Scene di lotta di classe all'obitorio

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Marco Scaldini, racconti horror. Non fatevi illusioni: dietro l’angolo non c’è mai la salvezza e il finale di una storia non è mai lieto. Se un brivido corre lungo la vostra schiena, allertate i sensi e non sperate di poter tirare un sospiro di sollievo: in questi racconti il ritmo non dà tregua e la tensione neppure.

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In uscita il 29/7/2015 (14,00 euro)

Versione ebook in uscita tra fine luglio e inizio agosto 2015

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MARCO SCALDINI

SCENE DI LOTTA DI CLASSE

ALL’OBITORIO

Racconti horror

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SCENE DI LOTTA DI CLASSE ALL’OBITORIO Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-907-4 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Luglio 2015 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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SCENE DI LOTTA DI CLASSE ALL’OBITORIO

A tutti è capitato di perdersi in un ospedale. L’inizio sembra rassicurante, le segnalazioni all’ingresso sono precise e puntuali, la freccina vi indica che radiologia è a destra e voi la seguite diligentemente per due corridoi e tre svolte, finché non arrivate a un trivio privo di segnaletica. La logica vi direbbe di proseguire dritto, però davanti a voi il cor-ridoio si restringe notevolmente, mentre la svolta a sinistra sem-bra costituire il proseguimento naturale del percorso. Escludendo la destra, dove ci sono scale che salgono, rimane un fifty fifty. Finora avete incrociato un sacco di persone con camice e tesseri-no plastificato, ma in questo momento il corridoio è deserto e sembra non esserci nessuno a cui chiedere, neppure un altro visi-tatore confuso come voi. Decidete di proseguire a sinistra fino a che non incontrerete nuova segnaletica; se non compare radiolo-gia tornerete indietro fino a quel punto per poi proseguire dritto. Un corridoio, due corridoi, tre corridoi. Sperate proprio di aver imboccato la direzione giusta, perché tornare indietro a questo punto vuol dire rifare un sacco di strada. E invece no. Allo snodo successivo trovate almeno quindici cartelli indicatori, ma benché li rileggiate due volte per sicurezza, nessuno segnala radiologia. Cazzo. A ritroso. Un corridoio, due corridoi… un momento. Qui c’è una deviazio-ne con alcuni cartelli; nessuno indica radiologia. Prima però non l’avevate notata. Possibile? Evidentemente sì, però la cosa vi la-

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scia perplessi e per la prima volta vi coglie un’inspiegabile voglia di uscire, di tornare all’auto e andarvene. A passi un po’ più lenti raggiungete il trivio di prima e imboccate la seconda scelta, cioè il proseguimento dritto. Ma chi vi assicura che già in precedenza non abbiate ignorato una deviazione, come vi è successo poco fa? Questo spiegherebbe tutto. Prendete quindi nota mentalmente: se anche questo corridoio non dovesse condurvi a niente, rifarete il percorso fino all’entrata, con più attenzione. La testa vi gira leggermente. Con andatura quasi circospetta percorrete un primo corridoio. In-contrate alcune persone, ma resistete all’impulso di chiedere in-formazioni; ormai vi sembra quasi una sfida personale. E poi per chiedere c’è sempre tempo. Così pensate. Che quelle persone possano essere le ultime che vedrete, non avete ragione di immaginarlo. Dopo una curva a destra vi ritrovate d’improvviso all’aperto, in un vasto cortile interno. Il vostro corridoio diventa un sentiero coperto di ghiaia che quasi subito si biforca, conducendo ad altri punti d’ingresso al cortile; di cartelli neanche l’ombra. Siete sul punto di bestemmiare, quando vi accorgete di non essere soli. In un angolo, a una ventina di metri da voi, è seduta una donna. Adesso basta. Chiederete. A lei e poi a chiunque altro incontriate. Con passo deciso vi dirigete verso di lei. Con passo deciso mi diressi verso di lei. Perché qui la mia storia si fa diversa, credo, da quella di tutti gli altri che, dopo essersi smarriti nei corridoi di un ospedale, sono poi riemersi alla normalità. Io no. E non si creda di cogliermi in contraddizione, perché poche righe sopra ho affermato che le per-sone incontrate nel corridoio sarebbero state le ultime da me vi-ste. E la donna nel parco, allora?

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Seguitemi nei miei passi sempre più incerti sulla ghiaia e lo sa-prete.

* * * Man mano che mi avvicinavo, udivo più chiaramente i singhiozzi della donna. La vedevo di profilo: era seduta su una panchina di pietra, piegata in avanti con il volto fra le mani. Il tailleur nero le risaliva fino a mezza coscia, forse anche più su, lasciando scoper-ta una gamba tornita e muscolosa; non indossava calze e il piede nudo era infilato in un sandalo nero con tacco a spillo, quasi del tutto esposto e con le unghie laccate di rosso accesissimo. I capel-li platinati, lunghi e lisci, mi nascondevano anche quella parte di volto non coperta dalle mani. Ero a metà strada quando capii perché piangesse. Mi accorsi che era seduta fuori della cappella mortuaria. Sarebbe stato logico a quel punto tornare sui propri passi. Chiedere informazioni a una persona affranta per la morte di un proprio caro era fuori discus-sione. Perché allora continuai a camminare? Forse perché quelle gambe scoperte costituivano indubbiamente un’attrattiva, forse perché quei singhiozzi più mi avvicinavo e più mi suonavano strani, forse perché ormai non avevo più scelta. D’improvviso sentii tutta la stanchezza di quel camminare a vuoto per i corridoi dell’ospedale e, passando davanti alla donna in lacrime, andai a sedermi al suo fianco sulla panchina di pietra. Era così fredda che drizzai di scatto la schiena, percorsa da un brivido improvviso. La donna pareva non accorgersi di niente e continuava a sin-ghiozzare. In modo strano però. Il palmo delle mani congiunte, che coprivano la bocca, si muoveva su e giù come se invece di piangere la donna stesse… masticando. E anche i singhiozzi, l’ho

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già detto, non erano proprio, come dire… in ordine; sembravano il rantolo di un asmatico. Seduto lì come un coglione, non sapevo cosa fare, quando un movimento della schiena della donna mi fe-ce capire che si era accorta della mia presenza e che stava per vol-tarsi nella mia direzione. Avevo pronte una quindicina di frasi di circostanza da dire, ma non ce ne fu bisogno. Purtroppo.

* * * Masticava in effetti. In mezzo a quelli che sicuramente erano den-ti, ma che avevano l’aspetto e probabilmente la consistenza di lance acuminate, si scorgevano ancora due dita, l’indice e il me-dio, di una mano i cui resti intravedevo sotto forma di poltiglia sanguinolenta dentro alla bocca. Intorno alle fauci non c’era pro-priamente un volto, sembrava piuttosto una massa appena sbozza-ta da uno scultore: due fori ossuti come narici, due buchi neri al posto degli occhi, pelle poca e in evidente stato di putrefazione. Ma per quanto quegli occhi fossero solo due fosse oscure, riuscii a leggervi benissimo la felicità che esprimevano, quella del pre-datore che ha appena scorto la sua prossima vittima. Devo dirlo a mio merito: non ebbi i riflessi lenti. Dopo una fra-zione di secondo ero già in fuga. Purtroppo andando a sedermi sulla panchina ero passato davanti a quella (Donna? Cosa? Mo-struosità?) e mi vedevo tagliata fuori la strada del ritorno; scappai verso le cappelle mortuarie. C’erano due porte, una chiusa e una aperta. Mi infilai in quest’ultima, me la sbattei alle spalle e cercai un posto dove nascondermi. Le questioni maggiormente teoriche (chi o cosa fosse quell’essere, che ci facesse lì e altre amenità del

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genere) le avevo per il momento accantonate, ripromettendomi di esaminarle con più attenzione non appena fossi stato in salvo. La stanza era grande e vuota, c’erano solo due catafalchi privi al momento di occupanti. Sulla destra vidi una porticina e mi ci pre-cipitai, sperando di non trovarla chiusa a chiave; se il senso dell’orientamento non mi ingannava, avrebbe dovuto riportarmi verso il corpo principale dell’ospedale. Avrebbe. La scala a chiocciola di ferro scendeva, scarsamente illuminata. Esitai solo un attimo, il tempo di udire la porta delle cappelle che si apriva con violenza, poi corsi giù.

* * * La sensazione di irrealtà di ciò che mi stava accadendo la provo soltanto adesso, mentre racconto. In quel momento non ero occu-pato a riflettere o a meravigliarmi dell’assurdità di venir inseguito da uno zombi - specie vivente (?) che fino a quel momento avevo visto solo al cinema - mentre a pochi metri da me si svolgevano le normali attività di un ospedale. Pensai di mettermi a urlare per richiamare l’attenzione di qualcuno, ma avevo paura di attirare unicamente la mia inseguitrice, perciò scesi le scale a capofitto; all’ultimo gradino inciampai e finii lungo disteso sotto a un tavo-lo di ferro. Ciò che mi colpì maggiormente fu che mi sembrò di non aver causato alcun rumore, come se fossi atterrato sulla gommapiuma, e che non mi feci per niente male, nonostante fossi atterrato in maniera scomposta e senza aver avuto modo di mettere le mani avanti. Sempre disteso per terra, mi guardai intorno.

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La stanza era grande ma scarsamente illuminata. Doveva trovarsi completamente sottoterra, perché non scorsi nessuna finestra da seminterrato. Alle pareti c’erano delle lampadine protette da gri-glie metalliche, ma non erano sufficienti a illuminare tutto l’intervallo compreso fra l’una e l’altra. Nei coni oscuri si intra-vedevano degli armadietti sgangherati. Mi trovavo in qualche specie di rimessa per suppellettili in disuso; quello sotto a cui ero andato a finire doveva essere un vecchio tavolo operatorio. Un rumore. Mi appiattii sotto al tavolo, riuscendo a tenermi completamente al buio. Un altro rumore, stavolta più forte. Entrambi non provenivano dalla scala da cui ero arrivato. C’era qualcun altro nella stanza. Stavo per alzarmi e richiamarne l’attenzione, ma ci ripensai. L’ultima volta che avevo cercato di parlare con qualcuno, pochi minuti prima, non avevo ottenuto brillanti risultati. Meglio atten-dere, ero sempre in tempo a chiedere aiuto una volta che mi fossi reso conto chi si trovava a farmi compagnia. Trascorsero un paio di minuti. Mi azzardai a rialzarmi un poco e a lasciar vagare lo sguardo intorno, sempre rimanendo vigile a qualsiasi fonte di rumore. La nota positiva era che lo zombi, o qualunque cosa fosse, sembrava aver perso le mie tracce. Stavo per fare un timido movimento per uscire da sotto il tavolo, quan-do due gambe mi penzolarono davanti. Se non ho urlato di paura allora, non lo farò più. Sopra il tavolo stava seduto qualcuno, evidentemente ignaro che io vi ero appiattito sotto. Non feci alcun movimento, né avrei po-tuto, pietrificato com’ero dal terrore. Perché in quelle gambe, benché non le distinguessi bene nella semioscurità, c’erano pa-recchie cose che non andavano.

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A cominciare dagli artigli sui talloni. Due rostri arcuati e all’apparenza taglienti. E poi l’odore. All’inizio pensai a un semplice tanfo di piedi, visto che erano nu-di, poi mi accorsi che era fetore di putrefazione. Almeno metà della gamba destra era cancrenosa, percorsa da piaghe marcescen-ti e maleodoranti. Istintivamente mi ritrassi e, nel far ciò, provo-cai un rumore. Con la rapidità di un lampo una testa si affacciò sotto al tavolo. Com’era possibile? Le gambe erano ancora ferme al loro posto, pareva che quella testa facesse parte di un altro corpo. Sono do-mande che mi pongo adesso, perché in quel momento ero troppo occupato a essere terrorizzato. La testa scrutava il buio sotto al tavolo e ben presto mi avrebbe individuato, come io, con gli oc-chi già più abituati al buio, vedevo lei. Sembrava fissata su un collo di cigno e si muoveva avanti e indietro, a destra e a sinistra, setacciando lo spazio in modo sistematico. Per un breve istante coltivai l’illusione che, come certi animali, potesse cogliere solo il movimento e mi mantenni immobile (cosa non difficile, pietri-ficato com’ero dalla paura). Solo per un breve istante, appunto, perché poi la testa si arrestò con gli occhi fissi nella mia direzione e aprì la bocca in un ghigno. Non ho voluto descrivere quella faccia, perché ho paura di nause-are il lettore continuando ad accumulare particolari macabri che possono sembrare, anzi sicuramente appariranno, inverosimili ed esagerati. Diciamo quindi soltanto che faceva paura, ma che durò poco. Era evidentemente pronta ad attaccarmi (Pronta? Pronto? Chi po-teva dire se fosse uomo o donna?) e io stavolta non sarei riuscito a far niente per sottrarmi, quando d’improvviso cadde a terra. Cadde così come cade una pera dal ramo di un albero. Il suo lun-go collo era stato mozzato in due di netto e adesso ne sgorgavano

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fiotti di sangue come da un idrante; poco dopo anche il resto del corpo si abbatté a terra, crollando da sopra al tavolo. Alcuni spruzzi di sangue mi avevano costretto a chiudere gli occhi, sentii trambusto e grugniti e arretrai alla cieca, tastando il pavimento con le mani. Ero entrato in un - Mondo? Dimensione? Ancora adesso non lo so - …comunque in un luogo dove la predazione pareva essere il passatempo quotidiano di chiunque vi abitasse. E io sembravo far parte dell’ultimo anello della catena alimentare, quello che non dà la caccia a nessuno e deve solo preoccuparsi di scappare. Un’arma. Dovevo assolutamente procurarmi qualcosa con cui difendermi, un bastone, una spranga, il primo oggetto che potesse tornarmi utile. Mi trovavo nel deposito o magazzino o quello che era di un ospedale e con un po’ di fortuna almeno un bisturi arrugginito po-tevo racimolarlo. Mi voltai per controllare che l’ultimo a darmi la caccia continuasse a fare da pasto a qualcuno più grosso o più fe-roce di lui, poi mi diressi verso un armadietto lì vicino, lo aprii, riuscii a scorgere quello che sembrava essere un paio di forbici da potatura e me ne impadronii. Con quelle in mano cominciai a sen-tirmi un po’ meno indifeso e decisi che avrei tentato la via del ri-torno. Se c’era un modo di uscire da quell’incubo, doveva trovar-si in uno di quei corridoi dell’ospedale. A un certo punto del mio girovagare dovevo avere imboccato una strada sbagliata… molto sbagliata. Risalii le scale a chiocciola e aprii con cautela ma anche con de-cisione la porta che mi aveva condotto in quella stanza e stavolta urlai. Non potei farne a meno, mi ero trattenuto anche troppo fino a quel momento. Davanti a me c’era la donna dal volto orribile che avevo visto sulla panchina e che aveva dato origine a tutto.

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Urlai ma non fuggii. Anzi, brandii le forbici e mi preparai a sal-tarle addosso. Ma non lo feci, perché disse qualcosa di inaspetta-to. «Se vuoi ti aiuto, per un po’ almeno.» Senza abbassare le forbici la guardai nelle fosse dove navigavano due occhi violacei. Arretrai leggermente ma solo perché dalla bocca le esalava un tanfo di marcio soffocante. Non ero in grado di rispondere niente, così dopo un po’ fu lei a parlare di nuovo. «Mi sembri nuovo di qui e io adesso non ho fame.» Non afferravo la connessione fra le due cose, o meglio la vedevo fin troppo bene, comunque cercai di trovare la domanda migliore che mi consentisse di capirci qualcosa. «Dove cazzo siamo?» «All’ospedale del Ceppo di Pistoia. Non sapevi neppure questo?» «Certo che lo so. Ma tu non mi sembri un’infermiera e quelli là dentro non erano certo dei dottori.» «Vieni, andiamo fuori. All’aperto si è più al sicuro.» Si voltò e si incamminò verso la panchina. Era incredibile, ma vi-sta da dietro, mentre le sue gambe flessuose e quasi del tutto sco-perte mi danzavano davanti agli occhi, riusciva ancora a sembrare attraente. Forse era tutta un’allucinazione. Ma certo. Dovevo aver respirato, chissà come, qualche specie di anestetico che mi aveva spedito fuori di testa. Forse ero semplicemente sve-nuto e mi ero sognato tutto; in quel momento non ero lì ma su un lettino del pronto soccorso, dove magari mi avevano sentito va-neggiare di mostri cannibali. Certo, come no. Poi giungemmo fuori, respirai a fondo, mi detti un pizzicotto, lei si voltò ed era tutto come prima. Strinsi ancor più le forbici.

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Quando fummo vicini alla panchina dove avevo visto per la pri-ma volta quella donna, la trovammo occupata. C’era seduto un uomo, un distinto signore di mezz’età, intento a rosicchiare e spolpare un osso. Avrebbe anche potuto passare per una persona normale che mangiava con poco rispetto del galateo, non fosse stato per il piede ancora intero che era attaccato a un’estremità di quell’osso. La mia compagna ringhiò nella sua direzione e quello si alzò, subito sulla difensiva. Poi, forse considerando che erava-mo in due, si allontanò guardingo. Quando fu a distanza di sicu-rezza si voltò e allora potei vedere che un largo pezzo della schiena non c’era. Il completo blu che indossava, con tanto di cravatta, era strappato sul retro e così anche la carne e i muscoli: si scorgevano le ossa. «Sediamoci a parlare» mi invitò lei. Potrà sembrare strano, ma obbedii. D’altronde che altro potevo fare? Era già un grosso risultato che non fossi impazzito, anche se mi sentivo scoppiare la testa. «Non hai idea di dove sei capitato, vero?» Il suono della sua voce era simile al rumore che fa la terra gettata dalle pale che seppelliscono una bara. Scossi la testa. «Sei fortunato a essere sopravvissuto ai primi cinque minuti. La maggior parte all’inizio sono troppo scombussolati e soccombo-no subito. Tu invece hai fatto un bello scatto, che mi ha lasciata di stucco.» «La maggior parte di chi? Di cosa stai parlando?» Mi guardò perplessa, se un volto di quel genere poteva trasmette-re la perplessità o un qualunque altro sentimento. Poi disse: «Ah, ho capito. Non lo sai. Succede a molti di non accorgersene.» «Non accorgersi di cosa? Ti vuoi spiegare?» «Non ti sei ancora reso conto di essere morto.»

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Volevo dire molte cose, ma di bocca non mi uscì niente. «Capita, te l’ho detto. Si entra in sala operatoria e non se ne e-sce.» «Ma che cazzo dici? Io non ero qui da ricoverato. Non dovevo neppure passare una visita. Ero semplicemente venuto a riprende-re mia moglie in radiologia, che era qui per… per… ma poi che vuol dire? Che succede ai morti?» «I morti sono morti. Se sei qui con noi non puoi essere ancora vi-vo.» Di nuovo volevo ribattere qualcosa, ma nuovamente rimasi a bocca aperta, senza parole.

* * * Inutile girare intorno alla questione con discorsi a vuoto. Pare proprio che fossi morto. Era accaduto così, mentre giravo come un imbecille per l’ospedale. I morti sono una ghiotta preda. Coloro che se ne nutrono li atten-dono al varco, specialmente in luoghi come gli ospedali, dove le prede abbondano. Si impossessano di questi poveracci, il più delle volte ancora i-gnari di far parte del regno dei più, e li spolpano come cosce di pollo. E a quel punto il morto è veramente defunto e scompare dall’universo. Mentre per chi lo ha ingurgitato i vantaggi sono notevoli.

* * * «Si sale.» «Si sale?» «Si sale di livello.»

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«Verso dove?» La mia interlocutrice non poté rispondermi. Già da un po’ mi ero accorto che la sua indole, come dire, “didat-tica”, stava per lasciare il posto al desiderio di proseguire la cac-cia interrotta e pensai bene di precederla. Con un colpo secco e deciso delle forbici le recisi la gola, poi gliele piantai ripetutamente nel volto, finché questo non fu una massa ancora più orripilante di quanto già non fosse prima. Dopo di che detti inizio al mio primo pasto.

* * * Non so ancora in cosa consista il livello successivo ma credo che presto lo scoprirò. Sono diventato abbastanza bravo. Ormai so distinguere i malati al cui capezzale vegliare, in attesa che rendano l’anima. Non a Dio. A me. Pochi mi sfuggono. So anche guardarmi le spalle, per evitare di diventare lo spuntino che farà salire di livello qualcun altro. Insomma, mi sono ambientato. Che altro dire? Venite pure a trovarmi, a chi è in ospedale fa sempre piacere ricevere visite.

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IL SOPRANNATURALE NON ESISTE Il soprannaturale non esiste. Nessun fenomeno soprannaturale è mai stato scientificamente dimostrato e già questo basterebbe. Se pensiamo ai millenni di storia che ci hanno preceduto, alle innumerevoli storie sull’esistenza di una realtà diversa, e a come queste siano inva-riabilmente crollate di fronte alla ragione, non c’è dubbio che so-lo gli sciocchi persistano nell’affermare anche solo la remota pos-sibilità dell’esistenza del soprannaturale. Io non sono fra quegli sciocchi. Capisco bene come medium, maghi e fattucchiere altro non siano che truffatori di bassa lega, come i presunti fantasmi che infesta-no alcune dimore si riducano a banali pretesti per attirare turisti sprovveduti, anzi non credo neppure all’astrologia, un altro chiapparello che funziona soltanto con le menti semplici. Sono una persona solidamente ancorata alla realtà. Credo a ciò che vedo. Molti, al contrario, non credono a ciò che vedono. Potrà sembrare strano ma è così. Migliaia di persone vedono e tuttavia si compor-tano come se non vedessero. Pensate soltanto ai fumatori; impos-sibile che ogni volta che estraggono una sigaretta dal pacchetto non balzi loro agli occhi la scritta nera su campo bianco: “il fumo uccide”, eppure agiscono come se non avessero visto. Io invece non ho mai messo in dubbio i miei sensi. Per questo la storia che racconterò è vera e assolutamente priva di elementi soprannaturali. Ho visto i fatti con i miei occhi. E io credo a ciò che vedo.

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* * * Che tutti si fossero messi d’accordo contro di me, me ne resi con-to quando ormai era troppo tardi. Avevo bevuto, o meglio mi a-vevano fatto bere, e poi era saltata fuori la storia della scommes-sa. «Te la faresti sotto dalla paura.» «Io? Mi è capitato di camminare per i boschi, da solo e a notte fonda, senza che mi facesse la minima impressione.» «Un conto è andar per boschi, un altro passare la notte in un cimi-tero.» «La notte intera no, perché sarebbe scomodo, ma fino a mezza-notte sono pronto a scommettere.» Solo dopo, ripensandoci, mi sono accorto che a quel punto l’intero gruppo (eravamo una decina, a cena in un ristorante) ta-ceva per ascoltare me e Marotti. Solo un fesso non si sarebbe ac-corto della trappola pronta per me. «Vada per la mezzanotte. Quanto?» «Calma, calma. Possiamo parlarne, ma poi metterlo in pratica è un altro paio di maniche. I cimiteri di notte sono chiusi.» «Sono chiusi ma non sono mica delle banche. Non c’è niente da rubare e nessuno fa la guardia.» «E allora?» «E allora basta una scala per scavalcare il muro.» «E dove la troviamo una scala a quest’ora?» «Per caso oggi ho aiutato mia madre a imbiancare una stanza» in-tervenne Zangoli «e ho ancora la scala legata sul portapacchi.» Può sembrare incredibile, ma anche allora non sospettai che non si trattasse di una coincidenza. «Bene allora. Quanto?»

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* * * Una volta disceso all’interno del cimitero, mi voltai per dire a quelli al di là del muro che attendessero fino a mezzanotte ma non ne ebbi il tempo. La testa e il busto di Marotti spuntavano da oltre il muro, mentre si affrettava a ritirare su la scala che mi era servita anche per la discesa. «Ehi!» «Passa una buona nottata. Ci risulta che il custode apra alle no-ve.» Sentii lo sghignazzare generale e finalmente capii. Erano tutti d’accordo per quello scherzo alle mie spalle. Di scale sull’auto di Zangoli ce n’erano due; con una io ero salito e disceso dal muro del cimitero, ma durante questa seconda fase Zangoli era salito sull’altra, per ritirare la mia e lasciarmi intrappolato. Avrei voluto protestare o almeno infamarli ma rimasi così di stucco che non riuscii a spiccicare parola. Rimasi muto ad ascol-tarli mentre ridevano di me, andandosene. E per qualche minuto non fui capace di fare altro che rimanere lì come un babbeo, quale in effetti ero. Dopo un po’ mi convinsi pe-rò che lo scherzo sarebbe durato poco; ma certo! Entro pochi mi-nuti sarebbero ricomparsi a prendermi in giro e a chiedermi se me la ero fatta sotto. Non potevano certo volermi lasciare lì tutta la notte al freddo. Il freddo. D’improvviso mi resi contro che tremavo. I calori e i fumi del vi-no sbollirono di colpo e osservai il mio abbigliamento; avevo la-sciato la giacca nell’auto di quei pezzi di merda dei miei amici ed ero in maniche di camicia. Le notti di maggio erano ancora trop-po fresche per essere affrontate senza qualcosa di pesante e mi strofinai le braccia contro il torace per riscaldarmi. No, non sa-

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rebbero tornati a riprendermi: con loro me la sarei vista il giorno dopo ma per il momento dovevo risolvere il problema del freddo. Per la prima volta da quando ero entrato, mi guardai intorno. Conoscevo bene il cimitero di *** dove era sepolta mia madre e dove ormai da due anni, da quando era morta, mi recavo almeno una volta ogni quindici giorni. Il muro circondava un’ampia su-perficie grosso modo quadrata, lungo il perimetro della quale si aprivano i portici dei forni e alcune cappelle di famiglia. Feci scorrere rapidamente l’occhio, alla luce spettrale dei lumini, ma non mi sembrò di scorgere nessuna porta aperta; i portici non of-frivano un riparo sufficiente, perciò sarei stato costretto a fare il giro e provare una a una le aperture delle cappelle. Se nessuna si apriva mi sarei visto costretto a forzarne una. Ancora stentavo a crederci. Dover forzare la porta di una cappella mortuaria per non morire di freddo in un cimitero, mentre soltan-to due ore prima ero a cena con dei presunti amici. Mossi i primi passi sulla ghiaia, che emise un rumore che mi apparve fortissimo e sinistro; non mi ero reso conto del silenzio totale che regnava tutt’intorno. Eppure la strada era a pochi metri di distanza e dal cancello d’ingresso scorsi d’improvviso una sciabolata di fari. Mi misi a correre verso il cancello; potevo sporgermi fra le sbarre e fare cenno a un’auto di passaggio. Meglio ancora: potevo cercare di scalare la cancellata e andarmene da quella prigione. Ma proprio come in una prigione, le lance acuminate con cui ter-minavano le alte stanghe del massiccio cancello in ferro battuto erano ricurve verso l’interno, rendendo impossibile scavalcarle, a meno di possedere doti acrobatiche che io non avevo. «E di cosa hanno paura, che scappino i morti?» dissi ad alta voce. Trasalii al suono delle mie parole e mi guardai in giro. Aver par-lato di morti mi fece correre un brivido lungo la schiena; mentii a me stesso attribuendolo al freddo.

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Pareva che quell’automobile fosse stata la prima e l’ultima. Dopo un quarto d’ora di attesa trascorsa invano, mi decisi ad allonta-narmi dall’ingresso, anche perché attraverso l’inferriata spirava una brezza fredda che mi aveva gelato le ossa. Fu a quel punto che ci pensai. I sotterranei. Nella parete opposta all’ingresso, a lato della cappella per le fun-zioni, si apriva l’accesso a una scala per i forni sotterranei, quelli più antichi. Lì si trovavano i miei nonni… e anche una scala! Ri-cordavo bene che mia mamma, finché era stata in vita, l’aveva usata per raggiungere la tomba dei suoi nella fila più alta. Paura. Mi colse d’improvviso. Fino a quel momento mi ero mantenuto vicino al muro esterno, addirittura vicino al cancello da dove potevo vedere l’esterno. Adesso però si trattava di scendere nel sotterraneo di un cimitero e, al di là di tutti i discorsi che potevo aver fatto al ristorante, l’idea non mi sorrideva per niente. Mossi i primi incerti passi, an-cora indeciso se provare prima l’apertura di una delle porte delle cappelle mortuarie. Il movimento però mi ridette energia. Anche una certa grinta. Ma certo, glielo avrei fatto vedere io a quella massa di stronzi: se fossi riuscito a trovare una scala per scavalca-re il muro di cinta, mi sarei presentato quella notte stesse alle fi-nestre di casa loro, stile fantasma, e poi si sarebbe visto chi era a farsela nella mutande. Scesi quasi allegramente le scale strette e ripide che portavano sottoterra, ma una volta in fondo mi fermai subito. A destra e a sinistra si allungavano due corridoi, fiocamente illuminati da po-che lampade votive. Si trattava delle sepolture più antiche e molti di quei morti ormai non avevano più nessuno che si curasse delle loro tombe. Nell’aria aleggiava un odore di fiori marciti. Per

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quanto mi sforzassi la vista, non riuscivo a scorgere la fine di nessuno dei due corridoi, che a un certo punto si perdevano nel buio. Invece la scala era lì, a pochi metri di distanza: mio malgra-do provai un grande sollievo; non avrei giurato di essere in grado di addentrarmi troppo a fondo in quei lunghi budelli neri. La raggiunsi quasi di corsa, ma dopo averla afferrata mi bloccai e feci qualche passo indietro. Con la coda dell’occhio avevo letto una parola su una lapide, una parola fuori luogo: “troia”. Incuriosito, anche se non era il momento, tornai a leggere l’iscrizione. Avevo ormai gli occhi sufficientemente abituati all’oscurità da permettermi di distinguere bene le parole, anche alla luce incerta della lampada votiva di una tomba vicina. Marta Salvetti 15 aprile 1896 - 17 agosto 1937 Questa troia infame che mi ha riempito di corna e mi ha accollato due figli bastardi finalmente se la scopano i diavoli dell’inferno Il marito liberato pose Possibile? Eppure lo stavo leggendo con i miei occhi. Era incre-dibile, ma io credo a quello che vedo. Guardai per quello che mi permetteva la scarsa illuminazione anche le iscrizioni vicine, ma non notai niente di anomalo. Pur nella situazione in cui mi trovavo, quella stranezza mi incu-riosiva troppo. O meglio, mi inquietava e mi spaventava. Perce-pivo che si trattava di un’anomalia sinistra, quasi un segnale di allarme. Decisi che due sensi erano meglio di uno e chiusi gli oc-chi; poi appoggiai le mani sulle grandi lettere in rilievo dell’iscrizione e ve le feci scorrere sopra. Le parole erano suffi-

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cientemente rilevate da poter essere decifrate col tatto senza diffi-coltà: Marta Salvetti 15 aprile 1896 - 17 agosto 1937 Sposa fedele e madre esemplare troppo presto chiamata a ricon-giungersi agli angeli del paradiso Il vedovo inconsolabile pose Come volevasi dimostrare. Le emozioni di quella notte mi aveva-no giocato uno scherzo e la mia immaginazione si era fatta pren-dere la mano. Così mi dissi e così volli credere. Decisi di non perdere altro tempo: senza tornare a guardare la scritta, afferrai la scala e risalii velocemente all’aperto. Fu in quel momento che accadde. Ero riemerso per metà dalle scale e mi trovavo con il volto più o meno all’altezza delle tombe di terra quando la campana del cimi-tero rintoccò. Una volta sola. Trasalii così forte che per poco la scala non mi sfuggì di mano. Guardai l’orologio. Segnava le 12.18. Ero in quel cimitero ormai da quasi un’ora, ma non avevo sentito altri rintocchi; che signifi-cava, e poi a un’ora così strana? Forse il temporizzatore collegato alla campana era sfasato e nessuno se ne era ancora accorto; nor-male, d’altra parte, visto che il cimitero a quell’ora era poco fre-quentato. Avrei scritto una lettera all’amministrazione comunale per farlo presente. Stavo sorridendo fra me per la battuta sciocca quando un secondo rintocco, forte come un tuono, mi strappò un urlo; stavolta la scala mi sfuggì di mano e scivolò giù lungo gli scalini, fino a fermarsi una volta giunta nel corridoio sottostante.

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Senza più preoccuparmi di nascondere a me stesso la mia paura, decisi che volevo andarmene, e di corsa. Avrei recuperato la scala e nel giro di due minuti mi sarei ritrovato al di fuori del cimitero. Ma non mi mossi, perché in quel momento i morti iniziarono a uscire dalle tombe.

* * * L’ho detto, anzi l’ho scritto, così, come si scriverebbe “i parenti in visita suonarono il campanello”, oppure “il pasto del ristorante mi è rimasto sullo stomaco” o una qualsiasi altra frase banale fra i milioni di frasi possibili. I morti iniziarono a uscire dalle tombe, invece, non è una frase banale. Chiunque la scriva, la pronunci, o anche soltanto la pensi, è tenuto a giustificarla. A spiegare che sta lavorando di fantasia o che si esprime in modo metaforico, o magari che semplicemente scherzava. Ma non ci si può permettere di dirla con tono serio e poi passare oltre. Si rischierebbe di essere presi per pazzi. Di più. Sono convinto che molte persone, se davvero si trovassero a testimoniare un evento simile, eviterebbero di parlarne, per im-pedire di essere scambiate appunto per pazze. Per questo ho pre-messo all’inizio di questo resoconto che io credo a ciò che vedo. E che il soprannaturale non esiste. Perché nell’attimo stesso in cui ho visto i morti che uscivano dalle tombe, ho creduto che fosse possibile, e dal momento che era possibile si trattava di un fatto naturale. Ovviamente all’inizio passai attraverso la solita trafila: mi stro-picciai gli occhi, mi detti dei pizzicotti per assicurarmi di non so-gnare e così via. Ma nel giro di pochi secondi dovetti ammettere che era troppo terrificante per non essere vero.

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Sorgevano dal loro luogo di sepoltura come confetti che escono dal tulle di una bomboniera, sgusciando fuori lisci e biancheg-gianti. Faccio adesso osservazioni che sul momento, ibernato com’ero dal terrore, non ero in grado di compiere. Tutti, per quel che mi era dato vedere, conservavano l’aspetto di quando erano morti, poiché c’erano vecchi, adulti e bambini; la pelle del volto era dello stesso colore grigio che hanno i cadaveri poco prima che la bara venga chiusa. L’abito era uguale per tutti: una tunica bian-ca lunga fino a coprire i piedi. «Mi scusi, sarebbe così gentile da farci passare?» Ormai avevo esaurito la capacità di provare ulteriore paura, altri-menti sarebbe bastata quella voce a farmi morire di spavento. Ero rimasto impietrito in cima alle scale, e adesso bloccavo il passag-gio ai morti del sotterraneo, che si erano disposti ordinatamente in fila dietro di me. Evidentemente, una volta usciti dalla tomba riacquistavano fisicità. Meccanicamente mi feci da parte e i morti mi sfilarono accanto, uno dopo l’altro. Quello che mi aveva chiesto di liberare il pas-saggio era un omone i cui lunghi baffi che si univano alle basette ne denunciavano la provenienza ottocentesca. Lo seguivano don-ne dalle acconciature di foggia antica, giovani che dal volto con-sunto denunciavano la morte per tisi, vecchi curvi e bambini con i boccoli. All’ultimo della lunga fila, una bambina di non più di tre anni, inconsapevolmente sorrisi. Gli altri mi erano sfilati accanto senza degnarmi di uno sguardo, apparentemente non dando peso alla mia condizione diversa dalla loro; quella bambina invece mi aveva guardato fissamente, inducendomi a sorriderle. Anche lei mi sorrise, di rimando. Al posto dei denti aveva dei coni appuntiti e dall’aspetto taglien-te. Sembrava un piranha. Quando richiuse la bocca ci fu un suono metallico e stridente. Era possibile non impazzire? Evidentemente

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sì, perché il pensiero successivo che ebbi denunciava come già accettassi quello stato di cose. Mia madre. In quella folla di morti doveva trovarsi anche mia madre. «Mamma!» gridai d’improvviso. Mi era sfuggito di gola per la troppa tensione e rimbombò chia-ramente nell’aria del cimitero, non disturbata da altri rumori. I morti infatti erano silenziosi; si muovevano senza alcun fruscio e anche se parlavano in piccoli capannelli non si distingueva il suo-no di nessuna parola. Credetti che la mia esplosione avrebbe atti-rato un po’ di attenzione ma, a parte qualcuno dei più vicini che si voltò per una rapida occhiata, nessuno mi prestò attenzione. Ormai non provavo più paura, non so se per assuefazione oppure perché oltre un certo limite il nostro cervello, per non impazzire, mette in moto dei meccanismi di difesa. Con passi incerti iniziai a muovermi fra quelle figure. Benché mi fossi un poco acquietato ero ancora un fascio di nervi e tremavo come una corda di violi-no. Avevo l’impressione di camminare sull’orlo di un precipizio e che una qualsiasi mossa sbagliata mi avrebbe fatto precipitare. Avevo una meta, comunque: la tomba di mia madre. Se qualcuno poteva aiutarmi in quella situazione e in quel posto, era lei. Den-tro di me, in realtà, desideravo non trovarla. Volevo arrivare nei pressi della sua tomba e scoprire che lei non faceva parte di quel-la spettrale resurrezione, ed era in pace e indisturbata in un luogo sconosciuto e irraggiungibile. Però dovevo sapere e quindi andavo avanti, camminando con le gambe pesanti e la testa che ancora non riusciva ad articolare una serie di pensieri razionali. Dei conciliaboli a cui passavo accanto continuavo a non cogliere se non parole smozzicate, però perce-pivo chiaramente che fra tutti regnava un senso di attesa, febbrile se non spasmodica. Dopo un po’ fui sufficientemente tranquillo da chiedermi perché venissi ignorato. La presenza di una persona

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viva doveva per forza di cose essere inconsueta ma nessuno mi si faceva incontro e neppure venivo osservato con curiosità. L’unica cosa che mi avevano chiesto era di liberare il passaggio in cima alle scale. Come se fossi uno di loro. Come se fossi uno di loro. Un dubbio atroce mi paralizzò. E se davvero fossi morto? Ecco perché ero in grado di vedere gli altri defunti! Possibile però che non me ne fossi accorto? E d’altra parte, ci si può accorgere di morire? Un colpo improvviso, e per una fatalità imperscrutabile ero andato a crepare proprio in un cimitero…? Ragionavo in tal modo a testa bassa e quindi guardandomi i piedi. Vidi le mie scarpe e i miei pantaloni: non indossavo la tunica uni-formante di tutti gli altri e quindi… ma poteva trattarsi di una tra-sformazione successiva; nella migliore (o peggiore) delle ipotesi io ero morto da un’ora o poco più. Basta. Dovevo sapere. D’impulso avvicinai il capannello più vi-cino, formato da tre uomini con i lunghi baffi che andavano a ri-congiungersi alle basette in una foggia del diciannovesimo seco-lo. Forse erano stati amici anche in vita. «Scusate» dissi senza rivolgermi a nessuno in particolare «secon-do voi io sono morto?» Mi guardarono tutti e tre contemporaneamente e in maniera e-gualmente inespressiva. «Ovviamente no. Come le viene in mente un’idea del genere?» «Spero voglia scherzare.» «Sarebbe invero oltremodo inusuale.» Detto questo si rimisero a confabulare. L’aspetto grottesco della situazione, evidente per chi mi leggerà, sul momento mi sfuggiva completamente. Ormai del tutto frastornato, ripresi a camminare

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senza più una direzione in mente. Sentivo la testa girarmi e mi dissi che sarei certamente impazzito. Con l’ultimo briciolo di lu-cidità ripensai alla fuga; quando era iniziata quella follia stavo cercando di andarmene con la scala. Dovevo tornare a prenderla, subito, e andarmene di corsa; avrei avuto tempo, una volta fuori, per dare un senso a tutto quanto. O meglio, per dimenticarmi per sempre ogni cosa. Non appena mi voltai in direzione dei sotterranei non feci in tem-po a muovere neppure un passo, perché la vidi. A meno di due metri da me c’era mia madre. Mia madre, morta il sette di marzo di due anni prima, era lì. La vedevo muoversi e parlare. Lo nascondevo a me stesso, ma non mi ero mai completamente ripreso dalla sua scomparsa. Mio padre non lo avevamo mai co-nosciuto, né io né lei, rimasta incinta per una violenza carnale il cui colpevole non era mai stato scoperto. Abbandonati gli studi universitari, aveva accettato tutti i lavori più umili per crescermi e farmi studiare. Sempre indaffarata, mai malata, infaticabile, l’avevo vista in lacrime soltanto il giorno della mia laurea. Un tumore se l’era portata via in meno di tre mesi. Da allora mi era mancata quella guida che avevo sempre dato per scontata. Ci fosse stata ancora lei, probabilmente non sarei stato quella sera a cena con persone che lei definiva “cattive compa-gnie”. «Mamma!» Il grido mi uscì di gola strozzato e quasi inudibile. Ma lei si voltò. «Ah, sei qui.» Di tutte le possibili reazioni, quella mi sarebbe apparsa la più in-verosimile, se avessi potuto riflettere sul senso delle parole. Più di tutto però mi aveva colpito il tono. Indifferente, distante. FINE ANTEPRIMA.CONTINUA...