Scozzacampane de stadomè, ovvero... quei de Prado

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Ricordi di Stadomelli

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1ª edizione Agosto 2008© 2008 Copyright EDIZIONI CINQUE TERRE

Viale S. Bartolomeo, 169 - 19126 La SpeziaTel.: 347-4431628

Internet: www.edizioni5terre.comE-mail: [email protected]

In copertina:Giulio Lorenzini, Donatella Drovandi,Nobili Riccardo, Anna e Roberto Fabiani,Linda Franceschi, Marco Fabiani,Paola Franceschi, AdrianoVetrale, Esterina Drovandi,Oriana, Lorenzo, Anna Maria ed Elisa Drovandi,Cinzia Pisarelli, Giulia Bravo, Claudia Fausti,Orietta Franceschi, Elide e Paola, Sandra Grilli,Liliana Malatesta, Maurizio, Lorella,Silla Drovandi, Paola Chiocconi, Mauro Bravo,Stefano Pisarelli, Barbara Fabiani, Diego Drovandi,Debora Della Vigna, Cristina, Patrizia Drovandi.Dietro in terza fila: Luciano Nobili, Simona Andreoni,Paolo Fausti, Claudia Andreoni, Sofia Drovandi,Flavio Franceschi, Dora Quaradeghini.

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Oriana Drovandi

Scozzacampanede Stadomè, ovvero...

quei de Prado

EDIZIONI CINQUE TERRE

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A mio padre e mia madre,perché mi hanno insegnatoche con la semplicità,il lavoro, un sorriso e il cuore...si può fare qualunque cosa.

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Prospero con i suoi figli.

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Introduzione

L’ideanascedal cuore,dallapauradiperdere ipropri ricor-dima, almeno perme, è ancora il bisogno di ascoltare le vocidi chi ha vissuto un’esistenza tanto diversa dalla mia, nellaquale il vuoto di comodità era senza dubbio colmato dallapienezza dei sentimenti. Da sentimenti dimostrati spessocon ruvido pudore, “I fanti i se basan quando i dorman”,quando stanchezza e sudore cementavano le famiglie allun-gandole a tre quattro generazioni, tutte sotto lo stesso tetto,tramilledifficoltà,macomunquecellulaunicadiuna societàche cresceva combattuta tra la voglia di modernità e l’attac-camento alle tradizioni, con la voglia di costruire un futurocon tante certezze.

Per parlare del mio paese, che tutti ma proprio tutti chia-mavano “Prado”, (anche se a Stadomelli di prati ce ne sonoproprio pochi, anzi sono piccoli terrazzi, strappati al boscocon laboriosi muri a secco, che oggi, giorno dopo giornocedono, lasciando il passo a rovi e alla roccia che tornano atrionfare), devo parlare dei personaggi che lo hanno anima-to e caratterizzato, e parlando di loro attraverserò consuetu-dini e ricorrenze del passato. Alcune sono arrivate a noi sol-tanto grazie al racconto degli anziani e ormai sonocompletamente cancellate.Altreper fortuna sono state ripre-se, e vengono ora celebrate con rimarcato vigore.

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Ad aiutarmi in questa bella avventura il cugino, amico edalmeno in questa impresa un vero pioniere... SergioAntognelli. Dopo “Battiventu de Beveun” parliamo dei“Scozzacampane de Stadomè”, sperando che qualcuno cisegua, e si riesca ad arrivare al completamento del lavoro conla 3ª parte... “Battitesti de Carbügiaga”! Buona lettura...

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Dalla chiesa.

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Dove siamo

Stadomelli è un piccolo paese arroccato su di un colle,costituitodapiccoli gruppidi case.Alcunenonformanodellefrazioni vere e proprie. Il punto più alto è “la Lama”, chia-mata così forse perché le case sorgono a picco verso il fiume,su di un dirupo di pietre e pini. Un tempo qui sorgeva ilcastelloMalaspina, di cui oggi rimane solounpezzodimuro.Il castello si ergeva in una posizione ideale per il controllodella zona, potendo rilevare anche i più piccoli movimenti.Oggici accontentiamosemplicementediunpanoramaincan-tevole. In ordine per altitudine, il secondo posto spetta “alForte”, nome che deriva forse dal fatto che ha una configu-razione a ferro di cavallo con un’aia centrale, o forse perchéin tempi lontanissimi il Forte era un punto di transito per isoldati romani, che vi sostavano e vi si approvvigionavano.Qui vivevano i Drovandi “de sórve” di sopra, e sempre quisi trovava una delle tre botteghe, la bottega di nonna Sofiaprima, e della Maria poi. Scendendo i numerosi scalini, cheoggi sono di cemento ma un tempo erano tutti di pietra, siarriva alla “Chiesa”, frazione centrale. Qui vi abitavano iDrovandi “de sotto”. Questo è il cuore del paese, qui sorgo-no la chiesa e l’oratorio, qui da sempre si svolgono la mag-gior parte delle manifestazioni. Dopo un chilometro di stra-da che si snoda attraverso il bosco, arriviamo alle quattrostrade, dove c’è la piccola cappella dellaMadonnaPellegrina,di cui avremo modo di parlare più avanti. Una delle quattro

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Il Carubbio.

La Lama. Rovine del castello Malaspina.

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strade porta a Cavanella, l’altra ai “Bodri”, dove si ha il pia-cere di una vista su quasi tutta la bassa Valle del Vara, con leApuane a far da cornice, e poi si sale a Beverone. La terzastrada porta “al Fornello” dove il gruppo di case sembraappoggiato al monte. La nuova strada corre lungo il colleparallela alla vecchia. Qui c’era l’osteria di Chiocconi e quic’era la scuola, oggi grazie al lavoro degli abitanti del paesetroviamo il campo sportivo, teatro di tanti tornei estivi gio-vanili.Continuandoascendere fiancheggiamo“CàdeBoffa”,la casa dove si sente soffiare. Scendendo ancora per circa unchilometro troviamo una strada sterrata, e dopo cento metriattraverso i campi siamo al “Carubbio”. Questa bella frazio-ne, circondata dalle più ampie “piane” di Stadomelli, riccadi acqua e in pieno sole, è oggi completamente disabitata.Risaliamo la breve sterrata del Carubbio, e scendendo anco-ra per l’asfaltata, dopo poche centinaia dimetri incontriamoun mulino ad acqua: siamo al “Manzile”. Oggi la pala delmulino dei Beverinotti eMalatesta è stata fermata perché gliingranaggi erano da sistemare. Arrivati sul ponte del muli-no, alzando il capo verso il monte che si staglia davanti, sivede il piccolo presepe delle case del “Manzile”. Le famigliepiù significativediun tempoerano iMalatesta e iBeverinotti.Oggi le case, divise da una ripida scalinata che terminava conla cappella dei Malatesta, sono case estive o affittacamere.Dei vecchi abitanti resta soltanto la Ines Drovandi. Da quala strada prosegue per Rocchetta, dopo aver superato “l’AaVècia” e “Pié da Costa”. All’Aa Vecia abitavano Merini eDomenico “Meneghin”, due degli uomini più significatividella vitadelpaese,nellaprimametàdel secolo scorso.Meriniciabattino, falegname, segantin (faceva le assi che servivanoanche per le bare) muratore, suonava il clarinetto, e all’oc-

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Il Manzile.

Il Ramello.

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casione recitava il rosario. Un uomo che è stato, come hagiustamente detto il parroco alla suamessa funebre, tutto ciòche serviva essere per il paese. Domenico, allegro e burlone,ha lavorato tutti i campi di Stadomelli andando “in giorna-ta”, arricchendo il suo lavoro con storielle e barzellette.Tornando al nostro percorso, se invece di proseguire perRocchetta continuiamo a scendere, incontriamo i“Quaradeghini”, la frazione che probabilmente prende ilnome dalle famiglie che lo abitavano in prevalenza. IQuaradeghini, appunto tutti gli abitanti di questa parte delpaese vengono definiti “quelli di la dal canale”. Qui era laterza bottega, quella di Arturo. Si prosegue ora per l’ultimafrazione, il “Ramello”. Vicina al fiume, e con il fiume lega-ta per tutte le attività quotidiane. Qui le famiglie più nume-rose erano i Bilotti e i Landi. Il fiume con le sue piene e lesue secche scandisce da sempre la vita degli abitanti. La pescadelle lamprede aiutava in tempi grami a superare la fame.

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Il Carubbio.

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Oggi in questa frazione vivono dieci abitanti fissi, di cui trebimbi ed una ultranovantenne, Adele, che era la moglie diRino, l’uomo che ha scolpito le soglie delle porte e delle fine-stre di quasi tutte le case del paese. Forte e lavoratore siammalò per il lungo e gramo lavoro di “scalpellino”. Andavanel “ghiaio” sceglieva sapientemente la pietra, che poi concolpi di scalpello sagomava a seconda della richiesta, propriolì dove era nata. Solo a lavoro finito, con l’aiuto dei muli, lapietra scolpita veniva asportata dal luogo di origine per esse-re trasportata a destinazione.

Prospero e Italina.

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Prospero e la Italina

Inizierò con il parlare di Prospero, personaggio allegro escanzonato, conosciuto ovunque per il gusto di stare in com-pagnia e per l’osteria che aveva allestito nella sua casa. Si erasposatoconl’ItalinadiBeveroneperriparareal“pasticciocom-binato nei prati di Beveón pei ventinove”. L’Italina era un beldonnone giovane, che faceva degli ottimi “tagiaìn”, austera eche, forse anche a denti stretti non eramai riuscita a cambiarequell’uomobello e forte,ma troppo amante delle feste e dellebelle donne per metter su famiglia e lavorare come la giova-ne moglie avrebbe voluto. Comunque, com’era in uso altempo, l’unione fruttò quattro splendidi figli, tutti biondi econ gli occhi del colore del cielo di Beverone. I pettegoli rac-contano che più di una volta l’Italina di Beveón, la sera sicopriva e andava a cercare il marito per le cantine, riportan-dolo a casa con modi non proprio “femminili”, e la sua staz-za e il piglio continuano ancora oggi a strappare dei sorrisi alricordo delmarito ancora un po’ brillo che, aprendo le impo-ste cantava... “senza lenzó, ciucca anca en có”.

Che aProspero il vinopiacesse davvero loprova ancheunacanzoncinache si inventaronoper luiquellidiBeverone,nellaquale era coinvolta suo malgrado anche la innocente Italina.

“Avanti Prospeu, adrè a Italina, zü pe a cantina a beve ervin. Er vin du Pizzettu u l’è duzzettu, u l’è duzzettu perchél’è bun”.

Cantata sull’aria di “bandiera rossa”.

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Anche in questa famiglia undolore provò la forza di quan-ti la componevano. Nel 1943 il primogenito Piero non fecepiù ritorno dalla Russia. La gente racconta che la mammaItalina si copriva e poi stava la notte per ore sul terrazzo, perprovare quanto si resisteva al freddo. Girò in lungo e in largoda tutti i reduci della triste campagna di Russia, con la spe-ranza di avere notizie. Per fortuna queste sono arrivate solooggi, lasciandola morire con la speranza che il suo ragazzoneche aveva il 45 di scarpe, si fosse rifatto una vita. Una notadella Russia ci ha comunicato che l’alpino Piero era stato cat-turato nel marzo del 1943, fatto prigioniero e trattenuto peraltri 5 mesi in una cella sotto terra, al freddo e nello strettodove ha trovato la morte. Ora riposa nella fossa n° 25 conaltri 20 ragazzi, pertantononèpossibile recuperare le sue spo-glie. Quando i carabinieri hanno mandato il verbale con ilquale hanno descritto brevemente il calvario di questi ragaz-zi, dal freddoalla fame,undolore acutoè sceso sullamia fami-glia, anche se iononhomai conosciuto lo zioPiero.Ringrazioil fatto che né mio padre né mia nonna abbiano saputo que-sta triste verità.

Ho potuto raccontare dello zio Piero perché conoscevo ifatti, perchè è storia della mia famiglia, purtroppo di questestorie a Stadomelli ce ne sono altre; altre giovani vite se nesono andate a causa della guerra. Non conosco le storie, maun ricordo va anche a questi giovani di cui voglio ricordare inomi: Italo Bilotti, Leopoldo Fabiani,Mario Fabiani, EmilioFabiani.

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Alessio

Alessio è stato l’anima candida di Stadomelli. Oggi sidirebbe che era un ragazzo down dalle meravigliose dotidi comunicazione. In realtà Alessio è stato l’amico il com-plice e il rivale di almeno tre generazioni di abitanti diStadomelli. La saggezza contadina e la sottile ironia gli ave-vano fatto sviluppare la dote di affibbiare ai compaesanidei soprannomi azzeccatissimi, “a furmagiaa – la Elide”,“u surdùn da piazza – Giampiero”, “u paesà – Giulio”, “uspinùn – Lorenzo” e così via. Il suo intercalare “per quan-to de quelo” ancora oggi ci viene alle labbra spesso. Alessiosapeva scrivere e leggere in modo elementare pur avendofrequentato pochissimo la scuola. Da ragazzo sotto l’alaprotettrice di don Emilio passava la giornate a leggere pre-ghiere per il futuro parroco che sognava di diventare. Poisi innamorò delle ragazze più appariscenti delle varie gene-razioni, seguendole e inveendo contro gli spasimanti cheavevano più successo di lui. Infine in vecchiaia prese il viziodi fumare e trascorrere le giornate girovagando per le case,con la speranza di quattro chiacchiere e un bicchiere divino. Una sera d’estate mangiando dei kiwi in casa miadisse: “ben, per quanto de quelo, g’en propiu bune stepumade verdi, me a ne gi’avevumaimangià”. Spesso guar-dando laTVche proponeva le consuete belle ragazzemezzenude affermava: “per quanto de quelo ne gh’èmancu para-gon cue nostre!” e scoppiava a ridere divertito.

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Mi piace terminare con un ricordo di Sergio di Beverone:per il 29 agosto Alessio veniva a Beverone, e il suo posto nonera a caso in fondo alla chiesa, ma bensì in coro, in mezzo anoibeveronesiunpo’più impegnati, checantavamolamessa,o svolgevamo le altre attività per servirla. Alessio veniva incoro con semplicità e naturalezza, come fosse stato uno dinoi, senza la più minima timidezza, quasi un diritto acqui-sito. Le prime volte ci sembrava quasi un fatto strano, poianno dopo anno, Alessio di Stadomelli a sinistra e Giuanìndi Garbugliaga a destra, erano diventati le nostre guardie delcorpo.

Alessio al lavoro.

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La chiesa

La chiesa sorge su un punto rialzato, e ha un arco prero-manico che campeggia dietro il portone principale. Fucostruita in due epoche diverse. Dalla chiesa partono anco-ra oggi quasi tutte le manifestazioni, e proprio nell’oratorioai piedi della chiesa, nel lontano 1757 fu fondata la confra-ternita di San Pietro Martire. È ancora in chiesa il volumeche riporta regole e durata delle varie cariche e le finalità,tutte rivolte all’aiuto di coloro che ammalati non potevanolavorare, che la confraternita si prefiggeva.

A Stadomelli la chiesa è sempre stata un forte punto diriferimento tra le persone, anche se diverse erano le ideolo-gie politiche la chiesa era di tutti e per tutti molto impor-tante. Forse per questo tra gli abitanti di Stadomelli ci sonostati ben due parroci e una suora. I due parroci, don DavideBeverinotti e don Emilio Drovandi, hanno lasciato unaimportante traccia del loro operato un po’ in tutti i paesidove sono stati, e inparticolare aStadomelli eBeverone.SuorLudovica ha esercitato la sua missione a Genova dove si èspenta alcuni anni or sono, ma essendo comunque arrivataad occupare un ruolo importante. Don Davide Beverinottiha lasciato la sua famadiparroco fermoe irreprensibile, tantoche i bimbi se a messa parlavano, venivano sgridati con laclassica frase “se ti vedesse don Davide!”. Don EmilioDrovandi ha, con i suo innumerevoli scritti, fissato tantiricordi degli avvenimenti religiosi, ed è stato parte attiva in

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molte ricorrenze religiose della vallata. Anche la cappella deiMalatesta al Manzile fu fatta costruire da un parroco, cheandò a professare la sua fede in Sardegna, ma fece costruireal Manzile la cappella dove ogni anno l’otto dicembre veni-va celebrata la “Madonna del Manzile”. Oggi questa festanon viene più celebrata perché la cappella è inagibile.

Sopra e nella pagina accanto: la Confraternita e il suo statuto.

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Don Davide Beverinotti.

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Piccole note storiche

Scarsipurtropposonogli studidedicati allamillenaria sto-ria di Stadomelli.

MarioNiccolòConti,nell’articoloChiesemedioevaliaduenavate in Lunigiana (1927), avanza l’ipotesi che la chiesa diStadomellipossaesseredatata“aqualcheannoinnanzi ilmille”epossa avere avutooriginemonastica.1PlacidoTomaini attri-buisce adUbaldoFormentini confermadellamedesimadata-zione, “perché un arco di pietra arenaria, sagomato e decora-to, che esiste sopra la porta principale (dalla parte interna), inantico era arco sacro che stava sopra l’altaremaggiore”.2Nonèstatopossibileverificare l’ipotesidelFormentini,perchénonindividuabile nella bibliografia dell’autore esaminata: si puòforse dedurre che Tomaini riporti opinioni raccolte soltantooralmente dallo storico lunigianese. Un diverso orientamen-to della chiesa, con l’altare maggiore originariamente collo-cabile nell’area dell’attuale ingresso, cozza, del resto, con laricostruzione avanzata dal Conti, che individuò due fasi dif-ferentinellacostruzionedell’edificio,oggettoperò, inuninde-finito tempo, di un semplice ampliamento, con allargamen-to della navata destra ed allungamento di quella centrale,senza rivoluzioni nell’impianto originale.

1 - CONTI, M.N., Chiese medioevali a due navate in Lunigiana, in Memoriedell’Accademia lunigianese di scienze “G. Capellini”, 1927, pp. 9-11.2 - TOMAINI, P., Brugnato città abbaziale e vescovile, documenti e notizie, Cittàdi Castello, 1957, p. 523.

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La chiesa di Stadomelli è citata per la prima volta nelledecime bonifaciane del 1296-1297 come “cappella deStadamegio”,3 direttamente soggetta al vescovi di Luni.

Sostiene Geo Pistarino che la cappella “sorgeva sul ter-riorio di una vasta tenuta montana dei vescovi di Luni”,4in cui erano comprese anche le chiese di Calice, diBocchignola (Veppo), di Padivarma, di Beverino.

La tenuta confinava con i possessi dell’abbazia diBrugnato: fu dunque probabilmente protagonista deinumerosi scontri che opposero, almeno sino all’erezionedi Brugnato a diocesi (1133), l’abate brugnatese ed il vesco-vo di Luni.

Inquadrando Stadomelli in questo contesto storico èforse possibile avanzare, imprudentemente, un’ipotesi eti-mologica del toponimo, interpretandolo come diminuti-vodel termine latino “statumen”, col possibile sensodi “pro-tezione”, “rinforzo”, quindi, in sostanza, Stadomellipotrebbe significare di “piccolo luogo di difesa”.

Con la progressiva erosione del potere temporale deivescovi di Luni, Stadomelli entrò nel dominio dei mar-chesi Malaspina di Villafranca, del ramo cosiddetto “dellospino secco”.

Per tutta l’età moderna, la comunità di Stadomelli dipe-se dai marchesi di Villafranca. Da metà ’500, i fratelliBartolomeo e Giovanni Battista Malaspina si spartirono idomini famigliari, dando origine a due linee dinastiche:lasciata in comune Villafranca, al primo furono assegnate le

3 - PISTARINO, G., Le pievi della diocesi di Luni, Bordighera - La Spezia, 1961,p. 85.4 - Ivi, p. 71.

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comunitàdiVirgoletta,Villa,BeveroneeRocchetta, al secon-do di Castevoli, Stadomelli e Cavanella.5 Alla morte diGiovanni Battista il feudo fu ulteriormente diviso tra i figliTommaso, cui spettòCastevoli, edAlfonso chedivenne con-domino di Villafranca, e signore di Cavanella e Stadomelli.

Ad Alfonso successero Marzio (morto nel 1600 circa),Scipione (1600-1656), Alfonso II (che entrò in possessoanche di Castevoli, per estinzione dei Malaspina signori diquel feudo).AlfonsoIImorìprobabilmentenel1722, lascian-do erede il figlio Scipione II, morto intorno alla metà delXVIII secolo. Non avendo figli, a Scipione successe il fratel-lo Opizzone Paolo, morto nel 1759. Ultimo signore diVillafranca, Cavanella, Stadomelli e Castevoli fu TommasoMalaspina, figlio di Opizzone Paolo. Nel 1797 infatti, peredittodel generaleChabot, inviatodaNapoleoneBonaparte,i feudi imperiali lunigianesi furono aboliti ed annessi allaRepubblica Cisalpina, unita poi alla Cispadana e confluitainfine nel Regno d’Italia.

Per decisione del Congresso di Vienna il feudo fu peròricostituito ed attribuito al ducato di Modena.6

Dal ducato di Modena, Stadomelli entrò nell’Unitàd’Italia, comeparte delComunediRocchetta diVara, aggre-gato alla Provincia di Massa-Carrara. Il Comune fu inglo-bato infine nella neonata Provincia della Spezia dal 2 feb-braio 1923.

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5 - BRANCHI, E., Storia della Lunigiana feudale, Pistoia, 1897-98, II, p. 98.6 - FORMENTINI, U., Guida storica etnografica artistica della Val di Vara, LaSpezia, 1960, p. 59.

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Circolare ecclesiastica.

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La parrocchia di Stadomelli appartenne invece alla dio-cesi di Luni-Sarzana sino al 1822, quando venne aggregataalla nuova diocesi di Massa. Fu infine passata alla diocesi diBrugnato, per mutamenti territoriali, nel 1959.7

Si ringrazia il dott. Riccardo Barotti, assessore alla culturadel comune di Rocchetta Vara, che ha scritto questa indaginestorica su Stadomelli in occasione dellamostra di cartoline nata-lizie fatta nel Natale 2008.

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7 - TOMAINI, P., op. cit., pp. 512 e 523.

La chiesa.

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Sofia, la prima botegàa.

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La bottega

Un tempoogni paese aveva la sua “botega”, e a Stadomelline esistevano ben tre: una al Forte, la “botega” della Sofia,unaalFornello,daCiocón, eunaaiQuaradeghini,daArturo.La bottega del Forte era la più importante, ossia quella piùrifornita.LaSofia eraunadonninamagra, e aveva il suonego-zio in una piccola stanza che si affacciava su un terrazzocoperto da un pergolo di uva. Quando suo nipote Renatoprese moglie rilevò la piccola bottega trasferendola al centrodel Forte. Si occupava della bottega La Maria, moglie diRenato e mamma di Alessio e Giovanni. Una sola occupa-zione non era di quei tempi, pertanto spesso la Maria lascia-va l’anziana suocera Margherita ad occuparsi della bottega,e andava a lavorare nelle terre con il marito. La Margaita erauna donnina magra magra, attenta alla pulizia e che facevadella parsimonia il suo principio di vita. Allora le regole deinegozi erano bendiverse: non c’era la scadenza nei generi ali-mentari, non esisteva lo scontrino fiscale, e spesso i clienticompravano a credito, pagando a fine mese quando arriva-va lapaga. Il negoziante si rifornivadei generi di primaneces-sità andandoapiedinel vicinopaese, trannepane latte euova,perché tutte le famiglie di questi generi si provvedevano dasole. Guardando la Maria salire dal sentiero che veniva daPadivarma con il suo carico sul capo sotto il “varco”, quellaciambella di stoffa che aiutava a proteggere il capo ed equi-librare il carico, mi veniva da pensare ad una giraffa con i

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suoi movimenti lenti e coordinati, il capo eretto e rigido, emai proprio mai l’ho sentita lagnarsi per il carico.

Per anni Orfeo, emigrato in Inghilterra, ha raccontato diun panino che la Margaita gli aveva fatto: “a me racoman-du, a mortadela a me piasa sutila” - le disse Orfeo.

“Ne tè preocupà, na feta a va bén”? - rispose lei.“Quante l’è”?- le chiese poi Orfeo, e la Margaita:“n’etu e mezo ninò”.L’ultima “botega” era stata aperta dalla Enea, che aveva

creato un bel negozio di taglio moderno, chiuso definitiva-mente alla fine degli anni ’70.

La “botega” del Forte con la Maria e Renato.

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La strada

LastradaaStadomelli è stataultimatanel1968.Dapprimatutte le vie di collegamento erano i sentieri, o come si usavadire “le mulattiere”, che si snodavano nei boschi. I due prin-cipali percorsi erano quelli che raggiungevano il Ramello, inpoco più di venti minuti di buon passo, e Padivarma, per-correndo i quali si raggiungeva la riva sinistra del Vara. Perraggiungere la riva destra, lungo la quale correva l’Aurelia...si utilizzava una passerella azionata con un cavo d’acciaiosospeso sull’acqua, fra le due rive. La bella foto che seguerende bene l’idea, anche se il sorriso delle tre ragazze forsesarebbe stato meno spensierato se il fiume sotto di loro fossestato in piena, e la breve storia che segue rende chiaro il con-cetto appena esposto.

LaLinadeiQuaradeghini doveva andare aPadivarmadallasartaaportargli la stoffaper fareuncappotto, l’avrebbeaccom-pagnata la CarmelaMerini. Eravamo sul finire degli anni ’40,di gennaio, la vigilia della befana, il fiume ricopriva il suo lettoper tutta la larghezza, e il babbodella Lina disse alle due ragaz-ze di fare attenzione, naturalmente nelmodo che si usava allo-ra “fantèle, se andé en tè Vaa, quande a sé a ca a v’amazzo!”,cioè “se cascate nel fiume, quando tornate a casa vi dò una fra-cassatadibotte”.LaLinaeraesperta,avevaattraversato il fiumemolte volte seduta sopra quella tavola, e quando era necessa-rio andava anche a “traghettare” il medico. Iniziarono la tra-versata sedendosi sulla tavola “all’amazzone”, cioèconentram-

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La passerella sul fiume Vara:Anna Quaradeghini, Celstina Malatesta, Meri Quaradeghini.

be legambedaunapartedella tavola, eper equilibrarsimeglio,una ragazzadaunaparte eunadall’altra.LaCarmelaperònonsi sentiva tranquilla, ementre la Lina era impegnata a far scor-rere il carrello a forza di braccia, come si può intuire dalla foto,lei più guardava in giù e più gli aumentava la tremarella, ecomeper cercare conforto le chiese “non cascheremomica nelfiume?”. La Lina le rispose “non lo dire nemmeno per scher-zo!”, ma non terminò nemmeno la frase che la Carmela sci-volò dalla passerella trascinando anche lei nel fiume. La Lina

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sapeva anche nuotare, ma oltre al fiume in piena c’era laCarmela che le si era aggrappata ai capelli cercando di salvar-si, e le impediva qualsiasi movimento. Furono attimi, e for-tunatamente la forza della disperazione venne in aiuto dellaLina, che forse non riuscendo nemmeno a capire come, riu-scì a tirar fuori dal fiume la sua compagna e se stessa.

Il danno maggiore fu proprio quest’ultima a subirlo, poi-chè nella caduta si sganciò anche la tavola su cui erano sedu-te, che le cascò in testa, provocandole un bell’ematoma. Sullariva del fiume fortunatamente vi erano dei paesani, che pre-starono alle ragazze i primi soccorsi, come quello di cambiar-si gli abiti fradici di acque gelide. Passato lo spavento, si accor-sero che incredibilmente in quei momenti concitati, la Linanon aveva abbandonato la preziosa borsa che portava al brac-cio, e anch’essa fu salva. Nel frattempo nel vicino paese diBoccapignone si era sparsavelocemente la falsanotizia chedueragazzeeranocadutenel fiumeinpiena,ederanostate inghiot-tite dai suoi flutti.

Il desiderio di avere un ponte al Ramello era molto senti-to a Stadomelli, ma stranamente e chissà perché, sembra nonda tutti. Probabilmente potremmo ricondurre questo timorealla paura di perdere la propria identità di venire quasi “con-taminati” da ciò che nel resto del mondo stava accadendo ecambiando, nel modo di pensare e vivere.Tant’è che il parro-co, la domenica successiva a questo fatto, durante la predicadella messa celebrata in ringraziamento dello scampato peri-colo e presenti le due giovani, disse: se ancora fra di voi qual-cuno pensasse di opporsi alla costruzione del ponte, mediticosa poteva succedere a queste due ragazze.

I racconti di chi ha dovuto attraversare, magari carico dicarbone o altro, il fiume gonfio d’acqua con l’asse della funi-

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via che sfiorava le acquetorbide, non si contano.Fino al 1968 i mulierano l’unicosollievoperarrivare fino alla riva delfiume Vara con i carichidi carbone, funghi, legnao altro. Poi arrivaronoper la strada sterrata iprimi trattori, e subitodopo la prima 600 Fiatritratta nella foto.

Ilmeritodella costru-zione del Ponte delRamello va attribuitoall’Amministrazione diFrancesco Beverinottiallora Sindaco, di lui abbiamoparlato a proposito della scuo-la, ma va detto che nonostante le sue caratteristiche di riser-vatezza e discrezione, che poco si adattano alla carriera poli-tica (L’iadeiBeveinotti,nel sensocheunpo’ tutti iBeverinottisono persone discrete e riservate), riuscì ad eliminare unodegli ostacoli più grandi per coloro che a Stadomelli abita-vano, e ancora oggi hanno deciso di restare: il fiume.

Il Ponte del Ramello, nonostante sia costituito da tavolee cavi di acciaio, e per chi non lo attraversa spesso è causa dinon poca ansia per il suo ondeggiare, resta ancora oggi unaimportante via di comunicazione tra Stadomelli e l’Aurelia.

Per laprimacorriera ilpaesehadovutoaspettare altriquin-dici anni.

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Prospero e la prima macchina.

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La scuoletta

La scuola era naturalmente pluriclasse, ed era in casa diCiocón. Intorno agli anni 1920 - 30 contava circa 35 alun-ni. Silla, alunno di quel tempo, ha raccontato che spesso sulledita arrivavano delle righellate, e se qualcosa non filava liscio,il castigo del granoturco sotto le ginocchia era all’ordine delgiorno. In fondo alla classe veniva posizionato il banco del-l’asino. I bimbi si recavano a scuola a piedi, portando tutti unpezzo di legna per la stufa.Una solamaestra faceva scuola pertutti i cinque anni, e a fine anno si andava a Padivarma o aCavanella a fare l’esame, sempre a piedi.

Stadomelli, come per tutte le figure importanti, aveva ilsuomaestro.Si trattavadiFrancescoBeverinotti:nonnascon-do la difficoltà di ricordare il nomedel “maestro”proprioper-ché io l’ho sempre sentito chiamare maestro. Francesco hainsegnato aVeppo,Madrignano e in altri paesi dell’alta Italia.Per circa quindici anni ha insegnato a Stadomelli, e per altret-tanti è stato sindaco del comune di Rocchetta Vara, ma que-sto è passato sempre in secondo piano tanta era l’importan-za che si dava alle persone di cultura, mentre per la politicain quegli anni non c’era tempo. Il maestro Beverinotti erasevero e rigido nei modi e nei castighi, ma senz’altro i bimbidiquel tempo,cheprimadiandareascuolaportavanolepeco-realpascoloperandarlepoi a riprendereal terminedella scuo-la, avevano le orecchie disposte a qualche tirata di troppo, chei bimbi di oggi non sarebbero in grado di sopportare.

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Un gruppo di alunni della scuola a Stadomelli.

Negli anni ’70 arrivò nella scuola sussidiaria del Fornellolamaestra Pieranna. Giovane e alle prime esperienze, si trovòuna classe di bimbi dalla prima alla quinta, maschi e femmi-ne, pochi ma ben determinati.

Si creò subito una specie di sodalizio tra tutto il paese e lamaestrina, tanto che quando il tempo brutto o la neve nonconsentivanodisalire la stradasterrataconlamacchina, ibimbiaccompagnavano lamaestra per un trattodi strada a piedi perfarle compagnia. La mattina quando la maestra arrivava conla giardinetta del suocero, tutti i bimbi sorridendo la saluta-vano con un “frena Ugo!” indirizzato alla macchina, ancheperché lamaestranoneraproprioun’autistaesperta,maanco-ra oggi capita che i bimbi di allora quando vogliono fermareun’azioneoun’autodiunamicodicanoquell’intercalare“frenaUgo” che era diventato di uso comune nella scuola.

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Un giorno gli alunni stavano giocando fuori della scuo-letta nell’intervallo, quando uno di loro, Stefano Pisarelli,arrivò di corsa alle spalle della maestra, il pugnetto chiuso eil sorriso dispettoso non faceva sperare niente di buono. Inun lampo la manina finì sotto il colletto della maestra chesbiancando iniziò a chiedere... Stefano cosa mi hai messo...Stefano dimmi cosa... una rana, rispose Stefano ridendo, e lamaestra roteando le pupille finì lunga distesa sul prato. Civolle ilFernetdellaEgleper far riprendere la signorinaPierannadallo spavento, ma da allora neanche Stefano che era il piùdispettoso osò tirarle altri animali addosso.

La scuola a Stadomelli fu chiusa per sempre nel ’74, lamaestra Pieranna è stata l’ultima insegnante, e nel ricordo ditutti noi, e credo anche nel suo, quello è stato un periodoveramente bello.

Stefano Pisarelli, Lorenzo e Oriana Drovandi,Riccardo Nobili, Gerardo Drovandi.

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Il maestro Francesco Beverinotti.

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L’acqua

“Aigua ch’a pissa, l’ha bevù a bissa l’ha bevù Cristo Re, aaposso beve anche me”.

Acqua che scorre l’ha bevuta il serpente, l’ha bevuta Dio,la posso bere anch’io.

A Stadomelli l’acqua potabile è sempre stata un proble-ma, è arrivata circa 50 anni fa da Beverone. Anche per l’ac-qua però la situazione è molto diversa se parliamo della fra-zione della chiesa o del Manzile. Alla chiesa gli abitantiavevano costruito un pozzo nel bosco dove era stata trovatauna fonte d’acqua e lì, dapprima con una pompa azionata amano, e poi con la corrente, l’acqua veniva pompata all’u-nica fontana al centro della strada. Questo avveniva tutti igiorni alla solita ora, generalmente alcuni uomini, suonava-no la campana poi tutti andavano alla fontana in modo taleche quando l’acqua arrivava, venivano riempiti i contenito-ri necessari per un’intera giornata. Scendendo si trovava sem-pre più acqua, il Fornello usava la sorgente della Novegina.Il Manzile, con il canale che arriva dal Monte Nero era riccod’acqua. Al Carubbio, con un preciso sistema di canali, l’ac-qua bagnava tutti i campi, e veniva raccolta in due grossevasche. È importante sottolineare che spesso si ricorreva,come per il Carubbio, ad un sistema di canalizzazione delleacque, detta dei “biedi”, che consentiva di annaffiare anche

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Alessio, Ada e Sofia Drovandi alla fontana.

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i campi, e quando non era possibile far arrivare il “biedo” daun campo a un altro, si ricorreva all’aiuto di canale ricavatedai tronchi di pino scavati al centro.Questa attività era esclu-siva di “Tognìn delCarubbio” che deteneva l’unica “sgorbia”del paese. La “sgorbia” era un attrezzo munito da un lato diuna specie di ascia e dall’altro di un “cucchiaio” che scava-vano e incurvavano il pino fino a farlo diventare come unacondotta che consentiva all’acqua di defluire da un campoall’altro. Per nessun prezzo Tognìn avrebbe ceduto la suasgorbiama, cosa ancora più singolare per i nostri giorni, nes-suno avrebbe osato sostituirsi a lui in questo importanteruolo. Il Ramello utilizzava un’altra fonte ancora sotto ilmonte, per l’acqua potabile, mentre per tutti gli altri usilungo il fiume erano state scavate delle “polle”, cioè dellevasche di terra dove l’acqua si fermava e si poteva raccoglie-

Orietta Franceschi, Fedora Antonella Lucia Lorenzino e don EmilioDrovandi, Giampiero ed Elisabetta Fabiani, alla fontana della chiesa.

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re con i secchi più agevolmente che non lungo il corso delfiume, l’acquacosì venivapresa a secchi eportata a casa, gene-ralmente dalle donne, sul capo. Giovanni Beverinotti, alquale ho chiesto notizie ha detto: ”i a miavan ma i ne ghel’evan” ovvero la vedevano ma non ce l’avevano, ma ovun-que l’acqua era poco comoda, e le donne lavavano lo strettoindispensabile.

Il bucato “a bugada” si faceva settimanalmente: si mette-va la biancheria piegata nel concone, cioè un grosso vaso diterra cotta che aveva un foro in basso, poi si poneva sopra ilconcone un apposito panno come fosse una sorta di coper-chio, e sopra di esso si metteva la cenere. Poi si versava l’ac-qua calda sopra la cenere, e il compito del panno era quellodi non far scendere la cenere nei panni, ma soltanto le sueparti detergenti, che si infiltravanoneipanni rendendoli can-didi. Quando dal foro in basso iniziava a riuscire l’acqua,dapprima era grigia poi pian piano ridiventava limpida, allo-ra la “Bugada” era pronta. I panni una volta raffreddati veni-vanoportati al canalee lavatidefinitivamente.Unavoltaasciu-gati venivano stirati con quei graziosi ferri da stiro che tuttiabbiamo visto, che venivano riempiti e scaldati con la bracerovente, però si stiravano solo i vestiti dalle “feste” le cami-cie e poche altre cose. Le docce e le lavatrici sembravano unacosa ancora lontana, e invece...

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I segantìn

Nei mesi invernali, con le giornate più corte dell’anno, leore durante le quali era possibile lavorare erano poche, dicontro a questo c’era però il vantaggio che il freddo inver-nale consentiva quelle attività particolarmente faticose cheera impensabile svolgere in altre stagioni, una di queste eraquella del “segantìn”. I segantin erano coloro che armati di“soracco” ricavavano dai tronchi più grandi le assi. AStadomelli questa attività era svolta prevalentemente daMerini, Innocente, Angioletto e Gino. L’albero era tagliatoin tronchi normalmente di due metri, poi trasportato con imuli nel luogo prescelto del bosco in cui era stato costruitounappositobanco, rudimentale,ma efficaceper questa lavo-razione. I tronchi venivano squadrati con sapienti colpi diaccetta, e poi segnate su di esso le linee che si sarebbero dovu-te seguire con il soracco, usando il carboneoun’apposita cor-dicella ricoperta di polvere colorata, tesa e poi pizzicata dimodo che lasciava la sua traccia lungo tutto il tronco. A que-sto punto, tramite un gioco di leve e cunei, il tronco venivaposto sopra il banco e legato con delle catene, lasciandolosporgere per metà. Iniziava così il lavoro con il soracco, tira-to in su dal segantìn che stava in equilibrio sopra il tronco,ed in giù dall’altro segantìn che vi stava sotto. Era un lavorobasato sulla forza fisica, la resistenza, la precisione e il sin-cronismo. Il tronco veniva “affettato” per la lunghezza tantevolte quante erano le tracce segnate in precedenza, arrivan-

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do fino al “ban-cone”, cioè ametà, poi venivagirato di 180gradi e si rico-minciava lo stes-so lavoro dall’al-tra parte. Questoera un lavoro cheveniva descrittocome durissimo,e le poche perso-ne che lo faceva-no avevano l’am-mirazionedi tuttii giovani delpaese. Le ultimeassi che sonostatesegate conquestometodo risalgono al ’58. Merini, al funerale di Innocente,disse che le tavole usate per la cassa di quest’ultimo le ave-vano tagliate proprio loro due insieme.

Francesco Merini, uno dei segantin

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Le cave

Stadomelli è stato inpassato“terradi conquiste”per impre-sari che, alla ricerca di facili guadagni, aprirono ben tre caveneimonti circostanti il paese. Inunadiqueste tre,posta soprail Manzile, veniva estratto il caolino. Estratto a mano veni-va trasportato a dorso di mulo sul terrazzo dei Malatesta. Ilracconto ci è arrivato proprio da una di loro, GemmaMalatesta, che in una fredda mattina di febbraio è venuta atrovarmi in ufficio, con un bel piatto di ceramica bianca. Sulretro il piatto aveva stampato il nomeGinori e una grossaMche stava per Malatesta. Il piatto era uno dei due sopravvis-suti di un servizio da 24, che i Ginori fecero proprio per iMalatesta con il caolino estratto al Manzile.

Già agli inizi del ’900 il pretore di Calice al Cornoviglio,Ratti, aveva segnalato tracce di caolino nella zona. Dopo l’i-niziale entusiasmo, i Ginori abbandonarono l’attività estrat-tivaaStadomelli, perché facendo i conti si accorserochecom-prare le materie prime per produrre ceramica direttamentedalla Germania, costava meno che estrarlo in Italia, e cosìabbandonarono la cava, lasciando solo i segni di una fioren-te attività che il paese aveva fatto. Ancora oggi la famigliaGinori è proprietaria del bosco dove era situata la cava dicaolino.

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Bruno Pisarelli sul mulo.

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Il gigante è caduto

UnpoetadilettantediCavanella,oggimorto, scrisseparec-chi anni fa: “Quattro case, tre cipressi... un paese tra i piùbelli, tutto questo è Stadomelli”. Da questa semplice descri-zione si capisce come i tre giganti plurisecolari siano stati unelemento importante per il paese. Il Caselli nel suo libro del1933“IlViandante -Lunigiana ignota”descrivevaStadomellicosì: “Da Cavanella in tre quarti d’ora salgo al Fornello, ungruppo di cinque case,mèta di cacciatori, che trae il nome daun antico forno per la fusione di minerali cuporiferi, che parsi trovassero nella roccia serpentinosa, fiancheggiante il sen-

I tre cipressi e la chiesa.

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tiero per il Manzile. Da qui bisogna fare una puntata al vici-no Stadomelli, dove tre rari cipressi secolari, catalogati fra lebellezze naturali d’Italia, che meritano di essere fotografati.Essi giganteggiano in gruppo meraviglioso presso la Chiesadi S. Giovanni la quale può interessare non poco gli espertid’arteanticaperunarcodapocomesso in lucede’primi tempidel cristianesimo”.

Il cipresso più vicino alla chiesa, dopo anni di lunga e noncurata malattia, pian piano è seccato, e nel mese di gennaiodel 2008 è stato abbattuto. Se potessero parlare i due gigan-ti rimasti soli, probabilmente racconterebbero di come tuttie tre insieme hanno visto il monte e la vallata mutare neglianni, e sarebbe bello ascoltare dei tanti matrimoni e battesi-mi ai quali hanno fatto da testimoni. Delle risate dei bimbiall’uscita dalla chiesa, e dei baci timorosi dei giovani, strap-pati al buio da corteggiatori appassionati, sotto la protezionedei grandi rami.Hannovistodueguerre, il terremoto la fame,ed oggi di uno non resta che un ceppo alto unmetro circa daterra. L’inquinamento ha avuto lameglio sulla sua fibra forte.

Guardando intorno a noi non vediamo altro che alberiammalati, comeinunfilmdi fantascienza; sembrache lanatu-ra ci stia urlando una richiesta di aiuto muta, ma terribile...il gigante di Stadomelli speriamo possa essere un monito, enon un presagio. Per ora in noi di Stadomelli si è sentita unavolta di più la sensazione di abbandono. Il cipresso è statoammalato per tanti anni,ma nessuno è intervenuto, così nonci resta che il rimpianto per questo amico che se ne è andatoper sempre.

“Stadomelli, quattro case, due cipressi... un paese tra i piùbelli”.

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I carbonìn

Neimesi invernali il bosco è “fermo”, nel senso che la linfaè ferma, e le piante vivono in una specie di letargo. In com-binazione con la scelta della luna idonea, è il periodo adat-to per tagliare il legname da impiegare per le varie lavora-zioni edusipoiché, equestaèunacosache l’uomohascopertoda secoli, seguendo queste precauzioni il legno lavorato durapiù a lungo e non dovrebbe fare i tarli. Approfittando anchedel fatto che in questi mesi la campagna dava un po’ di tre-gua, per racimolare un po’ di soldi gli uomini dedicavanoparte del loro tempo nell’utilizzo delle varie risorse che pote-va offrire il bosco, adeguandosi anche alle varie richieste delmercato.Fra levarie attività che sipotevanosvolgerenelboscovi era quella della ricerca di radiche “zocche” da pipe, ossiasradicavano con il piccone i “costi” cioè l’erica, poi le ripuli-vano eliminando dalla ciocca vera e propria tutte le partisuperflue con il falcino, comemarciume, terra e piccole radi-ci. Infine lemettevano tutte assieme sotto terra o altro luogo,purché fosseroall’umido, evitandocosì che si formasserodellespaccature che le avrebbero rese inutilizzabili dalle fabbriche.Quando avevano raggiunta una certa quantità, le portavanoa Pian di Barca, dove un commerciante passava un giornofisso tutti i mesi. Altri invece si dedicavano alla produzionedi carbone. Il tentativo di spiegare questo lavoro è arduo, losarebbe già per chi le carbonaie le ha fatte per davvero, figu-riamoci per chi lo ha sentito raccontare, ed egli stesso lo deve

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immaginarenellapropria fantasiaperpoi cercaredi farlocapi-re ad altri, ed il tutto senza l’aiuto di immagini. La primaoperazione consisteva nel taglio del bosco, della così dettalegna forte, cioè di quelle varietà adatte alla produzione delcarbone. Il quantitativo di legna dipendeva un po’ da quan-to si voleva far grande una carbonaia, ed anche da quanta sene poteva avere a disposizione; comunque per dare un’idea,si otteneva un quintale di carbone ogni cinque e forse più dilegna, e da una carbonaia piccola si ottenevano tre o quat-tro quintali di carbone, raddoppiando il peso per una gran-de. La legna veniva radunata inuno spiazzopreventivamentepredisposto, ed a quel punto iniziava il lavoro di assemblag-gio della carbonaia. I “carbonìn” piantavano nel terreno, nelcentro dello spiazzo che sarebbe stato il centro della carbo-naia, alcuni paletti di legno di diametro attorno ai dieci cen-timetri, disponendoli sull’ideale circonferenza di un cerchiolargo una trentina di centimetri, leggermente scostati l’unodall’altro, e di altezza attorno ai due metri. Normalmenteper questi paletti si utilizzava il legno di pino, ma si sarebbepotuto utilizzare anche dell’ontano o altro, purché non fosselegna forte. Si era costruito quello che sarebbe stato il “cami-no” della carbonaia, mentre il vuoto compreso all’internodella sommità dei tronchi si chiamava “bocca”, dei termininon casuali, ma che ne indicavano proprio il compito. Inquesta fase iniziale i tronchi erano stati legati all’estremitàsuperiore con giunchi, ginestre o “un’antorta”, cioè cordeimprovvisate conmateriale vegetale,per far si chenonsidiva-ricassero, e il camino avesse un diametro simile per tutta lasua altezza. A questo punto si mettevano i tronchi di legnaforte attorno al camino, verticalmente e unpò inclinati versodi esso, in modo da ottenere un cerchio uniforme di tron-

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chi, il cui diametro variava a seconda del quantitativo dilegna a disposizione. Se alcuni tronchi erano troppo grossidi diametro dovevano essere spaccati, in modo da ottenereuna certa uniformità di dimensioni. Comunque i più gran-di si mettevano verso l’interno, dove si sarebbero sviluppatedelle temperature un po’ più alte, compensando così le dif-ferenzedidimensioni.Sopraquesto“giro”di tronchineveni-va posto un secondo, e così si arrivava ad una altezza totaleattorno ai due metri, quella del camino, ottenendo unacostruzione conica con la punta tagliata, la “bocca”.Occorreprecisare che questi due “giri” di tronchi in effetti non eranocostruiti indue tempidiversima contemporaneamente, poi-ché i tronchi non erano stati tagliati con il metro in mano,ma a occhio, quindi un pezzo lungo del primo “giro” eracompensatodaunocortodel secondo, inoltredovevanoesse-

Lodovico Drovandi con il suo asino.Per lui il bosco è stato il lavoro di tutta la vita.

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re incastrati fra loro nel modo più compatto possibile. Se cisi era imbattuti in un pezzo di bosco composto in maggio-ranza da alberi di grosso diametro, questi ovviamente dove-vanoessere tutti spaccati, quindi il carboneottenutoeradetto“carbone di spacca”, ed era un po’ meno pregiato dell’altrofatto di pezzi più piccoli. La parte più bassa della carbonaiavicina al terreno, veniva coperta con le cosiddette “códeghe”,cioè zolle composte da erba e terra. Si proseguiva coprendotutta la parte superiore, ponendo prima uno strato di stra-maglie, che aveva lo scopo di impedire che il successivo stra-to di terra con cui si completava la copertura penetrasse frai tronchi. Il monte di legna ricoperto con la terra battutasomigliava a un vulcano. Si passava ora alla fase più delica-ta, difficile da seguire con un manuale, come noi oggi siamoabituati a fare, diciamo più un lavoro fatto di piccoli trucchiderivati dall’esperienza, da adottare a seconda di come sisarebbe comportata la carbonaia e dal tempo atmosferico, inmodoparticolare dal vento. Sarebbe stato impossibile accen-dere il fuoco nella base del camino, le mani non sarebberoarrivate fin laggiù, ma vi arrivava la brace accesa che manmano cadeva dal fuoco di piccoli legnetti che si accendevasulla bocca, poi quando il fuoco si era propagato alla base labocca veniva chiusa con una “ciapa” cioè una lastra di pie-tra, ed in mancanza di questa con una códega di dimensio-ni idonee. La scelta del legno di pino per fare il camino nonera stata casuale, ora il pino che èun legnodebole, pianpianosi consumava lasciando al suo posto un vuoto, il caminoappunto, che permetteva quel minimo di circolazione diossigeno, che confluiva all’interno da dei piccoli fori prati-cati sull’esterno della carbonaia, cioè sulla terra che la rico-priva. La carbonaia doveva essere alimentata dalla bocca per

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due o tre giorni, ogni quattro ore circa, con della legna pic-cola, e la ciapa si toglieva lo stretto temponecessarioper com-piere questa operazione, altrimenti sarebbe entrato troppoossigenocheavrebbe fatto incendiare tutta la legna. “Bisognadaghe da mangià, se la móa addio carbón”, se si spegnevaaddio guadagni. L’alimentazione della carbonaia continua-va finché iniziava un processo di lenta ed autonoma com-bustione interna, senza fiamma,controllatadai fori cheeranostati fatti nei suoi fianchi; troppi fori avrebbero fatto con-fluire troppo ossigeno all’interno, causando una combustio-ne troppo veloce, pochi sarebbero stati insufficienti non cau-sandola per niente, e la legna da quel lato non diventavacarbone. Per capire se la combustione avveniva in modouniforme, visto che non si poteva vedere cosa avveniva den-tro, era quello di appoggiarvi le mani e di sentire così se eracalda in modo uniforme; se un lato era troppo freddo vi sifacevano dei fori in più, viceversa si tappavano. La carbonaiaera pronta dopo che terminava la combustione, e questo sicapiva prima di tutto come al solito dalla grande esperienza,e basandosi su vari indizi: il camino, cioè lo spazio vuoto chevi era fra i paletti di pino, era aumentato perché questo legnoleggero si era consumato lasciando un ulteriore vuoto, cheveniva pian piano colmato dalla legna che trasformandosi incarbone e diminuendo di volume essa stessa, si comprime-va sempredipiùverso l'interno,causando il rimpicciolimentodelle dimensioni esterne della carbonaia, e anche dal fattoche il fumodi colore nero agli inizi della combustione, schia-riva fino a diventare bianco. L’umidità della legna era stataasciugata tutta ed il carbone era pronto. Si iniziava così atogliere la terra, e a scoprire il carbone, ma non era finita,perché poteva succedere che parte del carbone di un por-

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zionedi carbonaia copertapocobene,non fosse ancora spen-to, e l’esposizione all’aria lo faceva bruciare velocemente. Perevitare di far andare in fumo parte del proprio lavoro pro-prio alla fine, durante questa operazione ci si preparava del-l’acqua per calmare i bollenti spiriti del carbone, e possibil-mente non da soli. Muovendo i pezzi di carbone ancoratiepido e particolarmente asciutto, nell’urtarsi emettevanoun proprio tintinnio, e forse per i carbonìn era la tanto atte-sa dolce melodia che li premiava per il duro lavoro. Ora ilcarbone era pronto per la vendita, e la maggior parte di essoera destinato ad andare in città. I carbonìn andavano aPadivarma a prendere i sacchi vuoti, che vi facevano ritornouna volta riempiti del nero frutto della loro fatica, traspor-tati a dorso di mulo. Da qui il carbone partiva per Speziacambiandoancorauna voltamezzodi trasporto, questa voltaviaggiava su di un carro. Agli inizi degli anni ’50 a Padivarmac’era ancora chi si occupava del commercio del carbone, eprobabilmente fu l’ultimo, era un certo “Richè” che aveva“Ivano” come aiutante, e trasportava il carbone a Spezia conil suo carro trainato da un bel mulo bianco. Quando questomulo fu in la con gli anni e non era più in grado di trainareil carro, Richè pensò bene di venderlo. Acquistò il bello edocile mulo bianco Nello di Beverone, pensando anche difare un affare, ma era poco più che un ragazzo e non se neintendeva, la povera bestia non solo non era più idonea peril carro ma non ce la faceva nemmeno a portare dei piccolicarichi di legna, perché le sue zampe avevanocompiuto trop-pi sforzi e cedevano sotto il peso, e allora a malincuore loriportò dal Richè. Solo le famiglie più facoltose comprava-no il carbone per l’uso domestico. Non c’era ancora il gas,normalmente nei nostri paesi si cucinava nella stufa a legna,

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o attaccando il paiolo alla catena nei focarili. Alcuni aveva-no dei “fornelletti” così composti: in un muretto alto circaun metro vi erano una o più piccole nicchie o rientranze, incui erano inseriti delle specie di vasi di ghisa quadrati, appog-giati sui lati, conunagrigliettanel fondo, il quale fondoavevaun po’ di spazio sotto, ed era leggermente sollevato dal ripia-no su cui ricadeva la cenere del carbone che man mano siconsumava. Dentro vi si metteva la carbonella, cioè pezzi dicarbone non troppo grossi, dandovi un po’ d’aria con unaspecie di ventaglio soprattutto appena acceso, e quella eral’antica cucina a gas sopra cui si mettevano le pentole.D’inverno si univa l’utile al dilettevole, cioè con la stufa ci siscaldava e si cucinava, d’estate quando la stufa non serviva,era più comodo l’uso dei fornelli, per chi li aveva, altrimen-ti si continuava ad usare la stufa, spostandola magari fuoricasa, comunque al riparo in caso di pioggia. I Beverinottipagavanounuomo,“Franciolìn”, chevenivadaunpaesevici-no, e che a volte si fermava anche tutto l’inverno per prepa-rare il carbone che sarebbe loro servito per tutto l’anno.Franciolìn lavorava per la paga oltre al vitto e l’alloggio, mamai lui avrebbe accettatodi dormire inun letto, Franciòdor-miva solo nei fienili.

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I tre moschettieri della pubblicità.

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La pubblicità

Tanti anni fa... negli anni ’70, Stadomelli è stato teatro diuno spot pubblicitario. Mi ricordo ancora l’entusiasmo e lacuriosità per lamacchina da presa e i costumi. I tremoschet-tieri alzavano i boccali di birra dopounduello all’ultimo san-gue suimuridiunacasadiroccata. I lorocappelli hannoarric-chito per mesi i nostri giochi, e i duelli diventarono il giocopreferito di tutti noi

Lo spot era destinato alla televisione, ma allora i canalierano due, e la televisione era un oggetto sacro di casa dacoprire con un telo per la polvere e da usare con estrema par-simonia. Lo spot girato a Stadomelli, andando a letto dopocarosello io non l’ho visto, ma dopo alcuni anni qualcunodisse di aver riconosciuto nel panorama del nostro paese lospot girato in quegli anni.

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Livio Franceschi.

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La barzelletta

Livio Franceschi racconta spesso questa barzelletta che aparermio rappresenta bene le differenze sostanziali tra la vitacittadina e quella della campagna.

Il moccico e un ragno si incontrano a un bivio:Dice il moccico - “dove stai andando?”“Torno in campagna” - risponde il ragno avvilito.“O bella questa, e come mai?” - replica il moccico.Di nuovo il ragno - “non mi parlare di città, tutte le mat-

tine arrivano queste signore canticchiando, e con aspirapol-veri micidiali via tutti, bisogna ricominciare daccapo conragnatele “taragnaghe” e tutto il resto. Almeno in campagnasto bello comodo tutto l'anno, mi sposto la vigilia di Pasquae poi tutto torna tranquillo, le donne son nei campi”.

Il moccico lo guarda e dice - “beh, per me è il contrario,io in città vengo raccolto conunbel fazzoletto pulito e caldo,in campagna invecemi prendono condue dita e poimi sbat-tono contro una vigna!”.

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Gennaio

“Chi de gagina nassa tera raspa”.(Chi nasce da una gallina finirà per raspare la terra).

In campagna tutti i mesi dell’anno sono caratterizzati daun evento, un rito, dalla semina, dalla battitura del raccoltoo altro. Gennaio, primo mese dell’anno, aveva come carat-teristica di essere il mese “chi s’amazan i porchi”. Di solitoin paese gli uomini sapevano, chi più chi meno, macellareda soli i proprimaiali, che venivanouccisi conun lungo ferroappuntito che terminava con una impugnatura simile a unachiave, lo “spuglieo”. L’abilità del macellaio era data anchedalla capacità di forare il maiale una sola volta, centrandosubito il cuore della povera bestia, che tenuto fermoda quat-tro persone macellaio compreso, a zampe all’aria, emettevaun urlo straziante. Mi ricordo che a gennaio anche Ciocónfaceva ammazzare il maiale da un signore che veniva daCassana. Il macellaio aveva un occhio solo, e un po’ per gliaiutanti anziani e, forse anche per la scarsa vista, il maiale,trafitto in modo sbagliato, finiva per scappare. A quel puntonoi bimbi si usciva a rotta di collo dalla scuoletta, che eraproprio sopra l’osteria, per guardare il sinistro spettacolo,facendo sempre il tifo per il maiale. I giorni seguenti eranoper le famiglie giorni convulsi con tanto lavoro, dal qualedipendeva la conservazione della maggiore risorsa di carnedi tutto l’inverno, ma anche giornate in cui il vino scorrevacopioso, e tra un lavoro e l’altro c’era il delizioso compito di“assaggiare gli impasti” cuocendoli nei testi caldi, accompa-

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gnati da racconti sempre più grassi e da risate che oggi nonsi riescono più a fare. Spesso le suocere interloquivano conle figlie, e se il maiale non era diviso in due perfette metàdicevano “te l’evo ito me che l’ia mei quelo du Stagnedu!” Ipiù abili nel miscelare spezie e carni andavano a macellare ingiornata, ricevendo come ricompensa un po’ di carne delmaiale stesso. Fra i più abili macellai di Stadomelli possiamoricordare Prospero e Innocente.

Scrivere del rito dell’uccisione del maiale, mi ha fatto tor-nare in mente un anno in cui Lino di Beverone era venutoad aiutarci amacellare, perchémio padre eramorto da poco.Il povero Lino in mezzo ai due ragazzi, mio fratello e miocugino Stefano, spauriti e burloni, per rompere quel filo didoloroso imbarazzo, si prestò a scherzi e a burle per tutto ilgiorno, fingendo addirittura di credere che il maiale ema-nassedei vapori tossici, facendosi fotografare conuntelo sullabocca per protezione durante la divisione delle “mezzene”.

La chiesa sotto la neve

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Febbraio

“Pióva pióva, e gagine i fan gi’óva, ie fan en tó canà doman l’è carnevà”.

(Piove, le galline fanno le uova, le fanno nel canale, domani è carnevale).

A febbraio normalmente si festeggiava il carnevale, “car-nevà”.Gli uomini e i bimbi con qualche straccio e tanta fan-tasia si travestivano, e con bidoni e bastoni facevano il girodel paese bussando a tutte le porte, ricevendo in dono frut-ta, qualche dolce e uova. La giornata trascorreva in mododiverso, e la cosa bella era che, per un’intera giornata, i bimbifacevano “i fanti”, dispensati finalmente dalle incombenzeche tutti i giorni dovevano svolgere. A volte il giro andavaanche nei paesi vicini di Cavanella e Padivarma, terminan-do la sera, quando gli uomini si ritrovavano insieme in qual-che cantina, a mangiare, bere, e fare il punto della giornata.Le donne cucinavano gli stracci o chiacchiere, e magari conun po’ di sacrificio, l’ultimo giorno di carnevale cucinavanoi ravioli “tanti che i ghe se cróvan i teci”, che venivano cuci-nati il giovedì, la domenica e a volte anche il martedì. Dalmercoledì iniziava la quaresima, e il rigore gastronomico, cheera in realtà una necessità, diventava un obbligo per tutti.Finivano le “feste” ed iniziava il periodo più mesto dell’an-no.Oggi il giro del paese i bimbimascherati lo fanno la nottedi Hallowen, mentre per carnevale si ritrovano all’oratorio.

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Lorenzo Drovandi nell’aia del Forte.

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Marzo

“Dio né guarda dau maìn de marzo,e daa tramontana de settembre”.

(Dio ci guardi dal vento di mare di marzo,e dalla tramontana di settembre).

La Madonna dei canestrelli

Il venerdì che precede la settimana di Pasqua ricorre lafesta della Madonna Addolorata. La statua in chiesa è moltoantica, è una Madonnina vestita di nero, e dal volto traspa-re proprio il dolore della mamma che vede il figlio morire.L’abito che la Madonna indossava fino al 2006 aveva più diduecento anni, così grazie alla buona volontà di nonnaRosanna (di origine siciliana ma stadomellese di adozione,avendo sposato un Evaristi, abita di là al canale) che ne hacucito uno nuovo uguale a quello originale, abbiamo potu-to riporlo in una sorta di vetrina, sigillata per preservarnel’integrità e goderne la vista. Tornando alla giornata dellaMadonna, è necessario dire che un tempo venivano aStadomelli alcuni commercianti di nocciole e canestrelli diPignone.Gliultimianni invecevenivaMigliettodiBeveronecheportavaquellidiBrugnato.Tutti compravano il sacchettodi canestrelli, e in ogni casa non mancava la torta di riso odi verdura da offrire a quanti venivano alla Madonna. Moltimangiavano all’aperto e si fermavano anche per le funzionipomeridiane. Si aprivano così le celebrazioni della Pasqua.Lamattina del giovedì santo i bimbi dovevano legare le pian-

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Processione al Calvario..

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te da frutto, perché tenessero i frutti. Le palme benedettevenivano messe su una vite all’inizio del vigneto, affinchétenessero lontana la grandine. Si legavano le campane, e lamattina presto si iniziavano le preghiere nell’oratorio. La seraveniva fatta una processione in cui, a turno, ogni anno, unuomo diverso indossava una cappa bianca, poi veniva inco-ronato con una corona di spine, e scalzo percorreva la stra-da dall’oratorio fino al Monte Calvario, portando sulle spal-le una croce. Alcuni giovani fingevano di sbeffeggiare coluiche interpretava Gesù. La strada veniva cosparsa di spine“bochi maìn” che pensiamo il povero protagonista facessesolo finta di calpestare. Infine arrivati al Monte Calvario, ilpunto più in alto del paese, vicino a dove sorge il cimitero,dopo una preghiera, facevano ritorno in chiesa. Al terminesi “battevano i giudei”, che significa fare un gran frastuonoper simulare l’uccisione di Gesù, e che consisteva nel prepa-rare delle scatole di latta e dei contenitori rumorosi.Quandoil parroco terminava le preghiere, tutti coloro che erano pre-senti iniziavano a battere forte i barattoli e i libri sulle pan-che. Il frastuono durava qualche minuto. Livio ha racconta-to che quando lui era ancora ragazzino, una mattina primache iniziassero a battere i giudei, fumandatodaGino,Brunoealtri giovaniaprendereunmartelloeduechiodi.Orgogliosodell’incarico corse e portò quanto richiesto. Solo al terminedel frastuono si rese conto di essere stato complice di undispetto al povero Genio, un signore un po’ bisbetico, chequando fu il momento di alzarsi si ritrovò inchiodato per ipantaloni alla sedia.

A questo punto della celebrazione, i fedeli tornavano inchiesa; il mio testimone ha detto “daa porta de gi’omi” (laporta degli uomini era più piccola rispetto al portone cen-

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trale), dove veniva fatto un sepolcro con i semi di grano ger-mogliati al buio, esili filini di un colore giallo molto chiaro,e talvolta qualcuno (spesso si trattava di uomini) vestito daMadonna recitava delle preghiere di amore e dolore. LaRenata Drovandi, una delle poche ultraottantenni diStadomelli, ha ricordato l’anno in cui il Cristo fu imperso-nato da Genio, e la Madonna da suo padre Alessandro che,con unmantello, seminascosto dietro un pilastro, recitò unabella poesia a Gesù morto, imparata il giorno stesso, mentreera in giornata da Luigi “Daa Lama”. Il ricordo di questecelebrazioni ha rievocato la passione e l’orgoglio che le per-sone avevano per tutto ciò che era legato alla religione. Forsenoi tutti dovremo arrivare alla riflessione che soltanto dedi-cando più tempo e più impegno per le cose immateriali, saràpossibile affrontare i problemi di tutti i giorni, scacciandoquella che sembra essere il male del nostro tempo, la depres-sione.

Dai racconti degli anziani è emersa chiara la fatica, l’a-sprezza dei rapporti e delle parole, ma nessuno mi ha maiparlato di gente depressa o in ansia per il timore di essere ina-deguato. Ho quasi potuto sentire la forza delle risate di queigiovani che mai perdevano il gusto della burla e dello scher-zo, e forse la famosa frase“l’andavameiquando l’andavapèzo”calza perfettamente con la realtà di oggi e di ieri.

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Aprile

“Tiè come u farao de Pignon,na vota te manca u fero, na vota u carbòn”.

(Sei come il fabbro di Pignone,una volta ti manca il ferro una volta il carbone) (per lavorare).Veniva usato per coloro che non avendo tanta predisposizione al lavoro

inventavano delle scuse.

I campi da arare, le “disfide” e i “cocchetti”.

Guardando mio padre zappare, per anni mi sono chiestadove avesse imparato la cadenza regolare e apparentementesenza sforzo, con la quale la zappa entravanella terra, la capo-volgeva e ripartiva per un’altra zolla. A Stadomelli pochedonne zappavano, mentre in molti paesi vicini spesso ledonne vangavano congli uomini. Ilmese di aprile era ilmesedelle semine, e quindi gli uomini venivano presi “a giorna-ta” a zapparegli orti, perchéaPradononsi zappava conmezziagricoli o con i buoi. I campi erano piccoli fazzoletti di terra,da conservare con parsimonia e coltivare con sapienza. Mihanno raccontato che era in uso una pratica oggi impensa-bile “la disfida”, ossia gli zappatori in giornata si sfidavanoin gare stremanti nelle quali vinceva chi zappava di più e piùvelocemente. Pensare con la moderna mentalità del lavorofacile e ben retribuito, a dei ragazzi spesso affamati, che lavo-ravano tutto il giorno la terra, e che trovavano l’entusiasmoper sfidarsi a chi lavorava di più, oggi può suscitare soltantoun sorriso pieno di tenerezza. Ai ragazzi in giornata venivadata la paga e da mangiare; di solito, alimento tipico dellaprimavera, era il formaggio con i “sautaè”. Il buon formag-

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Lodovico Silla e Piero Drovandi in gita a La Spezia.

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giomolle e grasso tipico di questimesi, venivamesso in con-tenitori particolari che favorivano la formazione dei prezio-si “saltarelli”, che altro non erano che vermetti del formag-gio, e che venivano spalmati e mangiati sul pane. I boschi sicoloravano di giallo, gli “ursòn” e i “bochi maìn” allietavanolo stomaco dei conigli. Iniziava la primavera, e il periodo piùduro dell’anno sembrava passato. I gelsi “muri” riprendeva-no a germogliare, e con l’arrivo delle loro foglie riprendevaun’attività che portava inmolte famiglie nuove possibilità diguadagno: l’allevamentodei “cocchetti”. I cocchetti altrononeranoche ibachida seta.Si acquistavano i sacchettinidiuova,e le donne le facevano schiudere “in sen”, ossia tenendole acontatto con il caldo del proprio corpo, poi si stendevano lelarve su dei cannicci coperti di un letto di foglie di “muro”.Le larve dovevano essere nutrite con le foglie tutti i giorni,finoaquandosi arrampicavano sudei ramettidi erica “stipa”,disposte attorno ai cannicci, e lì sopra avveniva la loro meta-morfosi: facevano il cocchetto, cioè si trasformavano in boz-zolo. Poi venivano venduti a dei commercianti che si rifor-nivano dal Sarto di Padivarma. Successivamente il bozzoloveniva svolto e dava origine al filo di seta che poi veniva tes-suto. Anselmo ha raccontato che ancora bambino avevacustodito le larve dei Beverinotti, poi aveva raccolto le foglieper dargli da mangiare, infine dopo averli venduti e ricevu-to il compenso l’aveva nascosto nel solaio di casa... con un’a-mara sorpresa: quando andò a riprendere il piccolo tesoro siaccorse che i topi avevano apprezzato, e rosicchiato i suoiguadagni. A raccogliere le foglie di gelso a Stadomelli per l’al-levamento dei bachi da seta venivano anche dalla Lunigiana.A maggio i “muri” a forza di tagliare i loro rametti per uti-lizzarne le foglie erano spogli “g’ìan peà”!

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La pianta del maggio messa a Roberto Fabiani per la casa nuova.

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Maggio

“Né per mazo né per mazòn ne state a levà u te pelizòn”.(A maggio non ti togliere la maglia) (di lana di pecora).

Lavigiliadelprimomaggio, i ragazzi egliuominidelpaeseavevano un appuntamento a cui non mancare. Si ritrovava-no dopo cena e andavano nel bosco a tagliare un albero chegeneralmente era un pino molto alto. Più l’albero era altopiù l’impresaeradegnadimerito, e sarebbe rimastanel tempoe nella memoria della gente. Tutti insieme portavano quin-di l’albero in spalla fino alla casa prescelta, dove l’albero veni-va eretto. Questa operazione veniva svolta cercando di fareil minimo rumore possibile, soprattutto in paese, di modoche nessuno se ne accorgesse, ed il mattino seguente vi fossevera sorpresa.Essereprescelti era consideratounonore, eque-sta scelta generalmente era diretta verso chi aveva qualcheavvenimento da festeggiare, per esempio chi aveva ultimatodei lavori di ristrutturazione alla casa, oppure se era nato unfiglio aduna coppia di novelli sposi. Il proprietariodella casa,per ripagare questo onore, con l’arrivo della bella stagione,doveva offrire un pranzo a tutti coloro che avevano parteci-pato a mettere la pianta detta “il maggio”. La notte, dopo lagrande fatica, per aver portato in spalla e alzato a braccia l’al-bero più alto delle case, si trascorreva in una cantina, dovegli uomini si ritempravanomangiando fave formaggio e sala-me, il tutto accompagnato naturalmente da un certo nume-rodibicchieridivino.Gliuomini ledonnee ibambiniaccom-pagnavano il rito delmaggio cantando: “siamvenuti a cantar

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maggio per la gola del formaggio, se formaggio non avetequalcos’altrocidarete”.Negli anni ’90 la tradizione sembravaquasi scomparsa,mapoi conunagenialenovità è stata rispol-verata, e oggi è di nuovo un motivo di vanto avere il mag-gio. Il pranzo non è più interamente a carico del proprieta-rio della casa. Normalmente si acquista una porchetta, cheviene pagata da tutto il paese, così la famiglia sopporta sol-tanto il costo rimanente e l’invasione dei paesani, ed è anchel’occasione per raccontare le varie imprese degli anni prece-denti. Sembra impossibile pensare che in tempi in cui il ciboera prezioso e poco, si potesse celebrare una tradizione cosìfestosa, ma va precisato che il pranzo di allora era per lo piùcucinato dai proprietari della casa, con prodotti della terra,e la carne ne faceva parte inmodomoltomarginale.Tuttavianon mancavano le risate e l’allegria che da questa tradizionescaturivaper quel paiodi giorni dell’anno, inquelle vite cottedalla fatica del duro lavoro e con poco denaro. Per questoera, o forse è meglio dire che è, in quanto è stata rinnovatadalla nostra generazione, una tradizione molto importante.

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Giugno

“San Giovanni l’è passà, e me maì a ne l’ho trovà”.

La festa di san Giovanni è passata,e io marito non l’ho trovato.

Il 24 giugno si festeggia il Santo Patrono di Stadomelli,SanGiovanni,unico santodelqualeviene festeggiata lanasci-ta, e commemorata la morte. Questo è un ulteriore legameche ci riporta all’altra frazione del comune, Beverone, doveappunto se ne commemora il martirio il 29 agosto.

La vigilia di San Giovanni, il 23 giugno, con le lucciole afar da suggestivo contorno, gli abitanti preparavano il falòcon erba secca, stoppie, foglie e rami di pino. Era una cosaardua radunare materiali da bruciare, perché i boschi eranotenuti ben puliti, ma si cominciava già a marzo a radunare“e rame” i rami. Il cartone, la carta e altro, erano conservatinel “canto”, un angolo della casa dove si riponeva tutto ciòche poteva servire. La legna era preziosa, ma il falò era unrito talmente importante da poterne giustificarne il sacrifi-cio. A Stadomelli venivano accesi tre fuochi: uno al “MonteCalvario” vicino al cimitero, uno alla “Carpeneda” vicino alFornello, e uno al “Fregao” sopra il Manzile. Con il calaredella sera i giovani e i bambini si radunavanoattorno al fuocoe, con allegra baldanza, bruciavano quanto era stato raccol-to. Il falò veniva fatto nelle varie frazioni, in una sorta di garaal falò più grande, che vedeva i vecchi scettici e sempre “supe-riori” dire: na vota l’ia n’atra cosa!

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Per San Giovanni la Italina de Beveón cuoceva due chilidi riso, per fare la tradizionale torta, e impastava le sue famo-se tagliatelle, preparandosi così alla consueta giornata in cui,quanti venivano alla messa del Santo Patrono, passavano dacasa sua per “na bocà de torta e’n goto de vin du Pizé duProspeu”. Nel pomeriggio in piazza, con l’orchestra “giradi-schi” e il DJ in qualche modo si faceva musica, e si ballava.La gente veniva a piedi dai paesi vicini, e nascevano amori oconflitti che duravano a volte tutta la vita. Le ragazze cerca-vano di avere un abito nuovo, magari ricavato da una pezzavecchia, e andavanoparecchi giorni in giornata, per chi sape-va cucire, pur di averlo pronto per la festa. I vecchi che per-cepivano e ricordavano tutto l’entusiasmo e l’ansia delle gio-vani ragazze, nei giorni seguenti la festa le sfottevano,facendole arrabbiare non poco, con il ritornello “SanGiovanni l’è passà e me maì a né l’ho trovà”.

Anselmo Franceschi, Linda Paladini, Renato Drovandi,Daniela Pisarelli, Elide Orfeo, Paola e Orietta Franceschi,Patrizia Orlando, Alessio Donatella e Maria Drovandi.

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Luglio

“Man morta man morta, a picca su’nta porte,a piccà en tu portùn, la da en sciaffo au so padrùn”.

Il ritorno degli emigrati.

Il mese di luglio era il mese in cui, nei paesi della Val diVara in generale, ma anche a Stadomelli, si sentiva parlarepiù inglese che dialetto. Normalmente gli emigrati che ave-vano lasciato il paese ad uno ad uno, facevano ritorno conal seguito mogli e figli inglesi.

Ricordo ancora il giorno delmatrimonio di Anselmo conla signora Eda “Heather”, al cui matrimonio parteciparonoanche i parenti della sposa, tra i quali il fratello in completoabito scozzese. L’ilarità e la sorpresa nei bimbi si stemperavanei visi seri degli adulti, ma in tutti c’era una domanda “por-terà le mutande?”

Le famiglie più numerose agli inizi degli anni ’50 si svuo-tarono con la partenza dei giovani, uomini e donne, perl’Inghilterra, la Francia ed il Belgio, ma anche per Genova,Spezia e Milano. Ripensando a tutte le grandi famiglie diStadomelli, non ne trovo neanche una, nella quale non par-tirono almeno due componenti per l’estero. Dei Franceschi,su nove figli cinque emigrarono in Gran Bretagna e due aSpezia, soltanto due restarono e si sposarono a Stadomelli:la Elide,miamadre, e l’Enea. IDrovandi del Forte eranoduegrandi famiglie che contavano venti figli, soltanto tre di lororestarono in paese: Renato, il papà di Alessio di cui abbiamo

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Il matrimonio di Heather e Anselmo Franceschi

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Dina Drovandi.

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Fedora Drovandi

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già raccontato, Lodovico e la Marina. Gli altri presero la viadi Milano, Genova, Spezia e provincia, Inghilterra e persinoArabia Saudita. IDrovandi “di sotto” contavano dodici figli,si sparpagliarono in Inghilterra, Belgio e Portofino, restaro-no in paese solo tre di loro: mio padre Gino, la Tina e laLucia. Stessa sorte toccò alle grandi famiglie “di la dal cana-le”, dove l’esodo verso la Scozia e varie città italiane lasciòalcune case completamente chiuse. La decisione di emigra-re per molti era quasi obbligata, il miraggio di guadagni piùfacili, e conminor fatica fisica, trascinarono a catena lamag-gior parte di braccia del paese, lasciando chi restava in atte-sa di notizie, e speranza di un miglior futuro. Coloro chescelsero la Gran Bretagna finirono per lavorare in ristorantidi pesci e patate “fish and chips” o pizza, e grazie alla diffici-le vita alla quale erano abituati, accumulando la misera pagadel venerdì, quasi tutti rilevarono i locali in cui avevano ini-ziatocomefriggitori. InBelgio il lavoroera inminiera. Iliano,un omone alto quasi due metri, raccontava di un infernobuio in cui, a parte scavare non restava che la voglia di ripo-sare, appena terminato il proprio turno. Non c’era notte négiorno, sottoterranonc’è differenza.Nelle città italiane inve-ce le donne finirono per lavorare come “donne” o meglio“bambine” di servizio, lavorando nelle famiglie benestanticome cameriere, oppure diventarono infermiere. Gli uomi-ni lavorarono come operai ed anche giardinieri, alcuni pre-sero la via dell’arma dei carabinieri ed inmarina. Per tutti ununico obiettivo, migliorare le condizioni di vita, propria edella propria famiglia. Al dolore del distacco si sostituì, conl’arrivare dei primi guadagni che davano un po’ di sollievo esicurezza a chi era rimasto, la nostalgia per un tempo chetutti avevano la certezza fosse finito per sempre.

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Livio Franceschi, Esterina e i due figli.

Lecase si svuotarono, le strade,maanche iboschi e i campividero scemare forze lavoro. Pian piano le colture più fati-cose vennero tralasciate. L’allevamento di mucche e pecorefuquasi abbandonato.Negli anni ’70 aStadomelli non resta-vano che due mucche!

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Agosto

“O baciccia daa radiccia te moge onde te l’ha missa?A l’ho missa en tu sacùn a cavà i zelizon”.

Filastrocca cantata ai bimbi piccoliper distrarli e farli mangiare

Per noi di Stadomelli Ciocón era l’osteria, per quelli diBeverone e non solo, era un po’ come una stazione di rifor-nimentocomenelFarWest, e vi sipoteva trovare ancheallog-gio per una notte. La domenica gli uomini si ritrovavanoall’osteria da Ciocón, per una partita a tressette, tra smorfiee “zigni” che aumentando le ore e i bicchieri, molto spessofinivaaurla ebestemmie. I ragazzini si abbarbicavanoal juke-box per ascoltare musica, e le donne sedevano sugli scalinidavanti casa a chiacchierare. D’estate si andava tutti a piedial fiume a fare il bagno. I cinque chilometri di strada cheoggi sono un ostacolo, allora erano un simpatico momentoper chiacchierare complici, del più e del meno. I ragazzi nonperdevano l’occasione per sfidare il pericolo e conquistare leragazze, con il tuffo dal ponte. Oggi l’acqua al Ramello època e inquinata, lo spazio di sabbia sotto il ponte è ormaidominio di numerose compagnie sudamericane, e purtrop-po i ragazzi di oggi non possono conoscere questa esperien-za, che rallegrava l’adolescenza di tutti noi delle generazioniprecedenti. Altrettanto posso dire della “bottiglia”... un belgioco che vedevamaschi e femmine, seduti a terra in cerchioa girare la bottiglia a turno, mettendo in palio baci, pugni oscherzetti vari. Il pegno lo pagava chi era indicato dal collo

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Orlando Drovandi, Orietta Elide Orfeo e Paola Franceschi,Luciano Nobili, Esterina Drovandi, Daniela Pisarelli, ai 29 a Beverone.

Ciocòn nella sua osteria, con Piero e la Iolanda Drovandi.

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della bottiglia. Tante ragazze lì hanno riposto le loro primesperanze amorose in una “puntata” alla bottiglia. Oggi nellegenerazioni degli SMS sarebbe impensabile un gioco delgenere. Quando poi l’estate volgeva al termine arrivava il 29agosto, e si andava tutti a Beverone, naturalmente a piedi econ il pranzo al sacco.

D’estate... le cicale ed il cuculo facevano da sottofondo aogni cosa, creando un’atmosfera ancora più calda di quellareale. Tante volte mi sono chiesta dove siano andate a finiretutte quelle cicale, e da anni non sento più il cuculo canta-re. Il loro frinire ora si limita a pochi giorni estivi, e non haniente a che fare con l’assordante rumore di quando erava-mo bambini. La risposta forse è che le cicale, le lucciole diSanGiovanni, i grilli delle notti estive e il cuculo, si sono stu-fati di far presenza laddove ormai nessuno ha più il tempoper fermarsi attonito a guardare ed ascoltare le meravigliedella natura, e si siano trovati un altro pianeta dove esibirsi.

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La processione con la banda.

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Settembre

“Spusa settembrina orba veduva o meschina”.(La sposa di settembre era sfortunata cieca vedova o povera).

La Madonna Pellegrina

Proponiamo una memoria lasciata da don Emilio Drovandi,parroco di Beverone e nativo di Stadomelli, del 23 luglio 1949:

Proveniente da Cavanella, alle “quattro strade” diStadomelli, la sera del 22 luglio 1949, con tutto il popolo diCavanella, Stadomelli eBeverone ivi convocati, sottounarcodi verde, sfolgorante di lampadine elettriche, fu posta la sta-tua della Beata Vergine Maria, fra gli inni osannanti di tuttala moltitudine, fra spari di mortaretti e petardi. Parlò il par-roco don Vannini a nome di Cavanella, poi il canonicoBeverinotti e il parroco di Barbarasco “accompagnatore”, einfine il sottoscritto, prendendo in consegna la sacra imma-gine. Sottoscritti i verbali prescritti, la Madonna iniziava lasalita del monte, accompagnata ancora da quasi tutta la gio-ventù di Stadomelli, e si giunse in chiesa verso le undici disera. Padre Gabriele di Brugnato, dopo tre giorni di predi-cazione, preparò il popolo ai SS. Sacramenti, e l’accompa-gnatore don Argenti Francesco di S. Maria di Calice, tennele prediche di occasione, in attesa della SS. Messa di mezza-notte. Fu uno spettacolo veramente grandioso di fede, tuttisi accostarono ai SS. Sacramenti, meno due o tre uomini,

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con tantissimi altri di Stadomelli. La sera del 23 luglio laMadonna partì per Garbugliaga, accompagnata da tutto ilpopolo beveronese, non solo al confine ma alla chiesa, ovenuovamente tutti i gruppi a gara resero onore con canti einni alla Madonna Pellegrina, che ritornava alla sua casa dipartenza di Aulla.

23 luglio 1949 don Emilio Drovandi

È da notare l’importanza che venne data all’evento: “tregiorni di predicazione” di padre Gabriele, come preparazio-ne all’arrivodellaMadonnaPellegrina. Lo spostamentodellaMadonna Pellegrina iniziava a sera inoltrata per terminarein piena notte. Anche chi non ricorda o non ha mai vistoquelle vecchie strade che si percorrevano a piedi, può imma-ginarsi lo spettacolo di tutta quella gente che accompagna-

La cappelletta delle quattro strade.

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va laMadonnaPellegrina, in cui nessuno si risparmiava, anzifacevano quasi a gara, per portare la statua gli uomini, e percantare le donne. Pur se in questo ricordo non è espressa-mente scritto, si intuisce chenel 1949 laMadonnaPellegrinaa Stadomelli vi transitò senza fermarsi. Difatti il popolo diStadomelli si unì a quello di Beverone sia nella salita verso ilmonte, sia durante la messa di mezzanotte. Ad incontrare laMadonna,offrendounmazzodi fiori, l’unicabimbacheavevaun abito bianco a disposizione, la Dina di Merini.

Nel ricordo, il luogo convenuto in cui la statua dellaMadonna Pellegrina venne data in consegna alla parrocchiadi Garbugliaga, descritto semplicemente “al confine”, era“dallaMadonnina”.TornòaBeverone il30agosto1966,pro-veniente daVeppo e diretta a Suvero, poi di nuovo il 26 ago-sto 1999, proveniente da Garbugliaga e diretta ancora aSuvero. In queste due ultime occasioni non era più portataa spalla, ma con un camioncino preparato adeguatamente.Anche se i tempicambiano, l’arrivodellaMadonnaPellegrinaè molto sentito ovunque, ed ogni paese, in base anche alleproprie possibilità, le ha sempre tributato una grande acco-glienza.

Oggi alle “quattro strade” sorge una piccola cappella,costruita dagli abitanti del paese con sassi, e la sabbia delfiume “du giau”. Si dice che il luogo dove costruire la chie-setta è stato scelto perché un certo “Dario”, conosciuto comeun uomo senza fede, scettico e bestemmiatore, un giornopassando proprio alle quattro strade, ebbe una visione dellaMadonna Pellegrina. Erano trascorsi pochi anni dal passag-gio sopra descritto della Madonna Pellegrina da Stadomelli,per cui parliamo degli anni cinquanta del secolo scorso. Daallora, la terzadomenicadi settembre si festeggia laMadonna

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Pellegrina proprio la dove l’uomo raccontò di averla vista.Alcuni anni fa Domenico Paladini, in ansia per la sorte

della figlia gravemente ammalata, fece un voto: se la figliafosse guarita, lui avrebbe pagato una banda musicale per lafestadellaMadonna. “Meneghin”eraunuomoanzianodallafibra forte, che viveva del suo lavoro. Aveva tirato su i suoifigli andando in giornata, e così fece fino a quando, troppoanziano, dovette arrendersi. Burlone e allegro, con il fisicoasciutto e la battuta sempre pronta, fece della fede nellaMadonna la sua forza, (partecipò anche alla corsa dalMonteNero a Beverone, sempre in occasione dei ’29 quando l’etàsi avvicinava agli 80 anni). Ma tornando alla festa dellaPellegrina, anche quell’anno la Madonna non mancò diaccontentare quest’uomo semplice, che dedicando i soldisudati duramente alla Madonna voleva aiutare la figlia, cheinfatti guarì.Da allora la terza domenica di settembre la pro-cessione della Madonna è accompagnata dalla banda musi-cale, enonc’è annoche iononricordi le lacrimediMeneghin,l’uomo della prima festa, con la banda pagata da lui.

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Ottobre

“A castagna la g’à a cóa, chi u’a trova l’è a sóa”.(La castagna ha la coda, chi la trova è sua).

Ottobre era senza dubbio uno dei mesi più faticosi per lacampagna. Con il freddo alle porte occorreva sistemare lalegna, raccogliere le castagne, sistemare gli ultimi prodottidell’orto, le botti, la cantina, e si riponeva la frutta secca e glialtri ortaggi che servivano ai maiali da allevare.Tutto il lavo-ro del mese di ottobre era di preparazione ai duri mesi inver-nali, e proprio come le formiche delle favole, gli abitanti diStadomelli si davano un gran daffare per affrontare il fred-do. Le castagne e i funghi che nascevano in questa stagioneconsentivano di raggranellare un bel gruzzoletto. Le donnela sera preparavano i cesti con le castagne e i funghi, e lamat-tina presto se li caricavano in testa e andavano a piedi finoall’Aurelia,poi con la corrieraportavano lamercanzia inpiaz-za. Una mattina mentre due giovani portavano un carico dilegna all’Aurelia, videro un uomo che, fermo ad aspettare lacorriera, si portava la mano in testa, cercando gli “inquilini”che in quel tempo abitavano sulle teste di tutti. Incuriositi siavvicinaronoe videro l’uomoche togliendosi i pidocchidallatesta li appoggiava su un sasso e diceva “quel Dio che ti hafatto di disferà, io non ti ammazzo pidocchietto”.

La raccoltadelle castagneeradestinata alla vendita inpiaz-za e alla ”grade”, ossia all’essiccatura per la successiva tra-sformazione in farina. Per capire quanto era importante lafarina di castagne per l’alimentazione del tempo, basta vede-

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Angiòla Enrici e Adriano Vetrale con due bei funghi.

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re l’avversione verso tutti i prodotti che si realizzano con essa,e in particolare verso la “pattona” che ancora oggi, nei vec-chi, sipercepisce con forza: “Nehomangiata fin troppa”dice-va mia nonna!

Arriviamo così al 31 ottobre.Oggi quando sentiamo par-lare di Hallowen pensiamo ad una festa con origini ameri-cane, in realtà la ricorrenza dei “Santi” nelle nostre campa-gne era sentita già damolti secoli, chediventanopoimillenniriandando alle sue origini celtiche. La notte del 31 ottobresi racconta che gli spiriti dei morti uscissero dalle tombe eandassero in giro a fare le “Menade”, ossia lunghe proces-sioni nella notte. Per questo si mettevano sui davanzali deilumini accesi dentro le zucche, preparate appositamente perquesta occasione: erano svuotate della parte interna, poi sene intagliava la scorza inmododaottenere la sembianzadesi-

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Halloween: Edoardo ed Enrica di Giglio, Silvia e Federico Pavan,Leonardo Lorenzini, Sandra Grilli, Nicolò Drovandi, Tomas Evaristi,Alice Mozzini, in giro per la notte.

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derata, (ciò che oggi si risolve comprandolo direttamente alsupermercato, in plastica), ed infine si metteva al loro inter-no una candela accesa, la cui luce filtrava attraversi i vari fori,facendo assumere alla zucca, vista da lontano, un aspettoinquietante che però faceva strada agli spettri. Una donnaincontrando la processione degli spiriti, mentre accendeva ilforno per cuocere il pane, chiese al primo spirito della fila, ilcapo, se gli prestava il lumino che usava da luce. Questi glie-lo diede, ma la donna si accorse subito che era in realtà undito acceso, così lo gettò nel fuoco inorridita. La precessio-ne ripartì perché la notte volgeva al termine, con brontola-re e urlare del povero spettro rimasto senza luce. La sera dopola donna stava andando a casa con il gatto in grembo, quan-do lo spirito le si parò innanzi minaccioso. La donna, perdifendersi, gli tirò contro il gatto, e lo spirito ritraendosi ledisse “Te pó ringrazià u gato Maimón, se no a te favo vèdechi a són”, puoi ringraziare il gatto Maimón, altrimenti tifarei vedere chi sono, e scappò nella notte. Per anni questastoria ci è stata raccontata per non farci uscire di sera.

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Novembre

“Se fave e pesèle te vó mangià,e campane di morti te devi faghe sentì sonà”.

(Se vuoi mangiare le fave e i piselli,devi seminarli prima dei morti).

Arrivati a novembre, le giornate che diventavano semprepiù corte, ed il tempo ormai quasi invernale, portavano adoccuparsi anche di quei lavori al coperto un po’ tralasciatinella bella stagione, ma comunque necessari. Il freddo e ilbuio, oltre che anticipare l’ora della cena, favorivano le vegliedavanti al fuoco dei “Fusigiai”, e qui i più giovani si racco-glievano accanto agli anziani che, come recitando un copio-ne già scritto da generazioni, li intrattenevano con raccontifantastici e di paura.Unodei racconti più frequenti era quel-lo di “Ca de Bóffa”:

Scendendo dalla frazione del Fornello verso il Manzile,sull’ultima curva si incontra una grande casa a due piani dipietra, qui un tempo la vecchia strada si tuffava attraverso icampi e scendeva a capofitto, così chi saliva si trovava inposi-zionedi inferiorità rispettoalla sogliadellavecchiacasaabban-donata. Il tempo e l’incuria avevano fatto cadere prima iltetto, e poi varie parti della casa che, con le grandi finestrevuote, nelle notti sembrava un mostro dagli occhi illumina-ti dalla luce lunare, e la porta sulla strada suscitava spessopensieri poco allegri.Certo è che inmolte persone si era radi-cata la certezza che il vecchio rudere fosse abitato dagli spi-riti. Più il tempo passava e più la gente arricchiva i racconti

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sui fantasmi di “Cà de Bóffa”. “Ti ho detto che ho sentitosoffiare!” dicevano i ragazzi, “soffiare e buffare”, “io ho sen-tito anche un lamento”. Pochi si attardavano se sapevano chedovevano passare da lì, e mai da soli. Una sera però, mentreInnocente rientrava a casa dai suoi nove figli, passò davantialla casa. Trattenne il fiato... la suggestione aveva la megliosu chiunque... e poi... percepì il soffio. Si fece coraggio, varcòla soglia del rudere. La luna illuminava l’interno della casa,enelbiancodellemuradipietra gli si svelò il “terribile”miste-ro... lo spettro sentito da tutti, altri non era che un grossocapronebiancoche,per intimorirechipensavapotesseminac-ciare il suo riparo, gli “smeccava” per farlo andare via. Conuna bella risata liberatoria l’uomo riprese la via di casa, e rac-contò a tutti l’incredibile verità. Oggi Cà de Bóffa è stataristrutturata ed è diventata un agriturismo, ma prima cheiniziassero i lavori, quando ormai i rovi avevano quasi coper-

Cà de Bóffa.

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to imuri,mantenevaancora il suocaricodi suggestioni,nono-stante l’arcano fosse stato svelato da tanto tempo.

Per tornare al mese di novembre, le donne iniziavano araccogliere le poche risorse per cercare di allietare le prossi-me festività con qualche genere di prima necessità, con qual-che dolcetto, per rendere “speciale” il Natale, che comunqueera ancora una festa specialmente religiosa.

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Le recite dei bimbi:Francesco Sara e Sabrina Beverinotti, Tomas Evaristi, Alessandro Fausti,Nicolò Drovandi, Leonardo Lorenzini, Alice Mozzini, Francesca Rosi.

I bimbi con don Eugenio sono:Francesco, Sara e Sabrina Beverinotti, Tomas Evaristi, Nicolò Drovandi,Leonardo Lorenzini, Martina Moscatelli, Federico Pavan, Alice Mozzini.

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Dicembre

“Natale au barcón Pasqua au tizón”.Se Natale si è sul balcone, a Pasqua si starà al camino.

Il Natale.

L’anno stava volgendo al termine, e si arrivava così al gior-no di Natale, una giornata tutta dedicata alla spiritualità. Lavigilia, al suonodell’AveMaria, eraanticausanzabuttarenellestufe o nei camini dei rametti di arbusti aromatici, mortel-la, rosmarino e alloro. Usciva dai camini un fumo bianco eprofumato, ed era in onore diGesùBambino che di lì a pocosarebbe nato, a mezzanotte. La cena, come prevedeva la tra-dizione, era composta da stoccafisso e cavoli. Quella sera ledonne non lavoravano la calza per timore di pungere ilBambino, e neppure le stalle venivano pulite perché si dice-va che i vitellini e gli agnellini sarebbero nati “stroppi” cioèstorpi. Dopo cena, a piedi, tutti andavano a messa e si riem-pivano gli occhi con il bel presepe allestito in chiesa. Nellecase un ginepro diventava l’albero di Natale, addobbato concaramelle, pasta, cartoline, nastri e tutte le poche cose che lefamiglie iniziavano a conservare già dalla festa dei Santi.

Poi, l’anno giunto veramente al termine, si concludeva inchiesa, dove alla mezzanotte del 31 dicembre veniva cele-brata l’ultima messa dell’anno, la messa del ringraziamento.Dopo gli uomini si attardavano nelle cantine fino alla mat-tina seguente.

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Venendo ai nostri tempi possiamo dire che ancora oggi,grazie ai tanti bimbi nati dal 1993 in poi, la notte di Natalea Stadomelli è veramente una notte speciale. Tutto inizia aiprimi giorni di novembre, quando si decide il programmadelle feste e i lavori da fare, fortunatamente con la parteci-pazione di un po’ tutti i paesani. Iniziano le prove della reci-ta dei balli e dei canti dei bimbi. Le mamme cuciono i vesti-ti.Con l’aiutodiqualcheanziano iniziamoaverificare l’ormaitradizionalepresepeecologico,dove ipersonaggi sonocostrui-ti con bottiglie di plastica rivestite con materiale di scarto,sostituendo i personaggi danneggiati e creandone di nuovi.Nel 2007 il nostro presepe ha ricevuto il 3° premio dellacuria, ed è stato per tutto il paesemolto emozionante. A rice-vere il premio dal Vescovo per tutti “nonno Luciano Nobili”con gli occhi lucidi. Al termine dei preparativi i nonni coni papà preparano l’albero e le luminarie, quindi si arriva allavigilia. Alle 21,30 iniziano i bimbi che preparano sempre

Il presepe ecologico premiato dalla Curia.

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delle belle recite e dei magici balli, quindi si fa qualcosa dicarino per i grandi, una sorpresa, uno scherzo, una rievoca-zione.Alcunianziani condonneeragazzi, grazieancheall’aiu-to generoso di Paolo Brunetti con la chitarra, da diversi anniallietano la serata con il coro “Le voci di Prado”.

Poi inizia la S. Messa, ed è sempre bello vedere i nostri15/16chierichetti checircondanodonCalzetta, checorrendoda una chiesa all’altra per tutta la primaparte di nottata, arri-va trafelato, e tutti gli anni dice “ma come, è già finita, anchequest’anno non l’ho vista!” Poi tutti assieme ci raduniamoall’oratorio,doveèpronto ilpunche il vinbrulé, arrivaBabboNatale, e tutti ci stringiamo nell’oratorio dove si brinda e siaprono i doni di babbonatale. Sì, a Stadomelli possiamodiredi avere veramente una notte di Natale lontana dal frastuo-no del traffico, dalla corsa allo shopping, dai problemi lega-ti al denaro a alla vita di tutti i giorni, unNatale d’altri tempi.

Babbo Natale, Benedetta e Nicolò Drovandi,Giulio Lorenzini, Gabriele Beverinotti, Roberto Fabiani

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E per finire...

Eccoci qua, il libretto sembra terminato. Per alcuni mesiho ritagliato ogni minuto di tempo libero per ascoltare unricordo, per fissare un proverbio, per cercare di scrivere inmodo comprensibile un modo di dire in dialetto, il susse-guirsi delle varie fasi di un lavoro. Forse all’inizio non lo pen-savo, ma questo impegno mi mancherà. Questo cercare erovistare nei ricordi dei propri paesani, nei propri ricordi chepianpianoriemergono. Il semplice fattodi scriverli, cheaiutaenormementea rivivereoad immaginaredivivere certe situa-zioni o avvenimenti, a volte provocauna grande gioia, a voltestrizza il cuore come se si stringesse fra le mani, quasi a pro-vocare una sofferenza; forse non siamo fatti solo per il pre-sente, o per pensare solo al futuro, siamo anche parte delnostro passato. Non solo di un passato prossimo, ma anchedi quello che non abbiamo conosciuto di persona, che è lanostra storia.

E’ bello prendersi il compito di scrivere la propria storia,perché la grande storia, quella dei grandi avvenimenti e dellegrandi città è già pronta in tanti libri, la nostra piccola e pureimportante storia, se nessuno la scrive, si perderà con noi.

So già che domani mi troverò un altro impegno, ma misono proprio divertita a scrivere quello che avete letto. Mi èpiaciuto vedere lo sguardo che nel vuoto cercava di riporta-re lamente di chimi raccontava ai tempi passati, è stato belloparlare insieme con Sergio, Ottavio, la Donatella, Livio,Anselmo, la Renata, Silla e quanti mi hanno raccontato un

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aneddoto, portato una foto, scritto un pensiero... e tanto èil rimpianto per coloro che avrebbero potuto aiutarmi e nonci sono più. Spero mi perdoneranno ovunque essi siano, peraver parlato di loro a volte in modo irriverente ma credo, equesto è il caso di mia nonna Italina, che l’amore che ho perlei mi desse il diritto di prenderla in giro per il suo caratte-raccio, e magari senza farlo vedere ne avrebbe riso anche lei.Le cose da scrivere sarebbero ancora tante, e tanti sarebberoi ricordi da fissare, ma per ora credo che questo possa basta-re. Così come avevo iniziato termino, ossia lanciando il testi-mone in aria, o meglio la penna, sperando che qualcuno laraccolga e continui laddove io mi sono fermata...

...manonsenzaprecisare che“queidePrado”nonsonounarazza in via di estinzione, per cui concludo questo libretto conuna bella foto di coloro che di Prado saranno il domani!!!

Sebastiano e Leonardo Lorenzini, Francesco Sara e Sabrina Beverinotti,Tomas e Mattia Evaristi, Alessandro Fausti, Nicolò e Benedetta Drovandi,Alice e Giulia Mozzini, Manuel Fabiani, Federico Pavan.

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Album fotografico

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Zio Pierino.

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Alessio con mamma Maria e papà Renato.

Giornata di festa in casa della Maria e Renato Drovandi,con i figli Alessio e Gianni e l’amica Mirella.

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Simone Enrici con sua figlia Angiòla

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La mostra fotografica al Fornello, una delle iniziative della festa di agosto.

Il restauro della cappelletta della Madonna Pellegrina.

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Lina, Mea, Meri e Vera sul terrazzo dei Quaradeghini.

Il matrimonio del bimbo dispettoso Stefano Pisarelli.

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Gianni e Alessio giocano nella neve.

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Diego e Gianni Drovandi, Sauro Enrici: i ragazzi di ieri l’altro.

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Una delle bellezze locali: Cinzia Pisarelli.

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Maria e Davide Beverinotti con la perpetua di Stadomelli.

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Bruno Pisarelli con la figlia Daniela.

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La famiglia Franceschi con nipoti e pronipoti.

La famiglia Merini e la Dora Bilotti.

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Stefano Pisarelli oggi.

Il ponte del Ramello.

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Uno dei primi emigranti della zona, Giovanni Quaradeghini, “u barbòn”.

Le prime famiglie di emigranti: inizi del ’900.

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Le prime famiglie di emigranti: inizi del ’900.

Le prime famiglie di emigranti: inizi del ’900.

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Omaggio a don Eugenio Calzetta

Leggendo il mio “libro” si trovano spesso racconti tra-mandati dai parroci o comunque di eventi legati ad essi edagli stessi organizzati, purtroppo in questi ultimi annianche nei paesi non ci si rende più conto dell’importanzache il parroco ha avuto nei secoli e che ha ancora oggi. Mapiù che complicate riflessioni vorrei riportare un sempliceringraziamento fatto con la freschezza e la semplicità che sol-tanto i bimbi riescono ad avere, ma tuttavia credo esprimail sentimento che accomuna un pò tutti i bimbi diStadomelli, anche quelli più birichini; non so se è dovuto alfatto che Don Calzetta ha la capacità di infondere rispettoin chi lo conosce, o perchè i bimbi con l’intuito integro del-l’età ne percepiscono la statura morale.

Il 22 giugno 2008 è stato un giorno importante per quat-tro bimbi di Stadomelli, il giorno della loro primaComunione. Una bimba ha scritto un bel pensierino perdon Calzetta, riconoscente dei pomeriggi dedicati dal par-roco ad insegnare il catechismo. Dovrebbe far bene anche anoi grandi leggere queste parole. Potremo provare a sforzar-ci di capire, aiutare ed essere più vicini ai nostri parroci odiaconi, visto che anche i parroci come i buoni sentimentistanno diventando rari e sempre più preziosi.

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Caro don Calzetta,ti ringrazio per tutto il tempo che ci hai dedicato in questitre anni, per tutto quello che ci hai insegnato e la pazienzache hai avuto quando per distrazione non ti ascoltavo.Cercherò negli anni futuri di mettere in opera gli insegna-menti di Gesù, ubbidire ai miei genitori e aiutare sempre chiavrà bisogno, come tu mi hai sempre spiegato.Ti ricorderò sempre con affetto.

Don Calzetta con il diacono Mauro e i bimbi:Sara, Sabrina e Francesco Beverinotti; Maurizio, Nicolò Drovandi,Tomas Evaristi, Federico Pavan, Alice Mozzini e Leonardo Lorenzini.

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Un matrimonio del 23 aprile 1962.Gli sposi arrivano con gli invitati a piedi,

dal Fornello alla Chiesa (la strada non c’era ancora),salendo nei viottoli fra i campi e i boschi, per circa un chilometro.

Finalmente sposi, partiranno a piedi per il bosco,salutati dagli amici, per la luna di miele.

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INDICE

Introduzione ........................................................................Dove siamo ..........................................................................

Prospero e Italina ................................................................Alessio .................................................................................La chiesa .............................................................................Piccole note storiche ...........................................................La bottega ...........................................................................La strada .............................................................................La scuoletta .........................................................................L’acqua ................................................................................I segantìn ............................................................................Le cave ................................................................................Il gigante è caduto ..............................................................I carbonìn ...........................................................................La pubblicità .......................................................................La barzelletta .......................................................................Gennaio ..............................................................................Febbraio ..............................................................................Marzo .................................................................................Aprile ..................................................................................Maggio ...............................................................................Giugno ...............................................................................Luglio .................................................................................Agosto ................................................................................Settembre ............................................................................Ottobre ...............................................................................Novembre ...........................................................................Dicembre ............................................................................

E per finire ...........................................................................Album fotografico .................................................................Omaggio a don Eugenio Calzetta .........................................

Pag. 7Pag. 9

Pag. 15Pag. 17Pag. 19Pag. 23Pag. 29Pag. 31Pag. 35Pag. 39Pag. 43Pag. 45Pag. 47Pag. 49Pag. 57Pag. 59Pag. 61Pag. 63Pag. 65Pag. 69Pag. 73Pag. 75Pag. 77Pag. 83Pag. 87Pag. 91Pag. 95Pag. 99

Pag.103Pag.105Pag.120

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CORNIGLIACollana di narrativa

1 - Raffaele Conti: A piccoli passi (racconti), 1995,2 - Pietro Duranti: Le due paure (romanzo), 19963 - Mario Manzo: L’ondivago immemore (romanzo), 19974 - Clara D’Oggiono: La novia (romanzo), 19995 - Pietro Duranti: La famiglia dei Donpietri (romanzo), 20006 - Gabriele Falco: Storie vestine (racconti), 20007 - Clara D’Oggiono: La viaggiatrice (romanzo), 20018 - Pietro Duranti: Il vento del Sud (romanzo), 20019 - Valeria Buffoni: La raccomandazione (racconto), 200110 - Bruno Della Rosa: Strane storie spezzine (racconti), 200111 - Michelangelo Merisi: Alla luce dei fatti (romanzo), 200112 - Ilio (Ilvo) Battistini: Ricordi di un alpino (racconto), 200113 - Pietro Duranti: Un fratello (romanzo), 200114 - Fabio Mignani: Le mille lire raccontano, 200215 - Bianca Orlandi: Ombre e luci (racconto), 200316 - Gabriele Falco: La licenza (romanzo), 200317 - Fulvio Andreoni: Il caso Serviatti (racconto), 200318 - Idelmo Loffredo: Pagine di diario (racconti), 200319 - Elvio Ugolini: Brutta storia la guerra (racconto), 200420 -Orazio Bellè:L’ombra del gabbiano sul pontile (racconti), 200521 - Adriana Desiderio: Racconti del giorno e della sera, 200622 - Carla Oggioni: La svedese (romanzo), 200723 - Adriana Desiderio: I sentieri del tempo (racconti), 200724 - FulvioAndreoni:Un amore in fondo al mare (racconto), 200725 - Piera Grassi: Racconti di Natale (racconti), 200726 - Andrea Derchi: Racconti di fine Millennio (racconti), 200727 - Salvatore A. Zagone: Il buco nell’acqua (novelle), 200828 - Laire Taverna:Memorie di un palombaro (racconti), 200829 - Clara D’Oggiono: Allaricercadel partigiano perduto (racconti), 200830 - Oriana Drovandi: Scozzacampane de Stadomè, ovvero... quei

de Prado (racconti), 2008

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