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SCUOLA PERMANENTE PER L’AGGIORNAMENTO DEGLI INSEGNANTI DI SCIENZE SPERIMENTALI A cura di Michele A. Floriano Giovanni Magliarditi Quaderni di Ricerca in Didattica (Science), numero speciale 6 University of Palermo, Italy

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SCUOLA PERMANENTE PER L’AGGIORNAMENTO DEGLI INSEGNANTI DI SCIENZE SPERIMENTALI

A cura di

Michele A. Floriano

Giovanni Magliarditi

Quaderni di Ricerca in Didattica (Science), numero speciale 6

University of Palermo, Italy

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Quaderni di Ricerca in Didattica (Science), Numero speciale 6

Editor in Chief: Claudio Fazio – University of Palermo, Italy

Editorial Director: Benedetto di Paola - University of Palermo, Italy

ISBN: 978-88-907460-4-8

First edition, 19th

May 2014

Contributi alla

Scuola Permanente per l’Aggiornamento degli Insegnanti di Scienze Sperimentali

VII edizione: “ScientificaMente”

Hotel Capo Peloro Resort

Messina, 22 – 27 LUGLIO 2013

Coordinamento scientifico-didattico

Presidente: Michele A. Floriano

Anna Caronia Mario Gottuso Delia Chillura Martino Domenica Lucchesi

Maria Concetta Consentino Giovanni Magliarditi Claudio Fazio Roberta Maniaci

[email protected]

www.unipa.it/flor/spais.htm

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Atti della Scuola Permanente per l’Aggiornamento degli Insegnanti di Scienze Sperimentali

“ScientificaMente”, Messina, 22-27 luglio 2013

Quaderni di Ricerca in Didattica (Science)”, n. speciale 6, 2013

3

SCUOLA PERMANENTE PER L’AGGIORNAMENTO

DEGLI INSEGNANTI DI SCIENZE SPERIMENTALI

ScientificaMente

Messina

22 – 27 luglio 2013

A cura di:

Michele A. Floriano Giovanni Magliarditi

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Indice

Programma della Scuola

Prefazione

Michele Antonio Floriano e Anna Caronia

Le NeuroScienze 1

F. Tito Arecchi

Caos, Percezione e Linguaggio: dinamica dei processi cognitivi 4

Daniele Lo Coco e Emanuele Cannizzaro

Struttura e funzione del sistema nervoso centrale 21

Salvatore D'Arrigo e Antonia De Domenico

La didattica informale del laboratorio scientifico exhibit e origami 29

Laura Franchini e Silvana von Arx

Musica e colore 35

Pietro Perconti e Mario Graziano

Uno sguardo dall'esterno. La competenza matematica secondo la scien-

za cognitiva 44

Danilo Milardi

Protein misfolding and aggregation: the chemical basis of

neurodegeneration 61

Riccardo Rizzo

Introduzione ai modelli matematici del sistema nervoso 74

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Y. L. Teresa Ting

Learning ScientificaMente through CLIL: Part I: the learner 83

Margherita Langellotti e Y. L. Teresa Ting

Learning ScientificaMente through CLIL: Part II: the teacher 106

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Programma Lunedì 22

Ore 15:00 Registrazione

Ore 16:30 Saluti e apertura dei lavori

Ore 17:00 Caos Percezione Percezione e Linguaggio: dinamica dei

processi cognitivi

Fortunato Tito Arecchi Università degli Studi di Firenze e INO-CNR

Martedì 23

ore 9:00 Organizzazione strutturale e funzionale del siste-

ma nervoso centrale

Daniele Lo Coco

Ospedale Civico ARNAS di Palermo

ore 10:00

Messaggi elettrici e chimici nella fisiologia del sistema

nervoso

Flavia Mulè

Università degli Studi di Palermo

ore 11:00 ~ intervallo

ore 11:30

«Cervello, percezione e coscienza»

Giovanni Pellegri Università degli Studi della Svizzera Italiana, Lugano

ore 12:30 ~ dibattito

ore 16:00 Poster

ore 16:30 «Giocando con il proprio cervello»

Giovanni Pellegri Università degli Studi della Svizzera Italiana, Lugano

ore 21:30 «Da Schubert a De Andrè: i misteri della voce in musica»

Luigi Dei Università degli Studi di Firenze

Mercoledì 24

ore 9:00 «Imaging morfofunzionale in neurologia»

Emanuele Nicolai Istituto Diagnostica Nucleare di Napoli

ore 10:00 «Basi biologiche della memoria e apprendimento»

Rosa Serio Università degli Studi di Palermo

ore 11:00 ~ intervallo

ore 11:30 «I più semplici modelli matematici del sistema nervoso»

Eliano Pessa Università degli Studi di Pavia

ore 12:30 ~ dibattito

Giovedì 25

ore 9:00 «I modelli realistici del funzionamento del sistema nervo-so»

Eliano Pessa Università degli Studi di Pavia

ore 10:00 «Il presente ed il futuro delle Neuroscienze: che cosa è la connettività celebrale?»

Francesco Tomasello Università degli Studi di Messina

ore 11:00 ~ intervallo

ore 11:30 «L’albero della conoscenza»

Giuseppe Gembillo Università degli Studi di Messina

ore 12:30 ~ dibattito

ore 16:00 Workshop «Progettare una didattica delle scienze “brain-compatible» Un esempio

Teresa Ting con Margherita Langellotti Università degli Studi della Calabria

Venerdì 26

Ore 9:00 Misfolding e aggregazione delle proteine: le basi chimiche della neurodegenerazione»

Danilo Milardi Istituto di Biostrutture e Bioimmagini CNR Catania

ore 10:00 «Dalla scoperta dei neuroni specchio all’intersoggettività: implicazioni teoriche ed appli-cazioni cliniche»

Magali J. Rochat Università degli Studi di Parma

ore 11:00 ~ intervallo

ore 11:30 «Progettare una didattica delle scienze “brain-compatible»

Teresa Ting Università degli Studi della Calabria

ore 12:30 ~ dibattito

ore 16:00 Workshop «Progettare una didattica delle scienze “brain-compatible» Analisi dell’esempio dal punto di vista neurobiolo-gico

Teresa Ting con Margherita Langellotti Università degli studi della Calabria

Sabato 27

ore 9:00 Tavola Rotonda: «Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA)»

Patrizia Arrigo Liceo socio-psicopedagogico “Finocchiaro Aprile” Palermo

Maurizio Elia Oasi Maria SS., Istituto di Ricovero e Cura a Ca-rattere Scientifico Troina (EN)

Coordina Anna Caronia

ore 12:00 Chiusura

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Prefazione

Le NeuroScienze

Michele A. Floriano

1,2 e Anna Caronia

3

1 Divisione Didattica della Società Chimica Italiana

2 Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche, Chimiche e Farmaceuti-

che, Università di Palermo 3 I.S. “Ettore Majorana”, Palermo

e-mail: [email protected]; [email protected]

Sito web: www.unipa.it/flor/spais.htm

Le Neuroscienze sono l’insieme delle scienze interdisciplinari che studiano il fun-

zionamento del sistema nervoso dal punto di vista anatomico, biochimico, fisiolo-

gico, genetico e psicologico, attingendo a matematica, fisica, chimica, ingegneria,

informatica, medicina, biologia e filosofia.

Ciò viene realizzato abbracciando il più alto numero di livelli di studio: dalle

molecole (RNA, ormoni, farmaci) ai componenti subcellulari (membrane, vesci-

cole sinaptiche), dalle cellule a sistemi di neuroni, all’intero sistema nervoso, al

sistema neuroendocrino; dall’animale al comportamento, alle attività mentali su-

periori e alla società, poiché la stessa struttura sociale vincola o stimola il compor-

tamento individuale. Lo scopo è in prospettiva la conoscenza scientifica del com-

portamento e dell’attività mentale e, in definitiva, dell’Uomo. In questo senso

sorpassa le difficoltà metodologiche e filosofiche e chiude il "gap" culturale tra

scienza e psicologia, tra scienze fisiche e scienze sociali.

L'uso della risonanza magnetica funzionale (fMRI functional magnetic reso-

nance imaging) a partire dai primi anni 90, ha rivoluzionato lo studio del cervello

in azione e dal vivo in maniera sostanzialmente non-invasiva. Questa tecnica è

oggi la più usata nello studio del funzionamento del cervello e nelle ricerche sulla

mente.

All’interno del quadro generale appena delineato, di sicuro interesse per chi si

occupa di didattica sono le scienze cognitive, un insieme di discipline che hanno

come oggetto di studio la cognizione di un sistema pensante, sia esso naturale o

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2 Floriano & Caronia – Le Neuroscienze

artificiale. Esse comprendono diverse discipline che pur operando in campi diffe-

renti coniugano i risultati delle loro ricerche al fine comune di chiarire il funzio-

namento della mente. In particolare il grande sviluppo della neuroscienza cogniti-

va è legato a quello dell'ingegneria informatica che simula in reti di neuroni

artificiali attività cognitive (quantomeno computazionali) assai simili a quelle

umane.

Le scienze cognitive rappresentano anche la chiave per lo studio dei fenomeni

legati ai disturbi specifici dell’apprendimento (DSA).

Per quanto riguarda il programma scientifico, si è adottato un percorso che, par-

tendo dagli aspetti anatomici e fisiologici del sistema nervoso centrale, si è svi-

luppato affrontando i moderni progressi nel campo dell’indagine funzionale, ana-

lizzando anche aspetti patologici e degenerativi, per concludersi con contributi sul

funzionamento del cervello e di scienze cognitive.

La relazione di apertura da parte del Prof. F. T. Arecchi (CNR Firenze) ha mes-

so in evidenza l’importanza di costruire un modello fisico-matematico rispetto al-

la funzionalità del cervello, sia di forme viventi semplici sia di forme viventi

complesse (l’uomo). Il Prof. D. Lo Coco (Ospedale Civico Palermo) ha illustrato

l’organizzazione strutturale e funzionale del sistema nervoso centrale mentre della

trasmissione dei messaggi elettrici e chimici nella fisiologia del sistema nervoso si

è occupata la Prof.ssa F. Mulè (Univ. Palermo). L’argomento riguardante i pro-

cessi neurochimici e meccanismi molecolari che permettono all’essere vivente di

essere macchina pensante che percepisce tutto ciò che lo circonda e rielabora se-

condo una coscienza al punto di chiedersi “com’è possibile che un pezzo di mate-

ria – il cervello – possa comunicare, amare, vedere e avere coscienza di noi stessi

che parliamo, amiamo e vediamo e riconosciamo il mondo? Chi siamo?” è stato

sviluppato dal Prof. G. Pellegri (UNIV. Lugano). I moderni sistemi di indagine

strumentale utili ai fini della ricerca scientifica e della diagnosi di patologie dege-

nerative sono stati descritti dal Prof. E. Nicolai (Ist. Diagnosi Nucleare Napoli)

specificando, in particolare, il funzionamento e i principi di base delle tecniche.

Oltre alle indagini di natura strumentale la moderna ricerca scientifica offre meto-

di di studio del funzionamento del sistema nervoso ed in particolare del cervello

umano e delle connessioni sinaptiche con l’elaborazione di modelli matematici di

reti neurali artificiali trattate dal Prof. R. Rizzo (CNR Palermo). Di particolare ri-

lievo per tutti coloro che sono coinvolti nell’insegnamento è approfondire quali

siano i processi sviluppati dal discente per apprendere e quindi le basi biochimi-

che della memoria e dell’apprendimento presentate dalla Prof.ssa R. Serio (Univ.

Palermo). Studiare il cervello significa non solo capire come funziona questa me-

ravigliosa macchina, ma anche capire perché ogni tanto non funziona perfetta-

mente e quali potrebbero essere le strategie per porre rimedio. Il Prof. F. Tomasel-

lo (Univ. Messina) ha relazionato sugli itinerari delle neuroscienze: dalla

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comprensione morfo-funzionale alle strategie riparative del cervello. Per tornare

ai processi della conoscenza, della coscienza e della cognizione sociale, di parti-

colare interesse sono state le presentazioni dei Prof. G. Gembillo e P. Perconti

(Univ. Messina). I processi degenerativi come diagnosticarli lo stato della ricerca

sulla cura e sugli aspetti terapeutici sono stati al centro degli interventi della

prof.ssa M. J. Rochat (Univ. Parma) che ha parlato dei disturbi relazionali osser-

vati in individui autistici e della ricerca correlata ai neuroni specchio e il Prof. D.

Milardi (CNR Catania) che ha descritto le basi chimiche responsabili di processi

neurodegenerativi attribuibili a fenomeni di misfolding e aggregazione di partico-

lari proteine. Infine la Prof.ssa T. Ting (Univ. Calabria) ha spiegato il collegamen-

to tra neuroscienze e didattica e lo sviluppo di una vera e propria scienza

dell’apprendimento. Nella giornata conclusiva si è tenuta una tavola rotonda su

Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA). Un interessate e vivace dibattito è

stato stimolato dagli interventi di apertura della Prof.ssa P. Arrigo (Liceo F. Apri-

le Palermo) ed del Prof. M. Elia (IRCCS Troina, EN). Due sessioni pomeridiane

sono state dedicate, attraverso attività pratiche e dimostrative, al collegamento tra

neuroscienze e didattica tramite applicazioni di didattica “brain-compatibile” ba-

sata sulla metodologia CLIL nella didattica delle scienze. Inoltre, il programma è

stato integrato da un’interessante e coinvolgente conferenza-spettacolo serale su-

gli effetti neurofisiologi della voce in musica tenuta dal Prof. L. Dei (Univ. Firen-

ze).

Siamo grati all’Ufficio Scolastico Regionale per la Sicilia, nella persona del

suo Direttore Dr.ssa Maria Luisa Altomonte che condividendo i principi e gli o-

biettivi di SPAIS, continua ad offrire un supporto che ha reso possibile anche la

corrente edizione. Un sentito ringraziamento va, inoltre, all’Università di Messina

che, con un’apposita delibera del Senato Accademico, ha consentito il riconosci-

mento di un massimo di quattro CFU a studenti universitari per la frequenza della

Scuola. Siamo grati ai relatori che hanno consentito di rendere permanente il pro-

prio contributo con la realizzazione di questi atti.

Infine, si ringrazia: Associazione Insegnanti Chimici (AIC), Associazione per

l’Insegnamento della Fisica (AIF), Associazione Nazionale Insegnanti Scienze

Naturali (ANISN) e Divisione Didattica Società Chimica Italiana (DDSCI).

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Caos, Percezione e Linguaggio: dinamica dei

processi cognitivi

F. Tito Arecchi

Università di Firenze e INO-CNR, Firenze

E-mail: [email protected]

Il nome di Caos deterministico è stato attribuito al fatto che il modello matemati-

co di un sistema fisico, anche se apparentemente semplice perché consiste di po-

che equazioni, non garantisce una soluzione che preveda il futuro remoto, in

quanto l’informazione si “consuma” al passare del tempo e va rimpiazzata da

nuova informazione. Il tempo entro cui il grosso dell’informazione si perde di-

pende dal sistema: nel caso del sistema solare, esso è attorno al milione di anni (è

perciò che il sistema solare ci appare stabile) ma nel caso degli impulsi elettrici

(detti spikes) con cui i neuroni del cervello comunicano fra di loro, è solo 2 mille-

simi di secondo.

Qui occorre distinguere fra due tipi di caos: un caos geometrico, per cui il pun-

to rappresentativo di un evento si scosta da una traiettoria “ semplice” ed esegue

figure non prevedibili ( il cosiddetto “effetto farfalla”dei modelli meteorologici)

e un caos temporale per cui una forma stereotipata (un impulso di forma fissa) si

ripete a tempi imprevedibili .Questo secondo tipo è detto “caos omoclinico” per-

ché consiste nel ritorno di un punto alla stessa posizione ( come la lancetta dei

secondi dell’orologio che ritorna ogni minuto alle 12) ma se ne diparte con tempi

non uguali l’uno all’altro.

Un vivente si mantiene con successo perché all’arrivo di uno stimolo sensorio

reagisce con una adeguata risposta motoria. In un monocellulare si tratta di un ri-

flesso (le ciglia del paramecio stimolato da un segnale chimico o luminoso), in un

animale con cervello, il codice dello stimolo viene confrontato con il codice di

memorie pregresse e ne consegue una “interpretazione”, cioè una percezione.

Ma perché ciò avvenga, occorre sincronizzare le spikes di folle di neuroni, per-

ché si adeguino allo stesso codice (la sincronizzazione si raggiunge quando ad e-

sempio una folla batte le mani all’unisono). Ciò richiede un certo numero di milli-

secondi (qualche centinaio, fino a 1 secondo), ben oltre i 2 millisecondi entro cui

il caos cancella l’informazione di una spike.

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La sincronizzazione si configura dunque come un “controllo del caos”; senza

di questo, saremmo condannati a non “capire” niente del mondo che ci circonda.

Se ora passiamo a noi umani, qui c’è una novità legata al linguaggio, per cui la

coppia “stimolo-memoria” della percezione diventa la coppia “1° brano-2° brano”

di un testo linguistico (letterario, musicale ecc) e al posto della risposta motoria

qui abbiamo un “giudizio” cioè decidiamo sulla concordanza dei significati del 2°

brano in base ai significati del 1° brano.

L’esplorazione dei possibili significati del 1° brano, per scegliere quelli che più

si conformino al 2°, corrisponde a prospettarsi diverse sequenze di spikes fino a

scegliere quella che assicura la migliore sincronizzazione.

Qui interviene un elemento nuovo, cioè la coscienza di se stesso: colui che

sceglie il significato del 1° brano deve essere consapevole di essere lo stesso cui

si presenta il 2°-.Questa coscienza è ben distinta dalla semplice consapevolezza di

essere esposti a un certo stimolo da cui nasce la percezione e la corrispondente ri-

sposta motoria in un animale.

Nella esplorazione di procedure linguistiche, piuttosto che risolvere modelli di

reti di neuroni accoppiati da sincronizzazione, si ricorre a una spiegazione olisti-

ca, che tratti il problema da un punto di vista globale. Precisamente, nei processi

percettivi, si ricorre alla “inferenza di Bayes”; essa presuppone l’esistenza di al-

goritmi appropriati nella memoria. E’ una strategia rapida ma che vale solo per

un mondo semplice.

Per contro in presenza della “complessità”, gli algoritmi preesistenti non sono

applicabili e occorre costruirne “ad hoc” di nuovi. Si mostra come la “inferenza

di Bayes inversa” permetta la costruzione di nuovi algoritmi.

Nella lettura di un testo (letterario,musicale, pittorico) il nuovo algoritmo con-

nette i brani del testo , interpretando il successivo in termini del precedente. Nella

esplorazione cognitiva del mondo, l’algoritmo che interpreta situazioni diverse ma

legate da un filo comune (analogia) è il “concetto” che ha perciò un base ontolo-

gica e non è una pura invenzione mentale.

Ciò premesso, illustriamo i punti salienti con una serie di Figure.

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Due modi di leggere il mondo:

i) XVI- XX sec.(riduzionistico) spezza il mondo in frammenti

elementari e studia il singolo pezzo; poi li ricombina logicamente

Comincia con Galileo e Newton, è ideologizzato da Laplace e Carnap,

è stato la base della biologia post-darwiniana (dogma della biologia

molecolare) e del cognitivismo (mente = cervello).

ii) XXI sec. (olistico):

Quantum entanglement ( parti diverse e lontane

di mondo sono inestricabilmente legate );

Epigenetica (lo stesso gene può esprimersi in modi diversi a seconda

delle circostanze);

Linguaggio umano: giudizio (creativo) >>semplice percezione (basata su

algoritmi memorizzati)

Fig.1. La rivoluzione scientifica del XXI sec.

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La dinamica di Newton

DETERMINISMO-assegnato h[ ] ,si arriva a un d[ ] preciso

Condizioni iniziali

(posizione e velocità) h (t=0)

dati al tempo t (d) = funzione (F) di ipotesi a t=0 (h) e di tempo (t) :

[Tempo crescente]

Posizioni h e d

d=F(h,t)

Fig.2. Il paradigma di Newton : dinamica determinata dalle posizioni e velocità

iniziali

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Stabilità del moto (nascita del CAOS DETERMINISTICO

Poincaré-1890)

Stabilità trasversale alla traiettoria ( ). : traiettorie da condizioni iniziali

diverse da

A sinistra moto regolare; a destra moto caotico con perdita di informazione

Caos deterministico : il modello matematico di un

sistema fisico, anche se consiste di poche equazioni,

non prevede il futuro remoto, in quanto

l’informazione si “consuma” al passare del tempo e

va rimpiazzata da nuova informazione.

Il tempo entro cui si perde dipende dal sistema: nel

caso del sistema solare, è sul milione di anni , ma nel

caso degli impulsi elettrici (spikes) con cui i neuroni

del cervello comunicano fra di loro , è solo 2

millesimi di secondo.

Fig. 3. Come nasce il caos deterministico con Poincaré-1890. Tempo di perdita

dell’informazione .

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due tipi di caos:

- caos geometrico, il punto rappresentativo di un evento si

scosta da traiettoria “ semplice” ed esegue figure non

prevedibili ( “effetto farfalla”)

-caos temporale: una forma stereotipata (un impulso di forma

fissa = spike) si ripete a tempi imprevedibili ;

il punto ritorna sempre alla stessa posizione ( come la

lancetta dell’orologio ) ma se ne diparte con tempi non uguali

l’uno all’altro.

Effetto farfalla in modello meteorologico

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Caos omoclinico=

ritorno a sella S in 3D

Caos: a < gOscillazione periodica : a = g

Suscettibilità c = risposta ad uno stimolo esterno

Fig.5. Due tipi di caos: geometrico (effetto farfalla) e temporale (orologiocon

tempi variabili)

Ritmi neuronali 0.01-10 s

Ritmo cardiaco 1 s

Oscillazioni Calcio 1 s a parecchi minuti

Oscillazioni biochimiche 1-20 min

Ciclo mitotico 10 min a 24 h

Ritmi ormonali 10 min a parecchie ore

Ritmi circadiani 24 h

Ciclo ovario 28 d (umano)

Ritmi annuali 1 anno

Oscillazioni ecologiche anni

Fig.6. Tempi di alcuni orologi biologici

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Arecchi - Caos, Percezione e Linguaggio: dinamica ... 11

Un vivente reagisce a stimolo sensorio con risposta motoria.

Nel cervello, il codice dello stimolo [sequenza di spike] viene

confrontato con il codice di memorie pregresse e ne consegue

una “interpretazione” in base a cui si reagisce, cioè una

percezione.

Occorre sincronizzare le spike di folle di neuroni, perché si

adeguino allo stesso codice ( sincronizzazione una folla che

batte le mani all’unisono). Ciò richiede qualche centinaio di

millisecondi (fino a 1 secondo), ben oltre i 2 millisecondi entro cui

il caos cancella l’informazione di una spike.

La sincronizzazione implica dunque un “controllo del caos”;

senza di questo , saremmo condannati a non “capire” niente del

mondo che ci circonda.

Comunicazione fra Neuroni = sincronizzazione

Codice Neuronale = treno spike elettriche, ciascuna 100mV, 1ms;

separazione min. (bin) 3ms;

Separazione media (nella banda gamma dello EEG) 25 ms

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12 Arecchi - Caos, Percezione e Linguaggio: dinamica ...

Feature binding (legame di configurazione)

Ogni cerchietto rappresenta un campo ricettivo che isola

dettagli specifici (ad es. barra verticale).

Implementazione dinamica del Global Workspace (GWS)

[ competizione fra due interpretazioni top-down ]

GWS Verso sistema motorio

2 gruppi di neuroni eccitati da uguale stimolo sensorio bottom-up, ma

con diversi top-down. In I, i neuroni sono sincronizzati entro il tempo Dt,

in II invece non sincronizzati prevale I

tempo

GWS=lettore a soglia

[legge le somme entro Dt]

Dt

I

II

I

II

Bottom-up = ai due gruppi

Top-down I

Top-down II

Fig.9. Cos’è la percezione e come viene elaborata nel cervello

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Dinamica cognitiva: due scale temporali

A) PERCEZIONE; t circa 1sec

Cfr fra stimolo e memoria (= inferenza di Bayes) in grado di indurre reazione

motoria.

Procedura a repertorio finito, comune agli animali

B) GIUDIZIO; t> 3 sec

confronto linguistico fra il brano presente e la memoria del precedente;

i due eventi codificati nello stesso linguaggio e sottoposti allo stesso giudice

(coscienza di sé).Si sceglie il “modello” per Bayes inverso

Procedura libera, creativa, solo umana

Fig. 10. Le due procedure cognitive: percezione (in tutti gli animali con cervello)

e giudizio (solo negli umani, risulta da un confronto linguistico).

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Fig.11. Non attribuiamo un senso alla singola parola, ma al contesto, cioè al con-

fronto fra una parola e le vicine.

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Benigni XXXIII Inferno Ascolto V Beethoven(1 soggetto)

Tempi di pausa mediati su molti soggetti

(brani poetici o brani musicali )

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Sequenza di fissazioni oculari (cerchi neri) guardendo Nefertiti

Fig. 13. Ogni elaborazione linguistica (poesia, musica,arti figurative) implica il

confronto fra due brani successivi, che richiede in media 3 secondi.

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Arecchi - Caos, Percezione e Linguaggio: dinamica ... 17

= Centro decisioni, detto anche GWS (Global Work Space)

Reazione motoria

d=dati=stimoli sensori

h=ventaglio di ipotesi

[ top-down]probabilità A-PRIORI

che da h consegua

h* = ipotesi più plausibile

SENSI

[ bottom-up]

COME SI COSTRUISCE LA PERCEZIONE

MEMORIA

a lungo termine

d

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18 Arecchi - Caos, Percezione e Linguaggio: dinamica ...

d= lettura attuale

h=ventaglio di possibili

letture 1° brano

[ richiamo con memoria a breve

termine ]

Prob. che d consegua da h*

A-POSTERIORI

h*= lettura più plausibile

2° BRANO

[ brano da comprendere]

COME SI COSTRUISCE IL GIUDIZIO NEL CONFRONTO LINGUISTICO

1° BRANO

Fig. 15. Descrizioni globali dei due processi cognitivi, percezione e giudizio;

nel secondo caso , è cruciale la “coscienza di se stessi” (autocoscienza): colui

che sceglie il significato del 1° brano deve essere consapevole di essere lo stesso

cui si presenta il 2°.

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Arecchi - Caos, Percezione e Linguaggio: dinamica ... 19

A1

B1

An

A2

B2

Bn

έλιξ, spira

A B

circolo

Confronto tra A e B -

Due tipi di ermeneutica: ripetitiva; creativa

senza perdita di informazione rimpiazzo di informazione

FONDAMENTALISMO

DIALOGO SENZA FINE

Nell’ermeneutica creativa, c’è il confronto tra A e B, dove

B è la realtà esterna che limita e guida le scelte

successive di A .

Invece nella dialettica di Hegel, lo Spirito evolve, ma

senza un referente esterno; lo stesso nel “pensiero

debole”

A1

A2

An

Manca il feedback, cioè il dialogo

con altro .

Si passa da una ontologia con

referente esterno (realistica) ad

una ontologia solipsistica.

In Inglese si direbbe “bootstrap”,

sollevarsi tirandosi dai propri

stivali, come il Barone di

Munchausen

Fig.17. Due ermeneutiche: a) computazionale, che attribuisce un senso invariante

agli oggetti; il senso è fissato da una singola operazione di misura;

b) creativa: il senso si raffina nel confronto linguistico;

c) l’ermeneutica creativa è realistica se implica un referente esterno, idealistica

se si sviluppa per pura crescita interna , senza un referente: parlaremo di

”bootstrap” (salire tirandosi dagli stivali) come fece il Barone di Munchausen

nella sua ascesa alla luna.

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20 Arecchi - Caos, Percezione e Linguaggio: dinamica ...

condizione

iniziale

Prob. più plausibile h*

Prob. stimate

algoritmodati misurati P(d |h)

Colle di probabilità

Spazio delle variabili

PERCEZIONE= RICORSIVA:Successive applicazioni di BAYES

= scalata colle probabilità:

[Darwin; Sherlock Holmes]

Bayes senza semiosi

SIGNIFICATOcomplessità semantica

complessità algoritmica

(complicazione)

creatività [esempio: teorema di Goedel ]

Fig.18- Confronto fra percezione come procedura ricorsiva (in orizzontale uno

spazio di variabili, in verticale un colle di probabilità crescenti) fatta di successi-

ve inferenze di Bayes che si appoggiano ad un algoritmo o modello.

Per contro, la complessità implica la coesistenza di modelli (colli) differenti. La

scelta di un colle è una procedura creativa, non-algoritmica.

Si sta oggi investigando il ruolo quantistico di questa procedura che va oltre il

computer classico(macchina di Turing) e che è peculiare del linguaggio umano.

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Struttura e funzione del sistema nervoso cen-

trale

Daniele Lo Coco(1)

e Emanuele Cannizzaro(2)

(1) U.O. Neurologia, Dipartimento di Neuroscienze, Ospedale Civico -

ARNAS, Palermo, Italy (2)

Sezione di Farmacologica, Dipartimento per la Promozione della

Salute e Materno Infantile PROSAMI, Università Degli Studi di

Palermo, Palermo, Italy

E-mail: [email protected]

Abstrac. Il sistema nervoso centrale regola tutte le funzioni del nostro

corpo: controlla il comportamento sia esso razionale che istintivo,

controlla la sensazione di fame e di sete, controlla il respiro ed il batti-

to cardiaco, la pressione del sangue, la temperatura corporea. È re-

sponsabile della nostra percezione del mondo esterno e ci permette di

interagire con esso. Ci permette di praticare sport e di non cadere men-

tre andiamo in bicicletta. Ci consente di rimanere affascinati di fronte

ad un’opera d’arte e di provare sentimenti come la paura, la rabbia, la

gioia, l’amore. Tuttavia, dopo che migliaia di scienziati lo hanno stu-

diato per secoli, la maggior parte dei meccanismi più complessi alla

base del suo funzionamento risultano ancora oscuri ed al di fuori delle

nostre capacità di comprensione. In questa breve review esamineremo

le principali conoscenze attuali sulla organizzazione strutturale e fun-

zionale del sistema nervoso centrale, cercando di comprendere se i

progressi fatti nel campo della conoscenza hanno in qualche modo al-

terato il fascino oscuro di una macchina così complessa, o al contrario

abbiano accresciuto l’interesse a spingerci sempre più in là nel tentati-

vo di far luce sui misteri sempre più complessi del suo funzionamento.

PACS codes: neuroscience and nervous system (87.19).

1. Introduzione

La struttura e funzione del cervello e del sistema nervoso centrale (SNC) in gene-

rale sono oggetto di studio e ricerca da migliaia di anni e numerose sono state le

ipotesi, talvolta molto fantasiose, formulate in passato per spiegarne i segreti. Ma

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22 Lo Coco & Cannizzaro – Struttura e funzione del sistema...

in realtà è solo negli ultimi decenni che sono stati compiuti decisi progressi nella

comprensione della struttura anatomica e dell’organizzazione morfo-funzionale

del cervello e del SNC, anche se molto rimane ancora da scoprire.

Come riassunto nella Tabella 1, il SNC è costituito da un insieme di strutture

anatomiche tra di loro organizzate e interconnesse definite: midollo spinale ed

encefalo, cioè quella porzione del SNC contenuta all’interno della scatola cranica.

A sua volta l’encefalo (dal greco encephalon, "dentro la testa") è suddiviso in:

tronco dell’encefalo, cervelletto e cervello propriamente detto, di cui fanno parte

la corteccia cerebrale, il sistema limbico, la sostanza bianca sottocorticale, i nu-

clei della base ed il talamo.

2. Organizzazione strutturale del sistema nervoso centrale

Il tronco encefalico è la parte più antica del cervello, evolutosi oltre cinquecento

milioni di anni fa. Poiché assomiglia al cervello dei rettili, è stato denominato

cervello “rettiliano”. Questa parte del cervello è importante nel regolare il livello

generale di veglia, la respirazione ed il battito cardiaco. È inoltre una importante

stazione di relè per le afferenze sensoriali dalla periferia al centro e per le efferen-

ze regolatrici del nostro organismo (Kandel et al., 2000; Haines, 2012). È suddivi-

so in tre porzioni che in senso caudo-craniale sono denominate: bulbo (o midollo

allungato), ponte di Varolio e mesencefalo.

Contenuto nella fossa cranica posteriore, dorsalmente al tronco encefalico e ad

esso interconnesso mediante una serie di fibre nervose che costituiscono i pedun-

coli cerebellari, si trova il Cervelletto. Esso è fondamentale nella regolazione

dell’equilibrio, della postura e della coordinazione motoria. Svolge inoltre un ruo-

lo in alcuni processi di memorizzazione di risposte apprese semplici (Kandel et

al., 2000; Haines, 2012). La sua massa nell’ultimo milione di anni è più che tripli-

cata, sottolineando l’importanza del suo ruolo negli esseri umani.

Il sistema limbico è costituito dal gruppo di strutture neuronali che si trovano

in profondità al di sotto della corteccia cerebrale ed al di sopra del tronco encefa-

lico. È una struttura filogeneticamente molto antica risalendo a circa duecen-

Tabella 1. Il Sistema Nervoso Centrale.

Cervello (corteccia cerebrale, sostanza bianca sottocorticale, si-

stema limbico, nuclei della base, talamo)

Encefal

o

Cervelletto

Tronco dell’encefalo (mesencefalo, ponte e bulbo)

Midollo spinale

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to/trecento milioni di anni fa. Poiché si è particolarmente sviluppato nei mammi-

feri, è stato denominato cervello “mammaliano”. Svolge un ruolo fondamentale

nella regolazione della temperatura corporea, della pressione sanguigna, del batti-

to cardiaco, della fame, della sete e della funzionalità di numerose ghiandole en-

docrine (tiroide, surreni, gonadi). Nel sistema limbico avvengono, inoltre, i feno-

meni cellulari e biochimici più importanti per la realizzazione del processo di

memorizzazione e conservazione delle informazioni. È implicato infine nella de-

terminazione delle reazioni emotive connesse con la sopravvivenza

dell’individuo. Del sistema limbico fanno parte l’ippocampo, il fornice, e

l’ipotalamo, che attraverso una serie di messaggi elettrici e chimici regola

l’ipofisi, la ghiandola principale del nostro corpo (Kandel et al., 2000; Haines,

2012). Il sistema limbico è una delle principali sedi di degenerazione, quantome-

no nelle fasi iniziali, che si verificano nella Malattia di Alzheimer, provocando i

ben noti disturbi a carico della memoria a breve termine e dell’orientamento tem-

poro-spaziale.

Al di sopra dell’ipotalamo si trova il talamo, costituito da un insieme di nuclei

neuronali altamente organizzati che costituiscono una stazione importante di relè

delle informazioni sensitivo-motorie ascendenti e discendenti (Kandel et al.,

2000; Haines, 2012).

La parte più grande dell’encefalo umano è il cervello propriamente detto. Esso

è diviso in due metà, dette emisferi, ciascuno dei quali controlla la porzione con-

trolaterale del corpo. Ciascun emisfero è connesso con il controlaterale attraverso

un insieme di circa trecento milioni di fibre nervose che costituiscono il corpo

calloso. Patologie che causano alterazioni a questo livello, o in seguito ad inter-

venti chirurgici soprattutto nel campo dell’epilessia possono provocare una disso-

ciazione tra i due emisferi cerebrali. Questa disfunzione patologica è stata alla ba-

se della scoperta del fenomeno della “dominanza emisferica”, per cui ciascun

emisfero è specializzato in funzioni cognitive diverse rispetto al controlaterale. In

particolare, l’emisfero sinistro è implicato nel controllo sensitivo e motorio

dell’emisoma destro, nella comprensione e produzione del linguaggio scritto e

parlato, nel ragionamento, nelle abilità di calcolo e matematiche. L’emisfero de-

stro, invece controlla la porzione sinistra del corpo, ed è coinvolto nella percezio-

ne della tridimensionalità, nella creatività, immaginazione ed introspezione (Kan-

del et al., 2000; Haines, 2012).

Dal punto di vista macroscopico, ciascun emisfero presenta sulla sua superficie

una serie di pieghe e circonvoluzioni molto complesse che permettono di ottenere

una conformazione spaziale vantaggiosa al fine di consentire il contenimento del

cervello all’interno della scatola cranica. Dal punto di vista microscopico, lo stra-

to più superficiale di ogni emisfero, per soli tre millimetri circa di spessore, rac-

chiude lo strato di cellule nervose (neuroni) che costituiscono la corteccia cere-

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24 Lo Coco & Cannizzaro – Struttura e funzione del sistema...

brale. La corteccia cerebrale è filogeneticamente recente, essendo apparsa soltan-

to duecento milioni di anni fa, ed è particolarmente sviluppata nella razza umana.

È infatti la sede delle principali funzioni “superiori” grazie alle quali siamo in

grado di organizzare, ricordare, parlare, leggere, capire, apprezzare, creare e pen-

sare.

La corteccia di ciascun emisfero è suddivisa in quattro aree, denominate lobi

(Tabella 2). Il lobo frontale, particolarmente sviluppato nella razza umana rispet-

to agli altri mammiferi, è implicato nei processi cognitivi di pianificazione, orga-

nizzazione, decisione e nel comportamento intenzionale. Il lobo parietale ha il

ruolo di raccogliere le informazioni sensoriali provenienti dalla periferia del no-

stro corpo, e di elaborarle. Il lobo occipitale è dedicato alla visione e contiene la

corteccia visiva e le aree visive associative dove le informazioni registrate a livel-

lo della retina vengono elaborate in immagini ed interpretate. Il lobo temporale,

infine, è implicato nella funzione uditiva, nella comprensione ed elaborazione del

linguaggio e nella memoria (Kandel et al., 2000; Haines, 2012). Le turbe del lin-

guaggio da disfunzioni corticali prendono il nome di “afasie”, cioè la perdita, par-

ziale o completa, delle capacità linguistiche, ossia della comprensione o della e-

spressione linguistica, o di entrambe, conseguente a un danno alle aree cerebrali

del linguaggio (presenti sia a livello del lobo temporale che di quello frontale) e

non attribuibile a difficoltà di parola, ossia a disturbi dei processi meccanici del

linguaggio.

Al di sotto della corteccia cerebrale (che costituisce la sostanza grigia, così de-

nominata per il suo aspetto sul tavolo anatomico legata alla ricca vascolarizzazio-

ne) ritroviamo la sostanza bianca un insieme di fibre nervose che interconnettono

le varie zone della corteccia cerebrale, consentendo così lo scambio di informa-

zioni tra le cellule e l’elaborazione quindi di informazioni sempre più complesse.

La sostanza bianca é così denominata per l’elevata presenza di mielina, la guaina

lipidica che riveste le fibre nervose consentendo la trasmissione dell’impulso elet-

trico da una cellula all’altra. La sostanza bianca contiene inoltre le fibre nervose

Tabella 2. I lobi della corteccia cerebrale.

Lobo frontale (pensiero, pianificazione, comportamento intenzionale, linguag-

gio, funzione motoria)

Lobo parietale (percezione della sensibilità tattile/discriminativa e dolorosa, in-

tegrazione sensitiva)

Lobo temporale (udito, memoria, linguaggio)

Lobo occipitale (visione)

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che connettono in senso reciproco la corteccia cerebrale con tutte le altre strutture

del sistema nervoso centrale espandendo così le possibilità di integrazione funzio-

nale e gestione delle informazioni. La patologia più nota, che causa una progres-

siva degenerazione della sostanza bianca cerebrale è la Sclerosi Multipla, patolo-

gia autoimmunitaria in cui si verifica una aggressione da parte del proprio sistema

immunitario ai danni guaina mielinica con conseguente alterazione della funzio-

nalità cerebrale con risvolti negativi sulla funzione motoria, sensitiva, coordina-

zione, etc. Infine, nella profondità della sostanza bianca, al di sopra del talamo, si

trovano una serie di nuclei di sostanza grigia, denominati nuclei della base (nu-

cleo caudato, putamen, globus pallidus, nucleo subtalamico, substantia nigra). I

nuclei della base sono filogeneticamente più antichi della corteccia cerebrale e

sono importanti nella programmazione motoria, sono coinvolti nel processo di

scelta decisionale e nell’integrazione sensitivo-motoria delle informazioni (Kan-

del et al., 2000; Haines, 2012). Patologie che ne alterano la funzione, come la Ma-

lattia di Parkinson o la Corea di Huntigton, causano gravi disturbi del movimento

con tremore, rigidità, anomalie dei riflessi posturali, movimenti involontari.

Per poter funzionare, come tutte le parti del nostro corpo, anche il sistema ner-

voso ha bisogno di ossigeno ed altri nutrienti, trasportati attraverso la circolazione

del sangue. Ci sono infatti quattro principali arterie che decorrono lungo il collo,

anteriormente e posteriormente alla porzione cervicale della colonna vertebrale.

Esse sono l’arteria carotide comune destra e sinistra (che poi si suddividono in

arteria carotide interna, al servizio delle strutture all’interno del cranio, ed arte-

ria carotide esterna, al servizio delle strutture all’esterno del cranio) e l’arteria

vertebrale destra e sinistra (che poi si congiungono a livello della base del cranio

nell’arteria basilare). Queste quattro arterie, una volta penetrate all’interno del

cranio si suddividono in arterie di calibro via via minore fornendo l’irrorazione

sanguigna alle varie parti dell’encefalo, ma sono anche interconnesse tra loro at-

traverso una serie di arterie di calibro minore, denominate arterie comunicanti a

costituire una struttura fondamentale per l’omeostasi circolatoria cerebrale, de-

nominata poligono del Willis. Alterazioni improvvise della circolazione cerebrale,

non suscettibili di compenso ed azione vicariante da parte di altre arterie, sono al-

la base dell’ictus cerebrale ischemico, una delle patologie più frequenti in età a-

vanzata nel mondo Occidentale e tra le principali cause di invalidità permanente.

Nel 20% circa dei casi, inoltre, anziché verificarsi una ostruzione al flusso di san-

gue arterioso, si verifica una rottura di un piccolo vaso, responsabile quindi di una

emorragia cerebrale. La circolazione venosa cerebrale invece raccoglie il sangue

dopo che è stato donato l’ossigeno ed i nutrienti, convogliandolo al di fuori del

cranio di ritorno verso il cuore, attraverso le vene giugulari.

L’ultima struttura del sistema nervoso centrale da esaminare è il midollo spi-

nale, che, raccolto e protetto all’interno del canale midollare, è costituito

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anch’esso da un insieme di sostanza bianca (in questo caso all’esterno) e sostanza

grigia (all’interno). Il midollo spinale contiene un insieme di neuroni, posti nella

parte dorsale del midollo spinale, che ricevono informazioni sensoriali diretta-

mente dai recettori posti alla periferia su cute, tendini e muscoli, e le ritrasmettono

cranialmente al tronco cerebrale, cervelletto, talamo e corteccia. Nella parte ven-

trale del midollo spinale ci sono invece i neuroni motori (o motoneuroni) che ri-

cevono informazioni dalle strutture sovraspinali e sono collegate direttamente con

i muscoli scheletrici del corpo. Il midollo spinale è anche sede dell’arco riflesso

fondamentale per la generazione del tono muscolare antigravitazionale che ci con-

sente di rimanere in piedi, per esempio, o reggerci mentre camminiamo.

3. Uno sguardo al microscopio per comprendere i principi di funzionamento

del sistema nervoso centrale

Sebbene, da quanto detto, sia possibile cominciare a comprendere il funzionamen-

to basilare del sistema nervoso, tuttavia, è solo analizzandolo dal punto di vista

microscopico e cellulare, che si riesce a fare un po’ di luce sui meccanismi alla

base dell’organizzazione funzionale di questa enorme e complessa “macchina”.

La cellula più importante è denominata neurone, ed all’interno del cervello se ne

possono contare oltre cento miliardi (Kandel et al., 2000). Ciascuna di queste cel-

lule nervose è capace di generare autonomamente degli impulsi elettrici a livello

della sua membrana cellulare e, grazie a delle strutture chiamate assone e dendriti,

è in grado di trasmettere o ricevere tali impulsi interconnettendosi con gli altri

neuroni del SNC in una fittissima rete di informazioni. Alla base di questo pro-

cesso di scambio c’è la sinapsi, cioè quella porzione strutturale del neurone dove,

attraverso il rilascio di neurotrasmettitori ed alla loro interazione con dei recettori

specifici, avviene la comunicazione dell’impulso elettrico tra le cellule. In alcuni

casi, inoltre, il neurone è collegato direttamente attraverso un lungo assone ad una

serie di fibrocellule muscolari, di cui ne determina o meno lo stato di contrazione.

Si parla in questo caso di sinapsi neuromuscolare. Le alterazioni patologiche del-

la comunicazione tra le cellule nervose e le fibrocellule muscolari sono alla base

di alcune gravi malattie come la Sclerosi Laterale Amiotrofica e la Miastenia

Gravis. Intorno ai neuroni si ritrova un’altra popolazione celluare, globalmente

denominata glia e costituita da diversi gruppi cellulari (oligodendrociti, astrociti,

microglia) con la funzione di supporto strutturale e nutrizione dei neuroni, riequi-

librio dell’ambiente extracellulare e azione detossificante e di protezione (Kandel

et al., 2000).

4. La veglia ed il sonno

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Lo Coco & Cannizzaro – Struttura e funzione del sistema... 27

Questa complessa macchina cellulare, che abbiamo finora descritto, nella quale

informazioni vengono continuamente scambiate come segnali elettrici tra quantità

enormi di cellule, non interrompe mai la sua funzione nel corso della vita, neppu-

re quando si dorme. Il sonno, infatti, non è un semplice momento di ristoro in cui

avviene lo spegnimento di quelle funzioni che erano attive durante la veglia, ma,

secondo le più recenti scoperte nel campo scientifico, è un processo attivo, neces-

sario e fondamentale per la sopravvivenza dell’organismo (Kryger et al., 2010). Il

sonno è un processo dinamico ciclico durante il quale il cervello e tutto

l’organismo attraversano stadi funzionali differenti definiti stadi del sonno. Si di-

stinguono comunemente almeno 3 differenti stati dell’essere in tutti gli animali: la

veglia, il sonno non-REM (NREM), a sua volta suddiviso in stadio 1 NREM

(cioè l’addormentamento), stadio 2 NREM (sonno leggero) e stadio 3 NREM

(sonno profondo o ad onde delta), ed il sonno REM (acronimo dall’inglese: rapid

eyes movements, cioè movimenti oculari rapidi). Il passaggio dalla veglia al

sonno e l’approfondirsi del sonno sono degli eventi che si succedono senza solu-

zione di continuità e con un andamento ciclico, che si studiano attraverso un

esame denominato “polisonnografia”.

Dal punto di vista neurofisiologico non esiste una struttura cerebrale unica re-

sponsabile del processo del sonno o della veglia, ma questi differenti stati sono il

risultato della complessa interazione fra molte aree cerebrali in equilibrio tra loro:

corteccia cerebrale e sistema limbico, talamo, ipotalamo, formazione reticolare

troncoencefalica, locus coeruleus, nucleo del rafe, nucleo del tratto solitario.

Numerose sono state nel tempo e sono ancora oggi le teorie formulate per spie-

gare il significato del sonno, anche se attualmente non esiste una interpretazione

definitiva ed univoca (Kryger et al., 2010). Le possibili funzioni del sonno secon-

do le attuali conoscenze sono riassunte nella Tabella 3.

Tabella 3. Possibili funzioni del sonno nei mammiferi.

Funzione di ristoro

Funzione ecologica (cioè protezione dai predatori)

Funzione immunologica (regolazione del sistema immunitario)

Funzione termoregolatoria

Protezione nei confronti della eccessiva stimolazione di alcuni sistemi cellulari

neuronali durante la veglia

Preservazione dell’integrità neuronale (sinapsi e reti neurali)

Consolidamento della memoria

Funzione detossificante attraverso il controllo dell’omeostasi metabolica cere-

brale

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28 Lo Coco & Cannizzaro – Struttura e funzione del sistema...

5. Conclusione

In conclusione, anche se probabilmente non riusciremo mai a svelare completa-

mente tutti misteri del cervello, grazie agli studi più recenti ed alle tecniche di

studio sempre più complesse ed innovative, oggi sappiamo molte più cose su di

esso che in passato. Sappiamo infatti molte cose su come è diventato ciò che è e

su ciò che il cervello è. Ma soprattutto, oggi, come ieri, sappiamo molte cose su

ciò che il cervello fa: ci rende esseri umani così speciali e diversi gli uni dagli al-

tri, tanto da restare stupiti ed a bocca aperta di fronte alle meraviglie che ci per-

mette di compiere in ogni momento della nostra vita.

Bibliografia

Haines D. (2012). Neuroanatomy: An Atlas of Structures, Sections, and Systems

(8th Edition). Philadelphia: Wolters Kluwer Health/Lippincott Williams & Wil-

kins.

Kandel, E.R., Schwartz, J.H., & Jessell, T.M. (2000). Principles of Neural Sci-

ence (4th Revised Edition).New York: McGraw-Hill Medical.

Kryger, M.H., Roth, T., & Dement, W.C. (2010). Principles and Practice of Sleep

Medicine (5th Edition). Philadelphia: Saunders/Elsevier.

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La didattica informale del laboratorio scienti-

fico exhibit e origami

Salvatore D’Arrigo

(1) e Antonia De Domenico

(2)

(1) Salvatore D’Arrigo: docente di matematica e fisica presso il liceo scienti-

fico Quasimodo di Messina.

(2) Antonia De Domenico: esperta nella didattica elementare dell’origami,

Messina.

E-mail: [email protected]

Abstract. Ricerca e sorpresa accomunano i processi di apprendimen-

to a tutti i livelli, in tutti i gradi di scolarità, in tutti i contesti, formali

ed informali.

Se non si vuole correre il rischio di disperdere energie e risorse uma-

ne, se si vuole evitare che gli alunni più deboli fuggano dalle scuole

annoiati o che vi restino ma senza maturare competenze, occorre che

la didattica in generale, e quella scientifica in particolare, venga ri-

organizzata come attività di ricerca, ricca di sorprese e fonte di pia-

cere.

Il laboratorio interattivo prevede la realizzazione di modelli speri-

mentali, alcuni costruiti con materiale di facile consumo, altri pie-

gando la carta utilizzando la tecnica dell’origami.

“non esiste serratura che non abbia la sua chiave”

1. Il laboratorio scientifico Exhibit

Ciò che caratterizza il laboratorio “exhibit” [1] è l’approccio ludico che non è si-

curamente una strategia innovativa nel panorama storico della didattica, ma, se

escludiamo la scuola primaria, ancora oggi è poco utilizzato. Noi crediamo, inve-

ce, che l’approccio ludico sia per qualsiasi età il passe-partout che consente di en-

trare in ogni disciplina facilitando il processo della costruzione del sapere attra-

verso il saper fare per maturare il saper essere.

Ogni volta che si incontrano difficoltà nell’apprendimento bisognerebbe rive-

dere le modalità:

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30 D’Arrigo & De Domenico - La didattica informale... Del cittadino

- dell’insegnante nel proporre

- del gruppo classe nel sostenere

- dell’alunno nell’approccio

e abbiamo verificato che l’utilizzo di exhibit risulta essere un comune denomina-

tore facilitatore nelle dinamiche di apprendimento scientifico per entrambi i sog-

getti. In tal senso l’exhibit integra, sostiene, stimola, introduce, rafforza, by-passa

molti concetti scientifici che normalmente risultano ostici alla comprensione

dell’alunno, specialmente se manca di basi e di metodo.

Per una corretta interpretazione del laboratorio Exhibit è opportuno guardare

alla sua pianificazione suddivisa in tre fasi:

1) Riscaldamento

2) Allenamento

3) Gara

In ognuna di esse il docente assume il ruolo dell’allenatore e, secondo le di-

namiche che si sviluppano, si pone in una delle tre posizioni strategiche di leader:

di fronte al gruppo, al centro del gruppo o esternamente al gruppo.

La prima fase di riscaldamento è caratterizzata da un approccio libero infor-

male. In essa il docente predispone l’ambiente di apprendimento sul modello dei

musei scientifici interattivi in modo da favorire le condizioni di ricezione cogniti-

va lasciando parzialmente liberi gli studenti di “fare”, suggerendo loro

l’interazione con alcuni exhibit, magari in forma di sfida e cercando di provocare,

con opportune tecniche di comunicazione, un sano conflitto ludico.

In quest’ambiente gli studenti sono spinti a entrare più per curiosità che per

obbligo, sentendo la necessità di girare liberamente fra le isole di exhibit oppure

sedersi secondo una distribuzione a ferro di cavallo per meglio favorire la comu-

nicazione visiva e verbale.

In queste condizioni lo studente prova stupore, che oltre a rinforzare la curiosi-

tà, innesca la voglia del fare nella logica dell’hands on, la voglia di scoprire gio-

cando con i propri sensi e porsi le prime domande quali input riflessivi da svilup-

pare in seguito.

La prima fase costituisce l’imprinting cognitivo e a essa è intimamente colle-

gata la seconda fase di allenamento. Quest’ultima è caratterizzata da un approccio

che, sebbene ancora informale, è più sistematico in quanto in essa saranno predi-

sposti percorsi sperimentali, alcuni guidati dallo stesso docente e altri più auto-

nomi da sviluppare da soli o in mini gruppi di ricerca-azione.

Lo studente è quindi sollecitato a porsi delle domande fondamentali sui princi-

pi scientifici che governano l’exhibit con il quale sta interagendo. Deve emergere

il bisogno di rompere il giocattolo per vedere come funziona. L’azione dello

smontaggio virtuale deve però essere sostenuta dall’interazione con l’exhibit nella

quale è bene rispettare la consegna del “cosa fare”, “cosa notare” e “cosa accade”.

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Ed è proprio nel “cosa accade” che devono emergere le risposte alle domande po-

ste all’inizio. Sarebbe opportuno che ogni exhibit si potesse anche smontare fisi-

camente o, almeno, poter leggere distintamente nelle parti che lo compongono.

Se le prime due fasi hanno innescato una risposta emotiva significativa, è il

momento di attivare la terza fase di gara caratterizzata da un approccio più for-

male nel quale emerge la valenza educativa più tradizionalmente legata alla valu-

tazione per soddisfare anche il docente che così può raccogliere e certificare i

primi frutti della sua azione didattica. In questa fase lo studente, da solo o lavo-

rando in gruppo, deve ricostruire l’exhibit, personalizzarlo e confrontarlo con i

prototipi realizzati dagli altri compagni. Segue un lavoro di squadra per ottimiz-

zare i modelli da sottoporre al pubblico o ad altri studenti nella logica di un ciclo

virtuoso di espansione dell’apprendimento scientifico.

La presenza di uno o più osservatori durante lo svolgimento di ogni fase è si-

curamente utile se l’attività ha un suo sviluppo all’interno di un percorso didattico

finalizzato a una mostra finale degli exhibit costruiti. Ciò costituisce

un’importante occasione di feed-back nella quale gli stessi studenti hanno anche

l’opportunità di trasmettere a un pubblico eterogeneo quanto hanno appreso.

2. Il laboratorio scientifico Origami

Un segmento particolarmente significativo del progetto Exhibit è il laboratorio in-

terattivo dedicato agli Origami.

L’origami (dal giapponese “ori-kami”, che significa “piegare la carta”) è una

tecnica di piegatura della carta con la quale si possono realizzare innumerevoli

modelli, molti dei quali si prestano a un’analisi geometrica o come modello ma-

tematico o, ancora, come supporti per esperimenti scientifici. Ma oltre alle appli-

cazioni laboratoriali che sono già, di per sé, sorprendenti e determinanti nel pro-

cesso di apprendimento, l’origami contribuisce in modo altrettanto sorprendente a

costruire o rinforzare un metodo di lavoro condiviso e partecipativo nel quale i

fattori fondamentali sono la concentrazione, l’osservazione, la pazienza, la preci-

sione, la progettazione, l’autovalutazione in itinere e finale; tutti fattori che si ri-

trovano nelle attività di laboratorio scientifico con la peculiarità che nell’origami

si usa soltanto un foglio di carta e le due mani.

Le attività laboratoriali di origami possono essere adattate a gruppi molto di-

versi, in funzione del potenziale educativo e psicologico che si vuole attivare e in

relazione agli obiettivi didattici che si vogliono raggiungere. In ogni caso il pro-

cesso di costruzione dei saperi avviene gradualmente, per tappe che devono ga-

rantire a ogni allievo il successo, pur passando da inevitabili errori.

Durante le operazioni di piegatura vissute inizialmente in gruppo, ognuno ma-

tura o rafforza l’autostima, nel rispetto delle proprie capacità e nel riconoscimento

dei propri limiti. In un clima di piena collaborazione, vige la regola “vietato non

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32 D’Arrigo & De Domenico - La didattica informale... Del cittadino

copiare” e passa così il messaggio educativo fondamentale per il quale ognuno di

noi è “diversamente abile”.

Per entrambi i laboratori abbiamo sperimentato più di un centinaio di modelli,

la maggior parte dei quali afferiscono a esperienze già realizzate in molti science

center. Per gli exhibit si è sempre cercato di riprodurli con l’utilizzo di materiale

povero andando incontro a inevitabili approssimazioni che però non hanno mai

inficiato la riuscita dell’esperimento laddove si punta più sul suo aspetto qualitati-

vo nel quale si cerca di evidenziare il legame fra cause ed effetti. Per gli origami

la loro riproduzione richiede quasi sempre una rivisitazione delle istruzioni ( dia-

grammi di piegatura) per renderle di semplice lettura agli studenti, ma ciò non è

sempre sufficiente per garantire l’autonomia di piegatura; più spesso è necessario

accompagnare passo dopo passo (sarebbe meglio dire piega dopo piega) la realiz-

zazione del modello in un rapporto didattico diretto dove le mani del docente e-

sperto si sovrappongono a quelle dello studente. Una volta finito un origami, sarà

necessario ripeterne la piegatura più volte per arrivare ad acquisire la piena con-

sapevolezza di ogni piega, specialmente nei modelli matematici e geometrici.

A titolo di esempio abbiamo scelto due modelli per i quali si riportano le figu-

re dei modelli finiti tralasciando tutti i passaggi recuperabili nei libri dai quali

sono stati tratti:

Parabola origami. Per realizzare la parabola [2] la prima piega individua l’asse di simmetria verti-

cale, la seconda piega, perpendicolare alla prima e scelta a piacere, la interseca nel

punto che sarà il fuoco della curva. Se si considera il bordo inferiore del foglio

come la direttrice, una terza piega parallela al bordo che riporta il piede dell’asse

di simmetria sul fuoco, individua il vertice della parabola. Di seguito vengono ef-

fettuate pieghe che portano sul fuoco quanti più punti possibili appartenenti alla

direttrice ottenendo altrettante tangenti alla curva che così prende forma come in-

viluppo di rette. È interessante sottolineare due aspetti:

- Ogni piega costituisce, di per se, un’asse di simmetria e ciò sta alla base della

dimostrazione geometrica e algebrica evidenziata in figura dalla quale emer-

ge la definizione euclidea della parabola come luogo geometrico dei punti

equidistanti da un punto, detto fuoco, e da una retta, detta direttrice;

- La parabola, pur essendo definito come un luogo geometrico di punti, in que-

sto modello si presenta come il luogo geometrico delle tangenti ad ogni pun-

to. Ciò valorizza il ruolo strategico e di ricerca della derivata di una funzione

come generica tangente alla funzione stessa.

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D'Amico & D'Arrigo - La didattica informale ... 33

Figura 1. La costruzione geometrica origami di una parabola come invilup-

po delle sue tangenti.

Pentolino origami. L’esperimento permette di introdurre in chiave ludica e sperimentale le condizioni

necessarie ma non sempre sufficienti per provocare una combustione. In partico-

lare si evidenzieranno le proprietà fisiche e chimiche della carta e dell’acqua.

Partendo da un foglio di carta quadrato ( va bene un foglio ricavato da un A5/ 80

g.) vengono eseguite una serie di pieghe che danno, via via, tridimensionalità al

modello che si presenta, alla fine, come un recipiente semicubico dotato di manici

per una presa sicura [3]. Se si usa il modello come pentolino per riscaldare u poco

di acqua con un accendino, si vedrà che la carta non brucia e l’acqua si riscalda. È

evidente che l’acqua raffredda il fondo del pentolino impedendo allo stesso di

raggiungere la temperatura critica di combustione. Ciò non impedisce alla carta di

riscaldarsi e annerire evidenziando un lento processo di carbonizzazione che, se

prolungato, potrebbe far sgranare la trama del tessuto della carta e provocarne la

rottura con inevitabile perdita dell’acqua.

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34 D’Arrigo & De Domenico - La didattica informale... Del cittadino

Figura 2. La realizzazione origami di un pentolino di carta da utilizzare come

exhibit di termologia.

Note e Riferimenti bibliografici

[1] D’Arrigo S.(2005). Exhibit “la scienza divertente” in Aa Vv.,

OPERATIVITA’ LUDICITA’ COOPERAZIONE- IDEE PERCORSI E

BUONE PRASSI A SCUOLA, a cura di C.Sirna A.M.Salomon. PENSA

MULTIMEDIA EDITORE, pp 167-192. Lecce

[2] Albrecht Beutelspacher & Marcus Wagner (2009). Piega e spiega la matema-

tica. (pp.41-43). Ponte alle Grazie.

[3] Luisa Canovi, (1993). Origami Multiform . Edizioni Aquiloni Alivola.

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Musica e colore

Laura Franchini(1)

e Silvana von Arx(2)

(1)A.I.F ( Associazione per l’Insegnamento della fisica) - Napoli

(2)Associazione Amici di Città della Scienza - Napoli

E-mail: [email protected]; [email protected]

Abstract. Un’indagine sulla sinestesia musica-colore, rivolta ad

un gruppo di bambini in età scolare. Sono stati sviluppati esperi-

menti in cui, mentre alcuni giovani musicisti eseguivano brani

musicali, un gruppo di bambini disegnava.

Si è notata una forte relazione tra il carattere del brano musicale

e i colori e le immagini scelte; inoltre, gli allievi che suonavano

per i compagni che disegnavano, hanno migliorato la loro pre-

stazione artistica ed anche gli allievi con difficoltà scolastiche

hanno partecipato con molto interesse all’attività.

1. La sinestesia

Le nostre brevi esperienze vogliono stimolare la connessione musica - colore - pa-

role, per permettere ai bambini la comunicazione del percepire, del sentire e delle

emozioni in diversi linguaggi.

Per molte persone un'esperienza dei sensi può provocarne subito un'altra. Un

odore richiama un colore, il suono di una lettera dell'alfabeto un colore, una nota

musicale può essere associata a un colore. Questa fusione dei sensi si chiama “si-

nestesia”.

Figura1. Le zone del cervello attivate dalla musica.

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Franchini & von Arx – Musica e colore 36

Da alcuni studi risulta che i sensi del neonato non sono ancora ben differen-

ziati, ma mescolati in una fusione “sinestetica”. Questa “confusione” sembra di-

minuire, per la maggior parte di noi, nell’arco di tre mesi dopo la nascita con l'or-

ganizzazione del cervello in aree dedicate alle diverse funzioni..

2. Numeri, suoni e colori nella storia

Nella scienza antica troviamo elementi sinestetici tra musica e numeri, ad esem-

pio, già in Pitagora, Platone e Aristotele. Pitagora scoprì che i suoni della scala

musicale si trovano tra loro in rapporti numerici precisi: si potevano generare

suoni armoniosi e consonanti dividendo una corda tesa in base a numeri interi

consecutivi.ArAround

Platone sviluppò una cosmologia in cui i raggi dei pianeti conosciuti si trova-

vano tra loro in rapporti numerici precisi come gli intervalli nella scala musicale

dorica dei Greci. Egli immaginò una cosmologia costituita da otto cerchi concen-

trici, ognuno con il suo colore e tono; l'ottava nota era una ripetizione della prima

e tutte le sette note suonando insieme producevano la musica delle sfere.

Aristotele fu il primo a suggerire delle formule che associavano alla musica

il colore: ad esempio l’intervallo di quinta (es. do – sol) corrispondeva al rosso. I

colori, per Aristotele, sono una sorta di fuoco che proviene dai corpi; questo fuoco

è formato da particelle più grandi o più piccole di quelle che costituiscono

l’occhio dell’uomo o degli animali. Quando esse sono delle stesse dimensioni di

quelle oculari, i colori non sono visibili ed il corpo è trasparente, se sono più

grandi provocano la contrazione dell’occhio che percepisce il colore nero. Tutti

gli altri colori derivano dalla mescolanza, in vari rapporti, del bianco e del

nero; essi si possono considerare analoghi ai suoni musicali e si può supporre che

siano composti dal bianco e dal nero in proporzioni espresse da semplici rapporti

numerici, analogamente agli accordi musicali; gli altri colori intermedi presentano

rapporti numerici più complessi.

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37 Franchini & von Arx – Musica e colore

intervallo colore

Doppia ottava nero

dodicesima violetto

undicesima blu

ottava verde

quinta rosso

quarta giallo

base bianco

Figura 2. La corrispondenza intervallo musicale – colore per Aristotele.

Molto tempo dopo (XVII esimo secolo d.c.) un tentativo di individuare scienti-

ficamente un’identità comune tra vibrazioni luminose e vibrazioni sonore fu com-

piuto da Isaac Newton, il quale, constatata la somiglianza tra lo spettro luminoso e

la scala diatonica, lo divise in sette parti e stabilì corrispondenze teoriche tra colo-

re e altezza dei suoni, su una base fisica.

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Franchini & von Arx – Musica e colore 38

Figura 3. Spettro luminoso e scala diatonica.

3. Gli organi a colori

Dal XVII secolo si svilupparono ricerche volte a costruire strumenti che associas-

sero i colori alla musica.

Luis-Bertrand Castel scrisse “L’optique des couleurs” in cui studiava la “ fu-

sione” tra musica e colore, anche allo scopo di creare uno strumento che permet-

tesse la formazione di colori durante l’esecuzione di brani musicali. Tra il 1725 e

il 1735 egli presentò il Clavecin oculaire (clavicembalo oculare) che aveva la ca-

pacità di dipingere i suoni con i colori ad essi corrispondenti.

In una tastiera muta, ogni tasto era connesso ad un dischetto di vetro colorato;

il tasto, una volta premuto, azionava una tendina che, sollevandosi, permetteva al-

la luce di colpire il vetro corrispondente, facendone vedere il colore. In tal modo

“un sordo poteva gioire della bellezza di una musica tramite i colori ed un cieco

poteva giudicare dei colori tramite i suoni”.

L’organo a colori di Bishop (1877) permetteva di suonare creando una corri-

spondenza visiva con luci colorate, proiettate tramite la retroilluminazione di vetri

colorati.

La struttura dell’organo comprendeva un’enorme lastra di vetro smerigliato di-

sposta nella parte alta dello strumento, sulla quale i colori si manifestavano me-

diante un meccanismo formato da piccole finestre con differenti vetri colorati.

Ogni finestrella era chiusa da un otturatore che, attivato dal martelletto corrispon-

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39 Franchini & von Arx – Musica e colore

dente alla nota percossa sulla tastiera, si apriva e faceva colpire la lastra dal colore

correlato alla nota. Lo stesso Bishop ci spiega le corrispondenze cromatiche:

“Sono stato in dubbio nel decidere come creare gli intervalli di colore e quali co-

lori usare, ma infine decisi di impiegare il rosso per C (do) e dividere lo spettro a

colori del prisma in 11 semitoni, aggiungendo il cremisi per B (si) ed un rosso più

brillante per il do dell’ottava superiore.

L’intero effetto era di presentare all’occhio il movimento e l’armonia della musi-

ca ed anche i suoi sentimenti”[2].

Nel 1895 il pittore inglese Rimington ideò uno strumento costruito da una

cassa munita di aperture chiuse da vetri colorati; esse si potevano chiudere o apri-

re con un meccanismo azionato da una tastiera muta che proiettava i colori su uno

schermo bianco.

Figura 4. L’organo a colori di Rimington

4. Scrjabin e Kandinsky: un percorso verso un’arte “totale” e “unica”

Skrjabin e Kandinsky, nella loro ricerca sulle relazioni tra musica e colore, furono

spinti da un’ideologia molto più profonda: essi vagheggiavano una nuova forma

d’arte totale che facesse crollare i muri divisori, pervenisse ad un’arte unica, fatta

di elementi sonori, visivi e plastici (musica, poesia, teatro, danza), cioè alla fusio-

ne di tutte le arti. In contrasto con l’opinione di Gauguin, secondo cui la pittura è

la più espressiva delle arti in quanto «capace di un’unità negata alla musica»,

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Franchini & von Arx – Musica e colore 40

Scrjabin e Kandinsky affermano il primato della musica sulle altre arti, in coeren-

za con la corrente di pensiero per la quale solo la musica può raggiungere il terri-

torio dell’ “indicibile” e può stabilire un intimo rapporto con la vera essenza di

tutte le cose.

Kandinsky, esplorando la relazione tra colore e timbro, abbinò al suono di ogni

strumento musicale un colore ed utilizzò anche termini musicali come titoli per i

suoi quadri, come

Figura 5. Accordo reciproco

Per gli stessi motivi, Scrjabin suonava spesso su tasti opportunamente colorati,

lasciandosi trascinare, nell’invenzione musicale, da questo o quel colore e non

dalla nota in sé.

L’idea di Scrjabin era quella di costruire una tastiera per luce che permettesse di

associare ai tasti delle note tradizionali i colori, ai quali egli affidava il suo senso

visionario di sintesi cosmica di suono e luce. Gli elementi di pittoricità presenti

nella musica di Scrjabin sono finalizzati a produrre un particolare fenomeno sen-

soriale, denominato in inglese colourhearing (“ascoltare il colore”), mediante il

quale si instaura una corrispondenza tra creatore e fruitore dell’opera d’arte.

Il Prometeo

L’ideologia di Scrjabin, in cui la luce ed il colore si identificano con la musica

stessa, trova la sua celebrazione nell’opera “Prometeo”. In essa ogni modulazione

armonica corrisponde ad una modulazione cromatica ed all’orchestra viene af-

fiancato un gruppo “Luce”, che esegue le indicazioni di un pentagramma aggiun-

tivo, sul quale ad ogni nota corrisponde un colore.

Tuttavia, per il musicista russo, colori e suoni non costituiscono soltanto fe-

nomeni fisici o estetici, ma simboli che racchiudono significati reconditi.

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41 Franchini & von Arx – Musica e colore

Sol rosa-arancione Gioco creativo

Re giallo Gioia

La verde Problema, Caos

Mi bianco-azzurro Sogno

Si blu perlaceo Meditazione

Fa # blu Creatività

Re b viola Volontà

dello Spirito Creatore

La b viola-porpora Movimento

dello Spirito

Mi b grigio acciaio Umanità

Si b bagliore metallico Avidità

entusiasmo

Fa rosso scuro Differenziazione

di volontà

Impressionanti e costosissime realizzazioni sinestetiche del Prometeo, la cui

durata è di soli circa venti minuti, mettono in evidenza quanto sia cresciuto nel

corso degli ultimi decenni l'interesse per la multimedialità che, grazie ai grandi

progressi tecnologici, permette il contemporaneo sfruttamento di diversi elementi:

suoni, colori, luci, coreografie, poesia.

5. Disegnare ascoltando musica

Le nostre attività, per esplorare gli effetti cromatici della musica, sono state svi-

luppate con alunni di scuola media inferiore in collaborazione con l’insegnante di

musica.

Per indagare gli effetti delle diverse tonalità, si suonano accordi ad esse relati-

vi, invitando i ragazzi a disegnare; successivamente i ragazzi disegneranno, a-

scoltando brani di tempo, ritmo e carattere diverso. Inizialmente, il titolo del bra-

no è noto agli ascoltatori; in seguito, invece, vengono eseguiti

brani senza titolo.

Con un gruppo di 20 bambini di diverse età scolare abbiamo rilevato che : a)

se il titolo era noto venivano prodotti disegni con immagini ( figura 6); b)il carat-

tere lento era raffigurato con una campana o con un colore marrone o gial-

lo(figura 7); c) per il carattere allegro erano preferiti i colori chiari, azzurro e ro-

sa.(figura 8)

Interessanti i risultati relativi al rendimento degli allievi, perché si è notato che

i giovani musicisti, che suonavano per i compagni che disegnavano, hanno mi-

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gliorato la loro prestazione artistica e che anche gli allievi con difficoltà scolasti-

che hanno partecipato con molto interesse all’attività.

Tali esperimenti andrebbero ovviamente ripetuti con un numero di allievi più

alto, affinché si possano trarre conclusioni generalizzabili sui risultati.

Figura 6. Ascoltando brani di titolo noto.

Figura 7. Ascoltando brani lenti.

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43 Franchini & von Arx – Musica e colore

Figura 8. Ascoltando brani allegri.

Referenze

O.Sacks (2008). Cap. 14, Musicofilia. Milano: Adelphi

Bainbridge Bishop (1893). A Souvenir of the Color Organ, with Some Suggestion

in regard to the Soul

of the Rainbow and the Harmony of Light. New Russia, Essex Country N.Y.

http// Rythmiclight.com

.

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Uno sguardo dall'esterno. La competenza ma-

tematica secondo la scienza cognitiva

Pietro Perconti & Mario Graziano

Dipartimento di Scienze Cognitive, della Formazione e degli Studi

Culturali

Università di Messina

E-mail: [email protected]; [email protected]

Riassunto.Secondo alcuni autori, i problemi filosofici della matema-

tica e dei suoi fondamenti debbono essere affrontati “dall’interno”

poiché il ritardo nello sviluppo degli altri domini della filosofia o-

stacola seriamente qualsiasi tentativo di affrontare il problema della

filosofia della matematica “dall’esterno”, vale a dire considerando

importanti anche le relazioni che essa intrattiene con gli altri campi

del sapere. Tuttavia, questa posizione “ortodossa” sembra oggi sem-

pre meno sostenibile poiché, come evidenziato da molti studiosi, af-

frontare i problemi filosofici della matematica dall’interno non offre

criteri per stabilire quali problemi matematici abbiano una vera rile-

vanza filosofica. A partire da queste considerazioni, alcuni “cogniti-

visti” (ad esempio, Lakoff e Nunez, Dehaene, Devlin, ecc.) pensano

che sia arrivato finalmente il tempo di pensare una filosofia della

matematica nuova, diversa dagli approcci fondazionali; una filosofia

della matematica cognitivamente orientata, secondo la quale non è

sufficiente rendere conto delle definizioni dei concetti matematici e

dei loro assiomi, bensì bisogna chiedersi come questi vengono com-

presi e quindi dar conto delle idee e dei meccanismi cognitivi sog-

giacenti.Nostro obiettivo sarà quello di esaminare pregi e limiti di

questi approcci.

Abstract. According to manytheorists, the issues of the philosophy

of mathematics should be dealed with from an “inside perspective”,

because the delay in the development of other areas of philosophy

seriously hampered all efforts made in order to deal with these prob-

lems from ‘the outside’, which means considering as important fac-

tors also the relations that philosophy of mathematics has with other

domains of knowledge. However, this conventional approach today

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45 Perconti & Graziano - Uno sguardo dall'esterno …

seems fairly unsustainable. Indeed, many researchers claim that dis-

cussing the philosophical problems of mathematics from the inside

does not offer the necessary criteria to establish what kind of math-

ematical problems have genuine philosophical relevance.Starting

from these considerations, some “cognitivists” (e.g., Lakoff and

Nunez, Dehaene, Devlin, etc.) suggest that the time has finally come

to devise a new kind of philosophy of mathematics that differentiate

itself from the foundational approaches. A cognitively oriented phi-

losophy of mathematics that does not only seek to explain the defini-

tions of mathematical concepts and their axioms, but instead looks

into how these concepts are understood, thus aiming at explaining

the ideas and cognitive mechanisms hidden behind these con-

cepts.The aim of this article is to examine the pros and cons of these

approaches.

1. Introduzione

Secondo alcuni autori, i problemi filosofici della matematica debbono essere af-

frontati “dall’interno” poiché il ritardo nello sviluppo degli altri domini della filo-

sofia ostacola seriamente qualsiasi tentativo di affrontare il problema della filoso-

fia della matematica “dall’esterno”, vale a dire considerando importanti anche le

relazioni che essa intrattiene con gli altri campi del sapere1. Tuttavia, questa posi-

zione “ortodossa” sembra oggi sempre più insostenibile poiché, come evidenziato

da molti altri studiosi2, affrontare i problemi filosofici della matematica

dall’interno non offre sufficienti criteri per stabilire quali problemi matematici

abbiano una vera rilevanza filosofica. Pertanto, seguendo questa ulteriore prospet-

tiva, una filosofia della matematica è possibile solo come parte di una filosofia

generale, in cui debbono essere debitamente affrontate molte questioni “esterne”.

Persino un formalista convinto come il filosofo della matematica contemporaneo

Saunders Mac Lane scrive che “la matematica è iniziata da varie attività umane

che suggeriscono oggetti ed operazioni (addizione, moltiplicazione, confronto di

misure) e così conducono a concetti (numeri primi, trasformazioni) che quindi so-

no inseriti in sistemi assiomatici (aritmetica di Peano, geometria euclidea, il si-

stema dei numeri reali, teoria dei campi ecc.). Risulta che questi sistemi codifica-

no proprietà più profonde e non evidenti delle varie attività umane che ne sono

all’origine” (Mac Lane, 1981, pag. 462)e ancora: “….questo [primo] capitolo,

1 Beth, E. W. (1959). The Foundations of Mathematics. A Study in the Philosophy of Sci-

ence. North-Holland, Amsterdam, p. 614 2 Cfr. C. Cellucci, (2008). Perché ancora la filosofia. Laterza, Bari-Roma.

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Perconti & Graziano - Uno sguardo dall'esterno … 46

partendo dallo studio di numero, spazio, tempo e moto ha condotto alla descrizio-

ne di diverse nozioni formali. Queste nozioni formali nascono in larga misura da

interessi pre-matematici che possono benissimo essere descritti come “attività cul-

turali umane”. Per questa ragione, la nostra analisi della genesi della Matematica

metterà in evidenza un certo numero di tali attività. Spesso chiarisce molto il dire

che un’attività dà origine in un primo momento a qualche “idea” nebulosa che alla

lunga viene formalizzata, eventualmente formalizzata in più di un modo. Per e-

sempio il processo di contare suggerisce l’idea del “successivo” -- il prossimo og-

getto da contare o il prossimo numero da usare o la prossima cosa in una qualsiasi

lista ordinata. L’idea di “successivo” appare poi in altre forme: il primo ordinale

al di là di un dato insieme di ordinali, il prossimo passo in un programma per cal-

colatore”(Mac Lane 1986, pag. 34).

Sempre nella stessa ottica, Reuben Hersh (2001) critica invece alcuni “miti” della

matematica quali unità, universalità, certezza ed oggettività poiché convinto della

natura umana della matematica, della sua non infallibilità. Secondo Hersh, infatti,

gli oggetti matematici sono stati creati dagli esseri umani non arbitrariamente, ma

a partire dalle attività che si possono fare con essi nella vita quotidiana.

Pertanto, sembra provenire da più parti il monito che essere filosofi della matema-

tica “a tempo pieno” possa poter significare avere un’idea unilaterale ed impove-

rita della matematica. Come chiarisce, infatti, Carlo Cellucci: “È vero che, a parti-

re da Frege, la filosofia della matematica è stata sviluppata come una disciplina

autonoma, e che Frege è stato «il primo filosofo della matematica a tempo pieno».

Ma questo non significa che sviluppare la filosofia della matematica come una di-

sciplina autonoma sia una buona idea, né che essere un filosofo della matematica

a tempo pieno sia una buona cosa” (Cellucci, 2007, pag. 5-6).

Forse un modo per uscire dalle ristrettezze di sviluppare la matematica come una

disciplina autonoma potrebbe consistere nel ricorrere ai dati che provengono dalle

ricerche condotte in seno alle scienze cognitive. Recentemente, infatti, esse sem-

brano aver portato una luce nuova su alcune questioni che sono stati campi di ri-

cerca tradizionali della filosofia della matematica come, per esempio, la compren-

sione del concetto di numero o la concezione che ci formiamo degli oggetti

matematici.

Quello che in definitiva viene proposto dai molti scienziati cognitivi è una filoso-

fia della matematica cognitivamente orientata, secondo la quale non è sufficiente

rendere conto delle definizioni dei concetti matematici e dei loro assiomi, bensì

bisogna chiedersi come questi vengano effettivamente compresi e quindi dar con-

to delle idee e dei meccanismi cognitivi soggiacenti3. Naturalmente, individuare i

meccanismi cognitivi che permettono di capire la matematica non equivale a

3 Cfr. Lakoff & Nunez, 2005; Dehaene, 2010; Devlin, 2007.

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47 Perconti & Graziano - Uno sguardo dall'esterno …

spiegare cosa significano i costrutti della matematica. Tuttavia, nonostante questo

limitedichiarato, gli scienziati cognitivi sono convinti che il loro lavoro sia u-

gualmente importante, in quanto la bellezza e la profondità della matematica risul-

tano a volte essere inaccessibili (soprattutto ai non matematici) proprio a causa

dell’assenza di una descrizione della struttura cognitiva della matematica o a cau-

sa di una mancanza di descrizione dei meccanismi del cervello e della mente u-

mana che permettono di formulare idee matematiche o di ragionare matematica-

mente.

D’altronde, questa idea sembra anche essere filosoficamente giustificata. Infatti,

quale che sia la matematica che facciamo, essa dipende essenzialmente da quale

apparato percettivo, mente, ecc., disponiamo. Pertanto, se tutto ciò è vero, diviene

auspicabile che l’analisi venga approfondita proprio su quest’ultimo aspetto, cioè

verso proprio quei meccanismi cognitivi e possibilmente cerebrali sottostanti i co-

strutti matematici.

Tuttavia, gli scienziati cognitivi non sembrano essere particolarmente interessati

agli aspetti filosofici della questione. Infatti, è convinzione di molti neuroscienzia-

ti che soltanto la scienza cognitiva - o meglio lo studio interdisciplinare di men-

te/cervello sostenuto ed avallato da una moltitudine di ricerche neuroscientifiche e

di psicologia cognitiva - e non la filosofia, può dare una risposta alla domanda

sulla vera natura della matematica.

Ma questa convinzione porta con sé non pochi problemi. Il primo di questi è di

natura essenzialmente metodologica. È bene chiarire, infatti, che nella scienza co-

gnitiva confluiscono studiosi provenienti da diversi ambiti quali, ad esempio, la

filosofia, le neuroscienze, la psicologia, la linguistica, l'intelligenza artificiale e la

biologia evoluzionista, solo per citare gli ambiti disciplinari che hanno fornito i

contributi più significativi. Per quanto riguarda gli studi sulla cognizione numeri-

ca, il metodo principale consiste senza dubbio nell’esperimento controllato di la-

boratorio. Tuttavia, il metodo dell’esperimento controllato, pur avendo contribuito

notevolmente allo sviluppo delle scienze naturali incontra problemi enormi quan-

do deve trattare i fenomeni matematici. Questi ultimi, infatti, risultano essere am-

pi, sfaccettati e complessi rispetto a quei fenomeni che di fatto è possibile replica-

re, manipolare e controllare nei contesti sperimentali. Ma pur postulando che con

un po’ di ingegno si possano un giorno riprodurre in piccola scala e studiare in tal

modo in laboratorio fenomeni a prima vista inadatti a qualsiasi approccio speri-

mentale, come quelli chiamati in causa dalla competenza matematica, si impor-

rebbero ugualmente delle enormi semplificazioni, sia per garantire il controllo

delle variabili in gioco, sia per assicurare le condizioni di fattibilità della ricerca.

Per esempio, bisognerebbe ridurre il più possibile i tempi, le conoscenze di sfon-

do e l’impegno richiesto ai soggetti coinvolti in un esperimento per assicurare la

comprensione delle prove che vengono loro proposte. Impiegare, pertanto, il me-

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Perconti & Graziano - Uno sguardo dall'esterno … 48

todo sperimentale nello studio dei processi di pensiero matematico è impresa che

non è esente da difficoltà e da limiti di interpretazione dei dati. Dal punto di vista

metodologico, l’evidenza sperimentale deve indicare in maniera non ambigua

“quella” particolare ipotesi, il che vuol dire che la probabilità di osservare quel ti-

po di evidenza qualora l’ipotesi fosse falsa deve essere molto bassa. Pertanto, è

plausibile che il metodo sperimentale sia più efficace quando mette alla prova ipo-

tesi “locali” o di “basso livello”. La costruzione di modelli più generali sembra

possibile soltanto nel corso di un lungo programma di ricerca e solo dopo una

gran mole di esperimenti.

Oltre ai problemi che derivano dal metodo dell’esperimento controllato, che come

abbiamo visto non sempre è così rigido e metodologicamente rivendicabile, vi è

un altro fattore di preoccupazione quando si è tentati di cedere al fascino di inglo-

bare i dati sperimentali nelle ricerche matematiche. Il fatto è che, così facendo, si

rischia di perdere la dimensione normativa che è così importante in matematica,

soccombendo ad una epistemologia descrittiva che riduce la matematica a un “ca-

pitolo della psicologia e quindi della scienza naturale”. Quest’ultimo punto di vi-

sta viene riassunto benissimo dal filosofo Marco Panza che a proposito dell’uso

che Penelope Maddy fa degli esperimenti del neuroscienziato cognitivo Stanislas

Dehaene scrive: “Maddy si richiama dunque ai risultati di certi esperimenti relati-

vi alla cognizione numerica. Se l’esito di questi esperimenti è unanimemente atte-

stato, la sua interpretazione è molto più controversa. Spesso si ritiene di aver mo-

strato qualcosa a proposito del modo in cui si formano le nostre credenze sui

numeri per il solo fatto di aver osservato comportamenti che possono venir de-

scritti usando concetti aritmetici. Ma una cosa è il modo in cui certi fenomeni si

possono descrivere qualora si possa e si voglia impiegare un certo sistema di con-

cetti; un’altra sono le cause effettive, in questo caso neuronali e fisiologiche, di

quei fenomeni” (Panza e Sereni 2010, p.170).

Ciò che ci accingiamo a proporre nelle prossime pagine è un tentativo di risposta

a questi problemi, indicando timidamente una sorta di “terza via” che si pone co-

me alternativa sia al ritorno ad una filosofia della matematica autonoma sia ad

un’acritica adesione all’idea che i dati che provengono dalle scienze cognitive

possano da sole spiegare tutto quanto di interessante vi è da sapere sulla matema-

tica e sulle sue costruzioni. Una terza via in cui la filosofia si assume il compito

gravoso di contribuire a descrivere e spiegare ciò che vi è di specifico o di uguale

tra i differenti tipi di spiegazione matematica avanzati. Nello specifico, in questo

saggio, ci concentreremo su una delle scoperte più rimarchevole fatte in seno alle

scienze cognitive, vale a dire l’esistenza di una matematica innata che è presente

negli organismi fin dalla nascita.

2. Il sistema approssimativo e quello esatto

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A partire dalle più recenti scoperte neuroscientifiche, gli scienziati cognitivi con-

siderano la conoscenza matematica un esempio paradigmatico di conoscenza in-

nata (Spelke & Kinzler, 2007). È soprattutto il caso, tra i molti altri, di Stanislas

Dehaene che insieme ai suoi collaboratori ha sviluppato una teoria secondo la

quale si postula la presenza di due diversi sistemi di rappresentazione numerica: il

sistema approssimativo-analogico che permette un conteggio approssimativo, non

esatto, delle quantità numeriche e il sistema esatto-simbolico. Il primo sistema è

indipendente dalla cultura e dal linguaggio ed è reso possibile da unabase neurofi-

siologica apposita preposta alla percezione e alla rappresentazione delle quantità

numeriche, le cui caratteristiche la collegano alle facoltà proto-aritmetiche presen-

ti nei neonati e negli animali. Il secondo sistema, al contrario, dipende dalla cultu-

ra e dall’apprendimento di simboli e regole, quindi è strettamente legato al lin-

guaggio ed è perciò tipico degli esseri umani adulti (Dehaene, 1997).

Dehaene ipotizza che gli esseri umani vengano al mondo provvisti di un “senso

dei numeri”, vale a dire di una forma elementare di intuizione numerica, presente

già nei bambini al momento della nascita e che condividiamo con varie specie a-

nimali. Questa particolare facoltà è espressione del funzionamento di un “organo

mentale”, l’accumulatore, vale a dire una sorta di contatore approssimativo che ci

permette di percepire, memorizzare e confrontare le grandezze numeriche (Deha-

ene, 1997). Per capire meglio come funziona l’accumulatore è utile riprendere la

metafora del serbatoio d’acqua utilizzata dallo stesso autore. Secondo il neuro-

scienziato francese dovremmo immaginare ciascuna entità che deve essere conta-

ta, come una quantità d’acqua che viene aggiunta in un serbatoio; segnando il li-

vello dell’acqua del serbatoio sarà possibile confrontare raccolte di diverse

dimensioni. Allo stesso modo sarà possibile effettuare anche le operazioni di ad-

dizione e sottrazione semplicemente aggiungendo o levando una quantità d’acqua.

L’accumulatore opererebbe, pertanto, registrando eventi: una “goccia d’acqua”

per ogni evento. In questo modo numeri diversi verrebbero rappresentati da livelli

diversi; tuttavia, poiché tale sistema non riesce a rappresentare il livello esatto di

impulsi, il funzionamento di questo meccanismo sarà caratterizzato da due diversi

effetti: l’effetto distanza e l’effetto grandezza. Infatti, più la differenza tra i due

insiemi da confrontare sarà minima, maggiore sarà il livello di difficoltà nel di-

stinguerle (effetto distanza). Allo stesso modo sarà più difficile distinguere questi

insiemi quanto più saranno maggiori le dimensioni (effetto grandezza).

L’accumulatore non riesce quindi ad essere preciso poiché esso non riuscirebbe a

rappresentare il livello esatto di impulsi. Questa capacità non simbolica, indipen-

dente dal linguaggio, inerentemente approssimativa delle quantità è presente, co-

me viene mostrato da un largo insieme di dati sperimentali, anche negli altri ani-

mali (piccioni, topi, corvi, primati non umani), nonché nei bambini fin dalla

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Perconti & Graziano - Uno sguardo dall'esterno … 50

nascita4. Il “senso dei numeri”, eredità importante della nostra storia evolutiva, è

da Dehaene considerato il germe che favorisce l’emergere delle successive abilità

matematiche.

Ma qual è il rapporto tra l’accumulatore e l’evoluzione delle conoscenze matema-

tiche? In altre parole, quali risorse cognitive ci consentono di oltrepassare

l’approssimazione codificata geneticamente nel nostro cervello ed apprendere il

rigore delle conoscenze aritmetiche esatte? Per rispondere a queste domande, De-

haene riporta una serie di esperimenti con l’intento di mostrare come la nostra ca-

pacità di calcolo utilizzi risorse differenti per la rappresentazione dei primi tre

numeri interi positivi, ossia“uno”, “due” e “tre”. Secondo l’autore, gli esseri uma-

ni non contano i numeri fino a tre, bensì essi ne percepiscono immediatamente la

presenza in quanto sono quantità che il nostro cervello percepisce senza sforzo e

senza far di conto. Il termine tecnico per indicare questo processo è subitizing,

termine che deriva dal latino subitus e sta ad indicare un processo rapido e accura-

to di riconoscimento della numerosità di insiemi costituiti da un massimo di 6 e-

lementi.

Il subitizing è ancora oggi un processo molto discusso e controverso. Alcuni stu-

diosi, ritengono che esso sia dovuto alla percezione immediata di configurazioni

spaziali, secondo cui la quantità “2” non può che essere rappresentata tramite un

punto, due punti formerebbero necessariamente una linea, mentre il tre sarebbe

identificato immediatamente in una configurazione di tipo triangolare. Il 4, infi-

ne,verrebbe “subitizzato” esclusivamente quando può essere visualizzato in una

configurazione canonica come un quadrato o un triangolo con un punto al centro.

Al di là del 4 la variabilità delle configurazioni aumenta, rendendo in questo mo-

do impossibile il riconoscimento immediato (Mandler & Shebo, 1982). Al contra-

rio, per altri autori come, ad esempio, Gallistel e Gelman (1992), la subitizzazione

non è altro che una enumerazione molto rapida che utilizza delle etichette non

verbali, vale a dire un conteggio pre-verbale e innato. La controversia su come

funzioni realmente il subitizing è nata dagli esperimenti intesi a testare la capacità

dei bambini di riconoscere (osservando la scena per maggior tempo) eventi fisi-

camente impossibili, condotti dalla ricercatrice americana Karen Wynn (1992). In

questi esperimenti, bambini di 5 mesi d’età osservavano un teatrino per i pupazzi

4 Sotto l’influenza di Piaget e della corrente “ costruttivista” (Piaget, 1952), si è per molto

tempo pensato che il bambino nascesse vergine di tutte le conoscenze sul mondo. Negli

ultimi 25anni, il modello piagettiano è stato rimesso in discussione per l’evidenza di al-

cune capacità numeriche negli animali e nei bambini: numerosi lavori hanno, infatti,

mostrato che non solo gli animali ed i bambini sono capaci di rappresentarsi il numero in

maniera approssimativa, ma che questa capacità chiama in causa strutture cerebrali simi-

li tra le varie specie.

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con uno schermo che poteva alzarsi e abbassarsi. Inizialmente, il teatrino era vuo-

to e la ricercatrice vi posizionava un pupazzo, dopodiché veniva fatto salire lo

schermo in maniera tale da nascondere la scena e introdotto un secondo pupazzo.

A questo punto, lo schermo veniva riabbassato e si mostravano ai bambini i due

pupazzi. La sequenza veniva ripetuta parecchie volte ma in alcuni casi i pupazzi

mostrati ai bambini rappresentavano dei risultati impossibili (ad esempio, 1 + 1 =

3 oppure 1 + 1= 1). In questi casi, i bambini osservavano la scena più a lungo ri-

spetto a quando comparivano i due pupazzi abituali. Wynn ottenne gli stessi risul-

tati anche quando modificò la procedura sperimentale per testare la capacità dei

bambini di comprendere la sottrazione. Pertanto, in questo esperimento era il nu-

mero esatto d’oggetti a guidare il comportamento dei bambini e non una distin-

zione approssimativa (per esempio, un solo pupazzo vs. molti pupazzi), in en-

trambi le condizioni testate, Wynn notava, alla fine della prova, un interesse

maggiore dei bambini quando il risultato rivelato presentava una incongruenza

numerica.

Figura 1. Il setting sperimentale di Karen Wynn

È bene evidenziare che questo esperimento, che aveva come obiettivo quello di

mostrare che i bambini sapevano calcolare i risultati di semplici operazioni arit-

metiche, ha dato vita ad almeno tre possibili teorie che avanzano tre diverse spie-

gazioni dei comportamenti osservati. La prima teoria, proposta dalla stessa Wynn,

avanza la tesi di una rappresentazione astratta della numerosità, secondo cui i

bambini rappresentano ciascuna quantità realizzando su queste delle operazioni

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mentali. Una seconda spiegazione è stata proposta da Alan Leslie e i suoi colleghi

(Leslie et al., 1998) e da Tony Simon (1999) e si ispira alla teoria degli “indicatori

attenzionali” (object files). Secondo questa teoria si individua un oggetto grazie

appunto ad un “indicatore” che ci permette di seguire degli oggetti nei loro spo-

stamenti in maniera tale che possiamo legare le diverse percezioni, ripartite nel

tempo e nello spazio, dello stesso oggetto. Pertanto, i bambini possiedono una

sorta di fisica innata che ha come compito di assicurare la sensazione della per-

manenza degli oggetti (anche quando questi vengano temporaneamente nascosti).

I bambini, infatti, seguono gli oggetti che vengono loro presentati e adattano la lo-

ro attenzione quando dei nuovi oggetti vengono aggiunti o ritirati. Inoltre, sempre

secondo la teoria degli indicatori, i bambini mostrano d’essere capaci d’inferire

alcune informazioni numeriche a partire dalle proprietà fisiche delle traiettorie

degli oggetti: così, quando vengono loro mostrati due oggetti, uno di seguito

all’altro, i bambini non hanno lo stesso tipo di attenzione se i due oggetti vengono

nascosti dietro lo stesso schermo o se vengono celati dietro due schermi differenti.

Nel secondo caso, infatti, i bambini sanno che dietro gli schermi ci sono 2 oggetti,

mentre nel primo caso si attendono un solo oggetto (Splelke et al., 1995). Il nu-

mero degli indicatori simultaneamente disponibili è però limitato a 4 e questo

permette di spiegare perché è impossibile seguire simultaneamente più di 4 ogget-

ti di uno stesso gruppo in movimento. Ecco perché se dopo aver aggiunto 3 o 4

oggetti se ne aggiungesse ancora un altro, il bambino perderebbe l’accesso alla

numerosità poiché, appunto, non restano disponibili altri indicatori (Feigenson et

al. 2002).

A partire dagli indicatori è possibile, quindi, inferire la numerosità degli insiemi

d’oggetti (ad esempio, due insiemi d’oggetti si possono confrontare operando una

corrispondenza termine a termine a livello di indicatori) e fare alcune operazioni,

ma non ci permette di rappresentare la numerosità. Pertanto, secondo Simon

(1999), i bambini dell’esperimento di Wynn, hanno utilizzato inizialmente il si-

stema degli indicatori per seguire gli oggetti presenti sulla scena, attivando un

nuovo indicatore supplementare quando è stato aggiunto un altro oggetto agli og-

getti iniziali. In questo modo i bambini si mostravano sensibili alla numerosità,

senza che questa fosse direttamente rappresentata. È utile, comunque, sottolineare

che questo limite non si presenta negli esperimenti condotti con oggetti separabili.

Citiamo a questo proposito lo studio di Wynn e di alcuni colleghi (Wynn et al.,

2002) in cui a dei bambini vengono mostrati su uno schermo alcuni filmati raffi-

guranti diversi insiemi di punti. Durante la fase iniziale dell’esperimento si muo-

vono indipendentemente sullo schermo 2 (o 4) insiemi di 3 punti; in seguito i

bambini vengono testati con due tipi di stimolo: 2 gruppi di 4 punti o 4 gruppi di 2

punti. In entrambi i casi gli stimoli possiedono lo stesso numero di punti e, pertan-

to, nessun parametro permette la distinzione eccetto quello del numero dei gruppi

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presentati. Ebbene, i bambini arrivano a distinguere i due diversi tipi di stimolo,

mostrando che non hanno problemi a trattare la numerosità quando i passaggi da

calcolare non sono direttamente associati a particolari oggetti.

Infine, la terza teoria è quella di Cohen e Marks (2002) i quali hanno interpretato i

dati di Wynn come il risultato di un processo di “basso profilo”, vale a dire come

una prova della preferenza mostrata dai bambini per gli stimoli che vengono pre-

sentati per ultimi. Secondo questi autori, infatti, i bambini guardavano per più

tempo il risultato “1” nella condizione “1+1=2 vs. 1”, non perché erano sorpresi

ma semplicemente perché avevano visto una figura all’inizio della prova e veni-

vano pertanto attratti quando essa si trovava sulla scena. La dimostrazione più e-

loquente di una continuità di rappresentazione tra piccole e grandi numerosità è

comunque da attribuire allo stesso Dehaene che insieme ai suoi colleghi (Piazza et

al., 2004), utilizzando la registrazione dei potenziali evento correlati, hanno testa-

to dei bambini di età variabile dai 94 ai 124 giorni sia su delle numerosità grandi

(4, 8 e 12), sia delle numerosità piccole (2 e 3). In particolare, nella prima fase

dell’esperimento veniva mostrata ai bambini un’immagine iniziale contenente da

2 a 5 stimoli per un tempo di circa 1500 ms e successivamente, dopo questa prima

fase di abituazione, veniva presentata una seconda immagine contenente una nu-

merosità nuova. I dati ottenuti attraverso l’esame dell’attività cerebrale dei bam-

bini hanno mostrato lo stesso effetto per tutti la serie di test realizzati impiegando

stimoli uditivi, visivi, presentati sequenzialmente o simultaneamente, di piccole o

grandi numerosità, evidenziando in tal modo delle rappresentazioni numeriche di

un alto livello di astrazione, comune ai differenti formati degli stimoli, senza di-

stinzione tra piccoli e grandi numerosità. Pertanto, contrariamente ad un insieme

di risultati comportamentali (Feigenson et al., 2004), i dati ottenuti da Dehaene

suggeriscono che i bambini hanno accesso a rappresentazioni numeriche sia per le

piccole che per le grandi numerosità.

A partire da queste considerazioni, Stanislas Dehaene avanza l’idea che questi due

sistemi cognitivi di base (core systems), in cui il primo (accumulatore) ci permette

di rappresentare in maniera approssimativa le numerosità con un numero arbitra-

rio di oggetti ed il secondo (subitizing) ci permette di rappresentare un numero

molto ristretto di oggetti in maniera molto precisa, permettono da un punto di vi-

sta filogenetico e ontogenetico, l’esistenza dell’aritmetica formale. In altre parole,

secondo l’autore, questi due sistemi “spiegano le nostre intuizioni numeriche di

base che servono da fondamento per i concetti numerici più sofisticati unici

all’uomo” in quanto “la numerosità ci è tanto imposta come le altre dimensioni

fondamentali del mondo costruiti dal nostro sistema nervoso: come la nostra per-

cezione dei colori, del suono, o dello spazio, il senso dei numeri può essere consi-

derato come una categoria di conoscenza biologicamente determinata” (Dehaene

2001, p.3). I sistemi di base, pertanto, secondo Dehaene debbono essere due, tanto

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è vero che nella postfazione alla seconda edizione del suo libro più famoso, tra-

dotto in italiano con il titolo “Il pallino della matematica”, egli scrive: “Attual-

mente si conviene che noi disponiamo non di uno ma di due sistemi per rappre-

sentare un numero di oggetti senza contarli. Il sistema dei piccoli numeri, talvolta

detto di tracciamento degli oggetti, rappresenta solo insiemi di 1, 2, 3 elementi. Ci

consente di tracciarne le traiettorie con precisione e ci dà, quindi, un modello

mentale esatto di ciò che avviene quando un oggetto si muove entrando o uscendo

da un insieme. Il sistema di approssimazione, d’altra parte, può rappresentare

qualsiasi numero, grande o piccolo, e ci permette di confrontarli o di combinarli

con operazioni approssimate” (Dehaene, 2010, p. 297).

Tuttavia, riguardo la subitizzazione, come specifica sempre nella stessa postfazio-

ne l’autore, un errore è stato commesso, in quanto “un interessante indizio, tutta-

via, è che, contrariamente a quanto pensavamo un tempo, non è indipendente dal-

la nostra attenzione”. Pertanto, secondo l’autore, è illusorio pensare che la

subitizzazione è davvero automatica come si pensava bensì “lungi dall’essere pre-

attenzionale e non richiedere sforzo, la subitizzazione ha bisogno dell’attenzione.

Possiamo selezionare un piccolo numero di elementi e anche seguirli nel tempo,

ma questo grava sulla nostra attenzione” (Dehane, 2010, p. 298). E ancora: “Allo-

ra, come funziona la subitizzazione? La ricerca attuale indica che abbiamo tre o

quattro alloggiamenti di memoria in cui possiamo temporaneamente posizionare

un puntatore verso una qualsiasi rappresentazione mentale. Questa sorta di archi-

vio è detto memoria di lavoro, un supporto transitorio che per un breve momento

mantiene on line un oggetto nel pensiero”(Dehaene, 2010, p. 299). In altre parole,

secondo Dehaene, fin quando siamo dinanzi massimo a tre oggetti, la memoria di

lavoro possiede degli “alloggiamenti” che ne permettono la stima esatta. Quando

si superano tuttavia 3 o 4 oggetti, ecco che interviene il secondo sistema che di-

versamente dal sistema dei “file-oggetto” non è più preciso, in quanto tratta questi

oggetti come “rumori” per cui “sette o otto si sovrappongono, mentre due e otto lo

fanno molto meno” (Dehaene, 2010, p. 299).

Come abbiamo detto, il dibattito su come funzioni realmente il processo di subi-

tizzazione è ancora in corso;tuttavia, ciò che al contrario sembra non essere più in

dubbio è l’esistenza di una capacità dei bambini ancor prima della comparsa di un

sistema di conteggio verbale che si manifesta con la rappresentazione di un valore

cardinale dell’insieme, della loro innata capacità di una rappresentazione della

trasformazione di un insieme (addizione e sottrazione) e la comprensione delle re-

lazioni tra due numerosità. Infatti, l’insieme di questi dati sperimentali ha eviden-

ziato che i bambini (così come alcuni animali), molto precocemente, sono dotati

di capacità numeriche preverbali che permettono loro di apprendere alcuni eventi

del loro ambiente. Tuttavia, anche se in alcuni passi, Dehaene sembra affermare

che il circuito della quantità approssimativa è il circuito matematico di base, vale

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a dire quello su cui si fondano tutte le nostre rappresentazioni matematiche “in

quanto forniscono all’uomo un mezzo di partenza che permette l’acquisizione dei

simboli numerici” (Piazza et al., 2004, p. 6), in ogni caso, quando si tratta di nu-

meri “esatti” anche Dehaene ipotizza sul ruolo fondamentale del linguaggio e del-

la cultura. Più esplicitamente, Dehaene ed i suoi collaboratori suppongono che

“Tutti i bambini nascono con una rappresentazione della numerosità che dà loro il

significato di base della quantità numerica. L’esposizione al linguaggio, alla cul-

tura ed all’istruzione matematica, li conduce all’acquisizione di domini di compe-

tenza addizionali come, ad esempio, un dizionario di parole per i numeri, un in-

sieme di cifre per la notazione scritta, procedure di calcoli, e così via” (Dehaene,

2001, p. 12).

3. Esperimenti e visioni filosofiche

Alcuni scienziati cognitivi, basando le loro conclusioni su quello che considerano

un corpus di dati incontrovertibili frutto dei risultati di numerosi esperimenti, fini-

scono volutamente con il dimenticare l’impatto che queste scoperte hanno o do-

vrebbero avere sulla nostra visione di cos’è la matematica e, in definitiva, sulla fi-

losofia della matematica. Tuttavia, quest’ultima considerazione non sembra

riguardare Stanislas Dehaene che in virtù della dinamica interna del suo approccio

e contrariamente a molti suoi colleghi, assume una posizione filosofica chiara ed

esplicita, tanto da asserire che “fra tutte le teorie sulla natura della matematica, mi

pare che l’intuizionismo sia quello che meglio spiega i rapporti tra l’aritmetica e

l’organizzazione del cervello umano. Le ricerche di questi ultimi anni sulla psico-

logia dell’aritmetica hanno portato, a sostegno dell’ipotesi intuizionista, nuovi ar-

gomenti che, evidentemente, né Kant né Poincaré potevano conoscere” (Dehaene

2010, p. 263).

A partire, infatti, dalle ricerche che attestano il fatto che i bambini vengono al

mondo con meccanismi innati di individuazione degli oggetti e di estrazione della

numerosità da piccoli insieme, che questo innato “senso dei numeri” si può trova-

re anche in altri animali e che, quindi, risulta essere indipendente dalla capacità di

linguaggio, il neuroscienziato francese non esita a definire le sue ricerche un

“programma di ricerca kantiano” in quanto mira a comprendere come nascono le

intuizioni che rendono possibili tutte le esperienze, quali sono i loro correlati neu-

ronali e come queste possono essere successivamente modificabili in virtù

dell’istruzione e dell’apprendimento (Dehaene& Brannon, 2011). Egli, infatti,

specifica che “from grid cells to number neurons, the richness and variety of the

mechanisms used by animals and humans, including infants, to represent the di-

mensions of space, time and number is bewildering and suggests evolutionary

processes and neural mechanisms which may universally give rise to Kantian in-

tuitions”(Dehaene & Brannon, 2011, p. iX).

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L’autore riporta, infatti, tutta una serie di dati sperimentali atti a dimostrare che

numeri, spazio e tempo interagiscono nel cervello, ipotizzando, quindi, a più ri-

prese che l’essere umano viene al mondo con svariate intuizioni sul numero, gli

insiemi, le quantità continue, l’iterazione, la geometria dello spazio. Una delle

scoperte più rimarchevoli a questo proposito riguarda come il pensare un numero

influisca sul modo in cui prestiamo attenzione allo spazio. Questo stretto colle-

gamento viene, infatti, mostrato sperimentalmente attraverso il cosiddetto effetto

SNARC (Spatial-Numerical Association of Response Codes), secondo il quale i

piccoli numeri sono inconsciamente associati al lato sinistro del corpo ed i numeri

grandi al lato destro (Dehaene et al., 1993). Un compito classico per testare se

siamo in presenza di un effetto SNARC consiste nel classificare un numero come

pari o dispari premendo un pulsante o con la mano destra o con la sinistra. In que-

sto test vengono presentati (uno alla volta) dei numeri da 1 a 9 su uno schermo. Si

osserva che i soggetti rispondono più velocemente per le cifre da 1 a 4 quando

devono premere il bottone con la mano sinistra; viceversa per i numeri da 6 a 9

sono più rapidi quando il bottone si deve premere con la mano destra. Tutto que-

sto accade come se le cifre fossero state categorizzate dai soggetti in piccoli e

grandi benché il compito sperimentale non facesse appello a questa nozione di

quantità. Inoltre, si è ugualmente mostrato che l’orientamento dei numeri è sensi-

bile all’influenza culturale: i soggetti iraniani, ad esempio, abituati a scrivere da

destra a sinistra, presenteranno un effetto SNARC inverso in rapporto agli occi-

dentali.

Un aspetto interessante di queste ricerche è consistito nel capire se le associazioni

spaziali siano una caratteristica esclusiva dei numeri oppure se tali associazioni si

possono formulare anche con stimoli non numerici ordinati in maniera sequenzia-

le come, ad esempio, le lettere dell’alfabeto, i giorni della settimana, le note musi-

cali, ecc. In uno studio di Wim Gevers è stato mostrato che anche le lettere

dell’alfabeto e i mesi dell’anno possono esibire un classico effetto SNARC (Ge-

vers et al., 2003), mentre le note musicali possono esibire l’effetto SMARC (Spa-

tial Musical Association of Response Codes, Rusconi et al., 2006). Come viene

chiarito sempre nella postfazione della seconda edizione del Il pallino della ma-

tematica “i collegamenti tra tempo, spazio e numeri sono oggi corroborati da in-

numerevoli esperimenti. Se vedete un numero grande e dovete poi muovere una

mano, questa tenderà a spostarsi verso destra. Se dovete afferrare un oggetto, le

dita si allargheranno un pò più del necessario. Se dovete valutare una durata tem-

porale, un numero grande sembrerà permanere sullo schermo più a lungo di un

numero piccolo” (Dehaene, 2010, pp. 281-282).

Come chiaramente esplicitato dallo stesso Dehaene, pertanto, l’obiettivo principa-

le delle sue ricerche sarà quello di riformulare alla luce dell’attuale dibattito in se-

no alle scienze cognitive tutta una serie di domande che sono tradizionalmente na-

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te in ambito filosofico matematico a partire dalla filosofia kantiana. Con le sue pa-

role: “Are neural codes for space, time and number available early enough in de-

velopment to play a determining role in structuring subsequent experience, as pos-

tulated by Kant? Or are they, on the contrary, extracted from exposure to a richly

structured physical world through learning mechanisms? (Dehaene& Brannon,

2011, p. X).

Sembra, pertanto, che Dehaene concepisca la conoscenza a priori kantianamente

intesa a guisa della conoscenza innata in quanto conoscenza che è presente negli

organismi fin dalla nascita5; in questo contesto, quindi, il termine “innato” fa rife-

rimento ad un “potenziale” pronto a svilupparsi purché l’ambiente sia favorevole,

avendo il compito di evidenziare l’influenza reciproca fra la biologia dell'indivi-

duo e i fattori ambientali. In questo senso, il termine “innato” viene frainteso con

“immutabile” ed è per questo che anche lo stesso Dehaene lo utilizza come sino-

nimo di “apriori”. Le differenze con Kant sono tuttavia significative. A differenza

della conoscenza a priori secondo Kant, la conoscenza innata nel senso di Dehae-

ne non è indipendentemente da ogni esperienza. Al contrario, si guadagna formu-

lando ipotesi le cui premesse possono derivare dall’esperienza e le cui premesse e

conclusioni possono trarre la loro plausibilità dal confronto con l’esperienza. Inol-

tre, si tratta di conoscenze che non sono immutabili, in quanto in futuro (magari a

causa di lentissimi cambiamenti regolati dalle leggi dell’evoluzione) potrebbero

darsi delle eccezioni. Esse non sono nemmeno intrinsecamente necessarie; al con-

trario, sono contingenti dal momento che potrebbero risultare (in)compatibili con

dati che potrebbero essere disponibili solo in futuro. Infine, non sono nemmeno

certe in quanto non vi è garanzia che in futuro non se ne possono trovare controe-

sempi. Difatti, come è in qualche modo costretto a dire lo stesso Dehaene: “This

research is stimulating innovative research focusing on the search for representa-

tions of space, time and number inherited from evolution. We must, however,

acknowledge that the word “innate”, meaning “independent of experience”, is an

idealization which will ultimately have to be replaced by detailed research into the

underlying genetic and developmental mechanisms.”(Dehaene& Brannon, 2011,

p. X).

Ma questo, naturalmente, non è il senso kantiano dell'a priori. Quando si afferma

che una conoscenza a priori, nel senso kantiano del termine, è indipendente dall'e-

sperienza, si sta facendo una osservazione di tipo logico, non una osservazione

descrittiva. Non si sta, cioè, dicendo che si dà il caso che quella conoscenza sia ri-

5 Che la conoscenza a priori sia uguale alla conoscenza innata è del resto una posizione

assai ricorrente anche nella filosofia della scienza. Popper, ad esempio, affermava che

“la conoscenza a priori, quel genere di conoscenza che un organismo ha prima

dell’esperienza dei sensi, è conoscenza innata” (Popper, 1990, p.46).

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Perconti & Graziano - Uno sguardo dall'esterno … 58

levabile in modo indipendente da come di fatto va l'esperienza concreta. Non si

tratta di una osservazione su come va il mondo. Si vorrebbe suggerire, al contra-

rio, che quella conoscenza precede logicamente la stessa possibilità che ogni espe-

rienza data possa avere la forma che effettivamente ha. “A priori” in Kant è dopo

tutto sinonimo di “trascendentale” ed ha a che fare con le condizioni di possibilità

dell'esperienza e non con una sua descrizione più o meno perspicua. Il modo di

concepire la matematica come conoscenza innata da parte di Dehaene si allontana

così sia dalla concezione di Kant sia da quel carattere di assoluta infallibilità della

matematica in quanto conoscenza a priori assolutamente certa. Infatti, le cono-

scenze a priori nel senso kantiano del termine 1) si costituiscono indipendente-

mente da ogni esperienza; 2) sono universali, non tollerando eccezioni di alcun

genere; 3) sono conoscenze intrinsecamente necessari ed infine 4) sono certe per

se stesse. Nell’ottica kantiana, l’intuizione è essere l’unica fonte per la matemati-

ca di conoscenza certa. Le intuizioni, infatti, sono conoscenze che non hanno an-

cora subito il confronto dalla mediazione concettuale. Non sono ancora diventate

giudizi. Nell'intuizione la nostra mente è obbligata a fare quello che fa, mentre è

solo con le categorie e i concetti che la mente umana è anche spontanea e creativa.

Ecco perché le intuizioni sensibili kantianamente sono l'unica base in grado di

farci conoscere infallibilmente le verità matematiche.

L’a priori kantianoèsia “indipendente dall’esperienza” sia una “condizione neces-

saria per la matematica e per qualunque altra scienza”. Al contrario, il modo di

concepire la matematica come conoscenza innata da parte di Dehaene si allontana

da quel carattere di assoluta infallibilità della matematica in quanto conoscenza a

priori e assolutamente certa. Dehaene è convinto che gli esseri umani vengano al

mondo provvisti di un “senso del numero”, vale a dire di una forma elementare di

intuizione numerica, presente già nei bambini al momento della nascita e che

condividiamo con varie altre specie animali. Questa particolare facoltà, espressio-

ne del funzionamento dell’ accumulatore, permette soltanto la stima approssima-

tiva nelle rappresentazioni implicate nei compiti di confronto, addizione e sottra-

zione. In questo senso, il termine “matematica” in Dehaene ha di sicuro una

connotazione più ristretta, non infallibile e più vicina alla concezione del senso

comune.

Conclusioni

Da quanto discusso finora dovrebbe risultare chiaro che le posizioni di Dehaene,

da lui stesse considerate come facenti parte di un “programma di ricerca kantia-

no”, sono in realtà piuttosto lontane dalle idee filosofiche di Kant. Infatti, le ipote-

si di Dehaene si limitano a mettere in luce l’esistenza di una sorta di matematica

naturale, innata, biologicamente fondata che riguarda il concetto di numerosità,

termine con il quale si intende il senso del numero e in particolare il senso della

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grandezza di un insieme (che come abbiamo visto sottostà alle leggi di distanza e

grandezza). Secondo Dehaene disponiamo di certe capacità innate che ci consen-

tono di riconoscere istantaneamente piccoli numeri di oggetti e di addizionarli o

sottrarli. Tuttavia, Dehaene, pur essendo convincente sul terreno della neuroscien-

za cognitiva e dell'individuazione delle architetture cognitive che ci permettono di

avere le capacità matematiche innate prima evidenziate, non è altrettanto sorve-

gliato sul piano del vocabolario filosofico riguardo le nozioni di “innatismo” e di

“a priori” nella matematica. Pertanto, nonostante i grandi passi avanti e le nume-

rose scoperte neuroscientifiche riguardanti la matematica realizzate dai neuro-

scienziati, la filosofia risulta essere ancora di una certa utilità almeno nella chiari-

ficazione concettuale.

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Protein misfolding and aggregation: the chem-

ical basis of neurodegeneration

Danilo Milardi

Consiglio Nazionale delle Ricerche, Istituto di Biostrutture e Bioim-

magini, V.le Andrea Doria 6, 95125 Catania, Italy.

E-mail: [email protected]

Abstract. In the end of 1901 Alois Alzheimer, a young

neuropathologist, begun to study the case of Auguste D. a 51 years

old lady suffering from hallucinations, disorientations and memory

loss. This is the first known case of senile dementia, a pathology that

will be universally recognized as Alzheimer’s Disease. One of the

major features of this pathology was described by Alzheimer himself

in 1906: microscopic analysis of affected neuronal tissues evidenced

small plaques named “amyloids” for their property resembling the

ability of starch of staining with iodine. The main component of the-

se fibrillar aggregates was a protein (β amyloid peptide) character-

ized by a particular conformation. Later on, it was shown that many

others age-related neurodegenerative disorders as, for example, Par-

kinson’s disease, are hallmarked by neuronal deposition of a specific

protein leading to degeneration of tissues (proteinopathies). To date,

despite the significant amount of financial resources earmarked for

clinical research in this field, all these maladies remain incurable.

This creates a huge social warning in those regions, as Europe,

where an increase of the average age of the population is expected to

occur. We still do not know what is the best strategy to tackle these

diseases, but surely a full comprehension of all the molecular aspects

that lie at the root of their pathogenesis is an urgent need. Some cru-

cial questions still need to be addressed: i) how a protein may lose its

normal structure/function and become a toxic agent? ii) what envi-

ronmental factors promote this pathological process? iii) what chem-

ical features should possess a drug to successfully interfere with the-

se processes? iv) is it possible to envisage tools for an early

diagnosis? Here we will discuss about the chemical tools available to

date that may help to solve these questions.

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Milardi – Protein misfolding and aggregation: the chemical … 62

Sommario. Alla fine del 1901 il giovane neuropatologo Alois Al-

zheimer iniziò a studiare la complessa sintomatologia di Auguste D.

una signora di 51 anni che presentava disorientamento, allucinazioni

e perdita di memoria. E’ il primo caso conclamato di “demenza seni-

le”, patologia in seguito universalmente definita come Morbo di Al-

zheimer. Una delle principali peculiarità di questa patologia fu indi-

viduata dallo stesso Alzheimer nel 1906: un’analisi al microscopio

dei tessuti neuronali del malato mise in evidenza alcune placche det-

te amiloidi per la loro proprietà simile a quella dell'amido di reagire

con lo iodio. Il principale componente di questi aggregati fibrillari ri-

sultò essere una proteina (β-amiloide) contraddistinta da una caratte-

ristica conformazione. Ben presto si scoprì che molte altre patologie

neurodegenerative legate all’invecchiamento, come ad esempio il

morbo di Parkinson, sono caratterizzate dall'accumulo di una specifi-

ca proteina nei neuroni con conseguente alterazione del tessuto ner-

voso (proteinopatie). Ad oggi tuttavia, nonostante la notevole mobili-

tazione di risorse destinate alla ricerca, queste malattie rimangono

incurabili. Ciò crea enorme allarme sociale specialmente in quelle

aree come l’Europa dove è previsto un progressivo aumento dell’età

media della popolazione in un prossimo futuro. Non sappiamo anco-

ra quale sia il miglior modo di affrontare lo studio di queste malattie,

ma certamente non è possibile prescindere dalla piena comprensione

di quei meccanismi che, a livello molecolare, giocano un ruolo nello

sviluppo di queste patologie. Alcune questioni cruciali, in particola-

re, restano ancora non del tutto chiarite: i) in quale modo una protei-

na perde improvvisamente le sue normali caratteristiche struttura-

li/funzionali e si trasforma in un agente neurotossico? ii) Quali fattori

promuovono questo processo? iii) Quali caratteristiche chimiche de-

ve avere un potenziale farmaco per interferire con questi meccani-

smi? iv) Esistono dei metodi per la diagnosi precoce della patologia?

In questo breve report verrà presentata una breve rassegna dei mezzi

di cui la Chimica dispone per affrontare queste incognite.

PACS: biomolecules, 87.15.Fh

1. Neurodegenerative diseases: a century of discoveries

In a brief report dated 1907, Alois Alzheimer described the presence of plaques

and neurofibrillary tangles (NFTs) in the neocortex and hippocampus of a middle-

aged woman with memory deficits and a progressive loss of cognitive func-

tion.[1] This was the first published report describing Alzheimer disease. Shortly

afterward, in 1912, Friederich Lewy described the neuropathological hallmark of

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63 Milardi – Protein misfolding and aggregation: the chemical …

Parkinson disease, the Lewy body.[2] Since these observations there has been ex-

tensive investigation into the nature of this amyloid material and its role in the

development of AD. After those early reports, over 80 years elapsed before the

principle components, named “amyloids” that form senile plaques,[3] NFTs[4]

and Lewy bodies[5] were identified. Interest in the topic of ‘‘amyloid’’ formation

by peptides and proteins has increased dramatically in recent years, transforming

it from an “esoteric” phenomenon associated with a small number of proteins into

a major subject of study in disciplines ranging from chemistry and materials sci-

ence to biology and medicine. The major reason for this explosion of activity is

undoubtedly that many of the disorders associated with amyloid formation[6] are

rapidly becoming the most costly, in terms of health care and social disturbance,

in the modern world.[7]

Table 1. Some of the major human neurodegenerative diseases associated with

protein misfolding and amyloid aggregation.

Neurodegenerative

Disease

Aggregating

protein

or peptide

Length of pro-

tein

or peptide

Structure of protein

or peptide

Alzheimer’s disease Amyloid β pep-

tide

40 or 42 Natively unfolded

Spongiform ence-

phalopathies

Prion protein or

fragments

thereof

253 Natively unfolded

(1–120) and α-helical

(121–230)

Parkinson’s disease α-Synuclein 140 Natively unfolded

Amyotrophic lateral

sclerosis

Superoxide di-

smutase 1

153 All-β, Ig-like

Huntington’s disea-

se

Huntingtin with

long polyQ

stretches

3144 Largely natively un-

folded

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Milardi – Protein misfolding and aggregation: the chemical … 64

The amyloid state of a protein, regardless of its amino acid sequence or the

structure of its native state is typically manifested in the form of thread like fibrils

a few nanometers in diameter and frequently microns in length that are rich in β-

sheet structure. In addition to its importance in medicine and materials science,

the amyloid state of polypeptides is also of fundamental significance because its

existence and properties challenge many of the established concepts about the na-

ture of the functional states of proteins, with their rich variety of distinctive three-

dimensional structures, and the manner in which they have been selected through

the evolution of life forms and living systems.[8]. Thus, for example, experiments

with a large number of peptides and proteins in a laboratory environment has led

to the realization that the ability to form amyloid structures is not a rare phenome-

non associated with a small number of proteins; instead, the amyloid state emerg-

es as an alternative well-defined structural form that can be adopted under at least

some circumstances by many, in principle nearly all, polypeptide sequences. Like

the native(functional) states adopted by globular proteins, amyloid structures are

highly close packed and highly ordered, but unlike native states they possess a

common or ‘‘generic’’ main chain architecture. A consequence of these evidences

is that biological systems must have evolved to enable their functional peptides

and proteins to remain soluble for prolonged periods of time under normal phys-

iological conditions rather than converting into the amyloid state.

Undoubtedly, some protective mechanisms are encoded in the protein se-

quence, likely through the ability of globular proteins to fold into stable and co-

operative states, which sequester aggregation-prone regions of the protein in the

interior of the molecule and raises the energy barriers to conversion into aggrega-

tion-prone species. Other protective mechanisms are associated with properties of

the cellular environment, such as the existence of molecular chaperones and deg-

radation mechanisms designed to prevent the formation and accumulation of

misfolded and aggregated polypeptide chains.[9, 10] Indeed, it is evident that such

‘‘housekeeping’’ mechanisms are vital, not just during protein folding following

biosynthesis but at all the various stages in the lifecycles of proteins.

2. Protein misfolding and pathways of amyloid formation

One of the fundamental problems related to the formation of amyloid fibrils and

oligomeric aggregates involves the complete description of the numerous events

and steps that lead normally soluble proteins to form oligomers and insoluble fi-

brils with well-defined structural and biological features. A simple and common

way to monitor the pathway that leads to the formation of amyloid fibrils is a plot

showing the amyloid content present in a sample versus time. This approach aris-

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65 Milardi – Protein misfolding and aggregation: the chemical …

es from the existence of different techniques to monitor in real time the amount of

amyloid material after induction of aggregation in a protein sample. The most

common of these techniques involves the employment of the dye Thioflavin T

(ThT), whose fluorescence increases upon binding to amyloid material.[11] The

ThT plot obtained usually resembles a sigmoidal trace. In general, three parts can

be identified in these graphs. At the beginning of the process, the amount of amy-

loid material does not increase detectably. This phase is usually referred to as lag-

phase or nucleation. Several events may take place during this phase: in particu-

lar, the protein undergoes a misfolding process and the misfolded state starts self-

assembly, establishing an equilibrium between an ensemble of oligomers which

are characterized by increasingly larger size as time passes. In the presence of

seeds, that is, pre-formed fibrils, the lag-phase can be suppressed. At the end of

the lag-phase aggregation nuclei form, following the conversion of non-amyloid-

like oligomers into amyloid-like ones or the formation of specific monomeric or

oligomeric conformations that act as nuclei. Consequently, the fluorescence of

ThT increases over time. This phase is usually referred to as exponential-growth

or elongation. As aggregation proceeds during this stage, the observed enhance-

ment in signal is ascribable to the simultaneous occurrence of more events, in-

cluding conversion of non-amyloid-like small-sized aggregates into amyloid-like

oligomers, disintegration of fibrils with formation of new aggregates, and the

elongation of aggregates through the binding of further monomeric units. At the

end of the exponential growth, the ThT trace reaches an equilibrium, usually re-

ferred to as stationary phase. Notably, the final concentration of aggregates does

not correspond to the total protein concentration and the concentrations of mono-

mers and oligomers do not level off at 0. This is because amyloid fibrils continu-

ously release monomers and oligomers of different size.[12] A less common yet

very informative way to represent the mechanisms of aggregation is the use of en-

ergy landscapes. The conversion of proteins from their native states to amyloid fi-

brils occurs through a myriad of intermediate states and pathways. Folded (native)

proteins in general need to unfold, at least partially, to generate partially unfolded

states before aggregation occurs. Misfolded states are amyloidogenic due to the

exposure of hydrophobic groups from the backbone that are generally buried in

the folded state. The early oligomers are generally unstructured, meaning that

they do not yet have the extensive β-sheet structure that characterizes the amy-

loid-like oligomers and prefibrillar states. As a consequence, these unstructured

oligomers do not bind amyloid specific dyes, such as ThT or Congo Red. As ag-

gregation proceeds, oligomers undergo a continuous rearrangement of structure

into amyloid-like oligomers or pre-fibrillar states. This reorganization involves an

increase in size, stability, compactness, regularity of the β-sheet structure and hy-

drophobic burial. Each intermediate oligomeric state may be considered as an en-

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semble of oligomers with distributions of size, structure, and so on. The amyloid-

like oligomers then act as nuclei for the formation of fibrils, which grow through

the addition of either monomers or amyloid-like oligomers.

3. The role of metal ions in protein misfolding and amyloid formation.

Among the known structurally characterized proteins, one in three contains a met-

al as a cofactor.[13] Metalloproteins are involved in electron transport, oxygen

storage, metal transport, chemical bond hydrolysis, redox processes, and synthesis

of biochemical compounds. Copper, iron, and zinc are the most abundant transi-

tion metals relevant to biological systems. They are defined essential metal, but

their excess can cause the formation of damaging free radical species. In many

cases, metal ions, e.g., Cu(II) Zn(II), Mg(II), Ca(II), stabilize the structure of fold-

ed proteins, while in other cases they help to fix a particular physiologically active

conformation of the protein.[14-16] It is known that metal ions may interact with

proteins before and after polypeptide folding takes place with a significant impact

on the folding reaction. Intermediate (on-pathway and off-pathway) structures in

the unfolded protein may form due to specific coordination of the cofactor. The

metal may this way serve as a nucleation site that directs polypeptide folding

along a specific pathway in the free-energy landscape. Notwithstanding the essen-

tial role of cofactors in proteins many metals are toxic when free in biological flu-

ids and a number of diseases have been linked to alterations in cofactor–protein

interactions. This underscores the fundamental importance of revealing the physi-

cal principles for metal interactions with folded, unfolded, and intermediate states

of polypeptides. The transition metals can exist in more than one stable oxidation

state and this feature makes them suitable catalysts for biological processes,

where transfer of electrons is required. Consequently, transition metals are found

at the active sites of a large number of proteins. The processes catalyzed by such

proteins can require the transfer of both electrons and protons to a substrate

bound to the metal, or can simply involve the transfer of an electron between pro-

teins (i.e., as part of an electron transfer chain, such as those involved in respira-

tion or photosynthesis). The metalloproteins participate in respiratory, nitrogen

fixation, biosynthetic and metabolic processes and their role is essential to the

basements of life. The involvement of transition metal centers raises important

questions regarding the mechanisms of these biological reactions. The major

classes of metalloproteins are cytochrome (b,c), iron sulfur proteins, blue copper

proteins and superoxide dismutases family. The redox proteins in the electron-

transfer chains of respiration and photosynthesis, the two main processes in the

energy metabolism of living organisms, must span a range of reduction potentials

from ~0.45 V (ferredoxin) to about ~0.8 V (O2 /H2O at pH 7). This is in part ac-

complished by a variation in the redox-active prosthetic groups, which are flavins

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67 Milardi – Protein misfolding and aggregation: the chemical …

and iron-sulfur proteins in the low-potential parts of the chains but cyto-

chromes and blue or purple copper proteins in the high-potential regions.

Redox proteins are involved in several biological and metabolic processes as de-

terminant factors for metal homeostasis. The redox chemistry is an essential role

in neurodegenerative diseases. The brain is the most aerobically active organ in

the body due is high metabolic requirements. Excessive generation of reactive ox-

ygen and nitrogen species, including superoxide anion and nitric oxide contributes

to neuronal cell injury in neurodegenerative disease. As an example, Aβ extract-

ed from AD plaques contains oxidative modifications such as oxidised Met

35, modification of the histidines to 2-oxo-histidine, and oxidatively modified

tyrosine adducts including 3,4-dihydroxyphenylalanine (DOPA), dopamine and

dopamine quinine. The proposed red-ox mechanisms are depicted below: AβMet(S) + Cu

2+ AβMet(S

+) +Cu

+

AβMet(S+) +CH AβMet(S) + ·CH

Cu+ +O2 Cu

2+ +O2

·-

AβMet(S2+

) + H2O AβMet(S=O) +2H+

O2·- +

O2·-

+2H+

H2O2

4. Membranes and amlyloids.

The Aβ peptide is produced through intramembrane cleavage in

lysosomal/endosomal vesicles and at the plasma membrane. The established view

is that the peptide is removed from the membrane environment upon cleavage.

However, this seems simplistic given the hydrophobicity of the peptide. Interest-

ingly, this is also reflected by differential solubility experiments using aqueous

buffer (soluble Aβ), sodium carbonate or detergents (membrane associated Aβ),

and formic acid (insoluble Aβ) that indicate that while the majority of the Aβ in

AD brain tissue is insoluble, there is a significant amount associated with the

plasma membrane. These studies also indicate that the soluble pool, while being

the most studied, only constitutes a minority of the total Aβ.[17] Notably, inter-

faces are a relatively under-emphasized factor in in vivo aggregation of Aβ. Sev-

eral results suggest that the interface of the membrane and the aqueous environ-

ment is highly critical for influencing the aggregation of Aβ. In general, the

mechanisms by which amyloid intermediates (Aβ peptide, amylin and other amy-

loid-forming proteins) cause cytotoxicity and disease remains unresolved. Never-

theless, the inhibition of amyloid toxicity by a common antibody, independent of

the location of the oligomers in extracellular or intracellular compartments, clear-

ly supports a common mechanism in areas which are accessible via extra-and in-

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Milardi – Protein misfolding and aggregation: the chemical … 68

tracellular regions, such as cell membranes.[18] The vast majority of amyloid-

forming peptides have an amphipathic character. They may cause membrane

damage through changes in bilayer fluidity, generate protein-stabilized pores

(poration), lay on one leaflet of the membrane (carpeting), or remove lipid com-

ponents from the bilayer by a detergent-like mechanism.[19] There is, however,

an intense debate regarding which mechanism of membrane perturbation is the

most relevant to disease. It has also been shown that the formation of amyloid fi-

bers occur independently from membrane damage and that the composition of

membrane and ions may have a major influence on amyloid-mediated membrane

injure.[20] Insertion of a protein into a membrane perturbs lipid packing and re-

sults in local bending deformations. To minimize energetically unfavorable de-

formations, proteins tend to cluster.[21] Even at the very early stages of protein

aggregation at the water membrane interface and within the lipid bilayer oligo-

mers may affect the integrity of lipid membranes. Curvature stress has been sug-

gested to account for the early stages of amyloid-mediated membrane dam-

age.[18, 21] As a whole, the most recent results suggest that the formation of

amyloid fibers is a separate process from membrane disruption and that they may

be separately targeted by novel therapeutical approaches.

5. The “Quality Control” machinery of the cell: intracellular proteolysis.

Neurodegenerative disorders are known to share a common molecular mechanism

involving protein misfolding and aggregation, and accumulating evidence indi-

cates that several adverse environmental factors, e.g., metal-ion dyshomeostasis,

may accelerate (or initiate) these processes.[22] One protective measure employed

by cells to alleviate the proteome from these adverse factors is to target misfolded

proteins for clearance via the ubiquitin−proteasome system (UPS).[23] A second

common finding in neurodegenerative disorders is the presence of insoluble

proteinaceous deposits, such as the neurofibrillary tangles and neuritic plaques of

Alzheimer’s disease, the Lewy bodies of Parkinson’s disease, and the intranuclear

inclusions of Huntington’s disease, that differ in their protein content but invaria-

bly contain components of the ubiquitin/proteasome system.[24] As this cellular

proteolytic machinery is involved in the clearance of misfolded proteins, this has

led to the hypothesis that a chronic imbalance between their generation and pro-

cessing may be the primary cause for the formation of proteinaceous (and toxic)

deposits.[25] Moreover, the cellular toxicity correlated with nuclear inclusions

can be suppressed by components of the ubiquitin/proteasome system, confirming

the role of this proteolytic pathway in the clearance of their precursors.[26, 27]

The UPS is the main regulated intracellular proteolytic pathway and determines

the stability of a broad array of proteins by a two-stage mechanism; first, sub-

strates are tagged for degradation by covalent attachment of a chain of ubiquitin

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69 Milardi – Protein misfolding and aggregation: the chemical …

moieties, a process known as poly-ubiquitination. Subsequently, the ubiquitinated

substrates are selectively targeted to the 26S proteasome, where protein degrada-

tion takes place and ubiquitin is recycled. Proteasomal degradation shows a high

level of substrate specificity, which is mainly achieved by the enzymatic cascade

involved in substrate ubiquitination. This process employs a minimum of three

different classes of enzymes performing subsequent tasks to covalently attach

ubiquitin to a substrate protein. First, ubiquitin is activated by ATP-dependent

crosslinking of its C-terminal glycine (G76) to the active site cysteine of ubiquitin

activating enzyme E1, forming a high-energy thiolester intermediate. Subsequent-

ly, the activated ubiquitin is transferred from the active site of E1 to the active site

of one of the E2 ubiquitin-conjugating enzymes present in the cell. Finally, the ac-

tivated ubiquitin is transferred from the E2 to the target substrate which is bound

to a ubiquitin ligase (E3 enzyme). Ubiquitin (Ub) is a protein composed of 76

amino acids, with a compact globular structure in which a mixed parallel/ antipar-

allel β sheet packs against an α helix, generating a hydrophobic core. Although

Ub is best known as a prelude to proteasomal degradation, it also regulates a large

array of biological processes, including protein translocation, signal transduction,

gene transcription, apoptosis, and autophagy.[28] The observation that neuronal

protein aggregates within affected tissues often contain Ub further supports the

correlation between UPS impairment and neurodegeneration.[29] Furthermore,

biological investigations have demonstrated that exposure of the UPS to increas-

ing amounts of metal ions affects its degradative activity, suggesting a close rela-

tionship between the age-dependent increase in the metal-ion concentration in the

brain, UPS failure, and disease.[30-32]

6. Therapeutic perspectives.

Amyloid-related diseases are triggered by the failure of control and regulatory

processes to prevent individual protein molecules reverting from their functional

states to a persistent misfolded state whose interactions can disrupt the normal

processes of life. Effective pharmaceutical interventions are therefore thought to

require different strategies from those applied to ‘‘conventional’’ diseases where

the selective targeting of specific biological processes, along with other factors

such as improved diet and increased standards of hygiene, have proved to be ex-

tremely effective in reducing the incidence of disease and also in limiting its ef-

fects on the individuals concerned. The advances in our understanding of the

mechanism of amyloid aggregation, however, offer great opportunities to inter-

vene therapeutically in a rational manner.[33] Indeed, such therapies can address

the underlying differences between proteins in their functional state and those that

are misfolded and which possess fundamentally different biophysical properties.

Moreover, the protective systems of the cell (i.e. UPS and autophagy) are extraor-

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Milardi – Protein misfolding and aggregation: the chemical … 70

dinarily effective under the conditions for which they have evolved but then be-

come less effective on aging. In order to address the treatment or prevention of

these diseases it is possible to imagine intervention at different stages of the

misfolding and aggregation process. There are several ways in which it is possi-

ble, in principle, perturb individual steps in the protein aggregation process and

halt the cascade of molecular events that lead to a catastrophic breakdown of the

ability of organs such as the brain to function. By binding a substrate analog or a

molecular chaperone however, the native state of the protein can be stabilized,

thereby reducing the probability of aggregation; this strategy has been developed

for some small molecule drugs that are now approved for clinical trials. One of

the challenges in exploring possible strategies of treating neurodegenerative dis-

orders such as Alzheimer’s and Parkinson’s diseases is that the soluble precursors

(Aβ and α-synuclein) are not stable globular proteins but, at least under many

conditions, they are ‘‘natively unfolded’’. Strategies based on stabilizing a globu-

lar fold are, therefore, not applicable to such situations; in such cases it may be

possible to maintain the level of toxic oligomeric species below those that can be

managed by the cellular ‘‘housekeeping’’ mechanisms for longer periods of time

and, hence, postpone the onset of disease. Conclusively, there are considerable

grounds for optimism in the ‘‘amyloid field’’ in the quest to prevent or treat the

debilitating diseases with which amyloid formation is related. We are beginning

to understand the molecular determinants that govern the structures and properties

of both the fibrillar and the prefibrillar states of proteins, as well as their function-

al native states. With such enhanced knowledge and an extension of our under-

standing of the types of molecules that may perturb the amyloid aggregation pro-

cess, it is conceivable that novel diagnostics will come for identifying new targets

for drug discovery, and for defining the efficacy of therapeutic strategies.

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Introduzione ai modelli matematici del sistema

nervoso

Riccardo Rizzo

ICAR-CNR, viale delle Scienze, ed. 11, Palermo Italia

[email protected]

Abstract. Il cervello è l'organo piu' complesso conosciuto, non ab-

biamo un modello del suo funzionamento e la conoscenza del fun-

zionamento delle sue cellule non riesce a spiegare la sua attività.

Nell'articolo si spiegheranno le basi del funzionamento delle cellule

neurali e se ne ricaverà un semplice modello matematico. Il modello

sarà ulteriormente semplificato per arrivare alla definizione delle reti

neurali artificiali: semplici modelli computazionali che riproducono

alcune delle caratteristiche di basso livello del funzionamento del

cervello.

1. Introduzione

Una cellula del cervello ha un funzionamento complesso, una grande ricchezza di

comportamenti e caratteristiche che la differenziano nettamente dalle altre cellule

del corpo umano. Tale ricchezza di funzionalità però non ci aiuta a spiegare il

prodotto delle interazioni di queste cellule all’interno del cervello. La mente, ciò

che il cervello produce, è impossibile da prevedere guardando il singolo neurone e

molto difficile da immaginare anche studiando il funzionamento di complesse reti

di neuroni.

Lo sforzo del cervello di studiare se stesso è coordinato da diversi progetti nel

mondo, ad esempio la iniziativa europea Human Brain Project ha come obiettivo

principale la costruzione di grandi simulazioni che possano aiutare nella compren-

sione dei meccanismi del cervello e dei danni provocati dalle malattie degenerati-

ve. Un'altra iniziativa, lo Human Connectome Project è orientata alla raccolta di

dati sulle connessioni del cervello, con l'obiettivo ultimo di costruire una mappa

delle connessioni stesse. Questi ed altri progetti di ampio respiro tentano di capi-

re il funzionamento di una macchina che ha circa 1011

componenti connessi con

un numero di collegamenti stimato fra i 1013

ed i 1015

. Una tale complessità giusti-

fica un approccio riduzionista volto a semplificarne il comportamento studiando il

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75 Rizzo – Introduzione ai Modelli Matematici del Sistema Nervoso

funzionamento dei singoli componenti. Freud stesso, all'inizio del suo lavoro, a-

veva pensato di risolvere gli enigmi della vita mentale esaminando le cellule del

cervello una alla volta. Questo approccio è stato indicato anche da Santiago Ra-

mòn y Cajal che visualizzò un neurone cerebrale ed i suoi collegamenti nel 1906,

indicando che per capire il funzionamento del cervello occorre studiare anche i lo-

ro collegamenti, che rappresentano la struttura, la architettura della macchina stes-

sa. Le cellule cerebrali si influenzano l'una con l'altra attraverso lo scambio di im-

pulsi elettrici: una cellula riceve molti impulsi da altre cellule a sua volta rimanda

impulsi ad altre cellule. Questi segnali attraversano canali precisi ed il punto di

contatto fra i neuroni assume un ruolo fondamentale, tanto da meritare un nome,

sinapse (vedi figura1).

Il funzionamento del neurone è descritto usando equazioni che tengono conto

della sola attività elettrica e che consentono di studiare il funzionamento di circui-

ti costituiti da più cellule neuronali. In altre parole il funzionamento della cellula

nervosa come organismo vivente, lascia il posto allo studio del neurone come

componente elettronico, caratterizzato da un comportamento che è più vicino a

quello di un circuito a transistori (vedi figura 2).

Nel seguito tale punto di vista sarà quello dominante: il modello che illustre-

remo per il neurone rappresenta il suo funzionamento elettrico, ed una volta ac-

quisito quello ci concentreremo sui collegamenti fra i neuroni che sono mille volte

di più dei neuroni e costituiscono un problema mille volte più complesso.

Nel prossimo paragrafo vedremo un semplice modello del funzionamento del

neurone, mentre una panoramica dei modelli di reti neurali è riportata nel paragra-

fo seguente.

2. Modello e funzionamento del neurone

Il funzionamento del neurone è stato brevemente accennato prima: segnali elettri-

ci provenienti da altri neuroni (o dagli organi di senso) attraversano la giunzione

(sinapse) e caricano il nucleo (soma) della cellula; quando la carica raggiunge una

ben determinata soglia, nel neurone si genera abbastanza energia da provocare

una scarica: un impulso elettrico è generato nel nucleo della cellula e si trasmette

attraverso l'assone del neurone verso gli altri ad esso collegato. Una volta generata

la scarica il nucleo si porta al cosiddetto potenziale di riposo o di reset, e il neuro-

ne ritorna a caricarsi con gli impulsi provenienti dall'esterno. La scarica del neu-

rone dipende quindi dalle sollecitazioni esterne: un neurone che riceve molti im-

pulsi si caricherà e scaricherà con maggiore frequenza generando fitti treni di

impulsi.

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Questo semplice modello deve ancora essere affinato, per esempio il compor-

tamento delle sinapsi può anche essere inibitorio: la presenza di un impulso in una

sinapse inibitoria tende a reprimere il neurone, a impedire la nascita di un nuovo

impulso, scaricando il nucleo.

C'è ancora un altro importante fenomeno da tenere presente: le sinapsi non so-

no tutte eguali, oltre ad essere eccitorie o inibitorie hanno un peso, una “impor-

tanza” che permette di distinguere da dove arriva l'impulso in ingresso ad un neu-

rone. Gli impulsi hanno sempre la stessa ampiezza perché un neurone non può

modulare l'impulso emesso, la modulazione è affidata alla sinapse: ci sono sinapsi

forti che con un impulso trasmettono una grande quantità di carica al nucleo del

neurone successivo e sinapsi deboli che con lo stesso impulso caricano molto po-

co il neurone. Stesso discorso vale per le sinapsi inibitorie, ce ne saranno di molto

forti che inibiscono per lungo tempo il neurone, e di deboli, capaci di inibire mol-

to meno. Il peso della sinapse cambia durante la vita del cervello ed è il meccani-

smo responsabile della formazione della memoria [Kandel]. Il cambiamento della

sinapse segue molteplici meccanismi uno dei più semplici è la cosiddetta regola di

Hebb secondo cui due neuroni contemporaneamente attivi tendono a rinforzare il

loro collegamento.

Vediamo adesso ancora più in dettaglio il funzionamento del neurone.

Figura 1. A sinistra la rappresentazione dei neuroni elaborata da Cajal, a destra lo

schema di neurone e collegamento sinaptico utile per i nostri scopi. Gli elementi del

disegno a sinistra non sono in scala: l'assone può essere molto lungo, e la quantità di

dendriti di un singolo neurone può essere di centinaia.

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Quando uno spike arriva alla sinapse innesca una serie di fenomeni biochimici

che si concludono con il rilascio di sostanze dette neurotrasmettitori. Queste mo-

lecole sono raccolte dai neuroricettori nel neurone post-sinaptico ed aprono dei

canali che consentono agli ioni di fluire dal liquido extra-cellulare fin nella cellula

(vedi figura1). La presenza di questi ioni cambia il potenziale della membrana del

neurone ed è quindi trasformato in risposta elettrica. Se il segnale di input è ecci-

torio allora il potenziale del neurone post-sinaptico aumenta fino a superare la so-

glia e causare lo sgancio di un impulso lungo l’assone.

Il modello più completo del neurone è quello di Hodgkin e Huxley ed è costi-

tuito da un circuito elettrico con tre elementi non lineari. La legge che regola gli

elementi non lineari è complessa e rende il modello difficile da gestire. Un model-

lo più semplice ed egualmente valido se non si ha bisogno di troppi dettagli, è il

modello “Integrate and Fire” (IF) [Maas e Bishop] che comprende un solo ele-

mento non lineare dal comportamento piuttosto semplice, e soprattutto fuori dalla

equazione differenziale che regola l'accumulo delle cariche nel neurone.

Il funzionamento del modello IF è basato sullo schema circuitale in figura 2.

Figura 2. Schema elettrico corrispondente al modello Integrate and Fire

I(t) =u(t)

RCdu

dt

La equazione sopra rappresenta il modello del neurone e corrisponde al circui-

to nel soma in figura 2 (neurone post sinaptico); il modello è completato dalla non

linearità che “sgancia” l'impulso ogni volta che il potenziale u(t) supera la soglia

q.

Supponiamo che il neurone abbia un potenziale di reset ur pari a zero e suppo-

niamo che abbia sganciato un impulso all'istante t0: in questo caso il suo potenzia-

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Rizzo – Introduzione ai Modelli Matematici del Sistema Nervoso 78

le è pari a ur e quindi a zero volt. Se in ingresso c'è una corrente costante I(t)=I0 il

potenziale di membrana, ricavato dalla soluzione della equazione sopra, cresce

secondo la legge :

u(t) = RI0 1 exp t t0 m

.

Se R I0 > q allora il potenziale di membrana raggiunge la soglia q in un istante

t1, calcolabile ponendo u(t)= q nella equazione sopra; t1 è l'istante di sgancio del

nuovo impulso. Tale istante è funzione della intensita' di I0 ed è più vicino a t0 se

la I0 è grande.

Anche la spiegazione appena data è una approssimazione, perché la corrente

I(t) non è mai una corrente costante, infatti il neurone pre-sinaptico emette impul-

si, ma questi sono “appiattiti” ed “allungati” dal gruppo RsCs che fa parte della si-

napse. La forza della sinapse dipende dai valori dei componenti Rs e Cs

3. Le Reti Neurali Artificiali

Nei primi modelli di rete neurale artificiale, per esempio il percettrone lineare del

1958, praticamente tutti i dettagli descritti nei modelli del paragrafo precedente

sono trascurati. Innanzitutto il funzionamento non è più a impulsi ma usa dei se-

gnali continui la cui intensità rappresenta la frequenza di emissione degli impulsi

stessi. I neuroni implementati in queste simulazioni quindi si scambiano segnali

continui che rendono molto più semplici calcoli e simulazioni.

I pesi delle sinapsi non sono più dipendenti dalla costante di tempo di un circu-

ito elettrico ma sono rappresentati con dei valori reali il cui segno da' conto di si-

napsi eccitorie e inibitorie; il meccanismo di trasmissione degli impulsi adesso è

una semplice moltiplicazione fra il valore del segnale xi ed il valore del peso della

sinapse wi. I segnali in ingresso sono moltiplicati dai pesi wi, sono sommati ed il

segnale risultante attraversa il componente non lineare q che ne limita la ampiezza

(vedi figura 3).

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79 Rizzo – Introduzione ai Modelli Matematici del Sistema Nervoso

Figura 3. Schema del neurone artificiale

Il modello del neurone artificiale adesso è molto semplice, ed è regolato da

equazioni più brevi ma sempre non lineari:

u = w j * x jj

dove q(.) è una funzione non lineare del tipo a saturazione in figura 4:

Figura 4. Una delle possibili forme della funzione q(.)

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Rizzo – Introduzione ai Modelli Matematici del Sistema Nervoso 80

Una ulteriore e decisiva semplificazione riguarda la architettura dei collega-

menti fra i neuroni artificiali in una rete. La complessita’ del cervello lascia il po-

sto a poche e ben codificate architetture che permettono di ricavare una funzione

di ingresso-uscita di forma semplice anche se ancora difficile da risolvere.

La architettura più semplice è costituita da strati di neuroni collegati l’uno ap-

presso all’altro senza collegamenti intra-strato, ne’ collegamenti di ritorno

dall’uscita all’ingresso della rete (vedi figura 5).

Una rete formata dalla connessione di dispositivi di questo tipo ha un compor-

tamento difficilmente prevedibile, sia per il gran numero di parametri diversi (i

pesi) sia per la presenza delle non linearità.

Figura 5. Esempio di rete neurale artificiale multistrato; i collegamenti tratteggiati A

e B non sono ammessi in questa architettura.

Regolando opportunamente i pesi si possono ottenere molti comportamenti di-

versi ma la regolazione di questi parametri non può essere fatta direttamente, ed è

ottenuta attraverso un meccanismo di discesa del gradiente su una funzione di er-

rore che rappresenta la differenza fra il comportamento voluto e quello ottenuto

dalla rete.

Questo meccanismo è particolarmente vantaggioso perché consente di non

guardare al singolo parametro, cioè al peso della singola connessione nella rete,

ma piuttosto al comportamento desiderato. Questa astrazione però si paga con la

impossibilità di capire quale sia la influenza del singolo collegamento nel com-

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81 Rizzo – Introduzione ai Modelli Matematici del Sistema Nervoso

portamento della rete nel suo complesso. Il comportamento voluto, che spesso

viene raggiunto con bassi margini di errore, quindi con grande successo, “emer-

ge” dalla interazione pesata fra i neuroni a comportamento non lineare, ma i det-

tagli del funzionamento non sono facilmente comprensibili: è per questo che si

parla delle reti neurali come modelli di tipo “black box”, cioè come scatole “ma-

giche” che hanno il comportamento desiderato ma che nascondono completamen-

te i dettagli di funzionamento.

Il procedimento di discesa del gradiente costituisce la cosiddetta “fase di ap-

prendimento” o “di training” della rete e, nelle modalità descritte, è definita come

fase di apprendimento supervisionato perché si tenta di minimizzare un errore,

una differenza fra la risposta voluta e quella ottenuta dalla rete. Esistono altre ti-

pologie di reti con procedure di apprendimento che non necessitano di riferimenti,

di esempi della risposta voluta, ma adattano i pesi sulla base di caratteristiche in-

trinseche dell'insieme di esempi a disposizione.

Questo tipo di reti sono dette ad apprendimento non supervisionato proprio per

la mancanza di una guida sotto forma di una uscita desiderata e quindi di un erro-

re da minimizzare.In tali reti i neuroni diventano prototipi di classi di stimoli in

ingresso e sono usati per la rappresentazione degli stimoli esterni. Il vantaggio dei

modelli di reti neurali ad apprendimento supervisionato è quello di potere ottenere

un determinato comportamento attraverso la somministrazione di esempi del

comportamento voluto. Se il legame esiste esso è “imparato” dalla rete neurale e

memorizzato all’interno dei pesi della rete.

Le reti ad apprendimento non supervisionato generano invece degli “esempi”,

dei prototipi degli stimoli in ingresso, che permettono di identificare facilmente

caratteristiche chiave dell’insieme di pattern in input.

Ad esempio una rete non supervisionata chiamata Self Organizing Map è ca-

pace di costruire e memorizzare degli esempi degli stimoli di ingresso organiz-

zandoli in una struttura reticolare bidimensionale. Se questa rete è stimolata usan-

do dei numeri manoscritti si ottiene la struttura nella figura in cui ogni numero è

la rappresentazione dei pesi associati alla unità neurale corrispondente nel retico-

lo. Si può notare come le immagini degradano dolcemente dall’una all’altra indi-

cando dei valori dei pesi che cambiano con continuità.

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Rizzo – Introduzione ai Modelli Matematici del Sistema Nervoso 82

Figura 6. Esempio di memorizzazione in una rete auto organizzante (Self Organizing

Map): a sinistra una rappresentazione della rete, a destra la visualizzazione dei valori

dei pesi.

4. Conclusioni

Nel corso dell’articolo abbiamo visto come i modelli matematici dei neuroni siano

diversi e cambino a seconda del tipo di approssimazione necessaria. Il nostro stu-

dio del cervello e’ appena cominciato, e prosegue anche la realizzazione di nuovi

modelli ed architetture neurali. I modelli di reti neurali artificiali appaiono primi-

tivi e molto diversi dalle reti che si ipotizzano nel cervello, ma ricordando come il

volo umano sia diverso da quello naturale, anche questo tipo di approcci sono sta-

ti utili nella costruzione di macchine che risolvono problemi di intelligenza artifi-

ciale.

Eppure non sappiamo ancora quale sarà la forma della macchina che realizzerà

una vera mente artificiale.

Bibliografia

Maass W., & Bishop C.M. (1999). Pulsed neural Networks. Cambdridge,

Massachussets, USA: The MIT Press.

Bishop C.M. (1995) Neural Networks for Pattern Recognition, Oxford, UK: Ox-

ford University Press

Kandel E. R. (2010) Alla ricerca della memoria, Italia, Codice Edizioni.

Russel S. & Norvig P. (1995) Artificial Intelligence. A modern Approach, New

Jersey USA: Prentice Hall.

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Learning ScientificaMente through CLIL: Part

I – the learner

Y.L. Teresa Ting

The University of Calabria

E-mail: [email protected]

Abstract. This is the first of two papers in this Proceedings which

seek to illustrate that, although we are not able to implant electrodes

into the brain of our students, there are certain neuroscience research

findings which are highly relevant to everyday classroom practice

that teachers can use to design more effective learning processes.

One of these is called the N400, a brain signal that is particularly ac-

centuated when input is incomprehensible. Although it is obvious

that the language of instruction must be comprehensible, teachers of-

ten overlook the fact that, for a learner, discipline-specific ways ex-

perts (e.g. teachers) use language often make our mother tongue

seem like a foreign language. It is therefore necessary to modulate

the language of instruction, not only for the first five minutes of a

lesson, but for most of the duration of instruction. Ironically, when

we implement CLIL (Content and Language Integrated Learning),

whereby content is learnt through a foreign language, the explicit use

of a foreign language for instruction makes teachers more aware of

the “foreign-ness” of disciplinary discourse. Here, processes used in

neuroscience research that attenuate N400 have been merged with

research from educational linguistics and language learning to pro-

vide teachers some pragmatic considerations for rendering their lan-

guage of instruction more brain-compatible. A concrete example of

learning materials which have been designed for upper secondary

CLIL science classrooms is presented, along with the learning out-

comes. The second paper (Part II, at page 106) will discuss how

awareness of brain signals such as the N400 also helps teachers to

not only cultivate disciplinary literacy but also become more effec-

tive teachers.

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Ting – Learning Scientifica-mente Throug CLIL: Part I ...

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Sommario. Questo è il primo di due articoli di questi Atti che si

propongono di illustrare come, sebbene non sia possibile impiantare

elettrodi nei cervelli degli studenti, esistano delle conoscenze deriva-

te dalla ricerca neuroscientifica che sono altamente rilevanti per

l’insegnamento e che gli insegnanti potrebbero utilizzare per dise-

gnare processi di apprendimento più efficaci. Una di esse è legata al

cosiddetto N400, un segnale cerebrale che è accentuato quando

l’input è poco comprensibile. Sebbene sia ovvio che il linguaggio

dell’istruzione debba essere comprensibile, gli insegnanti spesso i-

gnorano il fatto che, per chi sta apprendendo, spesso il modo in cui

gli esperti della disciplina (per es. un insegnante) utilizzano il lin-

guaggio, fa somigliare la nostra madre lingua ad una lingua straniera.

E’ quindi necessario modulare il linguaggio, non solo per i primi 5

minuti di una lezione ma preferibilmente anche durante la maggior

parte del tempo. Ironicamente, proprio quando implementiamo il

CLIL (Content and Language Integrate Learning), dove il contenuto

è imparato attraverso una lingua straniera, l’uso esplicito di una lin-

gua straniera sensibilizza gli insegnanti al fatto che anche il discorso

della disciplina è “straniero”.

In questo articolo, i processi identificati dalla ricerca neuroscientifica

per attenuare l’N400 sono stati integrati con informazioni derivate

dalla ricerca in linguistica e nell’apprendimento della lingua per for-

nire delle considerazioni pragmatiche che gli insegnanti potrebbero

utilizzare per rendere il loro insegnamento più “brain-compatible”.

E’ presentato un esempio dei materiali di apprendimento CLIL, in-

sieme ai learning outcomes ottenuti. Il secondo articolo (Part II, a

pagina 106) illustra come la familiarità con i “segnali cerebrali” (tipo

N400) possa condurre non solo verso un approccio più efficace per

coltivare l’alfabetizzazione ma anche verso un modo diverso di “fare

lezione”.

1. Introduction

A summer school for educators entitled “Scientifica-Mente” makes obvious the

fact that education is about the brain: when we learn, we learn with our brain1.

This is illustrated in the quote which opens the chapter by Hill and Schneider

(2006) in The Cambridge Handbook of Expertise and Expert Performance:

1 In the spirit of this Journal which seeks to provide teachers insights to improve their classroom

practice, I will use a narrative register to help make academic research accessible to classroom

practitioners.

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85 Ting – Learning Scientifica-mente Throug CLIL: Part I...

As humans acquire skills there are dramatic changes in brain activity that

complement the profound changes in processing speed and effort seen in

behavioral data. These changes involve learning, developing new represen-

tations, strategy shifts, and use of wider cues and approaches…Patterns are

beginning to emerge that show that skilled performance produces changes

in brain activation… (p. 655).

Using very simple tasks which can be learnt in the hour while volunteers lie

within a functional magnetic resonance imaging (fMRI) magnet, studies have

shown that improvement in task performance is reflected in a gradual reduction in

the amount of brain activity involved, with the final amount of cortical activity

being only 15% of that observed at the beginning of task-learning. Reduction was

seen in areas known to be involved with attentional control, task control and

working memory: not surprisingly, areas which remained active were those in-

volved with the perception of input and the control of motor movements. Basi-

cally, the more skilled we are at a task, the less cognitive effort is required – the

less we need to think about what we are doing while we are doing it, e.g. driving a

car. This fact that “expertise” attenuates brain activity is called “processing effi-

ciency change” (Kelly and Garavan, 2005). Education is about modifying how

efficient our learners’ brains are able to process information, even after these

brains have finished compulsory education.

2. Neuroscience and education: some considerations

Although I had obtained a PhD in neurobiology, studying learning and memory

processes in rats’ brains before switching careers to become a teacher of English

as a foreign language (in students’ brains), it was actually not immediately obvi-

ous to me that education is about modifying the brain. In fact, teachers, have

more to do with the brain than any other profession – not even a neurologist sees

so many brains on any given day as does a teacher working with classrooms of

learners. It is only recently, in researching the use of Content and Language Inte-

grated Learning (CLIL) for implementing science instruction through a foreign

language, have I become aware that one reason the outcome of “schooling” is of-

ten so disappointing may simply be because traditional ways of educating are not

very “brain-compatible”: if the brain is shaped like a daisy, it is useless to force in

a cube.

It would seem obvious, therefore, that all teacher-training programmes should

offer ground-zero courses on “the neuroscience of learning”. This is not the case

and there are actually good reasons why teacher-training courses should proceed

cautiously with “neuroeducation” courses. In a noted article Education and The

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Ting – Learning Scientifica-mente Throug CLIL: Part I ...

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Brain: A Bridge Too Far, Bruer (1997) warned against the extension of neurosci-

ence research findings into education since laboratory experimental contexts and

measurements of brain function are far simpler than the complexity of learning

which happens in classrooms. However, since Bruer’s article, significant pro-

gress in non-invasive techniques now make it possible to study complex cognitive

processes which are of direct relevance to education, such as attention, recogni-

tion, effort, analysis, memory retrieval etc. (e.g. see Posner and Rothbart, 2005;

2007). Although cognitive (neuro)scientists are increasingly able to delineate the

neural pathways involved in various cognitive processes, laboratory experimental

protocols are still far less complex than classroom learning conditions: learning a

list of “words” while lying inside a magnet is rather different from sitting in a

classroom and learning the periodic table. The “bridge issue” still exists, but it is

now a very nice bridge, especially on the neuroscience side of the divide: beauti-

ful MRI images illustrate the where and when of motivation, attention, anxiety,

reward-expectancy, memory retrieval etc. However, can these findings obtained

within laboratory settings provide concrete guidelines regarding what teachers can

do to help learners who are learning in a classroom, surrounded by other learners

and attending to input which does not come from a computer monitor but a teach-

er?

There is now an additional concern. Regardless of whether the bridge is too

far, the bridge seems to be increasingly misused by those who have over-

interpreted (to not say misinterpreted) neuroscience research findings to sell

“brain-gadgets” which promise to improve learning, memory etc. (Della Sala,

2009). In a special issue of Cortex (2009), ten articles by renowned educators,

psychologists and neuroscientists caution against the overenthusiastic and sim-

plistic extension of neuroscience findings into education which could lead to the

creation of neuromyths which, rather than empowering teachers, may mislead

them into ways of conceiving education which are not useful. Our fascination

with the brain has, in fact, been scientifically demonstrated by Skolnick Weisberg

et al. (2008) who, in an article entitled The Seductive Allure of Neuroscience Ex-

planations report that the affixation of “neuroscience” to illogical explanations of

data rendered them significantly more believable for non-experts:

neuroseduction. The bridge may not be too far, but it may be misused.

The effort to design “brain-compatible” classrooms is clearly no trivial matter

and teachers eager to find ways to help learners must approach all forms of

“neuroeducation” cautiously. More than ever, professionals who can objectively

interpret and understand neuroscience research findings should make an effort to

provide classroom practitioners with information that can guide everyday class-

room practice. Some notable progress has been made, with Blakemore and Frith

who published The Learning Brain in 2005 that had the very bold subtitle lessons

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for education. In the same year, a Centre for Neuroscience in Education was es-

tablished by the Psychology Department of the University of Cambridge and, in

2007, the Harvard Graduate School of Education established the International

Mind, Brain, and Education Society with the simultaneous launch of a homony-

mous peer-reviewed academic journal. Likewise, the Centre for Educational Re-

search and Innovation of the OECD has published a volume entitled Understand-

ing the Brain: the Birth of a Learning Science (2007). All these have contributed

in varying degrees to render more “scientific”, what teachers have intuited from

experience: learning happens best when we are less anxious, more motivated,

paying attention and interested; sleeping well and eating well definitely helps and

so does exercise.

While such clarifications are welcome, they may actually render “schooling”

even more frustrating for those of us interested in “learning”, but in classrooms: a

teacher must motivate and maintain the interest and attention of a whole class-

room of learners, whose exercise, eating and sleeping habits she has no control,

and also ensure that anxiety is minimum so that learning is maximum. No teacher

would deny that the landscape at the neuroscience side of the bridge looks very

interesting indeed, but what do neuroscientists have over there, in laboratories,

that I, a teacher, can use over here in my classroom? Bikinis, Bermuda shorts,

flip-flops and pina colada mixes are undoubtedly nice, but would be of little use

to someone living in Alaska. To date, much of the bridge has been designed by

neuroscientists, based on neuroscience research. For neuroeducation to become a

true discipline, the bridge must be a two-way bridge that classroom teachers can

also contribute to constructing by identifying neuroscience findings which are rel-

evant to their everyday practice and transforming laboratory indications to class-

room procedures.

These two papers attempt to make a small contribution in this direction. This

first paper (Part I) mainly concentrates on a category of neuroscience research

finding which has not made it into the neuroeducation discussion but which, from

the point of view of a classroom practitioner, offers teachers some very concrete

food for thought. This regards the fact that the brain does not ignore incompre-

hensible input but actually responds to it: blank stares do not correspond to blank

brains. In fact, if processing efficiency change corresponds to less brain activity

when tasks become familiar, it is not surprising that incomprehensible input elic-

its more brain activity. Although it is obvious that educating is about learning the

unknown and that teachers must render the unfamiliar familiar, if neuroscience re-

search clearly indicates that incomprehensible language causes more brain activi-

ty, it is clear that we must devise ways of making our language of instruction

comprehensible. I present learning activities that were designed with the explicit

purpose of “reducing N400”. The second paper (Part II) discusses how an under-

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standing of this N400 and the use of CLIL learning materials has sensitized an

experienced science teacher to the importance of modulating her language of in-

struction.

3. Incomprehensible input: blank stares are not blank brains…on the con-

trary!

In the late 1970s Kutas2 and colleagues performed a series of elegant experiments

using evoked response potentials (ERP) which, using surface electrodes posi-

tioned on the scalp of volunteers, showed that the brain reacts to surprising and

unpredicted input in very predictable ways (see Kutas & Federmeier, 2011). For

example, when volunteers read words presented one at a time to form sentences

with either improbable endings such as “He planted string beans in his car” or

totally anomalous endings such as “I take coffee with cream and dog”, a large

electrically negative-going signal was measured 400ms after the unexpected last

word. This response to the unexpected was called the N400-effect. Among oth-

ers brain signals, N400 is a normally occurring component seen in response to

meaningful stimuli, be they visual or audio words, images, sign language signs or

even sounds, smells and gestures. The amplitude of the N400, with respect to a

non-cerebral reference electrode positioned behind the ear, is modulated by how

much one would expect a stimulus to appear in the given context: the cloze prob-

ability and the contextual constraint. The N400 effect can thus “detect” se-

mantic violations since it is not observed when high cloze input are presented in

different fonts (e.g. capitals: He planted string beans in his GARDEN), colours or

even as an image (e.g. image of a garden vs. an image of a car in the case of plant-

ing string beans). The N400 effect is also not observed with input which is se-

mantically congruent but grammatically incorrect such as “All turtles have four

leg” (rather than legs), and is not elicited in response to an erroneous note on a

musical scale or familiar melody.

Since its “discovery”, more than 1000 articles have reported studies evaluating

various aspects of N400 with special attention to its role in language processing,

word recognition and processing, the mental lexicon and memory etc. N400 is a

normal component of the many electrical brain signals detected during cognitive

processing and is not a “unitary response” but represents a cumulated signal from

a distributed network which processes, simultaneously and in parallel, the various

components of the input (word-level meaning, discourse-level meaning, context,

prior world knowledge, etc.) so to obtain a final interpretation and semantic com-

prehension (Wlotko and Federmeier, 2013). Later studies also moved beyond

2 Readers should refer to the review by Kutas and Federmeier (2011): Here I summarize only the

key points of these studies, using the examples provided by the “discoverers” themselves.

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word-level input and illustrated that N400 could also be elicited on a discourse

level, increasing or decreasing in intensity as a function of discourse familiarity or

“contextual permissibility”: for example, intense N400 which was elicited when

reading about inanimate objects performing acts could be attenuated if subjects

were told that they would be reading a fictional account. Interestingly, Niedeggen

et al. (1999) found that discourse-level semantic processing was also observed in

a “mathematical discourse”: although an N400 effect was detected for incorrect

answers to 5x8, N400 was more intense in response to the erroneous answers of

34, 26 or 18 when compared to the incorrect solutions of 32, 24 or 16 which, be-

ing multiples of 8, are more “contextually related”. An example given by Kutas

and Federmeier (2009) illustrates how N400 is modulated by context-defined

meaning:

…in the sentence "Jane told her brother that he was exceptionally

quick/slow this morning," the words quick and slow elicited N400s of ap-

proximately equal size. However, quick elicited a smaller N400 than did

slow when this sentence was preceded by a context sentence that read: "By

five in the morning, Jane's brother had already showered and had even got-

ten dressed" (p. 6).

By contextualizing the scenario through contextual priming, input becomes

more predictable, thus attenuating even the amplitude of a normal N400 response

to input. N400 thus represents an immediate, yet implicit and unconscious, eval-

uation of “the meaning of life at the moment”. As Kutas and Federmeier con-

cluded their review of 30-years of research on N400 with, “The N400 literature,

taken as a whole, provides a compelling picture of how perception, attention,

memory, and language jointly participate in the neural events responsible for the

N400 and thus together contribute to the amazing ability of the human brain to

infuse its world with meaning” (Kutas & Federmeier, 2009: 22).

Imagine how much meaning a 14-year-old learner can infuse into his “world of

science” when reading the following sentences: “diffusion in a liquid consists of a

net flux of particles of the solute (the colorant) from an area of higher concentra-

tion to that where it is lower… we define osmosis as the passage of solvents

across a semipermeable membrane” (translated by author, from Italian). The au-

thors of the Chemistry textbook (Barghelli et al., 2011: 133) for 14-year-olds had

attempted to link, on a single page, the photo of a drop of colorant spreading in a

beaker of water with osmosis. As we will see below, this type of language is dif-

ficult to process. In fact, it should not be surprisingly that words which are more

common and familiar elicit smaller N400s while low-frequency words elicit larger

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N400s, even when these are used congruently. However, although the word

“concentration” is chemically congruent, most learners would probably be more

familiar with the cognitive psychology meaning of this word in “concentration is

essential for studying well”. Although this involves yet another

neuroelectrophysiological signal (the P6003), the message is clear: for education

to work well, the stream of verbal input must be easily comprehensible.

If the N400 effect is a marker of semantic incongruency, there are very clear

implications regarding our everyday classroom practice: “if learners are learning,

they must comprehend unknown content and concepts which inevitably require

the use of unfamiliar terminology”. Although we cannot expect to totally atten-

uate all moments of N400, we should consider this during instruction. In fact, an

increase in N400 amplitude has been correlated with a decrease in pupil size, an

involuntary response associated to a decrease in cortical arousal and task-

engagement (Kuipers & Thierry, 2011). Basically, neuroscience data confirms

what teachers see on a regular basis: when students do not understand the input,

they do not engage with it. However, rather than writing off those blank looks to

an absence of brain signals and total disinterest, we may wish to consider that

those constricted pupils actually reflect an excess of N400s (among others3) and

students are simply unable to engage with the language of instructional input.

The consolation is that, as all good teachers know, there are ways to attenuate

N400. For example, familiarity reduces those blank stares and not surprisingly,

N400. As already discussed above, contextual priming attenuates even normal

N400 responses by simply rendering, albeit subconsciously, input more predicta-

ble or familiar. This N400 repetition effect is observed for all modes of input. In-

terestingly, that familiarity attenuates the N400 effect is observed even when an

incongruent stimulus is presented repeatedly: even if the input does not make

sense, repeated exposure to it increases familiarity and thus decreases the N400

effect. In fact, even with amnestic patients who suffer cerebral damage which

compromises their ability to explicitly notice repetition, N400 is attenuated as a

result of repetition (Olichney et al., 2002) i.e. even if these patients do not re-

member having seen the stimulus, they nonetheless show the N400 repetition ef-

fect. This N400 repetition effect has interesting implications for implicit learn-

ing.

3 Another electrical brain signal, P600, is elicited with synatically ambiguous input which require

re-processing to understand, e.g. “the reporter selected to write the story” (as opposed to “the

reporter struggled to get the story”: see pp. 17 of Osterhout & Holcomb, 1992): disciplinary dis-

course is obviously full of such syntatically opaque language.

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Basically, all that renders input more predictable attenuates the N4004: this

means that teachers can indeed do something about this. Below I illustrate how

this consideration was used to design upper secondary science learning materials.

The education context that motivated the design of such materials will be present-

ed in more detail in Part II, along with findings from classroom research using

these materials. Briefly however, the initiative was a response to the Italian Min-

istry of Education mandate that a non-lingua discipline must be taught through the

foreign language of English by the Content teacher, during Content-learning time5

using the approach of Content and (foreign) Language Integrate Learning (CLIL).

It was therefore necessary to delineate ways for Content teachers who, despite

numerous years of experience teaching content, have “only” pre-intermediate lev-

els of English6 to nonetheless “use English” to move their content curriculum

forward. Since many Italian Content teachers do not have the linguistic resources

to lecture for 50-minutes non-stop in English, they must do something else. This

something else could be to use learning materials which have been developed a

priori and which prompt learners to use English to complete activities and tasks

as they learn the content and thus attain the final content learning objective(s)

which has been designed into the CLIL learning progression. Among others, a set

of CLIL learning materials on the Human Heart have been developed and used

with very positive learning outcomes (see Part II). Here, we will examine how

the implementation of CLIL very naturally prompted us to design learning mate-

rials which, in turn, may naturally lower the N400 effect. First, however, before

we discuss how we can modify learning input to reduce N400, we should under-

stand why traditional learning input is so “N400-rich” and why it should actually

remain this way.

4. Traditional learning input: rich source of N400?

4 Clearly, numerous other parallel processes are activated in response to input, some of which are

linked to the N400. One of these is the activation of the midbrain locus coeruleus nucleus nore-

pinephrine pathways for maintaining attentional control and increasing task-engagement so to

attain “optimization of performance” (Aston-Jones & Cohen, 2005).

5 Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana 24-12-2011, Serie generale - n. 299

http://www.uil.it/uilscuola/sites/default/files/dm-clill_gu_299_del_24_12_2011.pdf 6 In Europe, foreign language (FL) competence is normalized to a Common European Frame of

Reference (CEFR) which considers six very broad levels of FL competence (A1, A2, B1, B2,

C1, C2) with A1 learners being those who have almost no knowledge of the FL, B2 being the

level which would enable a user to follow university courses in the FL, while C2 competence

equates with the language competence of well-educated native speakers.

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Ting – Learning Scientifica-mente Throug CLIL: Part I ...

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To appreciate any alternative to traditional ways of learning, we need to first un-

derstand why more traditional types of learning-input is so “N400-rich”. Excerpt

1A presents a more traditional type of text which students may use to learn about

Heart.

Excerpt 1A. Traditional learning material covering the learning objective

of the CLIL activities. The human heart is a muscular organ that provides continuous blood circulation

through the cardiac cycle and is one of the most vital organs in the human body. The heart

is divided into four main chambers: the two upper chambers are called the left and right

atria and two lower chambers are called the right and left ventricles. The two superior

atria are the receiving chambers and the two inferior ventricles are the discharging cham-

bers.

While this is an undoubtedly efficient and effective way to summarize what

students need to know about the anatomy of the human heart, this is not an easy

text for a learner to learn from. In fact, in Writing Science, linguists Halliday and

Martin (1993) rightly noted that the language of science is alienating because it

turns our mother tongue into a foreign language. This is also the case for disci-

plinary discourse between economists, historians or even educators: when indi-

viduals come together as communities sharing a common interest or goal (be the-

se professional or social), they not only coin new terminology but also develop

ways of using language which is characteristic of that community of practice.

Such disciplinary discourse allows members of the community to communicate

with each other with minimal misunderstandings: we would hope that our surgeon

and his team share a common discourse so that they are efficient and effective and

have no doubt regarding what they must do! The problem for education is that

since members within a discourse community comprehend each other, community

discourse becomes the conventional ways of languaging about community

knowledge (Wenger, 1998; Snow, 2010). Such disciplinary discourse thus very

naturally become the language of instruction we find in textbooks (van den

Broek, 2010). Unfortunately, such discourse is also often that used by well-

meaning teachers who fail to realize that, since learners are not (yet) members of

that discourse community, using alien-sounding language to explain unknown

content makes learning a potentially “N-400 overloaded experience”.

However, the issue is not that education should avoid disciplinary discourse:

learners must be able to use disciplinary discourse properly to talk about and write

about disciplinary understanding. Disciplinary discourse must therefore be a

learning objective (Webb, 2010). The challenge for teaching is that, although this

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type of discourse is where learners must get to, this language is difficult to learn

from.

Research in Linguistics can help us define a few pragmatic steps for analysing

and editing disciplinary discourse so to render it more accessible to the learner

(Wellington & Osborne, 2001). For example, we can perform a lexical density

analysis of the aforementioned excerpt on the Heart by identifying the following

categories of words which may cause N400 (or other brain signals related to pro-

cessing difficulty):

words which are specific to the discipline (e.g. ventricle),

words which may have a common meaning but are used in discipline-

specific ways (e.g. chamber),

blocks of academic language which sound formal and stiff and do not

represent how we usually use our mother tongue in everyday

converstaion.

If we were to eliminate these words that could potentially evoke N400s and

leave only words which learners can readily comprehend if they are only starting

to learn about the heart, we would have the following text:

Excerpt 1B. Analyzed for lexical density. The human heart is a ______ that provides ______ through the ______ and is one of

the most ______ in the human body. The heart is divided into four main ______: the two

______ ______ are called the left and right ______ and two lower ______ are called the

right and left ______. The two ______ are the ______ and the two ______ are the ______.

Such an analysis clearly shows why such input could be an “N400-overload

experience” for a learner who is learning. If teachers, who are disciplinary ex-

perts, realize that the disciplinary discourse which is so familiar to them can seem

a foreign language for learners who are in the learning phase of the learning pro-

cess, then teachers can begin to modulate their language of instruction: language-

aware teachers realize that learners must learn not only an unknown Content, but

also an unfamiliar Language. This is the case even in our mother tongue. It is

therefore essential to equilibrate the cognitive demand7 caused by the simultane-

ous processing of both unknown Content and unfamiliar Language. As illustrated

in the left-hand image of figure 1, when learners are approaching a new topic,

Content is unknown so the content cognitive demand (CCD) is probably high. It

is therefore essential that the cognitive demand required by the language of in-

7 Readers interested in working memory and cognitive load should see Schnotz and K rschner,

2007.

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struction (LCD, Language Cognitive Demand) remains light, low LCD (Ting,

2012). The right-hand balance, on the other hand, represents moments when we

cultivate learners’ ability to produce and manage disciplinary discourse, i.e. aca-

demic and disciplinary literacy. In fact, education must ensure that learners are

not only able to speak about their scholastic learning but also write about their

knowledge using academically appropriate language which incorporates disci-

pline-specific lexis and discourse. Such literacy must be cultivated actively (Wel-

lington & Osborne, 2001) and probably by the discipline-expert: if a chemistry

teacher does not teach her students how to speak and write like a chemist, who

will? When cultivating students’ academic and disciplinary language skills, the

language cognitive demand is high because students must be able to produce and

manage disciplinary discourse which is lexically dense. Clearly, at this point of

the learning process, the learner must have already understood the Content, mak-

ing the content cognitive demand light (CDL): it is only then can we work on

“heavy language” and cultivate academic literacy.

Figure 1. Equilibrating between the cognitive demands caused by un-

known content and unfamiliar language (CCD: Content Cognitive Demand;

LCD: Language Cognitive Demand) (from Ting, 2012).

5. How CLIL-learning materials may reduce N400

As explained earlier, if an Italian science teacher does not have the linguistic re-

sources to do the traditional “teacher-fronted explaining” for 50 minutes in Eng-

lish, one way to respond to the Ministerial mandate to implement CLIL is to use

learning materials which prompt students to use English to complete tasks and

exercises and, in so doing, learn content. However, to date, most commercial

“CLIL learning materials” simply present students with reading comprehension

exercises: most of these are suitable for summarizing what must be learnt and are

thus only useful during the assessment phase of the learning process. The prob-

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lem is to offer material which supports learning during the learning phase of the

learning process: during the learning phase, we cannot assume that students are

knowledgeable and nor can we assume that they are so interested in the topic that

they will read long texts about the topic in a foreign language. Once the novelty

of reading in a foreign language wears off, long readings in any language is not

the best input to learn from.

Table 1 presents the first three of a set of 24 tasks which were designed to help

16-year-old students learn, within 140 minutes of learning time, about the anato-

my and physiology of the Human Heart to the content-depth specified by the L1-

science curriculum8.

Table 1. CLIL-learning activities on the Human Heart.

Step 1. In this exercise, learners must

simply decide which version of each ques-

tion-pairs is correct. To do this, learners

must only use their knowledge of elemen-

tary-level English grammar: the learner is

not required to pay explicit attention to

the Content. As shown below, since

learners are learning, the Content Cogni-

tive Load is heavy, so the explicit focus is

placed on familiar Language (dark grey):

we need to pay very little attention to un-

known content (very light grey).

Step 2 then provides learners with seven po-

tential answers for the five questions above.

8 Those interested in some of the other activities should refer to Grandinetti et al. (2013) and the

materials on the Cambridge English Teacher site (Ting, 2013).

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Step 3. The correct Q/A matches are shown

on the right. Since the QA-matching relies on

grammar, learners can automatically produce

the correct match. However, this is not be-

cause they know the Content but because they

are being asked to use their knowledge of lan-

guage, which is familiar.

In fact, when the Content is unknown, the

Content Cognitive Load is heavy: learners

learning cannot know what the upper cham-

bers are called. However, if the only grammat-

ically possible match to the question “What are

the upper chambers called” is “atrium…” then

learners automatically know what the upper

chambers are called:

A task using familiar grammar serves as a

scaffold for unfamiliar content.

Step 4 involves the correction of a text with a few minor Content mistakes.

In asking learners to cor-

rect a few very obvious

Content mistakes, we were

shifting our explicit focus

from Language onto Con-

tent. We are beginning to

consolidate content. This

Dino Sauro task is therefore

fairly balanced between

both C and L (upper grey

boxes).

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While the cognitive load

on the Q/A-match exercise

focused explicitly on famil-

iar English grammar with

only implicit attention to

Content information, as

shown in the lower boxes,

the exercise with Dino

prompts learners to begin

paying a little more explicit

attention to the Content in-

formation: the cognitive

load is therefore equilibrat-

ed between both the L and

C.

Until “Dino”, learners need not pay much attention to Content information be-

cause the exercises were about English grammar. However, although learners are

not paying explicit attention to Content information, they are being implicitly ex-

posed to the vocabulary, lexis and concepts regarding the Heart: learners are

therefore implicitly becoming increasingly more familiar with “the language of

the Heart”. As ERP recordings have shown, familiarity decreases N400. With-

out this “N400 barrier”, it becomes easier to gradually engage with content infor-

mation and process it at a deeper level. This was exactly what was required in

Step 5 during which learners must choose the diagram which best represents the

heart.

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Step 5. In this step, the

learners must “choose which

diagram correctly represents

the heart”. To do so, learners

must return to the previous

set of “language exercises”

but this time, rather than fo-

cus their attention on Lan-

guage, learners must now

process the information so to

“extract Content”.

The focus is therefore to-

tally on Content, as illustrat-

ed by the dark grey box on

the left.

Although this was not empirically measured, we can imagine that to choose the

correct diagram, it would be necessary to process terminology words into con-

cepts so that single isolated words such as “atria, ventricles, lower, upper, larger,

smaller” are processed into organized thoughts which support a mental image of

the heart that would lead the learner towards the correct answer (see image in fig-

ure 2). The transformation of terminology into concepts requires deep-level high-

er order thinking skills (HOTS). Table 2 illustrates how information regarding

the right heart was reformulated into CLIL learning activities.

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Figure 2. To choose a diagram

which best represents content

information, higher order

thining skills (HOTS) would be

needed to transformm single

terminology words into content

concepts and would most

probably involve the grouping

of words as illustrated in the

thought bubbles.

Table 2. Process for learning about the right heart

Learners used the information

on the right to complete a draw-

ing of a heart diagram similar to

that in Step 5.

The following image repre-

sents a power point slide which is

used to check that learners have

successfully interpreted and allo-

cated these eight pieces of infor-

mation.

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6. Attention to N400: Learning outcomes

Although the process of learning through CLIL is definitely slower than the

traditional “explaining” which would only take a paragraph to read or 3 minutes

to “explain”, this way of learning achieves a much deeper level of understanding:

figure 3 illustrates the final test questions which students are able to answer ca.

120 minutes into the 140 learning process.

Figure 3. Final test questions after the entire set of 24 Heart Activities which

evaluated students’ ability to use higher order thinking skills to transfer their

knowledge of heart anatomy and answer questions regarding heart functionality.

The final test questions clearly tests for a deep-level of understanding of the

anatomy of the heart. For example, to answer the first question, learners must not

only know where these two respective valves are, they must also have understood

whether the blood flowing through these is oxygenated or deoxygenated and thus

already understand where the blood is coming from and going to. The depth of

understanding that could be attained after 120 min of learning time illustrates that

it is not difficult to comprehend concepts if the concepts are presented through in-

teractive and active learning tasks that use comprehensible language.

Figure 4 presents an essay that was produced by a very weak students two

months after two lessons using these CLIL learning materials on the Heart. Three

things are particularly noteworthy. Firstly, this student who normally writes very

little, if at all, not only wrote as much as other students, but also showed a solid

understanding of the content covered through the CLIL materials. Granted the

logic in “the circulatory system is the transport of blood” is imprecise, as also

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what is exactly “all those substances” (tutti quei materiali) that the circulatory sys-

tem transports to and from cells and the fact that the aorta is not a vein but an ar-

tery (see student’s writing). However, note that this very weak student had opted

for “substances” rather than “stuff” (cose). Secondly, this student also added in-

formation about the Heart that were not included in the CLIL materials, such as

the fact that the heart is a “muscle” or that there is also an “inferior vena cava”.

This demonstrates that once this student understood enough about the core con-

cepts of Heart Anatomy, he was then motivated and able to study on his own and

complement concepts learnt in class with additional details found in the textbook.

Thirdly, and probably most interesting, was the fact that this student showed an

awareness of academic discourse, self-editing into his essay an introductory sen-

tence which he had initially neglected to include and then modifying his initial

writing so to incorporate the introductory sentence.

Figure 4. Learning outcome obtained from a very weak student two months

following two CLIL lessons on the Heart: total learning time of 140 minutes.

The students had first written “Il cuore è costituito da 4 camere mulscolari: a-

trio destro e atrio sinistro, ventricolo destro e ventricolo sinistro” before he deci-

ded to also include a topic sentence, “il sistema circolatorio è il trasporto di san-

gue ed è costituito dal”. He uses the arched line on the left to indicate that this

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topic sentence should come before “cuore”. However, as any good writer knows,

changing any part of a text requires a revision of the existent text: the student thus

added “che a sua volta” between “cuore” and “è costituito…” so that his final

self-edited sentence with the new additions indicted in square brackets read, “[The

circulatory system is the transport of blood and is comprised of] the heart [which,

in turn,] is comprised of 4 muscular chambers: right atrium and left atrium, right

ventricle and left ventricle”.

Therefore, through the design of CLIL learning materials that explicitly make

an effort to decrease potential sources of N400, even the weakest learners have no

problems learning and taking interest.

7. Conclusions: Part I

The formulation of thought, and thus knowledge and understanding, relies on lan-

guage. What is “electron, proton and neutron” if not language? All teachers are

language teachers (Wellington & Osborne, 2001). Teaching which is “brain

compatible” must therefore ensure that the language of instruction is compre-

hensible, even in our mother tongue (ibid). Since CLIL explicitly utilizes a for-

eign language, disciplinary teachers automatically become aware of the “foreign-

ness” disciplinary discourse, even in our mother tongue. Thus sensitized, good

teachers will naturally start to modulate their language of instruction and thus

probably attenuating N400. This alone renders education more brain-compatible.

The astute reader will have understood that, once a teacher is sensitized to the

need to render language comprehensible, it will not be long before she also con-

siders how to render content more comprehensible (Ting, 2011). This is exempli-

fied by the process by which macro learning objective of the “Human Heart” had

been deconstructed into smaller micro learning objectives which were then em-

bedded within comprehensible language. Few would deny that evolution has se-

lected for a learning brain. Therefore, when chewable aliquots of content are em-

bedded in comprehensible language, our brain will naturally learn. All of us who

have had good teachers realize that that is what they had done: presented infor-

mation in chewable chunks through comprehensible language. Neuroeducation is

therefore not about discovering tricks to good education: it is simply explaining

the neuroscience behind what good teachers have always done. “Attenuating

N400” offers a concrete motto towards good classroom practice.

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106

Learning Learning ScientificaMente through

CLIL: Part II – the teacher

Margherita Langellotti1 e Y. L. Teresa Ting

2

1 Science, Liceo Scientifico 'Galileo Galilei' Paola (CS);

2 Faculty di Scienze e Dipartimento di Linguistica, Università della Calabria, Italia

E-mail: [email protected]

Riassunto. Pochi negherebbero che il cervello che abbiamo, l'organo

strutturato in maniera mirabile per l’apprendimento, frutto di una

plurimillenaria evoluzione, ha consentito la sopravvivenza e la

conservazione della specie. Esistono, quindi, dei processi cerebrali

“automatici” che ci permettono di monitorare, controllare ed interpretare

ciò che ci circonda. Non ci dovrebbe stupire quindi, che esiste un segnale

cerebrale che è particolarmente “sensibile” agli input incomprensibili: il

segnale è chiamato “N400”. Nell’articolo precedente (Part I), è stata

presentata brevemente la ricerca sull'N400, che ci fa capire l’importanza di

modulare il linguaggio dell'istruzione in modo che sia facilmente

comprensibile; infatti, se un nuovo argomento scientifico viene spiegato

nel linguaggio usato tradizionalmente dai docenti, e di conseguenza ricco

di termini sconosciuti o poco noti ai discenti, come potremmo pretendere

attenzione ed entusiasmo da parte degli stessi?. L’articolo precedente ha

delineato alcune procedure per ridurre il segnale N400, modulando il

“linguaggio della disciplina”. Ciò, però, comporta un altro problema: anche

se non si impara bene dal linguaggio della disciplina, gli studenti comunque

devono imparare a utilizzare il linguaggio della disciplina, parlare di fisica,

di matematica, di economia ecc. con un linguaggio appropriato: disciplinary

literacy. In questo articolo dimostreremo come, controllando che gli input

di N400 siano minimi o preferibilmente nulli, possiamo anche sviluppare,

in modo attivo, l’alfabetizzazione: rispondere velocemente agli input

incomprensibili è necessario per la sopravvivenza della specie, ma scrivere

bene è altrettanto necessario per crescere dal punto di vista professionale.

Inoltre, presentiamo anche l’avanzamento professionale di un insegnante

che, una volta cosciente della esistenza dell’N400, ha cambiato il suo modo

di “fare lezione”: se il cervello ha la forma di una margherita, inutile

insistere col voler inserire in esso un cubo.

Abstract. Few would deny that the brain we have is the perfect organ for

learning, selected by evolution for learning quickly so to support species

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survival. There are therefore several automatic cerebral processes that

allow us to monitor and interpret that which surrounds us. We should not

be surprised, therefore, that there is a cerebral signal that is particularly

alert to incomprehensible input: this is called the N400. In the previous

article (Part I), a summary of neuroscience research on the N400 was

presented which clearly emphasize the importance of rendering the

language of instruction comprehensible: if an unknown science topic is

explained through a language which is full of unknown terminology, how

can students follow enthusiastically? The previous article delineated some

procedures for reducing the N400 by modulating “disciplinary discourse”.

This however, brings us to another problem: although it is difficult to learn

from disciplinary discourse, students must nonetheless be able to produce

disciplinary discourse, speak about physics, maths, economics etc. using the

appropriate language of the discipline: disciplinary literacy. In this article,

we demonstrate1 how attention to N400 also helps teachers cultivate

literacy, actively: responding quickly to incomprehensible input is

necessary for species survival. But writing well is necessary for

professional advancement. In addition, we present the professional

advancement of a teacher who, once aware of the existence of N400, has

changed her way of teaching: if the brain is shaped like a daisy, it is useless

to insert cubes.

1. Introduzione

Come appare chiaro dall’articolo precedente “Learning scientifica-mente through

CLIL: Part 1 – the learner”, l'insegnante CLIL, consapevole di come avviene il

processo di apprendimento nell'allievo, diventa automaticamente più cosciente del

fatto che insegnare una disciplina scientifica abbia molte affinità metodologiche

con l'insegnamento della lingua straniera. Con questa consapevolezza, egli pone

più attenzione all'uso del linguaggio, adeguandolo alle capacità ricettive degli al-

lievi, cercando di renderlo più comprensibile e valutandone le reali difficoltà sia

terminologiche che sintattiche. Con un'efficace espressione lo rende “brain-

compatible”. Questo nuovo linguaggio scientifico, come una nuova lingua stranie-

ra, ha bisogno di essere appreso secondo strategie e metodi ben precisi, a cui

CLIL sembra rispondere pienamente. Nel primo articolo è stato esplicitato con

chiarezza che l'effetto sul cervello di input poco comprensibili genera emissioni di

1 Poiché la ricerca è il frutto dell’intensa collaborazione tra i due autori, i nomi sono elen-

cati in ordine alfabetico. Per trasparenza accademica, si precisa che Langellotti ha ela-

borato le sezioni 3 e 4.1 e ha curato la traduzione dall’Inglese mentre Ting ha elaborato

le altre sezioni e sviluppato i materiali CLIL presentati in questo articolo.

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vari segnali fra cui l' “N400”, che è la risposta cerebrale alle incongruenze seman-

tiche verbali o numeriche. Per cui possiamo dedurre che ad ogni emissione di

N400 corrisponde un input incomprensibile. Questi preziosi dati proventi dalla ri-

cerca neuroscientifica inducono a pensare che i risultati dell'istruzione nel campo

delle scienze potrebbero essere così deludenti perché il linguaggio dell'istruzione

non è facilmente compreso dagli studenti che, essendo allievi (learner), non pos-

seggono alcuna padronanza del linguaggio scientifico che si accingono ad impara-

re, che risulta, già di per sé, una lingua a loro sconosciuta, anche se veicolata nella

lingua madre.

La sfida è quindi quella di trovare modalità per rendere il linguaggio del docen-

te più comprensibile, non solo per i primi 5 minuti della lezione, ma per l’intera

durata del corso. Perché è proprio compito dell'insegnamento fornire non solo

nuove conoscenze e competenze, ma anche fornire ai discenti il linguaggio speci-

fico, idoneo a esprimerle efficacemente. Infatti, pochi negherebbero che l'istru-

zione del 21° secolo, così com'è strutturata, prepari in maniera non adeguata i fu-

turi cittadini ad affrontare la moderna società globalizzata, multilingue e

multiculturale dove il progresso scientifico e soprattutto quello tecnologico si e-

volvono incessantemente. I risultati deludenti, riguardo le competenze scientifi-

che dei giovani su tutto il territorio italiano, hanno portato gli educatori a indivi-

duare nuovi obiettivi di apprendimento per mirare ad una formazione che

sviluppi competenze adeguate a questo nuovo mondo, come quelle di saper lavo-

rare in gruppo, attraverso l'apprendimento cooperativo, che sviluppa altresì capa-

cità di saper esprimere le proprie opinioni, sapendo argomentare in maniera con-

vincente per affermare le proprie idee. Ed ancora, l'istruzione dovrebbe

sviluppare competenze linguistiche sia per padroneggiare la propria lingua madre,

sia per comunicare in almeno una lingua straniera per interagire con gli altri popo-

li di questo grande “villaggio globale”. Le competenze linguistiche, per garantire

un’efficace comunicazione, non possono prescindere dall’uso corretto e dalla co-

noscenze delle lingue senza che l’enorme quantità di informazione sulla rete con

la velocità con cui si diffonde ci riduca a vittime di un “uso improprio del lin-

guaggio” (Fairclough, 1991), quale quello che sembra ormai dilagare fra i giova-

ni.

Di fronte a un tale pericolo, solo un sistema d'istruzione che usi mezzi concreti

ed adeguati può fare in modo che tutto questo non avvenga e che, anzi, porti ad un

reale rinnovamento del sistema formativo tale da rendere i nuovi cittadini capaci

di selezionare e filtrare informazioni, sapendone riconoscere la validità dal lin-

guaggio utilizzato. Purtroppo, nonostante i numerosi anni spesi a leggere testi ben

scritti, e sentire spiegazioni di esperti, come i loro insegnanti, questo modello d'i-

struzione non garantisce a tutti gli studenti lo sviluppo delle competenze e delle

capacità necessarie per trattare la disciplina in modo accademicamente corretto.

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Ma come potrebbero gli studenti esprimere la loro conoscenza della chimica, della

fisica o della matematica se non abbiamo insegnato loro come utilizzare corret-

tamente il linguaggio della chimica, fisica o matematica? La sfida è quindi ancora

più complessa, poiché il linguaggio della disciplina non è fonte di apprendimento

in sé, ma la sua acquisizione è comunque punto di arrivo per gli studenti. Per cui

usare un linguaggio comprensibile significa ridurre al minimo i segnali di N400

emessi dal cervello, quindi significa tout court facilitare il loro apprendimento.

Ma come può l'insegnante far sviluppare il linguaggio accademico se egli stesso

non lo utilizza nell'insegnamento? Sembrerà strano ma questo obiettivo lo si può

raggiungere con l'uso della lingua straniera, utilizzando la metodologia CLIL. In-

fatti tale metodologia ci porta a delineare in modo molto esplicito le modalità con

le quali sviluppare l'alfabetizzazione, literacy. Così, utilizzando la lingua stranie-

ra gli studenti impareranno i contenuti, ed è quindi ovvio che insieme al contenuto

gli studenti saranno in grado di imparare a parlare e a scrivere in modo accademi-

co sui contenuti appresi.

CLIL, quindi, porta l’alfabetizzazione al centro del curriculum scolastico, ob-

bligandoci a creare modi per coltivare il linguaggio accademico, sebbene lo stesso

non sia utilizzato per “istruire”. In questa sezione 2 dell'articolo, mostriamo dei

materiali didattici CLIL che sviluppano esplicitamente l’alfabetizzazione, attra-

verso i processi che minimizzano il segnale N400. Nel proporre qualsiasi attività,

che potrebbe migliorare la “classroom practice”, è necessario capire se gli inse-

gnanti, raccogliendo i principi che stanno alla base di questo diverso modo d'inse-

gnare, riescono poi ad applicarli correttamente nei diversi percorsi di studio.

Quindi, nella terza sezione, presentiamo le riflessione di un'insegnante, qual è la

coautrice di questo contributo Margherita Langellotti, che descriverà quali sono

stati i momenti cruciali del suo lungo insegnamento, 22 anni di servizio presso un

liceo scientifico, che l'hanno spinta a rivedere il suo modo di insegnare e l'hanno

condotta sulla via del cambiamento sia nei riguardi dei materiali prodotti da pro-

porre ai propri studenti, sia nel ruolo da lei rivestito durante le attività svolte in

classe.

2. Coltivando l’alfabetizzazione disciplinare con CLIL

2.1. Rallentando il processo senza semplificare il contenuto

Qui di seguito si illustrano le fasi di un'attività CLIL pensata per ragazzi italiani di

12 anni, di cui il lettore può vedere la struttura nella copia presente in appendice.

L'attività prevede l'attuazione di un esperimento a cui lo studente arriva attraverso

lo svolgimento di una serie di esercizi in lingua inglese che implicano l'uso di

abilità linguistiche di base come: lettura e scrittura. E’ interessante notare come

la metodologia CLIL sviluppi le fasi in maniera completamente diversa dalla tra-

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dizionale lezione frontale. Infatti, è solito presentare l'esperimento preceduto da

una spiegazione da parte del docente, sui meccanismi che stanno alla base del fe-

nomeno che si va ad analizzare e poi si procede con attività di scrittura, senza for-

nire agli studenti alcuna indicazione sul linguaggio da utilizzare. Invece,

nell’attività CLIL qui presentata, i ragazzi cominciano a lavorare svolgendo, in

lingua inglese, i primi tre esercizi proposti dal testo, e solo dopo cominceranno ad

eseguire l'esperimento.

Questa procedura sicuramente favorisce e rafforza la motivazione. L'attesa del-

la messa in opera dell'esperimento, creerà, infatti, aspettative e curiosità, mettendo

gli allievi nella situazione ottimale per ricevere tutte le informazioni veicolate dal-

la lingua straniera e portandoli a potenziare la loro capacità di osservare le fasi

dell'esperimento. L'attività pratica si basa sulle caramelle M&M e si prefigge i

seguenti obiettivi di apprendimento:

1. Apprendere il concetto di dissoluzione;

2. Verificare come l'acqua sia un potente solvente;

3. Imparare a scrivere una relazione di laboratorio;

4. Usare un linguaggio appropriato per spiegare i meccanismi di

dissoluzione;

L'esercizio 1a impegna gli studenti con un lavoro sulla lingua inglese: infatti

essi devono ricostruire frasi spezzate, applicando le loro conoscenze grammaticali

e linguistiche, indipendentemente dal contenuto scientifico implicito. Mentre il

successivo esercizio 1b chiede loro di assegnare le risposte, di seguito riportate,

alle domande dell’esercizio precedente. Entrambi gli esercizi richiedono solo

competenze grammaticali e lessicali, senza alcuna richiesta sulla conoscenza dei

contenuti scientifici impliciti oggetto del nostro studio e cioè le informazioni rela-

tive alla composizione delle caramelle M&M.

L'esercizio 2 è un esercizio che richiede l'uso della scrittura esplicita e obbliga

gli studenti a trascrivere le domande e le risposte da loro associate in un immagi-

nario dialogo a fumetti. I sotto-obiettivi di questa attività sono essenzialmente du-

e:

• Scrivere in maniera ortograficamente e sintatticamente corretta;

(non è raro, infatti, trovare studenti nell'università italiana che fanno di

questi errori, come confondere whit, “pentecoste”, sostantivo, con with,

“con”, congiunzione, pur avendo studiato almeno 10 anni di L2 dalle scuole

medie alle superiori).

• Fare attenzione alle indicazioni relative al contenuto e appropriarsi della

terminologia specifica.

(Anche se in questo caso i contenuti si riferiscono ad una semplice cara-

mella di M&M, gli studenti devono comunque imparare nuova terminologia

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come ad esempio: arachidi, strato, dissoluzione, coloranti etc.).

Ricostruire il dialogo guidato dall'uso della lingua straniera, obbliga gli studen-

ti a rivisitare sia la nuova terminologia che le nuove informazioni nel loro com-

plesso.

L'esercizio 3 sensibilizza gli allievi sull'importanza della correttezza sintattica e

sul rigore logico-argomentativo, facendo cogliere loro che quando si è nei panni

di un lettore, c'è bisogno che la comunicazione sia chiara e logicamente connessa

vedi 3a, questo è possibile solo con l'uso dei connettori logici o “dispositivi di

collegamento” come in 3b. Tuttavia rispetto agli esercizi 1 e 2, in cui viene usato

un linguaggio informale, l'esercizio 3 utilizza un linguaggio più consapevole, più

tecnico e accademico; esso muove dalla lingua utilizzata, che Cummins (1984)

chiama BICS (Basic Interpersonal Communication Skills) verso CALP (Cogniti-

ve Academic Language Proficiency), e cioè prevede il passaggio da un linguaggio

di base informale a un linguaggio accademico e consapevole.

Arrivati a questo punto, gli studenti hanno avuto informazioni riguardo la lin-

gua e tutto ciò che serve loro per poter svolgere l'esperimento. Infatti, utilizzando

questa metodologia, si trovano a dovere processare, riprocessare e rigenerare lin-

guaggi di diverso genere attraverso le attività di scrittura che gli esercizi richiedo-

no, per cui avranno sicuramente acquisito più informazioni rispetto a quante ne

avrebbero avute con la semplice lettura dei “Materiali e Metodi” che si ritrovano

sul loro libro di testo quando devono eseguire un'esperienza. Inoltre l'esercizio 4

consente che gli studenti possano, essi stessi, dare un ordine logico alle fasi dell'e-

sperimento che andranno ad eseguire, senza che l'insegnante debba intervenire.

Anche da questa fase si può comprendere come CLIL cambi le dinamiche tradi-

zionali e quindi i ruoli: l'allievo diventa il protagonista del suo stesso apprendi-

mento, e questo protagonismo lo aiuta ad avere fiducia in sé, perché lo pone nella

situazione di saper usare il linguaggio corretto che ha appena appreso. L'esercizio

5 prevede la visione di un filmato senza audio, molto efficace per rappresentare il

processo di dissoluzione di un soluto in acqua. Infatti, nel filmato, si vede con

chiarezza che sono le molecole dell'acqua che determinano l'intero processo,

svolgendo un ruolo attivo nella demolizione dell'impalcatura del soluto, per cui il

ragazzo rafforza i concetti appena appresi con una rappresentazione visiva riguar-

do ciò che avviene a livello molecolare. Utilizzare anche la rappresentazione vi-

siva, infatti, aiuta lo studente a rafforzare l'avvenuta comprensione di quei signifi-

cati che solo “visivamente” riusciamo a cogliere in pieno e che le sole parole o

qualunque altro tipo di comunicazione non possono mostrare con altrettanta im-

mediatezza, di conseguenza si riesce a togliere ogni dubbio e ogni possibilità di

incorrere in errori concettuali, che sono difficili da smantellare una volta creati, se

non immediatamente riconosciuti e rimossi.

A questo punto, l'esercizio successivo consente agli studenti non solo di ri-

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pensare su tutto ciò che hanno osservato, ma, fornisce loro il linguaggio accade-

mico con il quale esprimersi nel raccontare la loro esperienza. Questo lo realizza-

no con l'esercizio 6 in cui bisogna completare una relazione già correttamente

espressa. Infine, con l'esercizio 6b si chiede loro di scegliere la migliore frase, tra

cinque proposte, che possa essere, sia dal punto di vista concettuale che dal punto

di vista linguistico perfetta per concludere la relazione dell'esperimento effettua-

to. Proporre cinque plausibili conclusioni, differenti solo per il linguaggio utiliz-

zato, è un modo molto efficace perché gli studenti possano mettere la giusta at-

tenzione su come si deve esprimere un concetto scientifico. Il linguaggio

scientifico ha delle proprie regole che non possono essere disattese, esso deve es-

sere rigoroso e chiaro per poter esprimere un concetto in modo corretto, evitando

il più possibile fraintendimenti. Infatti, facilmente, discutendo fra di loro, gli stu-

denti riescono a riconoscere l'opzione più efficace, la D, e allo stesso tempo rico-

noscono il linguaggio informale e impreciso nell’opzione A, quello che esprime il

concetto errato in B e comprendono che le opzioni C e E sono decisamente ridon-

danti. Questo semplice passo contribuisce, così, a migliorare la loro capacità di

scrivere di scienza perché fornisce loro gli esempi più efficaci e tangibili su come

usare le parole in questi contesti.

E' importante sottolineare che l'attività con M&M era stata sviluppata dall'A-

merican Chemical Society in un contesto di apprendimento di scienza in madre

lingua, con lo scopo di portare una esperienza “hands-on” a “minds-on” attraverso

un esercizio a risposta aperta, in cui lo studente doveva annotare le osservazioni,

senza, però avergli fornito precedentemente alcun linguaggio necessario per e-

sprimere il suo pensiero su ciò che aveva osservato. Con la versione dell'esperi-

mento in CLIL, quindi con l'uso di una lingua straniera, l'attività è invece basata

proprio sul linguaggio e lo studente, per procedere, deve svolgere una serie di e-

sercizi processando e riprocessando sia la struttura che la sintassi linguistica, ed

allo stesso tempo deve guardare anche ai significati da essa veicolati, quindi deve

riflettere sui concetti. Solo attraverso questo lavoro, lo studente arriva a generare

un linguaggio adeguato al contesto in cui si sta muovendo e a porre attenzione sui

termini da usare per descrivere correttamente l’esperimento, non lasciando spazio

a dubbi e ad errori di interpretazione.

CLIL quindi trasforma gli esperimenti sull'attività delle M&M dal fare al capi-

re, 'hands-on to minds-on'. Mentre nelle aule tradizionali l'apprendimento do-

vrebbe avvenire con la sola lettura e l'ascolto, CLIL, utilizza tutte le abilità lingui-

stiche che comprendono anche la capacità di parlare e di scrivere in modo tale che

le esperienze pratiche diventino conoscenza consapevole (Pearson et al.,, 2010).

2.2. Coltivando il linguaggio accademico attivamente attraverso input com-

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prensibili

I seguenti esercizi dimostrano come il CLIL ci permette di coltivare il linguaggio

accademico pur “non utilizzandolo” per l’insegnamento. L'esercizio qui di segui-

to riportato è preceduto da tasks che consentono agli studenti di apprendere che

gli elettroni subiscono due forze che ne determinano la loro distribuzione intorno

al nucleo: la forza repulsiva fra elettroni e la forza attrattiva fra gli elettroni e i

protoni del nucleo (schematizzata con il segno (+) al centro del disegno). Nell'e-

sempio si vede chiaramente come si possa strutturare un esercizio in modo che gli

studenti possano soffermarsi e riflettere sul linguaggio senza che tale linguaggio

diventi una barriera alla comprensione: cioè attenuando N400 attraverso la conte-

stualizzazione, la familiarità e la ripetizione. Nell'esercizio 4 (figura 1) viene chie-

sto loro di scegliere la frase che esprime nel modo migliore il concetto appena ap-

preso attraverso gli esercizi precedenti che riguardano il modulo sulla “Tabella

periodica”.

Figura 1. La figura riporta un'attività-CLIL relativa al modulo sulla tabella periodica,

che è funzionale allo sviluppo del linguaggio chimico

L'esercizio offre quattro plausibili modi per spiegare lo stesso concetto. Gli

studenti, in questo caso, devono tener conto che il testo esprima con un linguag-

gio scientificamente corretto sia il concetto di come sono distribuite le cariche

positive e negative nell'atomo raffigurato a forma di nuvola, sia, anche, come le

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forze repulsive esercitate fra le cariche negative determinino una distribuzione

omogenea della nube elettronica. Bisogna dire che i ragazzi, di solito, individuano

subito la frase migliore, per cui l'operazione sulla lingua richiede solo la lettura e

la comprensione dei testi presentati, sollecitandoli poco sulla riflessione del lin-

guaggio utilizzato. Con l’esercizio successivo (figura 2) si chiede agli studenti di

dare una spiegazione del perché i tre riassunti dell'esercizio 4a non erano “ben

scritti”.

Figura 2. Attività successiva a quella riportata in fig.1 che ha lo scopo di rafforzare

e completare il processo di acquisizione del linguaggio avviato nella prima parte.

Questo esercizio obbliga gli studenti a riguardare con più attenzione le frasi già

lette, per cui l'operazione da fare sui testi richiede ora una più attenta lettura ed

ognuno di loro ora è chiamato a dover riprocessare il linguaggio più volte. Que-

sto li porta, inoltre, a discutere fra loro sul significato dei termini e sui costrutti u-

tilizzati. Per esempio, gli studente dovranno rendersi conto come la frase: ... that

there are lots of electrons flying around the nucleus..... sia un modo di usare il

linguaggio molto informale e ridondante e l'uso dei termini come “lots “ e

“flying” risultano impropri in questo contesto, poi, analizzando la 3 dovranno e-

videnziare che il linguaggio utilizzato nella frase: “The protons in the nucleus at-

tract the electrons but the electrons repel each other. “ è un linguaggio povero e

colloquiale che non mette in rilievo le forze in gioco e quindi non può essere e-

saustivo del concetto che si vuole veicolare. Così l'attenzione si porrà sulle frasi

dell'opzione 2 e 4. Dall'analisi, gli studenti dovranno evidenziare che entrambe

sono corrette, ma solo nella 2 si parla di equilibrio fra forze attrattive e forze re-

pulsive associate alle cariche possedute dalle particelle atomiche, cosa non espli-

citata nella 4, che è più diretta e sintetica, ma questa risulta un'informazione im-

portante perché si possa configurare nella mente dei ragazzi che sono le due forze

che danno all'elettrone l'energia necessaria per organizzarsi attorno al nucleo sen-

za cadere su di esso.

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E’ da notare che anche nel leggere e rileggere le spiegazioni per analizzare il

linguaggio, gli studenti entrano a contatto con i concetti scientifici espressi in lin-

gua inglese. Questa "implicita esposizione” al contenuto, mentre si lavora esplici-

tamente sul linguaggio, utilizza la capacità di cervello di apprendere implicita-

mente i concetti mentre processa l’informazione attivamente. Dal punto di visto

dello sviluppo dell'alfabetizzazione accademica, questo modo di procedere sull'a-

nalisi della lingua diventa ancora più efficace per il fatto che gli studenti devono

lavorare insieme per scrivere le motivazioni che li hanno portati ad escludere al-

cune affermazioni piuttosto che altre. Così alla lettura e comprensione del testo si

unisce l'abilità di scrittura, operazione determinante perché il ragazzo possa con-

solidare in maniera cognitiva la sua analisi. Il processare e riprocessare informa-

zioni genera l'apprendimento sia dei nuovi termini scientifici, sia del concetto

scientifico veicolato, sia delle conoscenze strettamente linguistiche. Dal punto di

vista dell'apprendimento, come si vede bene nell'esempio riportato, gli studenti

lavorano sui contenuti e sulla lingua in un ambiente confortevole. Infatti, sia la

lingua utilizzata sia il contento sono adeguati alle loro conoscenze, questo perché

i termini e i concetti trattati sono già sviluppati negli esercizi precedenti. Tutto il

lavoro procede processando e riprocessando le stesse informazioni, determinando

il raggiungimento dell'obiettivo sperato.

3. Riflessioni sulla trasformazione dello stile d’insegnamento: da prepara-

to trasmettitore di informazioni a coach di competenze.

3.1 La sperimentazione per il cambiamento

Da più di 20 anni insegno scienze naturali, chimica e geografia a giovani ragazzi

che dovranno proiettarsi nel contesto lavorativo del 21° secolo, ma mi sono sem-

pre chiesta: “Con quali risultati?”; “Il mio insegnamento li ha resi capaci di af-

frontare le sfide di questo secolo?, hanno cioè acquisito le competenze chiavi ri-

chieste per individuare e quindi risolvere problemi reali?”; “Sono in grado di

contribuire al frenetico cambiamento che di ora in ora avviene nei vari sistemi

complessi di questo mondo e che pongono loro tutte le gravi questioni che oggi ci

troviamo, nostro malgrado, ad affrontare?”; “Si sono saputi confrontare con gli al-

tri sapendo argomentare e affermare le proprie idee?”; “Sono stati in grado di di-

scernere tra le informazioni provenienti da sorgenti accreditate e corrette dalla

marea d' informazioni che invade ogni settore presente sul web, sede dei loro in-

contri virtuali e sede di fonte da cui reperire dati per ogni cosa che si ha la neces-

sità di sapere?”. Tutte queste domande per me rimangono senza risposta! Sì, io

non sono in grado di rispondere, perché se si esclude una piccola percentuale di

allievi che sono stati sempre meritevoli e studiosi, tutti gli altri, la maggioranza,

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dal mondo della scuola superiore sono stati proiettati nel mondo universitario o

lavorativo ancora con gravi lacune e grandi difficoltà linguistiche, con poche

competenze realmente spendibili, a causa, penso oggi, anche del mio modo d'in-

segnare, ma forse, più correttamente, dal modo in cui io sono stata formata a in-

segnare! (Ligorio, 2006).

Il grave momento che oggi l'istruzione, e soprattutto quella di tipo scientifica,

sta vivendo, è mostrato dai risultati riportati nel terzo ciclo di indagine condotte di

PISA 2006 (Programme for International Student Assessment) con la collabora-

zione dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE),

svolte sui quindicenni scolarizzati di 57 paesi in tutto il mondo, nelle diverse aree

di studio sulle competenze scientifiche, in particolare: la comprensione della lettu-

ra, della matematica e della scienza: scientific literacy. Con questo termine ci si

riferisce non soltanto al possesso di specifiche conoscenze scientifiche, ma anche

alla capacità di utilizzarle in modo funzionale in contesti di vita reale. L'indagine

ha mostrato, nei risultati, come, queste competenze siano poche e fragili, soprat-

tutto quando lo studente è chiamato a risolvere semplici casi calati nel mondo rea-

le (OCSE PISA 2006). Naturalmente il fallimento è di intere generazioni di for-

matori, che si possono individuare in tutta l'Europa non solo in Italia, che però si

colloca nei posti più bassi delle classifiche OCSE.

Mi sono sempre sentita parte di un sistema che non mostrava nessuna volontà

di cambiare, anche se, più gli anni passavano più si constatava l'ignoranza, la su-

perficialità delle conoscenze e soprattutto la scarsa motivazione degli studenti.

Fare scuola in maniera tradizionale, anche per i docenti più bravi e motivati,

oggi è diventato un grande problema, alcune volte un incubo, nelle classi di ogni

tipo di scuola, per il dover constatare la scarsa e passiva partecipazione da parte

della maggior parte degli alunni: esperienza frustrante durante quei brevi 60 mi-

nuti di lezione! Una volta, poteva sembrare appagante per il docente, che rivestiva

un ruolo socialmente riconosciuto, autoincensarsi per le magnifiche lezioni rece-

pite da una esigua minoranza di studenti, che la maggioranza subiva come uno

spropositato soliloquio espresso con un linguaggio incomprensibile, e ciò contri-

buiva a far sentire i più inadeguati a partecipare a un consesso di così alta cultura!

Ieri tutto ciò era possibile, perché il docente non era chiamato a rispondere del-

la preparazione di ogni singolo allievo, ma oggi le pressanti richieste di compe-

tenze qualificate provenienti dal mondo del lavoro, a livello europeo, chiamano

direttamente in causa il docente e l'intero sistema formativo, compresa la stessa

Università, che, per assicurarsi fondi di ricerca, posti di docenza e quant'altro,

consegna diplomi di laurea a masse di studenti con preparazioni poco adeguate a

queste nuove esigenze.

Questo desolante scenario mi ha spinto a studiare le cause del “fallimento”

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dell’istruzione. E’ fin troppo evidente che i ragazzi di oggi siano sicuramente più

evoluti e dotati delle generazioni precedenti; questo nostro mondo fornisce loro

tutta una serie di strumenti tecnologici che imparano ad usare con una velocità

impressionante, che permette loro di soddisfare ogni curiosità e ogni bisogno

di carattere puramente pratico o esistenziale. Per cui, giustamente, non si capisce

perché i nostri alunni dovrebbero restare seduti per ore su una sedia, passivi, ad

ascoltare un docente che con il suo linguaggio riempie le loro menti con una serie

di informazioni di cui non capiscono il significato e soprattutto l'utilità. La tecno-

logia informatica oggi forse è la prima causa del loro disinteresse! La scuola è

stata sempre più lenta ad uniformarsi con quello che è il loro mondo, al villaggio

virtuale dove i ragazzi si incontrano, socializzano e dove imparano ciò che vo-

gliono imparare.

Come può, allora, l’ insegnamento arrivare alle loro menti senza il loro esplici-

to consenso, come coinvolgerli nel processo insegnamento-apprendimento in ma-

niera indolore, in un ambiente ideale di reciproca collaborazione? Per cercare di

risolvere questo dilemma mi sono trovata a sperimentare nuove strade, sollecitata

da una serie di studi effettuati grazie a diversi seminari seguiti e da ricerche per-

sonali sulla pedagogia costruttivista, che fornisce metodi e modi nuovi d'inter-

pretare il ruolo del docente nei riguardi dello studente che diventa l'attore princi-

pale del proprio apprendimento, infatti la conoscenza viene costruita dal discente

e non trasmessa e immagazzinata, questo metodo impone un discente attivo che

costruisce le proprie rappresentazioni confrontandosi con i suoi pari o interagendo

con i materiali forniti ed infine l'ambiente in cui interagisce deve consentirne e fa-

vorirne il processo (Roux, 2004). Ho quindi, modificato il mio insegnamento ri-

ducendo la parte che riguardava la lezione frontale a comunicazioni sui principi e

regole che stanno alla base di ogni modulo affrontato, di cui fornivo però ancora,

soluzioni e procedure, come ero abituata a fare, ed in seguito davo loro la possibi-

lità di lavorare in gruppo per sviluppare modelli e mappe cognitive sugli argo-

menti trattati, utilizzando fonti di cui conoscevo il reale valore scientifico.

Inoltre, percepivo che la conoscenza della lingua straniera dovesse, in qualche

modo, essere insegnata in modo differente, perché cosciente della sua importanza

nella formazione globale degli studenti. Infatti, organizzavo annualmente incontri

con studenti di altre realtà europee, dove i ragazzi che si preparavano su argo-

menti scientifici relativi a un tema proposto, si potevano confrontare sia sul piano

scientifico, che sul piano comunicativo, utilizzando la lingua inglese.

E’ così che mi sono trovata a partecipare ad un convegno dove si sarebbe parla-

to di metodologia CLIL, il nuovo metodo che doveva aiutare gli insegnanti di una

disciplina non linguistica ad insegnare in lingua inglese (o almeno così l'avevo

interpretato) nelle ultime classi delle scuole superiori, come la nuova riforma pre-

vede. La relazione della dottoressa Ting, e, soprattutto, la dimostrazione in aula

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del metodo, ha spazzato via dalla mia mente ogni dubbio su quale fosse la strada

del cambiamento; ho capito che in quell'aula, nostro malgrado, avevamo lavorato

per un'ora su argomenti scientifici veicolati dalla lingua inglese, senza che nessu-

no di noi si sentisse a disagio. Ella aveva coinvolto le nostre menti in modo che

lavorando sulla lingua, naturalmente alla portata delle nostre conoscenze di base,

avevamo trattato implicitamente argomenti ben più consistenti, come l'anatomia

dei neuroni, le congiunzioni sinaptiche e il processo di trasmissione dei messaggi.

Tutto questo senza che lei parlasse in lingua inglese e senza che lei intervenisse in

alcun modo durante il nostro lavoro. Per cui tutte le risposte che cercavo le avevo

trovate ritornando, ancora una volta, fra i banchi di scuola. Ma come ora passare

dal ruolo di studente a quello di docente riuscendo ad essere in grado di costruire

attività tanto efficaci come quella dell'esperienza effettuata in aula da una vera e-

sperta? Da dove bisognava partire? Dovevo cominciare a pensare al modo in cui

apprende il cervello e quali sono le cose che favoriscono il processo di apprendi-

mento.

Nella prima parte di questo articolo vengono riportati i risultati delle ultime in-

teressanti ricerche nel campo delle neuroscienze sulle risposte cerebrali ai diversi

stimoli inviati al cervello. I dati rilevati sono sorprendenti, perché spiegano che,

se le informazioni che inviamo al cervello sono semanticamente incongruenti co-

me: “a pranzo mangerò pane e cemento” o incomprensibili - come un'informazio-

ne che presenta una grande quantità di termini sconosciuti, che per uno studente

del primo anno di scienze può essere: ” Un solvente polare scioglie solo sostanze

polari” -, il cervello risponde inviando vari segnali tra cui l'”N400” che segnala

incomprensione. L'”N400” quindi è quella “scarica elettrica” che ci informa che

la comprensione, e quindi l'apprendimento, non può avvenire. Alla luce di questi

studi, mi sono posta il problema di come preparare lezioni in modo tale che i ra-

gazzi potessero comprendere ogni passo del percorso da me tracciato, cercando di

mantere al minimo i segnali negativi di '”N400”. Come spiegato nella parte I

dell'articolo, più basso è l'N400 più il ragazzo riesce ad apprendere; l'apprendi-

mento, può sembrare strano, ma viene favorito se il veicolo delle informazioni è

una lingua straniera. Tutto ciò mi sembrava così nuovo e affascinante che mi pa-

reva di non riconoscere più il mio ruolo, la mia figura professionale.

Con questa mia nuova consapevolezza era tutto un po' più chiaro, anche il

campo d'azione in cui mi sarei dovuta muovere; però, mi rendevo conto, che il

mio livello di conoscenza dell'inglese doveva necessariamente essere portato ad

un livello superiore, tale da permettermi una certa autonomia di gestione nel co-

struire lezioni e nel gestire il lavoro in classe. Dovevo essere in grado di capire i

ragazzi e guidarli verso un reale e consapevole apprendimento sia del contenuto

che della lingua, cercando di forzarmi nel non intervenire continuamente se vede-

vo gli alunni di fronte alla più piccola difficoltà. Loro erano i protagonisti della

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loro formazione ed io dovevo creare le situazioni favorevoli perché questa loro

crescita avvenisse con le più basse possibilità di fallimento. Dovevo assecondare

il loro modo di apprendere, conoscendo quali fossero le inibizioni e gli ostacoli

che lo potevano impedire.

Comincia così la mia prima sperimentazione del metodo, al mio fianco la dot-

toressa Ting e a una collega d'inglese, anche lei desiderosa di sperimentare nuove

vie metodologico-didattiche. L'esperienza condotta nelle mie classi, una seconda

ed una quarta liceo scientifico, ha avuto come tema l'anatomia del cuore e la cir-

colazione del sangue (vedi Grandinetti et al 2013). Leggendo il lavoro si può no-

tare che l'esperienza è stata condotta in modo rigorosamente scientifico, in quanto

si sono analizzati tutti i dati registrati attraverso le riprese dell'intera attività. La

loro elaborazione è stata fatta soprattutto dal punto di vista qualitativo più che

quantitativo, ciò dovuto al fatto che si è lavorato con dei cervelli e non con com-

puter o qualsivoglia sistema direttamente rilevabile attraverso dati numerici.

E' chiaro che i materiali utilizzati, di cui ampiamente si parla nella parte1

dell'articolo, sono stati costruiti in modo tale che ogni task sviluppato osservi i

criteri per i quali:

• il linguaggio sia comprensibile agli studenti;

• lo sviluppo dell'argomento sia diviso in tasks di apprendimento;

• la sequenza dei tasks sia tale che il modulo, partendo da pochi e

fondamentali informazioni, diventi sempre più ricco, fino a dare un

quadro completo sia dell'anatomia cardiaca, che del modo in cui il

sangue circola dal corpo-cuore-polmoni e dal polmone-cuore-corpo.

Questo significa che i ragazzi hanno potuto lavorare mantenendo alta la moti-

vazione, proprio perché la lingua straniera utilizzata per veicolare i contenuti era

di un livello adeguato alle loro conoscenze e permetteva loro di lavorare implici-

tamente sui contenuti che a loro volta si andavano a configurare sempre in manie-

ra più completa esercizio dopo esercizio, tutto questo in un ambiente di lavoro

non competitivo ma collaborativo, per cui i loro cervelli hanno lavorato assecon-

dando le dinamiche che favoriscono l'apprendimento.

Una classe in particolare, la quarta, sottoposta ad una verifica dopo circa un

mese dall'esperienza effettuata ha dimostrato di aver, in maniera consapevole, ap-

preso i concetti di base veicolati con un’attività di poco più di due ore. In partico-

lar modo la verifica ha dimostrato che i ragazzi avevano migliorato l'uso del lin-

guaggio utilizzato nell'esprimere i concetti appresi e inoltre, per chi aveva scelto

di rispondere in lingua inglese, si è potuto rilevare un uso più appropriato e corret-

to della lingua in un contesto scientifico.

La valutazione positiva della verifica ha dato prova che gli studenti avevano

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necessariamente acquisito quelle conoscenze, solo attraverso lo svolgimento

dell'intera unità di studio in CLIL. La rivelazione più interessante riguarda i ra-

gazzi più deboli e uno in particolare, il quale era solito non fornire alcuna risposta

in qualsiasi compito scritto, in alcuna disciplina, anche perché affetto da disturbi

associati a episodi di epilessia: con mia grande sorpresa questo ragazzo ha presen-

tato il suo elaborato significativamente corretto non solo sui contenuti, ma anche

sulla forma linguistica. L'esperienza, perfettamente riuscita, mi ha così proiettata

in questa nuova dimensione, il mio compito è diventato sicuramente più stimolan-

te perché finalmente gli allievi sembrano più coinvolti e motivati ed io mi diverto

a comporre questi percorsi, a utilizzare tutta le mie competenze e conoscenze per-

ché queste siano veramente efficaci per gli allievi e nel contempo intellettualmen-

te stimolanti. Anche la lingua straniera sembra diventata per loro più familiare.

La metodologia CLIL se applicata correttamente, crea le condizioni che favori-

scono lo sviluppo cognitivo permanente, ma questo si realizza solo se:

1. in classe si instaura un clima a bassa competitività fra gli studenti;

2. le attività proposte seguono uno sviluppo logico e congruente che

favoriscono le vie e il modo in cui il nostro cervello apprende;

3. i materiali sono suddivisi in micro-unità o tasks che mirano a micro-

obiettivi di apprendimento funzionali al costrutto cognitivo finale.

Lavorare per tasks in modo attivo ed interattivo asseconda e agevola il proces-

so naturale d'apprendimento. Questo però è vero se la costruzione dei tasks tiene

conto del linguaggio utilizzato, che deve essere adeguato alle conoscenze dello

studente (Ting 2011). Il linguaggio è il supporto fondamentale della conoscenza,

non c'è nessuno sviluppo di competenze se non si conosce il modo di esprimerlo.

Per far questo è necessario fornire agli alunni esempi concreti riguardo l'uso del

linguaggio quando si vogliono spiegare concetti o descrivere fenomeni. Così sarà

necessario farli lavorare direttamente sul linguaggio.

3.2 Le fasi del lavoro

Il Modus operandi (Ting, ibid), interpreta in modo matematico l’acronimo CLIL e

cioè spiega come si possa ottenere un rapporto pari a [50:50]/[Contenuto:Lingua]

di apprendimento sia della lingua che del contenuto. Come ciò sia possibile è le-

gato al modo di procedere quando si costruiscono gli esercizi CLIL. Infatti, biso-

gna tenere ben presente come si utilizza il linguaggio perché sia comprensibile a-

gli studenti, in modo che le attività possano essere svolte con la loro motivata

partecipazione.

Qui di seguito illustrerò come si svolge il mio lavoro nel costruire percorsi di

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studio in modalità CLIL.

Le fasi della prima parte del lavoro si possono così dividere:

1. suddivisione del modulo individuato in micro-unità di studio (tasks);

2. individuazione dei micro-obiettivi Contenuto (μCO) da raggiungere

attraverso le micro-unità dopo aver accertato le competenze acquisite;

3. prima stesura attraverso uno schema sintetico della sequenza dei tasks

individuati con associate le attività su cui fare lavorare i ragazzi;

4. individuazione dei micro-obiettivi Linguistici (μLO) che si vogliono

raggiungere con il docente di lingua;

5. individuazione della procedura di lavoro che riguarda le fasi delle attività

con i tempi e la sequenza degli interventi previsti per la verifica degli

esercizi svolti.

Naturalmente, decidere il modulo di studio è la parte più importante che prece-

de la stesura dei materiali CLIL, perché, dovendo svolgere un numero limitato di

lezioni CLIL la scelta deve ricadere su unità di studio che possano sviluppare

concetti di base utili per più argomenti di studio.

Quindi il passo successivo mi vede impegnata a scomporre il modulo individu-

ato in micro-obiettivi di apprendimento che devono essere man mano processati

attraverso le attività proposte in lingua. Così, la lingua stessa diventa l'impalcatura

(scaffolding; Bruner, 1960) dove sistemare ogni mattone del contenuto da veico-

lare, per cui la stessa diventa loro sempre più familiare. La fase successiva risulta

quella più complessa perché comincio a riflettere proprio sul linguaggio che devo

utilizzare. Questo mi porta a dover valutare ogni termine che devo utilizzare che,

da come prima ampiamente spiegato, risulta la chiave più importante perché l'in-

tero processo funzioni. Per cui analizzo termini e costrutti in modo che i significa-

ti siano comprensibili e per la massima parte conosciuti. Il processo di apprendi-

mento è un percorso fatto in più lezioni che implicano un passaggio graduale e

modulato di tutto ciò che serve agli studenti per costruire da soli l'orizzonte di

senso cui inserire i nuovi apprendimenti.

Ricordo infine, ancora una volta, perché sia veramente chiaro, che i materiali

CLIL si devono costruire avendo la consapevolezza che:

1. Il linguaggio utilizzato sia sempre comprensibile;

2. Il livello della L2 sia accessibile e adeguato alle conoscenze degli allievi;

3. I contenuti veicolati devono contenere pochi termini scientifici a loro

sconosciuti;

4. Gli alunni devono conoscere la spiegazione di ogni concetto che viene

menzionato all'interno degli stessi esercizi o nella combinazione di più

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esercizi legati fra loro da conseguenze logiche;

5. Anche i termini familiari, che assumono significati diversi nei contesti

scientifici indagati, devono essere equilibrati e chiari;

6. E' necessario seguire lo sviluppo degli esercizi in modo che non ci siano

salti logici;

7. Curare la struttura degli esercizi, anche con la collaborazione del docente

di lingua straniera, per individuare i più efficaci ambiti di utilizzo della

stessa;

8. Progettare e distinguere, attraverso esercizi mirati, i momenti

squisitamente linguistici, da quelli in cui la lingua straniera diviene mero

veicolo di contenuti scientifici.

La cosa più importante, comunque, è la consapevolezza, che ogni docente deve

avere, è che contribuire a far sviluppare competenze negli alunni è imprescindibi-

le dall'acquisizione del linguaggio specifico della disciplina. Per cui si deve pro-

cedere curando sia il linguaggio necessario per l'alfabetizzazione scientifica, sia i

contenuti, in modo tale che gli stessi siano facilmente compresi, perché strutturati

in sequenze che gli alunni possono facilmente associare fra loro, costruendo così,

in piena autonomia, l'oggetto del loro apprendimento.

4. Conclusioni

4.1 Conclusioni della II parte

Che il cambiamento sia necessario per restituire efficacia all'insegnamento è fin

troppo evidente! La prima fase di questo cambiamento parte necessariamente dal

fatto che i docenti devono essere consapevoli della necessità di spostare l'atten-

zione dall'insegnamento al processo di apprendimento, conoscendo i meccanismi

che lo favoriscono e gli strumenti per come monitorare l'apprendimento stesso, in

modo da rendere più efficace la loro azione d'insegnamento. Il docente deve mo-

tivare l'allievo, utilizzando modi e procedure brain-compatible, conoscendo i pro-

cessi che favoriscono l'apprendimento e sapendo cosa ne inibisce il funzionamen-

to. Per cui, se un docente ama e conosce l'importanza della propria disciplina

deve impegnarsi ad assecondare i processi che favoriscono negli studenti la cu-

riosità, prima fondamentale premessa di ogni apprendimento.

Due anni di applicazione del metodo CLIL nelle mie classi mi hanno spinto a

continuare e diventare sempre più esperta di questi processi. Gli alunni durante le

attività sono veramente tutti impegnati, anche i più deboli sembrano molto di più

motivati e coinvolti: fanno domande, forniscono interpretazioni discutendo con i

loro compagni in una buona condizione di tranquillità emotiva. E', infatti, dimi-

nuita la competizione, ognuno di loro nel procedere si trova nella condizione di

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aiutare ed essere aiutato. Cambiano le dinamiche fra loro, ma cambia anche il

ruolo del docente, che diventa un tutor d'aula che aiuta i ragazzi a seguire il pro-

cesso esattamente come egli stesso lo ha pensato, evitando salti non richiesti che

potrebbero inficiare l'intero processo.

Spero che queste poche indicazioni possano aiutare qualche docente a prose-

guire sulla scelta del cambiamento cogliendo i benefici notevoli che può portare al

proprio insegnamento. Lavorando in questo nuovo modo si riaccende la speranza

e la fiducia che mi è sembrato di non trovare più in tanti miei colleghi. Credo di

poter dire che attraverso l'impegno costantemente profuso si può diventare nuo-

vamente il riferimento più importante della formazione di ogni studente moderno.

4.1 Conclusione finale

Che il tema della Scuola Estiva SPAISS per gli insegnanti è chiamato Scientifica-

mente dimostra che il mondo dell'educazione è sempre più cosciente del fatto che,

quando insegniamo, insegniamo a cervelli. Più di qualsiasi altra professione, gli

insegnanti hanno a che fare con il cervello. Nemmeno un neurologo vede tanti

cervelli come un insegnante in una sola giornata di scuola. Purtroppo, chi insegna

è consapevole del fatto che ciò che insegniamo spesso non ha molto in comune

con ciò che i nostri studenti hanno imparato. Il rinnovamento degli stili educativi

devono pertanto considerare non tanto quello che gli istruttori insegnano, quanto

il come apprendiamo. Se saremo in grado di usare le nostre conoscenze sul come

gli esseri umani imparano per cambiare il come gli insegnanti insegnano, senza

dubbio saremo in grado di aumentare l’efficacia dell’istruzione dell’obbligo. La

sfida è pertanto duplice: da un lato bisogna rendere accessibili agli insegnanti i

risultati della ricerca su come si impara, dall’altro bisogna trovare il modo di

aiutare gli insegnanti ad usare questa informazione per modificare il loro

approccio all’insegnamento. Piuttosto che affrontare queste due sfide

separatamente, possiamo considerare il fatto che l’apprendimento è reale e

concreto solo in relazione alla sua compatibilità con il funzionamento del nostro

organo cerebrale, il cervello: cioè solo quando è “brain-compatible”. Esistono

iniziative che spingono nella direzione di rendere accessibili agli insegnanti i

risultati della ricerca neuroscientifica sull’apprendimento, come per esempio

Understanding the Brain: The Birth of a Learning Science pubblicato dal Centre

for Educational Research and Innovation dell’OCSE (2007), il Centre for

Neuroscience in Education della Cambridge University e l’iniziativa Mind, Brain

and Education e l’omonima rivista della Harvard Graduate School of Education.

Naturalmente esistono molte conoscenze neuroscientifiche che non sono di alcun

valore per gli insegnanti: sapere che l’ippocampo (la struttura cerebrale attaccata

dal morbo di Alzheimer) è responsabile del recupero delle informazioni

immagazzinate nella memoria di lungo termine non è di alcuna utilità ad

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insegnanti che non possono certo impiantare elettrodi negli ippocampi dei loro

studenti.

Esiste tuttavia un corpus di dati neuroscientifici che possono invece informare gli

insegnanti ed aiutarli a modificare sostenibilmente le loro prassi didattiche. Nella

prima parte di questi due articoli, è stata presentata brevemente la ricerca sul

N400 che è solo uno dei tanti segnali ed eventi cerebrali che sono attivati per

capire il mondo in cui viviamo. Se sappiamo che l’N400 è ampliato quando

l’input è poco comprensibile, come potremmo continuare a spiegare la chimica

dicendo: “aggiungendo più soluto, la concentrazione aumenta e il solvente si

satura” quando uno studente non capisce una buona parte dei termini usati? e

questo perché è uno studente, e come tale è a scuola per imparare. Spesso il

linguaggio della disciplina – disciplinary discourse – è già una lingua straniera,

anche se insegnata nella nostra madre lingua. Sebbene ci siano diversi motivi per

la demotivazione, uno di essi potrebbe essere il semplice fatto che, quando gli

insegnanti utilizzano il discorso della disciplina per spiegare un argomento

sconosciuto, gli studenti non capiscono il linguaggio dell'istruzione e si annoiano:

come potremmo essere interessati ad un qualcosa di estraneo che, oltretutto, ci

viene spiegato in una lingua che non capiamo? Tale difficoltà è particolarmente

notevole nell’ambito dell’insegnamento delle scienze, che, diventando più

specialistiche, diventano sempre meno visibili e tangibili. Il linguaggio della

disciplina non è quindi una buona fonte da cui imparare. Allo stesso momento,

non potremo dire che gli studenti abbiano “imparato la fisica, biologia, economia

o storia ecc.” se non sono capaci di utilizzare il linguaggio della disciplina in

modo corretto ed appropriato. In questi due articoli, abbiamo dimostrato come la

familiarità con il N400 ci porta ad un modo diverso di “fare lezione” dove il

linguaggio è modulato in modo che diventi comprensibile, il contenuto viene

presentato in aliquote digeribili, e gli studenti lavorano attivamente ed

interattivamente: “...se fare scuola è così, come si può non imparare?” Ringraziamenti Un particolare ringraziamento va alla prof.ssa Brunella Perrota per i suoi preziosi

suggerimenti dati in seguito della lettura del presente articolo della parte in

italiano. Una parte della ricerca didattiche sulla Tabella Periodica è finanziata dal PROGRAMMI DI RICERCA SCIENTIFICA DI RILEVANTE INTERESSE

NAZIONALE (D.M. 1152/ric del 27/12/2011), Tecnologie supramolecolari

integrate per il trattamento dell'informazione chimica: dispositivi e

materiali molecolari avanzati

(InfoChem): Sottoprogetto T3 Education & Dissemination.

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Bibliografia American Chemical Society.

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Quaderni di Ricerca in Didattica (Science)”, n. speciale 6, 2013

126 Langellotti e Ting – Learning Scientifica-mente Throug CLIL: Part II ...

Appendice

Exercise 1a. Here are five questions about M&Ms:

Do M&Ms... ...chocolate does each M&M have?

How many... ...contain almonds?

How much... ...layers does each M&M have?

Does the white layer... ...dissolve in water?

Do red M&Ms dissolve faster... ...than green M&Ms?

Exercise 1b. Answers (6) to the five questions:

A. Just a little layer on the peanut…

B. Each M&M has four layers!

C. I don’t know! I have no idea...

D. No they don’t...they have peanuts...almonds are more expensive!

E. That’s great!

F. Yes it does...it is sugar and it dissolves after the external colorant…

Exercise 2. Now write these five dialogues in the bubbles:

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Langellotti e Ting – Learning Scientifica-mente Throug CLIL: Part II ...

Q1:

Q2:

Q3:

Q4:

Q5:

A1:

A2:

A3:

A4:

A5:

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128 Langellotti e Ting – Learning Scientifica-mente Throug CLIL: Part II ...

Exercise 3a. Writing logically and linking effectively. Here are five sentences for the

Experimental PROCEDURES which describes how to do the experiment. Put the

sentences in the correct order.

- Once you have the plate, pour some water into the plate.

- Put this M&M into the water very carefully.

- First obtain a white plate.

- Observe what happens to the M&M in water and do not touch the plate.

- After you have filled the plate with water, obtain an M&M.

Exercise 3b. Identifying linking devices...Work with your group and identify the word or

words which helped you understand the order of the sentences.

1. Why isn’t A before C?

2. Why is D after B?

3. What word in B tells you to link B after E?

4. What words in E link this sentence after A?

Exercise 4. SO, let’s do it the experiment! Tell your teacher what to do...

Exercise 5. Let’s watch a video...

Exercise 6a. Now let’s write the Experimental RESULTS which describes your

observations... Remember that when scientists report their experiments, they use the

simple past to talk about what they did and saw. However, if they are speaking about a

fact which is always true, then they use the present simple...

Today we ___________ (observe) that M&Ms ________ (have) four layers. The first

layer on the external surface _______ (be) the colorant which _______ (dissolve)

immediately. In fact, within 3 min after we ________ (put) an M&M in water, it

_________ (become) white. This second white layer ________ (represent) a layer of

sugar which _________ (take) an additional 4 min to completely dissolve, revealing a

brown layer. This third layer which __________ (be) chocolate, which, contrary to

the first two layers ___________ (dissolve/not) within the duration of the

experiment (1 hour).

Exercise 6b. What is the Scientific EXPLANATION for your observations? Choose the

sentence which provides the most effective conclusion to your Experimental REPORT:

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Langellotti e Ting – Learning Scientifica-mente Throug CLIL: Part II ...

_______ A. If we use hot water, the chocolate layer may dissolve, like when we

make hot chocolate.

_______ B. Therefore, not everything dissolves in water: for example, the peanut

would not dissolve in water since water never dissolves solids.

_______ C. In the conditions of the experiment, cold water dissolved both the

colorant and sugar but not the chocolate.

_______ D. This demonstrates that water does not dissolve chocolate in the same

way it dissolves the colorant or sugar.

_______ E. Therefore, water is able to dissolve the colorant of the first layer and

the sugar of the second layer but, not the chocolate of the third

layer.

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Scienze Sperimentali “ScientificaMente" sono stati pubblicati grazie al fi-

nanziamento del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca

Progetto Annuale legge 6 del 10 gennaio 2000. Codice progetto finanziato:

PANN12_01133; codice CUP assegnato al progetto: C73D12000390008

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Quaderni di Ricerca in Didattica (Science), Numero speciale 6

Editor in Chief: Claudio Fazio – University of Palermo, Italy

Editorial Director: Benedetto di Paola - University of Palermo, Italy

ISBN: 978-88-907460-4-8

First edition, 19th

May 2014

131

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