Sconfinare #31

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n°31 - NOV-Dic 2011 È un giornale creato dagli studenti di Scienze Internazionali e Diplomatiche di Gorizia FKH DWWUDYHUVR LO JLRUQDOLVPR YRJOLRQR FRQIURQWDUVL FRQ OD UHDOWj GL FRQ¿QH H QRQ VROR direttore: DaviDe Lessi ZZZVFRQ¿QDUHQHW UHGD]LRQH#VFRQ¿QDUHQHW 6FRQ¿QDUH FRQWLQXD VX ZZZVFRQ¿QDUHQHW H VX )DFHERRN! Occupare la torretta! di Davide Lessi ALL’INTERNO: iNTERNAZiONALE: ł 0D¿D IXRUL O¶,WDOLD ł Le primarie Repubblicane NAZiONALE: ł Il conformismo di Pannella ł /D ¿JXUD GL 5HQ]L ciNEMA: ł The Artist ł This Must Be The Place ViAGGi: ł Venezia-Mosca in treno ł Uzbekistan ScRiPTA MANENT: ł Cronache Birmane ł No Logo UNiVERSiTà: ł Presentazione associazioni ł Nuovo statuto N on tutti lo sanno, l’idea di Scon- nare è nata in una Torretta. Ci riunivamo al sesto e ultimo pia- no di quel seminario sconsacrato dove ha sede l’università di Gorizia. Più che un’aula, un rifugio. Fuori, la Casa Rossa sorvegliata dalla polizia di frontiera. Dentro, l’anarchia di discussioni, amori, proposte. Da allora sono passati cinque anni. Spazzato dall’Europa il conne, Sconna- re resiste. Migliorato nella graca, leggibi- le ovunque (sconnare.net), arricchito di nuovi collaboratori, rubriche, idee. Ma con lo spirito di un tempo: un’accozzaglia di gio- vani col gusto di partecipare, farsi sentire, polemizzare e, perché no, ritrovarsi a bere in osmizza. Tra le mani avete il numero 31: ebbro di caratteri, irregolare, talvolta incazzoso, a tratti leggero. Comunque carico. Ci sono riessioni sugli ultimi fatti internazionali e nazionali, un reportage dalla Slovacchia sui rom, lo speciale mae, giudizi critici sulle nuove leve dell’indie e del pop. E poi l’immancabile pagina in sloveno, la vetrina delle associazioni universitarie e una cam- minata nella «Gorizia che non ti aspetti». E ancora tanta roba. Tutto per dire, a chi avrà voglia di ascoltarci: alt!, un momento!, ci siamo anche noi. Con le nostre competenze, i nostri sogni, le nostre paure. Uno spaccato di quella ge- nerazione precaria e già, a detta di Mon- ti - pardon, di molti - senza futuro. Rico- minciamo dal presente, da queste pagine, a riprenderci uno spazio. A occupare, ogni giorno, la nostra Torretta. Servirà? Non lo so. Però anche Sconnare, all’inizio, era solo un’idea... S iamo la generazione di mezzo. Da una parte il glorioso passato e i grandi risultati, dall’altro l’incerto futuro e l’isolamento geograco. Stiamo vi- vendo un Sid ormai troppo grande e vecchio per non ammalarsi ma anche troppo piccolo e giovane per riuscire a combattere da solo gli acciacchi. Siamo quella generazione lì, né carne né pesce, ma tutto uno strano brodo. Abbiamo subito i tagli e le razionalizzazioni ma i nostri nuovi laureati continuano a ca- varsela meglio degli altri. Siamo l’anno dei seminari linguistici ma allo stesso tempo ci hanno tolto almeno 2 esami di lingua per piano di studio. Studiamo in una sede favo- losa, con tanto di ala vecchia ristrutturata ma il wi continua a scarseggiare in alcune aule e il sito è lo stesso dai tempi di Win- dows95. Non siamo più gli unti dal signore e non navighiamo più nell’oro come ai vecchi tem- pi. In tutto questo i rimedi della nonna, i ce- rotti e i placebo, spesso preferiti a cure più radicali ma azzardate, funzionano a inter- mittenza. Perché anche se ci fanno proclami e se ci provano a convincere con i paroloni, noi, generazione Sid del “né tutto né nulla”, dob- biamo fare i conti con una grande verità: non siamo più l’eccezionale corso di laurea di una volta. Non siamo quello che ci hanno raccontato e forse non siamo neanche quel- lo che pensiamo di essere. Lo dimostrano i piani di studio ridimensionati, gli insegnan- ti che vanno e vengono e lo dimostriamo anche noi, che siamo meno preparati e cul- turalmente più poveri rispetto ai nostri pre- decessori. Non c’è scampo al lento declino struttu- rale. Questo deve essere il nuovo punto di partenza. Buttiamo nel cesso la storia del prestigio dell’università che ci raccontano appena entrati qui. Non siamo ad una con- vention aziendale e non vogliamo essere motivati. Smettiamola per favore, studenti e professori, di fare i sostenuti, come stessimo salvando il mondo. Abbandoniamo questo comportamento tutto nostro da intellettuali con le mani in pasta. Questo costante tenta- tivo di salvare capra e cavoli, cercando di es- sere sempre in buona luce. Basta con le belle gure. Basta con gli eroismi, con le amicizie di comodo e i favori reciproci. Basta con le marchette! Questi comportamenti non con- tano più nulla. Basta. E ripartiamo senza negare l’evi- denza e con una nuova mentalità, più uni- forme e più convinta. Perché è anche vero che niente è perduto; e lo dimostrano gli sforzi con cui le professoresse di lingue si sono impegnate per orirci i mille seminari quest’anno, i nanziamenti locali al Polo e la passione che alcuni studenti (fuori e den- tro le associazioni) orono per migliorare di anno in anno ciò che ci circonda, senza mai pensare al tornaconto personale. Ci vuole la stessa mentalità con cui si curerebbe una malattia: cerchiamo i problemi, e senza por- cene degli altri, segnaliamoli. Se il professore ci boccia tutti gratuita- mente all’esame, arrabbiamoci senza timore e senza calcoli; se il professore invece si de- dica anima e cuore a noi, ringraziamolo sen- za imbarazzo. Se ci chiedono di partecipare ad una conferenza solo per riempire l’aula non presentatiamoci, se ci piace così tanto un argomento organizziamo noi un evento. Aambrodo se qualcuno si oende o si ar- rabbia. Siamo la generazione a metà, se non fac- ciamo arrabbiare nessuno, se non faccia- mo un po’ di confusione, se non proviamo a cambiare quello che non ci piace, ahimè, nessuno si ricorderà di noi. Se non abbiamo voglia di migliorare questo posto, si dimen- ticheranno quanto sia stato aascinante, si scorderanno che siamo venuti da qui. Avremo studiato per niente. E questo, al- troché i contatti e le amicizie, inuenza mol- to di più il vostro tanto amato curriculum. Generazione di mezzo di Nicolas Lozito Super-mario largo ai giovani per FRQTXLVWDUH O¶(XURSD Berlusconi si dimette e Monti viene incaricato di formare un nuovo governo. Nel frat- tempo Balotelli sigla il suo primo gol con la maglia azzurra. Per entrambi i nostri Ma- rio nazionali si apre una stagione fondamentale: riusciranno ad aermarsi o faranno un bel tonfo? Nel frattempo l’Europa e l’Europeo si fanno sentire. L’Italia è in buone mani? Sconnare, con il suo solito spirito, si interroga su questi ed altri argomenti.

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Numero Novembre Dicembre 2011

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n°31 - NOV-Dic 2011

È un giornale creato dagli studenti di Scienze Internazionali e Diplomatiche di Gorizia FKH�DWWUDYHUVR�LO�JLRUQDOLVPR�YRJOLRQR�FRQIURQWDUVL�FRQ�OD�UHDOWj�GL�FRQ¿QH��H�QRQ�VROR��

direttore: DaviDe Lessi

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6FRQ¿QDUH�FRQWLQXD�VX�ZZZ�VFRQ¿QDUH�QHW�

H�VX�)DFHERRN!

Occupare la torretta!

di Davide Lessi

ALL’INTERNO:

iNTERNAZiONALE:

ł�0D¿D�IXRUL�O¶,WDOLDł Le primarie Repubblicane

NAZiONALE:

ł Il conformismo di Pannellał�/D�¿JXUD�GL�5HQ]L

ciNEMA:

ł The Artistł This Must Be The Place

ViAGGi:

ł Venezia-Mosca in trenoł Uzbekistan

ScRiPTA MANENT:

ł Cronache Birmaneł No Logo

UNiVERSiTà:

ł Presentazione associazionił Nuovo statuto

Non tutti lo sanno, l’idea di Scon-!nare è nata in una Torretta. Ci riunivamo al sesto e ultimo pia-

no di quel seminario sconsacrato dove ha sede l’università di Gorizia. Più che un’aula, un rifugio. Fuori, la Casa Rossa sorvegliata dalla polizia di frontiera. Dentro, l’anarchia di discussioni, amori, proposte.

Da allora sono passati cinque anni. Spazzato dall’Europa il con!ne, Scon!na-re resiste. Migliorato nella gra!ca, leggibi-le ovunque (scon!nare.net), arricchito di nuovi collaboratori, rubriche, idee. Ma con lo spirito di un tempo: un’accozzaglia di gio-vani col gusto di partecipare, farsi sentire, polemizzare e, perché no, ritrovarsi a bere in osmizza.

Tra le mani avete il numero 31: ebbro di caratteri, irregolare, talvolta incazzoso, a

tratti leggero. Comunque carico. Ci sono ri"essioni sugli ultimi fatti internazionali e nazionali, un reportage dalla Slovacchia sui rom, lo speciale ma!e, giudizi critici sulle nuove leve dell’indie e del pop. E poi l’immancabile pagina in sloveno, la vetrina delle associazioni universitarie e una cam-minata nella «Gorizia che non ti aspetti». E ancora tanta roba. Tutto per dire, a chi avrà voglia di ascoltarci: alt!, un momento!, ci siamo anche noi.

Con le nostre competenze, i nostri sogni, le nostre paure. Uno spaccato di quella ge-nerazione precaria e già, a detta di Mon-ti - pardon, di molti - senza futuro. Rico-minciamo dal presente, da queste pagine, a riprenderci uno spazio. A occupare, ogni giorno, la nostra Torretta. Servirà? Non lo so.

Però anche Scon!nare, all’inizio, era solo un’idea...

Siamo la generazione di mezzo. Da una parte il glorioso passato e i grandi risultati, dall’altro l’incerto

futuro e l’isolamento geogra!co. Stiamo vi-vendo un Sid ormai troppo grande e vecchio per non ammalarsi ma anche troppo piccolo e giovane per riuscire a combattere da solo gli acciacchi. Siamo quella generazione lì, né carne né pesce, ma tutto uno strano brodo. Abbiamo subito i tagli e le razionalizzazioni ma i nostri nuovi laureati continuano a ca-varsela meglio degli altri. Siamo l’anno dei seminari linguistici ma allo stesso tempo ci hanno tolto almeno 2 esami di lingua per piano di studio. Studiamo in una sede favo-losa, con tanto di ala vecchia ristrutturata ma il wi! continua a scarseggiare in alcune aule e il sito è lo stesso dai tempi di Win-dows95.

Non siamo più gli unti dal signore e non navighiamo più nell’oro come ai vecchi tem-pi. In tutto questo i rimedi della nonna, i ce-rotti e i placebo, spesso preferiti a cure più radicali ma azzardate, funzionano a inter-mittenza.

Perché anche se ci fanno proclami e se ci provano a convincere con i paroloni, noi, generazione Sid del “né tutto né nulla”, dob-biamo fare i conti con una grande verità: non siamo più l’eccezionale corso di laurea di una volta. Non siamo quello che ci hanno raccontato e forse non siamo neanche quel-lo che pensiamo di essere. Lo dimostrano i piani di studio ridimensionati, gli insegnan-ti che vanno e vengono e lo dimostriamo anche noi, che siamo meno preparati e cul-turalmente più poveri rispetto ai nostri pre-decessori.

Non c’è scampo al lento declino struttu-rale. Questo deve essere il nuovo punto di partenza. Buttiamo nel cesso la storia del prestigio dell’università che ci raccontano appena entrati qui. Non siamo ad una con-vention aziendale e non vogliamo essere

motivati. Smettiamola per favore, studenti e professori, di fare i sostenuti, come stessimo salvando il mondo. Abbandoniamo questo comportamento tutto nostro da intellettuali con le mani in pasta. Questo costante tenta-tivo di salvare capra e cavoli, cercando di es-sere sempre in buona luce. Basta con le belle !gure. Basta con gli eroismi, con le amicizie di comodo e i favori reciproci. Basta con le marchette! Questi comportamenti non con-tano più nulla.

Basta. E ripartiamo senza negare l’evi-denza e con una nuova mentalità, più uni-forme e più convinta. Perché è anche vero che niente è perduto; e lo dimostrano gli sforzi con cui le professoresse di lingue si sono impegnate per o"rirci i mille seminari quest’anno, i !nanziamenti locali al Polo e la passione che alcuni studenti (fuori e den-tro le associazioni) o"rono per migliorare di anno in anno ciò che ci circonda, senza mai pensare al tornaconto personale. Ci vuole la stessa mentalità con cui si curerebbe una malattia: cerchiamo i problemi, e senza por-cene degli altri, segnaliamoli.

Se il professore ci boccia tutti gratuita-mente all’esame, arrabbiamoci senza timore e senza calcoli; se il professore invece si de-dica anima e cuore a noi, ringraziamolo sen-za imbarazzo. Se ci chiedono di partecipare ad una conferenza solo per riempire l’aula non presentatiamoci, se ci piace così tanto un argomento organizziamo noi un evento.

A#ambrodo se qualcuno si o"ende o si ar-rabbia.

Siamo la generazione a metà, se non fac-ciamo arrabbiare nessuno, se non faccia-mo un po’ di confusione, se non proviamo a cambiare quello che non ci piace, ahimè, nessuno si ricorderà di noi. Se non abbiamo voglia di migliorare questo posto, si dimen-ticheranno quanto sia stato a"ascinante, si scorderanno che siamo venuti da qui.

Avremo studiato per niente. E questo, al-troché i contatti e le amicizie, in#uenza mol-to di più il vostro tanto amato curriculum.

Generazione di mezzo

di Nicolas Lozito

Super-mariolargo ai giovani per FRQTXLVWDUH�O¶(XURSD

Berlusconi si dimette e Monti viene incaricato di formare un nuovo governo. Nel frat-tempo Balotelli sigla il suo primo gol con la maglia azzurra. Per entrambi i nostri Ma-rio nazionali si apre una stagione fondamentale: riusciranno ad a#ermarsi o faranno un bel tonfo? Nel frattempo l’Europa e l’Europeo si fanno sentire. L’Italia è in buone mani? Scon!nare, con il suo solito spirito, si interroga su questi ed altri argomenti.

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6FRQ¿QDUH���1D]LRQDOH 2011 Nov-Dic2

Il sindaco di Firenze è innegabilmen-te uno dei politici più chiacchierati del momento. In questo breve “ritratto”

vorrei esprimere un’opinione sul personaggio Matteo Renzi, uscendo un poco dallo schema ricorrente secondo cui lo ritraggono certi me-dia piuttosto che altri, una parte dell’opinione pubblica oppure un’altra. Infatti, quello che ho notato, è che commentando Renzi pressoché nessuno, tra giornalisti, blogger e opinionisti, lo rappresentava senza pregiudizi, o convin-zioni personali che ne minerebbero il racconto. Non lo pretendo neppure io, ci mancherebbe. Tutti ci siamo creati un’idea su di lui, soprat-tutto dopo la celebre convention, “Big Bang – Leopolda 2011”, che si è tenuta dal 28 al 30 ottobre scorso, a Firenze. C’è una parte contra-ria per partito preso, per polemica e scettici-smo. C’è chi, invece, si prospetta acriticamente a favore della sua impostazione, della sua idea di fare politica, perché appannato dall’idea che una qualunque novità in seno alla politica no-strana sia un bene a priori, che chiunque pro-ponga il nuovo, chi vada contro gli schemi, sia considerato insindacabile, e sempre nel giusto.

Ecco, io vorrei uscire da questo schema. In-nanzitutto ripercorrerei, per brevi tratti, la car-riera politica di un giovane che – non si può negare – punta a rompere gli schemi.

Matteo Renzi ha 36 anni, nasce nel 1975, a Firenze, città di cui è sindaco dal 25 giugno

2009. In precedenza, era stato per 5 anni presidente della Provincia del capoluogo toscano. Diplomatosi al Liceo Classico, ha riportato poi una laurea in Giurispruden-za. Ex Popolare, Margherita, è poi entrato carico di speranze nel progetto del Partito Democratico. Crede che la comunicazione sia essenziale per la politica. E’ da sempre considerato un outsider – chiamato da chi lo disprezza “Berlusconi di sinistra”, ricor-dando la sua celeberrima visita ad Arcore – per le sue idee, talvolta considerate più di destra che propriamente “di sinistra”. Queste l’hanno portato a condurre un abbassamento delle tasse provinciali (con la relativa riduzione di servizi), a pro-muovere l’e!cienza nell’amministrazione pubblica, ma anche a un innovativo piano energetico per la provincia, nonché a un piano ri"uti e una notevole valorizzazione

Un’opinione sul rottamatore al centro del dibattito politico.Salve, Sono Matteo Renzi...

di Dario Cavalieridel patrimonio culturale. Da quando è sin-daco di Firenze – dopo aver vinto a sorpresa le primarie del Pd – ha attuato importanti provvedimenti, come la pedonalizzazione completa di Piazza del Duomo (oltre al di-scusso progetto della Tramvia).

E arriviamo al dunque. Quello che Renzi rappresenta oggi. Se è vero che si rischiamo le elezioni anticipate, per il centrosinistra Renzi potrebbe rappresentare una s"da, o, piuttosto, un’insidia. Proprio per questo sono in molti a criticarlo, dall’interno del Pd, da Sinistra, ma non solo. Bersani, D’Alema. La Segreteria (e nomenklatura) del Pd, che si fa ancora molto sentire, ad ogni livello, in tutte le istituzioni in cui è presente. Ecco, è tutta questa parte del partito – che è ad oggi quello più partecipato nel nostro povero panorama politico, data la democraticità dello Statuto, il ruolo delle primarie ad ogni livello – ad avere timore. Ha paura di perdere quello che ha ottenuto, ciò che si sarebbe dovuto met-tere in gioco anzitempo, al momento della costituzione del Pd. Equilibri di Segretaria e decisionali che sono invece rimasti presso-ché immutati. E’ innegabile che non ci sia, da parte di nessuno, la volontà di rimettersi in gioco. Ecco perché la novità rappresentata da Renzi e dal movimento di giovani, dai venti ai quarant’anni (per il resto, in politica ita-liana consideriamo giovani anche i 55enni) spaventa così tanto la casta al potere.

Ebbene, sono molti quelli che lo criticano,

ma è pur vero che sono in tanti a sostenerlo. A credere alla sua idea di cambiamento. Che l’idea di “rottamare” l’attuale classe politica sia suggestiva, non lo metto in dubbio. Di certo, però, bisognerà creare le condizioni perché una nuova classe possa comincia-re un percorso, e far sì che questa si rive-li migliore della precedente. Ovviamente, occorre che questa nuova dirigenza abbia degli attributi e sia competente. Oltre a por-tare una ventata di nuove proposte. Perché, svecchiamento sì, purché ci sia qualcosa di meglio da proporre. Le idee circolate alla Leopolda – la stazione di Firenze dove si è dibattuto durante la tre giorni del “Big Bang” – credo vadano in questo senso. Si va dalle proposte per “riformare la politica e le istituzioni”, a quelle per sistemare “conti e la crescita”, a tutto ciò che può essere sviluppo sostenibile. Dal futuro per i giovani all’U-niversità e la Ricerca, "no alla solidarietà, e all’apertura alla nuova cittadinanza. Tutto questo fermento di idee mi auguro continui. E il fatto che vi sia un confronto più plurale tra tutte le forze politiche, sui contenuti al centro dell’agenda politica, credo sia un au-spicio di tutti.

In conclusione, Matteo Renzi credo possa rappresentare qualcosa di nuovo. Tuttavia, il germoglio che è cresciuto rischia di appas-sire troppo in fretta. Non dovrà sprecare il consenso che, in questi anni, ha costruito intorno a sé.

Dopo esserci dedicati ad alcuni dei più disastrati personaggi della politica ita-liana, in questo articolo vogliamo pro-

porvi un personaggio che riassume alcune delle caratteristiche tipiche dell’Homo Italicus come il predicare bene e razzolare male, l’essere trasver-salmente ignavo e quindi vincente, bugiardo e ir-rispettoso della parola data, ci accingiamo, quin-di, a presentarvi Giacinto Pannella detto Marco.

Scorrendo la sua biogra"a e le sue dichiarazio-ni scopriamo che il suo credo politico racchiude tutto lo spettro politico italiano, infatti è: radi-cale, liberale, federalista europeo, anticlericale, antiproibizionista, nonviolento, gandhiano e per completare in quadro ha simpatizzato per la mo-narchia, per le battaglie del MSI e si dice ispirato dalla Destra Storica italiana.

Nel 1955 fonda, insieme ad altri, il Partito Radicale, che immediatamente dopo entra sta-bilmente nella “partitocrazia” tanto vituperata, attuando nel 1958 quella che sarà anche la stra-tegia dei decenni successivi, agganciarsi ad altri partiti o inserirvi propri candidati pur di entrare in Parlamento.

Nel 1966, annusando il vento, il buon Giacinto fonda la LID (Lega Italiana Divorzio), mettendo il cappello radicale sulla proposta di legge socia-lista, risalente all’anno precedente, per legiferare su quello che stava diventando un problema so-ciale.

Dopo aver partecipato al referendum sul di-vorzio del 1974, l’anno successivo, proprio quan-do il problema della tossicodipendenza sta di-ventando una drammatica realtà in Italia, inizia a sproloquiare sulla liberalizzazione e la depena-

lizzazione delle droghe, uno dei temi che ri-spolvera quando ha bisogno di scandalizzare Giovanardi e ottenere attenzione mediatica.

Nel 1976 può "nalmente entrare in Parla-mento, ma essendo in atto una sorta di alle-anza tra Democrazia Cristiana e comunisti, lui non viene invitato al gioco e ricomincia a bofonchiare contro la partitocrazia impe-rante, di cui lui è attivo partecipante dall’alto delle sue cinque legislature.

Il 1977 si apre con l’esplosione di nuovi e violentissimi scontri di piazza a cui l’allora ministro dell’Interno Cossiga tentò di porre freno permettendo a Roma solo manifesta-zioni di partiti presenti nell’Arco Costituzio-nale, cioè tutti tranne il MSI. Pannella nono-stante l’alto rischio di incidenti e degli avvisi di Cossiga organizzò un sit in con numerosi giovanissimi militanti radicali e nei prevedi-bili scontri trovò la morte una di loro, la di-ciannovenne Giorgiana Masi, ed innescando una polemica in"nita tra Cossiga e Pannella stesso sulla responsabilità degli incidenti.

Il 1978 di Pannella è dedicato a far cede-

Una vita passata a seguire la corrente

MaRco Pannella, l’anticonfoRMiSta confoRMato

di Emiliano Quercioli

re lo Stato italiano alle richieste delle Brigate Rosse nel caso Moro e a completare gli attacchi calunniosi che portarono alle dimissioni di del Presidente della Repubblica Giovanni Leone.

La campagna di#amatoria messa in atto dal tandem Partito Radicale-L’Espresso verso Le-one aveva avuto inizio nel 1975, basandosi su veline false prodotte da elementi vicini alla P2 con attacchi sia a Leone che ai suoi familiari. L’insigne giurista, da galantuomo qual’era, pre-ferì non replicare e dimettersi al culmine degli attacchi calunniosi. Le successive condanne per di#amazione nei confronti de L’Espresso e le scuse di Pannella del 1998 poco servirono a riparare la distruzione della carriera e della reputazione di Giovanni Leone.

Gli anni ’80 sono dedicati alla candidatura in parlamento dei personaggi più strani e stra-vaganti come la pornostar Cicciolina, Enzo Tortora ingiustamente accusato di tra!co di droga e forse l’unica candidatura sensata e Toni Negri, uno degli ideologi della lotta armata che appro"ttò dell’immunità per fuggire latitante in Francia, nonché l’accettazione nel Partito Ra-

dicale di numerosi ergastolani ma"osi come Vincenzo Andraous conosciuto con il nomi-gnolo di “boia delle carceri” per i numerosi ed e#erati omicidi commessi dietro le sbarre.

Giacinto Pannella è però noto al grande pubblico, oltre che per i tentativi di scandaliz-zare l’opinione pubblica con proposte ormai decotte, per due delle sue principali attività: produrre referendum e fare presunti scioperi della fame.

Partiamo dal primo punto informando gli elettori che partecipano ai referendum su temi seri e fondati, che se il quorum non viene rag-giunto per disa#ezione dell’elettorato devono ringraziare Pannella, oltre ovviamente a Ma-rio Segni, per i 145 tentativi referendari attua-ti, in maggioranza bocciati dalla Corte Costi-tuzionale o dagli elettori.

Se la raccolta di "rme referendarie può ave-re anche un aspetto folkloristico, la seconda attività, ossia gli scioperi della fame hanno un aspetto ridicolo ed uno veramente vergogno-so.

La componente ridicola è rappresentata dall’inusitato numero, svariate decine, di scio-peri della fame attuati ed accompagnati da una proporzionale crescita della circonferenza del soggetto, mentre la componente vergogno-sa è rappresentata dallo svilimento morale di una così nobile forma di lotta.

Uno dei presunti scioperi attuati da Pan-nella sarebbe durato 90 giorni e ci chiediamo come sia possibile dato che Bobby Sands in Irlanda è morto dopo 66 giorni, ma forse la di#erenza è che lo sciopero lo faceva sul serio.

Possiamo concludere che questo vanitoso ed egocentrico personaggio ha passato la sua vita seguendo la corrente che gli poteva far ottenere vantaggi personali, in primis la vi-sibilità che per personaggi simili vale più di qualunque altra cosa.

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6FRQ¿QDUH���1D]LRQDOH2011 Nov-Dic 3

Insomma Berlusconi ha rassegnato le dimissioni. Riassuntone della crisi: un

leader democraticamente eletto cede sotto le pressioni dei mercati europei che pongo-no alla guida dell’Italia un esponente della !nanza internazionale. Gran festa degli In-dignados nelle piazze.

Queste notizie, lo avrete notato, ti provo-cano solidarietà un pò dal tutto il mondo. Ti infastidisce, anche. Obiettivamente l’opinio-ne pubblica internazionale non è stata cle-mente con noi. Prendi la Francia. Quando ormai l’Italia era messa in ginocchio dai dik-tat tedeschi, ecco che anche loro si aggiun-gono all’allegra brigata per contare ancora qualcosa in Europa, in!erendo su un corpo ormai morto. Visto? La storia si ripete (an-che se a parti invertite).

Non porto rancore a Sarko anzi gli faccio i miei complimenti. E’ riuscito a impalmar-si l’unica italiana che adora i tappi Magiari presidenti di Francia (non sono molte, ce n’erano un paio in Friuli ma da quando l’Un-gheria ci ha fregato il Tocai si sono sposate con autoctoni di Martignacco).

Lun. 7 novembre alle 11.02.03 mando un messaggio alla mia morosa che sta in India e le dico: guarda che dicono che Berlusca se ne va. Io sono un partigiano delle elezioni anticipate subito: così lei torna prima. A !ne giornata sono un pò contrariato dalle rea-

zioni dei mercati. Prima si impennano, poi si sgon!ano appena la bufala delle dimissio-ni viene smentita. All’una ero miliardario, telefono a tutti i giornali per cui ho scrit-to senza mai essere pagato e li sbe"eggio. Alle dieci torno strisciando e giuro che a chiamare non ero io. Per difendersi da questi cretini che governano l’economia mondiale i rimedi sono due: investire sulla Ferrero o tornare al baratto. La crisi aumenta il consumo di Nutella, più sicura del matto-ne (il 23,2% degli italiani ha in camera tra i cinquanta e i settanta chili di mattoni, e si dichiara mediamente insoddisfatto. Per lo più li tengono sotto il letto, altri ci dormono assieme. Almeno !nché non divorziano).

L’8 novembre accade l’impensabile. Berlu-sconi scopre di poter contare soltanto su 308 voti alla camera. Ne occorrono 316. Il Cava-liere dopo il voto controlla i tabulati. Un’ora più tardi e"ettivamente si dà per vinto. 308 è minore di 316. Ci mette un pò perché è una sottrazione col riporto.

Bersani esultava raggiante: “è un giorno di liberazione”. In e"etti senza l’aiuto delle potenze straniere non ci saremmo mai libe-rati di Mussolini. Ha anche dichiarato che è stato il Pd a mandare Berlusconi a casa. Ho letto e mi sono spaventato: i comunisti han-no già cominciato a cambiare i libri di sto-ria. Il momento più bello comunque è stato quando Obama ha telefonato all’Italia per congratularsi del cambiamento. Ha chiama-

to mezz’ora prima delle dimissioni u#ciali e Berlusconi ha sentito tutto. É stato molto in-

delicato. Il Cav. ne è uscito col cuore spez-

zato e col rammarico di non poter avere mai più la possibilità di sapere come faceva il collega ad essere così abbronzato.

La folla in piazza lanciava monetine. Pazzi, tenetevele strette: vi serviranno.

Si sentiva bisogno di un governo tecnico, uno con volti nuovi ed estranei alla politica dei politicanti. C’era bisogno di gente giova-ne, capace, competente. Ma abbiamo dovuto accontentarci, ed ora eccoci qui. Si chiama governo tecnico perché tecnicamente al go-verno abbiamo di nuovo la Dc. La di"erenza è che ora la sinistra esulta e fa festa. Va bene aver nostalgia della prima repubblica, ma con juicio.

Quello che conta è che con le dimissioni del Cavaliere inizia sicuramente una nuova stagione. Qui di seguito i punti salienti: 1. Tanto per iniziare lo spread è a quota cin-quecento (scrivo il 14 novembre). Per gli ot-tocento ho già pronto l’omonimo brano di De André, e quante belle triglie nel maaaaar,

lo condividerò in facebook, se mi rubate l’i-dea vi ammazzo. 2. Poi tanto per dire Monti ha rilasciato la sua unica dichiarazione si-gni!cativa: “i mercati devono avere pazien-za, il governo durerà !no al 2013”. O forse era Berlusconi? In!ne c’è la vera novità, ov-vero 3. il tanto sospirato ingresso dei giovani in politica. Monti ha 68 anni ed è un giova-nottone. Praticamente, per quello che verrà, non ha nemmeno i requisiti per andare in pensione. Quindi ha tutto il tempo di fare le riforme, bazzicare un pò a Roma e a ot-tant’anni (2023) candidarsi come sindaco di Gorizia. Promettere di terminare, !nalmen-te, gli ascensori in castello. E vincere.

Impressioni sulle dimissioni di Berlusconi, il governo Monti e il futuro di questo Paese.elezioni, Subito.

Il mondo è in analisi. Bombardato ogni giorno da messaggi standardizzanti la

popolazione, l’uomo medio deve sforzarsi di raggiungere il successo, la felicità e i soldi. L’ansia di non riuscire subentra e così fru-strati ci si ritrova su un lettino ad analizzare i propri problemi. Tutti ugualmente stressati, !niamo per omologarci al grigiore cittadino a cui il consumismo ci porta.

Per essere accettati dobbiamo apparire splendidi e felici, nell’intimo condividiamo la banalità dell’insoddisfazione.

I giovani non sono immuni a tale grigiu-me e cercano di contrastare la piattezza cir-costante sfoderando creatività e novità. La ricerca del nuovo si impone e i mezzi a loro disposizione sono limitati.

Usare la forza, capovolgere la normalità quotidiana è il metodo più rumoroso ed evi-dente per emergere. E anche il solo capace di attirare l’attenzione, o così pare.

Il culto della virilità si impone tacitamen-te dentro e fuori il gruppo dei legionari del

cambiamento. La protesta di piazza degli In-dignati continua a crollare quando si scontra con l’altra forma, brutale e grezza, di ribel-lione.

I Black Bloc vogliono cambiare il sistema, così anche gli Indignati ma i primi brucia-no i simboli del nemico, i secondi gridano la loro idea cercando di farsi udire.

L’insoddisfazione generale e il bisogno di concreti cambiamenti può essere il moti-vo della crescente attenzione che avvolge i gruppi di rivoltosi. L’idolatria mediatica ha sicuramente contribuito a creare stereotipi associati ai Black Bloc.

Cercando di sfuggire all’omologazione, essi si sono in realtà trovati invischiati in un nuovo tipo di livellamento e assimilazione basato su auto incendiate e disagi adolescen-ziali. Per potersi de!nire veri appartenenti a questo gruppo dai caratteri ormai settari è necessario sacri!care la propria persona-

lità ed assolvere ai doveri della rivoluzione da portare avanti con il culto della più rozza virilità.

Giovani incappucciati, con zainetti, molo-tov e sassi corrono gridanti a distruggere i simboli del capitalismo; come i crociati che distruggono la Gerusalemme Araba così an-che loro impongono la loro fede sul popolo che pacatamente li guarda e lascia fare.

Convinti di avere le chiavi della libertà non si accorgono di essere in realtà ancora schiavi di quel sistema che provano a di-struggere nel modo più concreto possibile.

La loro rivoluzione è dura e forte, per soli uomini. La prorompente forza virile che si sprigiona da questo fenomeno ha radici non solo di tipo politico ma anche e soprattutto culturale. Le basi sono l’identi!cazione della protesta con la violenza, della rivolta con la sommossa. L’alienazione marxista è lontana anni luce dalle convinzioni condivise dai

di Elisabetta Blarasin oMoloGAti AD eMeRGeReIsolarsi dalla massa è ancora possibile?

di Rodolfo Toè

CoSì lA MiA MoRoSA toRnA A CASA pRiMA( )

Black Bloc e ciò dimostra come la loro vo-lontà di far cadere il sistema non si identi!-chi con nessuna corrente pre-esistente.

Questi ragazzi rincorrono il falso mito della Libertà e dimostrando la loro furia di-struttiva si omologano tacitamente alla mas-sa da cui si sforzano di emergere. Le regole e i doveri della rivoluzione li obbligano ad assumere determinati atteggiamenti e man-tenere la linea di condotta degli uomini duri; una piccola crepa nella struttura rischia di manomettere l’intero blocco.

Le caratteristiche comuni a ogni Black Bloc dimostrano come il loro modo di pro-testare sia lo stesso in ogni parte del mondo.

La democrazia garantisce la libertà e i di-ritti ad ogni cittadino. Oggi questa facoltà è stata a tal punto estremizzata da aver reso insopportabile la libertà stessa. La possibi-lità di ognuno di distruggere la proprio città per una distorta visione della rivoluzione alimenta sentimenti diversi ma sempre for-ti e brutali. Non solo la polizia ma gli stessi Indignati cominciano ad essere stu! delle contestazioni violente e alcuni accondiscen-dono a fronteggiare tale minaccia con altret-tanta forza.

La società odierna è dunque piombata in un vorticoso culto della virilità dove solo il più forte potrà sopravvivere e volgere la si-tuazione a proprio vantaggio?

L’incapacità di farsi capire in modo paci!-co è ormai chiara. Ma se la violenza è la sola voce udibile chi potrà sentire in un mare di sordi che gridano?

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6FRQ¿QDUH���,QWHUQD]LRQDOH 2011 Nov-Dic4

«A nessuno verrebbe in mente di eli-minare le budella del corpo umano solo perché la funzione che svolgono è

poco pulita». Terzani riporta così le parole di Yukio Yamaguchi, uno dei maggiori avvocati dei gangster della yakuza. Loro non si de!ni-scono «criminali», bensì ninkyodantai, ovvero organizzazioni umanitarie seguaci del ninkyo-do, un’antica !loso!a sviluppatasi in Cina tra il 400 e il 700 d.C.; tra i loro ideali si ritrovano quello della difesa dei deboli e degli oppressi e del sacri!cio di se stessi in nome del bene co-mune.

Gli yakuza agiscono alla luce del sole, man-

tenendo il monopolio assoluto nel rici-claggio di denaro sporco, nel tra"co di droga, in quello della prostituzione e del gioco d’azzardo a cui sono dediti così tanti giapponesi nel tempo libero. I loro nomi si trovano sull’elenco telefonico e il reparto di polizia che si dovrebbe occupare della lotta alla criminalità organizzata sostan-zialmente non ha la pretesa di arrestare i 90.000 uomini appartenenti ai vari clan. La verità è che la società giapponese con-vive simbioticamente con questo sistema criminale, rispettandone gli interessi e apprezzandone spesso le azioni e la capa-cità di mantenere l’ordine. Le Mercedes e

)UD�FRGLFL�GL�FRPSRUWDPHQWR��DIIDUL��RULJLQL�H�¿ORVR¿DViaggio nell’ordine e nelle gerarchie del male giapponese:

di Elena Marsonile Rolls-Royce sfrecciano per i centri delle grandi città e nascondono dietro i !nestrini uomini in eleganti doppiopetto, impeccabili nell’acconciatura dei capelli e negli accessori preziosi che portano. Tuttavia, circa 300 anni fa, questi uomini erano venditori ambulanti e gestivano un gioco d’azzardo, il cosiddetto hanafuga (il gioco dei !ori), da cui deriva il termine a loro a"biato yakuza, che consi-ste nella mano perdente del gioco 8-9-3 (in giapponese ya-ku-za). Partendo dalle !ere di paese, questa organizzazione si è imposta con una sempre maggior forza nella socie-tà giapponese, ottenendo poltrone in Parla-mento e a"ancandosi al ruolo della polizia in caso di disordini pubblici.

L’ordine e il rispetto della gerarchia sono fondamentali. In Giappone, non apparte-nendo al gruppo non si è nessuno, tanto che spesso alla polizia arrivano denunce da par-te della yakuza di ladri che, agendo da soli e fuori dall’organizzazione, hanno appena sva-ligiato un negozio.

La più grande organizzazione criminale del mondo, con enormi tra"ci nell’intero Sol Levante ma anche in America, Europa e Au-stralia, è gerarchizzata e suddivisa secondo uno sviluppo verticale che ri#ette le caratte-ristiche patrilineari della società giapponese: a capo delle grandi famiglie, le ikka, ci sono i padri, i cosiddetti oyabun, a cui i kobun, ov-vero i !gli, devono la maggiore obbedienza,

rispetto e lealtà. Le famiglie che vantano più appartenenti al clan sono: la Yamaguchi-gu-mi (la più potente fra le tante, con 40.000 af-!liati), e la Sumiyoshi-kai (12.000 membri) e l’Inakawa-gai (10.000 a"liati).

Molto interessante da vedere è il saluto che avviene quando due membri della Ya-kuza si incontrano per la prima volta: uno dei due fa un passo avanti, piega le ginoc-chia, a"anca il pugno destro alla coscia, stende il braccio sinistro e recita in quest’or-dine il suo luogo d’origine, la sua residen-za attuale, il nome proprio e quello del suo oyabun. Lo stesso rituale, che viene decla-mato in giapponese arcaico, lo ripete anche l’altro membro della Yakuza.

In questo Paese pochi criminali agisco-no da soli, e forse è anche questo il motivo dell’immenso potere della Yakuza. La disci-plina interna e l’e"cenza di questa organiz-zazione quasi a$ascinano, mentre la Yakuza continua ad essere il primo appoggio in caso di qualsiasi problema, dai litigi sui con-!ni dei territori agricoli, ad una richiesta da parte di un partito politico per un maggior successo in un periodo di crisi di consensi.

«You are in Japan, so let Yakuza does what is necessary to do» come direbbe uno ya-kuza ad uno straniero molto impiccione e poco amante della malavita.

BERLINO - «E’ come nel Nord Italia, c’è la convinzione che la presenza ma-!osa sia geogra!camente circoscritta

solo al meridione e si nega la connivenza con organizzazioni criminali». Lo racconta a Scon-!nare Verena Zoppei, una giovane attivista dell’associazione italo-tedesca “Ma!a? Nein danke!” che da anni sensibilizza la società ci-vile ai temi della lotta alla ma!a in Germania.

Com’è nata l’associazione? Credi che i te-deschi abbiano bisogno di interessarsi mag-giormente al problema della ma!a?

L’associazione è nata in seguito alla strage di Duisburg dell’agosto 2007 su iniziativa di alcuni ristoratori italiani e della deputata Lau-ra Garavini. Inizialmente il primo obiettivo è stato frenare il di$ondersi nell’immaginario tedesco dell’equazione “italiano = ma!oso”, che dopo la strage rischiava di alimentare pre-giudizi ancor più forti, e aprire gli occhi alla società civile sulla potenza economica che in Germania la ma!a italiana ha ritagliato, anche grazie ad una carente legislazione in materia.

La Germania è un paese che presenta diverse in!ltrazioni ma!ose, non solo italiane, Berli-no in particolare so$re maggiormente della presenza della ma!a serba, russa e cinese. La popolazione tedesca però di"cilmente è a co-noscenza dell’entità di tali in!ltrazioni, rimane spesso ancorata allo stereotipo del ma!oso sti-le Marlon Brando, convinta che si tratti di un fenomeno unicamente italiano. La Germania, inoltre, non ha mai avuto vittime per ma!a

(nella stessa strage di Duisburg le vittime sono state tutte italiane) e ha quindi dif-!coltà a trattare la ma!a italiana con la stessa severità riservata ad altri temi che scuotono maggiormente le coscienze dei tedeschi.

Che obiettivi avete raggiunto !no ad oggi e cosa sperate per il futuro?

Ci sono stati diversi passi avanti, ad esempio pochi mesi dopo la strage di Du-isburg, nel dicembre 2007, iniziarono di-versi tentativi di estorsione a danno di al-cuni ristoratori a Berlino, e l’associazione insieme alla polizia criminale di Berlino (LKA) ha aiutato le vittime e incentivato le denunce con l’attivazione di un apposi-to numero di telefono. È nata una stretta collaborazione con la sezione 4 della po-lizia berlinese, il cui presidente Bernard Finger è oggi parte attiva anche nell’ope-ra di sensibilizzazione della società civile. Il livello di collaborazione tra istituzioni tedesche ed italiane inoltre è aumentato, esiste una task force italo-tedesca che ha portato all’arresto di alcuni dei colpevoli della strage di Duisburg.

Quanto e come agisce la ma!a in Ger-mania?

Secondo il rapporto del BKA del 2008 sono presenti 18 gruppi criminali attivi in Germania dominati da cittadini italiani, e 187 indagati per reati legati alla crimi-nalità organizzata. Questi non hanno il controllo sul territorio e nemmeno intes-sono legami con istituzioni o partiti, ma

,QWHUYLVWD�D�9HURQD�=RSSHL�GL�©0D¿D"�1HLQ�'DQNH�ª��O¶DVVRFLD]LRQH�FKH�VSLHJD�OD�PD¿D�LQ�WHGHVFRracconti di antimafia dal cuore di Berlino

di Gabriella De Domenicoè la loro in#uenza economica il pericolo maggiore. Si tratta speci!catamente di tra"co di beni illegali, quali armi, stu-pefacenti o ri!uti tossici e il riciclaggio del denaro spor-co. L’introduzione di denaro criminale nell’economia e di partecipazione “ma!ose” in società quotate in borsa, rappresenta un rischio anche maggiore, poiché può com-portare la destabilizzazione delle leggi di mercato e il con-dizionamento della società in modo subdolo e imprevisto.

Credi di poter fare un confronto tra la società ci-vile italiana e quella tedesca nel rapportarsi con questi fenomeni di criminalità or-ganizzata?

C’è una di$erenza enorme nella percezione e quindi nel rapportarsi con questi feno-meni tra tedeschi ed italiani, ma ciò che succede in Ger-mania credo sia comparabile a quello che era il nord d’Ita-lia, e parzialmente è ancora oggi. È di$usa la convinzione che la presenza ma!osa sia ge-ogra!camente circoscritta solo al meridione, si nega la connivenza con organizzazioni cri-minali e le persone che collaborano con tali organizzazioni non diventano esattamente a"liati con rito ma partecipano attivamente

ai loro a$ari, traendone dei vantaggi: fanno gli avvocati, i commercialisti, i broker, però sempre mantenendo un’apparenza di legali-tà, innocenza o ingenuità, in modo che, di fronte ad eventuali accuse, possano dirsi ignari.

Per info: www.ma!aneindanke.de

la YaKuZa

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6FRQ¿QDUH���,QWHUQD]LRQDOH2011 Nov-Dic 5

Dopo nove mesi di gestazione dall’ini-zio della rivoluzione, in Tunisia il 23

ottobre scorso si sono svolte le prime elezio-ni libere, pluraliste e trasparenti nella storia della Paese e dell’intero mondo arabo. Un grande successo, testimoniato dalla parte-cipazione di oltre l’80% degli aventi diritto, tra cui moltissimi giovani e donne, che !n dal mattino hanno creato code lunghissime, carichi di emozioni e di aspettative per il futuro. Le votazioni si sono svolte sotto lo sguardo attento di più di 10.000 osservatori tunisini e 500 internazionali, tra cui l’OSCE e l’UE.

I 217 eletti avranno l’onore e la responsa-bilità di redigere una nuova costituzione, il più possibile condivisa, che delinei il nuovo quadro istituzionale del Paese pioniere della Primavera araba e che potrebbe diventare un modello per i vicini Egitto e Libia. Fra un anno, quando il testo sarà stato adot-tato, avranno luogo le prime elezioni politiche.

Il partito vincitore è risultato di gran lunga Ennahda (la Rinascita), che con oltre il 40% dei voti si è ag-giudicato la maggioranza relativa nell’Assemblea Costituente. Le ragio-ni di questo successo sono da attri-buirsi probabilmente ai toni moderati adottati in campagna elettorale, al gran-de coinvolgimento emotivo dei militanti e al riferimento all’Islam come garanzia di moralità, ma soprattutto alla fama del suo

leader storico, Rached Ghannouchi, sim-bolo della resistenza contro la dittatura di Ben Ali. È un partito di ispirazione islami-ca, ma moderato, stile Erdogan, per inten-derci “demomusulmano”. Il suo programma è teso alla creazione di uno stato moderno e democratico, rispettoso dei diritti umani, ma senza perdere di vista la tradizione e la morale islamica, rilette però in chiave pro-gressista. Per usare le parole di Ghannouchi, «Porteremo avanti questa rivoluzione !no al raggiungimento del suo obiettivo, che è una Tunisia libera, indipendente e prospera, in cui siano garantiti i diritti di Dio, del Profeta, delle donne, degli uomini, dei religiosi e dei non credenti. Perché la Tunisia è di tutti». Ennahda è stato accusato di integralismo, di voler limitare i diritti delle donne e proibire il consumo di alcool, ma in realtà, come di-m o -

stra il suo modello turco, senza fondamento. Basti pensare che, durante la stesura del re-golamento per le elezioni, questo movimen-to è stato tra i fautori della parità tra uomini e donne nelle liste, ponendo per assurdo la Tunisia all’avanguardia in questo tema. Le 42 neo-elette del partito sono inoltre con-vinte che Islam e femminismo possano con-vivere paci!camente.

Seguono, seppure a distanza, il Congrès pour la République (CPR) di Moncef Mar-zouki, membro dell’Organizzazione araba per i diritti umani e di Amnesty Interna-tional, e Ettakatol del dottor Mustafa Ben Jaafar. Si tratta di due partiti progressisti e socialdemocratici, in passato duri opposito-ri del regime, il che ha giocato senza dubbio a loro favore. A quanto pare dalle dichia-razioni dei leader, saranno probabilmente

loro, insieme a Ennahda, a formare un governo di unità nazionale e

ad esprimere il presidente ad interim (si è fatto insisten-

temente il nome proprio di Ben Jafaar).

Abbiamo poi, a sorpresa, Pétition Populai-re, il partito populista, conservatore e ultra-liberale fondato da Hachemi Hamdi, uomo d’a"ari e proprietario di emittenti televisive satellitari di cui ha fatto ampiamente uso in campagna elettorale, anche infrangendo la legge (dopotutto la Tunisia non è così lonta-na dall’Italia). La metà dei seggi vinti è stata invalidata per violazione del regolamento, in quanto i candidati erano membri del Ras-semblement Constitutionnel Démocratique di Ben Ali, scatenando proteste violente contro alcuni sedi locali di Ennahda.

Chiude il gruppo dei partiti maggiori, il Parti Démocrate Progressiste (PDP), anche se notevolmente al di sotto delle aspettative che lo volevano il principale avversario di Ennahda, che paga forse le conseguenze di una dura campagna laicista anti-islamista (non proprio in sintonia con il clima di co-esione nazionale creatosi durante la rivolu-zione) e di essere stato in passato ricono-sciuto come opposizione legale dal regime.

I rimanenti seggi sono stati conquistati da candidati indipendenti o partiti minori,

come L’Initiative (centristi), PDM (so-cialisti), Afek (liberali) e PKOT (comu-nisti).

Gli interrogativi e le s!de che atten-dono i nuovi costituenti sono numerosi, come anche le speranze che il popolo tunisino nutre in loro. Possiamo solo augurarci che l’Assemblea sia all’altez-za della situazione e che tutto ciò che è stato costruito in questi nove mesi non vada perduto, ma a mio parere i presup-posti per un lieto !ne ci sono tutti.

elezioni in tunisia

Qatar. Un piccolo emirato sul Golfo Persico, ampio un ventisettesimo

dell’Italia, con il reddito pro-capite più alto al mondo. Baciato dalla fortuna in senso ambientale (perle, petrolio, gas), ha saputo sfruttare al massimo le proprie ricchezze, all’insegna dell’industrializzazione, della li-beralizzazione, del turismo e delle riforme. La Costituzione, rati!cata nel 2004 e appro-vata da un referendum a su"ragio universale dal 97% della popolazione, prevede la sepa-razione dei poteri, libertà di culto e di pen-siero, e uguaglianza tra i cittadini. Si tratta di innovazioni senza precedenti nel mondo arabo.

Eppure le contraddizioni sono molte, e nemmeno troppo occultate. I partiti politici sono banditi, rendendo inutile, nella pratica, quella libertà di pensiero proclamata nella Costituzione. Le donne ricevono stipendi equivalenti a quelli degli uomini, ma non ottengono gli stessi bene!t per le spese di viaggio e di trasferta, per esempio. Vige an-cora il delitto d’onore e vale la pena di morte per reati comuni. I cittadini ricevono gratu-itamente i servizi di base, quali l’istruzione, l’elettricità, l’acqua, la sanità; eppure solo il 20% della popolazione possiede tale status. Il restante 80% è formato da immigrati da

altri paesi arabi, o da indiani, pakistani e iraniani, che non detengono alcun diritto, e sono trattati alla stregua di schiavi.

Il ruolo più controverso lo gioca tut-tavia la tv satellitare qatarina Al-Jazeera, voluta nel 1996 dall’emiro come baluardo d`indipendenza e libertà. Esempio unico

nell’intera regione, una rete esportatrice di “democrazia, sia pure ben lontano da casa sua; o meglio per tenercela lontana”, come spiega a La Repubblica Lucio Caracciolo, direttore della rivista Limes. Basti ricordare il 2003, quando il Qatar o"rì agli americani la propria base militare come centro di pia-ni!cazione per l’intervento in Iraq, mentre Al-Jazeera mostrava i nastri di Saddam Hus-sein che incitava alla resistenza. Si potrebbe giusti!care questa super!ciale incoerenza come, in realtà, un avanzato esempio di tra-sparenza e completa indipendenza dell’emit-tente dalle posizioni del governo, eppure la tesi di Caracciolo sembra verosimile.

Resta il fatto che, nonostante le molteplici contraddizioni interne che o"uscano il pro-gresso di questo piccolo emirato, il Qatar è una dimostrazione di come mondo islami-co non debba necessariamente signi!care estremismo e fossilizzazione, ma – almeno in alcuni ambiti – diventi sinonimo di aper-tura e riformismo, senza alcuna rinuncia all’integrità religiosa e culturale. L’emirato è la prova esistente di come l’idea dell’assolu-tezza del sistema democratico sia scal!bile e di come un modello alternativo di base isla-mica possa funzionare, al contrario di ciò che ci è sempre stato insegnato.

Perciò che altro dire, occhi puntati sul Qa-tar!

di Giulia Daga

Qatar in progressTra democrazia e integralismo nell´emirato della tv Al-Jazeera, la rete

satellitare che esporta la democrazia «per tenerla lontana da casa sua»

di Andrea Ferrara

Analisi dei risultati delle prime elezioni libere

tunisine che si sono svolte lo scorso 23 e 24 Ottobre

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6FRQ¿QDUH���,QWHUQD]LRQDOH 2011 Nov-Dic6

“Barack Obama è il nuovo Karl Marx: vuole appro!ttare della crisi per portare il Socialismo negli USA”.

“Il comunismo non è stato scon!tto: sem-plicemente, riappare sotto forme diverse”.

Non ci sono parole più adatte di que-ste, pronunciate ad un incontro alla

Heritage Foundation, un think thank con-servatore di Washington DC, per provare a capire quella campagna elettorale perma-nente che è la politica Americana, e in parti-colare il teatrino delle primarie Repubblica-ne. Da qualche mese si scontrano personaggi dubbi o meno, solidi o meno, per cercare di spuntarla e ricevere la nomination dal GOP (Grand Old Party) per s!dare, il prossimo novembre, l’uscente Obama. Le elezioni co-minciano il 3 gennaio in Iowa, per prosegui-re in tutti gli Stati dell’Unione e concludersi il 26 giugno nello Utah. Un tour de force per gli elettori americani, che si dovranno sor-bire quasi due anni di ininterrotti dibattiti televisivi e discorsi pubblici per decidere chi è degno di rappresentarli alla Casa Bianca.

Analizzando la campagna elettorale !no a questo punto, è evidente come essa sia stata caratterizzata da una forte presenza di can-

didati con idee e proposte estreme, che van-no da un generico distruggere ogni forma di Stato sociale alla messa fuori legge dell’abor-to, !no alla proposta avanzata da Ron Paul di eliminare la Fed, vista come baluardo oscuro del tecnicismo e dell’autoritarismo da Stato forte. Tali idee non sono propria-mente nuove; anzi, alcune di loro sono pre-senti nel discorso politico !n dal Dibattito sulla Costituzione. Ma in queste Primarie, esse hanno ricevuto nuova linfa da candidati desiderosi di cavalcare l’onda del Tea Party, il movimento popolare (e populista) che pro-testa contro gli alti costi della politica e le grandi banche: prima Michelle Bachmann, deputata del Minnesota, poi Rick Perry, go-vernatore del Texas, e in!ne Herman Cain, afroamericano, ex CEO di Godfather Piz-za, si sono presentati agli elettori con un programma molto sempli!cato, che si può riassumere con “zero tasse, zero spesa”, per conquistare la pancia della base Repub-blicana ostile a Mitt Romney, il candidato più moderato. In questo discorso politico sempli!cato al massimo Obama è indicato come l’Anticristo: è considerato responsabi-le unico del declino inarrestabile del Paese, sia economico che morale. Cacciato lui, ed eliminato lo stato sociale, gli USA potranno tornare a crescere, e a dominare il mondo.

Dei tre candidati, la Bachmann è evapora-ta quasi subito; Perry e Cain sono impegnati in un testa a testa in cui il crollo nei sondag-gi di uno rappresenta una crescita per l’altro. In questo momento, ad essere in vantaggio è Herman Cain, accusato nelle scorse settima-ne di molestie sessuali nei confronti di quat-tro donne. Quello di Cain è, a ben vedere, un caso sorprendente: in primo luogo, le accuse

non sembrano avere minimamente scal-!to la sua posizione nei sondaggi (almeno mentre questo articolo viene scritto), dato che risulta ancora il preferito dai Repubbli-cani insieme a Romney. In secondo luogo, ha fatto già molti errori, ha una tendenza estrema a dire, smentire e ripetere e il suo piano !scale “9-9-9”, che prevede un’unica aliquota, è sicuramente semplice, ma soprat-tutto bislacco e male pensato. Cain risulta un potenziale Presidente molto discutibile, quindi. Ma allora, perché riscuote tanto successo? La risposta è semplice: proprio per le sue caratteristiche. Cain si pone come “uomo del popolo”, è molto bravo a parlare, capacissi-mo a trovare sempre qualcuno da accusare per i suoi errori (siano i liberali razzisti o il rivale Per-ry, accusato di avere montato ad arte le accuse di violenza) e soprattutto, non è un politico di professione: questo, in una base Repubbli-cana stanca e s!duciata dei politici, ma non delle Istituzioni democratiche, è un grande punto a favore.

E ciò spiega anche perché Mitt Romney non riesca a sfondare: dei candidati in rosa è sicuramente il più presentabile; ha un appe-al più moderato, e in e"etti ottiene maggiori consensi tra gli indecisi; ha molta più espe-rienza, in quanto è alle sue seconde primarie ed è stato governatore del Massachussets; ha una solida base economica. Però Romney è, appunto, troppo moderato per a"ascinare la base Repubblicana. In più, non gli è ancora stato perdonato il fatto di aver introdotto in Massachussets un sistema di sanità pubblica

simile a quello proposto da Obama e di avere lavorato per anni in un hedge fund. Inoltre, anche lui ha fatto alcuni grossolani errori in campagna elettorale. Ultimo punto da non sottovalutare, Romney è mormone: questo è un serio handicap all’elezione, in un partito che negli ultimi anni ha visto aumentare di molto la sua componente confessionale.

Insomma, Romney appare fra tutti come il candidato più adatto ad a"rontare Obama.

Ma bisogna vedere cosa sceglierà di fare il Partito Repubblicano. Lo spirito della fron-tiera, della Repubblica di individui liberi, è ancora molto vivo nella popolazione ame-ricana, in particolare tra chi e"ettivamente vota alle Primarie. E in una campagna elet-torale così dominata dai media come quella Americana, non è detto che ad essere scelto sia il candidato con le idee migliori, o quello più “presidenziale”. In questione, insomma, e’ l’immagine che di se’ vorra’ dare il Grand Old Party: a ben vedere, si tratta della clas-sica contrapposizione “Partito di governo”- “Partito di movimento”. Solo il tempo ci dirà quale anima vincerà, se l’Elefante o la Foglia di Tè.

L’ELEfantE E La fogLia di tè

Ogni giorno sentiamo parlare della crisi economica che ha colpito l’Eu-

ropa negli ultimi anni, dei disordini in Gre-cia e delle misure d’austerità, di titoli di sta-to, spread, bond, eurobond e Bce. Ma qual è il signi!cato di questi termini? Come siamo !niti «in crisi»? Cosa sta accadendo in Gre-cia? Andiamo con ordine.

L’ORIGINE DELLA CRISI EUROPEAQuando uno Stato ha bisogno di soldi può

tentare di ridurre le spese oppure rivolger-si ai propri cittadini, aumentando le tasse. Lo Stato, così come farebbe un’impresa, può inoltre !nanziare le proprie attività at-traverso l’emissione di titoli obbligazionari, chiamati appunto titoli di stato. Al momento della scadenza dei titoli, lo Stato deve restitu-ire agli investitori i soldi ricevuti in prestito,

più una piccola percentuale di interessi. Se però lo Stato, per diversi motivi (compresa la corruzione e l’ine#cienza dei governanti) fatica a saldare i debiti e, anzi, incrementa il proprio debito pubblico, gli investitori per-dono !ducia nello Stato e iniziano a «ven-dere» alcuni dei titoli in loro possesso o non comprarne più. Di conseguenza lo Stato ha meno soldi da investire in opere pubbliche, per pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici o !nanziare la ricerca, la cultura, l’istruzio-ne. Nel momento in cui lo Stato non riesce più a saldare i propri debiti si dichiara insol-vente. È ciò che sta succedendo in Grecia, Paese a un passo dal baratro dell’insolvenza, ma anche in Italia, che ha un debito pubbli-co enorme, in Spagna, Portogallo e Irlanda. Indirettamente sono stati colpiti dalla crisi anche Stati Uniti e Cina, principali partner economici dei Paesi europei.

CHE SUCCEDE IN GRECIA?L’origine della crisi greca risale agli anni

80, quando il primo ministro era Andreas Papandreou, padre del neo-dimissionato premier Giorgos. Corruzione, nepotismo e clientelismo hanno mangiato l’economia greca sin da allora, portando il Paese sempre più in basso, !no al crollo rovinoso degli ul-timi due anni. Nel maggio del 2010 l’Unione Europea ha concesso un primo pacchetto di

aiuti per la Grecia: 100 miliardi di euro, a cui si sono di recente sommati i 120 miliardi del secondo pacchetto. Per poter avere accesso a questi ultimi, però, il Parlamento ellenico ha dovuto approvare le cosiddette «misure d’austerità»: un piano per 28 miliardi di ta-gli e 50 miliardi provenienti da grosse pri-vatizzazioni. Inoltre, le banche straniere che possiedono titoli di stato greci o"rono ora ad Atene un «rollover»: uno scambio di ti-toli in scadenza con nuovi titoli a scadenza trentennale.

Se la Grecia dovesse fallire, metterebbe in seria di#coltà i suoi principali creditori: Bce, Fmi, Paesi dell’Ue, banche tedesche e francesi, oltre che gettare nella disperazione i propri cittadini. L’economia europea prima e mondiale poi ne risentirebbe pesantemen-te e l’euro verrebbe per!no messo in discus-sione.

UNA CORSA A OSTACOLI Per uscire da questa devastante crisi eco-

nomico-!nanziaria, una via d’uscita c’è, e forse più di una. I Paesi dell’Ue dovrebbero “mettere in comune” il loro debito pubbli-co e ripartirselo quindi in egual misura, in modo tale che i Paesi più forti, come la Germania, sostengano quelli più de-boli, come la Grecia. Si potrebbe quindi ricorrere a degli «eurobond» per migliorare

di Lorenzo Alberini

Crisi EConomiCa pEr non addEtti ai LavoriGli articoli sul tema si sprecano, ma sono spesso “roba da economisti”

di Giovanni Collot

Stati Uniti, parte la corsa alle primarie. La cronaca del nostro inviato

I due candidati repubblicani: Herman Cain e Mitt Romney

l’unione !scale oltre che economica dell’U-nione. Questa soluzione, però, non è ben vi-sta dalle Nazioni più sviluppate economica-mente perché non ritengono giusto doversi accollare il debito di Paesi ritenuti spendac-cioni e corrotti (Italia compresa).

In alternativa, la Bce potrebbe comprare a oltranza titoli di stato dei Paesi instabili con un alto debito pubblico, !nché gli investitori non riprenderanno !ducia in essi e compre-ranno nuovamente titoli. Questo in parte sta già avvenendo: la BCE ha già acquistato titoli italiani e spagnoli, tenendo così a gal-la noi e i nostri cugini iberici !ntanto che i rispettivi Governi metteranno in atto le riforme necessarie a uscire dalla crisi. Ma non è detto che ciò avvenga, o almeno non in tempo utile per salvare l’economia nazio-nale, europea e in!ne globale.

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6FRQ¿QDUH���9LDJJL2011 Nov-Dic 7

Un anno di studio a Mosca, due mezzi per raggiungerla: aereo o treno. Tutto punta a favore dell’aereo, più velo-

ce ed economico. Ma cosa succede se nell’equazione inseriamo l’alloggio gratis presso amici a Budapest, la giusta dose di inco-scienza e l’ispirazione Transiberiana? Succede che ci si dimen-tica della spropositata quantità di bagagli e della scarsa o nulla padronanza del russo e si sceglie la sonnacchiosa placidità del treno, per esplorare quelle terre così a!ascinanti nei racconti di Rumiz e Magris (sperando che non siano solo cazzate!). Del mio viaggio quindi voglio raccontare, in esclusiva per voi, cari lettori di Scon"nare.

Venezia-Budapest, durata 13 ore: il dondolio del treno con-cilia il sonno in maniera splendida e nonostante l’ossessione dei poliziotti croati per il mio passaporto (sei controlli in sei ore) la notte passa tranquilla. Al risveglio ci accolgono le diste-se fertili dell’Ungheria, "no all’arrivo alla meravigliosa Buda-pest. Una città dalla geogra"a eccezionale, divisa dal Danubio in due metà complementari: Buda tutta colli e viuzze antiche, dominata dall’imponente castello, che nonostante la sua mole si inserisce perfettamente nel paesaggio (a di!erenza della gi-gantesca fortezza di epoca sovietica più ad est); Pest piatta e regolare, con lunghi viali "ancheggiati da palazzi nobili e son-tuosi (e soprattutto con la pasticceria Gerbaud e la sua favolosa «Dobo# torte»). Nel mezzo la Margitszyget (isola Margherita), placidamente stesa nel Danubio ad o!rire riparo dalla calura estiva. A Budapest sono ospite di una famiglia amica, che mi tratta come un "glio e mi mostra il cuore ospitale e generoso di questo popolo, apparentemente celato dietro ad una lingua fatta di bisbigli sommessi e delicati di cui lo straniero non può distinguere nulla.

Budapest-L’viv, 16 ore: ci accoglie nel caldo so!ocante del-la stazione di Budapest una cuccetta doppia che viene quasi completamente occupata dai nostri (troppi) bagagli. Tappeti dappertutto, uno sgabello leopardato e per"no un "ore di pla-stica a dare un tocco di colore. È notte fonda quando un colpo secco mi sveglia dandomi l’opportunità di assistere ad una sce-na bizzarra: il pit stop del treno per cambiare le ruote, a causa dello scartamento ridotto dei binari negli stati post-Sovietici.

dall’atmosfera centro-europea dove meno te l’aspetti. Statue di Dei greci avvolte in abiti tradizionali ucraini inneggiano al ventesimo anniversario dell’indipendenza ucraina: in questa città, tradizionale focolaio indipendentista, è una festa molto sentita. Ma non è un nazionalismo aggressivo, piuttosto un po’ di sano orgoglio nazionale in una bella giornata di sole.

La città è originale non solo per l’eredità variegata di culture e stili architettonici, ma anche per la presenza di tanti ristoran-ti e locali particolari e molto curati, cosa inaspettata in un pa-ese relativamente povero ed ancora prostrato dalla crisi. Uno su tutti: «Kryjvka» (Bunker) un locale dedicato al movimento indipendentista ucraino, in cui si mangia su gavette militari mentre partigiani ucraini della II guerra mondiale osservano "eri dalle pareti, e in cui per entrare bisogna pronunciare con fervore « Slava Ukrayina!» (Santa Ucraina!). Volendo si pos-sono comprare una serie in"nita di gadgets irredentisti: freno il mio entusiasmo pensando al viso perplesso del doganiere russo che incontrerò 2 giorni dopo.

L’viv-Mosca, 23 ore: la tappa "nale è un vero banco di prova per la Transiberiana. Una nutrita serie di imprevisti trasforma una lunga e noiosa giornata in treno in un’avventura snervan-te. Per cominciare scopro che le cuccette sul treno delle 10 del mattino sono "nite, costringendomi ad anticipare la partenza di 6 ore. La sveglia regolata sull’orario italiano, 1 ora più avanti di quello ucraino, causa uno dei risvegli più al cardiopalma della mia vita: il comodo margine per prepararsi e raggiungere la stazione che avevo programmato si trasforma in 30 frenetici minuti di corse per le scale dell’ostello e poi sulle strade disse-state, in un taxi troppo piccolo per contenere tutte le valigie. Salito sul treno scopro che io e la mia ragazza siamo stati messi in due cuccette separate, nonostante avessimo ripetutamente chiesto alla scortese bigliettaia (di chiaro stampo sovietico) di darci una cuccetta doppia: nella mia cuccetta c’è una puzza di sudore allucinante, in quella della mia ragazza un vecchietto con evidenti e rumorosi problemi respiratori. Un interroga-torio alla frontiera russa dovuto al passaggio anticipato del-la frontiera rispetto alla data segnata sul mio visto, fortuna-tamente senza conseguenze, completa questa giornata a suo modo indimenticabile.

Morale del viaggio: se volete davvero sapere cosa vuol dire “Scon"nare”, fate un viaggio in treno in Europa dell’Est!

Da Venezia a Mosca in 52 oreMezzo continente anacrnonisticaMente

di Federico Faleschini

La conversazione inizia apparentemen-te innocua. E tu sai già dove andrai in

vacanza? Sì, andrò in Uzbekistan. Doveee?? In Uz-

bekistan.Uzz che? Uzz – be – ki – stan.Ah. E cosa vai a fare in Uzz – be – ki –

stan? Vado a trovare un’amica.E cosa fa la tua amica in Uzz-be-ki- stan?

Lavora? No, lei vive in Uzz-be-ki- stan. Vive in Uzz – be – ki – stan?? Sì, è Uzz-be-

ka. In Uzbekistan abitano gli Uzbeki...Dopo una piccola pausa, l’interlocutore

si rià dalla sorpresa iniziale e s’incuriosisce: Ma dove si trova l’Uzbekistan? Che tempo fa? Come sono gli Uzbeki? Cosa c’è da vede-re? A cosa assomiglia l’Uzbekistan?

A cosa assomiglia l’Uzbekistan? Non lo so, a cosa assomiglia l’Italia? I Paesi più che assomigliarsi si di!erenziano. Comunque, confesso che la mia ignoranza sul paese che mi accingevo a visitare non era molto lon-tana da quella di chi mi poneva tutte quelle domande.

Del resto, prima di partire, pensavo che tutti gli Uzbeki avessero gli occhi a mandor-la e la pelle scura come la mia amica (salvo scoprire in seguito che lei non era neanche Uzbeka, ma Uigura). Ero pronta a respira-

re l’aria dei mercanti della Via della Seta e ad ammirare le ricchezze orientali. Non mi aspettavo invece di partire per un pellegri-naggio islamico, di pregare assieme ai mu-sulmani, di visitare le tombe dei santi, di toc-care gli oggetti sacri, di bere dalle loro fonti miracolose.

Io, che non sono neanche religiosa.Eppure l’Uzbekistan è intriso di cultura

islamica. A Tashkent è custodito il corano ritenuto il più antico dell’Islam, il Corano di Osama, Uthman ibn A!an. Uthman fu

il quarto uomo a convertir-si all’Islam, e il terzo cali!o che regnò tra il 644 e il 656. Ebbe un importante ruolo nell’espansione dell’Islam, tra cui quello di realizzare un’unica versione standar-dizzata del Corano di!usa in varie copie nelle provin-ce del cali!ato. Una di que-ste copie venne portata dal successore di Uthman, Ali, a Kufa, in Iraq, dove venne depredata da Tamerlano e trasportata a Samarcanda. Qui venne presa dai Russi durante l’invasione del 1868 e portata a San Pietroburgo, dove rimase "no al 1924, quando Lenin decise di re-

galarla alla città di Ufa in segno di amicizia. La decisione scatenò le proteste dei musul-mani dell’Asia centrale, per cui il Corano di Osama venne riportato in Uzbekistan a Tashkent, dove è tuttora esposto presso il centro religioso Khast Imom.

Un’altra eminente "gura dell’Islam che unisce due delle città più simboliche dell’Uz-bekistan, Bukhara e Samarcanda, è quella dell’Imam al-Bukhari. Al-Bukhari nacque a Bukhara nell’810 e fu il maggiore studioso dell’hadith, i detti e fatti del profeta Mao-

metto. All’età di sedici anni, dopo aver com-pletato lo studio degli hadith allora trasmes-si oralmente, intraprese un viaggio nei vari paesi del cali!ato. Si recò in Siria, in Egitto, in Arabia e in Iraq dove poté raccogliere mi-gliaia di testimonianze sulla vita del Profeta. Queste vennero "ltrate secondo delle rigide regole di autenticità e classi"cate in testimo-nianze forte e deboli. Quelle forti andarono a costituire il “Sahih”, la raccolta corretta, la più ampia opera religiosa islamica, seconda solo al Corano come fonte di norme reli-giose. Al-Bukhari morì non lontano da Sa-marcanda, dover era stato esiliato per essersi ri"utato di dare lezioni private ai "gli del governatore di Bukhara nella sua casa. Sul-la sua tomba vennero costruiti un mausoleo ed una moschea, che furono riportati in luce solo nel 1958 in seguito alle ricerche condot-te dal Partito Comunista. Nel 1998 si decise la costruzione dell’attuale complesso memo-riale, con la moschea che può ospitare "no a 1500 fedeli in preghiera. Gli Uzbeki riten-gono che quando verranno iniziati i lavori di ristrutturazione della Mecca, la principale meta del pellegrinaggio islamico diventerà proprio il Mausoleo di Al-Bukhari.

Per ora, il giardino della moschea è un tranquillo luogo verdeggiante, dove si può passeggiare tra gli alberi secolari e rinfre-scarsi con rispetto alla fonte dell’acqua santa.

Ma cosa sappiaMo dell’Uzbekistan?

di Margherita Gianessi

Un’operazione brutalmente meccanica, come non se ne vedono più nelle immacolate stazioni dell’Europa occi-dentale: grida, fari che illuminano facce sudate e spor-che, il nostro treno sollevato come un giocattolo.

L’viv è una bella sorpresa, tanto più che viaggiando in aereo non mi ci sarei mai imbattuto. Ex capoluogo della provincia austroungarica della Galizia e prima an-cora sotto il dominio polacco per 4 secoli, è un gioiello

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6FRQ¿QDUH���5HSRUWDJH 2011 Nov-Dic8

Pre!ov (Slovacchia) – Anche questa è Europa orientale, ma di periferia, ai margini. Qui vivono centinaia di

migliaia di Rom. Sorrisi dai denti strappati sulla soglia di abituri di terra e ruggine. Sa-binov, Jarovnice, Hermanovce, Ostrovany: paesi di silenzio agricolo, di campi aperti a pochi chilometri da Pre!ov, la terza città della Slovacchia per numero di abitanti. È in questa campagna che si ammucchiano le ba-raccopoli dei Cikán, gli zingari.

NUMERI - Il censimento statale del 2011 parla di 60.000 Rom a fronte di una popola-zione di cinque milioni e mezzo di abitanti. La realtà è ben diversa: la minoranza zingara conta, a seconda delle stime, da 400.000 a 600.000 persone. «Molti di loro sono qui da generazioni, per questo si "rmano slovacchi» spiega Roman #onka, redattore del mensile Romano Nevo L’il di Pre!ov. Un periodico in carta di giornale che racconta della mi-noranza locale. Su via Jarkova la redazione è una stanza al primo piano: una libreria, due computer. Dal balcone pende pallida la bandiera gitana: il sole insistente s’è mangia-to persino il rosso della ruota migrante. Su due poltrone intorno ad un tavolino Roman e la collega Martina Mihalova si trovano a discutere degli accampamenti in Slovacchia orientale: quella lingua di terra schiacciata tra Polonia, Ucraina ed Ungheria.

DOVE LAVORANO IN 15 - Jarovnice sta a quindici kilometri da Pre!ov. Dei 5600 abitanti del paese 4.800 sono Rom ma en-trando in questa manciata di case giardino e ringhiera non è facile accorgersene. L’immo-bilità del pomeriggio e il vuoto delle strade sa di paese disabitato. Il Comune ha l’aspetto di una scuola elementare: grandi "nestroni a scorrimento montati su in"ssi in alluminio. Florian Gi$a aspetta dietro la scrivania, cin-quanta anni, da venti in politica, il dician-novesimo sindaco Rom della Slovacchia. Su uno sca%ale laterale le foto di Papa Wojtyla e Benedetto XVI appoggiate una "anco all’al-tra. «In paese non ci sono particolari proble-mi di convivenza» spiega allargando le brac-cia e accennando un sorriso sotto una linea di ba& rasata di fresco. Ha un tono pacioso ed annoiato, tradisce rassegnazione. Poi ri-prende: «Il vero dramma è la disoccupazio-ne, di tutti i Rom del paese lavorano in 15 e per i servizi sociali».

ASSEGNI STATALI - A Jarovince, come altrove in Slovacchia, si sopravvive di sus-sidi. L’intricatissimo sistema di previdenza

sociale slovacco stabilisce che nella situazio-ne più comune – coppia con più di quattro "gli a carico – l’entrata per famiglia sia di 212 euro mensili. Ulteriori sussidi sono pre-visti per ogni nuovo nato e per situazioni di malattie croniche o disabilità particolari. Re-sta il fatto che la grande maggioranza della popolazione Rom dipende dalle casse dello Stato.

Così, in una regione già prostrata da un alto tasso di disoccupazione, fastidio e mal tolleranza della maggioranza slovacca verso gli zingari sono sentimenti radicati.

LE “SCUOLE SPECIALI” - Fuori la porta del sindaco stanno tre ragazzi dell’accampa-mento. Indossano maglie di squadre inglesi di stagioni passate. Ci fanno un cenno al-lungando la mano su una grande mappa in-chiodata alla parete. «Io abito qui – dice in-dicando una macchia a margine dell’abitato poi, spostando il dito poco più in là, ghigna – quella è la scuola di noi gipsy».

Ecco, quelle che nel linguaggio burocra-tico si chiamano scuole speciali non sono altro che scuole per Rom. Concepite come strutture per bambini con ritardi o disabi-lità mentali ormai ovunque in Slovacchia diventano esclusiva dei bambini degli inse-

diamenti più poveri. In queste scuole i pro-grammi hanno un divario di cinque anni rispetto alle scuole normali, il che signi"ca che bambini di dieci anni si trovano ad eser-citarsi con l’alfabeto. Queste classi macchia-no i bambini d’ignoranza e inerzia avendo ben cura di prevenirgli ogni interazione con i coetanei della maggioranza. Spesso queste scuole sono sovra%ollate così da organizzare turni di lezioni al mattino e al pomeriggio.

Come denunciato ripetutamente da Am-nesty International, con rapporti annuali dal 2007 ad oggi, il problema scolastico re-sta uno dei nodi irrisolti in un eventuale, a questo punto sempre più ideale, processo di istruzione condivisa tra maggioranza e mi-noranza.

IL FALSO MURO DELLA VERGOGNA - Non lontano da Jarovnice sta Ostrovany: il villaggio dello sbandierato muro della ver-gogna a dividere l’insediamento dagli orti adiacenti. «Diciamocelo, l’immagine del muro era perfetta per i giornali», sorride dietro una spessa barba bianca Jan Hurcik, assistente sociale di lunga data nel paese. «Qui una barriera a dividere gli orti dall’ac-campamento Rom c’è sempre stata: lamiere che ogni anno dovevano essere sostituite. Così si è deciso di posare prefabbricati in cemento». Quest’immagine visivamente magnetica ha cambiato poco o nulla. Ferro o pietra, la struttura si scavalca facilmente e i furti di frutta e verdura sono continuati con puntuale regolarità. Jan si fa strada tra le sterpaglie e l’immondizia sulla costa di colli-na che scende verso il piano.

Disintegrazione quotidiana nei campi rom dell’Est della SlovacchiaIl sorrIso ha I dentI strappatI

di Edoardo Malvenuti

Catapecchie da macero si ammucchiano su terra secca di sassi e tappi di bottiglia. Una di "anco all’altra stanno carcasse di ter-ra, legno, lamiera. Di fronte alla porta scia-mannata d’una delle poche case in mattoni una donna ondeggia con vigore una carroz-zina dal pro"lo ottocentesco. Tutto parla di altrove: tanto i malanni quanto i colori. Al pastello delle case educate di paese suben-trano le tinte accese e vischiose dei panni sparpagliati al sole. L’aria sa di fumo di stufa misto a sudore: nelle baracche mancano ac-qua, luce, gas. Qui come a Jarovnice nessuno lavora. Tutti vivono d’assegni statali.

SOTTO IL REGIME - Per questa gente la situazione è peggiorata negli anni: il regime comunista aveva imposto loro l’obbligo di sedentarietà e lavoro. Molti Rom abitavano caseggiati all’interno di città e villaggi. L’ar-rivo della democrazia ha permesso ai nuo-vi proprietari di allontanarli di casa perché insolventi con gli a&tti. In più, spesso, gli inquilini avevano ridotto le abitazioni in condizioni disastrose. «La totale inerzia è il problema di questa gente», conclude Jan risalendo il sentiero sterrato. La maggior parte di quelli che vivono negli accampa-menti stanno tutto il giorno di fronte alle

proprie baracche a fumare. Alla sera bevono o guardano la televisione: di "anco ai cami-ni disastrati ogni baracca ha la sua antenna parabolica.

DIVERSI TRA LORO - Va notato che quelli che vivono in questi accampamenti rappresentano spesso la componente meno istruita e più resistente ad ogni forma di compromesso sociale con la maggioranza. Talvolta faticano persino a parlare in slo-vacco correntemente e si aiutano qua e là con parole in lingua Rom, quella della vita di tutti i giorni. Tuttavia sarebbe sbagliato considerare i Cikán slovacchi come un mo-nolite di pensieri, abitudini e stile di vita. Anzi. Ci sono diversi ragazzi che vedono nell’istruzione una via d’uscita al consumar-si nella miseria quotidiana. Martin, un altro collaboratore di Romano Nevo L’il, racconta di avere ricevuto una mail scocciata da un giovane laureato perché in un articolo si accennava alle origini che lo legavano a un accampamento non lontano da Pre!ov. Per alcuni di loro studiare signi"ca chiudere con un passato ed un modo di vivere di cui si può arriva-re a vergognarsi.

INCANTESIMO ZINGA-RO - Resta il fatto che chiun-que visiti questi campi non potrà trascurare i bagliori magici sparsi qua e là. Ab-bandono e disdetta non an-nacquano del tutto il sangue

pruriginoso, d’artista, di questa gente.Talvolta viene da pensare che ciò che ai

nostri occhi pare sghembo o malato non sia nient’altro che un carattere costitutivo, ulti-mo, di queste persone. Forse, in opposizione continua al nostro comandamento al pulito, lo sono persino gli scarti gettati per terra. L’inconcepibile è qui digerito, sostanziale. O forse no. Impossibile stabilire dire dove co-minci l’incuria. Sono vite vissute tra quattro mura spoglie e senza soprammobili, spesso dormendo ammassati tutti in un unico letto. Così da sentirsi uniti, protetti. Le famiglie sono numerosissime: certe donne arrivano ad avere "no a quindici "gli. Eccolo un altro intangibile aspetto della cultura zingara. Le donne, se feconde, sono sempre incinta. In più non va trascurata la religiosità dei più. Come illustrato con delicatezza folgorante nel documentario “Sona and her family”, la madre protagonista rifugge l’aborto per ti-more di peccare di fronte a Dio. Ancora a Hermanovice, dentro una casa piena d’un tavolo e un letto, la famiglia mostra emozio-nata un grande croce"sso ossidato alla pare-te. Un’aria densa e polverosa riempie stanze "tte di mosche. Ogni parete ha la sua tinta: verde, rosso, arancio sono strascichi di ciò che non avvilisce nell’abbandono. Bambini disordinati e vispi scorrazzano dappertutto. Fanno di ogni immondizia un giocattolo. Un pattino in linea per quattro: una ruota ciascuno. Iveta, 23 anni, ha tre "gli e un paio di tatuaggi sfuocati sull’avambraccio. Si fer-ma a chiacchierare chiedendo dei Rom in Italia. Intorno i bimbi fanno chiasso, spinto-narsi per una fotogra"a. Hanno vestitini vi-vaci, pelle ambrata. Tanti ti "ssano divertiti da occhioni grigioperla. Unghie sporche di capriole, calze sfondate. Non hanno ritardi mentali come vorrebbe lo Stato, ma sono agitati e svegli. Per loro, a ragione, il giorno è un gioco, per gli adulti no. Almeno non dovrebbe esserlo, così da non dover per for-za raccattare per vivere. Il destino fuori dalla miseria non è un sussidio ma un’istruzio-ne dovuta. Ecco l’unica giustizia per questi bambini oltre le elemosine statali o stradali: il sapere che c’è un mondo fuori. Una libertà due volte negata: in famiglia e a scuola.

NICOLE - Sullo sterrato dell’accampa-mento incontriamo Nicole. Corre a lezione e si gira di scatto, fa segno con la mano. In testa un paio d’occhiali da sole scassati, sei anni e un passo bu%o da bambina. Gira l’an-golo: il suo turno è al pomeriggio.

Intanto all’insediamento, fuori le barac-che, si cammina avanti e indietro. Non c’è fretta, sono solo le tre.

Chissà quante sigarette prima di sera.

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6FRQ¿QDUH���*ORFDOH2011 Nov-Dic 9

Ti sei trasferito da meno di un mese a Gorizia e, da brava matricola del SID quale sei, ti stai già dando da

fare per tentare di non sprofondare in questo mare di fac-cende burocratiche che sembra non avere !ne: farsi man-dare la dichiarazione ISEE per la tessera ERDISU, ritirare il libretto, controllare gli orari dei seminari di lingua, decidere a quale delle tante associazioni iscriversi, non scordarsi di pagare l’a"tto di Ottobre(!), non dimenticarsi poi di Uni-CardGO e CUS… tutto ovviamente in aggiunta alle nuove mansioni derivanti dal tuo essere andato/a vivere da solo/a: fare la spesa, pulire la stanza, litigare con la lavatrice e via discorrendo. [E qui non è di!cile immaginare l’espressione degli studenti “più vecchi”, che, con compassione e un pizzico di nostalgia, notano l’assenza della parola “studio” tra le man-sioni elencate].

E’ dunque normale che con un’agenda illusoriamente su-per-impegnata, il tempo da poter dedicare all’esplorazione della tua nuova città e dei suoi dintorni sparisca, e che tu e i tuoi amici vi ritroviate inesorabilmente la sera al solito Aenigma, iniziando a temere che forse più di quello Gorizia non possa o#rire.

SIAMO PRONTE A SMENTIRE QUEST’AFFERMAZIONE!

di Irene Manganini & Amalia Sacchi

Terrorizzate anche noi dall’apparente mancanza di occasioni di svago, ci siamo armate di carta e penna e abbiamo inter-vistato passanti di ogni tipo che si godevano il sole pomeri-diano in Corso Italia. La nostra richiesta ai malcapitati era sempre la stessa: consigli per i nuovi arrivati. O, più nel det-taglio: cosa visitare, dove mangiare, a quale evento parteci-pare e così via. Esclusi due liceali molto scettici nei confronti delle potenzialità della loro città, il resto degli intervistati si è dimostrato decisamente partecipativo, forse felice di ave-re l’occasione di enumerarci le meraviglie della loro piccola città. Grazie ai loro consigli, al fedele aiuto di internet, e ad un paio di viste al fornitissimo Infopoint (Corso Italia 9), ci siamo ritrovate sommerse (Sì, addirittura sommerse!) da volantini, date ed eventi.

Per cominciare, ogni vero goriziano sembra andare orgo-gliosissimo del proprio castello, che in e#etti merita davvero una visita: molto ben mantenuto, ottimo panorama. Per i temerari che invece osino varcare la soglia della città e spin-gersi !n nell’ignoto Friuli, segnaliamo il castello di Duino, la bellissima Aquileia e soprattutto la cittadina di Palmano-va! Cosa la rende tanto speciale? Provate a digitare il nome su Google immagini… niente male, vero?

Se invece siete più interessati a vivere una tipica festa di paese friulana, date un’occhiata al (sempre aggiornato!) sito friuliveneziagiulia.info, e fate magari in modo di capitare a Monfalcone per la “Festa del Bosco” (19 Novembre), a Gra-disca d’Isonzo per la “Chocofest” (18-20, 25-27 Novembre) e soprattutto a Udine (no, non esattamente un paesino…) per il “Festival Internazionale delle lingue minoritarie” (19-27 Novembre). Non guasta mai, inoltre, una visita al Collio, zona famosa per i suoi vini, e alla valle dell’Isonzo, per chi ha bisogno di un momento di relax.

Siete invece in vena di musica? Il Teatro Verdi (Via Ga-ribaldi 2/A) propone un concerto del Soweto Gospel Choir l’11 Dicembre, o il “Balkanika” il 14 Gennaio, più numerosi altri eventi. Sempre spostandosi un po’, invece, c’è la possi-bilità di ascoltare i Nomadi il 6 e Jovanotti il 12 Dicembre al Palatrieste, o i Dream $eater il 20 Febbraio a Pordenone.

Ma è forse ora di passare all’argomento che a noi studenti a#amati interessa maggiormente: il cibo. E qua, che lo cre-diate o meno, i goriziani si sono sbizzarriti: dopo aver tutti nominato il celebre “da Gianni” (Via Carlo de Morelli 10, solo per stomaci allenati), c’è chi consiglia la pizzeria “Agli Archi” (Via delle Monache 11, Lunedì e Mercoledì “Pizza + bibita = 7,50 %!!”), e chi preferisce una piadina in Via Trie-ste 10 (“La Sosta”). Convenzioni con l’agognatissima tessera ERDISU si ottengono invece a pranzo al Centro Lenassi in Via Vittorio Veneto 7 o a cena al Pizza Connection (Viale XXIV Maggio 16B). Sempre supponendo che abbiate ancora fame dopo una colazione regale alla Pasticceria Centrale (Via Garibaldi 4 A) o alla Pasticceria Cidin (Via Marconi 6); o dopo un enorme spritz al Ca!è del Teatro (angolo tra Corso Italia e Via Garibaldi, “Happy hour” dalle 7 alle 8!).

Finito di mangiare? E’ ora di un po’ di night-life: per evi-tare il solito Aenigma (Via Nizza 2, sicuramente il più eco-nomico e vivace in circolazione), ci si può spostare al Cafè Haus (Corso Italia 40), dalla clientela piuttosto variegata e musica ad alto volume, o al Morocco (Corso Italia 106), cer-to più chic, ma con prezzi assolutamente abbordabili (non-ché principale organizzatore di eventi serali in città: control-late la pagina Facebook!).

Per una chiacchierata più tranquilla, conviene fare un salto al pub irlandese James J. (Via Aquileia 41), forse non proprio a due passi, ma dal menù davvero allettante, o al ba-varese Bierkeller (Via dei Lantieri 4, a un passo dall’Univer-sità), pub non molto frequentato che o#re la birra migliore di Gorizia (provare per credere!).

Insomma, questa piccola città può ancora riuscire a stupirci, o almeno a non farci annoiare troppo durante il tempo libero tra un esame e l’altro.

E per rendervi più dolci l’autunno e l’inverno che ci ap-prestiamo ad a#rontare, un ultimo consiglio: non lasciatevi sfuggire i Krapfen al burro appena sfornati, tutte le Domeni-che mattina !no a Carnevale alla Pasticceria Bisiach, la più antica della città, in Via Mazzini 15!

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Speciale «la Gorizia che non ti aSpetti»dove andare, cosa fare e cosa mangiare

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6FRQ¿QDUH���8QLYHUVLWj2011 Nov-Dic 10

Ci sono lezioni che insegnano, lezioni che annoiano, lezioni che stimolano,

lezioni che fanno innervosire, che incuriosi-scono, che catturano, che fanno ri!ettere. Le categorie sono sicuramente molte di più, ma lo studente medio avrà assistito ad almeno un paio di ciascuna; forse si sarà anche ar-reso alla realtà che la frequenza obbligatoria è bene almeno provare a rispettarla... Noia, ri!essioni o nervoso a parte.

Il punto, però, è che la di"erenza fra l’u-scire da un’aula dopo due o tre ore e pensare che sono state spese bene e la sensazione in-vece di averle buttate si fa sentire. Nel pri-mo caso chissà, torni a casa, fai merenda e poi trovi anche la voglia di riaprire il blocco degli appunti. Nel secondo l’impresa si fa ar-dua: la TV ti tenta, progetti l’aperitivo con i compagni di corso o fai un po’ di sport, ma alla lezione non ci vuoi ripensare.

E spesso questo non succede quando ascolti frasi poco convincenti, argomenti poco interessanti o riproposti per l’ennesi-ma volta all’interno del corso. Pazienza, il tema non sarà dei più accattivanti, ma a ogni professore si può perdonare questo, se non succede troppo di frequente. Alla condizio-ne però che la lezione noiosa non sia intrisa di messaggi biechi, per giunta lanciati con il sorriso stampato in volto e un tono provo-catorio. E, aggiungiamolo, messaggi lanciati

da chi si sente del tutto estraneo al futuro a tinte fosche che prospetta: perché il profes-sore in questione un buon lavoro già ce l’ha.

A di"erenza di noi studenti, piccole pedi-ne gettate nel mondo, a cui non rimane che sperare che una scure ci colpisca al collo al più presto e ponga #ne ai nostri patimenti. Quali patimenti? Trovare lo stage più presti-gioso prima degli altri, correre alla ricerca dell’unica copia disponi-bile di un libro prima che la prenda il compagno di banco, spulciare il sito dell’università straniera in cui si vuole provare il test d’ammissione e farlo di nascosto!, perché se il solito compagno vedes-se quella pagina e fosse disgraziatamente interessato… ecco che ci sarebbe un ulteriore ostacolo al raggiungi-mento di un obbiettivo già di per sé ambi-zioso! Vogliamo parlare degli appunti presi a lezione? Chi sono quei pazzi che, non solo sono tanto diligenti da trascrivere le parole del prof alla velocità della luce a computer, ma li mettono pure a disposizione di “cani e porci” su SidWays? SidWays, parliamone: quel sito ideato da uno studente del terzo

anno di Scienze Internazionali Diplomati-che in cui il sapere è condiviso alla maniera degli antichi greci, quel sito su cui caricare i tuoi sforzi erculei e metterli a disposizione della comunità di cervelli circostante non signi#ca essere dei perfetti idioti. Solo gene-rosi, forse. Ma anche intelligenti: perché se i tuoi compagni scoprono che tu una mano la dai volentieri, c’è una qualche possibilità

che quella stessa mano un giorno te la darà qual-cuno in cambio. Ri!ettiamoci un attimo.

Come può aiu-tarci chi ci dice che bisogna stare attenti, guardar-

si sempre alle spalle perché il nemico è in agguato, perché non aspetta altro che ab-bassiamo la guardia per so$arci il posto, il titolo, l’opportunità…? Che stimolo ci dà chi ci spinge non a studiare, ma a studiare più degli altri, cosa ci sta insegnando chi dipinge il mondo del lavoro come una giungla in cui per guadagnarsi il pane bisogna essere di-sposti a vivere da lupi solitari, perché avere degli amici è troppo rischioso?

Ode al sOlidaledi Giulia Zeni

speciale

assOciaziOni

Scusatemi se rispondo “no, grazie”. Se vi dico che un trenta e lode non perde di valo-re se lo prende anche un vostro compagno grazie ai suggerimenti che gli avete dato, se vi dico che si impara molto di più di come giri il mondo scambiandosi idee, standosi ad ascoltare, viaggiando.

Non intendo dire che la competitività faccia male, anzi. Finché è determinazione, #nché porta a confrontarsi con chi la pensa diversamente, con chi ha opinioni lontane dalle nostre e che magari speriamo di cam-biare, modellare, scal#re… Non può che ar-ricchire. Diventa sbagliata quando ci viene detto che l’abito con cui ci si presenta dice il 90% di chi si è, quando vogliono farci crede-re che una presentazione di Business English non possa dirsi tale se non si è vestiti con giacca e cravatta o tailleur.

Non mi nascondo dentro un sogno. La realtà sul mondo del lavoro è raccontata da tutti i giornali. Che non si possa riderne è ormai una realtà da a"rontare. Ma noi che studiamo la politica e che ci indigniamo «di quanto marcio ci sia nel sistema», vogliamo arrenderci all’idea che solo se tutti miglioria-mo insieme possiamo cambiare chi ci gover-na, chi decide per noi? Il vertice raggiunto da un singolo resta la vittoria di un singolo. I vertici raggiunti da tanti sono invece la pos-sibilità di un cambiamento radicale. Che è l’unica cosa di cui abbiamo bisogno adesso, senza mezze misure.

Vita universitaria: collaborazione o competizione? Ecco la mia scelta!

Assid: L’Associazione degli Studenti di Scienze Int. e Diplomatiche, nata nel 1991, promuove iniziative culturali all’interno e all’esterno del polo goriziano con lo scopo di integrare la didattica del corso di laurea e di far scoprire agli studenti il mondo extra-accademico che li aspetta. A partire dal 2009 l’ASSID ha approfondito i legami con gli ex-studenti GHO�FRUVR�GL�ODXUHD��FUHDQGR�XQ�HI¿FDFH�QHWZRUN��$QFKH�D�TXHVWR�VFR-po ha organizzato le due edizioni delll’Alumni Day (2009 e 2011), due JLRUQDWH�GL�LQFRQWUR�H�GL�ZRUNVKRS�FRQQHVVL�DO�PRQGR�SRVW�ODXUHD��3HU�informazioni e per il calendario delle attività proposte, vi invitiamo a farci visita allo sportello Associazioni al piano terra (Martedì e Merco-ledì 13:00-14:00) e di visitare il nostro sito internet ZZZ�DVVLG�JRUL]LD�LW

Yata: Cos’è il Club Atlantico Giovanile del FVG? Direi che si tratta di un elettrone che gravita attorno al nucleo. Rendo l’idea? Noi siamo attratti dal nucleo costituito dai valori della NATO. Gli Atlantisti non sono dei guerrafondai! Cercano solo nuove vie per la cooperazione e la gestione della sicurezza euro-atlantica e non. 3XQWDQR�DO�GLDORJR��RUJDQL]]DQR�FRQIHUHQ]H��VHPLQDUL��IRUXP�GL�dibattito con i ragazzi stranieri e, avidi di sapere, visitano basi mi-

OLWDUL�SHU�LQFRQWUDUH�FKL�³OD�JXHUUD�O¶KD�IDWWD�SHU�RWWHQHUH�OD�SDFH´��FLWDQGR�&LFHURQH��3URQWL"�Allora chiudete gli occhi e respirate a pieni polmoni lo spirito euro-atlantico. Indirizzo e-mail: [email protected] - Orari sportello: martedì 13.00-14.00

Cus: II Centro Universitario Sportivo si occupa di organizzare le atti-vità sportive durante la settimana. L’offerta è ampia: calcio maschile, calcetto femminile, pallavolo, autodifesa, ballo africano e aerodan-FH��3UREDELOPHQWH�SDUWLUj�DQFKH�XQ�&RUVR�GL�5XJE\��/H�PRGDOLWj�GL�LVFUL]LRQH�VRQR�VHPSOLFL��FHUWL¿FDWR�GL�VDQD�H�UREXVWD�FRVWLWX]LRQH�H�compilazione del modulo di tesseramento al CUSI. II nostro compito è anche organizzare tornei, le UNIGO Olimpiadi del 1/12/11, amiche-voli con rappresentative locali ed il consueto Torneo Unicef di calcio

PDVFKLOH��3HU�LQIRUPD]LRQL��0DWWLD�=HQRQL���������������)HGHULFD�0LQDWHOOL��)UDQFHVFR�6DUGHOOL��6SRUWHOOR�7����OXQHGu�������JLRYHGu������

Younicef: Far parte del gruppo Younicef Gorizia vuol dire esse-re volontari. Facciamo parte della sezione giovani del comitato nazionale Unicef Italia e seppur coordinati da un’organizzazione internazionale, lavoriamo molto sul territorio. Le nostre iniziative hanno lo scopo d’infor-PDUH�H�VHQVLELOL]]DUH�WXWWL�VXL�GLULWWL�GHL�EDPELQL�H�VXOOH�ORUR�FRQGL]LRQL�QHO�PRQGR��3HUFLz�ci impegniamo in raccolte fondi, attività per la cittadinanza e progetti nelle scuole di Gori-]LD�H�SURYLQFLD��3RWHWH�FRQWDWWDUFL�DOOD�QRVWUD�SDJLQD�IDFHERRN��\RXQLFHI�JRUL]LD��R�YLD�PDLO�all’indirizzo:[email protected]

Mfe: Il MFE venne fondato nel 1943 da Altiero Spinelli che aveva individuato nella battaglia per la creazione della federa-zione europea il mezzo per affermare nel Vecchio continente la pace, la democrazia e la giustizia sociale. Il MFE non è un partito, vuole unire e non dividere le forze favorevoli all’unità HXURSHD�H�EDVD�OD�VXD�HVLVWHQ]D�VXOO¶DXWR¿QDQ]LDPHQWR�H�VXO�ODYRUR�YRORQWDULR�GHL�PLOLWDQWL��,O�0)(�FRQGXFH�OD�SURSULD�EDWWDJOLD�SHU�OD�IHGHUD]LRQH�HXURSHD�QHO�TXDGUR�GHOO¶(XURSHDQ�Union of Federalists e del World Federalist Movement. A Gorizia organizza conferenze, momenti conviviali, viaggi-studio e street actions. Contattaci: [email protected]. Fa-FHERRN��*LRYHQW��)HGHUDOLVWD�(XURSHD�*RUL]LD��6SRUWHOOR�7���OXQ�PHU�YHQ������������

Sim: Studenti in Movimento è un gruppo studentesco nato con lo sco-po di riunire tutti gli studenti interessati alla politica universitaria che vogliano rappresentare gli interessi del CdL in Scienze Internaziona-li e Diplomatiche e non solo. Al momento delle elezioni di Ateneo, Studenti in Movimento presenta la sua lista di candidati da proporre negli organi accademici per avvicinare la sede distaccata di Gorizia

al cuore dell’Ateneo. Candidati eletti: Valerio Sorbello, Riccardo Degasperi, Arrigo Bo-nifacio. Mail: [email protected] Orario Sportello: Mercoledì h12-13

Le associazioni e i gruppi del Pug si presentano a Sconfinare e agli studenti

Msoi: Il Movimento Studentesco per l’Organizzazione Internazionale rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (SIOI) ed è membro italiano del WFUNA YOUTH. Il MSOI organizza durante ogni anno conferenze, VHPLQDUL��GLEDWWLWL��YLDJJL�VWXGLR��WDYROH�URWRQGH��ZRUNVKRS�H�VFDPEL�LQ-ternazionali; e informa riguardo corsi di studio o di formazione, stages e master all’estero. É un’associazione culturale creata da studenti e rivolta agli stessi. Dif-fusa a livello nazionale intende dare a tutti i giovani interessati alle relazioni e la coopera-zione internazionale la possibilità di sviluppare ed approfondire le proprie confrontandole con altri studenti di altre culture ed ideologie. Mail: [email protected]

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6FRQ¿QDUH���6FULSWD�0DQHQW2011 Nov-Dic 11

La forma di giornalismo più creativo viene chia-mata Graphic Journalism. Il graphic journalism

(o comix journalism o giornalismo a fumetti) è una delle varie espressioni del giornalismo moderno che, sviluppatasi negli ultimi anni insieme a blog e social network, concorre a rappresentarne forse la corrente più innovativa. Sicuramente, perlomeno, ne è la più artistica. Possiede, infatti, la capacità di racconta-re tematiche e realtà scottanti e complesse in modo inusuale, grazie alla freschezza dell’impatto visivo, sottraendo così il fumetto alla dimensione bambine-sca e leggera che (troppo) spesso gli viene attribuita. Tra gli autori esponenti di questa corrente troviamo l’americano Spiegelman (Maus), l’iraniana Satrapi (Persepolis), l’israeliano Polonsky (Valzer con Bashir) e l’americano Sacco (Palestina). Tra i fumettisti più rappresentativi e insieme più particolari di questa corrente, c’è sicuramente anche Guy Delisle. Delisle è un fumettista canadese, nato a Québec e naturaliz-zato francese. Dopo aver lavorato presso vari studi di animazione in Canada, Francia e Germania, decide di dedicarsi, anche su incoraggiamento della compagna, ad una serie di progetti di graphic journalism. In que-sto campo, la creatività di Delisle si muove in direzio-ne Asia, continente che ha l’opportunità di conoscere a fondo viaggiando insieme alla compagna, medico per MSF-Médecins Sans Frontières, nelle sue varie missioni umanitarie. Il risultato di questi suoi viaggi sono tre (per ora) reportage a fumetti, raccolti in tre volumi, che raccontano tre dei Paesi più a!ascinanti e insieme più contraddittori del continente asiatico: la Cina (con Shenzhen del 2001), la Corea del Nord (con Pyongyang del 2003) e la Birmania (con Croni-ques Birmanes del 2008). In questo suo terzo volume, Delisle racconta l’anno trascorso in Birmania con la moglie e il "glio Louis al seguito del gruppo MSF, con l’obiettivo di portare le cure mediche necessarie alle poverissime regioni periferiche, dimenticate dal

stesso Delisle in un passaggio del volume- alla di#cile re-peribilità del materiale da disegno. Appare chiaro, infatti, che in un Paese in cui gli sca!ali dei supermercati si svuo-tano e si riempiono a ritmo irregolare, e dove più di metà della popolazione vive senza beni di prima necessità, la produzione (o più probabilmente l’importazione) di stru-menti da disegno come chine, colori, pennini e retini passa decisamente in secondo piano. Nonostante la penuria di strumentazione, però, l’artista canadese riesce a trasporre su carta tutte le di!erenti (a volte contrastanti) anime di un Paese complesso come la Birmania. Niente sfugge alla lente di Delisle, che indaga e imprime le immagini dei paesaggi e dei templi birmani nella sua memoria per poi riproporli su carta. Paesaggi selvaggi e liberi per antono-masia che il fumettista riesce invece ad addomesticare ed ingabbiare nelle vignette squadrate delle sue tavole. Ogni più piccolo particolare, ogni sua giornata, da quelle torride e noiose seduto sul divano appiccicoso dell’abitazione di MSF, a quelle avventurose nella giungla alla ricerca di pa-esini sperduti. Si può quasi dire, poi, che la ricerca sia un elemento costante nel volume per Delisle ma anche per la popolazione birmana: la ricerca di un barattolo di china, di una connessione ad internet, di beni di prima necessità, di una fonte di informazione libera (proveniente perlopiù dalla con"nante $ailandia), di cure mediche, di libertà di espressione. Delisle dipinge e rappresenta non solo i pa-esaggi, ma anche i vari protagonisti delle realtà birmane che si trova a vivere: i monaci che s"lano in processione sotto le sue "nestre chiedendo o!erte agli abitanti; il grup-po di nerd birmani che tenta, senza molto successo, di fare cartoni animati nonostante la feroce censura della giunta militare; gli squallori di una regione settentrionale la cui totalità di abitanti è dipendente da eroina; e anche Aung San Suu Kyi, sua vicina di casa, che viene paragonata al Voldemort di Harry Potter, dato che nessuno nel Paese osa dirne il nome e molti preferiscono citarla con l’appellativo di $e Lady (titolo, per altro, del lungometraggio di Luc Besson a lei dedicato e prossimamente al cinema). Alla luce anche dei recenti avvenimenti, quindi, questo volume di Guy Delisle pare un ottimo spunto per iniziare a cono-scere meglio un Paese a!ascinante e problematico come la Birmania, sicuramente troppo spesso dimenticato dalla stampa e dall’opinione pubblica internazionale. Tra citazio-ni pop, critiche taglienti e molte risate, un volume intenso per a!rontare una realtà di#cile con un sorriso.

La Birmania a fumetti, tra critiche e risate

di Stefano Facchinetti

Sì, va bene, sono in ritardo di undi-ci anni. Ma undici anni fa ne avevo otto, perciò chiudete un occhio sulla

tempistica di questa recensione. Ho letto No Logo di Naomi Klein, riedito

a distanza di undici anni dalla prima uscita del 2000. Beh, è stato illuminante. Sul retro c’è scritto «il manifesto imprescindibile della critica al consumismo» (cosa di cui genero-samente do conferma), ma una de"nizione che gli si addice maggiormente potrebbe es-sere «giornale tragi-scandalistico del mondo dei consumi e della sua insensatezza».

Il protagonista del libro è il marchio, il logo, un’entità immateriale che -a sorpresa- in%uenza in modo decisamente materiale la vita di ogni giorno. Non solo la nostra, ma quella delle innumerevoli persone "si-che e giuridiche coinvolte nella produzione e nella pubblicità delle cose. In realtà a li-vello retributivo riguarda felicemente i vari amministratori delegati e superpresidenti delle corporations, strapagati, mentre va a

toccare in modo silente e illegale i lavoratori sfruttati sparsi nei luoghi meno democratici del pianeta. Soprattutto nelle Filippine e in Cina. Sapete che le grandi aziende multi-nazionali (Nike, Tommy Hil"ger, Levi’s, ma anche Shell, Mc Donald’s ecc.) investono il 90% dei capitali nella pubblicità e solo il 10% nei prodotti? Phil Knight, ad della Nike ai tempi della stesura del libro, ha detto: «Ciò che conta non è più produrre beni; il valore reale nasce da ricerche accurate, innovazio-ne e marketing». Sembra che la gente voglia comprare il marchio Nike, non il prodotto “scarpe”.

Sapete cos’è la deregulation? Sapete chi sono i cool hunters? Sapete che esistono luo-ghi dimenticati da Dio in cui le condizioni di lavoro sono inimmaginabili? Sapete che per liberarsi di responsabilità onerose e moral-mente scomode la prassi è quella di scaricar-le su una catena di appaltatori più piccoli? In questo modo un’azienda che vende determi-nati prodotti può non essere al corrente (o per lo meno può a!ermarlo) delle condizio-ni di lavoro degli stessi operai senza i quali i capi semplicemente non esisterebbero.

Leggendo le pagine della Klein, estrema-mente lucide e precise, ho scoperto che esi-stono contratti di lavoro della durata di 28 giorni, appositamente pensati per le “quote rosa” che in caso di gravidanza possono es-sere legalmente licenziate. Ho scoperto che, in un mondo che ci sembra tanto lontano ma di cui in realtà abbiamo gli abiti impregna-ti, esistono fabbriche dove è vietato ridere. Esistono pratiche barbare e umilianti come il controllo mensile degli assorbenti. Esisto-no personaggi abietti e indegni di apparte-nere a qualsiasi tipo di società che evitano di pagare le gravide spingendole a lasciare spontaneamente il lavoro. Turni notturni e straordinari le obbligano a scegliere: aborto o povertà.

Oltre a indignarmi profondamente questo libro mi ha dato speranza e anche qualche idea. Dal punto di vista socio-economico mi ha de"nitivamente convinta della follia di produrre sempre di più senza essere poi in grado di smaltire né di raggiungere la feli-cità che una pubblicità ipocrita ci promette. Sembra sia anche questa consapevolezza a spronare gli indignati di tutto il mondo nella

loro protesta.Consiglio la lettura di No Logo a tutti, ai

consumatori felici e a quelli stu", a quelli scettici e a quelli ignari.

Se non altro per curiosità.Se non altro per conoscere Naomi Klein,

la stessa che ha coniato la felice espressione «siamo il 99%» nell’esperienza di Occupy Wall Street sul ponte di Brooklyn.

Buona lettura!

Il mondo dei consumi e le sue inesattezze secondo Naomi Klein.

La madre della formula di Occupy Wall Street: «Siamo il 99%»

nO LOGO

di Margherita Cogoi

Naomi Klein - No Logo

BUR, 2000 (rid. 2011) 10,50€

mondo e anche dallo stesso governo birmano. Tramite una serie di strisce brevi, il canadese racconta la vita socio-politica del Paese in-trecciandola ad aneddoti di una vita quotidiana caratterizzata dalle di#coltà di vivere sotto una giunta militare. Delisle prova a spiegare una situazione tanto complicata come quella birmana con un tratto il più semplice possibile. Lo stile di questo suo Cronache Birmane, infatti, di!erisce leggermente dai precedenti volumi (Pyongyang e Shenzhen): il tratto stavolta è asciutto, pulito e semplice, i retini sono pochi e i fronzoli gra"ci ridotti all’essenziale. Questa mori-geratezza del tratto, più che ad una scelta, è dovuta -come dirà lo

Guy Delisle - Cronache Birmane

Ed. Fusi Orari, 2008 18,50€

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6FRQ¿QDUH���0XVLFD 2011 Nov-Dic12

Di solito io sono un tipo che le Next Best !ing le demolisce. Quando

una cosa piace a tutti la distruggo senza pie-tà. Salvo poi recuperarla, da paraculo doc, quando tutti le voltano le spalle. Di!do dalle novità, dalle manie, dalle persecuzioni mediatiche che le comunità dei social net-work promuovono in punta di cannone. Fa parte di un certo atteggiamento aristocra-tico, cioè conservatore. A noi, le novità, ci fanno schifo.

Stavolta mi smentisco. La nuova stellina all’anagrafe "gura come Lizzy Grant, nata a New York nell’86. Ha un tiro da Lolita bionda sfatta dalla troppa vita (?) e un paio di labbra "nte che le stanno meritando gli strali dei suoi detrattori. Un produttore, o un’équipe di produttori, ha deciso di render-la un prodotto di successo. Le hanno inven-tato un soprannome, Lana Del Rey, le hanno suggerito uno stile, e un suo singolo (Video Games) ha spopolato quest’estate sulla rete, soprattutto dopo che due band abb. famose hanno deciso di farne delle cover. E insom-ma eccoci qui a parlare di lei.

Mettiamo subito le cose in chiaro: Lana Del Rey, almeno per quanto mi riguarda, non ha un gran talento. Ha azzeccato la can-zone giusta (ma non solo questo). Però, se si guarda alla sua precedente fatica musica-

le.. anzi non fatelo, perché è robaccia. Video Games è un singolo che per il momento non ha un album di riferimento (è, per così dire, orfano). E, con ogni probabilità (e mio im-menso rammarico, ché niente mi rattrista come le buone occasioni sciupate) il suo al-bum (se mai uscirà) sarà infarcito di canzo-ni-riempitivo senza fantasia, e non varrà as-solutamente la pena comprarlo. E nemmeno scaricarlo illegalmente.

Però, e qui bisogna dargliene atto, Lana Del Rey funziona. A margine delle proprie canzoni ha inventato un sottogenere (da lei ribattezzato Hollywood sadcore), che più che un genere è un microcosmo di riferimento. In sostanza, questo immaginario DelReyano si fonda su un continuo riferimento a un`età mitica del cinema e della società americana, a una specie di malinconia che è fatta di "l-mati in super8; pose tristi; ammiccamenti e un paio di labbra che non è bello davvero, anzi a tratti sembra quasi leporino.

Lana Del Rey, almeno nella piccola paren-tesi felicissima di Video Games, è una bella scoperta e se è un prodotto costruito a tavo-lino per fregarci, beh fregatemi pure. Perché la Del Rey è riuscita in un piccolo capolavo-ro. Fondere la storia personale, l’emotività, con un periodo storico passato. Con l’età dei sogni, di James Dean, della Monroe, dell’ot-timismo, delle casalinghe felici e dell’Ideale americano alla portata di tutti. Un tema che è anche quello sviluppato in un bel "lm di

Carrey, Majestic, del quale Lizzy dovrebbe scrivere la colonna sonora. Lana funziona perché anche noi in quanto generazione siamo nostalgici, io personalmente mi de-"nisco un nostalgico ma è una sensazione di#usa, nostalgico di cosa? Non saprei ri-spondere. Di qualcosa che mi è stato rubato, che mi hanno illuso di avere ma che poi, sul più bello, quando tutto sembrava maturo, quando era pronto per essere colto, è sparito

improvvisamente. Lana Del Rey, nei quattro minuti di Video Games, riesce a dare materia a questa nostalgia. E’ uno stato d’animo che in fondo s’addice a noi, nati tra gli anni ot-tanta e i novanta. Ci manca quell’età dell’oro. Quale non saprei dire. Forse l’attimo in cui una ragazza ci ha detto che il paradiso è un posto sulla terra, uno qualsiasi, dove riuscire a stare insieme. E noi, ingenuamente, le ab-biamo creduto.

�$OPHQR�¿QFKq�GXUD�PERCHE’ VI CONVIENE FARVI FREGARE DA LANA DEL REYdi Rodolfo Toè

Giuseppe Peveri alias Dente è tornato sul panorama musicale italiano, ma

visto il successo delle vendite, questa volta sembra non voglia limitarsi al solo circon-dario indie ma di#ondersi in tutto lo stivale più pop.

Armato della sua dolce-amara ironia e dei suoi arguti giochi di parole come non mai, Dente si trova dopo neanche 10 giorni dall’uscita del disco al 15° posto delle clas-si"che nazionali. Non che le classi"che ita-liane ora siano così attendibili (altrimenti i vari Modà di turno sarebbero i nuovi Beat-

les), ma per un cantautore che per quanto riguarda la popolarità è sempre stato circo-scritto all’interno di un sistema musicale «di nicchia», è un successo ritrovarsi spesso alla radio ed essere sempre più riconosciuto per strada. D’altronde non c’è nulla di male ad essere pop, e quello dell’ultimo Dente è un pop tutto suo, originale e che non fai mai lo sgambetto alle nostre orecchie. Questo per-ché Dente non lascia mai niente al caso, ne-anche la data di rilascio del disco è frutto di imposizioni discogra"che o altro, bensì un riferimento tra le righe al titolo dell’album (uscito l’11-10-11, il 10 sta nel mezzo come l»io” “tra di noi») ,esempio perfetto dei gio-chi di parole e di signi"cato che pervadono i suoi testi e di cui ormai ne costituiscono l’arma vincente. Testi mai scontati e sempre ricchi di momenti e sentimenti a noi comu-ni, raccontati attraverso la patina agro-dol-ce dentesca che colpisce sempre il bersaglio.

Sebbene questo magro e barbuto cantau-tore si sia già fatto valere nei suoi precedenti 4 album, quest’ultimo è sicuramente il salto di qualità e la conferma della «forza» del suo stile, tanto pungente quanto grazioso.

La traccia migliore è sicuramente quella "nale, Rette parallele, l’esempio calzante di come Dente sappia trattare con gentilezza anche una situazione non certamente pia-cevole (due vite che non riusciranno mai a congiungersi), e magari sono io che ho la

risata facile, ma come fare a non sorridere quando canta «se noi fossimo occhi strabici, io sarei di "anco a te»? O quando gioca con la tecnologia cantando «più che il destino è stata l’adsl che vi ha unito» in Piccolo destino ridicolo?

Quella invece meno entusiasmante tra le 12 tracce è paradossalmente il primo singo-lo estratto, Saldati, che a parte scherzare con Ungaretti citandolo in un verso (“come stai, mi chiedo..come a primavera sugli alberi le foglie”), è piuttosto statica.

Tutti coloro che si intrippano volentieri in settimana enigmistica, cubo di Rubik, indo-vinelli e altre menate, sono accontentati con la Settimana enigmatica, un pezzo vivace e surreale in cui ritorna la misteriosa Irene, già conosciuta nei dischi precedenti e pro-tagonista in questo caso di tutta una serie di rebus.

Insomma, "nalmente un “inditaliano” che prende sì spunto dalla nostra tradizione musicale (Battisti, dicono), ma che non ci smarona con continui e pesanti rifacimen-ti al cantautorato impegnato a tutti i costi, continuando sulla sua modesta strada, sen-za anelare a diventare il Rino Gaetano degli anni zero (vedi Le luci della centrale elettri-ca, Brunori Sas, Zen Circus.. arrendetevi, di Rino ce n’è stato uno solo e sarebbe impossi-bile raggiungerlo).

Speriamo che in futuro il Sig. Peveri dopo aver ricevuto così tanti complimenti non butti tutto all’aria -come ha già fatto il col-lega Brondi con l’imbarazzante 2° album-, per ora andiamocelo a vedere dal vivo che è sempre una serata friulana spesa bene (25-11-11 @Deposito Giordani, Pordenone)e tiriamo su i pollici per Dente.

'HQWH��XQ�³LQGLWDOLDQR´�PDWXUR�FKH�QRQ�QH�YXROH�VDSHUH�GL�FDGHUH��DOOD�IDFFLD�GHO�FROOHJD�%URQGL

DENtE: IO tRA DI NOI

di Valentina Tonutti

Appassionato di musica? Segui il Dies Irae su VFRQ¿QDUH�QHW, la rubrica mensile che recensisce gli album «in due righe»

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6FRQ¿QDUH���&LQHPD2011 Nov-Dic 13

I grandi schermi sono spesso teatro di grandi e piccole battaglie, da un lato

pellicole di massa sostenute da titaniche campagne pubblicitarie, dall’altro medi, piccoli e piccolissimi lavori di nicchia, mol-to spesso insigni!canti, che cercano di tro-vare un loro piccolo spazio nel so"ocante carnet di proiezioni e nelle pagine di seri critici cinematogra!ci, quali stimiamo es-sere noi gente di Scon!nare. Uno scontro che si combatte a suon di e"etti speciali, di più o meno improbabili avventure, di colo-ri e di suoni, di grandi attori e belle attrici. Spesso i vincitori sono tali già in partenza e allora tocca a noi, umili penne di questo giornale, cercare di riequilibrare le sorti. Siamo certi di poter cambiare, così, il mon-do in celluloide.

Questa volta ci sembra giusto dedicare uno spazio a #e Artist, la geniale scom-messa del regista francese Michel Hazana-vicius di riproporre nel 2011, a Ventunesi-mo Secolo inoltrato e nell’epoca del 3D, un !lm muto. Un plauso alla sua intuizione: questa s!da sembra proprio averla vinta!

Proprio come le vecchie storie in bianco e nero degli anni ’20, quali Der Fürst von Pappenheim, Die weiße Hölle vom Piz Palü e #e Sheik, #e Artist ci racconta un’avventura che è anche una storia d’amo-re, la vita cinematogra!ca di George Va-lentin (Jean Dujardin), una star del cinema muto che conquista pubblico e critica con le sue interpretazioni. All’avvento del so-noro, l’artista ri!uta di assecondare la sua dote all’inevitabile cambiamento e anzi si ostina a farsi strenuo difensore del muto; quasi un omaggio a Chaplin, pasdaran del muto nei confronti del sonoro. Valentin vede la sua stella spegnersi poco a poco ed essere, invece, sostituito dall’esordiente starlette Peppy Miller.

La vicenda si fa subito avvincente, cat-

tura lo sguardo con esilaranti soluzioni narrative che si sposano perfettamente con una splendida colonna sonora ed una comunicazione “vecchia maniera” fatta di sguardi, silenzi, volti e gestualità.

La sceneggiatura si dimostra curata nei più piccoli dettagli, con fare quasi ma-niacale, e riesce a creare un legame con il pubblico sorprendentemente forte. La co-lonna sonora è il trait d’union che accentua e sostiene la comunicazione non verbale e che da un immancabile gusto jazz a tutta la narrazione.

Ma il vero senso ultimo che rende così gradevole #e Artist è l’essere riuscito a creare una perfetta alchimia tra il contesto, “raccontare il muto”, e il !lm stesso, “fare il muto”. Il prodotto è un metacinema in bianco e nero che Hazanavicius non ripro-pone, cavalcando l’innegabile spirito retrò tanto in voga, ma una produzione tout court che parla a noi, uomini e donne del nostro tempo e che proprio a noi si rivol-ge, in modo lucido e mirabile, lasciando da parte le parole, troppe volte abusate.

Una lode va sicuramente a Jean Dujar-din, che si serve di una mimica splendida, comunque sempre attenta e misurata, e a Berenice Bejo, esemplare nel suo ruolo non solo di “spalla”, solare, divertente e adatta ad ogni situazione, come le grandi attrici che del muto sono diventate leggenda.

Noi, che abbiamo sempre apprezzato la bellezza quasi austera del cinema anni ’20, non possiamo che ritenere, queste soluzio-ni, geniali nella loro originalità.

«Le muet n’a pas pris une ride»THe ArTisT

di Francesco Plazzotta

&HUFKL�¿OP�SDUWLFRODUL�H�VFRQRVFLXWL"�9LVLWD� OD�UXEULFD�©3HUVL�H�3HUGXWLª�VX�VFRQ¿QDUH�QHW� ��SXRL� WURYDUH�QX-PHURVH�UHFHQVLRQL�GL�¿OP�QRQ��R�PDO�GLVWULEXLWL�LQ�,WDOLD�

Posso de!nirmi un’amante del cinema. Si sa però... in una coppia esiste chi più ama e chi piu è amato; è di$cile che i rapporti siano bilanciati alla perfezione.

Ebbene, !no a poco tempo fa mi ritenevo un’amante del cinema. Si, un’amante. È pur vero che la vita di coppia consiste in un rap-porto a due e in un prematuramente gelido pomeriggio di Settembre ho realizzato che io al cinema, da sola, non ero mai stata. Per me il cinema (e non intendo i “72 minuti” di streaming ma il cinema di moquette ros-sa e scomode poltrone di industrial design) è sempre stato uno sfondo, una cornice, un pretesto. Un’occasione per una serata in compagnia o lo stereotipo dei miei pome-riggi domenicali all’insegna delle rassegne d’autore. E io, cultrice del buon cinema... ho capito questa mia enorme de!cienza.

All’alba dei miei vent’anni posso de!nire #is must be the place il mio primo !lm vi-sto DA SOLA. Per questa ragione lo ricorde-rò per sempre. Resterà indelebile nella mia mente il sapore di quelle due ore trascorse con me stessa... così sorprendentemente di-verso; perché nel lungo viaggio introspetti-vo che ci narra Sorrentino, insieme a Sean Penn, straordinario gigante, fuoriclasse hol-lywoodiano e non solo, c’ero pure io.

Dopo questa poco organizzata e irrazio-nale introduzione posso ora dedicarmi al !lm itself.

Sorrentino !rma una pellicola ra$nata, che colpisce l’anima in modo discreto senza avvalersi di colpi di scena o melodrammati-che escalation emozionali.

Cheyenne è un uomo di mezza età ebreo, ex rock star che vive a Dublino con la con-sorte conducendo una bella vita grazie ai successi della gioventù. Sorrentino edi!ca dalle prime scene uno scenario caratterizza-to dalla staticità di un quotidiano incolore. Cheyenne rappresenta l’emblema dell’antie-roe che vegeta in un paradossale limbo terre-stre nel quale il tempo sembra non scorrere mai. Nonostante la sua carriera appartenga al passato, egli continua a vestire gli stessi panni, ad acconciarsi allo stesso modo con-ducendo una vita all’insegna del lusso grazie alla rendita dei successi discogra!ci.

«Come mai, con tutti i vizi che mi sono concesso, non ho mai fumato?»

«È che sei ancora un bambino. Solo i bam-bini non hanno voglia di fumare».

L’ immancabile aforisma sorrentiniano racchiude l’essenza dell’anima del protago-nista giunto ai cinquant’anni (anagra!ci) ma essendo ancora intrappolato nell’ innocenza in cui il suo percorso esistenziale sembra es-sersi arrestato.

Il lento scorrere del tempo, la noia e i cliché della vita di un nullafacente rendo-

no Cheyenne al con!ne tra il conturbante e l’ambiguo. Egli incarna un ossimoro vivente costituito da sembianze shocking e da un’a-nima grigia contraddistinta dall’inconsape-vole attesa di qualcosa che la riporti in vita. E quella sorda ricerca di stimoli che l’io di Cheyenne sembra urlare al mondo trova una valvola di sfogo nella tragicità di un evento insapettato: la morte del padre. Il nostro an-ti-eroe inizia cosi un viaggio verso New York prolungato dalla scoperta dell’ossessione del padre nei confronti di un ex criminale nazi-sta, occasione per ridare signi!cato alla sua esistenza.

Cio che appare come un viaggio “on the road” costituisce tuttavia una trasposizione concreta di un percorso interiore, di un’in-dagine introspettiva che aiuta Cheyenne a ritrovarsi.

Sorrentino ci pone degli interrogativi maniacalmente freudiani a volte di$cili da cogliere: madri che attendono il ritorno di !gli scomparsi, donne che trovano la forza di vestire i panni di madri o senza un uomo accanto, !gli depressi e riconciliazioni post mortem; uno su tutti però è certamente raf-!gurato dal simbolismo racchiuso in quella sigaretta accesa da Cheyenne, la prima.

Da porre in evidenza la suggestiva co-lonna sonora !rmata da colossi come Iggy Pop che conferisce alla pellicola un tono malinconico ed enigmatico evidenziato ul-teriormente dalla scelta del titolo, traccia dei Talking Heads.

L’espressività e la lenta scansione scenica mi hanno riportato alla mente opere sul-la scia di “Somewhere” della Coppola o del memorabile esordio di Tom Ford “A perfect man”: il tocco del cinema di nicchia è in-confondibile.

Avvincente? Non sempre. Capolavoro? Relativamente. Apprezzato? Molto. Una pa-rola per descriverlo: sperimentazione.

Da intenditori.

THis MUsT Be

THe PLACeDi Giulia Bertossi

Scon!nare non identi!ca alcuna posizione politica, in quanto libera espressione dei singoli membri che ne costiuiscono il Comitato di Re-dazione.Scon!nare è un periodico rego-larmente registrato presso il Tribu-nale di Gorizia in data 20 maggio 2006, n° di registrazione 4/06.Editore e Propietario: Assid “Associazione studenti di scienze internazionali e diplomatiche”.Direttore: Davide LessiImpaginazione e gra!ca: Nicolas Lozito, Francesco Marche-sano

Redazione: Lorenzo Alberini, Alessia Anni-ballo, Elena Bellitto, Giulia Bertossi, Elisa-betta Blarasin, Edoardo Buonerba, Davide Caregari, Valeria Carlot, Dario Cavalieri, Tea Chkaidze, Margherita Cogoi, Domizia-na Corbelli, Giovanni Collot, Giulia Daga, Emmanuel Dalle Mulle, Gabriella De Dome-nico, Manuela Esposito, Federico Faleschini, Andrea Ferrara, Tanja Lanza, Margherita Gianessi, Irene Lizzola, Davide Lessi, Nicolas Lozito, Matteo Lucatello, Andrea Lucchetta, Francesco Marchesano, Irene Manganini, Luca Alvise Magonara Yamada, Alice Man-toani, Elena Marsoni, Elena Mazza, Ma-rianna Moioli, Nicola Perencin, Diego Pin-na, Francesco Plazzotta, Emiliano Quercioli, Amalia Sacchi, Francesco Scatigna, Emma Schiavon, Stefano Suardi, Rodolfo Toè, Va-lentina Tonutti, Fabiola Torroni, Margherita Vismara, Gabriele Zagni, Giulia Zeni.

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6FRQ¿QDUH���8QLYHUVLWj�6WLOH�/LEHUR 2011 Nov-Dic14I mostrI

Resoconti semifalsi di ciò che accade al Festival del Cinema di Venezia

Un racconto di Luca Marinaro

31 Agosto 2011: iniziava la 68esima scintillante Mostra del Cinema del

Lido di Venezia...o forse era la 69esima? O la 67esima? Ne hanno fatte così tante e non si sono ancora stufati? Insomma, queste sono informazioni che si trovano su Wikipedia.

Attori famosi, luci abbaglianti, tappe-ti rossi, musiche disco anonime proposte a rotazione, caldo afoso e fan sfegatate che correvano per il posto cercando autogra! con una tenacia degna degli esattori !scali: questa era l’atmosfera.

Giornalisti che si beavano di possedere il pass per accedere alle sale esclusive della Mostra e camminavano con fare superbo di fronte alla marmaglia di comuni invidiosi mortali quando probabilmente potevano accedere solo alle toilette delle zona.

Persone che scrutavano i dintorni peggio dei lemuri africani nella speranza di otte-nere l’ultimo autografo della collezione. Te-lecamere che facevano di tutto per non in-quadrare la voragine lasciata dai lavori del nuovo palazzo del cinema, ma si sa, la spe-culazione edilizia non fa più notizia: molto meglio intervistare ragazzine che raccon-tavano di come George-What-Else? avesse cambiato la loro vita.

Cronisti di emittenti sconosciute che gira-vano alla ricerca di persone da intervistare, ma che il più delle volte trovavano solo vec-chietti che si lamentavano del fatto che con la Mostra non potevano più portare a spasso il cane moribondo.

Gente che metteva le tende davanti alla passerella in attesa della star del momento, ignara forse del fatto che quella sarebbe arri-vata solo nove ore dopo. Fotogra! senza pass che si portavano dietro scale tutto il giorno per poter urlare al momento della passerella «Ehi, Jodie look at me..Please! Oh well: have fun in Hell, Jodie!».

Giovanissimi che si attaccavano alla rin-ghiera del tappeto rosso con la perseveran-za delle cozze pur di non lasciare qualche centimetro agli altri fan. Bambine che testi-moniavano di avere una relazione con Jack Sparrow e che lui non lo sapeva ancora. Abi-tanti del posto che prendevano in giro tutto quel circo, ma che poi erano i primi a spin-tonare gli altri per farsi notare.

C’era chi si chiedeva che vestito avrebbe indossato il regista di turno con il suo com-

movente !lm di soli 185 minuti sui proble-mi alimentari, c’era chi faceva di tutto per passare davanti ad una telecamera per poi farsi la maratona dei telegiornali per vedere se era !nito in televisione, c’era chi pensava che non ci fossero più le stagioni di una vol-ta, e così via.

C’era anche chi questi problemi non se li faceva: quella sera ci sarebbe stata la festa di apertura della Mostra e molte persone erano determinate ad andarci. Le ragazze perché sognavano di incontrare un attore plurimi-lionario (e non solo di incontrarlo, chiaro) mentre altri avevano aspirazioni più tran-quille: si mangiava bene.

La festa si sarebbe svolta nella spiaggia del Lido in un tendone di plastica mascherato da posto chic. Il piano era semplice: acce-dere alla spiaggia, sgattaiolare tra le capan-ne nel buio e imbucarsi al festone facendo quella che nel dialetto locale si chiamava “!nta de pomi”.

Si poteva assistere a scene del genere: una folla astante di gente agghindata nel miglior modo e con l’elegante parlantina di un ca-mionista (chiaramente persone che per caso non avevano avuto l’invito) che, neanche fosse una rivolta popolare, cominciava a scuotere il cancello arrugginito e cigolante per entrare, cosa che non avrebbe attirato l’attenzione delle guardie.

Si potevano vedere le liti tra gruppi di im-bucati su chi avesse la precedenza nell’im-presa e fughe di persone scorte dalle guardie che !nivano in capitomboli della peggior specie.

Gente che si muoveva tra le capanne con la circospezione del nuovo set di Mission Impossible, acquattandosi nella sabbia pron-ta ad uno scatto da centometrista per elude-re la sorveglianza.

Soggetti che inventavano piani astrusi per ingannare le guardie come !ngersi svedesi, balbuzienti, !gli adottivi dei Brangelina, at-tivisti contro i tagli al mondo dello spetta-colo senza saperne niente, far !nta di stare insieme per dire alla guardie «Eravamo ap-partati, ma lei non se li fa i fatti suoi, perver-tito?» o usare la carta della sincerità con la frase «Mi lasci fare le foto per Facebook così posso vantarmi!».

Questa era la vita in quell’isola persa tra la laguna e il mare... Vita brutalmente inter-rotta dopo la !ne del Festival con il ritorno della nebbia e dei turisti giapponesi in cerca di maschere.

I Mostri se n’erano andati.

Durante la caldissima estate 2010, men-tre la maggior parte degli studenti

si rilassava a seguito dell’intensa sessione di esami appena conclusa, ad Amsterdam un gruppo di universitari fondava la European Student "ink Tank (EST), progetto che nasce per mettere in contatto tutti i giovani cittadini europei.

La EST, infatti, ritiene che le grandi discus-sioni pubbliche debbano essere fatte anche a livello internazionale, oltre che all’interno dei singoli stati. A tale scopo è stato creato il sito internet studentthinktank.eu, sede principa-le dell’organizzazione e metodo più veloce per raggiungere il maggior numero di persone di nazionalità diversa e riunirle in dibattiti il cui comune denominatore è l’Europa.

L’obiettivo primario è quello di permettere agli studenti di svolgere un ruolo attivo nel processo di costruzione delle politiche euro-peee, agendo da policy-makers, non più sola-mente come policy-takers.

Per rendere tale utopia una realtà, gli uni-versitari di tutti gli istituti europei, grazie all’ausilio del sito, possono entrare in contat-to tra loro, leggere e commentare liberamente i post degli altri e aprire discussioni su ogni campo in cui vengono varate nuove politiche,

spesso coadiuvati da esperti nel settore.Siccome, però, a non tutti piace inserire

soltanto reazioni a notizie già inserite, la EST ha una sessione dedicata alle posi-zioni ancora aperte: sono sempre in cerca di blogger, giornalisti, correttori di bozze, gra!ci/impaginatori, networkers, in modo da tenere sempre aggiornato il sito con notizie provenienti da tutta Europa e am-pliare così il bacino di destinatari dell’ini-ziativa. Inoltre, la di#usione del progetto avviene anche tramite una rete di studenti, uno per stato membro, che vengono no-minati ambasciatori i quali si occupano prevalentemente di far conoscere l’orga-nizzazione all’interno del proprio paese, dare informazioni a riguardo e gestire gli eventi. Il contatto italiano è Giulia Cian Seren dell’Università di Trieste (indirizzo e-mail: [email protected]).

Tramite tale rete, i giovani cittadini eu-ropei hanno l’occasione di aprire un con-fronto diretto che supera i con!ni nazio-nali e sottolinea come sia facile, se si vuole, creare un’unione tra i paesi al !ne di ap-portare migliorie alle politiche già attuate e avanzare delle proposte nuove, che par-tono direttamente dal basso, senza dover fare a$damento su degli intermediari.

Quindi perché no? Join it!

un progetto per

unIre l’europa

di Alessia Anniballo

estCittadini europei si incontrano per avanzare proposte giovani

Per adeguarsi alla legge Gelmini 240/10 sulla riforma del sistema universitario,

tutti gli atenei di Italia hanno dovuto riformu-lare il proprio statuto e i propri regolamenti. La legge prevede una riorganizzazione delle com-petenze più razionale e dei cambiamenti nella gestione delle o#erte didattiche e di ricerca.

A Trieste il nuovo statuto è già pronto. Ora deve essere approvato dal Miur. Per riscriverlo è stata creata una commissione redigente ad hoc, composta dal personale docente, tecnico-amministrativo e studenti, facendo di Trieste uno dei pochi casi in Italia in cui gli studenti hanno avuto la possibilità di intervenire sulla nuova regolamentazione.

Per farvi capire la situazione in cui ci trove-remo una volta che il nuovo statuto verrà at-tuato, siamo andati a leggere il testo e ce lo sia-mo fatti spiegare dal nostro rappresentante in Senato Accademico, Federico Filippuzzi, e dal rappresentante degli studenti, Valerio Sorbello.

Fatto salvo la scelta del futuro logo e un nuovo equilibrio nella ridistribuzione della go-vernance tra Senato Accademico, Consiglio di Amministrazione e altri organi amministrati-vi; nelle prime pagine lo statuto riformato non sembra dire molto di nuovo. Per aspettare le grandi novità, bisogna arrivare alla sezione ri-guardante i dipartimenti.

Se !no ad oggi i dipartimenti si sono preoc-cupati solamente della ricerca, lasciando alle facoltà le competenze didattiche, la raziona-lizzazione voluta dal ministero porterà ad un unico centro di responsabilità, denominato appunto dipartimento, dotato di risorse pro-prie e organi interni. All’interno di esso quin-di, si programmerà, organizzerà e coordinerà

al contempo l’o#erta formativa e l’attività di ricerca, programmando i corsi di studio (non più corsi di laurea, ndr) e gestendo i professori. Proprio questi ultimi hanno un ruolo importante: un dipartimento per esistere dovrà contare tra le sue !la alme-no 40 tra professori di ruolo e ricercato-ri. Se poi alcuni corsi di studio dovranno attingere tra discipline e insegnamenti di dipartimenti di#erenti, nasceranno i corsi interdipartimentali, coordinati e gestiti dal dipartimento che deterrà la quota didatti-ca maggiore.

Per quanto riguarda il caso più vicino a noi, la nostra facoltà di Scienze politi-che sarà assoggettata dal dipartimento di Scienze politiche e sociali e verrà nomi-nato un nuovo direttore di dipartimento, eliminando così la !gura del preside di fa-coltà; mentre nell’ottica del corso di laurea di Scienze internazionali e diplomatiche, invece, rimarrà tutto pressoché invariato. Le di$coltà invece saranno a#rontate da quelle facoltà che per numero di insegnan-ti o per didattica non potranno formare un dipartimento a sé stante. Ci sarà quindi bi-sogno di formare dei dipartimenti tra più facoltà, cambiando leggermente gli equili-bri e le o#erte formative.

Grazie a questa riforma dello statuto, inoltre, sarà attribuita maggiore rilevanza e potere agli studenti: il numero dei rap-presentanti aumenterà sensibilmente; al consiglio degli studenti sarà confermato il suo ruolo consultivo e sarà obbligato-rio creare, per ciascun dipartimento, una commissione paritetica docenti-studenti, che monitorerà la didattica garantendone equilibrio e qualità.

unIts: pronto Il nuovo

statuto dI ateneo

di Nicolas Lozito

Ecco tutte le novità introdotte

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6FRQ¿QDUH���6WLOH�/LEHUR2011 Nov-Dic 15

Violetta è una ragazza come noi, ha 23 anni, studia in Italia, occasionalmen-

te lavora e le piace ciò che fa. La sua storia potrebbe essere ridotta in una come tante altre, ma per chi la ascolta da vicino è diver-sa; è kazaka, canta divinamente e crede nel fatto che tutti nasciamo con un dono per il quale ci distinguiamo, per il quale valga la pena lottare, anche in questo mondo del la-voro cinico tra lauree, professionisti e !gli di politici. Il canto l’ha portata in Italia, dappri-ma con un exchange program, poi con la sua sola volontà, una borsa di studio e duro la-voro. Non viene da una famiglia benestante e ha a"errato un’occasione, l’ha assaporata, per poi comprendere che non era disposta a viverla come una semplice parentesi, ben-sì come una vera e propria formula di vita, così eccola a Venezia, una città che da sem-pre ospita il canto lirico e la sua prestigiosa scuola. Violetta vive con delle amiche nella periferia di Venezia, perché non può per-mettersi un appartamento troppo vicino al centro e lavora in tre posti diversi, il tutto

per permettersi la sua grande passione, per-ché lei, a di"erenza di noi italiani annoia-ti, vede in questo nostro paese un futuro e crede ancora che sia la patria dell’arte sen-za tempo. Ascoltandola parlare mi colpisce il modo sincero e schietto con cui a"erma che il Kazakistan le sembra un mondo or-mai lontano, che è conscia di essere una fra molte a sognare un futuro in cui esercitare il lavoro dei sogni, ma è anche consapevole del fatto che è meglio essere una fra le tante in mezzo a tante brave, piuttosto che una voce fuori dal coro in uno sperduto paesello del profondo nord-est. Mentre camminiamo mi racconta storie di lavoro precario giovanile, squallidi impieghi in cui la paga non arriva mai, gente in prova, la continua incertezza mescolata al persistente senso di inadegua-tezza davanti a cui ti mette il mondo del lavoro oggi, eppure, Violetta non si arren-de, sostiene che da giovani certi colpi bassi fanno bene, che non le dispiace lavorare alle più disparate condizioni, basta averlo fatto, basta averci provato, perché ad una certa età, pur avendo ottime conoscenze e capacità, devi dimostrare qualcosa.

Di fronte al suo entusiasmo non sono ri-

uscita ad esplicitare una domanda assai co-mune : «siamo noi giovani che pretendiamo tutto subito o sono il mondo del lavoro e le vecchie generazioni che non sono disposte a lasciarci il posto?». Come al solito, proba-bilmente, la verità sta nella mezza misura, tuttavia, benché si sentano molti discorsi sul precariato, molte lamentele e tanto pessimi-smo di bocca in bocca, viene da chiedersi se non siamo troppo prevenuti o viziati.

Nel nostro mondo giovane in «formato ryan air» incontriamo tutti i giorni giovani con storie di vita molto diverse dalle nostre, storie da cui dovremmo imparare e quella di Violetta forse non è una delle più eclatanti,

E sE invEcE..?

di Tanja Lanza

Sembra una presa in giro mentre invece è solo l’ultima tendenza delle più mo-

derne multinazionali: «l’invenzione dell’ac-qua calda», ossia l’arte di scoprire qualcosa che qualcun altro ha già scoperto secoli pri-ma ed appropriarsene.

Questo è il motivo che ha acceso gli animi della solitamente tranquilla comunità con-tadina indiana quando, improvvisamente, si è trovata costretta a pagare delle profumate royalties per poter coltivare il frumento Nap Hal con cui da secoli viene prodotto il Cha-pati, il loro pane nazionale.

L’iniziale stupore, poi tramutato in pro-testa, dei poveri contadini indiani è più che comprensibile. Da un giorno all’altro quel particolare frumento, frutto della tradizio-nale selezione e"ettuata dagli agricoltori che poco per volta hanno individuato le sementi più idonee per ottenere una farina che permettesse di produrre un pane molto croccante, veniva magicamente “inventato” e brevettato da un’importante multinaziona-le europea.

Il brevetto Ep445929 depositato presso l’European Patent O#ce ha dichiarato la Monsanto Company proprietaria del pre-giato cereale per il merito di aver tradotto secoli di tradizione contadina in formule chimiche.

Il brevetto di una specie vegetale non geneticamente modi!cata è già una realtà oltreoceano, dove la storia del contadino settantatreenne trovatosi a dover corrispon-dere la somma di 600.000 dollari per essere stato scoperto a coltivare, seppur involonta-riamente, una semenza protetta da diritto di brevetto, ha lasciato basiti molti (il poveretto per primo).

Dura lex sed lex direbbe qualcuno, ma an-che la legge fa i suoi errori, come nel caso so-

pracitato del frumento indiano. Secondo la stessa legislazione comunitaria, infatti, non è possibile brevettare piante normalmen-te coltivate ma, evidentemente, come viene denunciato da Greenpeace, ci sono delle la-cune nelle regole dell’Unione Europea che devono essere riviste.

Fortunatamente però, quando la stes-sa Monsanto nella richiesta di brevetto WO2009097403 esige diritti sulla pancetta e le bistecche, in quanto derivanti da suini nutriti con vegetali di sua proprietà intel-lettuale, la legge fa il suo corso cassando la proposta.

Pensare i frutti naturali della terra come proprietà intellettuale di qualcuno ha del fantascienti!co, ma negli ultimi anni pro-prio questa sta diventando la nuova frontie-ra del business, ma con quali conseguenze?

A questo proposito la scienziata e premio Nobel Vandana Shiva fa un’interessante ri-$essione:

«I brevetti si possono considerare sotto vari aspetti una replica della colonizzazione che ebbe luogo 500 anni fa. È interessante nota-re che anche a quel tempo, quando Colombo e altri avventurieri come lui salparono, por-tarono con sé dei documenti che venivano chiamati brevetti e che davano loro il potere di rivendicare la proprietà dei territori che scoprivano in qualunque parte del mondo che non fossero già sotto il dominio di governan-ti cristiani bianchi. Gli odierni brevetti sulla vita sembrano essere documenti dello stesso genere. Sono pezzi di carta emessi dagli u!ci brevettuali che, in sostanza, dicono alle cor-porations che se ci sono conoscenze, materiale vivente, organismi vegetali, sementi, medicine ancora sconosciute ai bianchi, esse possono appropriarsene in via esclusiva e trarne il re-lativo pro"tto.»

Quando si dice «cose che fanno ri$ettere».

la battaglia dei brevetti: l’arte di inventare qualcosa che esiste già

TEndEnzE ModErnE 1.0

di Barbara Peressoni

tuttavia mi ricorda, ci ricorda, che i giovani hanno coraggio, hanno fegato, hanno tutto davanti e spesso poco o troppo dietro le spal-le, ma hanno soprattutto un grande vantag-gio: la curiosità. Una frase tormenta ogni età ed è: «ma se invece...?». E se invece Violetta fosse rimasta in Kazakistan? e se non avesse mai interpretato la sua voce come una carta della vita da giocare? Forse noi, come molti altri cittadini fortunati del welfare state sia-mo cresciuti con troppe certezze per porci così insistentemente questa domanda, ma non per questo ne abbiamo meno bisogno. Per questo mi chiedo, ci chiedo…

«E SE..?».

«Nella vita sono un vinto, io corro per vendetta, corro per rifarmi, sono una per-sona umile con un passato umile, la corsa mi ha permesso di esprimermi senza pen-sieri, io corro con i miei passi al ritmo del mio cuore, libero di correre da solo, solo con i miei pensieri» Marco Olmo.

Marco Olmo, classe 1948, è stato con-tadino, minatore, camionista, operaio

ed è, oggi, un felice pensionato. Inizia a cor-rere a 27 anni, un’età o%imits per il mondo dell’atletica leggera (“ho iniziato quando gli al-tri hanno smesso”, disse una volta). Inizia a ga-reggiare, e ben presto a vincere, gare di corsa in montagna e di sci alpinismo; a quarant’anni compie il grande passo: partecipa alla prima Ultrail della sua vita correndo la Marathon des Sables, una corsa di 240 km nel deserto marocchino, in completa autosu#cienza ali-mentare, con temperature proibitive. La com-pleta contraddistinguendosi per la tenacia e lo spiritivo combattivo, portando il suo nome, e quello dell’Italia, nell’olimpo delle ultramara-tone.

L’amore per le corse nel deserto, che più vol-te Marco ha dichiarato preferire a corse citta-dine o meno pericolose lo porta a correre la Desert Cup (186 km nel deserto giordano) e, tra le tante, la maratona dei 10 Comandamenti (156 km sul monte Sinai).

Perfeziona nel tempo, chilometro dopo chi-lometro, la propria resistenza e la propria !lo-so!a, di corsa e di vita.

Vegano convinto, Marco non ricorre a nes-suna tabella di preparazione, diete speci!che ed integrate o preparatori atletici; questa sua preparazione “casalinga” e la sua età, ormai sulla cinquantina, lo rendono ben presto fa-moso nell’olimpo delle corse “impossibili”.

Un primo riconoscimento internazionale gli viene dalla partecipazione alla Bad Water Ultramarathon, de!nita «the world’s toughest foot race”, nel deserto della California: 237km non-stop tra la Valle della Morte e le porte del

Monte Whitney (da -282 piedi, punto più basso degli Stati Uniti, ad oltre 8300 piedi) che si corre con temperature che superano i 52°C.

Corse ormai tutte le ultramaratone pos-sibili, Marco ritorna al suo primo amore, la corsa in montagna. Inizia a preparar-si (sempre secondo i suoi personalissimi standard di allenamento, che prevedono !no a 8-9 ore di corsa al giorno in regime alimentare stretto) per La Gara per eccel-lenza, valida per il titolo mondiale: l’Ultra Trail du Mont Blanc. Per chi non la cono-scesse, è la corsa di resistenza più impor-tante e dura al mondo: 167 km attraverso Francia, Italia e Svizzera per oltre 21 ore di corsa ininterrotta attorno al massiccio più alto d’Europa.

Tra i 2535 partecipanti (arriveranno al traguardo solo in 1151) Marco si piazza al primo posto con un tempo di 21 h e 6’, coronandosi campione del mondo a 58 anni; meglio di lui solo lo Sherpa Dachhiri Dawa che nel 2003 aveva corso in 20 h e 5’, in una gara drammatica e d#cilissima (su 722 partecipanti partiti sotto una bufe-ra incessante avevano tagliato il traguardo solo in 67);

Ad oggi Marco continua a correre Ultra-marathon, nonostante l’età, gli acciacchi e una stagione di scon!tte subite da corrido-ri ben più giovani e forse, meglio preparati.

Credo sia su#ciente questo, la sua storia e le sue vittorie per reputare quest’uomo l’esempio vivente di cosa signi!chi, oggi, non mollare mai.

Marco

olModi Stefano Suardi

Page 16: Sconfinare #31

EST: projEkT za zdruzEnjE EuropE

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Številka 31- Nov/Dec 2011 Glavni Urednik: DaviDe Lessi

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napisala je: Alessia Anniballo prevedla je: Tanja Lanza

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