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Lo scrittore Giovannino Guareschi con la moglie e i due figli. F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Giovannino Guareschi Di solito, i manuali di storia della letteratura trascura- no la figura di Giovannino Guareschi (1908-1968). Tut- tavia, don Camillo e Peppone – i suoi due personag- gi più famosi – sono entrati nell’immaginario popola- re italiano e sono universalmente conosciuti, per lo meno grazie alla magistrale interpretazione che di essi diede- ro sul grande schermo Fernandel (don Camillo) e Gino Cervi (Peppone). Guareschi, dunque, occupa un posto importante nella mentalità collettiva dell’Italia del do- poguerra, di cui lo scrittore ha saputo esprimere alcu- ne importanti e irripetibili dimensioni, al pari di Col- lodi e De Amicis, che grazie a Pinocchio e Cuore han- no dato voce alla realtà sociale di fine Ottocento e for- mato intere generazioni di italiani. Guareschi nacque a Fontanelle di Roccabianca, in pro- vincia di Parma, il 1 o maggio 1908. Come varie altre zone dell’Emilia, anche nel parmense la Bassa (la regione pia- neggiante, a ridosso del fiume Po) aveva visto a fine Ottocento la fioritura di un’efficien- te rete di leghe e di cooperative socialiste, che avevano permesso a moltissimi contadini di uscire dalla miseria più nera dei decenni precedenti. Si trattava in genere di un socialismo umanitario, che traeva la sua forza più da profondi ed elementari valori morali (la giusti- zia, lo sdegno per le condizioni di vita dei poveri, il desiderio di una maggiore uguaglian- za ecc.), che da sofisticate analisi economiche sul capitalismo. Nel paese di nascita di Gua- reschi, il sindaco socialista Giovanni Faraboli era l’incarnazione stessa di questo orienta- mento ideologico, etico e quasi religioso, prim’ancora che politico. Sicuramente, la figu- ra di Faraboli influenzò profondamente il modo in cui Guareschi disegnò la figura di Pep- pone, il cui comunismo – ideologia severamente criticata dallo scrittore – ha comunque conservato una fortissima dimensione morale e si coniuga con un sincero desiderio di maggiore giustizia: fine condivisibile, lascia intendere Guareschi, ma perseguito con un mez- zo sbagliato. Negli anni Trenta, lo scrittore parmense divenne un celebre umorista, che pubblicava rac- conti, disegni e vignette su numerosi giornali a tiratura nazionale. Nel 1943, però, si tro- vava sotto le armi e quindi, l’8 settembre, fu catturato dai tedeschi; poiché non accettò di servire nell’esercito della Repubblica sociale, fu internato in un lager per ufficiali in Po- lonia, in condizioni durissime, che lo spinsero a ripensare il proprio ruolo di scrittore e di umorista. Nella drammatica situazione del campo di concentramento, la penna e la capa- cità di sorridere (e far sorridere) sulla realtà furono uno straordinario sostegno psicologico sia per Guareschi sia per quanti ascoltavano i racconti, le storielle e le favole che egli raccontava ai compagni di prigionia della sua baracca o a tutti i militari detenuti nel campo. L’affer- mazione: «Non muoio neanche se mi ammazzano» esprime da sola, con tutta la forza del paradosso che in essa è contenuta, l’energia che l’umorismo di Guareschi trasmetteva a chi viveva in condizioni estreme e doveva lottare con la fame, il freddo e le malattie. La piena Scrittori, ideologia e politica negli anni Cinquanta e Sessanta UNITÀ 11 Scrittori, ideologia e politica negli anni Cinquanta e Sessanta APPROFONDIMENTO B CULTURA E IDEOLOGIE

Transcript of Scrittori, ideologia e politica negli anni C Cinquanta e ... · tavia, don Camillo e Peppone – i...

Lo scrittore GiovanninoGuareschi con la mogliee i due figli.

F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012

Giovannino Guareschi Di solito, i manuali di storia della letteratura trascura-no la figura di Giovannino Guareschi (1908-1968). Tut-tavia, don Camillo e Peppone – i suoi due personag-gi più famosi – sono entrati nell’immaginario popola-re italiano e sono universalmente conosciuti, per lo menograzie alla magistrale interpretazione che di essi diede-ro sul grande schermo Fernandel (don Camillo) e GinoCervi (Peppone). Guareschi, dunque, occupa un postoimportante nella mentalità collettiva dell’Italia del do-poguerra, di cui lo scrittore ha saputo esprimere alcu-ne importanti e irripetibili dimensioni, al pari di Col-lodi e De Amicis, che grazie a Pinocchio e Cuore han-no dato voce alla realtà sociale di fine Ottocento e for-mato intere generazioni di italiani.Guareschi nacque a Fontanelle di Roccabianca, in pro-vincia di Parma, il 1o maggio 1908. Come varie altre zonedell’Emilia, anche nel parmense la Bassa (la regione pia-neggiante, a ridosso del fiume Po) aveva visto a fine Ottocento la fioritura di un’efficien-te rete di leghe e di cooperative socialiste, che avevano permesso a moltissimi contadini diuscire dalla miseria più nera dei decenni precedenti. Si trattava in genere di un socialismoumanitario, che traeva la sua forza più da profondi ed elementari valori morali (la giusti-zia, lo sdegno per le condizioni di vita dei poveri, il desiderio di una maggiore uguaglian-za ecc.), che da sofisticate analisi economiche sul capitalismo. Nel paese di nascita di Gua-reschi, il sindaco socialista Giovanni Faraboli era l’incarnazione stessa di questo orienta-mento ideologico, etico e quasi religioso, prim’ancora che politico. Sicuramente, la figu-ra di Faraboli influenzò profondamente il modo in cui Guareschi disegnò la figura di Pep-pone, il cui comunismo – ideologia severamente criticata dallo scrittore – ha comunqueconservato una fortissima dimensione morale e si coniuga con un sincero desiderio dimaggiore giustizia: fine condivisibile, lascia intendere Guareschi, ma perseguito con un mez-zo sbagliato. Negli anni Trenta, lo scrittore parmense divenne un celebre umorista, che pubblicava rac-conti, disegni e vignette su numerosi giornali a tiratura nazionale. Nel 1943, però, si tro-vava sotto le armi e quindi, l’8 settembre, fu catturato dai tedeschi; poiché non accettòdi servire nell’esercito della Repubblica sociale, fu internato in un lager per ufficiali in Po-lonia, in condizioni durissime, che lo spinsero a ripensare il proprio ruolo di scrittore e diumorista. Nella drammatica situazione del campo di concentramento, la penna e la capa-cità di sorridere (e far sorridere) sulla realtà furono uno straordinario sostegno psicologicosia per Guareschi sia per quanti ascoltavano i racconti, le storielle e le favole che egli raccontavaai compagni di prigionia della sua baracca o a tutti i militari detenuti nel campo. L’affer-mazione: «Non muoio neanche se mi ammazzano» esprime da sola, con tutta la forza delparadosso che in essa è contenuta, l’energia che l’umorismo di Guareschi trasmetteva a chiviveva in condizioni estreme e doveva lottare con la fame, il freddo e le malattie. La piena

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CULTURAE IDEOLOGIE

maturazione artistica di Guareschi è frutto della drammatica esperienza del lager, dal qua-le lo scrittore tornò con un rinnovato desiderio di impegno civile.Nel dicembre 1945, uscì il primo numero di “Candido”, un giornale umoristico cheera finanziato da Angelo Rizzoli e diretto da Guareschi; la rivista era dichiaratamen-te schierata in senso conservatore, cioè assunse come proprio bersaglio tutte «le in-novazioni rivoluzionarie quali la riforma agraria, le aberrazioni dello statalismo, l’i-stituzione delle regioni, la riforma dell’onestà, l’eliminazione del pudore, la soppres-sione della dignità personale e nazionale e la parificazione dei diritti fra galantuomi-ni e manigoldi» (5 gennaio 1946). Nell’immediato dopoguerra, tuttavia, lo spazio mag-giore fu riservato alla denuncia – in forma ironica, ma al tempo stesso puntuale, si-

Sciopero generale Il racconto seguente, di cui riproduciamo la parte centrale, fu pubblicato su “Candido” (n. 37, 14 set-

tembre 1947) e poi ristampato nel volume che raccolse i primi episodi della saga: intitolato Mondo pic-colo, uscì nel marzo 1948.

Dopo mezz’ora di scampanare arrivò in piazza la gente e, quando ci furono tutti, Pep-pone si affacciò al balcone del municipio e cominciò a parlare. «Sotto un governo antide-mocratico e reazionario» disse Peppone «il sopruso diventa legge. La quale legge ordina chel’iniqua sentenza di sfratto ai danni del mezzadro Polini Artemio diventi esecutiva, ma il po-polo difenderà i suoi diritti e non lo permetterà».

«Bene!» urlò la folla. E così Peppone continuò su questo tono e ci fu un corteo di pro-testa, poi fu eletta una commissione che formulò un ultimatum da inviare al prefetto: o si so-spende l’esecuzione della sentenza e si inizia il procedimento per annullarla, o sciopero ge-nerale. Ventiquattro ore per decidere. Arrivò gente dalla città, poi la commissione andò incittà, poi ci furono dei telegrammi e delle telefonate e le ventiquattro ore furono portate aquarantotto e poi a novantasei, ma non si cavò un ragno dal buco e, alla fine, venne de-cretato lo sciopero generale. «Nessuno dovrà lavorare per nessuna ragione!» affermò Pep-pone alla fine. «Quando si dice sciopero generale significa astensione dal lavoro senza ec-cezione. Si faranno le squadre di sorveglianza e si interverrà immediatamente».

«E le vacche?» disse il Brusco. «Bisognerà bene dar loro da mangiare e mungerle. E sele mungi non puoi buttare via il latte: bisogna far funzionare anche i caseifici». Pepponesbuffò. «Questa è la maledizione dei paesi eminentemente agricoli!» esclamò. «In città si fapresto a organizzare uno sciopero generale! Chiudi le fabbriche e le officine e buona notte.Mica occorre mungerle, le macchine! E anche dopo quindici giorni di sciopero non succedeniente perché basta rimetterle in moto e le macchine vanno. Mentre qui se lasci crepare unavacca non la rimette in moto più nessuno. A ogni modo abbiamo la fortuna di essere su unastrada importante e così possiamo bloccarla e rallentare il traffico di tutta la provincia». […]

Nei tre giorni che seguirono ci furono dei comizi e dei cortei, ma non successe niente distraordinario. Il blocco della provinciale funzionava perfettamente: le macchine arrivavano, sifermavano, i guidatori bestemmiavano, tornavano indietro per otto o nove chilometri e pren-devano strade secondarie girando al largo. Don Camillo non mise fuori il naso un secondo,ma sapeva tutto perché era come se ci fosse stata la mobilitazione generale delle vecchie,e dalla mattina alla sera era un continuo viavai di nonne e di bisnonne. […] Verso le tre di notte,don Camillo si svegliò. Qualcuno dal basso stava tirando dei sassolini contro la finestra. DonCamillo sapeva stare al mondo, quindi si guardò bene dall’affacciarsi. Scese cautamente alpiano terreno e non a mani vuote e andò a sbirciare da una finestrella seminascosta dal tral-cio di vite che si arrampicava sulla facciata della canonica e così, siccome la notte era chiara,vide chi era il lanciatore di sassolini e andò ad aprire.

«Cosa ti succede, Brusco?». Il Brusco entrò e disse che non accendesse la luce. Primadi decidersi a parlare ci volle qualche minuto. Poi prese a parlare a bassa voce. «Don Ca-millo» disse «ci siamo. Arrivano domani». «Chi?». «Carabinieri e polizia con le autoblindo perfare eseguire lo sfratto di Polini». «Non ci vedo niente di strano» rispose Don Camillo. «Que-sta è la legge. La giustizia ha stabilito che Polini ha torto e Polini deve andarsene». Il Bru-sco si agitò. «Bella giustizia!» esclamò a denti stretti. «Questo si chiama voler fregare il po-polo». «Non mi pare che fosse il caso di venire alle tre di notte per fare una discussione diquesto genere» osservò Don Camillo. «La faccenda non è questa» replicò il Brusco. «La fac-

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“Candido”

stematica e feroce – dello stillicidio di uccisioni che venneroperpetrate in Emilia Romagna e, più in generale, sull’interoterritorio nazionale. In occasione del referendum istituzionaledel 2 giugno 1946, Guareschi si schierò apertamente perla monarchia; a maggior ragione, assunse un’intransigenteposizione anticomunista durante la campagna elettorale cheprecedette le decisive consultazioni del 18 aprile 1948; allasua penna, in particolare, risale uno degli slogan più effica-ci del tempo: «Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede,Stalin no!».

DOCUMENT I

Spiega l’espressione«Don Camillo sapevastare al mondo,quindi si guardòbenedall’affacciarsi».

Quali sono, tra i comportamenti di don Camillo,quelli decisamenteatipici per unsacerdote?

Spiega l’espressione «Voi, per esempio,siete un prete, sì,ma non un preteclericale».

cenda è che Peppone ha detto che lo sfratto non si farà, e voi lo sapete che quando si im-pegna lui c’è da sudar freddo».

Don Camillo si mise le mani sui fianchi. «Vieni al sodo, Brusco». «Be’» sussurrò il Bru-sco «il fatto è che, quando si vede dalla parte di città prima un razzo verde e poi un razzorosso vuol dire che le autoblindo stanno arrivando da lì e allora salta in aria un pilone del pontesul Fiumetto. Se si vede il razzo verde e poi il razzo rosso dalla parte opposta della provin-ciale, salta il ponte di legno sul Canalaccio». Don Camillo agguantò per il petto il Brusco. «Liabbiamo minati io e Peppone due ore fa e Peppone è di guardia con la pila [torcia, n.d.r.]sull’argine del Fiumetto e io sono di guardia con la pila sull’argine del Canalaccio. «Tu seiqui e non ti muovi a costo di doverti rompere l’osso del collo!» esclamò Don Camillo. «Anzi,accompagnami che andiamo a disinnescare la mina». «Già fatto» rispose il Brusco. «Io sonol’ultimo dei vigliacchi perché ho tradito Peppone, ma mi pareva che fosse una vigliaccheriapiù grossa non tradirlo. Quando lo sa mi ammazza». «Non lo saprà» rispose Don Camillo.«E adesso stattene lì e non ti muovere. Debbo andare a sistemare quel pazzo. A costo didovergli spaccare la testa». […]

«Gesù» implorò don Camillo «fammi uccello e pesce per dieci secondi!». Si buttò nel-l’acqua e, un po’ la corrente che lo portava, un po’ le sue bracciate disperate e un po’ il Pa-dreterno, il fatto è che quando Peppone sentì chiamarsi e si voltò, don Camillo era già ab-brancato come un’ostrica a un pilone del ponte. Si levò in quell’istante il razzo rosso. «DonCamillo, toglietevi da lì!» urlò Peppone. «Lasciatevi andare in giù! Sta per saltare tutto!». «Sisalta insieme» rispose don Camillo. «Toglietevi da lì!» urlò ancora Peppone con le mani sullaleva della pila. «Io faccio saltare il ponte! Vi seppellirà». «Te la vedi poi col Padreterno» risposedon Camillo stringendosi sempre di più al pilone».

Si sentivano avvicinarsi le macchine. Peppone urlò ancora e pareva mille volte pazzo, poiabbassò la leva e si buttò a sedere sull’argine. Le macchine passarono rombando sulponte. Trascorse del tempo. Peppone si rialzò, ma don Camillo era ancora laggiù abbran-cato al suo pilone. «Toglietevi da lì, stramaledetto prete!» gridò con rabbia Peppone. «Se primanon stacchi i fili e non butti la pila dentro il fiume, io resto qui fino all’anno venturo. Mi ci sonoaffezionato a questo pilone». Peppone staccò i fili e buttò la pila nell’acqua. Poi don Camillogli disse di buttare anche i fili, e li buttò. «Adesso vieni a darmi una mano» concluse don Ca-millo. «Se volete aspettare me, metterete le radici» rispose Peppone sdraiandosi dietro unamacchia di gaggia [arbusto simile alla mimosa, n.d.r.]. Qui lo raggiunse don Camillo.

«Sono disonorato» disse Peppone. «Darò le dimissioni da tutto». «A me pare che sare-sti stato disonorato se il ponte lo avessi fatto saltare». «E cosa dico al popolo? Avevo pro-messo di impedire lo sfratto […] Io ho diminuito il prestigio del mio Partito!». «Perché? C’ènel regolamento del tuo partito che dovete sparare contro i carabinieri? E allora spiega aquelle zucche che, in fondo, anche i carabinieri sono dei figli del popolo sfruttati dal capi-talismo». «Sissignore: dal capitalismo e dai preti!» approvò Peppone. «Anche i carabinierisono figli del popolo sfruttati dal capitalismo e dai preti clericali».

Don Camillo era bagnato come un pulcino e non aveva voglia di litigare. Si limitò a consigliarePeppone di non dire delle stupidaggini. «Prete clericale non significa niente». «Significa qualcosa,invece» rispose Peppone. «Voi, per esempio, siete un prete, sì, ma non un prete clericale».

G. GUARESCHI, Tutto don Camillo. Mondo piccolo. Volume primo (1-182), Rizzoli, Milano 2003, pp. 149-154

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La celebre vignettaelettorale ideata e realizzata daGuareschi in cui sonoben evidenti le sue posizionianticomuniste.

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I racconti di Guareschiispireranno una serie

fortunata di filmprodotti tra gli anni

Cinquanta e gli anni Sessanta.

Nell’immagine unascena tratta da una delle

trasposizionicinematografiche in cui

sono immortalatil’attore francese

Ferdandel, interprete didon Camillo, e GinoCervi, nei panni del

sindaco comunistaPeppone.

Profonda umanitàdi Peppone

Tradizione fiabesca

Don Camillo e Peppone Il 28 dicembre 1946, uscì su “Candido” il primo racconto della saga, ambientato a Bre-scello, un paese della Bassa emiliana, che ebbe come protagonisti il prete del paese (donCamillo), il sindaco comunista del medesimo villaggio (Peppone) e il crocefisso della chie-sa parrocchiale, che in numerosi racconti dialoga con il sacerdote, gli offre consigli o losgrida per i suoi comportamenti poco ortodossi.Per comprendere a fondo le figure di don Camillo e di Peppone, occorre prima di tuttotenere a mente che i racconti uscivano su un giornale di satira politica. La polemica con-dotta da “Candido” contro il comunismo era dura, aspra, violenta; in particolare, ve-niva attaccata la disciplina di partito, o meglio l’ottusità e il fanatismo con cui – secon-do i loro avversari – i militanti comunisti obbedivano alle direttive di Togliatti e di Sta-lin. Nei racconti della saga di don Camillo, il giudizio di condanna sul movimento è iden-tico; tuttavia, Guareschi riesce più volte a guardare anche agli uomini e ai loro valori, alleloro aspirazioni di giustizia, che il prete condivide a livello etico, pur non approvando imezzi (la rivoluzione armata e violenta) e pur rifiutando a priori i presupposti atei del marxi-smo. La figura di Peppone, in particolare, è impregnata di una profonda umanità, cosic-ché i due personaggi principali della saga – il parroco e il sindaco comunista – si stima-no, si completano e si cercano, in un rapporto di profonda amicizia, che sa superare leradicali divergenze e le inconciliabili posizioni politiche.A livello letterario, va osservato che don Camillo e Peppone sono figure tutte d’un pezzoe sempre identiche. Sotto questo profilo, la tradizione in cui Guareschi si inserisce nonè quella del romanzo moderno. Anche quando furono raccolti in volumi (il primo dei qua-li fu pubblicato nel marzo 1948, un mese prima delle decisive elezioni del 18 aprile), iracconti non ci presentano il processo di formazione di un individuo o le sue crisi esisten-ziali: don Camillo non dubita mai della sua fede religiosa, così come Peppone nonha alcuna perplessità su Stalin o sul fatto che l’URSS sia il paradiso dei lavoratori. I mo-delli cui attinge Guareschi sono più remoti e, per certi versi, più umili. Le storie di donCamillo si sforzano di essere favole, pur essendo ancorate a uno spazio (la Bassa parmen-se) e a un tempo (l’immediato dopoguerra) precisi e tutt’altro che indeterminati o miti-ci. Solo se teniamo presente questa deliberata volontà di ricollegarsi alla tradizione fiabescapopolare, possiamo apprezzare la trovata del crocifisso parlante, la cui voce, da un lato,coincide con quella della coscienza del parroco, ma che dall’altro, proprio nella sua qua-

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lità di realtà effettivamente parlante, costituisce una formidabile(ed esilarante) trovata narrativa.In secondo luogo, la saga di don Camillo affonda le proprie ra-dici più profonde nella tradizione dei fioretti o degli exempla me-dievali, in cui si cerca di trasmettere un messaggio morale e reli-gioso grazie alla presentazione di una serie di aneddoti, i cui i pro-tagonisti (san Francesco, ad esempio) sono figure ampiamente noteal pubblico. Infine, la saga della Bassa può essere messa in con-nessione con le avventure di Bertoldo, un personaggio popola-re rilanciato nel Seicento da Giulio Cesare Croce. In tutti que-sti casi, la figura centrale resta immutata nelle sue caratteristichedi base (la santità, nel caso di san Francesco; l’astuzia, nel casodi Bertoldo) e l’abilità dello scrittore consiste nel costruire l’en-nesima variazione sul tema, all’insegna di un preciso patto nar-rativo con il lettore (o, nel caso dei film di don Camillo, con lospettatore), che si attende il rispetto di determinati elemen-ti fissi (al limite, nel caso dei film, la presenza ricorrente dei me-desimi attori, con gli stessi volti e le stesse smorfie). Soprattutto,resta costante un preciso messaggio morale, che può essere con-diviso, nella sua essenza, da entrambe le parti, e suscitare in tut-ti il sorriso, una volta usciti dall’atmosfera integralista e avve-lenata degli anni Quaranta e Cinquanta.

Alla ricerca di una nuova cultura impegnata Per molti versi, Guareschi fu un’eccezione. Tra il 1944 e il 1956, infatti, un numero ele-vatissimo di scrittori e di intellettuali italiani aderì con entusiasmo al Partito comunista,ne diffuse con passione il messaggio ideologico e ne sostenne con convinzione le posizionipolitiche. L’adesione nasceva da un sincero e diffuso desiderio di rinnovamento, nato du-rante gli anni della Resistenza e della guerra antifascista, di cui le Brigate Garibaldi e l’Ar-mata rossa parevano aver portato il peso maggiore.Ben presto, però, in alcuni intellettuali di sinistra sorse il problema dell’autonomia del-l’attività culturale e letteraria, dell’indipendenza dell’arte – con la sua ineliminabile com-ponente di creatività, fantasia, originalità – rispetto alle esigenze del-l’ideologia e della lotta politica. Il contrasto più importante tra mon-do intellettuale e Partito ebbe luogo nell’immediato dopoguerra,ed ebbe come principali protagonisti lo scrittore Elio Vittorini eil massimo dirigente comunista italiano, Palmiro Togliatti.Nel 1945, Vittorini fondò “Politecnico”, una rivista che traevail proprio titolo da un periodico pubblicato nel XIX secolo dal-l’intellettuale democratico lombardo Carlo Cattaneo. Ilgiornale uscì dapprima come settimanale, poi comemensile; fin dall’inizio, si presentò come rivista disinistra (in un primo tempo, infatti, portava il sot-totitolo Settimanale dei lavoratori), che si sfor-zava di trasmettere e divulgare tematiche nuo-ve, di ordine artistico, letterario e politico, frai non addetti ai lavori. L’editoriale d’indirizzodel primo numero portava un titolo quanto maieloquente: Una nuova cultura. In tale sede, Vit-torini proclamava di respingere gran parte del-la cultura italiana precedente, sostenendo cheessa «non si è mai identificata con la società, nonha governato con la società, non ha condotto

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Un disegno originale di GiovanninoGuareschi dove sonoraffigurati don Camilloe Peppone, i dueantagonisti dei suoiracconti.

Il progetto di una nuova cultura

Lo scrittoresiciliano ElioVittorini (1908-1966).

eserciti con la società». Nella migliore nelle ipotesi, la letteratura che era riuscita a noncompromettersi con il regime si era dedicata a vuoti esercizi di stile e di retorica. Nel nuo-vo contesto postbellico e postresistenziale, secondo Vittorini, occorreva qualcosa di affattodifferente: «Non più dunque una cultura che consoli nelle sofferenze ma una cultura cheprotegga dalle sofferenze, che combatta e le elimini», o meglio, «una cultura che le im-pedisca, che le scongiuri, che aiuti a eliminare lo sfruttamento e la schiavitù, e a vincereil bisogno».Il “Politecnico” si proponeva dunque apertamente come un giornale di fiancheggiamen-to, di appoggio e di sostegno al PCI. Tuttavia, nel trattare i numerosi temi (di letteratu-ra, di storia, di economia ecc.) toccati dalla rivista, molti degli intellettuali mostravanouna notevole autonomia d’azione, oppure si occupavano di questioni che non avevanouna precisa finalità politica immediata. Tale atteggiamento suscitò un primo interventocritico da parte comunista: su “Rinascita”, rivista ufficiale del PCI, Mario Alicata accu-sò il “Politecnico” di essere privo di qualsiasi contatto con «gli interessi e i problemiconcreti delle masse popolari»; in secondo luogo, a giudizio dei comunisti, la nuova cul-tura che la rivista diceva di voler diffondere non riusciva in alcun modo a promuovere l’in-contro dei ceti medi e intellettuali con il «movimento democratico delle masse lavoratri-ci».Vittorini difese la propria linea editoriale e invitò Togliatti stesso a prendere posizione; illeader comunista, però, si schierò apertamente a fianco di Alicata e ne ribadì le criti-che. Vittorini allora, nel numero 35 del “Politecnico” dichiarò esplicitamente che – a suogiudizio – la cultura trascendeva la politica spicciola, non poteva essere asservita alle esi-genze di un partito, svolgendo una funzione «apologetica anziché critica». Con formulasintetica, Vittorini concludeva affermando che il compito primario della letteratura nonera quello di «suonare il piffero per la rivoluzione», pena la rinuncia a qualsiasi autono-mia dello scrittore.

Scrittori e movimento comunista La posizione criticata da Vittorini si ritrova in numerosi racconti e romanzi composti dascrittori comunisti (militanti iscritti a pieno titolo, o semplici compagni di strada, cioè sim-patizzanti) negli anni Quaranta e Cinquanta. In tali narrazioni, la classe operaia era pre-sentata come una forza sana, giovane e inarrestabile, che dapprima avrebbe spazzato viala borghesia, e poi aperto una nuova fase di giustizia e pace per l’intera umanità. Per mol-ti aspetti, l’opera più rappresentativa di questa tendenza fu il romanzo Metello, di VascoPratolini, pubblicato nel 1955. La vicenda è ambientata a Firenze, nel decennio compresotra il 1875 e il 1902, l’anno in cui un vasto sciopero coinvolse i muratori della città e se-gnò la piena maturità del movimento operaio fiorentino. Metello è un giovane proletario. Suo padre era anarchico, come molti altri genitori dei com-pagni del protagonista; nei confronti di questi precursori, i lavoratori delle nuove generazio-ni (e, per loro tramite, lo scrittore stesso) provano un sentimento ambivalente, misto di am-mirazione e senso di superiorità. Tale giudizio deriva dal fatto che i giovani sono seguaci delsocialismo marxista: pertanto, anche se riconoscono il coraggio con cui i padri hanno getta-to le basi della lotta contro i borghesi, non possono perdonare loro di avere frequentementeassunto atteggiamenti di tipo individualista. La lotta di classe – lascia intendere il romanzo –non ha bisogno di singoli soggetti eccezionali: la vittoria dei lavoratori, piuttosto, arriverà gra-zie alla disciplina comune, all’azione collettiva e organizzata. Per quanto possa essere degnadi ammirazione e della massima stima, la vecchia generazione deve lasciare il campo a una nuo-va leva, capace di agire secondo una strategia rinnovata, ben più efficace e vincente.In Metello, il protagonista è giovane, e il romanzo ne segue la formazione dai quindici aitrent’anni. L’autore vuole mostrare che la piena maturazione umana di un individuo vie-ne raggiunta quando esso giunge a comprendere la necessità di uscire dal proprio ego-centrismo, per aprirsi in direzione della collettività, cioè del proletariato e dell’uma-nità intera. Non a caso, Metello si iscrive al Partito socialista subito dopo il matrimonio

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Figli contro padri

Le accuse contro il “Politecnico”

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con Ersilia. Nei romanzi di Pratolini, iniziazione sentimentale e presa di coscienza poli-tica procedono di pari passo; l’amore per un’altra persona non deve spingere in direzio-ne della chiusura su se stessi, nel privato, bensì essere molla per un rinnovato impegnopolitico, tanto più forte perché i due soggetti – fidanzati o sposi – condividono le stessesperanze e gli stessi sogni di riscatto. Indirettamente, il bersaglio polemico diventa il Ren-zo manzoniano, disponibile proprio a chiudersi a ogni istanza etica e a qualsiasi bisognodel prossimo, una volta raggiunta la stabilità materiale e sentimentale. Al momento della sua pubblicazione, Metello fu recensito con entusiasmo dal critico marxi-sta Carlo Salinari. Altri intellettuali (tra cui Franco Fortini, Carlo Muscetta e Cesare Ca-ses) criticarono invece l’impianto troppo schematico e scopertamente didattico. Inoltre,accusarono Pratolini di aver rappresentato il proprio personaggio in modo scarsamentecredibile: Metello era il popolano perfetto, ideologicamente sano e puro, privo di dubbio di ripensamenti nella sua evoluzione politica. Insomma, per quanto i critici appena men-zionati fossero essi stessi di orientamento comunista, di fatto individuavano nel giovaneproletario del romanzo di Pratolini gli stessi limiti cheè possibile cogliere negli operai idealizzati del rea-lismo socialista sovietico. Un atteggiamento schematico simile si ritrova-va già in L’Agnese va a morire; pubblicato nel1949, questo romanzo di Renata Viganò re-stò a lungo il più tipico dei testi di ambien-tazione resistenziale: la protagonista, infatti,partecipa alla lotta partigiana nelle valli diComacchio, esattamente come avevafatto l’autrice. A differenza di Metello,Agnese, è una donna anziana; tuttavia,anche in questo caso siamo di fronte aun processo di maturazione, che nel suocaso significa abbandono di un secola-re atteggiamento di rassegnazione neiconfronti del male e della violenza pa-tita dalla povera gente. Per il resto, comeil muratore di Pratolini, anche Agneseincarna un ideale romantico di po-polano, istintivamente altruista e vir-tuoso, coraggioso e risoluto a com-battere fino al trionfo finale dellagiustizia. In fondo, il modello cheispira tutta questa letteratura politica-mente schierata è Il Quarto stato, il ce-lebre quadro che Giuseppe Pellizza daVolpedo dipinse nel 1901, in cui unaschiera di proletari avanza compatta ver-so il futuro, lasciando intendere che nul-la e nessuno potrà fermarli, in quantola Storia stessa è dalla loro parte, in virtùdella giusta causa di cui sono i portatori.

Polemica verso Renzo

Operai idealizzati

Una partigiana italiana in una fotografia del 1944. Il romanzo di Renata Viganò,

L’Agnese va a morire, narra la storia di unadelle tante donne che con coraggio

e determinazione scelsero di combattere per difendere la patria.

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DOCUMENT IIl Quarto stato Pubblicato nel 1955, Metello di Vasco Pratolini è la celebrazione del movimento socialista, che su-

pera e trascende il movimento anarchico, diventando lo strumento di cui la Storia si serve per il riscattodei lavoratori. Sul piano letterario, Metello è il corrispettivo del quadro Il Quarto stato, dipinto da Pel-lizza da Volpedo nel 1901.

Sulle colline che circondano la città, negli stessi prati e boschi dove venti e trent’anniprima anarchici e internazionalisti si riunivano a gruppi, con chitarre vino e soprassata, fin-gendo innocenti gite domenicali per distrarre l’occhio della polizia che ovunque li seguiva,convenivano ora i muratori per discutere dei loro problemi. Allora erano anarchici e operai-sti della Prima Internazionale, adesso erano socialisti e della Seconda Internazionale e la di-versità non consisteva nella differenza di un numero e di una parola, bensì nel fatto che nonerano più dei gruppetti, ma delle Leghe. Dapprima le avevano chiamate: di resistenza. Le-ghe di resistenza fra cappellai in paglia, fra maniscalchi, fra sellaj e carrozzieri, fra marmistie scalpellini, cuochi e camerieri, stuccatori e formatori; fra sarti, fra infermieri, fra doratori,fra corniciaj, fra operai dei molini a vapore e a forza idraulica, fra trombaj e fontanieri; e fracocchieri di fitto, e venditori di giornali, e operaj addetti alla vuotatura inodora perfino. Eranoun esercito, duecentottanta soltanto i vuotatori, ed erano organizzati. Loro e le loro donne.La Lega delle sigaraje, dopo quella dei muratori e manovali, era la più numerosa. […]

Un pittore famoso [Giuseppe Pellizza da Volpedo, n.d.r.] li aveva dipinti, con la giacca ap-pesa alla spalla, i berretti sulla nuca, le donne a fianco, che venivano avanti come uno stormod’api, a cuneo come la prora d’una nave, e Sua Maestà si era congratulata con l’artista. Cos’era dunque se non la storia, o il progresso, che camminava? Si poteva fargli segnareil passo, spingerli indietro non era più possibile. Le macchine che gli erano state messe nellemani, e che producevano ricchezza, col loro rumore forse, li avevano destati. La svegliaaveva raggiunto i ponti e dilagava sui solchi. Costoro non erano più degli isolati, degli indi-vidualisti, dei libertarj, questo c’era di cambiato. Non erano più dei poeti, in definitiva. I poeti,coloro che ne hanno l’animo comunque, sono sempre lì pronti a offrire il petto, a versare la-crime, a dispensare amore. Questa era gente che non possedendo nulla, cotesto zero vo-leva d’ora in avanti saperlo amministrare. La dottrina che dicevano di professare, anche sela più parte di loro continuava a ignorarne la dialettica e l’esatta esposizione, stabiliva un pre-ciso rapporto tra il dare e l’avere, tra sudore che cola e stomaco che langue, tra sfruttati di-cevano e sfruttatori. Era gente, magari illetterata, […] ma che credeva di aver capito pochecose, ma chiare. E ci credeva. Credeva nel suo stomaco e nel suo sudore. Più che l’intelli-genza l’illuminava l’istinto; una verità brutale ma esplicita la confortava con la sua ragione.E più dei suoi capi, facili a sperdersi o deviare, anche se sempre o quasi pagavano di per-sona, era la propria forza naturale che guidava cotesta gente, dritta per la sua strada.

V. PRATOLINI, Metello, Mondadori, Milano 1970, pp. 151-154

Quali sono le pochecose, ma chiare, che hanno capito i lavoratori, secondoPratolini?

Quale convinzionedava forza al movimentoorganizzato deilavoratori?

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Giuseppe Pellizza da Volpedo, Il Quartostato (1901), Villa BelgiojosoBonaparte, Milano.

Il tormentato percorso di Italo CalvinoNel romanzo d’esordio di Italo Calvino, Il sentiero del nidi di ragno (del 1947), troviamovari temi comuni a quelli che s’incontrano nell’Agnese va a morire. Tali somiglianze sonoforti soprattutto nel capitolo nono, centrato sui due personaggi del comandante partigianoFerriera e del commissario politico Kim. Il primo è un operaio, il secondo è un intellet-tuale, e dunque un borghese, che è riuscito a identificarsi con il proletariato, dopo averabbandonato la propria classe sociale di partenza. Il suo stesso nome di battaglia, Kim,denota non solo raffinate letture infantili, di difficile accesso per un bambino di bassa estra-zione sociale, ma soprattutto è simbolo di una doppia identità, come quella del ragazzomezzo indiano e mezzo inglese, protagonista del racconto di Rudyard Kipling. Così, men-tre per Ferriera la guerra partigiana (concepita come lotta rivoluzionaria) è un fatto ov-vio, per Kim l’approdo alla resistenza e al movimento comunista deriva dalla riflessionesulla storia, concepita come un processo destinato a concludersi con la vittoria della giu-stizia, incarnata nelle aspirazioni della classe operaia.Comunque, nell’insieme del libro, il capitolo nono appare tutto som-mato come un corpo estraneo. Nel resto del romanzo, infatti, la vicendaresistenziale è guardata con gli occhi di Pin, un bambino che non com-prende gli eventi cui partecipa. In lui, per ragioni oggettive, non puòesserci quel processo di formazione e maturazione che caratterizza il per-sonaggio di Agnese, nel romanzo della Viganò. Nell’Introduzione cheaccompagnava l’edizione del 1964, Calvino precisò che l’autore, in ul-tima istanza, si identificava assai di più in Pin che in Kim: in quantointellettuale borghese, sentiva che la sua adesione al comunismo nonavrebbe mai potuto essere totale e assoluta; anzi, nella sua qualità discrittore desideroso di indagare la realtà, Calvino ammetteva che sarebbecomunque rimasto sempre estraneo alla logica di un partito, non avreb-be mai potuto essere totalmente allineato e integrato, in virtù del suorifiuto di incasellare la realtà in schemi rigidi, come quelli che volen-te o nolente deve adottare una forza politica.Il 1o agosto 1957, a sei mesi dall’intervento militare sovietico in Ungheria,Calvino lasciò il PCI. A distanza di vent’anni, ripensando alla propria mi-litanza politica, lo scrittore utilizzò il duro termine schizofrenia. In effetti,a suo giudizio, quegli stessi comunisti che si presentavano come i ven-dicatori dei torti degli oppressi, nello stesso tempo giustificavano le vio-lenze di Stalin e la dittatura in Unione Sovietica. Il distacco calvinianodalla visione marxista della Storia, tuttavia, si precisò sempre di più, negli anni Sessanta, perragioni che superano il giudizio storico sull’operato dei dirigenti del movimento e le loroclamorose contraddizioni. Con il breve romanzo La giornata di uno scrutatore (1963), in-fatti, l’autore sonda un livello della realtà che la concezione comunista non aveva indagatoe un tipo di torto per il quale il progetto sociale alternativo elaborato dal marxismo non haalcuna risposta.La giornata di uno scrutatore è ambientato nel Cottolengo, l’istituto torinese in cui si tro-vavano ricoverati gli handicappati più gravi e irrecuperabili. Amerigo Ormea, protago-nista della storia, è un militante comunista incaricato di controllare che le operazioni divoto si svolgano regolarmente; in realtà, egli si accorge che un altissimo numero di per-sone del tutto prive di qualsiasi consapevolezza civile è utilizzato come massa elettorale ca-pace di portare voti al partito di governo. Ma la vera scoperta di Amerigo (un nome cheevoca quello di Vespucci, il navigatore cinquecentesco che fece conoscere all’Europa il Nuo-vo Mondo in tutta la sua vastità) è ben più amara e drammatica. Essa consiste in una lu-cida e inedita consapevolezza del male e del dolore fisico, che nessuna rivoluzione comunistaavrebbe mai potuto sanare e risolvere. Ai brogli e ai più clamorosi episodi di frode elet-torale, lo scrutatore comunista può mettere un freno; la battaglia politica, però, apparead Amerigo sempre più come la superficie insignificante di un abisso esistenziale che, unavolta scoperto, non potrà più essere accantonato.

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Italo Calvino (1923-1985).

Scoperta del male fisico

Nella visione marxista della Storia, tutto appare semplice, lineare e progressivo, cioè de-stinato a risolversi in un grandioso finale escatologico. Vista alla luce del dolore estremoche ha incontrato al Cottolengo, al contrario, ad Amerigo «la complessità delle cose» co-mincia ad apparire come «un agglutinamento di significati, una pasta collosa»: in altre pa-role, un mistero indecifrabile, senza alcuna possibilità di comprensione e tanto menodi redenzione. Esclusa a priori qualsiasi prospettiva religiosa, la sua lettura materialisti-ca della realtà appare molto più simile alla pessimistica visione di Leopardi, piuttosto chealla trionfante concezione degli autori del Manifesto. E quindi, a occupare il centro del-la scena non è più il maestoso movimento ascendente del proletariato, ma l’umile gestod’amore di un padre venuto a trovare il figlio idiota che, schiacciando per lui delle man-dorle, gliele passa attraverso il letto.

DOCUMENT ILe riflessioni dello scrutatore Amerigo Ormea

La giornata di uno scrutatore fu pubblicato per la prima volta da Calvino nel 1963, dopo un silen-zio narrativo di quattro anni: un blocco creativo che era sintomo di una profonda crisi a un tempo po-litica e filosofica. La vicenda è ambientata durante le elezioni del 1953. Chiamato a svolgere la funzio-ne di scrutatore presso l’istituto Cottolengo di Torino, il protagonista entra in «un territorio per lui sco-nosciuto», quello del dolore estremo, privo di spiegazione, di senso e di redenzione terrena.

Amerigo cercava di farsi passare il nervoso riflettendo (la teologia gli era poco familiare)a Voltaire, Leopardi, (la polemica contro la bontà della natura e della provvidenza), poi – na-turalmente – Kierkegaard, Kafka (il riconoscimento d’un dio imperscrutabile agli uomini, ter-ribile). Le elezioni, qui, a non starci attenti, diventavano una specie di atto religioso. Per lamassa dei votanti, ma anche per lui: l’attenzione dello scrutatore ai possibili brogli finiva peressere catturata da un broglio metafisico. Visti da qui, dal fondo di questa condizione, la po-litica, il progresso, la storia, forse non erano nemmeno concepibili (siamo in India), ogni sforzoumano per modificare ciò che è dato, ogni tentativo di non accettare la sorte che tocca na-scendo; erano assurdi. (È l’India, è l’India, pensava, con la soddisfazione d’aver trovato lachiave, ma anche il sospetto di star rimuginando dei luoghi comuni).

Quest’accolta di gente menomata non poteva esser chiamata in causa, nella politica, cheper testimoniare contro l’ambizione delle forze umane. […] Certo, una volta ammesso chequando si dice uomo s’intende l’uomo del Cottolengo e non l’uomo dotato di tutte le sue fa-coltà (ad Amerigo adesso, suo malgrado, le immagini che venivano in mente erano quelle sta-tuarie, forzute, prometeiche, di certe vecchie tessere di partito), l’atteggiamento più pratico di-ventava l’atteggiamento religioso, cioè lo stabilire un rapporto tra la propria menomazione eun’universale armonia e completezza (significava questo, riconoscere Dio in un uomo inchiodatoa una croce?). Dunque progresso, libertà, giustizia erano soltanto idee dei sani (o di chi potrebbe– in altre condizioni – essere sano) cioè idee di privilegiati, cioè idee non universali?

Già il confine tra gli uomini del Cottolengo e i sani era incerto: cos’abbiamo noi più diloro? Arti un po’ meglio finiti, un po’ più di proporzione nell’aspetto, capacità di coordinareun po’ meglio le sensazioni in pensieri… poca cosa, rispetto al molto che né noi né loro siriesce a fare e a sapere… poca cosa per la presunzione di costruire noi la storia. Nelmondo-Cottolengo (nel nostro mondo che potrebbe diventare, o già essere, Cottolengo)Amerigo non riusciva più a seguire la linea delle sue scelte morali (la morale porta ad agire;ma se l’azione è inutile?) o estetiche (tutte le immagini dell’uomo sono vecchie, pensavacamminando tra quelle madonnette di gesso, quei santini; non a caso già i pittori coeta-nei d’Amerigo a uno a uno s’erano risolti all’astrattismo). Costretto per un giorno della suavita a tener conto di quanto è estesa quella che vien detta la miseria della natura («E an-cora grazie che non vi han fatto vedere che i più in gamba…») sentiva aprirsi sotto ai suoipiedi la vanità del tutto. Era questa, che chiamano una crisi religiosa?

«Ecco, uno esce un momento a fumare una sigaretta, – pensò, – e gli prende una crisi reli-giosa». […] Bastava che Amerigo continuasse a fare il giro [del cortile] e sarebbe incappato centovolte nelle stesse domande e risposte. Tanto valeva tornarsene al seggio; la sigaretta era finita;cosa aspettava ancora? «Chi agisce bene nella storia – provò a concludere, – anche se il mondoè il Cottolengo, è nel giusto». E aggiunse in fretta: «Certo, essere nel giusto è troppo poco».

I. CALVINO, La giornata di uno scrutatore, Mondadori, Milano 2008, pp. 43-46

Spiega l’espressione«broglio metafisico».

Quale atteggiamentoassume ilprotagonista versola religione?

Spiega l’espressione«Certo, essere nelgiusto è troppopoco».

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Pasolini contro la società consumista Anche Pier Paolo Pasolini (1922-1975) ebbe con il PCI e con il marxismo un rapportocomplesso e tormentato. Nato a Bologna, ebbe un fortissimo legame affettivo con il Friu-li, terra natale della madre, tanto che nel 1942 pubblicò la sua prima raccolta di poesie,scritte in friulano. Benché il regime fascista non incoraggiasse la produzione nei dialettilocali, la scelta compiuta da Pasolini non nacque da una precisa scelta politica; piuttosto,egli considerava il friulano una lingua vergine, pura, capace di straordinarie potenzialitàespressive che la lingua nazionale, ormai, a suo giudizio non era più in grado di genera-re. Nel 1947, l’istintiva simpatia che provava nei confronti dei contadini friulani lo spin-se a iscriversi al PCI; due anni più tardi, però, un processo per atti osceni in luogo pub-blico e corruzione di minorenni (conclusosi, per altro, con un’assoluzione) provocò la suaespulsione dal partito, che era ancora molto tradizionalista, quan-to a concezioni morali, e non poteva tollerare che un proprio mi-litante fosse omosessuale.Trasferitosi a Roma, Pasolini si sentì attratto da un altro universoprimitivo, quello dei giovani delle borgate di periferia, che vivevanosenza legge e senza vincoli morali. Il marxismo tradizionale diffi-dava del sottoproletariato (a suo tempo assai caro, invece, all’a-narchismo): secondo l’impostazione comunista ortodossa, i sog-getti marginali erano mossi più dall’istinto e dai bisogni primari,che da una vera coscienza di classe, e quindi erano facilmente ma-nipolabili dai padroni o dai regimi autoritari. A Pasolini, al con-trario, piaceva proprio la spontanea amoralità dei ragazzi di bor-gata, cosicché da quel mondo marginale, a un tempo squallido evitale, lo scrittore trasse materia per il suo primo importante ro-manzo, Ragazzi di vita, che uscì nel 1955 e fu subito denunciatoper oscenità. Da un punto di vista ideologico, Ragazzi di vita eramolto lontano dai canoni comunisti e quindi fu stroncato da varicritici marxisti, tra cui si distinse Carlo Salinari, che accusò Paso-lini di «gusto morboso dello sporco, dell’abietto, dello scompostoe del torbido».All’inizio degli anni Sessanta, lo scrittore – che dal 1961 affiancòall’attività letteraria anche una feconda e originale produzione ci-nematografica – si impegnò nella denuncia della società dei con-sumi che anche in Italia, a seguito del miracolo economico, an-dava imponendosi e diffondendosi. A suo giudizio, come la linguatelevisiva stava cancellando le parlate locali, così l’intera strutturasociale stava assumendo forme e caratteri borghesi, cioè si organizzavaassumendo come valori di fondo il profitto, il potere e il consu-mo. Pasolini continuò a idealizzare un mondo puro, preindustrialee premoderno, e a tal fine contrappose a lungo l’Africa all’Occi-dente industrializzato.Irrigidito, a suo giudizio, in vuote formule ideologiche, il PCI non offriva alcuna va-lida alternativa al mondo capitalistico. Ma neppure nella contestazione giovanile delSessantotto Pasolini vide la germinazione di una nuova speranza; anzi, in occasione deiduri scontri che, il 1o marzo 1968, si verificarono a Roma tra polizia e studenti, in unaprovocatoria poesia pubblicata sul settimanale “L’Espresso” Pasolini dichiarò che i veri«proletari sfruttati», verso cui andava la sua solidarietà, erano i questurini, mentre i gio-vani gli apparivano solo dei borghesi arroganti, dei «figli di papà» in cerca di nuoveavventure. Il pessimismo di Pasolini, negli ultimi anni di vita, si fece sempre più acuto e radicale. Loscrittore morì la notte tra il 1° e il 2 novembre 1975, all’Idroscalo di Ostia, in circostan-ze poco chiare; in effetti, Pasolini fu ucciso da un ragazzo di vita, che però – stabilì l’in-chiesta giudiziaria – agì «in concorso con ignoti».

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Pier Paolo Pasolini (al centrodell’immagine, con gli occhiali scuri)fotografato duranteun’assemblea a Veneziaalla fine degli anniSessanta del Novecento.

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pag. 141

DOCUMENT IIl PCI ai giovani!!di Pier Paolo Pasolini

Questa provocatoria poesia di Pasolini uscì sul settimanale “L’Espresso” del 16 giugno 1968. Men-tre numerosi altri intellettuali, in occasione dell’occupazione degli atenei, si erano schierati senza in-dugio dalla parte degli studenti, la loro contestazione – a giudizio di Pasolini – era sterile, inutile etardiva. Inoltre, secondo lo scrittore, la contestazione non era affatto portatrice di nuovi e alternativivalori: i giovani studenti, a suo parere, erano dei borghesi arroganti, mentre le vere vittime degli scon-tri, paradossalmente, erano i poliziotti, costretti a svolgere un duro lavoro, odioso e sottopagato.

È triste. La polemica contro il PCI andava fatta nella prima metà

del decennio passato. Siete in ritardo, figli. E non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati...

Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi quelli delle televisioni) vi leccano (come credo ancora si dica nel linguaggio delle Università) il culo. Io no, amici. Avete facce di figli di papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete paurosi, incerti, disperati (benissimo) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri: prerogative piccoloborghesi, amici. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti!

Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano.

Quanto a me, conosco assai bene il loro modo di esser stati bambini e ragazzi,

le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui, a causa della miseria, che non dà autorità.

La madre incallita come un facchino, o tenera, per qualche malattia, come un uccellino;

i tanti fratelli, la casupola tra gli orti con la salvia rossa (in terreni altrui, lottizzati); i bassi sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi caseggiati popolari, ecc. ecc. E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci, con quella stoffa ruvida che puzza di rancio fureria e popolo. Peggio di tutto, naturalmente, è lo stato psicologico cui sono ridotti (per una quarantina di mille lire al mese): senza più sorriso, senza più amicizia col mondo, separati, esclusi (in una esclusione che non ha uguali); umiliati dalla perdita della qualità di uomini per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare).

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Primo piano di unaragazza fotografata

durante unamanifestazione

studentesca nel 1968.

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DOCUMENT IHanno vent’anni, la vostra età, cari e care. Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia. Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete! I ragazzi poliziotti che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione risorgimentale) di figli di papà, avete bastonato, appartengono all’altra classe sociale. A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte della ragione) eravate i ricchi, mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque, la vostra! In questi casi, ai poliziotti si danno i fiori, amici. [...]

www.pasolini.net

Una manifestazione di protesta di un gruppo di studenti universitariromani nel 1968.

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Quali prerogative«piccoloborghesi»rinfaccia Pasolini ai giovani studenticontestatori?

Spiegal’espressione: «un frammento di lotta di classe».

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R i fe r i me n t i s t o r i o g r af i c iIl giorno di Valle Giulia

La provocatoria poesia in cui Pasolini criticava il movimento degli studenti destò un’eco particolarmenteforte per il fatto che la repressione del governo e della polizia nei confronti dei giovani che occupava-no gli atenei fu particolarmente violenta e brutale. Gli scontri del 1o marzo 1968 a Valle Giulia (Roma)furono solo l’episodio più noto e più grave.

La scelta di rispondere con l’intervento della polizia alle agitazioni studentesche carat-terizzò fin dall’inizio il comportamento del governo. Quella scelta non fu solo la risposta acaldo di una classe dirigente disorientata o di un ministro dell’Interno poco adeguato aitempi. Essa – che interagiva con gli umori conservatori presenti nei corpi e negli apparatidello Stato – venne successivamente confermata e inasprita, sulla base di una discussioneche traspare anche dai sintetici e talora ermetici verbali del Consiglio dei Ministri. Già nellariunione del 7 febbraio 1968 il presidente del Consiglio Moro afferma che è «necessario in-tervenire al più presto per portare ordine nelle nostre università». Il dibattito prosegue il 23febbraio e Gui, ministro della Pubblica Istruzione, espone in modo perlomeno sciatto «leragioni delle agitazioni degli studenti: locali, materie obbligatorie, professori pochi e assenti».Vi si aggiunge «l’aspetto politico, che consiste nella protesta contro l’organizzazione delleUniversità che è legata alla attuale struttura della società». Poi «Gui torna a manifestare lasua preoccupazione per lo stato d’animo dei rettori e dei professori. Chiede come essi pos-sano essere garantiti e difesi». Al di là di qualche richiamo alla «validità di certe richieste»(Spagnolli), i toni non sono equivoci: si «ritiene necessario ripristinare l’ordine» (OronzoReale); «l’ordine deve essere riportato nelle Università, conformemente alle richieste dellamaggioranza della popolazione» (Spagnolli).

Nei giorni successivi si passa rapidamente dalle parole ai fatti. A Roma dopo un primointervento della polizia, gli studenti occupano di nuovo diverse facoltà. «L’università sembraun campo di manovre militari», riferisce Paolo Meucci: «la scalinata che conduce al Retto-rato brulica di agenti e carabinieri, il piazzale è invaso da camion e autobus della polizia. Nellefacoltà occupate si tengono roventi assemblee dove si parla di tutto… Il rettore ha fatto af-figgere un manifesto in cui afferma che “sarà costretto nei prossimi giorni a mantenere l’Università sotto il controllo e la sorveglianza della polizia”». […]

[Il 1o marzo] al mattino gli studenti partono in corteo da piazza di Spagna e si dirigonoalla Facoltà di Architettura, a Valle Giulia, per rientrare nel proprio ateneo. «Dodici e unquarto avanti a Architettura – racconta la canzone di Paolo Pietrangeli – non c’era ancorragion di aver paura / ed eravamo veramente in tanti / e i poliziotti in faccia agli studenti».Qualche lancio di uova verso la polizia, e gli agenti reagiscono proprio come dice la can-zone:

«Hanno impugnato i manganellied han picchiato come fanno sempre loroe all’improvviso è poi successoun fatto nuovo un fatto nuovo un fatto nuovonon siam scappati piùnon siam scappati più…le camionette, i celerinici hanno dispersi, presi in molti e poi picchiatima sia ben chiaro e si sapevache non è vero, che non è finita lì…».Non è diversa la versione fornita in burocratica prosa dal questore: giunti ad Architettura,

scrive, i circa tremila dimostranti «hanno subito cominciato a inveire contro guardie di P.S. e ca-rabinieri», passando poi a «lanci di uova, ortaggi, arance e rami di albero divelti dalla zona» (nientedi particolarmente militaresco e nessun terribile «arsenale», come si vede). La polizia carica, einizia così quella battaglia che le immagini dell’epoca documentano in modo eloquente. In quellastessa Valle Giulia, raccontava Franco Giustolisi, l’occupazione era proseguita in modo allegrofino al giorno prima, con alcuni studenti intenti a incidere un graffito sul muro della facciata («ungrappolo d’uva, una mano che si tende per raccoglierla, una figura d’uomo incompiuta»): «Re-nato Guttuso è con loro, dà consigli, prende anche martello e scalpello per qualche ritocco». Inaula magna «una serie di disegni, un elegante a pallini rosa e altre composizioni strane. “Sonostate fatte seguendo un impulso musicale”, mi sussurra uno degli occupanti».

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Il giorno dopo in quel luogo vi sono le cariche della polizia, scontri che si prolungano perore, più di 250 fermi, moltissimi feriti, camionette incendiate. Alla Camera il ministro Tavianiafferma, suscitando ampie proteste: «La debolezza, l’incertezza delle forze dell’ordine fu unadelle componenti del tramonto della democrazia e dell’avvento del fascismo». Il comporta-mento della polizia è condannato duramente invece dal socialista Codignola (oltre che da-gli esponenti del PCI e del PSIUP), e addirittura da un comunicato cui aderiscono il movimentogiovanile della DC, le ACLI e l’Intesa: «La polizia ha agito con violenza inaudita contro gli stu-denti che cercavano di entrare nella loro facoltà».

G. CRAINZ, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Donzelli, Roma 2003, pp. 260-263

Qual era la posizione del governo riguardo all’intervento di polizia?Quali sentimenti predominavano tra i giovani che occupavano le università?

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F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012

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Scontri tra studenti e poliziotti durante una manifestazione nel 1968.