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UMANISTA D'IMPRESA
RITRATTI
L'esempio di Gaetano Marzotto ci insegna che la grandezza di un imprenditore
non è misurata solo dai profitti ma soprattutto dal benessere che è capace di diffondere.
Ne abbiamo parlato con Giorgio Roverato.
IN OCCASIONE del cinquantenario della Fonda-
zione Marzotto, il 16 ottobre 2009, è stato ristampato il
libro “Le Istituzioni Sociali e Ricreative”, che il Cavaliere
del Lavoro Gaetano Marzotto pubblicò per la prima volta,
ad opera della Arti Grafiche Mondadori di Verona, nell’a-
gosto del 1951. Nella presentazione, il figlio Pietro Mar-
zotto ci apre la strada verso il racconto di un cammino dif-
ficile ma avvincente verso una delle imprese più grandi
dell’imprenditore veneto, quella della città sociale. Tutt’og-
gi la Fondazione Marzotto gestisce asili nido, scuole per
l’infanzia, dopo-scuola con circa 400 bambini, il Villaggio
al Mare di Jesolo, e residenze per persone anziane dove
raccoglie 360 ospiti. I vecchi edifici della Istituzioni sociali
e ricreative sono stati completamente modernizzati e ri-
portati a nuova vita, e possiamo ritrovarli a Valdagno, Mor-
tara e Villanova di Fossalta di Portogruaro. Giorgio Rove-
rato, docente di Storia Economica a Padova, che ha scritto
un'ampia e approfondita introduzione alla ristampa del li-
bro, ci racconta nell'intervista che segue, l’uomo Gaetano
Marzotto, che ha definito un “umanista d’impresa”, pro-
tagonista di una storia esemplare per il coraggio e la de-
terminazione difficilmente replicabili al giorno d’oggi. »
Il portale web della Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro
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Lei definisce Gaetano Marzotto un “umanista d’impre-sa”, può chiarire perché?Gaetano Marzotto concepiva l’impresa come centrale nel-
la vita di una comunità: non tanto per la ricchezza da essa
prodotta, quanto per i valori e la razionalità che da essa
potevano proficuamente riversarsi al suo esterno.
E fu ciò che significò a Valdagno l’edificazione della Cit-
tà Sociale, un grande intervento di pianificazione urba-
na teso sì a soddisfare un bisogno primario (le abitazioni
per le maestranze,) ma anche a costruire luoghi del sa-
pere (gli edifici scolastici donati al Comune), della cultu-
ra (il più grande Teatro del Triveneto) e del tempo libero
(un Dopolavoro, due grandi piscine, un campo di calcio).
Il tutto all’interno di una lettura non enfatica, ma stretta-
mente funzionale, del Novecentismo italiano, dove ven-
nero sapientemente mescolate capacità artigiane e l’uso
spinto del calcestruzzo e di componenti prefabbricati. Il
risultato fu l’irrompere della modernità in un chiuso cen-
tro manifatturiero della pedemontana veneta, con l’assi-
milazione da parte dell’ente locale di un nuovo modo di
governare il territorio e gli insediamenti abitativi.
Considerata a torto una tardiva “company town”, la Città
Sociale fu il suo esatto contrario. Non chiusa in se stessa,
bensì proiettata all’integrazione/miglioramento del tessu-
to urbano esistente, coniugando visione progettuale, eco-
nomie di scala e sperimentazione sociale nell’idea che il
vivere in un contesto armonioso ed esteticamente prege-
vole potesse annullare il conflitto di classe.
In gran parte il suo fu – anche per la rilevanza delle risor-
se prodigatevi – un insolito caso di mecenatismo “territo-
riale”, capace di creare non solo una migliore qualità del-
la vita, ma anche di far crescere nuove identità e stimoli
alla cultura del bello.
“Spesso, anche nel giudicare le Istituzioni create a bene-
ficio di chi lavora, si parla con dispregio di sistemi pater-
nalistici dimenticando che i problemi sociali devono es-
sere risolti, mentre pochi sono disposti a dedicare ad essi
la loro attività ed i loro mezzi, trattandosi di opere aventi
carattere e scopo benefici e sociali e quindi non diretta-
mente redditizie. Impiegare i proprio mezzi vuol dire ave-
re fede nella iniziativa e nei risultati, vuol dire impegno a
dedicare ad essi il proprio studio, il proprio interessamen-
to, la propria diretta attività ed il proprio tempo. Non va
dimenticato che non basta fare il bene ma bisogna saper-
L'IMPULSO SPONTANEO DELLA SOLIDARIETÀ di Gaetano Marzotto
NELLA PREMESSA DELLA PRIMA EDIZIONE del libro “Le Istituzioni Sociali e Ricreative”, Gaetano Marzot-
to racconta i motivi che lo hanno spinto, agli inizi del secolo scorso, a creare un progetto tanto innovativo quanto indispen-
sabile, provvedendovi personalmente senza l’intermediazione dello Stato. Pubblichiamo di seguito un estratto.
lo fare semplicemente, praticamente e spontaneamente,
come cosa naturale, cioè senza farlo pesare.
Ed è appunto la buona impostazione, lo studio accurato, la
costruzione appropriata, la organizzazione pratica e rispon-
dente alla gestione e lo spirito animatore che soli posso-
no dare la garanzia di soddisfacenti e proficui risultati. Una
volta dato l’esempio, dimostrata la convenienza e l’utilità
e particolarmente il rapporto tra utilità e convenienza, la
via è tracciata e non resta che seguirla. Ma poiché pochi
sentono l’impulso spontaneo della solidarietà e per con-
tro occorre generalizzare le provvidenze a tutti i lavora-
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Nella società odierna, vede possibile l’emergere di politiche imprenditoriali simili a quelle che furono di Marzotto?Le grandi visioni, e Marzotto fu un visionario, sono il risul-
tato di percorsi di maturazione individuale non replicabi-
li. E la sua politica imprenditoriale, anche nelle più azzar-
date diversificazioni (penso alla catena dei Jolly Hotels),
ha a che fare con tali visioni, e con la sua personale per-
cezione della realtà.
Egli trasformò in capitale di rischio il cospicuo patrimonio
finanziario di famiglia, mentre oggi parte non piccola del-
la nostra imprenditoria tende alla finanziarizzazione, cau-
sa non secondaria del declino di comparti importanti del
nostro manifatturiero.
Per replicare le politiche marzottiane ci vogliono intuizio-
ni – visioni, appunto – e ingente liquidità. Che oggi in Ita-
lia proprio non vedo.
Suggestivo il concetto di “visionario”. Può spiegar-lo meglio?In Gaetano Marzotto, almeno questa è la convinzione che
ho maturato nel tempo, convivevano due personalità: da
un lato egli era uomo del fare, imprenditore di rara con-
cretezza con obiettivi ben definiti, ad esempio quello di
divenire – come gli riuscì – il primo produttore italiano del
suo comparto. Dall’altro egli sentiva stretto l’ambito in cui
operava, e avvertiva che la sua energia poteva essere
tori, è necessario provvedere con opportune leggi socia-
li ad estenderle rendendole obbligatorie. Allorquando ciò
sarà avvenuto, non v’è motivo, come taluni voglion per
dubbio o incredulità, che non si possa realizzarne la ese-
cuzione, la organizzazione ed il buon funzionamento affi-
dandone l’amministrazione e la gestione
a commissioni paritetiche nominate dalle
categorie interessate e dagli aventi causa,
pure prendendo ogni garanzia di sicurez-
za e sotto l’egida delle pubbliche Autori-
tà, in modo da evitare la gestione lenta,
costosa ed irresponsabile di una organiz-
zazione burocratica. (…)
Allo stato attuale delle cose non è quin-
di il caso di parlare di paternalismo con
disprezzo nei riguardi delle opere sociali
istituite da privati. Si parli invece di soli-
darietà umana, completata da una onesta e bene orga-
nizzata amministrazione con rispetto dell’economia, cosa
che finora in Italia non si è mai verificata nelle gestioni
burocratiche dello Stato e degli Enti parastatali.
Chi agisce onestamente e umanamente e, nei limiti delle
sue possibilità, usa a fin di bene dei propri
mezzi, sarà sempre confortato dall’intima
soddisfazione del bene compiuto – ciò che
effettivamente vale e potrebbe bastargli
per la propria coscienza.
Senonché, in questa svolta decisiva per
il mondo, bisogna agiarsi senza indugio
ed anzi bruciare le tappe per guadagna-
re il tempo perso malamente e riparare
alla situazione gravemente compromes-
sa dalle malefatte del passato periodo
totalitario.”•
spesa anche al di fuori del ristretto ambito economico in
cui si era ritrovato ad operare, dando magari un contribu-
to alla modernizzazione di un paese di cui egli avvertiva
sempre più insopportabile l’arretratezza, il provincialismo.
La stessa Città Sociale va letta in tale contesto: essa vo-
leva essere l’esempio che un’Italia migliore era possibile,
e che la sua realizzazione stava in capo più agli individui
di buona volontà che non allo stato.
Questa pulsione alla progettazione sociale si ritrova anche
in un altro momento della sua vita, quando tra il 1947 e
gli inizi degli anni Cinquanta egli si impegnò nella radica-
le trasformazione di una vasta tenuta agricola del porto-
gruarese (Veneto orientale), dando così vita a una con-
glomerata (Industrie Zignago) che integrava coltivazioni
a elevata meccanizzazione, lavorazione delle derrate ali-
mentari prodotte e produzioni manifatturiere le più va-
rie introdotte per dar lavoro a quanti erano espulsi dal ci-
clo agricolo a causa del suo intervento razionalizzatore.
L’obiettivo fu solo parzialmente economico: Marzotto vo-
leva in realtà dimostrare che una delle piaghe storiche del
Paese, una agricoltura arretrata, poteva essere vinta non
con la distribuzione della terra ai contadini poveri, come
sostenevano all’epoca i teorici della riforma agraria, ma al
contrario attraverso la industrializzazione dell’agricoltura.
Anche se questa, e altre diversificazioni intraprese dal la-
niere, diedero un ritorno economico non congruo con l’en-
tità degli investimenti, a Marzotto non importò.»
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Non era quella per lui la posta in gioco. Del resto, lo si
comprende anche da ciò che egli scrive nei testi riporta-
ti in queste pagine. Dai quali a me pare emergano bene
due tratti distintivi: a) la responsabilità sociale di un im-
prenditore teso, con l’esempio concreto, a stimolare uno
stato inefficiente a costruire un welfare in grado di dare
risposte certe al disagio dei lavoratori; b) l’individuazione
della gestione burocratizzata della pubblica amministra-
zione come il male da combattere.
Se pensiamo ai mille “lacci e laccioli” di einaudiana me-
moria che, oggi ancor più di
allora, intralciano non solo
l’agire imprenditoriale, ma
anche la vita quotidiana di
ogni cittadino, il pensiero
marzottiano appare in tutta
la sua ruvida attualità.
Cos’è che l’ha colpita mag-giormente studiando il la-niere valdagnese?La sua energia e le sue con-
traddizioni, innanzitutto.
Egli fu un vero e proprio co-
struttore d’imprese, uno de-
gli ultimi tycoon, come lo de-
finì Gianni Agnelli.
Solo che un tycoon, un capitano d’industria, è colui che
costruisce una fortuna, ovvero chi, partendo dal nulla, si
fa da sé.
Marzotto era invece imprenditore di quarta generazione,
rampollo di una famiglia già ben nota nel mondo indu-
striale. Una serie di circostanze, a partire dalla traumatica
e precoce successione al padre, lo portarono poco più che
ventisettenne a scontrarsi con alcuni esponenti dell’esta-
blishment finanziario dell’epoca.
Memorabile il confronto con Senatore Borletti, cui egli
contestò la gestione de “La Rinascente” rivendicando, in
virtù della importante partecipazione azionaria ereditata
dal padre, un ruolo di responsabilità operativa al fine di
raddrizzarne il conto economico. Il gelo con il quale venne
respinta la sua richiesta, lo spinsero a concentrarsi nell’au-
mento dimensionale dell’impresa avita sia attraverso una
crescita per vie interne, che attraverso alcune acquisizio-
ni, soprattutto concentrandosi in una fallita scalata ostile
al blasonato Lanificio Rossi.
Egli si ritrovò così a giocare il ruolo dell’imprenditore d’as-
salto, con la spregiudicatezza del late comer, pronto a sfi-
dare il mondo pur di conquistarsi un posto di rilievo nel
panorama industriale degli anni Venti e Trenta. Una par-
tita che egli alla fine vinse, ma che strideva con le logi-
che paludate e ipocrite dell’ambiente sociale cui egli ap-
parteneva. Un ambiente nel quale, proprio per questo
suo muoversi al di fuori degli schemi, non fu mai amato.
La stessa tentata scalata al Lanificio Rossi, che non gli ri-
uscì solo perché non poté esercitare i diritti di voto che
gli avrebbero consentito di assumere le necessarie cari-
che operative, gli procurò inimicizie durevoli.
Delle quali non si curò più di tanto, riuscendo alla fine a
imporsi come uno dei più ri-
levanti attori della manifat-
tura leggera, da lì spaziando
– come ricordato – in varie
diversificazioni che, pur non
adeguatamente remunerati-
ve sul piano economico, ne
fecero risaltare e finalmen-
te apprezzare le capacità im-
prenditoriali.
Amava la velocità, le auto-
mobili, le donne, e per con-
verso la bellezza ovunque
essa si manifestasse. E fu
per questo raffinato colle-
zionista d’arte.
Pensa che questo grande imprenditore sia stato il pre-cursore di un nuovo modo di fare impresa?A Marzotto sarebbe piaciuto pensarlo. E per certi versi lo è
stato, ad esempio nella costruzione di un sofisticato wel-
fare aziendale, che fu – con quello di A. Olivetti negli anni
Cinquanta – la massima manifestazione italiana di quel-
la responsabilità sociale dell’impresa, di cui oggi tanto si
parla ma che a me pare, salvo rari e illuminati casi, più
circoscritta alla redazione del bilancio sociale che a una
effettiva etica nelle relazioni industriali.
Il welfare del laniere valdagnese è in realtà componente
essenziale della sua stessa idea di impresa: che ai suoi
occhi non è un soggetto economico egoistico, bensì par-
te fondativa di una comunità cui essa sa trasmettere mo-
delli di razionalità. È la cultura del lavoro, e quindi delle
competenze e del merito, il valore di cui l’impresa intesa
come attore sociale è portatrice. E in questo senso Mar-
zotto, che amava definirsi un “conservatore progredito”,
appare decisamente moderno e innovativo, attribuendo
all’impresa un ruolo che va ben al di là della sua sola di-
mensione economica. Ma qui ritorniamo a quell’umane-
simo d’impresa dal quale eravamo partiti.•