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LO STATO dell’economia La rilettura La trappola della flessibilità N el 1930 scriveva Keynes che in quegli anni, alla no- zione secondo cui «se si paga meglio una persona la si ren- de più efficiente», si andava sosti- tuendo la massima più moderna «per cui se si paga meglio una per- sona si rende il suo datore di lavo- ro più efficiente, forzandolo a scartare metodi ed impianti obso- leti … elevando così lo standard generale» ("The question of high wages", The Political Quarterly, 1930). Viene da chiedersi: quanto è at- tuale questa riflessione? Se guar- diamo alle trasformazioni in ne- gativo della nostro sistema pro- duttivo la risposta è: molto. Difat- ti, alla politica di moderazione sa- lariale, all’introduzione del dop- pio livello di contrattazione e alla crescente flessibilità del lavoro la risposta delle imprese è stata il di- simpegno negli investimenti reali e nella ricerca, con ricadute dram- matica su produttività e salari. E dunque? Credo sia una opinione condivisa che il costo del lavoro non costituisce solo, se molto ele- vato, un fattore di perdita di com- petitività ma anche, se basso, un minore incentivo al dinamismo delle imprese. Così, credo che l’at- tuale deriva del sistema produtti- vo italiano offra una base statisti- ca concreta a questo punto di vi- sta. Insomma, per l’Italia emerge un quadro macroeconomico coe- rente con le considerazioni keyne- siane secondo cui un basso costo del lavoro può avere l’effetto di di- sincentivare «le energie latenti dell’imprenditore grazie alle qua- li è possibile finanziare l’aumen- to salariale». Perciò, dobbiamo trovare il modo di fuoriuscire dal- la trappola della flessibilità che sostituendo il lavoro di bassa qua- lità al capitale e alla tecnologia, ed erodendo la produttività, man- tiene l’occupazione, e le imprese, in uno stato di sopravvivenza. Questa considerazione è rivolta anche alla più recente riforma del mercato del lavoro, attual- mente in gestazione. Vanno crea- ti nuovi posti di lavoro. Ma, non è deregolamentando ulteriormen- te il lavoro che si crea occupazio- ne buona e stabile. C’è bisogno di un nuovo modello di sviluppo so- stenibile fondato sulla centralità della conoscenza e della ricerca, che crei occupazione di qualità in un contesto di investimenti e salari crescenti. Non ci sono altre vie praticabili per una occupazio- ne buona e stabile. La trappola della flessibilità, difatti, crea solo posti di lavoro transitori che ero- dono la produttività. Li consu- ma, e poi li espelle, seppellendo, insieme ai posti di lavoro, le stes- se imprese sempre meno capaci di competere lungo la scala della competitività internazionale. E conomista, docente di Scienza e tecnologia al- l'Università del Sussex, Mariana Mazzucato era in Italia lunedì scorso per presentare, in un con- vegno organizzato all'Università La Sapienza, il suo ul- timo libro, Lo Stato innovatore, appena tradotto da La- terza. Nel suo libro lei ripropone il tema dell'azione pubblica in campo economico. Un'idea di Stato dunque visto non solo come arbitro dei conflitti tra privati, ma atti- vo e trasformativo. Può farci qualche esempio? Il vecchio modo di pensare lo Stato come soggetto che in- terviene per affrontare i fallimenti del mercato è sbagliato. Il punto sostanziale del libro è che per essere attivo lo Stato deve avere un approccio giusto – quello che defini- sco un framework mission oriented, che definisce gli obiet- tivi di lungo termine, concentra gli sforzi di ricerca, stimo- la gli investimenti pubblici e privati e apre la strada a nuo- vi prodotti - altrimenti si può essere attivi, come avviene in Inghilterra, ma solo limitando gli investimenti a politi- che di incentivi o di detassazione. Uno degli esempi più calzanti è quello dell'I Phone: le tecnologie per produrlo sono state ideate e finanziate dal pubblico, tramite ricerca di base ma anche ricerca applica- ta, e la stessa società, in questo caso la Apple, ha ricevuto finanziamenti diretti dallo Stato americano. Lo stesso vale oggi anche per la Tesla Motors di Elon Mu- sk, il nuovo eroe di Silicon Valley. Senza il prestito garanti- to di 500 milioni di dollari di Obama la nuova Tesla non sa- rebbe nata. In questo senso gli Usa non sono un modello di merca- to ma di Stato attivo, che agisce attraverso investimenti di- retti e non solo tramite incentivi. CONTINUA |PAGINA II La soluzione pubblica Sbilanciamo l’Europa Sara Farolfi In Italia si è rinunciato da tempo a definire un piano di rilancio del sistema industriale. Le partecipazioni statali e la gestione spesso corrotta dei fondi pubblici ha condizionato, anche a sinistra, il dibattito sull’utilità dell’intervento pubblico a sostegno dell’industria Matteo Lucchese «N el XXI secolo, non me- no che nei due secoli precedenti, un paese che non possegga una grande industria manifatturiera, l’indu- stria in senso stretto, rischia di diventare una sorta di colonia, subordinata alle esigenze eco- nomiche, sociali e politiche di altri paesi che tale industria pos- seggono». Era il 2003 quando Luciano Gallino iniziava così un agile li- bretto sul declino dell’Italia indu- striale, passando in rassegna il ri- dimensionamento della capacità produttiva in settori in cui l’Italia aveva avuto un posto di primo piano. A 11 anni di distanza, com- plice certo la crisi economica, il quadro industriale del paese non è cambiato e nessuna delle op- portunità di rilancio è stata colta laddove esistevano risorse uma- ne e tecnologiche per farlo. Il fatto è che in Italia si è rinun- ciato da tempo a definire un pia- no di rilancio del sistema indu- striale, anche in questi anni in cui il crollo degli investimenti pri- vati (e pubblici) ne rivelerebbe l’estremo bisogno. L’esperienza delle partecipa- zione statali e la gestione spesso corrotta dei fondi pubblici ha inevitabilmente finito per condi- zionare, anche a sinistra, il dibat- tito sull’utilità di forme di inter- vento pubblico a sostegno del- l’industria. Altrove nel mondo, dopo un ventennio di politiche neoliberiste, il ritorno sulla sce- na della politica industriale ha accompagnato la promozione di piani di sviluppo dell’indu- stria con un forte coinvolgimen- to dei governi. Secondo Mariana Mazzucato, è necessario «imporre una nuova narrativa e una nuova terminolo- gia per descrivere il ruolo dello Stato» nell’economia. Nel suo libro sullo Stato im- prenditore (o «innovatore» come recita il titolo dell’edizione italia- na), Mazzucato ricorda come die- tro le tecnologie più innovative si possa ritrovare l’azione pioneri- stica dello Stato, a guidare con considerevoli investimenti in pro- grammi di ricerca di base e appli- cata gli sforzi innovativi d’impre- sa. Uno Stato che è chiamato a catalizzare gli investimenti del settore privato in aree ad alto ri- schio in cui i privati non sarebbe- ro disposti ad investire. Con la consapevolezza che non tutti gli investimenti avranno successo e parte dei progetti saranno desti- nati al fallimento. Per fare que- sto, lo Stato avrebbe bisogno di sviluppare le migliori competen- ze, anziché ridurre drasticamen- te la sua sfera di influenza. Non sarebbe dunque necessa- rio ridurre il suo peso, quanto ri- pensare lo Stato come attrattore delle migliori esperienze e com- petenze. Proprio in Italia varreb- be la pena provare a farlo, indivi- duando nel contempo forme nuove di controllo democratico degli investimenti. Anche l’Europa dovrebbe fare la sua parte, promuovendo piani industriali concreti volti ad uno sviluppo più equilibrato del siste- ma industriale europeo. Tenen- do ben presente che il dibattito sul futuro industriale di un paese è legato inscindibilmente alla qualità del lavoro che quel paese potrà permettersi nel futuro. Giuseppe Travaglini VENERDÌ 20 GIUGNO 2014 WWW.SBILANCIAMOCI.INFO - N˚21 SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO

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LO STATOdell’economia

Larilettura

La trappola della flessibilitàN el 1930 scriveva Keynesche in quegli anni, alla no-zione secondo cui «se si

paga meglio una persona la si ren-de più efficiente», si andava sosti-tuendo la massima più moderna«per cui se si paga meglio una per-sona si rende il suo datore di lavo-ro più efficiente, forzandolo ascartare metodi ed impianti obso-leti … elevando così lo standardgenerale» ("The question of highwages", The Political Quarterly,1930).

Viene da chiedersi: quanto è at-tuale questa riflessione? Se guar-diamo alle trasformazioni in ne-gativo della nostro sistema pro-duttivo la risposta è: molto. Difat-ti, alla politica di moderazione sa-

lariale, all’introduzione del dop-pio livello di contrattazione e allacrescente flessibilità del lavoro larisposta delle imprese è stata il di-simpegno negli investimenti realie nella ricerca, con ricadute dram-matica su produttività e salari. Edunque? Credo sia una opinionecondivisa che il costo del lavoronon costituisce solo, se molto ele-vato, un fattore di perdita di com-petitività ma anche, se basso, unminore incentivo al dinamismo

delle imprese. Così, credo che l’at-tuale deriva del sistema produtti-vo italiano offra una base statisti-ca concreta a questo punto di vi-sta. Insomma, per l’Italia emergeun quadro macroeconomico coe-rente con le considerazioni keyne-siane secondo cui un basso costodel lavoro può avere l’effetto di di-sincentivare «le energie latentidell’imprenditore grazie alle qua-

li è possibile finanziare l’aumen-to salariale». Perciò, dobbiamotrovare il modo di fuoriuscire dal-la trappola della flessibilità chesostituendo il lavoro di bassa qua-lità al capitale e alla tecnologia,ed erodendo la produttività, man-tiene l’occupazione, e le imprese,in uno stato di sopravvivenza.Questa considerazione è rivoltaanche alla più recente riformadel mercato del lavoro, attual-mente in gestazione. Vanno crea-

ti nuovi posti di lavoro. Ma, nonè deregolamentando ulteriormen-te il lavoro che si crea occupazio-ne buona e stabile. C’è bisogno diun nuovo modello di sviluppo so-stenibile fondato sulla centralitàdella conoscenza e della ricerca,che crei occupazione di qualitàin un contesto di investimenti esalari crescenti. Non ci sono altrevie praticabili per una occupazio-ne buona e stabile. La trappoladella flessibilità, difatti, crea soloposti di lavoro transitori che ero-dono la produttività. Li consu-ma, e poi li espelle, seppellendo,insieme ai posti di lavoro, le stes-se imprese sempre meno capacidi competere lungo la scala dellacompetitività internazionale.

Economista, docente di Scienza e tecnologia al-l'Università del Sussex, Mariana Mazzucato erain Italia lunedì scorso per presentare, in un con-

vegno organizzato all'Università La Sapienza, il suo ul-timo libro, Lo Stato innovatore, appena tradotto da La-terza.

Nel suo libro lei ripropone il tema dell'azione pubblicain campo economico. Un'idea di Stato dunque vistonon solo come arbitro dei conflitti tra privati, ma atti-vo e trasformativo. Può farci qualche esempio?Il vecchio modo di pensare lo Stato come soggetto che in-

terviene per affrontare i fallimenti del mercato è sbagliato.

Il punto sostanziale del libro è che per essere attivo loStato deve avere un approccio giusto – quello che defini-sco un framework mission oriented, che definisce gli obiet-tivi di lungo termine, concentra gli sforzi di ricerca, stimo-la gli investimenti pubblici e privati e apre la strada a nuo-vi prodotti - altrimenti si può essere attivi, come avvienein Inghilterra, ma solo limitando gli investimenti a politi-che di incentivi o di detassazione.

Uno degli esempi più calzanti è quello dell'I Phone: le

tecnologie per produrlo sono state ideate e finanziate dalpubblico, tramite ricerca di base ma anche ricerca applica-ta, e la stessa società, in questo caso la Apple, ha ricevutofinanziamenti diretti dallo Stato americano.

Lo stesso vale oggi anche per la Tesla Motors di Elon Mu-sk, il nuovo eroe di Silicon Valley. Senza il prestito garanti-to di 500 milioni di dollari di Obama la nuova Tesla non sa-rebbe nata.

In questo senso gli Usa non sono un modello di merca-to ma di Stato attivo, che agisce attraverso investimenti di-retti e non solo tramite incentivi. CONTINUA |PAGINA II

La soluzionepubblica

Sbilanciamo l’Europa

Sara Farolfi

In Italia si è rinunciato da tempo a definire un piano di rilancio del sistema industriale.Le partecipazioni statali e la gestione spesso corrotta dei fondi pubblici ha condizionato,anche a sinistra, il dibattito sull’utilità dell’intervento pubblico a sostegno dell’industria

Matteo Lucchese

«Nel XXI secolo, non me-no che nei due secoliprecedenti, un paese

che non possegga una grandeindustria manifatturiera, l’indu-stria in senso stretto, rischia didiventare una sorta di colonia,subordinata alle esigenze eco-nomiche, sociali e politiche dialtri paesi che tale industria pos-seggono».

Era il 2003 quando LucianoGallino iniziava così un agile li-bretto sul declino dell’Italia indu-striale, passando in rassegna il ri-dimensionamento della capacitàproduttiva in settori in cui l’Italiaaveva avuto un posto di primopiano. A 11 anni di distanza, com-plice certo la crisi economica, ilquadro industriale del paese nonè cambiato e nessuna delle op-portunità di rilancio è stata coltaladdove esistevano risorse uma-ne e tecnologiche per farlo.

Il fatto è che in Italia si è rinun-ciato da tempo a definire un pia-no di rilancio del sistema indu-striale, anche in questi anni incui il crollo degli investimenti pri-vati (e pubblici) ne rivelerebbel’estremo bisogno.

L’esperienza delle partecipa-zione statali e la gestione spessocorrotta dei fondi pubblici hainevitabilmente finito per condi-zionare, anche a sinistra, il dibat-tito sull’utilità di forme di inter-vento pubblico a sostegno del-l’industria. Altrove nel mondo,dopo un ventennio di politicheneoliberiste, il ritorno sulla sce-na della politica industriale haaccompagnato la promozionedi piani di sviluppo dell’indu-stria con un forte coinvolgimen-to dei governi.

Secondo Mariana Mazzucato,è necessario «imporre una nuovanarrativa e una nuova terminolo-gia per descrivere il ruolo delloStato» nell’economia.

Nel suo libro sullo Stato im-prenditore (o «innovatore» comerecita il titolo dell’edizione italia-na), Mazzucato ricorda come die-tro le tecnologie più innovative sipossa ritrovare l’azione pioneri-stica dello Stato, a guidare conconsiderevoli investimenti in pro-grammi di ricerca di base e appli-cata gli sforzi innovativi d’impre-sa. Uno Stato che è chiamato acatalizzare gli investimenti delsettore privato in aree ad alto ri-schio in cui i privati non sarebbe-ro disposti ad investire. Con laconsapevolezza che non tutti gliinvestimenti avranno successo eparte dei progetti saranno desti-nati al fallimento. Per fare que-sto, lo Stato avrebbe bisogno disviluppare le migliori competen-ze, anziché ridurre drasticamen-te la sua sfera di influenza.

Non sarebbe dunque necessa-rio ridurre il suo peso, quanto ri-pensare lo Stato come attrattoredelle migliori esperienze e com-petenze. Proprio in Italia varreb-be la pena provare a farlo, indivi-duando nel contempo formenuove di controllo democraticodegli investimenti.

Anche l’Europa dovrebbe farela sua parte, promuovendo pianiindustriali concreti volti ad unosviluppo più equilibrato del siste-ma industriale europeo. Tenen-do ben presente che il dibattitosul futuro industriale di un paeseè legato inscindibilmente allaqualità del lavoro che quel paesepotrà permettersi nel futuro.

Giuseppe Travaglini

VENERDÌ 20 GIUGNO 2014 WWW.SBILANCIAMOCI.INFO - N˚21 SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO

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DALLA PRIMA PAGINASara Farolfi

LA CRISI INDUSTRIALE RICHIEDE UN NUOVO INTERVENTO PUBBLICO E RIPORTA ALL’ORDINEDEL GIORNO LA QUESTIONE DEL GOVERNO DEMOCRATICO DELL’ECONOMIA. MA LA«RIPUBBLICIZZAZIONE» DELL’ACQUA E DI ALTRI SERVIZI DI INTERESSE ECONOMICO GENERALENON PUÒ COINCIDERE CON UN RITORNO A UN PUBBLICO BUROCRATICO E GERARCHICO

Ugo Mattei

La crisi industriale richiede unnuovo intervento pubblico e ri-porta all’ordine del giorno la

questione del governo democraticodell’economia. Ma – come ci ricorda-no i casi di politiche sbagliate e di cor-ruzione – non basta dare potere e ri-sorse a soggetti pubblici per risolverei problemi: serve un controllo demo-cratico e forme di gestione rivolte a tu-telare l’interesse collettivo.

La stagione dei beni comuni - refe-rendum sull’acqua, occupazione deiteatri, costituente per i beni comuni -ha radicalmente posto in discussionela dicotomia tra pubblico (Stato) e pri-vato (mercato), e in particolare la ri-duzione della questione democraticaalle istituzioni del primo. Certo, la cri-tica alla rappresentanza non potevache rivolgersi principalmente alle isti-tuzioni politiche pubbliche: la «ripub-blicizzazione» dell’acqua e degli altriservizi di interesse economico genera-le non può coincidere con un ritornoa un pubblico burocratico, gerarchi-co e verticale. Ma la questione demo-cratica si pone naturalmente anchenelle sedi economiche, e non più sol-tanto in quelle politiche.

In questo quadro ho seguito l’im-portante esempio di trasformazionedalla veste privatistica (Spa) a quellapubblicistica (Azienda speciale) avve-

nuto a Napoli, dove l’acquedotto, unservizio a vocazione industriale confatturato ben superiore ai 100 milionidi euro e con un numero di dipenden-ti dell’ordine del mezzo migliaio è sta-to definitivamente trasformato inAzienda Speciale ABC (Acqua BeneComune) nell’aprile del 2013, propo-nendosi come modello (finora non se-guito) di ottemperanza fedele al refe-rendum di tre anni fa.

Sul piano teorico, il processo nonpoteva essere più limpido e cristalli-no. L’Azienda Speciale ai sensi del Te-sto unico sugli enti locali è dotata dipiena autonomia statutaria. Lo statu-to è il vero Dna di ogni soggetto eco-nomico perché determina i compor-tamenti degli amministratori, perciòtutto sta nell’adottarne uno coerentecon la natura di bene comune del ser-vizio idrico. Lo statuto di ABC dovreb-be vincolare così gli amministratori(per due quinti espressione del «mon-do ambientalista») ad un governo del-l’acqua come bene comune, ossia aduno spirito ecologico, contestuale, so-lidaristico, generativo e senza fini dilucro.

Si supera così la natura tipicamen-te estrattiva, di breve periodo, vertical-mente aziendalistica e «for profit» del-le Spa (indipendentemente dal fattoche l’azionariato sia pubblico o priva-to). Il bene comune servizio idriconon è frazionato in azioni, per loro na-tura agevolmente alienabili, sicché il

valore d’uso torna a prevalere struttu-ralmente su quello di scambio e la pri-vatizzazione è davvero scongiurata.

Fatta questa scelta, occorre affron-tare il problema per cui insieme allo«scopo di lucro» si rischia di perdere iservigi della sola «agenzia» capace dimisurare l’efficienza aziendale, ossia«il mercato». È quindi essenziale sosti-tuire il «controllo del mercato» con «ilcontrollo della partecipazione», o me-glio affiancare il secondo al primo, al-lestendo una sorta di parlamentinodell’acqua (il Comitato di sorveglian-za) che a regime dovrebbe dotarsi deimezzi tecnici (per esempio una matri-ce dei beni comuni) idonei a garanti-re che il governo ecologico e socialenon degeneri in collocamento del ni-pote scemo del potente di turno.

Questa combinazione di statutoecologico e sociale con governancefondata sul controllo partecipato del-l’operare degli amministratori è sicu-ramente la chiave di volta del nuovogoverno democratico dell’economiadi cui ABC si propone come modello.Ovviamente, è necessario molto lavo-ro teorico e pratico che non può esse-re portato avanti in solitudine, sicchéABC ha promosso a livello nazionaleFedercommons associazione che cer-ca di legare fra loro le oltre duemilaaziende di servizi ancora interamentein proprietà pubblica il cui valore, del-l’ordine di ben 500 miliardi (stime del-l’Imf), costituisce la vera preda delle

prossime rapaci privatizzazioni.Infatti se a Napoli abbiamo allestito

il parlamentino dell’acqua, compostodi cinque lavoratori eletti, cinqueutenti sorteggiati, cinque componen-ti del consiglio comunale e cinquerappresentanti dei movimenti am-bientalisti (oltre all’assessore con de-

lega all’acqua) nulla vieta di immagi-nare altrove un parlamentino dellaspazzatura, uno dei trasporti, uno del-la scuola, uno della Rai, in modo daattirare al governo dell’azione pubbli-ca intesa come bene comune le mi-gliori energie della cittadinanza atti-va.

È presto per valutare i nostri risulta-ti anche perché come prevedibilescontiamo non poca resistenza su di-verse linee. Intanto, la ripubblicizza-zione, ponendosi in contrasto radica-le con i tentativi continui di aggirare ilreferendum, si ritrova come nemici ipoteri finanziari (che cercano di limi-tate l’accesso al credito, per fortunaoggi assai basso), e l’informazione do-minante, portatrice di interessi diret-tamente in conflitto con il manteni-mento dell’acqua pubblica.

Inoltre, scontiamo un ritardo so-prattutto culturale da parte delleistanze comunali che stentano a com-prendere che il modello ABC lungidal voler concentrare maggiori poterinella politica rappresentativa, costitu-isce un avanzato tentativo destituen-te volto alla restituzione al popolo so-vrano del potere mal utilizzato dallarappresentanza. A questo proposito,si sta giocando una delicata partitaproprio su alcune proposte modifi-che di Statuto che rischiano di mette-re la «mordacchia» ad ABC, mentre in-vece occorrerebbe ripensare al con-trollo analogo con piena responsabi-lizzazione del parlamentino, ovvian-do altresì ai problemi gravissimi gene-rati dall’inerzia e dai tempi della poli-tica. Infine ben scarso entusiasmoper questo esperimento è manifesta-to dai movimenti napoletani, i qualinon si rendono conto che il meglio ènemico del bene e paiono assi rilut-tanti ad assumere la responsabilitàche deriva dal partecipare al gioco isti-tuzionale. Incredibilmente, la solacomponente che ancora non ha datoi suoi cinque rappresentanti del parla-mentino dell’acqua è proprio quelladi movimento! Verrebbe da dire: è fa-cile predicare la ripubblicizzazione,molto meno è sporcarsi le mani permetterla in pratica.

L’esperimento ABC sta dando risul-tati largamente positivi sul piano eco-nomico, finanziario e degli investi-menti in chiave di beni comuni. I ri-sultati di gestione sono tutti miglioririspetto al budget nonostante l’assaibecera applicazione di spending re-view ed altri arroganti interventi ester-ni, dall’Agenzia delle entrate, a Inps,Inpdap, ad alcuni uffici comunali, aifavoritismi intollerabili della RegioneCampania nei confronti dei solitigruppi privati: ABC resta l’unica parte-cipata virtuosa del Comune di Napo-li, in attivo a dispetto dei Santi!

È forse a causa di questi risultatiche l’esperienza istituzionale di ABCè occultata dal dibattito pubblico.

VENERDÌ 20 GIUGNO 2014SBILANCIAMO L’EUROPAN˚21 - PAGINA II

Abc, l’esperimentodemocratico di NapoliLa società che gestisce il servizio idrico ha uno statuto socialeed ecologico e una governance fondata sulla partecipazione.E sfida le resistenze della finanza e dell’informazione

Nel libro però non mi limito a parlaresolo dello Stato. Lo Stato può ancheagire insieme a un privato impegnato

a lungo termine, spesso è auspicabile che lofaccia.

Il problema è che oggi l'impresa privata èsempre più mirata verso il corto periodo – espesso più attenta ai prezzi delle azioni che alvalore creato nel lungo termine. Per questoparlo del bisogno di costruire un «eco-siste-ma» pubblico privato più simbiotico e menoparassitico.

Buona parte delle analisi del suo libro sonobasate su esempi che provengono dagli Usa.Quali lezioni possiamo trarne per l'Italia?Parlo di Usa perchè in Europa si parla spes-

so degli Stati uniti come di un modello da co-piare senza capire veramente quello che là suc-cede. In Europa ci sono paesi – Danimarca,Finlandia o Germania - che hanno un quadrodi riferimento per l'azione pubblica molto di-verso da quello di Italia e Inghilterra.

In Italia c'è la tendenza a pensare che sia suf-ficiente facilitare le cose, alleggerire la burocra-zia o intervenire sulla tassazione, per convince-re le imprese a innovare.

L'Inghilterra ha una politica industriale più

attiva di quella italiana ma anche lì il governotende a prestare troppa attenzione alle richie-ste delle imprese di intervenire sulla tassazio-ne, anche se poi questo rende molto difficile fi-nanziare gli investimenti. Questo rapporto pa-rassitico tra industrie e governi fa sì che l'indu-stria investe meno e i governi sono sempre me-no capaci di raccogliere i soldi che poi servonoall'innovazione.

Il caso degli Usa dimostra invece che l'im-presa privata investe – anche la Fiat nella Chry-sler - quando sente che ci sono grosse opportu-nità di mercato. Non a caso storicamente negliUsa gli investimenti sono stati fatti quando letasse erano più alte.

Restando in Europa, il fiscal compact nonrende impossibile per gli Stati qualunque po-litica di investimenti?Innanzitutto contro il fiscal compact biso-

gna fare una battaglia enorme. Il problemanon è che i Paesi hanno speso troppo ma trop-po poco: i dati Ocse infatti ci mostrano che Por-togallo, Italia, Grecia e Spagna sono i Paesi chespendono di meno in ricerca e sviluppo.

In Italia prima della crisi il deficit era più bas-so di quello tedesco, il rapporto debito-Pil cre-sce perchè il denominatore non sta crescendo.Questo non vuol dire che va tutto bene, ma fin-chè questi Paesi non trovano il modo di spen-dere in tutto quello che fa crescere la produtti-

vità (capitale umano, ricerca e sviluppo etc)e finchè le stesse imprese spendono poco,non cambierà niente.

E il problema è che il fiscal compact nonli lascia spendere. E arriviamo al secon-

do punto: la spesa in ricerca e svi-luppo non può essere computa-

ta come spesa corrente ma co-me «capital expenditures»,

come farebbe il privato. Inquesto senso è fonda-

mentale che l'Europa sidia regole unificate su

come calcolare il debi-to.

Infine: è necessa-rio che anche l'Euro-pa si dia un altro ap-proccio che giustifi-chi la spesa in investi-

menti. E non mi riferisco solo a una politica in-dustriale di settore ma a obiettivi che traininoe direzionino questi investimenti.

Quando si parla di Stato e di pubblico in Ita-lia, però, è inevitabile parlare anche di corru-zione.In Italia c'è un enorme problema. Ma il pun-

to non è solo la corruzione: ci sono tanti Paesinon corrotti che non crescono.

Certo, serve un impegno enorme per rifor-mare lo Stato, ma le «riforme strutturali» intra-prese da Monti e Renzi devono essere accom-pagnate da un serio programma di investimen-ti. Invece, quando si parla di riforme struttura-li, si pensa sempre alla deregolamentazionedel mercato del lavoro o alle liberalizzazioni,ma nulla di tutto questo ha a che fare con unapolitica di investimenti.

Telecom, per fare un esempio, appena priva-tizzata ha tagliato la ricerca e lo sviluppo. Quin-di il punto vero è che tipo di Stato e che tipo diprivato vogliamo.

Lei parla nel suo libro di traiettorie dell'inno-vazione a lungo termine. In quali settori, peresempio, in Europa?L'intervento pubblico oggi dovrebbe giocar-

si intorno ai problemi climatici ma anche aquelli più sociali tipo i problemi demografici le-gati all'invecchiamento della popolazione, so-prattutto in materia di cura, di vivere bene.

Lo Stato trasformativo dovrebbe uscire daiconfini del privato, e penso ad esempio al set-tore dei medicinali e investire sul lifestyle, sulcome vivere in maniera più intelligente. Leenergie rinnovabili dovrebbero essere approc-ciate come un portfolio, nel senso che gli Statidovrebbero investire in diversi tipi di energia.L'innovazione non ha solo un «tasso» ma an-che una «direzione».

E c'è anche bisogno di una politica della do-manda, in modo che le nuove tecnologie si dif-fondano.

Come la «suburbanizzazione» è stato un ri-sultato di una politica intorno alla rivoluzionedella «produzione di massa», oggi dovrebberoesserci politiche che rendono più profittevolile scelte «verdi» sia per i produttori che per iconsumatori. Una politica della domanda, unorientamento, è fondamentale e pensare chela faccia il mercato è, come dire, un po' naive.

L’innovazionedello Stato attivoIntervista all’economista Mariana Mazzucato:«Portogallo,Italia,GreciaeSpagnasonoiPaesiche spendono di meno in ricerca e sviluppo»

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L’«ECONOMIA DELL’OFFERTA» LANCIATA NEGLIANNI 80, TESA A RIDURRE LE TASSE SUI PROFITTIPER RILANCIARE GLI INVESTIMENTI,HA CONTRIBUITO A DEPRIMERE LA CRESCITA

TAGLIARE LE TUTELEAD AMBIENTEE LAVORO AVREBBEDOVUTO RESTITUIREACQUAAI RAMI SECCHIDELLA NOSTRAECONOMIA.LA STORIADEGLI ULTIMI ANNIDIMOSTRA CHENONÈANDATACOSÌ

Come scrive Mariana Mazzucatonel suo libro, Lo Stato innovato-re, la cosiddetta «economia del-

l’offerta» lanciata negli anni ’80, indiriz-zata a ridurre le tasse sui profitti per ri-lanciare gli investimenti, ha avuto scarsieffetti sugli investimenti stessi e quindisulla crescita, ma effetti importanti sul-la distribuzione del reddito. Si potrebbefacilmente estendere questa conclusio-ne anche alle riforme del mercato del la-voro attuate in Italia negli ultimi 15-20anni. Come ha documentato MaurizioZenezini in un’analisi molto dettagliatadella relazione fra queste riforme e lacrescita, mentre l’Italia ha sperimenta-to negli ultimi 15 anni la più forte dere-golamentazione del mercato del lavorodella maggior parte dei paesi Ocse,l’economia ha smesso di crescere an-cor prima del collasso del 2009 e le rifor-me recenti, «pur considerate imponen-ti dagli stessi responsabili della politicaeconomica», sembrano incapaci di rivi-talizzare l’economia. Non a caso le pre-visioni di crescita sono state continua-mente riviste al ribasso.

Ad un’analisi retrospettiva, gli effettidi queste riforme sulla crescita appaio-no nulli nel breve periodo e modesti,nel migliore dei casi, nel lungo perio-do. Contemporaneamente, le retribu-zioni contrattuali reali per l’intera eco-nomia italiana sono rimaste ferme fra il1993 e il 2011. In quest’ultimo anno, va-levano il 77 per cento della media deipaesi Ocse, mentre erano pari all’85per cento della media dodici anni pri-ma. Non c’è bisogno di ricordare qui idisastrosi dati sulla caduta, in Italia, deilivelli di occupazione e sulla crescenteincidenza del lavoro precario.

È ormai diventato un luogo comune ilriconoscimento, più o meno cauto, deldanno che politiche sincronizzate di au-sterità fiscale hanno inflitto all’intera co-struzione europea, e tutti convengono or-mai nel proclamare solennemente che,

«dopo il rigore, è giunto il momento del-la crescita». Siamo tuttavia ben lontanida una sconfessione della filosofia econo-mica basata su quella stessa «economiadell’offerta» ricordata sopra, che ha sor-retto la costruzione iniziale dell’Unionemonetaria europea e giustificato succes-sivamente un sovraccarico di disastrosivincoli e prescrizioni. Continua a prevale-re infatti l’idea che la sostenibilità dell’eu-ro si fondi su un riaggiustamento dei sa-lari e dei prezzi relativi, da ottenersi so-prattutto attraverso riduzioni nei paesiin deficit - ma i più audaci si spingono aproporre aumenti dei prezzi e dei salarinei paesi in surplus - o mediante unacombinazione di entrambi.

A ben vedere, questa diagnosi si basasu un giudizio di perdita di competitivitàbasato sull’andamento di un unico indi-catore, il rapporto fra il costo unitario dellavoro rispetto a quelli di un gruppo dipaesi concorrenti (definito Clup relativo,o tasso di cambio reale in termini di co-sto unitario del lavoro). La crescita diquesto rapporto indicherebbe perditacomplessiva di competitività di prezzodel paese, e quindi fornirebbe le basi pergiustificare misure generali di aggiusta-mento al ribasso dei salari (oltre che aprediche sulla necessità di aumentare laproduttività).

Tuttavia, diagnosi e terapia sono tut-t’altro che scontate poiché questa inter-pretazione si basa su occhiali interpre-tativi fabbricati nel secolo scorso, inepoca precedente la globalizzazione.Essi non tengono conto né dell’enormeaumento della frammentazione inter-

nazionale della produzione, che ridi-mensiona, in modo diverso fra paesi efra settori, l’incidenza sui prezzi del co-sto del lavoro interno, né del forte au-mento della diversificazione nella quali-tà dei prodotti e quindi dell’importanzadella concorrenza non di prezzo, checonsente prezzi più elevati rispetto aicosti, in particolare per i prodotti nonstandard dei paesi più ricchi.

Già nel 1998, il Bollettino mensile del-la Deutsche Bundesbank metteva inguardia da interpretazioni dell’andamen-to dei Clup relativi che non tenesseroconto della variazione dell’incidenza deibeni importati sulla formazione dei co-sti, e quindi dei prezzi. Con un ritardoculturale di circa sedici anni, si sta facen-do strada lentamente anche nelle analisidella competitività dell’economia italia-na la consapevolezza che l’importanzadell’indicatore Clup relativo deve essereridimensionata poiché per l’Italia indica-tori di prezzo relativo dei prodotti nonmostrano affatto il peggioramento ri-scontrato nei Clup relativi. Si parla or-mai apertamente, fra ricercatori apparte-nenti al Fondo Monetario Internaziona-le e alla Banca d’Italia, di «mistero» degliindicatori di competitività dell’Italia, di«puzzle» della competitività italiana,ecc. Sarebbe tuttavia assai arduo trovarequeste espressioni nelle dichiarazioni de-gli esponenti di queste istituzioni che ri-vestono un ruolo politico: una sorta diambigua, dannosa doppia verità.

Si deve dedurre da queste osservazio-ni che sarebbe sufficiente una significati-va espansione della domanda interna te-desca per far ripartire l’economia dei pa-esi periferici? Per quanto auspicabile,una soluzione di questo genere (peraltroimprobabile dal punto di vista politico)a nostro parere non andrebbe alla radicedella crisi e quindi alla lunga non sareb-be risolutiva.

In uno scritto pubblicato nel 2013, sia-mo partiti dall’idea che i persistenti disa-vanzi di parte corrente dei paesi della pe-riferia europea (Spagna, Portogallo, Ita-lia, Grecia) non possono essere spiegatidagli indicatori standard di competitivi-tà di prezzo: essi vanno esaminati alla lu-ce dei cambiamenti del modello econo-mico del paese-centro, la Germania.

Il sistema industriale tedesco ha pri-ma promosso e poi abilmente utilizzatol’allargamento a Est dell’Unione euro-pea riorganizzandosi attorno a due diret-trici: riforme del mercato del lavoro al-l’interno e decentramento di fasi dellaproduzione (offshoring) a Est. L’integra-zione di un mercato del lavoro internoduale (diviso fra lavoratori specializzatidelle industrie esportatrici e lavoratori ge-nerici, soprattutto dei servizi, questi ulti-mi maggiormente penalizzati dalle rifor-me Hartz), con un terzo mercato del lavo-ro, esterno, creato dalle operazioni di of-fshoring, ha contribuito a fornire beni in-termedi a bassi salari e prezzi. In Germa-nia, una crescita notevole della disegua-glianza salariale e della quota di lavorato-ri a bassi salari è stata accompagnata dauna compressione della domanda inter-na per consumi e investimenti. Questemodificazioni hanno comportato, fra l’al-tro, una riduzione degli effetti propulsiviesercitati dalla domanda tedesca sul red-dito dei paesi della periferia sud. In que-sti ultimi, le scelte scarsamente innovati-ve dei governi e la bassa crescita del-l’area euro non hanno aiutato a diversi-ficare la struttura produttiva e quindi glisbocchi commerciali, al contrario diquanto è successo invece ai paesi del-l’Est. Più che ai costi unitari, lo sviluppoeconomico di un paese è dunque asso-ciato a un processo di specializzazione ediversificazione, capace di allargare e in-tegrare la sua base produttiva. Ma l’espe-rienza di questo decennio ha mostratoche il meccanismo di mercato, unito aivincoli di Maastricht, tende ad accentua-re, piuttosto che a ridurre l’asimmetriadei saldi all’interno dell’Eurozona.

Un’intensificazione degli scambi fra ipaesi in deficit sembra la sola politica ca-pace di ottenere un riequilibrio intra-eu-ropeo persistente e sostenibile dei flussicommerciali senza dover ricorrere a unacompressione della domanda.

Allo scopo di specializzare e diversifi-care la base produttiva in questa dire-zione, sono necessarie politiche indu-striali e di commercializzazione a sup-porto della sostituzione delle importa-zioni, dell’upgrading e dell’espansionedelle esportazioni, nonché per la ricer-ca di aree di complementarietà con lestrutture produttive dei paesi dell’Euro-pa meridionale - e anche con paesinon appartenenti all’Ue, come quellidel Mediterraneo - capaci di assicurareun aumento del grado di multilaterali-tà degli scambi commerciali.

Michele De Palma

VENERDÌ 20 GIUGNO 2014SBILANCIAMO L’EUROPA

N˚21 - PAGINA III

Le colonne dei maggiori quoti-diani nazionali - il Sole 24 oreappare spesso meno ideologi-

co del Corriere della Sera - reggonola facciata di un palazzo svuotato,crollato. Le granitiche certezze del-le politiche di deregolamentazionedel mercato del lavoro, di riduzio-ne del salario, di flessibilizzazionedel mercato del lavoro e di privatiz-zazione avrebbero dovuto attirarecapitali stranieri capaci di fermarela distruzione del sistema indu-striale italiano.

Gli «amici sono alle porte», ci han-no ripetuto i presidenti del consiglioche si sono alternati: perchè potesse-ro varcare la soglia bisognava ridur-re la presenza dello Stato, falciare letutele dell’ambiente e dei lavoratori,tagliare la spesa pubblica e liberara-lizzare attività come la sanità in mo-do che la liquidità finanziaria potes-se scorrere, ridare vita ai rami secchidella nostra economia e farne ger-mogliare di nuovi.

È così? Quali crisi industriali sonostate risolte? Quanti gruppi multina-zionali hanno investito creando nuo-ve produzioni? Quale il saldo sull’oc-cupazione? Ed infine, siamo così si-curi che politiche nazionali possanooffrire possibilità di progresso?

Se vogliamo provare ad uscire dal-la crisi, queste domande dovrebbe-ro essere al centro di un confronto acarte scoperte tra istituzioni, impre-se, lavoratori e cittadinanza. Marce-gaglia, Ilva, Fiat, Alcoa, le aziendedell’elettronica, solo per guardare alsettore metalmeccanico, rappresen-tano ognuna in modo diverso ladeindustrializzazione del paese.Nei talk show ci viene detto di conti-nuo che la causa di tutto è l’assen-za di riforme. In verità di riformenella direzione auspicata da mana-ger - in giacca e cravatta o col ma-glioncino - da uomini e donne del-le istituzioni collocate a destra co-me a sinistra, da editorialisti edesperti ce ne sono state tante: l’art.8 di Sacconi sulle deroghe ai con-tratti e alle leggi, la riforma Fornerosulle pensioni, la modifica dell’art.18, il Jobs Act e da ultimo l’interven-to sulla pubblica amministrazione.Il fatto è che non hanno prodotto irisultati annunciati.

Di cosa avremmo bisogno? Di in-vestimenti pubblici e privati utili acostruire una società che offre lavo-ro e promuove la cittadinanza, chetutela la natura e i beni comuni.L’esempio più semplice è la mobili-tà. La vita media degli autobus in Ita-lia è superiore a 12 anni, il trasportopubblico su rotaia per i pendolari èquantitativamente e qualitativamen-te inadeguato, il mercato dell’auto

sempre più dominato dalle importa-zioni. C’è l’esigenza dei cittadini diuna mobilità pubblica e privata cheabbia un impatto ridotto sull’am-biente, e c’è la possibilità di realizza-re produzioni industriali che allar-ghino l’occupazione. Andiamo inquesta direzione? Nel piano indu-striale della Fca (la Fiat ormai dovre-mo chiamarla così) non sono statiannunciati modelli di automobilicon motori ibridi o elettrici. La pro-duzione di autobus pubblica vede ildisimpegno e la privatizzazione nel-le scelte del governo e quel che rima-ne del settore privato rischia di esse-re colonizzato. La produzione di tre-ni, neanche a dirlo, vede Finmecca-nica scegliere di vendere il settore ci-vile per rimanere coi piedi ben saldinel militare. È questa la visione delfuturo che abbiamo? In più, molteaziende che si erano collocate nelsettore della produzione «green»stanno ora chiudendo; lo stesso av-viene in un altro settore chiave co-me l’elettronica.

Invece di affrontare questi proble-mi di fondo, si indugia sulla flessibi-lizzazione in entrata ed in uscita,vengono distrutti posti di lavoro, sifanno accordi tra organizzazioni diimprese e sindacali che permetto-no deroghe alle norme e al salario,si ignora l’esigenza di tutela del red-dito nelle iniziative contro la disoc-cupazione. Un ruolo centrale può edeve averlo chi lavora. Serve costru-ire programmi di investimento af-fiancati da formazione, ricerca e in-novazione, intrecciando nuove pro-duzioni possibili e domanda dellacittadinanza.

Dal 2008 i metalmeccanici Fiomprovano a non farsi rinchiudere nelrecinto corporativo dell’aziendali-smo e si sono messi alla ricerca dichi vuole condividere un’idea dicambiamento. Abbiamo moltiplica-to gli incontri, in Europa e nel mon-do, con altri soggetti, sindacati edesperti, le iniziative comuni con as-sociazioni e movimenti: un tentati-vo di opporsi alle tendenze in atto,di resistere agli effetti della crisi.Ora la sfida è costruire una coalizio-ne tra chi lavora, chi è precario, chiricerca, chi studia, che in Europasia capace di sfidare la classe diri-gente. Nonostante i fallimenti – lacrisi, l’austerità - continuano a deci-dere loro. È una strada difficile, per-chè l’élite decide in fretta, crea fatticompiuti, fa a meno della democra-zia. Dalla storia degli ultimi anni, inparticolare in Italia, bisognerebbeimparare che non basta aver ragio-ne, o pensare di averla, per costrui-re il consenso e intraprendere unconflitto. La democrazia non accet-ta scorciatoie. Sindacati, movimen-ti, associazioni, dovrebbero esserneconsapevoli. *Fiom Cgil

Fiat, Ilva e le altrel’agenda del lavoroServono programmi di investimentoaffiancati da ricerca e formazione.Un esempio? Il settore della mobilità

Andrea Ginsburg,Annamaria Simonazzi

L’Europa in crisie il (falso) misterodella competitivitàCome dimostra la Germania, lo sviluppo economicodipende dalla specializzazione della produzione

Page 4: Sbilanciamo l’Europa - · PDF filecondivisa che il costo del lavoro non costituisce solo, se molto ele-vato,unfattorediperditadicom-petitività ma anche, ... Sbilanciamo l’Europa

In poco più di due anni, da settem-bre 2011 a fine 2013, in Italia i creditibancari sono diminuiti di oltre il

10%, ovvero di 96 miliardi di euro, unacaduta ancora più rapida della contrazio-ne del Pil. La tendenza dovrebbe prose-guire almeno per tutto il 2014. Nello stes-so momento, le sofferenze bancarie (ov-vero la percentuale di prestiti che nonvengono rimborsati) hanno superato i160 miliardi di euro, una cifra che rad-doppia se consideriamo anche i creditideteriorati (quelli non ancora in soffe-renza ma con sostanziali problemi dirientro).

Una fotografia a dire poco preoccu-pante delle banche italiane, e con evi-denti ricadute sul sistema economico: lacontrazione del credito aumenta le diffi-coltà delle imprese, quindi le sofferenze,il che porta le banche a chiudere ulterior-mente i rubinetti, in una spirale che siauto-alimenta.

Non è unicamente la lunga recessio-ne o il declino produttivo a causare talidifficoltà. Le banche italiane hanno unabassa redditività e costi fissi eccessivi. Suquest'ultimo dato, basti pensare al nu-mero di sportelli e filiali aperti negli ulti-mi anni e che, complice la crisi da unaparte e lo sviluppo di tecnologie qualil'internet banking dall'altra, porta moltiistituti a essere sovra-dimensionati intermini di presenza sul territorio rispet-to agli attivi. Ancora, molte banche sono

chiamate a migliorare i propri coefficien-ti patrimoniali anche in vista dell'entra-ta in vigore di Basilea III (l'accordo sulleregole per limitare il rischio bancarioche dovrebbe andare a regime nei prossi-mi anni). Aumentare i coefficienti patri-moniali significa o rafforzare il capitalesociale, cosa decisamente non facile inquesto periodo, o specularmente dimi-nuire gli attivi, ovvero andare a tagliarealcune linee di credito giudicate più ri-schiose o meno remunerative.

Discorsi che prescindono da compor-tamenti «allegri» - o peggio - tenuti da al-cuni istituti negli scorsi anni, con presti-ti eccessivi a settori come quello dell'edi-lizia oggi in profonda crisi, se non agliamici degli amici o ai «furbetti del quar-tierino» di turno.

Dopo lo scoppio della bolla dei crisi su-bprime e la crisi finanziaria globale si èdetto che le banche italiane «facevano lebanche», finanziavano l'economia realee non avevano raggiunto gli eccessi delleloro omologhe estere. Se questo discor-so può essere condivisibile (con alcunenotevoli eccezioni), paradossalmenteproprio l'essere ancorate alla «economiareale» oggi in profonda recessione costi-tuisce un ulteriore elemento di debolez-za del nostro sistema bancario. Di fatto,se gli ultimi bilanci hanno chiuso permolte banche in attivo o comunque di-gnitosamente, questo è dovuto principal-mente alla liquidità messa a disposizio-ne dalla Banca Centrale Europea (Bce) eal suo impiego in acquisto di titoli di Sta-to, in particolare finché lo spread era più

elevato: mi indebito all'1% e compro Btpche rendono il 5% o più. Perché dovrei ri-schiare erogando credito a tassi simili afamiglie e imprese?

Non che su scala europea le cose sia-no migliori, anzi: il settore bancario euro-peo è ipertrofico e estrae dall'economiaper lo meno quanto apporta. A dirlo nonè una qualche organizzazione movimen-tista ma lo European Systemic Risk Bo-ard, un'agenzia europea creata nel 2009per la vigilanza sul sistema finanziario.In uno studio pubblicato nei giorni scor-si e intitolato Is Europe Overbanked? silegge che «secondo tutti gli indicatori, ilnostro paziente ha un peso abnorme» esoprattutto che «il sistema bancario eu-ropeo ha raggiunto una dimensione taleper cui il contributo marginale alla cre-scita economica è probabilmente nulloo negativo». Quali sono le risposte a talisituazioni? In Italia si è parlato di una«bad bank» ovvero di una struttura nellaquale fare confluire le sofferenze e i cre-diti deteriorati per pulire i bilanci dellebanche e fare ripartire il credito. Non èperò chiaro chi dovrebbe costituire tale«bad bank», con quali capitali e quali po-tenziali perdite. In Europa la Bce studia,

tra le altre cose, la possibilità di fornirenuova liquidità a basso costo alle ban-che, ma vincolandola all'erogazione diprestiti a famiglie e imprese.

Vedremo nel prossimo futuro se que-ste o altre misure riusciranno a invertirela rotta. Alcune potrebbero essere effica-ci per fare ripartire il credito nel breveperiodo. Allargando lo sguardo, però,parliamo di misure che sembrano pensa-te per mettere le toppe a un sistema inef-ficace quanto inefficiente e per uscire da

un'emergenza, non per cambiare il siste-ma ed evitare che tale emergenza possaripetersi. Mentre i burocrati europei insi-stono a imporre austerità e sacrifici a Sta-ti e cittadini che hanno subito la crisi,aspettiamo ancora qualche indicazionesu come fare si che la finanza privatache l'ha causata venga finalmente mes-sa sotto controllo e torni a essere unostrumento al servizio dell'economia,una parte della soluzione e non come og-gi uno se non il principale problema.

A partire dalla crisi iniziata nel2008 si sono registrati nei paesiricchi numerosi scandali di natu-

ra finanziaria. Si è trattato di un’ondatache non è ancora passata e che ha coin-volto buona parte della grandi bancheinternazionali, alcune a più riprese. Indiversi casi sono stati toccati contempo-raneamente molti istituti. Qualcuno èarrivato a ipotizzare l’esistenza di unavera e propria associazione a delinque-re, tollerata o anche assecondata dai po-litici e dagli organi di controllo dei varipaesi. Questa ondata di scandali nonha sostanzialmente toccato le bancheitaliane, neanche le due più grandi, Uni-credit e Intesa San Paolo (anche se pro-prio in questi giorni la prima sembra es-sere marginalmente coinvolta in un’in-chiesta statunitense).

Gli scandali di provinciaSe negli ultimi anni il sistema banca-

rio italiano è risultato immune dagliscandali internazionali, esso è stato in-vece colpito al cuore da molti affari diprovincia: il Monte dei Paschi di Siena,la terza banca italiana in ordine di di-mensioni, la Banca delle Marche, laBanca Popolare di Milano, la Cassa diRisparmio di Ferrara, ed infine la Cari-ge di Genova e di Berneschi.

Si tratta in tutti i casi di istituti lea-der nel loro mercato di riferimento,che in teoria rappresentavano deipunti di forza dell’apparentementevirtuoso localismo imprenditoriale.

Cosa c’è in comune in questi casi?Intanto va sottolineato che la crisi

ha facilitato il venire a galla dei pro-blemi, dal momento che essa, com-portando bilanci sempre più risicatiper tutti, ha permesso sempre menodi nascondere i buchi nel grasso deiprofitti e dei flussi di cassa, come in-vece avveniva un tempo.

Per alcuni aspetti, peraltro, le banchenon potevano rimanere estranee allaforte crescita del livello di corruzioneche si è verificata in generale nel paese.

Un altro aspetto critico della gestio-ne bancaria è stata la norma che già damolti anni permette al-le banche di entrare nelcapitale delle imprese ealle imprese di entrarenel capitale delle ban-che, creando spesso del-le confusioni di ruolomolto dannose.

Sul piano operativo,in diversi casi i guaimaggiori sono venutidal fatto che i dirigentihanno convogliato mol-te risorse in attività im-mobiliari e speculativeche si svolgevano benlontano dai confini delproprio campanile, in-vece che verso le realtàlocali. A questo proposi-to, va ricordato che lebanche si trovano difronte ad un doppioproblema: per alcuniaspetti esse appaiono

troppo legate ai territori di riferimento,ma, non sapendo bene come esplorarealtri lidi, trascurano il loro orticello e ge-stiscono male anche il nuovo.

Su un altro fronte, sembra poi esser-si fatta meno lenta e più incisiva la vigi-lanza della Banca d’Italia. In parte ilmaggior zelo e la minor lentezza si pos-sono spiegare con l’approssimarsi del-la presa sotto controllo delle grandibanche europee da parte della BancaCentrale Europea e con l’avvio dei nuo-vi parametri di capitale di Basilea III. Inogni caso, qualche mese fa erano 12 lebanche commissariate da via Naziona-le e si vocifera di una quarantina di isti-tuti sotto esame. Peraltro, la Bancad’Italia da tempo richiede al governomaggiori poteri per poter rimuoverecon tempestività gli amministratori diuna banca, senza peraltro ricevere ri-sposte.

I casi dimostrano che il sistema dicontrappesi e di controlli interni all’in-terno dei vari istituti, nonostante tuttala letteratura sull’argomento, non han-no mai funzionato. Non parliamo poidel possibile controllo da parte dei me-dia. Forse anche l’azione della magistra-tura, che pure nel caso della Carige ve-de indagato qualcuno dei suoi membri,è ora diventata più attenta.

In tutti i casi segnalati appare eviden-te come i gruppi dirigenti bancari pro-pensi alla corruzione siano collusi condelle forze esterne, sia imprenditorialiche politiche.

Fa impressione, sul piano politico, ilruolo del Pd nelle vicende: partito in gra-do, in molte di queste realtà, di essereuna forza imprescindibile nelle decisioni

che riguardavano i vari istituti e che inve-ce nulla ha visto e nulla ha sentito in nes-suno dei casi. Sembra inverosimile chesi sia trattato solo di culpa in vigilando.

Per altro verso, la politica in generaleha accuratamente evitato di occuparsi at-tivamente delle vicende incriminate, re-gistrando inerte lo sviluppo delle vicen-de (quando non è stata chiamata diretta-mente in causa sul piano giudiziario).

I rapporti con il sistema produttivoGli scandali, che comportano come

conseguenze la ricerca affannosa dinuovi capitali per turare le falle, non-ché un ulteriore processo di concentra-zione nel settore, sono soltanto uno de-gli aspetti delle difficoltà attuali del no-stro sistema bancario.

Sul fronte dei rapporti con il mondoproduttivo, i dati mostrano che nel2013 è continuata la diminuzione, giàin atto negli anni precedenti, del livello

del credito erogato alle imprese (-5%) ei dati per i primi mesi del nuovo annoconfermano in qualche modo talitrend, anche se appaiono forse un po’meno drammatici.

La spinta alla riduzione viene dallebanche, ma anche dalle stesse impre-se. I livelli di redditività del sistema fi-nanziario si ridimensionano sia per lariduzione del volume del credito ero-gato che per la tendenziale diminuzio-ne dei margini registrabili tra tassi at-tivi e tassi passivi, in relazione alla ca-duta generale dei tassi di interesse.

Naturalmente le banche hanno cer-cato di compensare i buchi aumen-tando più che hanno potuto i ricavidalle commissioni, vecchia manovradel nostro sistema bancario. Ma inmancanza di idee nuove la soluzioneappare rabberciata, mentre appaiononon più sostenibili i costi della strut-tura organizzativa.

Il recente pacchetto di interventi an-nunciati dalla Banca Centrale Europea(Bce) comprende, al suo interno, finan-ziamenti al sistema bancario per 400miliardi di euro di durata quadrienna-le, a tassi molto attraenti, in qualchemodo legati al fatto che le banche lipassino poi almeno in parte al sistemadelle imprese («funding for lending»).Sembrerebbe una misura molto impor-tante per incoraggiare e spingere inparticolare l’economia dei paesi delSud Europa. Ma molte opinioni sullemisure prese non sono incoraggianti evalutano che esse potrebbero avere uneffetto solo modesto.

Dal lato delle banche, bisogna con-siderare che esse stanno cercando intutti i modi di ridurre i loro prestitiverso l’economia, in particolare quel-li più rischiosi, al fine di minimizzareil livello degli aumenti di capitale ne-cessari per adeguarsi alle nuove rego-le di Basilea e, per quanto riguarda gliistituti più grandi, anche per far fron-te ai nuovi controlli della stessa Bce.

D’altro canto, esse sono spaventatedalla continua crescita degli insolutie anche da questo lato sono spinte aridurre il credito alla clientela.

Contemporaneamente, dal lato del-le imprese, si è imposta di recenteuna spinta al deleveraging. Non sipuò così che registrare il fatto chemolte di esse stanno soprattutto cer-cando di ripagare i debiti già esistentie di finanziare gli investimenti quan-to più possibile con fonti interne. Inrelativamente poche pensano a chie-dere nuovi prestiti. Le stesse banche,del resto, sono più pressate a restitui-re i vecchi debiti con la Bce che a far-ne di nuovi. C’è una fuga generale daldebito.

Si è nella sostanza innescato un cir-cuito perverso da cui appare difficileuscire. Comunque, anche la Bancad’Italia, come la BCE, promette ora difare qualcosa per sostenere in partico-lare il sistema delle piccole e medieimprese. Vedremo.

VENERDÌ 18 APRILE 2014SBILANCIAMO L’EUROPAN˚13 - PAGINA IV

Provincia criminale,gli scandali localidelle banche italianeImmune dalle inchieste internazionali, il sistemabancario nazionale è stato colpito localmentecome dimostra il caso del Monte dei Paschi di Siena

VENERDÌ 20 GIUGNO 2014SBILANCIAMO L’EUROPAN˚21 - PAGINA IV

Andrea Baranes

Finanza privatafuori controlloNon solo recessione: gli istituti di creditohanno bassa redditività e costi fissi eccessivi

APPARE EVIDENTE COME I GRUPPI DIRIGENTI BANCARIPROPENSI ALLA CORRUZIONE SIANO COLLUSICON FORZE IMPRENDITORIALI E DI PARTITO.E FA IMPRESSIONE, SUL PIANO POLITICO, IL RUOLODEL PARTITO DEMOCRATICO NELLE VICENDE

Vincenzo Comito

IMMAGINIDA UNA RAPINADA QUATTROSOLDI, SCRITTOE ILLUSTRATODA FABIANNEGRIN.ORECCHIOACERBOMAGGIO 2007WWW.ORECCHIOACERBO.COM