suo culto includeva la prostituzione delle templari che ne erano al servizio. Furono costruiti così in queste zone della penisola dei santuari in onore della Grande Madre fenicia e si dif-fuse conseguentemente anche qui il rituale della prostituzione sacra. Fa-mose erano allora le “scorta pyrgen-sia”, come il poeta Lucilio chiamava le meretrici di Pyrgi. Ad Erice Astarte fu identificata con la Venere Ericina e le sacerdotesse del tempio erano serve di questo luogo sacro, ogni loro bene era proprietà del santuario. Si svincolavano da questo legame com-prando la propria libertà e diventando liberte. Secondo le testimonianze di Diodoro Siculo, grande storico del I se-colo, in questo santuario si recavano spesso consoli, pretori e notabili rom-ani, che, quando venivano in Sicilia, non mancavano di onorare il tempio di Erice, intrattenendosi con donne in grande allegria perché in questo modo, scriveva Diodoro, rendevano gradita alla dea la propria presenza. Se da una parte non possiamo stabilire con certezza quale fosse la reale con-dizione di queste donne, cioè se fos-sero devote al tempio oppure prosti-tute comuni, che qui esercitavano il loro mestiere, dall’altra si riconosce il legame con il culto divino che carat-terizzava queste unioni. Lo stesso vincolo profondo che gli an-tichi avevano con il “mondo sacro” era causa della prostituzione di giova-ni donne libere in Fenicia, Etruria ed Asia Minore. Queste fanciulle prima di sposarsi erano obbligate a perdere la propria verginità con uno straniero in un tempio di Afrodite, poiché secondo il pensiero magico del tempo questo atto era considerato pericoloso e comportava rischio di contaminazione

per il marito. Si parla in questi casi di prostituzione sacra circoscritta a singoli momenti e occasioni, quali ap-punto quella prenuziale, che era un rito di passaggio dalla pubertà all’età adulta, quella festiva, e infine quella di adempimento di un voto. In partico-lari periodi dell’anno presso i santuari si svolgevano feste notturne, origine di incontri sessuali, ma anche di stu-pri, e il tempio spesso traeva profitti da questo genere di celebrazioni fes-tive. La terza unione sacra tra quelle menzionate era compiuta per la ne-cessità di sciogliere l’obbligazione contratta verso la divinità in mancan-za di denaro. Infatti i voti che preve-devano d’offrire sacrifici e somme di denaro al tempio avevano un tempo limite di adempimento.

Il denaro ottenuto da ogni prestazi-one sacra apparteneva al santuario, luogo cardine di tutto il meccanismo in questione. I santuari erano sedi di grandi ricchezze e si costruivano ap-positamente nei luoghi di maggiore traffico. Edifici dalle forme più svari-ate, che si scagliavano imponenti e maestosi sulle dolci alture greche, immersi nel silenzio della natura mediterranea. Un’entità misteriosa ne è signora e lì rivolge il suo sguar-do, attendendo sacrifici. Il suo nome richiama l’atto d’amore (in greco Αφροδίσια ζείν) e come dea delle un-ioni sessuali è pertanto coinvolta in tutta la sfera della sessualità, anche per il fenomeno della prostituzione, sia sacra che profana.

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° 220

cultura

Un giorno amavi la città/perchè fu la tua giovinezza. Ma che ti/scalda/ora in un tuffo al cuore se svolti l’angolo/con ali di bitume ai calcagni?/Non quel volto selvaggio e patetico che conobbe-ro gli/amici,/ma la brace discreta che ti consuma/con il tempo, non-eterna salamandra./Qui sto più a mio agio che dentro un vecchio/abito, è il mio corpo che sente usure/morsi, s’intorpidisce con il sonno, si stira la mattina/in un grigio fumoso delicato come una per-la./In una parola: è la città dove invec-chio, dove imparo/ogni giorno a ten-dere al centro.

(“Perchè amo questa città” di Giuliano Gramigna)

Per uesto numero è andata così; ho scelto di raccon-tarvi due luoghi a mia avviso straordinari non tanto per il loro valoro artistico bensì per l’atmosfera che li caratteriz-

za e nella quale non si può fare a meno di immergersi con grande piacere.

Corso Como 10 - Corso Como: pagante, un po’ “zarro”, pieno di gente “ me la tiro perché c’ho il cash”. Bene, consa-pevoli di ciò, recatevi pure con animo sereno e nobile sorriso verso il cuore pulsante del corso, al numero 10. Non potete sbagliarvi: l’ingresso che vi in-teressa è sovrastato da un gigantesco mosaico che annuncia “CORSO COMO 10” e su ogni lato è circondato da pi-ante rampicanti che gli conferiscono un aspetto incantato. Oltrepassato il por-tone, vi ritroverete in un affascinantis-simo cortiletto interno: ovunque piante, alberelli, cespugli in mezzo ai quali, al calar della sera, vedrete brillare caldi lumini variamente dislocati fra gli el-eganti tavolini in ferro battuto lì pronti ad ospitarvi per un delizioso aperitivo. Corso Como 10, infatti, è un locale...

ma non è solo un locale. Naturalmente, se vi fermerete a ristorarvi, non aspet-tatevi di degustare il solito cocktail al prezzo proletario di 7 euro: vi spenner-anno, come è facile immaginare, ma in cambio sarete immersi nell’eleganza più pura e senza dubbio vi sentirete un po’ signori. Mentre vi starete godendo questa vertigine, insieme al raffinatis-simo cocktail che avrete ordinato, spiatevi at-torno con aria disinvolta e curiosate fra gli ec-centricissimi tipi umani che vi circondano, ric-chi dalla punta dei piedi alla punta dei capelli, anch’essi compresi fra le attrattive del locale. Se poi sceglierete di stare all’interno, la vostra attenzione sarà carpita prevalentemente dal modernis-simo design dell’arredamento e dal gio-co di specchi, bagliori e luci soffuse. Es-perienza finita? Nossignore. Se arrivate all’ora del tramonto, e ve lo consiglio vivamente, fiondatevi in terrazza! Non mi è tutt’ora chiaro se la terrazza fac-cia parte del locale, poiché la sera chi-ude e in generale non è mai affollata di gente, ma questo è un bene. L’accesso è leggermente nascosto e se non ve lo indicassi non vi verrebbe in mente di prendere le scale appena sulla sinistra rispetto all’ingresso del locale. Seguen-do questo percorso, tuttavia, vi trover-ete in una grande terrazza, assai tran-quilla, arredata con eccentriche sedie e poltroncine che ben si combinano con la natura del luogo. Di fronte a voi, an-tiche case a ringhiera sbarrano la visu-ale sul corso, così da isolarvi in un clima di pace. Ma non dimenticate, siete a due passi da Garibaldi, a due passi dagli altissimi grattacieli di vetro che vedrete stagliarsi a davvero poca distanza da

dove vi trovate. Qualsiasi cosa ne pen-siate, la loro vista da quest’angolo di città è uno spettacolo davvero mozzafi-ato. Li vedete troneggiare alti davanti a voi, poiché spuntano come giganti fra i tetti delle basse case che vi circondano, mentre i colori del cielo al tramonto, variamente riflessi sulle pareti a spec-chio, producono giochi di luce e guizzi

cangianti in ogni momen-to. Un posto ideale per una chiacchierata con un amico o per una lettura pacifica, o semplice-mente per lasciar cor-rere i pensieri insieme ai colori sui vetri fino al loro lento sbiadirsi e con-fondersi. Un po’ a malin-cuore tornate di sotto,

al primo piano che prima avevate at-traversato di corsa, e soffermatevi alla mostra, mai la stessa, che di solito oc-cupa la vasta sala che si affaccia sul corridoio. Fotografia, pittura, ogni volta varia, ma ciò che rimane costante è il tratto di originalità, e a volte eccentric-ità, che sempre le caratterizza. Per non parlare poi dello “shop”, se così può es-sere chiamato, della mostra. Questo, invece, permanente, raccoglie i cata-loghi della mostra presente e di tutte quelle passate ed espone in vendita og-getti e pezzi d’arredamento bizzarri, ma così bizzarri, che se foste milionari non avreste un attimo d’esitazione a comprarli.

Naviglio Grande - Ancora sopravvivono, a sud di Milano, due dei numerosi Navigli che anni addietro percorrevano in lungo e in largo la nostra città, utilissimi per lo spostamento e il trasporto di merci. Oggi, purtroppo, la maggior parte di questi corsi d’acqua è stata coperta, ma la toponomastica ancora ci suggerisce i

di Martina Brandi

cantaMI LA NOstra città, o Musa...

Vi spenneranno, come è facile immaginare, ma in cambio

sarete immersi

nell’eleganza più pura.

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Novembre - Dicembre 2013 | L'Oblo' sul Cortile 21

luoghi in cui un tempo un corso d’acqua sostituiva cemento e asfalto. Dico pur-troppo perché penso che il fascino di una città sia grandemente accresciuto dalla presenza di più o meno vaste distese d’acqua (Venezia, Genova, Roma, Fire-nze...). Se anticamente, infatti, le città sorgevano per motivi strategici presso il mare o il corso dei fiumi, oggi, che le necessità di un tempo sono ampiamente soddisfate da altri mezzi, l’acqua man-tiene ancora su di sé una grande attrat-tiva, tanto è vero che intorno ad essa si sviluppano i cuori della “movida” cit-tadina. Questo è senz’altro dovuto alla bellezza degli scenari che sempre, e sempre diversi, accompagnano la pre-senza di un corso d’acqua: i giochi di luci e riflessi, il rincorrersi placido e ipnotico delle onde, i mille colori che variano ad ogni minimo cambiamento di luce. E dunque, attratta anch’io da questi luoghi, appena posso mi rifugio sul Naviglio Grande, dove un’atmosfera particolare mi accoglie sempre e im-mancabilmente e avviluppa, almeno per il tempo che si rimane sotto il suo mag-ico influsso, tutte le preoccupazioni. Il Naviglio Grande è bello a qualsiasi ora e in qualsiasi stagione: in estate, quando prima dell’alba si possono osservare le anatre destarsi intorpidite dal sonno per poi frangere delicatamente la superficie argentata dell’acqua ancora immobile; in autunno, quando l’aria ingiallita ma ancora tiepida del pomeriggio permette

di sedersi lungo rive, con i piedi pen-zoloni, e leggere ininterrottamente per delle ore, fino a quando ci si accorge che è calata la sera in inverno, quando l’aria gelida è riscaldata dalle luci do-rate che filtrano attraverso le finestre delle case dell’alzaia e le vetrine dei negozi. Il Naviglio Grande, in effetti, è circondato da mille locali dai target più diversi, che in ogni stagione colonizzano le rive pedonali con i loro tavolini ed ombrelloni, creando delle location per-fette per un aperitivo. E poi piccole bot-teghe e negozietti tra i più curiosi e vari si alternano tra un portone e l’altro: boutique di abiti vintage (costosissimi, naturalmente, e un po’ hipster!), più di una vetrina di antiquariato, negozi di libri vecchi, ben due negozi di dis-chi in vinile (il Discomane, sulla sponda destra, è senza dubbio il più fornito), una famosa nonché ottima ghireria, at-elier espositivi e non poco stravaganti, un libraccio che vende TUTTO a 2 euro. Potete dunque decidere di saltellare di negozio in negozio, da una sponda all’altra del fiume attraverso i numerosi ponticelli, facendo attenzione, di tanto in tanto, a buttare un occhio in uno dei portoncini delle abitazioni private: soli-tamente vi affaccerete su un cortiletto circondato da vecchie e basse case di ringhiera, e avrete così l’impressione di aver fatto un salto indietro nel tempo, nella Milano in cui le porte di casa si tenevano aperte e il via vai di vicini era

continuo. Decidendo di percorre il Nav-iglio in bici, si può arrivare anche più lontano: arrivati fino alla fine del tratto pedonale, sulla sponda destra, la strada prosegue dritta verso la circonvallazi-one esterna. Mentre la riva sinistra è decisamente trafficata, quella destra è attraversata solo da qualche macchina e cosicché è possibile di procedere tran-quillamente. Viaggiando in inverno, al calar del sole, vi troverete a seguire un Naviglio che sembra proseguire dritto sino all’orizzonte, dove nel cielo rosso-viola si stagliano le sagome degli ultimi grattacieli, avvolti da una leggera fos-chia. Se avrete fortuna potrete correre insieme ai veloci canottieri che si al-lenano sull’acqua, slittando via veloci. Superata la circonvallazione, che attra-versa il Naviglio come una sopraelevata, raggiungerete in poco tempo la chieset-ta di San Cristoforo, molto particolare all’interno poiché il complesso nasce dall’unione di due diverse chiese, mol-to suggestiva all’esterno, dove le sue forme rosse di cotto si stagliano contro il blu del cielo. Ripercorrendo il tragitto sulla via di casa, una tappa obbligatoria è la gela-teria - creperia situata proprio in cima al Naviglio, dove potrete gustare deli-zie per il palato in ogni stagione, in un piccolo locale elegante e accogliente in compagnia. Se siete fortunati chiedete di Johnny e dite che vi mando io!

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° 222

INGLORIOUS REVIEWERSI cavalieri che fecero l’impresa

Prendendo spunto dalla in-tervista all’aiuto regista di Pupi Avati, Roberto Farina (ex carducciano), che leg-gerete nel prossimo numero, vi propongo la recensione

di un film di Pupi Avati, I cavalieri che fecero l’impresa (2001). La prima scena del film è ambientata nel 1272 con la rievocazione dell’impresa –il recupero della Sacra Sindone- di cinque giovani molto diversi tra loro per tem-peramento ed esperienze. Giovanni da Cantalupo (Carlo delle Piane) narra sulla tomba del re Luigi IX di Francia, mor-to durante il ritorno della fal-limentare settima crociata, la storia, raccontata attraverso un flash-back.L’idea generatrice del film è quella di contrapporre alle tante ricerche del Sacro Graal di impronta anglosassone la ricerca della Sacra Sindone. Per i cavalieri si tratta di un processo di formazione, ti-pico dell’epica medievale, in cui “cavalieri non si nasce, ma si diventa”. Così Simon di Clarendon, incaricato dal pa-dre di consegnare una lettera contenente il segreto della Sacra Sindone, che durante il viaggio mostra tutta la sua giovinezza e innocenza (tanto da morire per poi miracolosa-mente resuscitare), Giacomo di Altogiovanni (Raul Bova), fabbro di animo buono, ma pos-seduto dal Maligno, allontana-to dapprima, poi esorcizzato, infine proclamato cavaliere dai suoi quattro compagni, Ranieri di Panico, audace, ma dedito a prepotenze e angherie, Vanni delle Rondini, cavaliere esperto, che ottiene una spada invincibile dal fabbro e lo fa suo scudiero, Jean de Cent Acres, colui che “cuoce il pane del re”, ragazzo dal cuore semplice e deciso, destinato a trovare la sacra reliquia, si ritrovano in-sieme ad affrontare la difficile impresa. In uno scenario cupo e funereo- l’inizio nella Cattedrale di St.Denis, alle porte di Parigi, con le tombe dei reali di Fran-

cia, il ritorno dalla crociata segnato dal senso di fallimento e dalla morte del re Luigi, mostrata nel rituale mediev-ale che enfatizza la fragilità umana- i cinque diverranno cavalieri pronti a compiere la Sacra missione: recuperare la Sacra Sindone, nascosta a Tebe dal traditore Amaury De La Roche. Percor-rendo i paesaggi di un’Italia inedita, ricostruendo consuetudini e riti con fed-eltà storica, attraverso esorcismi, segni

premonitori, tradimenti e profezie, i cinque riescono a recuperare la Sin-done, ma nel tentativo di riportarla in Francia, vengono sconfitti dall’esercito di un traditore: i cinque cavalieri mu-oiono combattendo, dopo essersi giurati fedeltà eterna, consapevoli di appart-enere a un disegno più grande di loro, tanto che le loro voci riecheggiano nella scena finale che ci riporta sulla tomba del re. A differenza di altri film storici

sull’epoca, I cavalieri si caratterizza per la fedeltà storica delle ricostruzioni che non banalizzano il Medioevo, come sp-esso accade in film che intendono solo fare incasso. Un precedente di Medioevo realistico, sia pure di tutt’altro segno e finalizzato al comico, si era avuto nella cinematografia italiana col capolavoro di Monicelli, L’armata Brancaleone, dove la sgangherata banda di “ultimi” e diseredati trova nella coesione e nella

vicinanza la forza di compiere eroiche imprese. Nei Cavalieri che fecero l’impresa la fisicità medievale è rappresentata con violenza che può sembrare eccessiva –il corpo del fabbro messo nel for-no, il corpo del re bollito per ri-cavarne le ossa come reliquie, mentre poco più in là Giovanni e Jean mangiano una zuppa, il cane che sbrana le budella uscenti dal soldato ancora vivo- ma rende l’immagine di un mondo diviso tra spirito e carne. Restano indimenticabili i paesaggi, la faticosa quotidi-anità dell’uomo medievale la cui vita è troppo spesso solo pena e sofferenza. Le vicende stesse di questi cavalieri – ben lontani dagli idealizzati cava-lieri senza macchia e senza paura - che diventano tali malgrado le loro origini, fino a morire per una causa supe-riore, sono l’elemento chiave del film: il loro pellegrinaggio è un percorso di maturazione interiore. La realizzazione mostra un grande impiego di mezzi cinematografici, tanto che nell’ultima scena di com-battimento sono utilizzate

quattro macchine da presa per cinque giorni di lavorazione.Per il cattolico Avati il progetto divino coinvolge tutti, non solo i cinque cav-alieri; ma anche chi non vive la fede non può non sentire il valore solidale dell’amicizia che si costruisce nelle dif-ficoltà e quindi della condivisione di progetti che danno un senso al quotidi-ano faticare.

di Bianca Carnesale

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Novembre - Dicembre 2013 | L'Oblo' sul Cortile 23

di Andrea Sarassi

Stati Uniti, 2022. La situazione socio-economica è ottimale, i tassi di criminalità e povertà sono ai minimi storici e la dis-occupazione sta scomparen-do. Tuttavia, c’è un prezzo

da pagare per questa pace sociale: una notte all’anno la legalità cessa di esistere ed è lasciato libero sfogo ad ogni tipo di violenza. Non esiste alcuna forma di controllo o soccorso in questa “Notte del Giudizio”, per dodici ore vige la pura anarchia. E’ la storia della famiglia di James Sandin, venditore di sistemi di sicurezza, e della sua famiglia i quali da questa notte di follie saranno segnati per sempre. Tuttavia, questo ar-ticolo non è mirato a raccontare un film, bensì a descrivere un tema, un’idea...Dunque, non vi anticipo niente e vi las-cio l’onere e il piacere di guardare il film per vostro conto. Mi interessa ap-profondire con voi una tematica: il rap-porto tra società e socievolezza. Infatti, una delle principali vicissitudini di un cittadino è rapportarsi alle istituzioni

del proprio tempo nella maniera più corretta e personale possibile. Tuttavia che prezzo può assumere questo tenta-tivo di inserimento? Quanto influenza il benessere comune quello personale di ogni uomo? E viceversa? Indubbiamente uno Stato moderno deve basarsi su rigidi principi legali per indirizzare la collet-tività a tenere un comportamento cor-retto, necessario e indispensabile alla vita in società. La legalità, quindi, viene investita anche di un carattere morale ed è su questo punto che James De Mo-naco ha sviluppato il suo film. Il regista ha ipotizzato il conseguimento di uno Stato utopico, perfettamente organiz-zato e praticamente privo di problemi sociali. Questa sistema, tuttavia, mostra una falla, una valvola di sfogo che rende consapevoli su quanto, in realtà, questo Stato sia perverso e distopico: la Notte del Giudizio. Nell’arco di queste dodi-ci ore gli uomini sono lasciati liberi di giudicarsi vicendevolmente e non c’è controllo né limitazione da parte dello Stato, che, anzi, pubblicizza e invita a

partecipare attivamente. Infatti, tale manifestazione non solo è vista positi-vamente e ha il beneplacito dello Stato, ma gli viene desunta anche una moti-vazione ideologica-spirituale. L’uomo, in quanto animale, non potrà mai essere completamente ubbidiente alla ragione, motivo per cui è autorizzato e spronato a sfogarsi e a “purificarsi”. Solamente in questo modo la pace sociale può es-sere mantenuta viva per tutto il resto dell’anno, tutti gli anni. De Monaco, decidendo di raccontare le terrificanti avventure della famiglia Sandin, ci tras-mette un messaggio decisamente nega-tivo su questo sistema. Il punto di vista del film è quello degli innocenti, coloro che non riescono a sfogare se stessi a danno dei propri simili e ad accettare che questo sia il metodo giusto. Coloro che rifiutano uno Stato, che non è più la rappresentazione della volontà comune di vivere in società, ma che invece è diventato uno strumento altolocato di vessazione e maltrattamento sul popo-lo. Voi, invece, che ne pensate?

la notte del giudiziojames de monaco (2013)

visti per voi dai redattori:Alla ricerca di Jane (J. Hess, USA, 2013): adatto alle Orgoglio e Pregiudizio dipendenti.

Fuga di cervelli (P. Ruffini, Italia, 2013): un ottimo lavoro sulla comicità del quotidiano.

La Mafia uccide solo d’estate (P. Diliberto, Italia, 2013): per sorridere lottando contro la mafia.

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° 224

di Federica Del Percio, Julia Cavana, Sara Sorbo

Adele dorme con la bocca schiusa, il respiro è affan-noso come quello di una bambina, la gamba stretta al petto e la guancia sul cuscino. Adele passa in-

sistentemente le mani tra i capelli tor-mentati, le cola il naso quando piange e il suo sguardo sfiora tutto senza po-sarcisi. Adele mangia tutto, sempre, ghiottamente. Non solo gli spaghetti al sugo di suo padre e le barrette nas-coste sotto al materasso, si nutre con la stessa foga di tutta la sua vita: di-vora insaziabile i suoi incontri, le sue emozioni, le sue esperienze. Quando per la prima volta vede Emma, sente che con Thomas non può funzionare, l’attrazione per quella ragazza è in-evitabile e viscerale. E’ appena ado-lescente ma il bisogno dell’altra, così intenso e affamato, vince paura e in-certezza; presto l’amore esplosivo e accecante di una ragazza che si sco-pre e scopre, che è fisica in tutto ciò che sperimenta e sente, e quello es-perto e materno di una donna matura si trasformano in qualcosa di animale-sco, esclusivo e carnale. Il film non è nient’altro che questo rapporto: vivo, presente, reale, che brucia e illumina a lungo e intensamente tutto ciò che tocca. Il regista Abdellatif Kechiche si insinua nella loro relazione, ne scopre i lati più nascosti, che le parole non riescono a raccontare e anche gli oc-chi più attenti fanno fatica a vedere. Vuole che la finzione impersonifichi la realtà, pretende che tutto si spinga oltre, dove talvolta è scomodo guard-

are, che le attrici si infilino nei loro personaggi aderendovi talmente alla perfezione da diventare i personaggi stessi; ed è straordinario alla fine come ottiene che tutto questo av-venga. Sublime è l’abilità con la quale Adèle Exarchopoulos e Léa Seydoux (rispettivamente Adele e Emma nel film) si muovono nelle loro vite finte non imitando, non impersonando, non facendo finta, ma essendo fino all’ultima lacrima e all’ultima smor-fia. Improvvisamente, nel corso della storia, ci accorgiamo di quanto però le anime siano distanti rispetto ai cor-pi. Il rosso appassionato e viscerale di Adele e il blu astratto e controllato di Emma non trovano più un punto d’incontro, mentre l’una ricerca la carne l’altra lo spirito, mentre l’una è terra l’altra è cielo. Il momento nel quale il loro equilibrio giunge ad una rottura coincide nel film con una discussione accesa, scontro in-evitabile di due caratteri che non si comprendono. In nessun’altra parte emerge la loro incompatibilità come in questa scena, curata nei minimi dettagli: Adele piange, cerca di rista-bilire un contatto fisico con Emma, che reagisce fredda e arrabbiata, e la respinge. Ancora una volta pancia contro mente. La maggior parte delle critiche giudica le scelte registiche: le inquadrature nude e crude, rav-vicinate e spesso invadenti sui gesti e sugli sguardi dei personaggi, la col-onna sonora assente, che lascia spazio ai rumori della vita: respiri, tintinnii, fruscii, passi, battiti… e forse, so-

prattutto, il modo esplicito e impu-dico con cui il regista decide di mos-trarci il rapporto sessuale tra le due donne. Ma la nostra opinione è che le due donne sono per la maggior parte soltanto questo: due amanti che sca-vano l’una nel corpo dell’altra, che si respirano, che si necessitano (almeno all’inizio) fisicamente più che spirit-ualmente, in un desiderio dell’altra quasi primitivo. E le scelte di Ab-dellatif richiamano questa fisicità, evidente in Adele più che in Emma: una musica estranea, una ripresa più superficiale o disattenta avrebbero frapposto un velo tra noi e loro. Ben-ché tre ore ci siano risultate un tempo eccessivo e dispersivo per una storia così elementare, e il regista abbia vo-luto spingerla fino ad un punto in cui le scene si susseguivano ripetitive e superflue, uscendo dalla sala abbiamo avvertito inaspettatamente gratitu-dine. Ci siamo sentite grate a un film che non ha nessun’ altra pretesa se non quella di trasmetterci l’amore au-tentico; perché il film di Kechiche non ci racconta l’omosessualità, non denun-cia l’omofobia, non ci spiega cosa è giusto o sbagliato, accettato o condan-nato, ma ci comunica l’amore come sentimento, come attrazione, come bi-sogno, l’amore come qualcosa che lega due persone. Adele e Emma si trovano, si vogliono, si amano e poi soffrono e si separano; e per una volta questo è suf-ficiente, la storia è semplice. Per una volta niente cattivi, cospiratori, eroi o giustizieri.

la vita di adele

INGLORIOUS REVIEWERS

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Novembre - Dicembre 2013 | L'Oblo' sul Cortile 25

di Alice de Kormotzij

Catching Fire

E possa la fortuna sempre essere a vostro favore! E’ la frase più significativa di Hunger Games, film che ha affascinato milioni di ragazzi, la stessa che colpisce di nuovo in “Hunger Games-Catch-ing Fire”. Tratto dal secondo volume della trilo-gia di Suzanne Collins, la protagonista, Katniss

Everdeen, interpretata da Jennifer Lawrence, viene affi-ancata da Peeta Mellark, impersonato da Josh Hutcherson. Il film inizia con il Tour della Vittoria, l’attraversamento in trionfo di tutti i Distretti: i ragazzi si addentrano in foco-lai di ribellione, pronti a diventare rivoluzione. Simbolo di tale evento sembra proprio essere la nostra Katniss, rap-presentata dalla Ghiandaia Imitatrice. Anche il presidente Snow, interpretato da Donald Sutherland, se ne rende con-to e minaccia la ragazza. Snow ha un’idea per eliminare Katniss: è tradizione che ogni 25 anni ci sia l’Edizione della Memoria, in cui i partecipanti degli Hunger Games saranno i vecchi vincitori dei giochiDa qui il film diventa una lotta per la sopravvivenza: si stringono alleanze e si decretano le condanne a morte. Ma che valore hanno questi Giochi, che giochi non sono? Questa pellicola vuole insegnarci qualcosa di più che vivere una storia emozionante: è una storia di coraggio e di lotta per la libertà. I Distretti ormai sono pronti a tutto e vogliono riconquistare la libertà di cui sono stati per troppo tempo privati, ribellandosi con-tro Capitol City. In questo mondo post apocalittico sembra riecheggiare un altro mondo, il nostro. Una scena evidente è quella in cui Katniss e Peeta sono a casa di Snow: un invitato propone al ragazzo di bere un liquido che gli per-mette di rigettare, solo in questo modo potrà assaggiare tutte le prelibatezze del banchetto. Questa abbondanza è antitetica rispetto alla povertà del Distretto 12, nel quale le persone riescono appena a sopravvivere. La stessa po-larizzazione della ricchezza avviene nella realtà, dove es-istono stati troppo agiati e altri troppo sottosviluppati. È in un’ambientazione futuristica questa storia, ma di futuristico ha ben poco: ricchezza e povertà sono sen-za tempo. Ma queste sono allusioni casuali o ben volute dall’autrice?

Nel suo terzo film Zalone è un rappresentante di aspirapolveri, lasciato dalla moglie perché sommerso da debiti. Egli promette al figlio Niccolò una vacanza straordinaria se otterrà una bella pagella. Costretto a mantenere la promessa, Zalone porta Niccolò in un paesino

del Molise, in compagnia della zia avarissima. Qui Checco aiuta Lorenzo, un bambino problematico. La madre di Lor-enzo, ultraricca, li invita a trascorrere la villeggiatura con loro. Checco e Niccolò sono catapultati in un mondo di ric-chi borghesi nel quale Zalone si comporta da pasticcione. La comicità di Checco si basa sulla rottura di regole con-venzionali in situazioni tipiche. Le battute sono esilaranti e hanno il grande pregio di divertire tutti. E’ proprio da questo che deriva l’enorme successo di Zalone. Si osserva qui il tentativo di un salto di qualità: l’ambientazione è più complessa rispetto alle precedenti, ma i personaggi appaiono superficiali e si dissolvono dopo poco tempo. Zalone è sempre divertentissimo e alcune battute risul-tano irresistibili, ma la struttura narrativa è debole e prevedibile e ogni filo narrativo ha una risoluzione troppo immediata. “Sole a Catinelle” rispecchia la comicità mod-erna. L’ignoranza è esasperata e sdoganata. Non si tratta di qualcosa di cui vergognarsi, ma qualcosa che viene ap-prezzato, che fa ridere. Ciò contrasta con la comicità degli anni precedenti (quella di Totò, di Sordi), dove la comicità nasceva dalla farsa, dalla tragedia. Si nota però una comic-ità garbata, che non equivale a quella dei cine panettoni. Zalone non basa la sua comicità solamente sull’indecenza. Il suo modo di far ridere è garbato, spesso geniale e, so-prattutto, riesce ad alleggerire numerosi temi affrontati in modo a volte troppo pesante. “Sole a Catinelle” è un inno alla positività, che però non risponde alle aspettative e ha qualcosa in meno dei due film precedenti. E’ però l’ideale per guardare la crisi che ci tormenta con occhio più ottimista. Andate dunque a vederlo, in compagnia, per alleggerire la mente con un po’ di sano divertimento, che ci ricorda che la realtà, pur problematica, non è così pes-sima se affrontata con il sorriso.

sole a catinelledi Francesca Petrella

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° 226

musica

audio philes “ Because you’re lonely in your nightmare let me in Because there’s heat beneath your winter let me in ”

(Duran Duran, Lonely in Your Nightmare)Duran Duran - Rio (EMI, 1982)

di Edo Mazzi

I Duran Duran, gruppo britannico fondato nel 1978, sono stati un vero

e proprio emblema della musica degli anni ’80. Rio è certamente il loro al-bum di maggior successo,

che li ha condotti a raggiungere la fama mondiale. Un disco molto singolare caratterizzato da melodie in grande stile Pop, in cui i classici strumenti sono affiancati da un grandioso sound creato da Nick Rhodes al sintetizzatore.Il lato A inizia con la title track “Rio”, che con il suo ritmo veloce e allegro, in cui sono inconfondibili i riff del basso di John Taylor, definisce subito il tema della festa, che car-atterizza l’intero disco: «Her name is Rio and she dances on the sand». Segue “My Own Way”, che riprende molto il ritmo del brano che la precede, e anch’essa, quindi, ricca degli inconfondibili suoni realizzati con il synthesizer.“Lonely in Your Nightmare” si differenzia dalle prime due canzoni; notiamo, infatti, un’affievolirsi dei rimbombanti suoni da synth, rendendo così l’atmosfera del brano più piacevole da ascoltare, nonostante il tema cupo.Dal ritmo e dalla melodia molto singolari e anche un po’ familiari, forse perché ripresi di recente in qualche altra canzone, è “Hungry Like the Wolf”, in cui ancora una volta si distinguono facilmente le melodie del sintetizzatore, che, come potete ben capire, all’epoca era uno strumento davvero innovativo, e per questo anche molto usato. Chi-ude la prima parte dell’album “Hold Back the Rain”.“New Religion” apre le danze del lato B con l’avanzare del suo ritmo aggressivo (post-Punk), seguita da “Last Chance on the Stairway”.Assolutamente splendida e unica è “Save a Prayer”, una delle canzoni in assoluto più celebri dei Duran Duran, che, distaccandosi dal ritmo delle precedenti, ne assume uno più lento e armonioso, in cui si può apprezzare la splendida voce di Simon Le Bon, accompagnata da una soave melodia che ricorda quella di un flauto.« Don’t say a prayer for me now, save it till the morning after/No don’t say a prayer for me now, save it till the morning after».L’album si conclude con “The Chauffeur”, canzone carat-terizzata da un ritmo originale, con un susseguirsi di ar-peggi del synthesizer accompagnati dal basso. Un album, quindi, molto particolare e suggestivo e in grado di rap-presentare la tipica atmosfera degli anni ’80, di cui è stato protagonista, densa di divertimento e spensieratezza.

David Bowie - Heroes (RCA, 1977)

di Andrea Sarassi

Questo disco fu re-alizzato da David Bowie nel 1977

presso gli Hansa Studio, in quella che ai tempi era ancora Berlino Ovest. “Heroes” riflette la disp-

erazione e l’oppressione degli anni della Guerra Fredda. La realizzazione di questo disco fu molto sentita e parte-cipata dall’artista, soprattutto la località dello studio di registrazione, che Bowie ci dice essere: «A circa 500 metri dal muro. Le guardie rosse ci osservavano con un binocolo potente attraverso la finestra della nostra sala di controllo». L’inizio del disco è pura energia, e sono le note dell’assolo iniziale di chitarra elettrica di “Beauty and The Beast” a immergerci nell’atmosfera: «There’s Slaughter in the Air/ protest on the Wind/ someone else inside me/ someone could get skinned – how?». Con queste poche parole Bowie musica il malessere interiore che l’apparente pace armata di quegli anni gli suscitava. Quest’inquietudine morale diviene simbolo ultraterreno di amore incondizionato nella title track “Heroes”, dove viene raccontata la storia di due giovani innamorati al limitare del muro. Sono i seguenti pochi versi ad aver fatto passare alla storia questa canzone, e a innalzare l’amore a strumento di pace universale: «I remember/ standing by the wall/ the guns above our heads/ and we kissed as though nothing could fall/ and the shame was on the other side/ oh we can beat them for ever and ever/ then we can be Heroes just for one day[...]» Subito dopo segue l’emblematica traccia “Songs of The Silent Age”, che descrive l’atmosfera di oppressione e terrore, tipica di tutta la Guerra Fredda: «The sons of the Silent Age/ pacing their rooms like a cell’s dimen-sions […] don’t walk just glide in and out of life/ they never die just go to sleep one day». Il disco procede con quattro brani interamente strumentali dall’atmosfera inquietante e tetra; si conclude con “The secret life of Arabia”. A chi non l’avesse ancora fatto, consiglio vivamente l’ascolto di questo disco, capolavoro della musica con-temporanea e testimonianza di un pezzo di storia così importante.

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Novembre - Dicembre 2013 | L'Oblo' sul Cortile 27

Durante l’estate appena trascorsa, ogni volta che avete ascoltato la radio, vi saranno arrivate alle orec-chie le note inconfondibili del jingle estivo che ha

interessato, affascinato, o alla lunga magari annoiato adulti, ragazzi ital-iani e di tutto il mondo; sto parlan-do di “Get Lucky”, singolo del disco “Random Access Memories” del duo francese di musica elettronica con-osciuto sotto il nome di Daft Punk. Ma chi sono veramente i Daft Punk e che innovazione hanno portato nella musi-ca elettronica? Partiamo dalle origini. I Daft Punk nascono da una brillante idea di due ragazzi parigini, Guy-Ma-nuel de Homem-Christo e Thomas Ban-galter, che, dopo essersi conosciuti al liceo nel 1987, nel 1993 danno vita a questa realtà musicale di grandissimo spessore. Il nome “Daft Punk” deriva da una recensione del primo lavoro in cui erano stati criticati aspramente e definiti «a bunch of daft punk», cioè «un gruppetto di stupidi ragazzini», e di conseguenza questo appellativo è diventato ironicamente lo pseudoni-mo dietro il quale i due si celano. Nel 1994 esce il loro primo lavoro, intito-lato “The New Wave”. Come anticipa il titolo, questo disco rappresenta una svolta, un’innovazione, una “nuova onda” per tutta la musica: il disco è composto da quattro tracce da cui emerge la grande abilità dei giovani Guy-Manuel e Thomas nell’utilizzo del sintetizzatore; queste tracce hanno anche alcune sonorità che influenz-eranno molto il genere della techno minimal. Nel 1996 viene pubblicato il loro primo singolo di successo, “Da Funk”, e successivamente “Alive”, le quali, assieme ad altre quattordici

tracce, vengono incluse in quello che possiamo definire l’album ufficiale di debutto “Homework”, del 1997; pos-siamo soffermarci su tre tracce in particolare,importanti per la loro pe-culiarità musicale, e in ordine sono: “Da Funk”, in cui sonorità funk e acid riescono a trovare una giusta armo-nia insieme; “Phoenix” che combina elementi di gospel e house; e, infine, “Around the world”, che può essere considerata un perfetto esempio delle sonorità dei Daft Punk. ”Around the world” rappresenta, quindi, il mani-festo musicale dei Daft Punk, proprio per il suo coinvolgente ritmo, per la sua grandissima orecchiabilità e so-prattutto perchè frutto di un pro-digioso lavoro di riadattamento di so-norità disco-dance anni ‘80, in chiave elettronica. Da questo momento in poi, Thomas e Guy-Manuel appariranno in pubblico indossando solo maschere da robot, diventando delle inconfondi-bili icone proprio sotto queste sem-bianze. La spiegazione ce la fornisce ironicamente lo stesso Bangalter: «Ci fu un incidente nel nostro studio. Sta-vamo lavorando con il campionatore e questo, esattamente alle 9.09 del 9 settembre 1999, esplose. Quando ri-prendemmo conoscenza, ci accorgem-mo che eravamo diventati dei robot».Nel 2001 arriva l’album che consa-cra definitivamente i Daft Punk nella scena mondiale, “Discovery”. Questo album è una riscoperta delle sonorità care all’infanzia dei due componenti, ed esso può essere inteso come un concept album - cioè ascoltato tutto di fila sembra come raccontare una storia. Nelle quattordici tracce di “Discovery” sono presenti numero-sissimi campionamenti, e molti temi e sample della musica anni ‘70/80.

Le tracce più importanti sono “One more time”, “Areodynamic”, ”Harder Better Faster Stronger”, e “Stronger”, famosa per il campionamento del rap-per Kanye West. Quattro anni dopo, nel 2005, arriva un altro album, “Human After All”, registrato nel tempo record di sei mesi,contenente nove tracce che, al contrario di Discovery, divide i pareri della critica, forse proprio per l’elevato tasso di sperimentazione. Da esso, co-munque, emergono tracce come “Robot Rock” e “Technologic” che hanno avuto un grande successo commerciale. A seguito di un tour, e in particolare della registrazione dell’esibizione live, carat-terizzata da mashWW-up delle più fa-mose canzoni del gruppo, del 14 giugno 2007 nel palazzetto della musica di Ber-cy a Parigi, esce l’album dal vivo “Alive” nel 2007. Durante il 2010, il duo è stato chiamato dalla Disney per produrre la colonna sonora del film “Tron: Legacy”, uscito il 29 dicembre, in cui hanno fat-to WWanche un piccolo cameo. Dopo una lunga pausa dalle scene musicali di circa sei anni, esce finalmente il 21 maggio 2013 l’ultimo album dei Daft Punk, “Random Access Memories”. Con quest’album, grazie al ritrovato suono electro-dance annie alle grandi collabo-razioni, in particolare del rapper Phar-rel e del chitarrista e produttore Nile Rodgers nelle canzoni Get Lucky e Lose Yoursel To Dance, i Daft Punk sono stati riportati in auge, ed è stata ampliata la fascia di ascolto ad un pubblico più var-iegato, trasformandoli definitivamente in icone di successo. Non sappiamo cosa ci si può aspettare dal futuro di questi Daft Punk, ma suggerisco, per chi non l’avesse ancora fatto, di farsi una pro-pria idea ascoltando le loro tracce più significative. Fidatevi, ne vale la pena.

di Filippo Nicotra

daftpunk

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° 228

musica

Al primo ascolto, l’ultimo singolo di Vasco – Cam-bia-menti – può apparire “scanzonato” e lontano dai contenuti che hanno contraddistinto larga parte

della produzione del rocker, interpre-tazione suggerita senza dubbio anche dalla musica. Tuttavia, ritengo che in esso vi sia la sintesi e in qualche modo il primo bilancio di una Vita Spericolata, cioè di una vita vissuta intensamente, di petto. Pochi giorni prima del lancio in radio, Vasco scriveva su facebook, mez-zo da lui prediletto per comunicare con il suo pubblico, “I cambia…menti sono sempre dovuti alla necessità”. Questa è la chiave interpretativa del brano. Mi scuso in anticipo per le espressioni gergali presenti nell’articolo, ma è una scelta stilistica che trovo appropriata per parlare di un artista che ha costru-ito la sua arte sul linguaggio semplice ed essenziale. La canzone suscita in me l’immagine di un uomo eroso dal più grande degli agenti esogeni, la vita. Una sorta di selezione naturale che la realtà nuda e cruda compie sull’essere umano, senza connotati positivi o negativi. Non certo volta al selezionamento del meg-

lio di noi, solo un’azione necessaria in-scritta dentro le regole della vita. Per sopravvivere bisogna scendere a com-promessi con se stessi, tenuto conto che siamo talmente radicati nelle nostre convinzioni e profondamente aggrappa-ti alle certezze conquistate giorno per giorno, che l’equilibrio sopra la follia tra “io” e “cambia-menti” diventa spesso una guerra. Perciò “cambiare macchina è molto facile / cambiare donna un po’ più difficile / cambiare vita è quasi im-possibile”, perché vi sono parti di noi che non concediamo alla violenza della realtà, che conserviamo strette, buone o cattive che siano. Eppure può diven-tare necessario “cambiare tutte le abi-tudini / eliminare le meno utili / e cam-biare direzione”. L’impressione, però, è che sia sempre un “cambiamento di Pirro”, niente di definitivo, specchio di una società in continuo mutamento che non permette a nessuno di sedersi. Im-pressione che viene confermata anche da una musica diversa rispetto allo stile vaschiano classico, un blues con suono americaneggiante, in cui emerge, dopo la prima strofa, un trombone che sem-bra accarezzarti e allo stesso tempo prenderti in giro, ma che, in fin dei

conti, vuol dirti: è così, ti sto dicendo cose serie, ma conviene prenderle con ironia. Parti di noi vengono facilmente spazzate via dalla forza erosiva della vita, come sabbia. In fondo, sotto la spinta della necessità, “cambiare marca di sigarette / o cercare perfino di smet-tere / non è poi così difficile”, certo, “è tenere a freno le passioni / non farci prendere dalle emozioni / e non indurci in tentazioni”. Qualcosa però si perde. Il verbo “decidere” – dal latino decido – significa letteralmente “tagliar via”, “recidere”. Dunque, l’atto della deci-sione prevede il “tagliar via” delle altre alternative. Allo stesso tempo, è come se, oltre a un tagliar via esterno, ve ne fosse anche uno interno, e quindi come se venisse tagliato via qualcosa anche dentro di noi. Ogni decisione presa re-cide parte dell’essere, parte del proprio destino, per avviarlo dentro confini più stretti. Ogni volta si perde qualcosa: forse per questo può essere così dif-ficile. Letteralmente, deve valerne la pena. In “Io perderò” dall’album “Nes-sun Pericolo Per Te” uscito nel 1996, Vasco canta il valore della vita proprio in questi termini: “Lo so / io perderò.. / Questa partita qui / finirà così.. / che io mi pentirò / che io rimpiangerò / questi momenti qui… / Vale la pena!? / Sì” (suggerisco l’ascolto di questa can-zone nella versione live 2010 contenuta nel London Instant Live). La canzone prosegue con il continuo differenzia-mento dei livelli di predisposizione al cambiamento: “cambiare logica è mol-to facile / cambiare idea già un po’ più difficile / cambiare fede è quasi impos-sibile”. In parte siamo anche roccia, o quantomeno così ci pare, ed erodere la roccia non è semplice. Di sicuro ci vuole più tempo. Infatti, continua: “cambiare tutte le ragioni / che ci hanno fatto fare gli errori / non sarebbe neanche natu-rale”. Esiste un elemento di continu-ità, quella pervicace dannazione che ci rende uomini. Come la storia insegna, nei periodi di crisi, a maggior ragione laddove si assiste a un distacco dalla vita politica, vuoi per perdita di speran-

di Matteo Lorenzi

primo bilanciodi una vita spericolata

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Novembre - Dicembre 2013 | L'Oblo' sul Cortile 29

za vuoi per insorgere di regimi non dem-ocratici, l’uomo tende a rifugiarsi in se stesso e a ricercare quei valori che ren-dono la vita dignitosa in sé, all’interno del proprio microcosmo. Vasco sembra incarnare questo spirito quando dice: “si può cambiare solo se stessi / sem-bra poco ma se ci riuscissi / faresti la rivoluzione”. Perché, come dice poco prima, “cambiare il mondo è quasi im-possibile”, è troppo grande, troppo po-tente e ci siamo dentro fino a subirlo: la vera rivoluzione è cambiare se stessi. Questo è il casino. Il cambiamento non è mai indolore e sempre necessario. Per sopravvivere. Il “parapapa” che segue, cantato puramente “alla Vasco”, sembra proprio ricordarci quel poco di follia au-toironica necessaria per mantenerci vivi e non farci sommergere, ma allo stesso tempo porta con sé il carico di dolorosa coscienza proprio della sua voce sempre struggente. Se i primi due giri finiscono nel vuoto della leggerezza, il terzo sem-bra s’incastri nell’ostinazione stizzita di affermare il proprio “io”, il proprio essere uomo. La conclusione della can-zone è evidente sintomo dell’età raggi-unta da Vasco. “Vivere bene o cercare di vivere / fare il meno male possibile / e non essere il migliore. / Non avere paura di perdere / e pensare che sarà

difficile / cavarsela da questa situazi-one”. Il giovane Vasco non avrebbe mai scritto una frase del genere, la canzone si sarebbe infuocata dentro una rabbia per una condizione insopportabile. Il giovane Vasco non avrebbe mai accet-tato la cosa, non se ne sarebbe fatto una ragione, avrebbe gridato, come in “C’è chi dice no”, come in “Liberi.. Li-beri”. Ora, invece, vince il desiderio di tranquillità e di equilibrio. Sembra qua-si cullarsi dentro la mediocrità, averci trovato un compromesso accettabile e consolante. Non che vada bene, sia chiaro, ma a sessant’anni la prospet-tiva cambia. Vasco nel 2005, all’età di 53 anni, affermava: “Per me, la vera trasgressione è essere normali, farsi una famiglia, crescere dei bambini. Io sono un sopravvissuto. Veleggio verso la vita. Adesso arriveranno i conti. E io ho messo da parte i soldi per pagare. Non mi lamenterò più di tanto, lo farò co-munque a bassa voce”. Il pezzo preso in esame sembra in contraddizione con una delle canzoni più celebri di Vasco, “Vita Spericolata”, con cui mi sento in debito enorme, ma dai più fraintesa, in particolare da tutti coloro che riducono la vicenda umana di Vasco solo e unica-mente alla tossicodipendenza. Eppure, più che una contraddizione, ai miei oc-

chi emerge un cambiamento, appunto necessario ma sempre all’insegna di una continuità. Dopo anni, benché abbia cambiato prospettiva, il cuore che pulsa dentro al petto è sempre lo stesso, con gli stessi desideri, ma segnato dall’età. Più consapevole, non credo più conten-to, ma sempre vivo. Vasco ha scoperto il valore della medi-ocrità dentro un equilibro, di non essere il migliore. Ha imparato non a fare il bene, ma a fare il meno male possibile. Un po’ di male è inevitabile, è dentro di noi. Una volta Vasco ha detto: «È più semplice credere che il Diavolo esiste, invece è una parte di noi con cui dobbi-amo convivere». L’uomo nuovo, quello di oggi, è colui che, sognando una Vita Spericolata, si ritrova a cercare di vivere adattandosi con necessari cambiamenti a una realtà in inarrestabile mutamen-to, dove si perde sempre qualcosa, ma in fondo ne vale la pena, oggi come in passato. Allo stesso tempo porta con sé tutte le ragioni che gli han fatto fare gli errori, identità che nonostante tutto non vuole perdere, ad ogni costo. È un uomo che vive dentro un contrasto che non trova pace: è tutto un equilibrio so-pra la follia. In poche parole, la canzone può essere riassunta con un proverbiale “si fa quel che si può”.

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° 230

Racconti

«Polette, un caffè e il fas-cicolo Blanchard sulla mia scrivania, ora» e intanto richiude l’enorme porta vetrata del suo ufficio. È sicuro che esista un collega-

mento tra il caso Fabergè e altri due di cui si era occupato e quello Blan-chard: si immerge allora tra i fogli per trovare il capo della matassa. Troppi elementi comuni per non destare sos-petti: modus operandi, segni di scas-so assenti, il ladro era sicuro che la casa fosse vuota: un professionista. Dopo qualche ora si sta facendo stra-da tra gli ombrelli cupi di Boulevard de Magenta per raggiungere il luogo del furto. Esce dall’ascensore e si dirige all’interno 547, sta per bus-sare quando un ometto paffuto con un completo scuro e degli occhial-etti sul naso lo anticipa aprendo la porta. Dopo aver goffamente con-gedato due agenti «Lei è?» dice infine tendendogli la mano con esitazione. «Lucas Dumont, Limier Assicurazi-oni, indago sulla sparizione del collier di Maria Luisa d’Austria» «Ah, ehm, perfetto, benvenuto, le carte e i documenti sono in salotto, se vuole seguirmi» indicandogli con

un ampio gesto del braccio il cor-ridoio fa un grande ingenuo sorriso. «In realtà non mi occupo delle scartoffie, signor Blanchard: sono l’investigatore che ha il compito di rintracciare il suo prezioso e sono qui per porle alcune domande, se vuole mostrarmi il luogo preciso del furto..» quasi si blocca, atter-rito dall’impeto de L’onda di Coubert. «Ah, pensavo che di queste cose si occupasse la poli-zia. E - gonfio d’orgoglio - no: non è una copia» «Le forze dell’ordine arrestano i colpevoli, io mi assicuro che le opere d’arte tornino ai legittimi. È curio-so: Coubert posava il colore con una piccola spatola e la sfumatura rimaneva più intensa del mare tempestoso, tormen-tato e sofferente, tutte le forze della natura selvaggia cat-turate nell’opera..» quasi si pente di aver deluso il ricco sempliciotto, che colto alla sprovvista farfug-lia: «Cosa vuole, signor Dumont?» «Dove teneva il collier?»

«Qui dentro» e apre una cassa-forte a muro dietro la sua scrivania. «L’ho acquistato ad un’asta due setti-mane fa, per un quarto di milione» «Mi serve il nome dell’ente che l’ha organizzata e la location» «È tutto qui» e gli porge un vol-antino con rilegatura oro su cui compare in bordeaux Casa d’aste Chevalier, una vita per l’arte. «Ne organizzano una tra due giorni, le lascio il mio invito, un esperto d’arte come lei non può perdersi un simile spettacolo» risponde stizzito ma con-trollando di non aver offeso il giovane uomo scultoreo che gli stava davanti. Ha smesso di piovere, ma le strade sono piene di pozzanghere. «Oh, va chier!» parcheggiare un metro più avanti gli avrebbe evitato di rovi-narsi le sue Fabi boutique da 300 €. Saluta e consegna le chiavi a Gèrard, il parcheggiatore, e sale in casa. Spinge l’enorme porta d’acciaio e ripone compiaciuto l’invito nello svuotatasche dell’ingresso. Andando verso il suo ufficio sente un profumo, un profumo delicato che abbraccia l’appartamento. “Finalmente Naïri ha cambiato fragranza, la mirra mi entra-va nel cervello” riferendosi all’aroma intenso proveniente dalle coste del

Senegal, l’unico profumo che faceva sentire davvero a

casa la sua adorata colf. Sono già le 2. Una siga-retta sul terrazzo e non avrebbe chiesto nulla di più: Parigi di notte ha un fascino pro-rompente. Dopo aver riposto lo zippo di suo padre vicino al porta-

sigari, torna alla scriva-nia. È pignolo e caparbio

e ha sposato il suo lavoro: non vi dico la sua reazione

quando scatta la combinazione, la cassaforte si apre e il fascicolo Fabergè è sparito, insieme a mesi di indagini.

di Silena Bertoncelli

Monsieur Dumont continua dallo scorso numero...

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La metropolitana arrivò alla stazione di Cologno nord, cigolando rumorosamente alla frenata. In quel momen-to era vuota, ma la banchina brulicava di passeggeri, tra

cui anche sei ragazzi, un maschio e cinque femmine, che andavano a scu-ola.Tre fermate dopo, in galleria, la met-ro rallentò e si fermò. “Un guasto” pensarono i ragazzi, che avevano ti-rato fuori latino e si erano messi a ri-passare e a discutere sui compiti. Le luci nel vagone si abbassarono, lasciando quasi al buio il treno che, dieci minuti dopo essersi fermato, era ancora immobile in galleria. I ragazzi chiusero i libri, si guardarono tra loro, e Giulia si strinse a Erica in una crisi claustrofobica, strizzando gli occhi. Venti minuti dopo erano ancora fermi nel tunnel. Alessandra prese dalla tasca il suo telefono e si mise a giocherellare nervosamente con la cover azzurra. La prima ora ormai l’avevano persa. Pietro cominciò a sfogliare rapidamente le pagine del libro di chimica, a scrivere calcoli in matita sui margini delle pagine e a copiare for-mule su un quaderno a quadretti.Un uomo nell’angolo del vagone lanciò a terra il proprio tel-efono cac-ciando un urlo di rab-bia che attirò l’attenzione di tutto il treno. “Lo sapevo! Se arrivo in ritardo anche stavolta la mia ragazza mi lascia. E non ho cam-po. Tu!” urlò furioso e si lanciò verso

Alessandra. Le strappò di mano il tel-efono e tentò di inserire la password per sbloccarlo. Lei si alzò stizzita e cercò di riprenderlo, ma lui urlò e la spinse sul suo sedile. Pietro si alzò. “Ridaglielo. Non è tuo. Hai problemi? Muoviti” disse con tono fermo. Ma l’uomo si infuriò ancora di più. Lanciò il telefono con tale energia

verso la fronte di Alessandra da pro-

vocarle un tag-lio verticale,

dal quale subito uscì una discreta quantità di sangue.Erica urlò. La gente at-torno aveva cominciato a nascond-ersi. L’uomo si spinse con forza contro la parete del vagone, bat-té la testa e

cadde a terra svenuto.

Dopo dieci minu-ti si alzò un altro

uomo, tirò fuori dalla ventiquattr’ore il suo computer e lo scagliò contro il finestrino, scheg-

giando il vetro, ma senza romperlo. “Mi hanno licenziato! É il terzo ri-tardo! Mi hanno licenziato! Devo chiamare l’azienda, ho due figli, non posso perdere il lavoro. Dammi im-mediatamente il telefono ragazzina” disse, e si lanciò su Alessandra, che nel frattempo aveva nascosto il cellu-lare nella tasca interna della giacca. Pietro lo fermò, dicendo di lasciarla in pace. L’uomo era ancora più arrab-biato di prima. “Non t’immischiare, ragazzino” disse estraendo dalla tasca una pistola e puntandogliela al cuore.“Perché stanno tutti impazzendo?!” pianse Erica stringendosi alle amiche.“Sta’ zitta!” urlò l’uomo, puntandole contro la pistola. Poi si spostò su Ales-sandra, e cominciò a frugare in tutte le tasche che trovava. Lei fece per tirarlo fuori ma Pietro tirò indietro l’uomo dicendo: “Non toccarla!”.“T’avevo detto di non immischiarti!” rispose sbraitando e spingendolo a ter-ra. Gli puntò contro la pistola e prem-ette il grilletto tra gli urli dell’intero vagone. Dopo aver sparato un primo colpo, si spinse la pistola sulla tempia e ne sparò un secondo. Il treno riprese a viaggiare. Pietro ri-uscì a tornare a casa dopo giorni di convalescenza in ospedale solo grazie ad un dottore presente al momento. La paura era finita. La metropolitana 3120 arrivò a destinazione, insieme ai suoi passeggeri.

di Letizia Foschi

3120

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Racconti

I suoi occhi stanchi si spalanca-rono in una mattina qualunque e non avevano voglia di pian-gere: erano solo leggermente infastiditi da una luce intensa che dominava l’intera stanza.

Delle presenze confuse si agitavano in-torno a lei: si sentiva circondata da un calore indescrivibile che l’avvolgeva e non le faceva provare la minima nos-talgia della sua vecchia casa. Il pri-mo nitido ricordo fu il sorriso di sua madre: le venne subito voglia di imi-tarlo, sperando di possedere almeno un briciolo dello splendore che aveva visto in lei. Così, in quel soleggiato dieci novembre, il mondo diede il benvenuto a una nuova vita, Selene, che ri-cambiò il saluto non con urla di dolore ma con una timida risata piena di te-nerezza. E’ strano come riesca a ricordarsi la sua nascita: nessuno ne è mai stato in grado. Sembra quasi che ognuno di noi cominci a vi-vere a soli cinque anni. Ma prima? Come siamo stati accolti? Selene lo sapeva, e questo ricordo le bruc-iava nella mente: lo con-servava come il suo più grande tesoro. Ma oltre al bagliore dei raggi che riscaldava l’atmosfera, ol-tre all’estrema bellezza di sua madre e alla commozione di suo padre, Selene quel giorno colse, quasi per sbaglio, anche un dettaglio cupo, in contrasto con quell’esplosione di serenità: una figura pallida vestita di scuro, che osservava la scena dalla penombra del corridoio. Quello sguar-do le provocò un brivido: conteneva tutto il gelo dell’inverno che tardava ad arrivare; ma nonostante questo lo sostenne, incuriosita da una visione così insolita: ma al primo battito di ciglia, la figura svanì.

Col trascorrere del tempo Selene di-

venne una donna, e nonostante fos-sero passati anni, il giorno della sua nascita le lasciò segni indelebili. I suoi capelli, biondi e mossi come spighe di grano esposte all’umore del vento, erano stati un dono del sole; i suoi occhi erano neri e infiniti, ma os-servandoli bene si notava un’angoscia di fondo, causata proprio da quella visione delle sue prime ore di vita. Selene non l’aveva mai dimenticata: questo pensiero infatti tormentava le sue notti, provocandole incubi spieta-ti. Trovava conforto nella luna; ne era sempre stata attratta e sentiva che qualcosa intrecciava i loro destini: il

suo stesso nome ne era la prova. Con il cuore spaesato o afflitto, osservare la sua pace la tranquillizzava: non-ostante fosse lontana anni luce, si sentiva capita. L’aiutava a guardare dentro di sé, a compiere un viaggio difficile e impalpabile che le avrebbe permesso di trovare le risposte a tutti i suoi dubbi.

Col tempo gli incubi diminuirono, e Selene riuscì a trovare quell’equilibrio interiore che desiderava da tempo; si dedicò pienamente alla sua vita, senza accontentarsi di esistere solt-

anto. Cominciò a coltivare tutti quei sogni che finora aveva messo da parte per paura di osare troppo; concesse la sua anima all’amore, a cui prima aveva chiuso le porte timorosa di un’ulteriore delusione, per scoprire invece la forza e l’energia che esso regala. Scoprì la meraviglia di un’altra nascita, rivivendo il calore e la felic-ità del suo primo giorno. Negli anni passati gli incubi riguardan-ti la figura misteriosa si erano ammas-sati come nubi nere, presagi di una disastrosa tempesta, che ora venivano dissolte e sostituite dalla quiete di in-tensi raggi di sole. Dunque la vita di

Selene trascorse, con i suoi imprevisti e le sue soddis-fazioni.

Era il venti giugno, quan-do accadde. Si trovava su una scogliera, sul calar del sole, mentre aspettava l’apparire dell’ultima luna: sentì un brivido gelato per-correrle la spina dorsale, e allora capì. Si voltò, e per la seconda volta nella sua vita, ebbe un incontro rav-vicinato con la Morte: le sorrise, come fece da neo-nata. I risentimenti tra loro erano ormai cessati: Selene emanava pace, la serenità traspariva dal suo volto e nel suo cuore. La prese per mano come una vecchia amica, e si fece condurre

oltre lo spazio e il tempo. Sparirono in un battito di ciglia.

Il sole rideva il giorno del suo fu-nerale, proprio come nel giorno della sua nascita: Selene se n’è andata sen-za rimpianti, consapevole di aver vis-suto davvero. Le sue uniche certezze sono state, fin da subito, la nascita e la morte; il viaggio che separa le due è stata una sua decisione. Dunque sta a noi decidere se farci influenzare dalle angosce continue dell’esistenza, o vivere e godersi le meraviglie che essa può offrirci.

di Claudia Sangallibattiti di cigliail racconto di un redattoreCONCORSO: COSA VI TRASMETTE “VITA E MORTE” DI KLIMT (1916)?

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La Morte navigava sullo Stige da dove poteva osservare tutti i viventi, lucine im-merse nell’acqua; si sentiva superiore, migliore, senza però avere una vera moti-

vazione. Poi, in un certo momento di ciò che viene chiamato tempo, nacque l’uomo. Egli, così intelli-gente, così brutale, così abile, in poco tempo sconfisse tutti gli altri viventi e prese a controllare il proprio des-tino. Non solo: riusciva a ingannare perfino la Morte. Infatti le lucine dei singoli, quando si spegnevano, anda-vano a unirsi a un’altra luce, la cui provenienza era ignota; più il tempo passava e più diventava intensa. Come era possi-bile che si trasformassero in qualcos’altro? Dove-vano solo scomparire. La Morte li odiava e, al colmo dell’ira, decise di strappare un uomo dalla vita per portarlo sulla sua barca e interrogarlo, per capire come ciò fosse pos-sibile. “Uomo, io sono la Morte; so che sei saggio, e sei qui perché voglio che tu mi risponda: che cosa rende l’uomo diverso dagli altri viventi?”L’uomo non rispose e com-inciò a guardarsi intorno, a scrutare il buio che circondava la barca e le piccole lucine che illumina-vano l’acqua. Spostò quindi lo sguardo verso la Morte, che intanto diventava sempre più impaziente; la osservò mentre compiva il suo dovere e poi riprese ad osservare i viventi. Infine, sorrise e disse: “La tua domanda è ambigua e si presta a varie risposte. Potrei risponderti che l’uomo è l’unico che si copre con pelli per ripararsi dal freddo e l’unico che costruisce ampi ripari per sé e i suoi simili; potrei risponderti che è l’unico che sa comu-nicare e l’unico che sa scrivere; op-

pure che è l’unico che sa utilizzare il fuoco e la ragione. Che cosa tu volessi mi era ignoto e per questo ho taciuto. Ma, dopo aver osservato, ho compre-so: tu vuoi capire perché l’uomo ri-esce a sconfiggerti.” La morte tacque, quasi oltraggiata dalla lucidità di quell’essere. Poi disse: “Ebbene hai una risposta?” “Sì. Da dove partire?” sospirò. “Tra tutte le caratteristiche dell’uomo, di certo la più peculiare è la ragione. Noi umani abbiamo la capacità di miglio-rare grazie alle esperienze che fac-ciamo e agli ostacoli che sorpassiamo.

Noi riusciamo a procedere con la ra-gione, la capacità di mettere in rap-porto diversi fenomeni e di capirne i rapporti di causalità. Ecco, poniamo un esempio. Fa freddo, piove e un uomo si trova disperso in montagna. Vaga alla ricerca di un riparo, finché non vede una grotta: capisce che all’interno non piove ed entra per trovar rifugio; eviterà il fastidio di bagnarsi. Intanto, osservando il cielo scuro, comprende pure che la pioggia cade dalle nubi; allora, in futuro, alla vista di nuvole scure, egli cercherà riparo prima ancora che incominci a

piovere”.“E questo che cosa c’entra?” lo inter-ruppe la Morte, impaziente di avere la sua risposta.“Come, non vedi? Grazie alla ragione è salvo. Riesce a collegare il futuro, il presente e il passato con una funzione della mente che noi chiamiamo me-moria. Ed è questa che ti sconfigge”.“Non capisco ancora che cosa inten-di.” Disse la Morte, incerta.“Vedi, con la memoria noi non solo impariamo a migliorare la nostra vita, ma ricordiamo pure coloro cui abbiamo voluto bene e da cui siamo

stati amati; essi sono stati parte fondamentale della nostra formazione, sono stati parte dei mattoni su cui abbiamo costruito la nostra esistenza; quando scompaiono, rimangono in noi. E così la catena che lega gli uomini è indis-solubile, per la naturale socialità che ci caratter-izza. Questo legame, che coinvolge tutti, è quella luce che vedi lì; e non diventa più luminosa solo con le memorie dei cari, ma anche con i progressi culturali: io che, come hai detto, sono sapiente, ho influenzato molti uomini con il mio contributo, perfino quelli che non conoscevo. Il mio nome rimarrà vivo in molti. Ora

vedi? Quella luce è la somma della so-cietà umana, della cultura, di tutto: è l’anima collettiva, che è in ogni uomo. Tu uccidi i singoli, ma non potrai mai portarti via tutto; ti è impossibile.”La Morte, finalmente, comprese. Comprese di essere piccola in con-fronto a questi grandi uomini; che sebbene fossero mortali, avevano tro-vato un modo per ingannarla. Si alzò e cominciò a scrutare l’acqua e sospirò: “Vedo. Chi sei tu per sapere ciò?”“Io?” sorrise “Io sono Mente.”

di Pietro Klausnervita e morte

il racconto vincitoreCONCORSO: COSA VI TRASMETTE “VITA E MORTE” DI KLIMT (1916)?

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Sono sempre stata convinta che l’amore fosse come acqua che scro-scia via veloce, facendo un gran chiasso e non lasciando altro che una lunga scia, segno del suo passaggio. Non ero sicura di aver

mai provato quel sentimento tanto descritto in libri e canzoni, quella sensazione in grado di sconvolgere la tua quotidianità fino a farti com-piere le più folli azioni.Anzi, ne ero certa: mai l’avevo provato e mai sarebbe successo.Quei “mai” volteggiavano nella mia testa come ballerini esperti pronti a demolire ogni mia speranza di un amore da oscar. Come quelli dei film, quelli che fin da piccola la televisione ci propina creandoci as-pettative nettamente superiori alla realtà. Tutte le donne ne hanno visto almeno uno nella vita, a partire dalla loro infanzia con quelli della Disney, dove il bellissimo principe azzurro monta sul suo cavallo bianco per salvare la sua bella. Nessuno spiega però alle bambine che la vita reale è un tantino diversa.Ci sono persone, infatti, che sono destinate a guardare l’amore da lon-tano, senza avere il privilegio di toccarlo, di assaggiarne la dolcezza o l’amarezza. Restano dietro un vetro oscurato ad osservare Cupido scoccare le sue frecce e a chiedersi quando arriverà il loro momento.E sono le persone che soffrono in silenzio più degli altri, perché una delle cose più odiose è attendere qualcosa che sembra non arrivare mai. Nessuno può capire come ci si sente quando si è sempre l’ultima scel-ta. Niente è più brutto di aspettare l’amore, perché più cerchi di im-maginare come sarebbe più ti crei false aspettative e ti senti morire dentro. I libri, i film, le canzoni diventano la tua Bibbia e ti senti dan-natamente stupida nel pensare che nessun ragazzo ti ha mai scelta fra tante per amarti con tutto sé stesso.Tutto quello che vorresti è sentirti un fuoco dentro il petto pronto a divampare di passione. Un fuoco che neanche l’acqua è in grado di placare. Una nube di fumo e di coraggio che ti spinga a rischiare qual-cosa. Una persona che accenda dentro te quella sconosciuta ardente sensazione, che con un solo gesto ti faccia sentire invincibile. Ed era ovvio che non sarebbe mai successo, non sarei mai stata spe-ciale per qualcuno. Sarei sempre stata la ragazza dietro il vetro, la stupida sognatrice alla finestra della torre stregata in attesa del suo principe azzurro. Pensavo questo e il mio povero cuore si fermava ogni volta, poi ricom-inciava a battere a ritmo coi miei singhiozzi e le mie guance erano inondate di lacrime di ghiaccio. Proprio come i miei sogni, congelati in una cella di aspettative.

Cris

Se solo avessi saputo chi sarei stato nello spaccato spazio-temporale in cui ho gettato la penna su ques-to foglio, non avrei detto, non avrei agito, non avrei,

credo, soprattutto, provato quel che ho dovuto, mai. Non sarei io. Ora, chi sarei, se non me? Un corpo da macello, una mente suicida? Un’anima lugubre, probabilmente, come l’antro del vul-cano che dorme gorgogliando, freddo all’ apparenza e con magma bollente che ribolle nelle vene gonfie, nel cuore stanco, nella testa? Un angolo corrotto di Purgatorio, una persona animata da ottimi e candidi prop-ositi, non solo per l’anno nuovo, ma per la nonna, l’amico Fritz o la comunità? Sinceramente ora so che prefirei scor-ticarmi i miei lembi di pelle più delicati piuttosto di pen-sare che avrei lasciato nuovamente i miei sporchi soldi in quei depositi di pietra, finanziatori di distruzione e ma-nipolatori di automi ignoranti. No, mai più darei credito morale o fiscale alle banche, non dopo lo scoppio della quarta bomba, la penultima. Sarei solo un altro deficiente. Ma quello che non capisco è perchè sarei semplicemente un ALTRO deficiente . Uno degli altri, uno dei tanti. Perchè tra più di sette miliardi di persone non ci sono state suffi-cienti forze per impedire l’autosterminio del genere uma-no, la sua spettacolare -da un punto di vista meramente scenografico-implosione? Ormai non ha più senso parlarne, l’uomo è la specie più infima, quella che scopre il fuoco e non si brucia più. Si carbonizza. Non voglio tornare alla ‘civiltà’ o a quello che ne è rimasto. Non voglio vedere i pochi sopravvissuti, perchè l’uomo non cambia mai; im-parerebbe, forse, solo in quella dimensione trascendentale che molti si augurano di raggiungere dopo questa vita e con il senno di poi, quel senno che qui è sempre mancato.Mi lascerò morire qui, dopo aver imbottigliato questa let-tera. No, anzi, se queste parole vivessero sotto forma di messaggio, sarebbe un messaggio muto, o il destinatario sordo; lascerò semplicemente che diventi polvere e terra con me, in questo angolo dimenticato di mondo, incasto-nata nella stretta della mia mano che finalmente non ha più niente di umano.

Anonimo

BLOODY NIGHTMARE

I just want to leave my body downI got no tears for you

but drops dirty with red-end.

I just got to bear another sounda conspiracy of silence too

menaces that mercy can’t mend.

Burst of heat raving worthlesscrying out, worn-out

ablaze alive neverthelessempty out-and-out.

Unacknowledged, now you rejectthe unshakeable was demaging

taken aback, I feel abjectI catch a glimpse of disparaging.

Never awaken glorified but gloomyliving up to gibberishes.

Always shaken exuding but roomyobsessed by obstinate wishes.

Simone Possenti

Non tutti i contenuto della mente possono essere tramutati in parole.Qualcuno ci prova, qualcuno alla fine ci riesce...

Macchie d’inchiostro

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ostriche senza perla

DURANTE LA LEZIONE DI GRECOProf: Questa parola poi è diventata il prefisso “sin-“ in italiano. Fatemi qualche esempio.X: Sinonimo.Y: Sinfonia.Z: Sinatra…

DURANTE LA LEZIONE DI STORIAX: Prof, sto cercando di imparare a memoria il catalogo delle navi dell’Iliade.Prof: Ah, ci stai provando?Y (che non ascoltava): CON CHI?!

AL RECUPERO DI LATINOX: Mi scusi l’ignoranza prof, ma Enea era una femmina?

ALLA PRIMA LEZIONE DI RELIGIONEX: Mi scusi, ma come la dobbiamo chiamare? Don o prof?Prof: Come preferite.Y: Don-prof va bene?

DURANTE LA LEZIONE DI GRAMMATICAProf: Adesso analizziamo questa frase: “E’ stata dura, ma siamo riusciti nell’impresa”.X: E’ stata dura, ma ce l’abbiamo fatta.Y: Amaro montenegro.Z: Sapore vero…

IN AULA LIM NON RIUSCENDO AD APRIRE LE IMMAGINI CON LA PENNAProf: Ragazzi occorre centrare il punto G!

NON RIUSCENDO A USARE IL TABLETProf (con tono minaccioso): Ti faccio mettere la nota da solo!!

DURANTE L’INTERROGAZIONE DI STORIA DELL’ARTEX: In alto a destra l’artista collocò il punto di figa...

DURANTE LA LEZIONE DI INGLESEProf (esasperata): I will probably get drunk when you leave school!!!

DURANTE LA LEZIONE DI ITALIANOProf: La religione non è l’oppio dei popoli, al massimo il ginseng.

DURANTE L’INTERROGAZIONE DI ITALIANOX (facendo la parafrasi di “A Silvia” gesticola in modo ambiguo): Le man veloci sulla faticosa tela...Prof: Per favore non diamo allusioni porno a Leopardi.

DURANTE LA LEZIONE DI MATEMATICA IL PROF SPIEGA LE LEGGI DI KIRCHHOFFProf (alla classe basita): Ragazzi queste leggi hanno di mostruoso solo il nome dell’inventore.

Quanto spesso quei signori che vogliono parire dotti e ineccepibili ai vostri occhi si tradiscono nel modo più brutale ed esilarante? Inviaci a nche tu le peggiori frasi dei TUOI prof...

vari e

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37 Novembre - Dicembre 2013 | L'Oblo' sul Cortile

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38 L'Oblo' sul Cortile | Anno VIII, n° 2

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39 Novembre - Dicembre 2013 | L'Oblo' sul Cortile

indovinelloSecondo la leggenda, il grande Albert Einstein inventò questo indovinello ed asserì che il 98% della popolazione mondiale non sarebbe stata in grado di risolverlo.Volete cimentarvici per verificare se siete nel restante 2%?N.B. Non rientrerete nel 2% sbirciando la soluzione su internet!!!!!!

In una strada ci sono cinque case dipinte in cinque colori differenti. In ogni casa vive una persona di differente nazional-ità. Ognuno dei padroni di casa beve una differente bevanda, fuma una differente marca di sigarette e tiene un animale differente.

Domanda: a chi appartiene il pesciolino?

Ecco alcuni indizi: 1) L’inglese vive in una casa rossa. 2) Lo svedese ha un cane. 3) Il danese beve tè. 4) La casa verde è all’immediata sinistra della casa bianca. 5) Il padrone della casa verde beve caffé. 6) La persona che fuma le Pall Mall, ha degli uccellini. 7) Il proprietario della casa gialla fuma le Dunhill’s. 8) L’uomo che vive nella casa centrale, beve latte. 9) Il norvegese vive nella prima casa. 10) L’uomo che fuma le Blends, vive vicino a quello che ha i gatti. 11) L’uomo che ha i cavalli, vive vicino all’uomo che fuma le Dunhill’s. 12) L’uomo che fuma le Blue Master, beve birra. 13) Il tedesco fuma le Prince. 14) Il norvegese vive vicino alla casa blu. 15) L’uomo che fuma le Blends, ha un vicino che beve acqua.

giochisudoku killerDicono sia micidiale da risolvere: ha soluzioni? Probabilmente sì, noi non lo sappiamo.

Un normale sudoku nel quale i numeri in-seriti, però, devono rispettare le propor-zioni indicate dai simboli < o >.

Il primo campione che riuscirà a risolvero riceverà una speciale menzione nel pros-simo numero e un premio cioccolatoso se verrà a ritirarlo in classe della diretttrice (5E) con la soluzione in mano. Onore al merito.

Buon lavoro!

Page 40: SECONDO NUMERO, Novembre/Dicembre, a.s. 2013/2014

concorso carducciano: arte & racconti

L’Oblò mette alla prova la VOSTRA creatività! Noi vi proponiamo unA FOTO, voi ne ricavate ispirazionE per un racconto.

Ne verrà pubblicato soltanto uno, messo a confronto con quello di un redattore. Cosa vi trasmette QUESTO SCATTO DI STEVE MCCURRY?

INVIATE I VOSTRI ELABORATI ALLA MAIL [email protected]

BUONE VACANZE

la redazione vi augura