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Pag. 29 COSTANTINOPOLI Dall’inizio del XIX secolo Costantinopoli e la Turchia ottomana sono una tappa obbligata del viaggio in Oriente. I primi tempi, poiché gli Ottomani sono guardati essenzialmente come i tiranni/carnefici della Grecia, non ci si sofferma affatto. Chateaubriand detesta questa grande metropoli, ma Lamartine, nel 1832, appassionandosi alle vestigia bizantine, affascinanti segni dell’Impero Romano d’Oriente, tenta di condividere con i Francesi il suo stupore davanti ai fasti e alle bellezze che accompagnano il regno dei sultani. Quando termina il conflitto in Grecia e l’Impero Ottomano non è più un nemico giurato, Lamartine tenta di convincere i suoi pari alla Camera della necessità di un’alleanza (alleanza che si concretizza sotto il Secondo Impero durante la prima guerra di Crimea) e Costantinopoli diventa un vero oggetto di curiosità. Bisogna aggiungere gli scavi archeologici che si svolgono in Anatolia. Charles Fellow percorre l’Anatolia del Sud-ovest nel corso di quarant’anni, esplorando soprattutto la Licia, facendo trasportare al British Museum il monumento Nereide di Xanto. Un altro studioso inglese, Layard, guida da parte sua gli scavi di Nimrud, di Ninive e di Assur nel 1847. Il fregio di Alicarnasso, che si trova a Bodrum, viene a sua volta trasportato a Londra. I viaggiatori si fanno sempre più numerosi e, nel 1854, appare l’indispensabile Murray’s Guide to Turkey. Si fanno investimenti per stampare album che permettono di apprezzare meglio gli splendori di Costantinopoli, come quello dell’architetto Caspare Fossati pubblicato nel 1852, che comprende 25 tavole incise raffiguranti la basilica di Santa Sofia, restaurata per la prima volta tra il 1847 e il 1849. Grandi scrittori ne fanno un punto d’orgoglio della loro odissea in Oriente. Gérard de Nerval nel 1843, Gustave Flaubert e Maxime Du Camp nel 1851, Théophile Gautier nel 1852, Edmondo De Amicis nel 1877, Edmond About nel 1884 e infine Pierre Loti e Claude Farrère alla svolta del secolo, contribuendo a creare il mito della capitale di un universo che si rivela il sogno fantasmagorico dell’Europa dell’età industriale (e non più il centro del potere in crisi permanente di questa enorme nazione soprannominata “il malato d’Europa”). 1

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COSTANTINOPOLI

Dall’inizio del XIX secolo Costantinopoli e la Turchia ottomana sono una tappa obbligata del viaggio in Oriente. I primi tempi, poiché gli Ottomani sono guardati essenzialmente come i tiranni/carnefici della Grecia, non ci si sofferma affatto. Chateaubriand detesta questa grande metropoli, ma Lamartine, nel 1832, appassionandosi alle vestigia bizantine, affascinanti segni dell’Impero Romano d’Oriente, tenta di condividere con i Francesi il suo stupore davanti ai fasti e alle bellezze che accompagnano il regno dei sultani. Quando termina il conflitto in Grecia e l’Impero Ottomano non è più un nemico giurato, Lamartine tenta di convincere i suoi pari alla Camera della necessità di un’alleanza (alleanza che si concretizza sotto il Secondo Impero durante la prima guerra di Crimea) e Costantinopoli diventa un vero oggetto di curiosità. Bisogna aggiungere gli scavi archeologici che si svolgono in Anatolia. Charles Fellow percorre l’Anatolia del Sud-ovest nel corso di quarant’anni, esplorando soprattutto la Licia, facendo trasportare al British Museum il monumento Nereide di Xanto. Un altro studioso inglese, Layard, guida da parte sua gli scavi di Nimrud, di Ninive e di Assur nel 1847. Il fregio di Alicarnasso, che si trova a Bodrum, viene a sua volta trasportato a Londra. I viaggiatori si fanno sempre più numerosi e, nel 1854, appare l’indispensabile Murray’s Guide to Turkey. Si fanno investimenti per stampare album che permettono di apprezzare meglio gli splendori di Costantinopoli, come quello dell’architetto Caspare Fossati pubblicato nel 1852, che comprende 25 tavole incise raffiguranti la basilica di Santa Sofia, restaurata per la prima volta tra il 1847 e il 1849.

Grandi scrittori ne fanno un punto d’orgoglio della loro odissea in Oriente. Gérard de Nerval nel 1843, Gustave Flaubert e Maxime Du Camp nel 1851, Théophile Gautier nel 1852, Edmondo De Amicis nel 1877, Edmond About nel 1884 e infine Pierre Loti e Claude Farrère alla svolta del secolo, contribuendo a creare il mito della capitale di un universo che si rivela il sogno fantasmagorico dell’Europa dell’età industriale (e non più il centro del potere in crisi permanente di questa enorme nazione soprannominata “il malato d’Europa”).I primi pittori a soggiornare nell’antica città bizantina, epicentro dell’impero latino d’Oriente, sono spesso piccoli maestri che però non mancano di fascino, come il parigino François Dubois, che ama rappresentare le cerimonie ufficiali, o il polacco Sandor Alexander Swoboda, che si specializza nei ritratti alle donne dell’arem con una ingenuità e un fascino innegabili.

Foto sopra: Souvenir (ricordo) d’Asia MinoreCharles de Tournemine, verso 1865Olio su tela, 43 x 64 cm(Museo degli Agostiniani, Tolosa)

Foto sotto: Passeggiata di donne turche in Asia – tramontoCharles de Tournemine, 1863Olio su tela, 68 x 125 cm(Museo Fabre, Montpellier)

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Foto sopra: Interno di una moschea

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Jean-Léon Gerȏme, senza dataOlio su tela, 22 x 31 cm(Museo Georges Garret, Vesoul)

Foto sotto: Le favorite dell’arem nel parcoCesare Biseo, verso 1880Olio su tela, 41 x 62 cm(Galleria d’Arte moderna Ricci Oddi, Piacenza)

Lo scozzese David Wilkie è senza dubbio quello che ha rivelato Costantinopoli all’ Occidente. Dopo aver percorso il continente europeo, traversando l’Itala, la Spagna, la Francia, dove fa visita a Delacroix che lo impressiona molto, viene nominato pittore del re al suo ritorno nel 1828. Nel 1840 parte per il Vicino Oriente con l’idea di andare in Terrasanta. Arriva a Costantinopoli quando scoppia la guerra con l’Egitto di Mehemet Ali, il cui figlio ha invaso la Siria. Non può circolare e rimane alcuni mesi a fare ritratti di persone comuni e a schizzare scene di genere. A poco a poco impara a comprendere questo mondo, di cui non sapeva quasi nulla, e lo stima sempre più. A questo proposito scrive: “Forse noi valutiamo ingiustamente secondo il nostro metro i costumi e i rapporti umani di razze meno avanzate, dimenticando che gli Orientali conobbero civiltà avanzate ben prima di noi. Benché essi abbiano oggi un considerevole ritardo rispetto a noi, ci hanno dato una quantità di elementi che ha permesso il fiorire della nostra civiltà”. Egli esegue il ritratto del giovane sultano Abdȕlmecit nel 1840. L’anno seguente esegue il Ritratto di Satori, dragomanno di M. Coloquhan, il Ritratto del maestro James William Whithall che tiene un fucile chiedendo al ragazzo di indossare un costume turco. Dipinge anche su tavola Il pubblico scrivano turco, ricordando la scena che lo ha ispirato: “Ho visto nel cortile esterno di una moschea uno scriba dall’aspetto molto venerabile. Leggeva una lettera che aveva appena

scritto per due donne turche, di cui una molto graziosa; il modo in cui i personaggi erano disposti ne faceva una composizione ideale per un pittore.” Egli prosegue il suo viaggio fermandosi al Cairo per fare il ritratto di Mehemet Ali e arriva in Palestina, dove realizza il suo sogno. Muore sulla strada del ritorno. Turner gli rende omaggio eseguendo Pace: funerali in mare.È Alexandre-Gabriel Decamps che rende popolare in Francia lo stile di vita degli Ottomani. Arrivato in Turchia all’inizio del 1828, si stabilisce provvisoriamente a Smirne dove bene o male riesce a organizzare il suo atelier. Di ritorno in Francia nel 1829, realizza sette quadri partendo dagli schizzi ad acquerello o a matita, che vengono esposti al Salon del 1831 e suscitano sensazione. Egli ama mostrare scene della vita semplice dei soldati o dei macellai, dei monelli di scuola del suo quartiere o dei piccoli bottegai. Continua per tutta la carriera a dipingere le più umili figure caratteristiche della Turchia, come il Bambino turco alla fontana (1846).

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Tenta talvolta composizioni più ambiziose, per esempio il Supplizio dei ganci (1837). Deluso di non avere commissioni pubbliche, si ritira in campagna e distrugge il suo diario di viaggio e la maggior parte dei suoi bozzetti della Turchia. Tuttavia continua a riportare sulla tela i suoi soggetti favoriti e fino alla morte rimane uno dei più importanti orientalisti francesi.Il maltese Amadeo Preziosi, che sbarca alla fine del 1842, misura instancabilmente le strade della vecchia Istanbul e colleziona le scene pittoresche del bazar, delle feste familiari, dei paesaggi idilliaci, i piccoli mestieri, le differenti etnie che vivono gomito a gomito: Albanesi, Ebrei, Armeni, Bulgari, Greci, Turchi, etc. Pubblica due album di litografie, il primo nel 1858 Souvenirs d’Istanbul di vita orientale, il secondo nel 1861, Istanbul,

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ricordo d’Oriente. Espone i suoi dipinti a Parigi nel 1858 e nel 1867 e a Londra nel 1863, poi al Club d’Istanbul nel 1880 e 1881. Diviene pittore ufficiale alla corte di Abdȕlhamid II.Nel corso del suo lungo periplo in compagnia di sir Thomas Phillip, Richard Dadd arriva a Costantinopoli alla fine del 1842; dopo aver attraversato l’Italia, essersi appassionato al Tintoretto e al Veronese a Venezia e aver peregrinato in Grecia (Corfù, Patrasso, Peloponneso, Atene, Tebe e infine Delfi), giunge sulla costa anatolica e visita Smirne. Il pittore non parte mai senza portare con sé il blocco degli schizzi, che riempie con assiduità da quando ha messo piede sul suolo greco. Nella città del Gran Signore, disegna a pastello dei monumenti (tra cui la Sublime Porta) ed esegue un ritratto di sir Thomas in costume orientale. I due viaggiatori ritornano a cavallo passando per Bodrun (l’antica Alicarnasso) per recarsi in Licia.Quanto al pittore russo Ivan Constantinović Aȉvazosky, egli ha la fortuna di poter navigare con il granduca Constantin Nikolajević lungo le coste dell’Anatolia nel 1845 e di passare qualche tempo a Costantinopoli. Vi ritorna altre due volte sotto il regno di Abdȕlmecit. Esegue il ritratto del suo successore Abdȕlaziz nel 1874. I suoi paesaggi, benché tratteggiati in stile neoclassico, emanano una profonda poesia, come dimostrano Eyȕp al chiaro di luna (1874) o Sarayburnu (1874). Gli artisti europei cominciano ad affluire a Costantinopoli alla metà del secolo. Vi si incontrano artisti minori, come Germain-Fabius Brest, che vi dimora quattro anni. Egli eccelle nella descrizione delle strade cittadine e dei dintorni con quadri di una delicatezza sottile, come Uskȕdar, Davanti alla moschea, il Caffè turco, le Rive del Bosforo, la Veduta del Bosforo, etc.

Foto: Mercante turco che fuma nella sua bottegaAlexandre-Gabriel Decamps, 1844Olio su tela, 36 x 28 cm(Museo d’Orsay, Parigi)

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Jean Brindesi pubblica due notevoli album presso Lemercier nel 1856, Antichi costumi turchi di Costantinopoli e Souvenir di Costantinopoli, contenenti ventiquattro litografie ciascuno. Il suo scrupoloso realismo non gli impedisce di restituire i luoghi che egli dipinge con una reale intensità.È nel 1856 che Félix Ziem, viaggiatore impenitente, si lancia in un grande periplo nel Mediterraneo orientale. Costantinopoli lo abbaglia quanto Il Cairo e soprattutto Venezia. Al suo ritorno, egli elabora un gran numero di composizioni, associando vedute prese dal Bosforo e dal Corno d’Oro a grandi effetti celesti, con la luce che spande sui suoi paesaggi una luminosità cangiante e irreale. Ziem è uno dei rari artisti che associano una volontà di verità a un tratto puramente pittorico nello spazio. Nel corso del tempo, Ziem non cessa di ricomporre i ricordi del suo soggiorno, passando da un realismo ponderato a visioni fantastiche di crepuscoli infiammati o mattini incantatori.Il sultano Abdȕlaziz desidera sviluppare e modernizzare in senso occidentale le arti plastiche del suo paese e favorisce l’attività degli artisti stranieri. Perciò autorizza l’apertura dell’Accademia della pittura e del disegno di Pierre Désiré Guillemet, che annovera tra i suoi allievi pittori turchi, alcuni dei quali faranno una bella carriera, come Sarkis Direnyan. Egli lavora per il sultano, realizzando diversi ritratti di lui e delle dame della corte (tra il 1874 e il 1875), lavorando a dipinti murali per il palazzo di Dolmabaçe, partecipando alle esposizioni ufficiali tra il 1873 1 il 1877, anno della sua morte.Jean-Léon Gerȏme viene a Costantinopoli solo nel 1875, senza dubbio nel desiderio di approfondire le sue conoscenze, già vaste, del mondo islamico.

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Ma è letteralmente conquistato da questa città animata e piena di contrasti. Vi ritorna nel 1879 e produce un discreto numero di tele con soggetti ispirati a ciò che ha visto. Prova una strana predilezione per i soldati, rappresentando degli arnauti*, dei bachi-bouzouks* o le guardie del sultano. Utilizza più spesso fotografie per dare alle sue scene un’innegabile autenticità, e il palazzo di Topkapi gli fornisce l’essenziale per le sue scenografie. Anch’egli forma/istruisce la maggior parte dei pittori turchi che contano alla fine del XIX secolo, a cominciare da Osman Hamdi, Seket Ahmed Pasha e Halil Pasha, ma anche Ali Cemal e Théodore Ralli, che studiano nel suo atelier parigino. Si può dunque dire che egli ha educato una generazione di artisti ottomani secondo la sua visuale. Sket Hamdi Pasha, che costituisce la prima collezione d’arte occidentale contemporanea per Abdȕlaziz, chiede consiglio a Gerȏme, che vi occupa un posto di riguardo.

Foto: Khan* della sultana convalidato a CostantinopoliGermain-Fabius Brest, senza dataOlio su tela, 115 x 166,5 cm(Palazzo di Mohamed Aly Tewfik, Il Cairo)

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Numerosi pittori italiani vennero ad abitare a Costantinopoli per rigenerare la loro ispirazione e per tentarvi la fortuna. Alberto Pasini, che ha scelto di vivere a Parigi dove ha lavorato nell’atelier di Chassériau e conosciuto Delacroix, Decamps, Théodore Rousseau e J.B. Isabey, conosce già la Persia e l’Egitto quando s’imbarca per il Bosforo. Dimora per due anni in Turchia tra il 1867 e il 1869. Il sultano Abdȕlmecit gli commissiona due quadri,

l’Attacco della cavalleria turca (1868) e il Bombardamento di un bastimento (1869). Egli dipinge molte vedute della città, dedicandosi soprattutto a mettere in evidenza le architetture, come in All’esterno della moschea o la Guardia in piedi.

Foto: Veduta di CostantinopoliGermain-Fabius Brest, verso 1870Olio su tela, 51,4 x 75 cm(Museo delle Belle Arti, Nantes)

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Il romano Cesare Biseo, che già conosce l’Egitto e il Marocco, viaggia a Costantinopoli nel 1877 in compagnia dello scrittore Edmondo De Amicis, prendendo numerosi schizzi per illustrare il suo racconto. Queste incisioni/stampe costituiscono un importante repertorio sull’aspetto della città in quest’epoca. Salvatore Valeri arriva nella capitale ottomana agli inizi degli anni 1880. Trova impiego in seno alla giovane Accademia delle belle arti nel 1883, che conserva fino al 1913. Dipinge paesaggi di grande suggestione (come Veduta di Kagithane) e si sente piuttosto attratto dalla gente semplice (Portatore d’acqua; Uomo che suona la chitarra; La zingara; Il venditore ambulante, etc.). Leonardo de Mango sbarca sulle rive del Bosforo agli inizi degli anni 1880. Ha già viaggiato in Siria, dov’è rimasto diversi anni, in Egitto e in Libia. Dipinge soprattutto vedute dei quartieri della città (per esempio Impressioni d’una strada a Eyȕp, Notte a Fener, Alla fontana, Venerdì a Kȕçȕksu). Egli vi abita fino alla morte che sopraggiunge nel 1930, eccetto un soggiorno in Libia nel 1911 all’epoca della conquista italiana. Nel 1891, quando si sposa, il pittore padovano Fausto Zonaro decide di vivere a Costantinopoli dopo aver condotto fino allora una vita

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errabonda. Si consacra alla descrizione della vita cittadina (Dame che salgono in un caicco, che ha una tonalità foscamente veneziana, la Brigata dei genieri pompieri, etc.), dipinge cerimonie, come la Sfilata militare che attraversa il ponte di Karakȍy (1896). Riceve il titolo di pittore di Sua Maestà il Sultano nel 1896, che gli dona un atelier sulla riva del Bosforo. Egli può dipingere le donne dell’arem grazie a sua moglie, che è autorizzata a fotografarle. I suoi dervisci, il suo scriba itinerante, le sue odalische contribuiscono a dare della Turchia una doppia immagine, che da un lato rafforza i solidi clichés e dall’altro fa scoprire aspetti sconosciuti della società turca.

Foto sopra: Ritratto di Pierre Loti, “Fantasma d’Oriente”Lucien Lévy-Dhurmer, 1896Pastello, 42 x 56 cm(Museo Basco, Bayonne)

Foto sotto: Il BosforoFélix Ziem, 1883Olio su tela, 53 x 70 cmMuseo delle Belle Arti, Reims)

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EUGÈNE DELACROIX O IL VIAGGIO INIZIATICO

“Il Marocco appartiene a Delacroix che l’ha scoperto e che l’ha conquistato: è la sua pittoresca giurisdizione di pascià.”

Théophile Gautier

Foto piccola: Combattimento del Giaour e del PasciàEugène Delacroix, 1827Litografia in nero su carta avorio, 35,8 x 26 cm(Collezione privata)

Eugène Delacroix ha intrattenuto una relazione stretta e passionale con l’Oriente ben prima della sua partenza per il Marocco. Questa relazione ha origine negli avvenimenti dei Balcani e nella guerra d’indipendenza greca che gli forniscono una perfetta occasione per esprimere la sua filosofia della pittura. Il Massacro di Scio (1824), La Grecia sulle rovine di Missolonghi (1826), la Scena della guerra dei Greci contro i Turchi (1827) che riprenderà quasi trent’anni più tardi con l’Episodio della guerra in Grecia. Tale filosofia si alimenta poi con quel colpo di scena che è la Morte di Sardanapalo. Egli prepara questa enorme tela per il Salon del 1827-1828. Essa s’inserisce nel filone delle grandi opere macabre come la Rivolta del Cairo di Girodet, la Zattera della Medusa di Géricault, l’Incendio di Troia di Pierre-Narcisse Guérin che Baudelaire qualifica “d’ebbrezza, d’atrocità universale”. Soggetto crudele e di rara violenza, questa reminiscenza della storia antica resta nella sua presentazione senza il minimo riferimento letterario. Delacroix non ha ritenuto opportuno indicare da dove gli è giunto questo progetto magniloquente e sanguinario d’un potentato orientale che fa mettere a morte tutte le donne del suo serraglio insieme ai “cavalli e cani favoriti”. Tuttavia, il soggetto proviene da una tragedia in cinque atti che Byron ha dedicato a Goethe nel 1821. Forse ha voluto rendere più sorprendente il suo quadro eliminando ogni allusione al Sardanapalo di Byron che è un monarca ambiguo, ma di carattere liberale e buono, che pensa solo al benessere del suo popolo. In linea generale, se Delacroix fa tutto ciò che è in suo potere per gettare le basi di una forma di pittura inaudita, egli si appoggia alla lettura di autori come Dante, Shakespeare, Tasso o Walter Scott. Ma, fra tutti, è lord Byron che lo mette sulla via dell’Oriente. Nel 1825 ha già terminato due piccole tele che sembrano dialogare, il Turco seduto che fuma e l’Odalisca allungata su un divano, una visione erotica che nasce da un fantasma d’Oriente.

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Foto: Morte di SardanapaloEugène Delacroix, 1827Olio su tela, 392 x 496 cm(Museo del Louvre, Parigi)

A questa data, egli ha già letto la traduzione francese di The Giaour del poeta inglese, che lo rapisce. Scrive nel suo diario l’11 maggio 1824: “Il poeta è molto ricco: ricordati, per infiammarti eternamente, certi passaggi di Byron, che mi vanno bene. La fine della Fidanzata di Abydos, la Morte di Selim, il suo corpo rovesciato dai flutti che viene a morire sulla spiaggia. Questo è sublime. Sento queste cose come la pittura le richiede”. Il poema di Giaour lo ispira in modo particolare. Fa un primo quadro nel 1826 e lo espone alla Galleria Lebrun. E' assillato per anni dall’’amore tragico di Giaour per la schiava Leila, che il potente padrone fa rinchiudere in un sacco e gettare in mare. Nel 1835 dipinge il Combattimento di Giaour e del Pascià, l’anno seguente Il Giaour e Hassan e nel 1856 Il Giaour e il Pascià. Lo confessa nel suo diario del 1824. Allo stesso modo, egli si diletta con un’altra storia d’amore superba e violenta, che lui tratta a più riprese e che termina nella disperazione e nel sangue, La fidanzata di Abydos : storia della bella e disgraziata Zuleika, costretta a sposare un uomo che non ama, la quale fugge con suo cugino Selim, che lei crede suo fratello, il quale viene ucciso nel tentativo di salvarla.

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Nell’aprile 1824, Eugène Delacroix fa una battuta ironica a proposito dell’infatuazione generale per i lunghi viaggi in Oriente: “Andare in Egitto?

Si mettono tutti a saltare di gioia. E non è niente di più che andare a Londra”. Quando il re Luigi-Filippo decide di inviare una delegazione al presso il Mullah Abd Al-Rahman, sultano del Marocco, con la scusa di accompagnare Charles Edgar de Mornay (che deve regolare seri problemi diplomatici poiché la regione di Orano s’infiamma), fa appello in primo luogo a Eugène Isabey. Questi rifiuta e Delacroix propone la sua candidatura. Così s’imbarca il 10 gennaio sulla corvetta La perla. I plenipotenziari francesi arrivano a Tangeri il 25. Da questo momento tutto attrae la curiosità dell’artista, tutto lo affascina e lui osserva: “Tutto Goya palpitava intorno a me”. A Tangeri non si spegne il suo desiderio di scoperta, poiché, per lui è “un luogo fatto per i pittori … vi abbonda il bello, non il bello così vantato nei quadri alla moda”. Vuole che a Parigi si sappia che “a ogni passo vi sono dei quadri pronti che farebbero la fortuna e la gloria di venti generazioni di pittori” e sottolinea che incontra continuamente “la vita sublime e sorprendente che corre qui nelle strade.

Foto: Pirati africani che rapiscono una ragazzaEugène Delacroix, 1853Olio su tela, 65 x 81 cm(Museo del Louvre, Parigi)

**Mulay Abd Al-Rahman, sultano del Marocco, che esce dal palazzo di Meknès, circondato dalla sua guardia e dai suoi principali ufficialiEugène Delacroix, 1845Olio su tela, 377 x 340 cm(Museo degli Agostiniani, Tolosa)

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Durante i sei mesi che trascorre nell’Africa del nord, riempie sette grossi blocchi di schizzi e un grande album di diciotto acquerelli, che offre al conte di Mornay alla fine del viaggio. E, poco dopo, confida a Théodore Silvestre che per lui le cose non sono sempre semplici: “Ho preso i mei schizzi al volo e spesso con difficoltà a causa dei pregiudizi dei musulmani verso le immagini.” Comunque, è raro che una tappa non gli fornisca il pretesto di un’opera pittorica. Il 21 febbraio, mentre soggiorna a Tangeri, ha la fortuna di assistere a un matrimonio ebraico. Lo consegna al suo blocco con una miriade di dettagli poiché spesso accompagna i suoi rapidi schizzi con note scritte. Passano nove anni ed egli termina il Matrimonio ebraico in Marocco che viene accettato al Salon. Nel Giornale dei dibattiti dell’aprile 1841, Delécluze afferma che quando si esamina da vicino questa tela “tutto diventa confuso e vago”, spiegando che l’occhio è spiacevolmente preoccupato da pennellate rosa, gialle o blu che gli sembrano andare in disordine in tutte le direzioni. Questa critica negativa si rivela in fin dei conti una descrizione ben sentita delle intenzioni dell’artista, che vuole introdurre una nuova relazione con la pittura mentre il suo rapporto passionale con il Marocco ha subito una profonda metamorfosi. Il soggetto e la sua trattazione vanno di pari passo perché lo spettatore partecipi a questa allegria, grande spettacolo di luce attraverso la pienezza /l’espandersi dei colori. Nel suo album egli ha già deciso il luogo in cui sistemare i suoi personaggi, un cortile a Tangeri, che modifica appena per la necessità della sua composizione. Solo i muri bianchi sono stati sostituiti da una combinazione di chiari e scuri.

Foto: Due donne arabe sedute(Studio per le Donne di Algeri)Eugène Delacroix, verso 1832Acquerello su tratti a mina di piombo, 10,7 x 13,8 cm(Museo del Louvre, Parigi)

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Foto: Donne di Algeri nel loro appartamentoEugène Delacroix, 1834Olio su tela, 180 x 229 cm(Museo del Louvre, Parigi)

Il 5 marzo Delacroix parte per Meknès dove il sultano deve finalmente ricevere l’ambasciatore straordinario. Il lento periplo di dieci giorni gli fa scoprire mille aspetti di questo paese e dei suoi abitanti. È senza dubbio in questo periodo che fa una scorta considerevole di soggetti che svilupperà in seguito. Ad esempio, la carovana si accampa sulle rive del fiume Sebou, unaaspra regione di cui si ricorderà nel 1858 in una tela, in cui la umanizza e le dona un aspetto quasi europeo, al punto da renderla quasi idilliaca. Il 22 marzo, l’ambasciatore straordinario di Francia è ricevuto nella città santa dal re del Marocco. Delacroix ne fa un maestoso ritratto, accompagnandolo dal suo favorito Muchtar e circondandolo dalla guardia che gli rende onore. Tale quadro è terminato solo nel 1845 ed è esposto al Salon dello stesso anno. Egli dichiara nell’opuscolo di aver riprodotto “esattamente la cerimonia di un’udienza alla quale l’autore ha assistito”; il che è falso, poiché egli ha modificato la scena per ritenere solo l’effetto della folla davanti alle mura della città. Il rapporto con la storia, per lui, passa attraverso il filtro di una reinvenzione, che non è un vero e proprio tradimento.

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Ma la scena ricomposta non si limita alla commemorazione di un episodio importante la cui portata, però, è tutto sommato limitata. Egli fa due nuove versioni di questo ritratto, più piccole, nel 1856 e nel 1862.Sulla strada del ritorno in Francia, fa uno scalo di tre giorni ad Algeri nel mese di giugno. È forse qui che ha immaginato la tela intitolata Donne di Algeri nel loro appartamento, che esegue nel 1834 e che è considerata uno dei suoi capolavori? Niente lo prova per davvero, anche se Charles Cournault afferma che il rais gli avrebbe permesso di vedere le sue donne/mogli. I suoi schizzi acquarellati mostrano delle donne (Moûni Bensoltane , Moûnie Zorha Bensoltane…) che assumono pose piuttosto simili a quelle che lui fa prendere alle belle Orientali che appaiono nel suo quadro. Annota con cura dei dettagli che concernono i loro abiti: “Blu perla – gesso nero – seta blu (o bianca?) – verde-blu rigato – blu e rosa (O rosso?) – orologio da polso”. Quando rientra a Parigi, esegue numerosi studi preparatori, tra cui il superbo pastello della Donna algerina seduta. Delacroix ha costruito il suo quadro partendo da una certa duplicità, che si traduce in un perfetto equilibrio tra una composizione “classica”, senza dubbio derivata dai Veneziani che egli tanto ammira, e una trattazione cromatica che rende la dolce chiarezza del componimento carica di toni caldi e che suggeriscono un’atmosfera sensuale e profumata.

Foto Nozze ebraiche in MaroccoEugène Delacroix, 1837-1841Olio su tela, 105 x 140,5 cm(Museo del Louvre, Parigi)

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Foto Musicisti ebrei di MogadorEugène Delacroix, 1847Olio su tela, 46 x 55,5 cm(Museo del Louvre, Parigi)

Se quest’opera ha potuto turbare gli amatori, come Delécluze, a causa dei suoi eccessi “romantici”, essi sarebbe stati certamente stupiti dalla seconda tela che egli esegue per il Salon del 1849, in cui la maggior parte dei dettagli dell’arredamento sono eliminati mutandosi infine in un fiammeggiare di rosso e di giallo.Il carattere particolare delle opere che escono dai suoi schizzi del Marocco, è, in gran parte, il frutto delle riflessioni che egli annota nel blocco o nelle lettere e che concorrono a formulare la sua filosofia dell’arte. In una lettera che spedisce da Tangeri esclama: “È bello! È come ai tempi di Omero!” Eancora: “Roma non è più in Roma.” Spiega a uno dei suoi corrispondenti: “I Romani e i Greci sono là alla mia porta; ho ben riso dei Greci di David […] Io li conosco.” Egli vi vede in permanenza “dei Catone, dei Bruto,… soddisfatti quanto lo doveva essere Cicerone sulla sua sedia curiale… E tutti in bianco come i senatori a Roma e i Panateniesi ad Atene” . In questo modo egli giunge a una definizione inedita del classicismo – un classicismo bello e buono che esiste all’epoca sua, ma sotto altri cieli. L’Oriente è la pura manifestazione di questo classicismo moderno. Questa concezione fa scuola, e numerosi orientalisti, senza seguire la sua strada sul piano estetico, adottano il suo punto di vista e lo applicano alla lettera.Dopo il Marocco, la pittura dell’Oriente costituisce quasi la sua seconda natura artistica. Egli porta a termine almeno ottanta quadri, una quindicina dei quali rappresentano cacce immaginarie.

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Queste manifestano la sua passione per i cavalli (non dice forse delle sue cavalcate “Mi danno un piacere infinito”?), come il Giovane turco che accarezza il suo cavallo (1826-1827), il Turco che sella il suo cavallo (1828), l’Ufficiale a cavallo (1828-1830), Fantasia davanti alla porta di Meknès, lo Scontro di cavalieri arabi (1843-1844), il Soldato marocchino seduto vicino al suo cavallo (1845), gli Eserciti militari dei Marocchini (1847), la stupenda Lezione di equitazione (1855), l’Arabo che si appresta a sellare il suo cavallo (1857), il Cavaliere arabo che lancia un segnale (1857), etc. Ama anche le scene di feste, di teatro e di musica. I Musicisti ebrei di Mogador , Commedianti e buffoni arabi (1848) dimostrano il suo profondo attaccamento al mondo dello spettacolo e dei saltimbanchi, qui magnificati dal clima orientale. In realtà niente sembra indifferente a Delacroix, e tutto è per lui pretesto per straordinarie digressioni pittoriche, che siano i dionisiaci Aȉssaouas (1834), l’Ossesso di Tangeri (1857), l’intrigante Veduta di Tangeri (1858) o ancora gli Arabi che giocano a scacchi (o Giocatori di scacchi a Gerusalemme, 1847-1848) in cui attribuisce una rara e impressionante dignità, dignità tutta classica, a questa scena di strada. E mai si è stancato di soggetti relativi al Maghreb. Qualche mese prima della sua morte, sta ancora dipingendo la Riscossione dell’imposta araba.

Foto: Il Caid, (Cadì?) capo marocchinoEugène Delacroix, 1837Olio su tela, 98 x 126 cm(Museo delle Belle Arti, Nantes)

** La riscossione dell’imposta arabaEugène Delacroix, 1847

Olio su tela, 66 x 82 cm(Collezione privata)

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LA LEZIONE DELLA PITTURA SOTTO LA MEZZALUNA D’ORIENTE

Se il viaggio in Oriente non ha del tutto sostituito il pellegrinaggio in Italia, è però divenuto il grande sogno di molti artisti che credono che, costeggiando l’Africa o l’Asia Minore, potranno accumulare energie sconosciute e rigenerare un’ispirazione capricciosa o sfuggente. L’orientalismo, come genere, è indefinibile per la maggior parte di loro. E per qualcuno è un richiamo irresistibile ma non sempre a portata di mano.Narcisse Diaz de la Peña, che frequenta il circolo romantico di rue du Doyenné, in cui regnano Nerval e Gautier, e dove non è raro incrociare Prosper Marilhat e Alexandre Dumas padre, trova un’atmosfera in cui le leggende germaniche e i racconti d’Oriente sono le chiavi di volta dell’estetica del posto. Gli abitanti del Doyenné hanno anche organizzato una grande festa in occasione della quale Camille Roger dipinge su dei pannelli in legno delle “fantasie orientali e di Hofmann” quando Alcide Lorentz caratterizza/tratteggia dei fieri Turchi (in costumi) da carnevale. Diaz de la Peña è sensibile alle aspirazioni di questa comunità di esteti. Essendogli stata amputata una gamba dopo un disgraziato incidente, egli

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non può andare più lontano dei boschi nei dintorni di Parigi. Ama percorrere il sottobosco di Barbizon e frequentare la gola di Apremont. Il suo amico Félix Ziem qualche volta lo accompagna nelle sue passeggiate e testimonia della sua volontà di raggiungere con la fantasia i suoi amici, che hanno avuto la fortuna di partire per incontrare i continenti misteriosi: “Ho visto Diaz dipingere nella foresta gli effetti magici dell’Oriente, miraggi inattesi, veri, soleggiati [sic]. Il tronco e la chioma del faggio bastavano più

dei raggi di tutti gli incantesimi per il poema più illuminato”. Nella Fontana a Costantinopoli (verso 1845), egli reinventa i luoghi degli Ottomani partendo dai documenti. Mostra un gruppo di personaggi seduti all’ombra di una grande albero davanti una magnifica fontana scolpita. In fondo, dietro una spessa tenda vegetale, sorge una grande moschea il cui minareto si staglia nel cielo. Per contro, nell’Orientale e sua figlia (1865) pone delle figure in un sottobosco autunnale che chiude l’orizzonte. Una donna giovanissima, col volto girato, una mano appoggiata sull’anca, stringe a sé la figlioletta. Egli gioca sul contrasto tra l’effetto di prossimità prodotto dalla familiarità del paesaggio e l’effetto di distanza generato dai costumi.

Adolphe Monticelli è anch’egli un orientalista per difetto. Questo amico di Diaz e di Ziem non andrà mai oltre Marsiglia. Tuttavia compone numerose tele in cui ci fa penetrare nel segreto degli arem o ci fa vibrare davanti impetuosi cavalieri arabi. In Scena orientale ( o Scena in Algeria, 1875-1880) coglie folle di uomini col turbante che si accalcano davanti l’entrata d’una moschea. Comunque, quando ne hanno i mezzi o quando possono essere ammessi ad una spedizione scientifica o militare, gli artisti si affrettano a preparare i bagagli e a imbarcarsi su una nave in partenza verso il paradiso della pittura.

Foto: Corpo di guardia turco sulla strada di Magnesia del Meandro

Alexandre Gabriel Decamps, 1883Olio su tela, 91 x 155 cm(Museo Condé, Chantilly)

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ALEXANDRE GABRIEL DECAMPS

Foto: Bambini turchi che giocano con una tartarugaAlexandre Gabriel Decamps, 1836Olio su tela, 72 x 91 cm(Museo Condé, Chantilly)

Dopo aver trascorso una parte dell’infanzia in collegio in Piccardia, il giovane Alexandre Gabriel è ammesso nell’atelier di un certo Bauchot, amico di suo padre, poi in quello di Abel de Pujol. Lo lascia quando può vendere piccoli quadri, e si dedica a dipingere la vita degli artigiani o dei bottegai sei sobborghi di Parigi. Grande ammiratore di Ingrès, ammira anche Murillo e Rembrandt di cui vede le tele al Museo del Louvre. Tra il 1822 e il 1823 collabora a L’album, pubblicazione per la quale fa delle litografie, come Povero negro! O il Massacro di Scio. Mal disposto verso la Restaurazione, disegna numerose caricature, per esempio Il re Carlo X caccia nei suoi appartamenti. Gli viene offerta l’occasione di viaggiare in Italia passando per la Svizzera: come tanti suoi predecessori compie il Gran Tour. Una commessa lo fa ripartire, stavolta per la Grecia: deve realizzare, con Ambroise Louis Garneray, un grande quadro commemorativo della battaglia navale di Navarino, che ha visto affrontarsi le forze anglo-franco-

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russe e la marina egiziana e ottomana nell’ottobre 1827. Il suo entusiasmo è moderato e non c’è una buona comprensione con Garneray. Insoddisfatto del proprio lavoro, si reca da solo in Asia Minore e scopre Costantinopoli e la civiltà che fiorisce sotto la tutela ottomana. Bene o male predispone un atelier a Smirne nel febbraio 1828, affascinato dallo spettacolo della vita nelle città dell’Anatolia. Questo amore per l’Oriente, nato senza dubbio dalla frequentazione con Abel de Pujol, lo ha spinto, tra il 1826 e il 1827, a descrivere architetture fittizie e scene turche. Non espone forse al Salon del 1827 il Soldato della guardia di un visir? Adesso che possiede una conoscenza di prima mano di questa civiltà, decide, una volta tornato in Francia, di produrre un libro di litografie, che vede la luce nel 1829. Vi sono scene di caccia, la Vecchia mercantessa, la Scuola in Turchia, i Bambini turchi, etc. Due anni più tardi espone al Salon la Ronda di notte e la Casa turca, che gli valgono subito una grande fama.

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La sua tecnica particolare, che si basa su impasti pronunciati e forti contrasti tra luce e oscurità, il suo realismo senza pretese ma di una efficace sensibilità plastica, il suo gusto semplice per le scene della vita quotidiana, rendono l’Oriente pregnante e accessibile. Nel 1834 presenta la Disfatta dei Cimbri e il Corpo di guardia, che confermano il favore della critica e del pubblico. Per alcuni anni non può presentarsi davanti alla giuria del Salon, tuttavia prosegue la sua carriera senza intralci, producendo quadri di soggetti diversi, come la Uscita dalla scuola turca, Una strada a Smirne, il Bambino turco presso una fontana (1846), che costituiscono il suo album di ricordi dell’unico viaggio della sua esistenza. Nel 1855 gli propongono di esporre cinquanta tele all’Esposizione universale ed egli mostra, tra le altre, il Macellaio turco. Oltre ai quadri che rappresentano i

cittadini dell’Impero Ottomano moderno, Decamps esegue scene ispirate all’Antico e al Nuovo Testamento, come la Storia di Sansone, Giosuè, La fuga di Lot, La pesca miracolosa, Eliezer e Rebecca. Si dedica anche a un San Gerolamo nel deserto. Ma non riesce a ritrovare la sensibilità e l’immenso potere evocatore delle sue opere orientali. Adulato dai grandi personaggi del Secondo Impero, la sua stella non impallidisce. Muore in un incidente di caccia nel 1860 a Fontainbleau, in piena gloria.

Foto: Uscita dalla scuola turcaAlexandre Gabriel Decamps, 1836Olio su tela, 66 x 89 cm(Museo del Louvre, Parigi)

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THEODORE CHASSERIAU

Foto a sin: Il califfo di Constantine, Ali Ben Bahmed, capo degli Harakta, seguito dalla scorta

Théodore Chassériau, 1845Olio su tela, 260 x 325 cm(Museo Nazionale del Castello, Versailles)

Foto a destra: Donne ebree a un balcone di AlgeriAlexandre Gabriel Decamps, 1849Olio su tavola, 35 x 25 cm(Museo del Louvre, Parigi)

Un ragazzo di diciassette anni venuto da Santo Domingo desta sensazione al Salon del 1836. Riceve una terza medaglia per due tele religiose, il Ritorno del figliol prodigo e Caino maledetto. Questo bravo allievo di Domenico

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Ingres, ammiratore di Amaury-Duval, evolve rapidamente. Al Salon del 1839 la sua Venere Anadyomene* e Susanna al bagno conservano una tonalità neoclassica. Ma l’influenza che Delacroix esercita su di lui comincia a farsi sentire. Tuttavia, le richieste di decorazioni per le chiese di Parigi, come quella di Saint-Merri nel 1843, o ancora la Deposizione dalla croce nel 1842, mettono in evidenza il suo talento, ma non la sua audacia. Tuttavia, Andromeda del 1841 e Ester che si prepara per apparire davanti Assuero che viene accettata al Salon del 1842, ma che passa allora inosservata, provano che egli ha scelto un nuovo campo, quello dell’arte romantica. E quando elabora le tre figure femminili di Ester, insinua un clima nettamente orientale che era stato appena suggerito nei suoi antichi soggetti biblici. Nel 1857, Théophile Gautier sottolinea non solo la malinconia insistente, ostinata, che invade questa tela, ma anche la sua propensione marcata per gli orizzonti esotici quando si riferisce al gruppo di donne: “Ci sembra di averle già viste in sogno, o in paesi lontani, in epoche in cui non esistevamo in mezzo a città bizzarre o a foreste dalla vegetazione sconosciuta; si sarebbero dette delle barbare condotte nella nostra civiltà, drappeggiate nei loro indumenti variopinti, costellati di gioielli selvaggi, e rintanate come gazzelle catturate, con atteggiamenti d’una grazia feroce”. È ancora e sempre l’Oriente che lo attrae quando dipinge la Morte di Cleopatra nel 1844, che distrugge perché rifiutata dalla giuria del Salon dell’anno seguente, della quale rimane solo un’acquaforte.Nel 1845, Ali-Hamed, califfo di Constantine e personalità molto in vista del Tout-Paris*, gli chiede di fare il suo ritratto a cavallo. Egli lo tratteggia in un modo poco conformista con il suo seguito, mentre Delacroix presenta il suo Ritratto del Mullah Abd Al-Rahman. Nelle sue Curiosità estetiche Charles Baudelaire osserva che “questa infilata di cavalli e questi grandi cavalieri hanno qualcosa che ricorda l’ingenua audacia dei grandi maestri”. Il potente arabo lo invita a raggiungerlo nel 1846 a Constantine.

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Egli è stupito/affascinato. E scrive a margine del suo blocco di schizzi: “il paese è bellissimo e tutto nuovo. Io vivo nelle Mille e una notte. Potrò trarne vantaggio. Lavoro e osservo”. Niente di più vero. Egli getta sulla carta tutto quello che gli sembra meritare di essere ricordato. I paesaggi lo sconvolgono: “Il cielo è di un blu squisito; le montagne di solito come lapislazzuli, di giorno; l’aria sparsa di polvere d’oro, che dona uno splendido vapore; i boschetti estremamente azzurri e luminosi accanto a un’acqua verde smeraldo, e qua e là chiazze scintillanti di sole”. È affascinato dai costumi cangianti: “Velluti verdi, stoffe gialle, acconciature di tutti i colori, azzurro vivo, rosso malva, spesso nero, è bellissimo, le figure colorate e potenti su sfondi bianchi, i colori vivaci e orientali”. Non di rado immagina già gli effetti che potrà ottenere sulla tela una volta tornato al suo atelier: “ Per ravvivare le superfici calme e grigie di muraglie, basta un semplice tocco d’oro qua e là”. Si sforza di non perdere nulla delle emozioni provate: “Non dimenticare che le città ardenti del Mezzogiorno hanno toni satinati nelle ombre e luminosità radiose; il cielo d’un azzurro bruciante, verde, poi toni rossi, rossastri, poi toni grigi”. E quando traccia sulla carta qualche linea su Algeri, è un quadro in potenza, solidamente strutturato, che s’indovina: “Ad Algeri, il mare blu, la città come di stucco o di marmo bianco; l’orizzonte rosa o bluastro; sopra il mare, il cielo azzurro leggero e luminoso un po’ opalescente. Dei vecchi dal viso orientale e singolare, vigorosamente dipinti/stagliati sui muri bianchi; i bambini di una pura bellezza, lo sfondo/l’incarnato rosato e pallido; le case bianche spesso con mezze-tinte, con sfondo argenteo o dorato”. Quando Chassériau ristabilisce il suo

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atelier parigino, vive alla maniera orientale. Gautier che, dopo la sua morte, ha la possibilità di visitare l’atelier nel 1857, lo descrive con ammirazione:

Foto: Ester che si prepara per essere presentata al re Assuero (o La toeletta di Ester)Théodore Chassériau, 1841Olio su tela, 45,5 x 35,5 cm(Museo del Louvre, Parigi)

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“Nel piccolo divano in cui talvolta riposava i yatagand*, i kandjars*, i pugnali persiani, le pistole circasse, i fucili arabi, le vecchie lame di Damasco, cesellate con versetti del Corano, armi da fuoco abbellite con argento e corallo, tutto questo affascinante lusso barbaro, amore del pittore. Si raccoglieva ancora come un trofeo lungo i muri; appesi negligentemente i gandouras*, i haȉks*, i bournos*, i caffetani, le vesti ricamate d’argento e d’oro, davano agli occhi queste feste di colori con cui l’artista cerca di dimenticare le tinte neutre dei nostri vestiti lugubri, e sembravano aver trattenuto nelle pieghe gualcite e luccicanti i raggi del sole d’Africa”. Dal 1848 Chassériau ritorna instancabilmente sui suoi ricordi algerini. Esegue più di cinquanta dipinti con scene di guerrieri o momenti della vita delle donne moresche o ebree, e i suoi schizzi sono innumerevoli. I primi quadri elaborati in quest’ottica sono il Sabbath nel quartiere ebraico a Costantinopoli, che egli firma in quell’anno, poi le Ebree al balcone e la straordinaria Danza dei fazzoletti, entrambe composte l’anno seguente. Poco dopo dipinge la Donna mora che allatta il figlio (1850). Questa donna

giovanissima che ha posto il bimbo in grembo mentre una donna più anziana, certamente sua madre, si china gravemente sul piccolo, è tratteggiata con assoluta semplicità, tanto che sembra incarnare la nostalgia. Lo stesso anno egli dipinge una donna con la figlioletta mora che gioca con una gazzella e le Ebree di Costantinopoli che cullano un bambino, strana composizione che sembra un’incisione, con le due dame ebree viste quasi di fronte da una parte all’altra della culla, appesa con quattro corde alle travi del soffitto di una stanza stretta lastricata di pietre. In totale sono otto opere che l’artista presenta ala Salon del 1850-1851, tra cui i Cavalieri arabi che portano i propri morti dopo un’impresa contro gli spahis*. Gautier loda questa composizione che rende omaggio ai vinti: “I Cavalieri arabi sono una delle migliori ispirazioni riportate dall’Africa che lo spettacolo di questa vita patriarcale e barbara sembra aver inebriato. C’è una grandezza omerica in questo gruppo di una semplicità così fiera, d’una forma/aspetto così nobile.

Foto: Danzatrici marocchine – Danza dei fazzolettiThéodore Chassériau, 1849Olio su tavola, 32 x 40 cm(Museo del Louvre, Parigi)

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Non si immaginano diversamente i Greci e i Troiani […] quali teste eroicamente soavi hanno questi giovani guerrieri avviluppati in veli, come le donne, con i loro grandi occhi fatalisti, le bocche languide e le fisionomie estenuate”. Nel 1851, il pittore sceglie di evocare ancora una volta la Grecia dei romantici con la Moglie del pescatore di Mola di Gaeta che abbraccia un bambino. Nel 1852 dà al Salon un quadro che completa i Cavalieri arabi ( essi saranno riuniti all’Esposizione universale del 1855), i Capi arabi che si

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sfidano in un combattimento singolare. Una delle sue ultime opere prima della prematura scomparsa e l’Interno di un arem, rimasta incompiuta. Vi si vedono “ due donne sedute contro i cuscini, la testa riversa all’indietro. Benché rimasta allo stato di abbozzo in qualche parte, è comunque una tela deliziosa. Due donne, in costumi brillanti, si riversano sui cuscini di un divano, con pose stanche e languide, e quei gesti di noia nervosa che la clausura dell’arem e la presenza dell’eunuco nero ispirano…”. Testamento spirituale, questo arem non è un sogno di concupiscenza, ma un pensiero sulla donna, un pensiero che si è affinato in Algeria quando egli scrive queste parole sul suo blocco: “Interno di donne moresche – una sdraiata, tutto il corpo nudo, attraverso una garza rossa punteggiata d’oro. Nella testa, cogliere bene il tipo di pelle bianca, con gli occhi fini e neri…”.

Foto: Capitribù arabi che si sfidano in combattimento singolare sotto i bastioni di una cittàThéodore Chassériau, 1852Olio su tela, 91 x 118 cm(Museo d’Orsay, Parigi)

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EUGENE FROMENTIN

Foto sopra: Sul Nilo, presso FileEugène Fromentin, 1871Olio su tela, 63,8 x 110,6 cm(The Art Institute, collection Nickerson, Chicago)

Figlio di un medico di La Rochelle che, in gioventù, è stato tentato dalle arti plastiche, Eugène Fromentin fatica immensamente a fargli accettare il fatto che la sua vocazione non è il diritto ma la pittura. Segue i corsi di Louis Cabat tra il 1844 e il 1845 e comincia a scrivere dei resoconti del Salon nella

Rivista organica dei dipartimenti dell’Ovest. Niente lo prepara all’Oriente. Nella primavera del 1846 parte per l’Algeria per assistere ala matrimonio di un amico. Rimane solo cinque settimane, ma ne è incantato. Questo viaggio lo segna definitivamente. L’anno seguente espone due tele che esprimono la sua emozione, la Gola di Chiffa e Una moschea nei pressi di Algeri. Nel 1847 scrive a suo padre: “Adesso ho il diritto di fare l’Oriente. Credo che finora questo paese non sia stato capito. Ho pianto per il dispiacere abbandonando tanti tesori che avevo appena scoperto. Forse al mio posto andrà qualcun altro, che ne scoprirà di nuovi. Ma due uomini non possono vedere la stessa cosa nello stesso modo…Non so se m’inganno; ma questo viaggio, la nuova diversità impressa al mio spirito, l’eccellente lezione appresa in questo paese della luce, del colore e delle grandi forme, tutto ciò mi dà nuovo slancio, mi provoca e mi fortifica”. Il 24 settembre 1847 riparte con due amici e, questa volta, abita in Algeria fino al maggio 1848. Ama intensamente la città di Algeri, di cui più tardi scrive: “Si sale ogni giorno, a zig zag, in scalata; i tetti delle case quasi si uniscono chiudendo il cielo in un nastro azzurro.

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Alcune porte, verdi o nere, sono chiuse; una mano rossa vi si imprime, come una goccia di sangue… Si sente la vita sorda dietro queste case chiuse, queste grate strette. Dei rumore attraversano i muri: lamentose canzoni di donne, discussioni… Scendono donne in bianco, che vi guardano con sguardo lascivo in cui ride l’ironia. Qualche Arabo gratta a una porticina, scambia una misteriosa parola d’ordine, entra curvandosi e chiude subito i battenti”. Egli visita Constantine, ma soprattutto si reca nel Sud, arrivando fino a Tolga. Appena rientrato nel suo atelier, dipinge con

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fervore per poter inviare al Salon del 1849 cinque tele con soggetti algerini, tra cui la Porta della Brèche a Constantine. L’anno seguente, fa accettare al Salon almeno undici quadri, tra cui Sepoltura mora ad Algeri, la Sosta di mercanti a El-Aghouat, l’Accampamento nel deserto, gli Arabi attaccati in una gola di montagna. Appena sposato decide di compiere un terzo periplo tra il 5 novembre 1852 e il 5 ottobre 1853 (sarà l’ultimo), spingendosi stavolta fino a Laghouat e a Aȉn-Madhy. Appena in Francia, comincia la redazione del suo primo libro, Un’estate nel Sahara, che appare nella Rivista di Parigi dal giugno 1854. Egli canta con passione il deserto ed esalta gli esseri che ci vivono: “In questo polo non c’è forse qualcosa che mette l’animo in movimento e in cui lo spirito si eleva e si compiace come in visioni d’un’altra epoca? Sì, questo polo possiede una vera grandezza. Solo esso la possiede perché, solo esso tra le civiltà, è rimasto semplice nella vita, nei costumi, nei viaggi. Esso è bello, soprattutto perché senza essere nudo giunge a quella liberazione quasi totale dalle apparenze […] Solo, per un mirabile privilegio, conserva in eredità un qualcosa che chiamiamo biblico, come un antico profumo”.

Foto: Sul Nilo, nei pressi di FileEugène Fromentin, 1871Olio su tela, 63,8 x 110,6 cm(The Art Institute, collection Nickerson, Chicago)

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Da allora egli divide il suo tempo tra la pittura e la scrittura . quando espone tre tele al Salon del 1857, fa apparire la prima versione di Un anno nel Sahel il cui seguito figura nella Rivista dei Due Mondi alla fine del 1858. Cinque suoi quadri presentati al Salon del 1859 vengono salutati da Théophile

Gautier e gli valgono una medaglia e la Legion d’Onore. Espone con regolarità, sempre scegliendo di evocare con passione, ma anche con estrema modestia, i paesaggi e gli uomini dell’antica Barbarie.

Foto sopra: Veduta del NiloEugène Fromentin, verso 1870Olio su tavola, 32,5 x 41 cm(Museo d’Orsay, Parigi)

Foto sotto: Il Nilo (Alto Egitto)Eugène Fromentin, 1876Olio su tela, 102 x 143 cm(Museo Mahmoud Khalil, Il Cairo)

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Foto : Sosta di cavalieri arabi nella forestaEugène Fromentin, 1868Olio su tela, 54,5 x 64,5 cm(Museo d’Orsay, Parigi)

A partire dal 1861 introduce il grigio, probabilmente dopo aver guardato Corot, il che gli permette di accentuare la delicatezza dei toni, di sfumare la sua gamma cromatica e di estendere il prisma dei suoi colori. Sempre alla ricerca di avventure e di nuove esperienze, adesso che ha solidamente costruito la sua reputazione, per il Salon del 1868 sceglie un soggetto mitologico e si rende conto che è un grave errore. L’anno dopo giudica saggio inviare la Fantasia in Algeria e la Sosta dei mulattieri.Egli compie un nuovo viaggio in Oriente, stavolta in Egitto, in occasione dell’inaugurazione del Canale di Suez. Prende note e disegna parecchi schizzi. Una folla di impressioni contraddittorie si agitano nel suo spirito ed

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egli scrive a Edmond de Goncourt: “ L’Egitto, l’Egitto, sono tormentato dallo scrivere qualche pagina su questo paese… Figuratevi […] una terra melmosa, qualcosa… come di caucciù, dove il passo non si allunga… un cielo azzurrino… Voi non conoscete che l’Oriente chiaro e stagliato… Qua, su ogni piano, impercettibili veli di vapore, che diventano più intensi man mano che si allontanano… Qua , omini neri o blu: è raro incontrare una nota rossa… e che simpatico tono dona qui dentro la cotonina azzurra… Io li vedo , tutti questi omini, con una piccola luce in fronte e sulla clavicola… […] Non ho trovato, in pittura, il modo per rendere tutto ciò, no, non l’ho ancora trovato”. E trova che Il Cairo è una città miserabile e già troppo civilizzata. Tuttavia ne ricava alcune delle sue più belle composizioni anche più libere, come le Egiziane davanti alla porta di un’abitazione.

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Influenzato di volta in volta da Marilhat, Decamps e Delacroix (è evidente quando si guardano i suoi Arabi attaccati da un leone) Fromentin ha cercato di rendere un’Africa del Nord piena di dignità, ma senza pathos e senza quegli eccessi di pittoresco/pittorici che ne snaturano la bellezza. Gli Arabi che cacciano con il falcone (1865), la Caccia all’airone e la Caccia al falco (1873) mettono in rilievo il suo classicismo profondo che non esclude né la sensibilità né la vibrazione dell’emozione. In lui modestia e temperanza si mescolano all’ambizione di essere fedele a un’idea che si è fatto di questi paesaggi, di questi popoli e di questa cultura.

Foto sopra: Caccia con il falconeEugène Fromentin, 1863Olio su tela, 162,5 x 117,8 cm(Museo d’Orsay, Parigi)

Foto sotto : Caccia all’airone, Algeria (o Arabi che cacciano con il falcone)Eugène Fromentin, 1865Olio su tela, 99 x 142 cm(Museo Condé, Chantilly)

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JEAN LÉON GÉRÔME

Foto: GerusalemmeJean Léon Gérȏme, verso 1869Olio su tela, 81 x 146 cm(Museo d’Orsay, Parigi)

Formato alla scuola di Paul Delaroche, che gli consiglia di studiare Fidia, Gérȏme ha il temperamento di un capofila, e con i compagni dell’atelier costituisce un gruppetto che si riunisce al Café Procope. Rientra nell’atelier di Charles Gleyre nel 1844 e si mette a capo dei neo-greci. Conosce il suo primo successo al Salon del 1847 con il Combattimento di galli, imponendo il suo classicismo leggero e spirituale. Parte per la Russia nel febbraio 1852. Ma poiché la guerra incombe, segue il corso del Danubio e s’imbarca per Costantinopoli. È il suo primo contatto con l’Oriente. Contrae il virus di quest’arte di vivere che il viaggio rappresenta e afferma: “Ho sempre avuto l’anima nomade”. L’anno seguente riparte con degli amici, attraversa la Germania, l’Ungheria e si ferma a Galatz dove dipinge il campo dei soldati russi, la Ricreazione del campo, souvenir della Moldavia, che viene esposto al Salon del 1854. Decide di andare in Egitto con il drammaturgo Léon Augier, lo scultore Auguste Bartholdi e dei compagni pittori, e prova grande piacere nell’immergersi nell’atmosfera di questo paese che lo ispira. Nel suo diario scrive: “Affittiamo una cangia* e restiamo sul Nilo quattro mesi,

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cacciando e dipingendo, da Damiette a File. Ritorniamo ala Cairo dove rimaniamo altri quattro mesi in una delle case di Soliman Pascià che ci aveva affittato”. Da questo fruttuoso periplo nasceranno numerosi quadri la cui nuova vena arricchisce il suo percorso artistico: sono gli Arnauti che giocano a scacchi (1859) e i Corpi di guardia di arnauti al Cairo (1861). Quando ritorna al suo atelier in via Notre-Dame-des-Champs, Théophile Gautier gli fa visita e si meraviglia di ciò che vede: “Gérȏme ha avuto la compiacenza di lasciarci sfogliare il suo ricco portafoglio e guardare uno a uno i suoi schizzi a matita fatti al volo, note rapide, prese di fronte alla realtà, senza preparazione, senza aggiustamenti, senza sistema, con sincero abbandono e affascinante familiarità. I minimi schizzi di Gérȏme sono indicati da un tratto così fermo, così puro, così preciso nella loro negligenza, che ci si chiede cosa avrebbe potuto aggiungere un lavoro più lungo. L’artista viaggiatore ha fatto a mina di piombo diversi studi-ritratti di vari tipi caratteristici: ci sono dei Fellah, dei Copti, degli Arabi, nei Neri mezzosangue, uomini osservati così bene che potrebbero servire per dissertazioni antropologiche”.L’artista presenta una delle sue prime tele d’ispirazione orientale al Salon del 1859. Dal 1862, quando ritorna in Egitto, si consacra esclusivamente all’opera orientalista. Scopre la Siria e Gerusalemme, allargando il suo repertorio di luoghi e di tipi umani. Al suo ritorno nel 1863, Gérȏme sposa Marie Goupil, figlia del ricco e potente mercante di quadri, e presenta al Salon il Prigioniero e il Macellaio turco. Nel 1864, divenuto professore alla Scuola di belle arti, sceglie un tema più scabroso, l’Almée* , dove si vede una danzatrice seminuda esibirsi davanti a dei bachi-bouzouks. Per fare da contrappeso al Salon del 1865 propone la Preghiera.

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Nel 1868 intraprende un grande viaggio che lo porta in Egitto e in Asia Minore in compagnia dello scrittore Edmond About, che scrive un breve romanzo intitolato Il fellah, che sarà pubblicato nel 1870. Costeggiano il Mar Rosso, recandosi al monastero di Santa Caterina sul monte Sinai, vengono attaccati dai briganti a Petra e finiscono la loro lunga peregrinazione con un soggiorno a Gerusalemme, che egli si affretta a rappresentare col suo Golgota al Salon del 1868. Ritorna presto in Egitto per assistere all’inaugurazione del Canale di Suez, e visita Alessandria, Il Cairo, Ismailia e ritorna in Alto Egitto.

Foto sopra: Il prigionieroJean Léon Gérȏme, 1861Olio su tavola, 45 x 78 cm(Museo delle Belle Arti, Nantes)Foto sotto: Mar RossoJean Léon Gérȏme, verso 1869Olio su tela, 22 x 31 cm(Museo Georges Garret, Vesoul)

** Escursione dell’aremJean Léon Gérȏme, verso 1869Olio su tela, 120 x 178 cm(Chrysler Museum Of Art, Norfolk, Virginia)

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Passa diversi mesi a Londra, poi visita la Turchia nel 1871, la Spagna e l’Algeria nel 1873, un’altra volta l’Egitto nel 1874. Poi riallaccia con il mondo ottomano, la Grecia e l’Egitto tra il 1879 e il 1880. S’interessa sempre più alla specificità culturale della Turchia, dipingendo il Grande bagno di

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Brousse, la Danza della sciabola in un caffè (1875) e una sola veduta di Costantinopoli, il Campo di riposo(1876). Emulo settario del neoclassicismo, nemico giurato di ogni innovazione (prova un odio feroce verso Manet e gli impressionisti), Gérȏme non dà prova di alcuna originalità, ma di una rara destrezza, di una tecnica impeccabile e di un raro occhio fotografico. Le sue composizioni sono fredde, rigide, ricche di particolari ma sena reale intensità e senza vibrazioni sensibili. Ci sono però eccezionali momenti di felicità, come in questa bella piccola tela, il ritratto di una Fanciulla egiziana. È un osservatore fine e scrupoloso, come si constata nella Preghiera pubblica in una moschea (1870) o nell’Arabo e il suo cane (1877). Egli non disdegna di ispirarsi a testi letterari, come, ad esempio, il Dolore del pascià (1882) che deriva da un poema delle Orientali di Victor Hugo. Più tardi si affeziona a soggetti che hanno un retrogusto erotico pur rimanendo entro le convenzioni accademiche. Fatta eccezione per il Mercato degli schiavi (1866), ha una marcata predilezione per le scene di bagni pubblici che ripete all’infinito, in Vapori umidi (1889), Le bagnanti dell’arem (1889), la Grande piscina di Brousse (1885), la Donna nuda (1889), il Bagno di donne (1889), l’Accenditrice del narghilè (1898), etc. celebre fino alla morte, ha avuto una considerevole influenza sui suoi allievi, rimane il prototipo del pittore accademico, che ha scelto l’Oriente come terra di elezione del proprio virtuosismo più che del proprio spirito.

Foto sopra: Veduta della piana di Tebe in Alto EgittoJean Léon Gérȏme, 1857Olio su tela, 76x 131 cm(Museo delle Belle Arti, Nantes)

Foto sotto: I colossi di Tebe: Memnone e SesostriJean Léon Gérȏme, 1857Olio su tela, 22 x 31 cm

(Museo Georges Garret, Vesoul)

** Bagno morescoJean Léon Gérȏme, 1870Olio su tela, 51 x 41 cm(Museum of Fine Arts, Boston)

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LA STRADA DI ISPAHAN

Foto Rovine del palazzo di AsrafJules Laurens, senza dataOlio su tela, 65 x 55 cm(Biblioteca Inguimbertine, Carpentras)

Se l’Oriente mediterraneo è a poco a poco esplorato nel minimo dettaglio nel corso del XIX secolo. L’antica Persia rimane ancora pressoché inaccessibile. Sono rari i pittori che vi si inoltrano. Sono i casi della vita che conducono il giovane Jules Laurens in questa regione del mondo quasi interdetta agli Occidentali. Allievo di Delaroche, si presenta senza successo al Premio di Roma. Ma ha la fortuna di incontrare il geografo Xavier Hommaire de Hell, che, dopo averlo sottoposto a un delirante interrogatorio, lo ingaggia in vista di una imminente spedizione. Eccolo dunque partire per un lungo viaggio nel 1846, che gli fa attraversare l’Europa, la Turchia asiatica per arrivare in Persia. Vi rimane fino al 1849, quando Hommaire de Hell è colpito dal colera. Tutti questi anni passati in un regno d’altri tempi sono molto fertili: esegue un numero vertiginoso di disegni, di cui trecento sono conservati alla Scuola di belle arti di Parigi.

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Soggiorna a lungo a Semnan, nella regione desertica di Khorassan. È affascinato dalla moschea di Feth Ali Shah, un monumento qȃdjar*, dotata di piccole guglie in mattoni colorati e ornata di maioliche smaltate. Le impressioni che egli trare da questo periplo in terra incognita sono così forti che non cessa di riprendere i propri disegni una volta tornato a Parigi, per ricavarne delle tele. Nel 1863 presenta un quadro il cui soggetto è un villaggio fortificato di Lasguir. Quando l’ha scoperto, si è affrettato a scrivere al fratello Bonaventura: “Supponi una costruzione in pisé* con la forma e l’altezza delle arene di Nîmes all’incirca, e coperta da due ripiani esterni e da gradini interni di case. Oggi il tempo ha dato a queste masse babeliche ogni aspetto della roccia più selvaggia […] Ciò che qua è rinchiuso tra macerie, immondizia, stracci e grida non è possibile descriverlo se non con la penna che ha tracciato in stile d’acquaforte il meraviglioso capitolo della corte dei miracoli”. Collabora attivamente alla redazione del Viaggio in Turchia e Persia (1854-1860) ed espone con regolarità al Salon. Per esempio, vede accettato il suo Inizio di strada romana in Bitinia nel 1864. Rimane profondamente colpito da un incendio al quale assiste arrivando a Kaichan. Gli viene l’ossessiva idea di dipingere un Incendio di Sodoma. Le antiche carreggiate di mattoni di Teheran e tutti i suoi reperti archeologici si fondono per dargli la scenografia di questo dramma biblico che è senza dubbio la sua opera più intrigante.

**Foto: La rocca di Vann (Kurdistan)Jules Laurens, 1880Olio su tela, 134 x 88 cm(Museo d’Orsay, Parigi)

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FÉLIX ZIEMFoto: Il CairoFélix Ziem, 1856-1860Olio su cartone 62 x 36 cm(Museo Ziem, Martigues)

Dopo aver terminato gli studi di architettura, Félix Ziem, figlio di emigrati polacchi, comincia dal 1839 a vendere con successo i suoi disegni a Marsiglia dove lavora come direttore di cantiere. Il giovane apre una scuola di disegno poi si stabilisce a Nizza. Effettua il suo primo viaggio nel 1843 quando il principe Gagarine lo invita a seguirlo nel suo castello di Novaseliza. Soggiorna almeno nove volte a Sanpietroburgo nel 1844 e realizza numerosi quadri sulla Russia nel 1846. Dopo la morte della sua padrona/amante nel 1846, si stabilisce a Firenze. Poi si reca a Venezia che lascia su di lui un’impronta definitiva. Da questo momento, Ziem dipingerà un importante numero di quadri in cui tenta, seguendo Turner, le brume e i chiarori magici della città lagunare. Egli la considera come i prolegomeni all’altrove, esclamando: “Del resto, l’Oriente è Venezia”. Continua a viaggiare nel corso dell’anno 1847, soggiornando a Napoli e visitando Ercolano e Pompei, poi visita la Sicilia e Roma. Decide di fermarsi diversi mesi a Parigi nel 1850, poi intraprende un viaggio in Olanda. Ma è sempre Venezia che lo attira e vi ritorna per tutto il mese di ottobre. Dopo Londra e Edimburgo (1852) va nuovamente in Olanda (1853), s’imbarca per l’Egitto nel 1854 e scopre la Tunisia nel 1855.Il demone del viaggio lo attanaglia senza sosta. Nel suo diario, alla data del 25 gennaio 1855, s’interroga: “La questione di un viaggio si dibatte sempre più dentro di me. Ravvivare ciò che so con nuovi studi sulla natura, ma dove?” E il 7 maggio annota: “Ecco un progetto di viaggio a Costantinopoli, perché? Poiché riconosco che il talento può crescere e completarsi senza far ricorso a queste orge d’ispirazione che i viaggi vi fanno conoscere da ogni nuovo punto di vista. Ma è una forza irresistibile che mi invita sempre

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allo spostamento e credo sempre che nuovi orizzonti mi apriranno più rapidamente e più chiaramente le porte di questo mistero tanto desiderato”.

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Foto sopra: Algeri, bastioniFélix Ziem, tra 1860 e 1870Olio su cartone 28 x 44 cm(Museo Ziem, Martigues)

Foto sotto: Strada della vecchia CairoFélix Ziem, senza dataOlio su tela, 112 x 68,5 cm(Museo del Petit Palais, Parigi)

Comunque, s’imbarca sul Danubio il 10 luglio 1856 in direzione di Costantinopoli dove rimane sei settimane. Dopodichè raggiunge l’Egitto dopo aver visitato Smirne, Alessandretta e Rodi. Dall’8 ottobre al 20 novembre percorre l’Egitto, che gli ispira fiammeggianti visioni di crepuscoli quasi irreali. Al Salon del 1857 ha la possibilità di mostrare quadri come Venezia, durante un allagamento e Costantinopoli, il Corno d’Oro, che è salutato da Théophile Gautier: “ Monsieur Ziem ha dipinto il Corno d’Oro, un’incomparabile veduta, la più bella del mondo […] Le forme scompaiono un po’ dietro il fiammeggiare luminoso del colore e il petulante libertinaggio del pennello”. Lo scrittore ha messo il dito su ciò che fa la singolarità del pittore: una bruma vaporosa e carica d’oro o di colori diafani e un tratto stilistico molto elevato e fantastico, che danno molta vivacità alla sua composizione.Da allora non smette di portare avanti in parallelo due tipi di soggetti: uno riguarda Venezia, di cui non si stanca mai e che egli interpreta con

sorprendenti variazioni di scrittura; l’altro riguarda l’Oriente, in modo particolare Il Cairo, che ama e di cui conserva innumerevoli schizzi, o altre città dell’Egitto (Damanhour, tramonto, esposto al Salon del 1859, di cui effettua numerose versioni, e di cui Gautier dice che “questa tela è un vero incendio; rosseggia, fiammeggia, acceca e spinge quasi ad abbassare gli occhi”), ma anche la capitale dell’Impero Ottomano. Realizza un gran numero di vedute del Bosforo e del Corno d’Oro, accompagnando le scene nautiche con i grandi battelli alla fonda, i caicchi, gli imbarcaderi, i porti, i ponti e i paesaggi fastosi di questa regione, le vedute della città (Costantinopoli, l’entrata delle acque dolci dell’Europa, presentata al Salon del 1859 o Moschea di Scutari), ma sperimenta anche scene di genere, come la Danza sul Bosforo.Nel 1858 Ziem si reca in Algeria e realizza diverse tele che rappresentano e celebrano la città di Algeri (Algeri, bastioni, 1858 , 1860-1870; Algeri, vecchia strada , 1858; Algeri, mercato, 1858, 1858-1860; etc).

Pag 61A proposito di una di esse, confida: “Proprio Algeri, il suo temperamento, il suo cielo, è la vera natura. Ma questo fascino, questo non-so-che che fa sognare non esiste, e l’assalto, il carattere rude, forte e severo non sono qui abbastanza potenti per compensare le volgarità che una cosa suscita”. In generale, Ziem si sforza di restituire con precisione gli spettacoli sontuosi di cui ha avuto la fortuna di essere testimone nel corso delle sue incessanti peregrinazioni. La sola luce e i suoi riflessi cangianti, il tocco rapido e sempre rinnovato lo portano senza sosta all’invenzione, ma questa invenzione è puramente pittorica. Talvolta gli capita di lasciar correre la sua immaginazione, come in Fantasia sulle rive del Bosforo, (1874), o Costantinopoli (1890-1900), opere improbabili in cui associa due generi di ricordi.

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Foto: Fantasia a CostantinopoliFélix Ziem, senza dataOlio su tela, 68 x 117,5 cm(Museo del Petit Palais, Parigi)

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Preoccupato di non sacrificare mai a una formula, Ziem ha dimostrato lungo tutta la sua carriera una stupefacente facoltà di rimettere in discussione la propria tecnica e la propria maniera. Da qui, tele che trattano temi identici, ma tuttavia differenti, cosciente di far parte della rivoluzione che si sviluppa nei circoli artistici francesi, senza sposarne la causa ma senza rifiutarne l’augurio/presagio.

Foto sopra: Algeri, i bastioniFélix Ziem, 1858Olio su tavola 11x 15 cm(Museo Ziem, Martigues)

Foto sotto: Danzatrice orientaleFélix Ziem, tra 1880 e 1890Olio su tavola, 54 x 36 80cm(Museo Ziem, Martigues)

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LE OSSESSIONI ONIRICHE DI GUSTAVE MOREAU

Foto: SultanaGustave Moreau, verso 1850Olio su tela, 40,5 x 32 cm(Museo Gustave Moreau, Parigi)

L’Oriente assume una dimensione unica in Gustave Moreau, che non si preoccupa di nulla al di fuori della sua opera pittorica. Lui che ha cominciato la propria carriera rivisitando la mitologia classica e reinventandola, popolando le proprie tele di chimere e di muse, incontra l’Oriente quando si mette in testa di rappresentare la perversa e fatale Salomè. La donna senza fede che si esibisce davanti al re Erode per ottenere la testa di Giovanni Battista lo occupa per gli anni 1875-1876. Infatti, comincia il suo grande ciclo con una Salomè alla prigione, dove la giovane bellezza medita contro un’enorme colonna nell’oscurità di una sala lugubre. Egli esegue almeno tre versioni dell’Apparizione, tra cui il grande acquerello che presenta al Salon del 1876. Le diverse versioni di Salomè, - in cui l’artista sembra voler rimodellare questa donna fatale modificandone qualche particolare, cambiando sensibilmente l’atmosfera, “tatuando” la danzatrice o marcando in sovrimpressione i capitelli, il trono, gli archi, qualche dettaglio dell’architettura – sono l’espressione più pura della sua personale filosofia dell’Oriente. Nell’Apparizione, la giovane donna seminuda, nel palazzo fatato del re, sembra avere cessato di danzare, alza un braccio per indicare la testa del martire che appare al centro di un alone scintillante. Ella dà la sensazione di guardarlo dritto negli occhi. Nessun altro testimone di questa visione all’infuori del boia immobile come un fantasma vicino al gigantesco trono.Nel 1878 egli realizza un ultimo acquerello e gouache in omaggio alla sua eroina preferita con Salomè in giardino: assente, lei passa davanti immensi cerchi di verzura tenendo la testa del sant’uomo su un vassoio. Cammina

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come in un sogno, con gli occhi chiusi. Moreau spiega come ha potuto pensare questo momento tragico del Nuovo Testamento: “Questa donna rappresenta la donna eterna, uccello leggero, spesso funesto, che attraversa la vita con un fiore in mano, alla ricerca del suo ideale vago, spesso terribile, e che cammina sempre, calpestando sotto i piedi sia geni che santi. Questa danza si esegue, questa passeggiata misteriosa si compie davanti alla morte, che la guarda incessantemente, ammirata e attenta, e davanti al boia con la spada che colpisce. È l’emblema di questo avvenire terribile, riservato ai cercatori di ideali senza nome, di sensualità e di curiosità malsana. Un santo, una testa decapitata, sono alla fine del cammino che sarà disseminato di fiori. Tutto questo accade in un santuario misterioso, che porta lo spirito alla gravità e all’idea delle cose superiori”. Di modo che egli dimentica del tutto le sacre scritture per lasciare libero corso a un’altra interpretazione dell’esecuzione del profeta, che prende allora l’aspetto di un confronto tra due volontà, due ideali, due universi che si combattono e perciò si attraggono in un ballo mortifero.

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Questa Salomè, superba e malefica, e tuttavia altera nel suo supremo vizio, è l’eco sublime e fantasmatico di tutte quelle donne mitiche raffigurate nel passato, Galatea, Elena, Semele, Andromeda, Leda, Afrodite, Saffo,, alle quali biosogna aggiungere Deianira e Messalina. E la si ritrova ancora in Betsabea (verso il 1885-1886). Dalida, che lo tiene occupato tra il 1882 e il 1885, è un doppio di Salomè e, come lei, la sua bellezza folgorante è la causa della perdizione di un uomo che ha creduto in lei.Quando egli decide di evocare il dramma di Cleopatra (verso il 1887), elimina ogni allusione tangibile all’Egitto di Tolomeo, preferendo descriverla in un mondo completamente irreale. La Susanna di Susanna e i

vecchioni (1897) è sola all’interno di un palazzo che è anche un tempio, quasi denudata, come tutte le sue eroine, e d’una bellezza soprannaturale. Ella porta una tiara, come Cleopatra, come Salomè e come le tante altre donne che appartengono all’arem estetico di Gustave Moreau.Il solo quadro in cui l’artista ha offerto una scena orientale che non sia pura finzione, è Mosè esposto sul Nilo (1878). Pone sulle due rive del fiume delle rovine egizie, che rispettano appena la verità archeologica, e una sfinge posta sopra una costruzione immaginaria. Il suo Egitto, d’una innegabile forza poetica, è un Egitto da racconto. In proposito egli scrive: “Questo popolo di mummie, sfingi, dei dallo sguardo immobile, dagli occhi fissi” è l’esatto contrario di ciò che rappresenta Mosè bambino, “questo bel frutto umano, pieno di vigore e di vita”.

Foto: Acconciatura da sfinge per un ballo in mascheraGustave Moreau, 1879Acquerello, 26 x 15 cm(Museo Gustave Moreau, Parigi)

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