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Secondo dopoguerra: quando i sacerdoti cercavano vocazioni a Sedilo di Costantino Muscau La storia di Sedilo del dopoguerra è anche una storia di sottane e di gonne. No, non quelle delle donne. Quelle dei preti: «de suttanas e de bunneddas (nieddas)», come si diceva allora. Di abiti talari, «pò dda narrere a s'italiana». Sedilo è stato (e in parte lo è, a dispetto dello scorrere del tempo) una «idda de peidres fattos» e «de peidres iscontzaos o iscontzos». Di sacerdoti e di «spretati». Di chierici e di ex (seminaristi). «E di banditi», puntualizza con divertito, divertente e inconfondibile ghi- gno, Peppino Pes, noto Nanneddu, che ha avuto - sottolinea - «una vo- cazione irresistibile, tortissima per il sacerdozio. Ma solo per tré anni: I, II e III media nel seminario di Bosa; poi me la sono vista svanire». Ma questa evocata da Peppino Nanneddu è, come si suoi dire, tutta un'altra storia, personale e collettiva, che meriterebbe di essere scavata e scritta come questa legata alla Chiesa. Se, come è giusto, una rivista di archeologia chiede di rovistare e scavare anche fra i reperti della vita privata e collettiva non tanto remota, affinchè «quei momenti non vadano perduti nel tempo come lacrime nella pioggia» (cito Biade Runner), allora nella rassegna del ventennio (Fausto? Infausto? Chi lo può dire) fra il '50 e '70, svetta su tutto e su tutti il campanile. E quello che avveniva alla sua ombra. In questa rievocazione (molto soggettiva e forse poco storica), «sa partza 'e cresia» (il L'autore dell 'articolo ai tempi del seminario piazzale della chiesa) si popola di lunghe tona- che nere che scivolano silenziose, si ode un interminabile fruscio di sottane, si sente un in- tenso odore di incenso. E un nostalgico rintocco di campane suonate da Frantziscu che si inte- grava, senza contrap- porsi, a «su pregone de su bandidore, a s'epoca bettau, cun sa trumba, prima dae Matzaurred- du (babbu de Paulinu, Titineddu e Marieddu Fantzellu) e pois dae Tittinu calabresu e pois ancora dae Battista Pro- cheddu. E chi si che ddu podet irmentigare a cu- stu, cando abboghiniat, faghinde unu pagu de casinu cun sas paraulas e sos accordos de sa grammatica: "Attenzione, attenzione, chie cheret comperare bottinos pò pizzinnos de gomma e pantalones pò omines fattos, andet a domo de Antonicu!"». Ovviamente, non si trattava di acquistare bambini di gomma, ma le (prime e puzzolenti) scarpe da tennis per loro. E i vestiti de su bandu erano «non per uomini fatti, ma fatti per uomini». E nei fumi dell'incenso - dicevo - si stagliano, forse un po' confuse, figure di decine e decine di chierichetti (chi non ha servito messa fra quelli di noi nati nel Dopoguerra?), di seminaristi, di chierici, di aspiranti preti, di preti fatti. Passavamo la fanciullezza tra casa e chiesa, tra turiboli e messe (chi non si ricorda sa missa 'e chitzo, quella domenicale dell'alba, o sa missa 'e sas 8?). Da quel piazzale della chiesa, e dalla sacrestia,

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Secondo dopoguerra:quando i sacerdoti cercavano

vocazioni a Sedilodi Costantino Muscau

La storia di Sedilo deldopoguerra è anche unastoria di sottane e digonne. No, non quelledelle donne. Quelle deipreti: «de suttanas e debunneddas (nieddas)»,come si diceva allora.Di abiti talari, «pò ddanarrere a s'italiana».Sedilo è stato (e in partelo è, a dispetto delloscorrere del tempo) una«idda de peidres fattos»e «de peidres iscontzaoso iscontzos».

Di sacerdoti e di«spretati». Di chierici edi ex (seminaristi). «E dibanditi», puntualizzacon divertito, divertentee inconfondibile ghi-gno, Peppino Pes, notoNanneddu, che ha avuto- sottolinea - «una vo-cazione irresistibile,tortissima per il sacerdozio. Ma solo per tré anni:I, II e III media nel seminario di Bosa; poi me lasono vista svanire». Ma questa evocata da PeppinoNanneddu è, come si suoi dire, tutta un'altra storia,personale e collettiva, che meriterebbe di esserescavata e scritta come questa legata alla Chiesa.

Se, come è giusto, una rivista di archeologiachiede di rovistare e scavare anche fra i repertidella vita privata e collettiva non tanto remota,affinchè «quei momenti non vadano perduti neltempo come lacrime nella pioggia» (cito BiadeRunner), allora nella rassegna del ventennio(Fausto? Infausto? Chi lo può dire) fra il '50 e'70, svetta su tutto e su tutti il campanile. E quelloche avveniva alla sua ombra.

In questa rievocazione (molto soggettiva eforse poco storica), «sa partza 'e cresia» (il

L'autore dell 'articolo ai tempi del seminario

piazzale della chiesa) sipopola di lunghe tona-che nere che scivolanosilenziose, si ode uninterminabile fruscio disottane, si sente un in-tenso odore di incenso.E un nostalgico rintoccodi campane suonate daFrantziscu che si inte-grava, senza contrap-porsi, a «su pregone desu bandidore, a s'epocabettau, cun sa trumba,prima dae Matzaurred-du (babbu de Paulinu,Titineddu e MariedduFantzellu) e pois daeTittinu calabresu e poisancora dae Battista Pro-cheddu. E chi si che ddupodet irmentigare a cu-stu, cando abboghiniat,faghinde unu pagu decasinu cun sas paraulase sos accordos de sa

grammatica: "Attenzione, attenzione, chie cheretcomperare bottinos pò pizzinnos de gomma epantalones pò omines fattos, andet a domo deAntonicu!"».

Ovviamente, non si trattava di acquistarebambini di gomma, ma le (prime e puzzolenti)scarpe da tennis per loro. E i vestiti de su banduerano «non per uomini fatti, ma fatti per uomini».

E nei fumi dell'incenso - dicevo - si stagliano,forse un po' confuse, figure di decine e decine dichierichetti (chi non ha servito messa fra quellidi noi nati nel Dopoguerra?), di seminaristi, dichierici, di aspiranti preti, di preti fatti. Passavamola fanciullezza tra casa e chiesa, tra turiboli emesse (chi non si ricorda sa missa 'e chitzo, quelladomenicale dell'alba, o sa missa 'e sas 8?). Daquel piazzale della chiesa, e dalla sacrestia,

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imboccavamo in tanti, dritti dritti, quasi senzaaccorgercene la via del seminario, del convento,del collegio. In testa c'era il seminario di Bosa.Lì finivano quelli che aspiravano a diventaresacerdoti diocesani, e sui quali le famiglie,soprattutto le mamme, scommettevano per ilriscatto economico-sociale, per vederli diventare«studiati» e parroci. Andava bene anche essereviceparroci, per carità. Canonico e mussinnore,per la verità, sarebbe stato il massimo, con quellafascia porporina alla cintola e un'aureola diprestigio in torno alla chierica e, perché no, allerotondità della pancia ben nutrita, simbolo disuccesso e di benessere, di vita placida e sicura,(ad maiorem Dei gloriam, a maggior gloria di Dio,s'intende). L'importante era conquistarsi unaprebenda, una casa parrocchiale e una parrocchia,la stima e il rispetto. Per questo le mammeincoraggiavano i figli, senza ritegno, a diveniredisertori della vanga e dell'ovile. Meglio ilprofumo d'incenso, che la puzza di pecora; megliosembrare tante femmineddas, con quelle gonnenere svolazzanti; meglio, perfino, sentire i lorofigli sfottuti con tanti «cro' cro'» o «crobosnieddos», piuttosto che vederli ricurvi a spezzarsila schiena, intenti a «arare, marronare, messare etriulare e/o murghere».

Ma non c'era solo il seminario diocesano.All'epoca, Sedilo fu terreno di raccolta (o dicaccia) per religiosi di ogni genere: Francescani,Paolini di don Alberione, Rogazionisti, Saveriani,Somaschi di san Gerolamo Emiliani, forse anchePassionisti. Padre Tuveri e padre Puggioni (unosaveriano e l'altro gesuita, se la mia memoria nonfa acqua) erano i reclutatori (sempre in nome diDio) che sul finire dell'anno scolastico salivanoin paese e a tanti sedilesini suggerivano,instillavano il pensiero che magari avevano lavocazione. E li allettavano portandoli al mare inquel di Cagliari per insegnar loro a nuotare.Magari, tra una bracciata e l'altra, la vocazionesarebbe venuta a galla. Lo potrebbero confermarein tanti, da Tonino de Croanu a Marieddu Onida,a Pasquale detto Milordo.

E anche mio fratello Onorato, che però, nonconvinto di avere una grande vocazione, ungiorno, alla vista o alla notizia dell' arrivo di padrePuggioni, si nascose con un suo compagno sottoun ponte per un giorno intero per non essereadescato da quell'evangelico pescatore di uomini.Insomma partirono (partimmo) in tanti. E per lafesta di San Costantino ci ritrovavamo nella chiesaparrocchiale, al mattino per la messa emeditazione, la sera per il vespro, o in sacrestia

Seminaristi in processione. (Foto fam. Fancello)

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o nella cappella Regina (mi pare: sì, insommaquella a fianco dell'altare maggiore, in fondo asinistra). Credo che a un certo punto fummodecine, una schiera folgorati sulla via delsacerdozio. Nomi e soprannomi mi si confondononella testa (spero nessuno mi denunci per laviolazione della legge sulla Privacy): Battista eUgo Aghedu (una leggenda, perché ne combinavadi tutti i colori); Pasquale e Bachisio Onida;Cicciolino e prima il fratello noto «Pippa spenta»;Francesco detto Frorigheddu; Basili notoPeusseme, Piraddeddu, Battista Prameli, noto«avvocato Murgia»; Giovanni Battista eFrancesco Menzusnudda; Tonino Milordo,Tonino Zeniu Billoe, i fratelli Ciulu, la buonanimadi Peppino (Pinna) detto Liori (uomo colto,intelligente e sensibile), Paolino Fancello, MarioSalaris (Fraschittu). La sorpresa caso mai era negliassenti: ad esempio, Antonio e Salvatore Mameli,fratelli di Pietrine, che dalla Planargia spessoplanavano in bicicletta al liceo di Bosa. Spessomi chiedevo: ma come mai non vanno inseminario? Eravamo l'ultima fioritura di unastagione irripetibile. Seguivamo le orme diun'altra schiera di sedilesi preti consacrati. Edisfatti (iscontzaos), come furono, per citare duefigure agli antipodi, Peppino Pes (Nanneddu) el'avvocato poi onorevole e poi tragicamentescomparso Pietrine Riccio.

Ed è proprio Peppinu Nanneddu (che pur fragli acciacchi dell'età non ha perso ne memoriane spirito caustico) a ricordarmi: «Con me a Bosac'erano Cogotzi (poi divenuto parroco di un paesedella diocesi di Oristano, Siamaggiore, mi pare),Pedru Seda (Mongili), ora scomparso, PietrineMameli (pure scomparso), Lampreu». Peppinuricorda pure chi all'epoca, nel seminario di Bosa,era il cosiddetto prefetto, il futuro monsignor Pes,di Scano Montiferro. «In terza media zeo mi che

seo essiu dae seminariu - conclude il Nanneddunostru - si biet chi sa vocatzione che fut esauria.».In tanti altri, invece, la vocazione fiorì rigogliosa:essi ricevettero l'ordinazione sacerdotale efinirono col formare una lunga serie che hasegnato l'epoca sia a cavallo della guerra sia neiprimi decenni del Dopoguerra. L'elenco per unpaese di nemmeno 3 mila anime, dove la povertà(dignitosa, ma sempre povertà era: e la mancanzadei gabinetti in casa e dell'acqua corrente e dellaradio e dell'asfalto e tante altre carenze stavanolì a testimoniarlo) è impressionante: da PeidreMarras, il «parroco» di Santa Rughe che fumavail sigaro e predicava in sardo, a don Sanna, ilcacciatore (i miei coetanei ricorderanno il suocane Rollo dal nome del campione europeo dipugilato), che pur essendo nato a Tadasuni all'etàdi 2 anni era stato di fatto allevato dae su rettoreManca; da don Cabiddu a don Falchi, da don Ciulu(entrambi morti prematuramente) a monsignorLussorio Lampreu (finito in Vaticano); dal giàcitato e indimenticabile don Mameli, strenuodifensore della sardità e di san Costantino, aMerchioro (don Paris); dallo studioso don Spadaa don Cogotzi finito, come dicevo, e per ragionimai capite (da me) nella diocesi di Oristano; daipiù giovani (si fa per dire; il tempo è implacabilecon tutti) don Niola, don Salaris, don Fancello adon Mongili, uno degli ultimi ad essere arrivatoalla meta, ovvero a non aver buttato, come lamaggioranza di noi fece, l'abito alle ortiche. Oad aver perso la vocazione per strada.

All'epoca noi non lo capivamo. Ma eranoquelle che poi avremmo scoperto chiamarsi lecondizioni socio-economico-politiche a farcivarcare le mura di conventi e seminari. Moltinostri compaesani emigravano verso il Belgio ela Francia per fare i minatori o i muratori (spessoanche con l'aiuto dei sacerdoti: da don Dore a

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Seminaristi durante una funzione religiosa. (Foto fam. Fancello)

don Porcu); in paese non c'erano le scuole medie(era già molto avere l'Avviamento professionale);la vita era grama, stentata; i trasporti quasiinesistenti e spesso a rischio di rapina, specie nelgiorno della fiera del bestiame di Abbasanta; perandare a Ghilarza ci voleva una giornata.

E i seminari e i conventi in questa situazioneebbero una funzione di supplenza della scuolapubblica media e superiore, uno strumento dielevazione, di uscita dall'isolamento, diacculturazione e naturalmente anche di plagio, ose si vuole essere meno severi, di condi-zionamento delle coscienze. La Chiesa ci diedequello che lo Stato non poteva, o non era ancorain grado di darci. La figura del parroco eraveramente quella da romanzo ottocentesco. Nondico quella del farmacista, perché a Sedilo lafarmacia arrivò tardi, molto tardi. Il Parroco, ilmedico (il mitico dottor Riccio) e unindimenticato (e indimenticabile) impiegatocomunale, tziu Bore Maronzu, erano i pilastri delpaese (tralascio qualche altra figura per evitarespiacevoli - postumi - malintesi). E il maresciallodei carabinieri, che in anni in cui a Sedilo le armicantavano facilmente il loro cantico di morte,spesso ebbe un potere debordante e incontrollato.Contrastato solo - e qui il ricordo personale è

vivissimo - da un' altra figura religiosa autorevolee autoritaria: il parroco «storico», don VittorioPinna, di Santulussurgiu. Il sacerdote che aprì lescuole professionali, che distribuiva i pacchi dellaPoa (Pontificia opera assistenza), che facevasuonare le campane quando un comunista comeRenzo Laconi veniva a tenere i comizi elettoraliin rughes de istrada, che dentro la chiesaparrocchiale affisse i manifesti in cui i comunistierano dichiarati scomunicati.

Fu lui, don Pinna, in un'alba livida, segnatadalle urla belluine e disperate di alcuni pastoripestati in caserma con sacchetti di sabbia (così isegni sul corpo erano meno vistosi) a levarsi dalletto della casa parrocchiale prospiciente lastazione dei carabinieri e ad alzare la sua vocepossente: «Basta, basta, basta brigadiere Ferri,basta. Lei sta ammazzando questa povera gente».Le grida di dolore cessarono subito, l'usanza diprovocarle molto più tardi.

Certo, non tutti i ricordi si tingono di coloricosì drammatici. «Avanzen sas virgines», esortò,ad esempio, con voce stentorea Peidre Marras, inuna calda mattinata del 3 settembre 1956, o giùdi lì. Dalla chiesa di santa Croce stava giusto perpartire la processione della Croce. Nessuna dellepie donne sedilesi, col giglio in mano, però, si

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mosse all'esortazione del sacerdote. Tutte ferme.Come paralizzate. A guardare, incredule, l'unicache si avanzava verso il prete, col candido giglioben stretto nella mano destra, il rosario nellasinistra. «Eh no, proprio tu...» esclamò alloraPeidre Marras, indeciso tra il riso e l'indignazione.L'aspirante capintesta della processione eral'unica giovane che, a quanto mormoravano inpaese, avesse poco a nulla da spartire sia col gigliosia con santa Maria Goretti.

E come dimenticare Don Sanna, quando, sullasalita della strada bianca, polverosa e assolata perGhilarza, perse letteralmente un giovane(aspirante) pretino dal sedile posteriore della suastorica Vespa? Don Sanna si accorse dellapecorella smarrita solo a destinazione, la«metropoli» di Zuri. Quelle che uscirono dallabocca del viceparroco di Sedilo non furonoesattamente giaculatorie. D'altra parte, il suo irosocommento a situazioni nervose (e don Sanna siincazzava spesso e volentieri, come ben ricordanole nostre orecchie strattonate senza pietà) era:«quando ci vuole, ci vuole».

Crescendo, questa parte della generazionesedilese che non lasciò prematuramente il

seminario (di Bosa), passò a Cuglieri, stazioneda cui non si può prescindere nella storiaeconomico- sociale- religiosa e anche politica(sì, anche politica) di Sedilo e della Sardegnatutta. Basterebbe chiedere a tanti amministratoripubblici (comunali, provinciali, regionali) delloro passato giovanile. E basterebbe rivedere gliannali: dal 1928 al 1970 dal seminario regionaledi Cuglieri uscirono circa 1100 sacerdoti novelli,una ventina dei quali divennero vescovi. Ilseminario era stato aperto ai seminaristi e aichierici di tutta l'isola il 2 ottobre 1927. Era statopromesso da Pio XI ai vescovi sardi nel 1924per fornire un'adeguata preparazione culturalee spirituale ai futuri sacerdoti. Nello stesso tempoil Papa concesse al Seminario il diritto diconferire i gradi accademici in Teologia eFilosofia. La dirczione, l'amministrazione el'insegnamento di quasi tutte le discipline furonoaffidate ai Gesuiti della Provincia Torinese.Molti di essi furono di alto livello, spirituale,scientifico e umano. Qualcuno, come loscomparso padre Furreddu, assurse a fama dispeleologo internazionale. Altri furono mediocrie degni dell'oblio.

Si riconoscono, da sinistra, in piedi: Don Ciulu, Don Masia, Don Cabiddu, Pietrine Riccio, Don Falchi, Natale Sanna. Seduti:Peidre Marras, Rettore Manca, Don Sanna. (Foto fam. Fancello)

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Ha scritto, non ricordo chi, forse un sacerdoteo uno dei pochi sardi che non ha voluto far caderenel dimenticatoio questa parte della storia sardo-sedilese: «Con tutta la riconoscenza che abbiamoper i gesuiti, non possiamo dimenticare che lalingua sarda e i canti sardi erano proibiti, fin dalseminario minore. E così abbiamo un clero chenella maggior parte è cresciuto cantando "Vorreich'io fossi un fiore, un fiore dell'aitar", inveceche crescere come pianta radicata sul terrenosolido della tradizione». A voler essere polemici,i rimproveri da muovere potrebbero essere anchealtri. Ad esempio, non si resero conto, o nonvollero, o non poterono, che, agli inizi degli anni'60 (era l'epoca di Kennedy, di Giovanni XXIII,della crisi cubana, del Concilio Vaticano II) lagenerazione dei giovincelli (sedilesi e non)affidati alle loro cure, stava cambiando.

E non trovava più le risposte adeguate ai tantidubbi e perché legati all'epoca e all'età. O nonsubiva più la repressione: no, non quella sessuale,ma quella ideologica, filosofica, religiosa (aSedilo si scherzava molto sul fatto che tantibuttassero via la tonaca per fame... di femmine).O semplicemente perché ciascuno voleva esserepadrone della propria esistenza. Non accettavacioè di farsela costruire da quelle strutture portantiche ti portavano al sacerdozio talora perincoscienza, o, talora, per non avere il coraggiodi sfidare i malevoli pettegolezzi della gente: «Hastudiato gratis (o quasi) e ora, ingrato, se ne vadal seminario». Furono pochi gli assennati chegiustificano «le diserzioni di massa» dai seminari:«Menzus chi si ch"essat dae fora chi no daemesu». Insomma meglio prima che dopo.

Infatti, per una ragione o per un'altra, lamaggioranza di quei giovani rinunciò ai sentieri delcielo e se ne tornò a casa. Chi straziato, concomplessi di colpa mai risolti (un mio compagnomorirà suicida a Milano, un altro mi scriveràdisperato per essere arrivato all'ordinazione per forzad'inerzia, non avendo avuto la forza di mollare). Chise ne andò rabbioso, chi da opportunista, giàcalcolando di usare, da laico, la Chiesa comestrumento per la sua carriera e professione.

E chi semplicemente in una dolce mattinad'ottobre, si svegliò, mandò a quel paese unoscalcagnato gesuita professore di Filosofia (ilmarxismo, ad esempio, lo insegnava così: «Marxera un mandrone, se ne stava tutto il giorno a letto efaceva lavorar la moglie»; quindi prese posto in «supostale» Scano Montiferro- Nuoro delle 5; arrivò aSedilo alle 7 e fece ammalare sua madre per 15giorni. O forse per sempre. Segnò la sua vita.

E anche la mia. Ma non mi sono mai pentito equell'alba la vivo ancor oggi come radiosa, nontragica. Un'alba di liberazione. Anni dopo hoappreso della chiusura del Pontifìcio SeminarioRegionale di Cuglieri e della vendita dell'edifìciodalla Santa Sede alla Regione Sarda. Ogni tantomi capita di passarci davanti. Lo faccio con piacere.Lo mostro sereno alla mia famiglia. Non ha futurochi prova vergogna del proprio passato. Quellamaestosa costruzione racchiude un pezzo di storia.

Per chi scrive poi è anche come i profumi e isapori de «sa eda, su frenugu, sa zicoria,s'ambularza, sa nafrutza, sa menta areste,s'isparau, su lidone». Una volta sentiti e assaggiatinon li puoi buttar via. Sono parte del tuo corpo edel tuo sangue. Sono la tua vita.