Saper Morire Per Gian Domenico Borasio

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L’OSSERVATORE ROMANO pagina 4 giovedì 24 settembre 2015 Sul Marlowe di John Banville Chissà che avrebbe detto Chandler di GABRIELE NICOLÒ Chissà come avrebbe reagito Raymond Chandler nel vedere la sua folgorante creazione — il detective privato Philip Marlowe — resuscitata per mano dell’irlandese John Banville (che usa lo pseudonimo Benjamin Black) nell’indagine intitolata La bionda dagli occhi neri (Parma, Guanda, 2014, pagine 299, euro 17,50). L’impresa, di certo, non è delle più agevoli, dovendo l’autore misurarsi con uno dei più grandi scrittori di noir che, tra l’altro, ha fatto la felicità degli attori più celebri e dei registi più acclamati una volta che si decise di curare la trasposizione cinematografica delle opere meglio riuscite. Basti pensare a The big sleep (1946), per la regia di Howard Hawks con un indimenticabile Humphrey Bogart nel ruolo di Marlowe. Ebbene Banville supera l’esame a pieni voti, grazie a una scrittura al contempo scattante e raffinata, in grado di creare un’ammaliante atmosfera dove il crimine, la paura, la violenza, l’amore e l’odio s’intrecciano nel segno di una coinvolgente polifonia. Marlowe, si sa, è un duro: ne ha viste tante e ne ha passate tante. Eppure, anche perché sedotto dal conturbante fascino dalla bionda dagli occhi neri, si scopre quanto mai vulnerabile nella girandola di avvenimenti — in una ruvida Los Angeles resa rovente dalla calura estiva — che lo porteranno, più di una volta, di fronte al rischio di venire ucciso. Ma quella di Marlowe è una debolezza che conquista il lettore: lo rende infatti più umano, più credibile, nonché più disincantato e lucido al cospetto delle insidie che la vita sa tessere a discapito sia dei buoni che dei cattivi. L’intreccio è complesso, ma mai oscuro: alla fine risulta assai avvincente. Il detective è alla ricerca di un personaggio misterioso che si pensa sia morto ma che qualcuno ritiene aver visto camminare, di buon passo, lungo le vie di San Francisco. E intorno a questo elusivo personaggio fioriscono accadimenti legati, in filigrana, da un elemento comune: la solitudine della persona. Banville, per bocca del suo Marlowe, dispensa durante la narrazione perle di illuminante saggezza sui diversi aspetti, anche quelli solo apparentemente banali, dell’esistenza quotidiana. In realtà mai una volta la riflessione del protagonista si sofferma esplicitamente sulla solitudine. Ciononostante, la robusta impressione che si ricava, una volta terminata la lettura, è quella di un grande vuoto che avvolge i diversi attori della vicenda, dopo che sogni e speranze sono stati infranti. Ci sono, e certo non potevano mancare, vittime. Ma anche chi è riuscito a sopravvivere, ha perso qualcosa di importante: è morto, a suo modo. E, in questo senso, quello scritto da Banville è un noir con tutti i crismi. Chissà, allora, che cosa avrebbe detto Chandler se avesse seguito le vicende che scaturiscono, a ritmo incalzante, dalla magnetica presenza della bionda dagli occhi neri. Certo lo scrittore non era un giudice tenero: si dice infatti che avesse osato criticare, anzi sferzare, illustri colleghi del calibro di Doroty Sayers e Agatha Christie. Un discutibile libro sui progressi delle cure palliative Saper morire A una lettura attenta il volume lascia perplessi in vari passaggi Tanto da far temere persino che una così grande linearità e chiarezza siano veicoli efficaci di informazioni fuorvianti Edito da Deutsche Grammophon il nuovo cd della Cappella musicale pontificia La corale più antica Ciò che il Vaticano II chiede è una ricollocazione intelligente del repertorio storico Dispiace che chi si definisce «cattolico praticante» si riveli spesso lontano dall’amore di verità che dovrebbe invece contraddistinguere l’uomo di scienza Jacques-Louis David, «La morte di Socrate» (1787) di FERDINAND O CANCELLI Q uattro anni dopo l’uscita in lingua tedesca con il titolo di Über das Sterben è ora stato tradotto in italiano il libro di Gian Domenico Borasio, neurologo e palliativista, direttore della cattedra di medicina palliativa dell’Uni- versità di Losanna. Saper morire (Torino, Bollati Boringhieri, 2015, pagine 208, euro 16,50), così la traduzione del titolo, è ope- ra solo in apparenza semplice e dalla qua- le emergono molteplici intenti. Alternan- do casi clinici e parti esplicative, l’autore conduce alla scoperta del mondo della medicina palliativa dapprima esponendo- ne in modo lineare i principi e la pratica e successivamente addentrandosi nello spe- cifico di alcuni fra i più importanti e scot- tanti temi etici che ruotano attorno alla fase di fine vita. Il mistero anche biologico della morte, l’ospedalizzazione della stessa, i cambia- menti della moderna società, le paure dei malati e le pretese della medicina sono tra le tematiche che permettono a Borasio di spiegare con chiarezza le possibili rispo- nel panorama delle cosiddette “cure pal- liative integrali”. Il dottor Borasio più volte ripete che l’eutanasia dovrebbe restare vietata ma chiaramente si mostra favorevole al suici- dio assistito per quelle persone che «desi- derino avere un’alternativa migliore rispet- to al gettarsi sotto un treno o legarsi una corda al collo». Sorprende a questo pro- posito che chi come l’autore ha così a lun- go lavorato a contatto con i malati in fase avanzata di malattia non abbia percepito l’evidenza che il desiderio di morire suici- di in tali pazienti è ridottissimo. Sarebbe senza dubbio valsa la pena di sottolineare questo dato con forza e di dire chiara- mente che il fatto di proporre il suicidio assistito come una delle alternative possi- bili non fa altro che indurre i pazienti a farvi ricorso, illudendoli di mantenere il controllo fino alla fine sulla propria vita che stanno comunque inesorabilmente perdendo. Il fil rouge del controllo a tutti i costi fino alla fine pervade molte pagine del li- bro ma ciò che più dispiace è che chi nel- la biografia del risvolto di copertina si de- finisce «cattolico praticante» mostri poi la citazione tra virgolette dei due termini pesantissimi riferiti come in qualche modo pronunciati o scritti dal “Vaticano”, il dot- tor Borasio avrebbe dovuto, come poco dopo fa puntualmente con la citazione di un quotidiano, indicare il documento o la fonte. Se si pensa che in quei giorni terri- bili Lucetta Scaraffia scrivendo su questo giornale (La dignità della morte, 8 febbraio 2009) parlava di «toni esaltati ed esibiti, talora con accenti eccessivi (...) proprio quando sono così importanti la pacatezza e l’equilibrio», non si può non restare co- sternati nel constatare che quei toni esisto- no ancora nonostante i propositi di fac- ciata. L’occhio del palliativista può restare perplesso anche su altri passaggi. Si sotto- linea che occorre essere precisi quando si parla di “malato terminale” o di “fine vi- ta”. Borasio afferma ad esempio che «la nutrizione e idratazione artificiale nel fine vita non dovrebbe di norma essere effet- tuata» per garantire che il tutto avvenga nel modo «più naturale e sereno possibi- le» ma senza precisare in termini precisi cosa si intende per “fine vita” o “malato terminale”. L’affermazione, posta così, può essere pericolosa. Immagino uno dei miei studenti che potrebbe chiedermi se allora sia lecito non idratare o nutrire un paziente affetto da una neoplasia, ad esempio della laringe, incurabile: immediatamente lo porterei a riflettere sul fatto che tutto dipende dalla prognosi. Se la morte dipende dal fatto che non lo idratiamo o non lo nutriamo, e non dal fatto di avere un tumore incurabi- le, bisognerà considerare tale supporto. E ancora bisogna essere precisi, molto cauti e onesti quando si vuole parlare del prin- cipio del doppio effetto: l’autore lo fa, ma in modo piuttosto maldestro. Dopo averlo liquidato come una «con- gettura etica» da far risalire a san Tomma- so d’Aquino, Borasio, pur sottolineando che l’uso moderno dei farmaci rende tale principio quasi superfluo, dimentica com- pletamente che sessant’anni fa Pio XII in alcune risposte radiofoniche agli anestesi- sti in congresso considerava lecito sommi- nistrare analgesici ad alte dosi pur di leni- re il dolore dei sofferenti accettando il fat- to che la vita potesse esserne abbreviata. Non è quindi vero che «per decenni» ciò non fosse ritenuto lecito o almeno occor- reva dire che il Vaticano pareva in quel caso precorrere i tempi. nei fatti di essere spesso lontano dall’amor di verità che dovrebbe comunque contrad- distinguere l’uomo di scienza. A parte la completa dimenticanza della millenaria tradizione cristiana della meditatio mortis, sbrigativamente oggidì sostituita da ben più inconsistenti “spiritualità” a buon mercato, non si può non commentare quanto l’autore afferma a proposito del caso Englaro. Borasio scrive che «il Vaticano descrisse ripetutamente la richiesta del signor En- glaro di lasciare che la figlia (...) morisse di morte naturale in seguito all’interruzio- ne della nutrizione e idratazione artificiale come un “abominevole assassinio”». Vista «Spesso serpeggia la convinzione che la Chiesa cattolica, con la riforma della li- turgia voluta dal concilio Vaticano II, abbia rinunciato al suo grande patrimo- nio musicale» scrive Massimo Palom- bella nella presentazione del cd Cantate Domino. La Cappella Sistina e la musica dei Papi, registrato per la Deutsche Grammophon dalla Cappella musicale pontificia sotto la volta della Cappella Sistina. Il disco sarà in commercio dal 25 settembre. «Occorre però onestamente affermare continua il maestro direttore della Cappella musicale pontificia — che solo una conoscenza superficiale e ideologica della riforma liturgica può portare a tali gratuite affermazioni». E il nuovo cd, che sarà presentato nel pomeriggio del 29 settembre con un concerto nella Cappella Sistina, vuole contribuire a smentire questo pregiudizio. Tutta la musica contenuta nel disco è oggi usata regolarmente dalla Cappella musicale pontificia nelle celebrazioni del Papa, spiega Palombella. «Ciò che la riforma liturgica del Vaticano II chie- de è un’intelligente ricollocazione dello storico repertorio musicale nell’attuale liturgia, ricollocazione che deve avvenire con una “specifica attinenza celebrati- va”». Questo «esige — continua Palom- bella — riflessione, studio, conoscenza delle fonti e insieme serio dialogo con la cultura contemporanea per operare quella vitale sintesi che la liturgia in ogni momento storico ha attuato». La Cappella musicale pontificia, me- glio nota come Sistina, è la più antica istituzione corale del mondo e ha segui- to la vita liturgica del papato in tutti i suoi storici sviluppi. In un momento particolare del Rinascimento ha avuto tra i suoi cantori Giovanni Pierluigi da Palestrina, Luca Marenzio, Cristóbal de Morales, Costanzo Festa, Josquin De- sprès, Jacob Arcadelt e Gregorio Alle- gri. Il luogo dove ordinariamente la Cappella svolgeva il suo servizio era l’Oratorio annesso al Palazzo apostoli- co, fatto costruire da Sisto IV, noto co- me Cappella Sistina e famoso per gli af- freschi di Perugino, Pinturicchio, Signo- relli, Botticelli, Ghirlandaio, nonché per la parete di fondo con il memorabile Giudizio universale e la Volta di Miche- langelo. Proprio in questo Oratorio, spiega sempre Palombella presentando il cd, è stato eseguito tanto repertorio rinasci- mentale composto per le celebrazioni papali, repertorio scritto quindi per un preciso ambiente acustico assolutamente particolare e unico. Il disco si prefigge di riunire le più alte forme espressive del Rinascimento romano, cosa che si pone anche come un’interessante sfida per il recupero di una certa pertinenza estetica della vocalità rinascimentale co- me del canto gregoriano. «Infatti — continua il maestro Palom- bella — cantare nel luogo dove il Rina- scimento si è manifestato nella sua for- ma compiuta, in affreschi con intensi e insieme delicati colori, un repertorio scritto per la Liturgia — una realtà viva, che in ogni momento storico ha sempre operato una sintesi culturale — obbliga a ricercare con attenzione gli elementi del Rinascimento allontanandola decisa- mente da una visione in bianco e nero — tipica di molte esecuzioni del nord Europa — e da una tardo romantica, operistica, nella quale per molti, troppi, anni la Cappella musicale pontificia si è identificata, credendo di trasmettere ai posteri l’unico vero stile della scuola ro- mana». Anche per il canto gregoriano, mon- do complesso e denso oggi di tanti di- battiti talora anche sterili, chiosa Palom- bella, durante la registrazione del disco si è cercato di applicare la semiologia solo quando questa migliora il prodotto musicale attenendosi sempre e solo all’edizione ufficiale del Graduale roma- no, senza quindi operare la «restituzio- ne delle note». I brani musicali contenuti nel cd se- guono il cammino dell’Anno liturgico della Chiesa Cattolica, dal tempo di Av- vento alla preparazione alla Pasqua. Troviamo così l’introito gregoriano Ro- rate coeli e l’offertorio Ad te levavi (Pale- strina), tipici del tempo di Avvento; il Magnificat VIII toni (Orlando di Lasso) e l’antifona gregoriana Lumen ad revelatio- nem gentium alternata alla polifonia (at- tribuita a Palestrina) che caratterizzano il tempo di Natale, il mottetto Super flumina Babilonis (Palestrina), l’offerto- rio della Domenica delle Palme Impro- perium expectavi cor meum (Palestrina), il famoso Miserere di Allegri (nella versio- ne originale, secondo il Codice Sistino del 1661), il Graduale gregoriano Chri- stus factus est e la seguente versione po- lifonica di Anerio, il Popule meus (Da Vittoria) e l’Adoramus te Christe a voci pari (Palestrina), due brani che caratte- rizzano profondamente il tempo liturgi- co della Quaresima. estetici che costituivano essenzialmente questo particolare tipo di musica. Ciò ha condotto lentamente la Cappella musicale pontificia, in questi ultimi an- ni, all’eliminazione dei contralti, sosti- tuiti da un gruppo di tenori che canta da altus, con la conseguente applicazio- ne della regola rinascimentale del tra- sporto che permette a ogni voce di can- tare nella tessitura più consona e quindi con una vocalità leggera; all’uso di un tactus dinamico che, oltre ad assicurare un doveroso corretto rapporto tra prola- zioni, evidenzia plasticamente il testo; a un’attenzione meticolosa e orizzontale al fraseggio, che permette una sapiente articolazione dei suoni; all’uso degli “af- fetti” e delle “messe di voce”, aspetti estetici che, usati e disciplinati esclusiva- mente a servizio del testo, conferiscono vita, pulsazione, colore alla musica sacra re persino che una così grande linearità e chiarezza siano veicoli efficaci di informa- zioni discutibili. A partire dalla definizio- ne di cure palliative dell’O rganizzazione mondiale della sanità (Oms), riportata so- lo parzialmente ma senza dichiararlo, l’au- tore evita di scrivere ad esempio che tali cure intendono accompagnare il morente, secondo l’Oms, senza «né accelerare né ritardare il decesso». Manca così al lettore fin dall’inizio una pietra miliare per com- prendere l’estraneità alla medicina palliati- va di concetti come eutanasia o suicidio assistito, concetti che invece sempre più qualcuno vorrebbe forzatamente integrare ste, spesso sconosciute per la maggior parte delle persone, che i progressi delle cure palliative offrono. Nonostan- te il taglio più attinente all’area tedesca nella quale l’autore ha a lungo lavorato, le considerazioni sono quasi completamente aderenti an- che alla realtà italiana. Eppure, a una lettura at- tenta, il libro lascia in non pochi passaggi piuttosto perplessi, tanto da far teme- La copertina del cd

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Saper morire per Gian Domenico Borasio

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L’OSSERVATORE ROMANOpagina 4 giovedì 24 settembre 2015

Sul Marlowe di John Banville

Chissàche avrebbe dettoChandler

di GABRIELE NICOLÒ

Chissà come avrebbe reagito RaymondChandler nel vedere la sua folgorantecreazione — il detective privato PhilipMarlowe — resuscitata per manodell’irlandese John Banville (che usa lopseudonimo Benjamin Black) nell’indagineintitolata La bionda dagli occhi neri ( Pa r m a ,Guanda, 2014, pagine 299, euro 17,50).L’impresa, di certo, non è delle piùagevoli, dovendo l’autore misurarsi conuno dei più grandi scrittori di noir che, tral’altro, ha fatto la felicità degli attori piùcelebri e dei registi più acclamati una voltache si decise di curare la trasposizionecinematografica delle opere meglioriuscite. Basti pensare a The big sleep(1946), per la regia di Howard Hawks conun indimenticabile Humphrey Bogart nelruolo di Marlowe. Ebbene Banville superal’esame a pieni voti, grazie a una scritturaal contempo scattante e raffinata, in gradodi creare un’ammaliante atmosfera dove ilcrimine, la paura, la violenza, l’amore el’odio s’intrecciano nel segno di unacoinvolgente polifonia. Marlowe, si sa, èun duro: ne ha viste tante e ne ha passatetante. Eppure, anche perché sedotto dalconturbante fascino dalla bionda dagliocchi neri, si scopre quanto maivulnerabile nella girandola di avvenimenti— in una ruvida Los Angeles resa roventedalla calura estiva — che lo porteranno,più di una volta, di fronte al rischio divenire ucciso. Ma quella di Marlowe è unadebolezza che conquista il lettore: lo rendeinfatti più umano, più credibile, nonchépiù disincantato e lucido al cospetto delleinsidie che la vita sa tessere a discapito siadei buoni che dei cattivi. L’intreccio ècomplesso, ma mai oscuro: alla fine risultaassai avvincente. Il detective è alla ricercadi un personaggio misterioso che si pensasia morto ma che qualcuno ritiene avervisto camminare, di buon passo, lungo levie di San Francisco. E intorno a questoelusivo personaggio fioriscono accadimentilegati, in filigrana, da un elementocomune: la solitudine della persona.Banville, per bocca del suo Marlowe,dispensa durante la narrazione perle diilluminante saggezza sui diversi aspetti,anche quelli solo apparentemente banali,dell’esistenza quotidiana. In realtà mai unavolta la riflessione del protagonista sisofferma esplicitamente sulla solitudine.Ciononostante, la robusta impressione chesi ricava, una volta terminata la lettura, èquella di un grande vuoto che avvolge idiversi attori della vicenda, dopo che sognie speranze sono stati infranti. Ci sono, ecerto non potevano mancare, vittime. Maanche chi è riuscito a sopravvivere, haperso qualcosa di importante: è morto, asuo modo. E, in questo senso, quelloscritto da Banville è un noir con tutti icrismi. Chissà, allora, che cosa avrebbedetto Chandler se avesse seguito levicende che scaturiscono, a ritmoincalzante, dalla magnetica presenza dellabionda dagli occhi neri. Certo lo scrittorenon era un giudice tenero: si dice infattiche avesse osato criticare, anzi sferzare,illustri colleghi del calibro di DorotySayers e Agatha Christie.

Un discutibile libro sui progressi delle cure palliative

Saper morire

A una lettura attentail volume lascia perplessi in vari passaggiTanto da far temere persinoche una così grande linearità e chiarezzasiano veicoli efficacidi informazioni fuorvianti

Edito da Deutsche Grammophon il nuovo cd della Cappella musicale pontificia

La corale più antica

Ciò che il Vaticano II chiedeè una ricollocazione intelligentedel repertorio storico

Dispiace che chi si definisce«cattolico praticante»si riveli spesso lontano dall’amore di veritàche dovrebbe invece contraddistinguerel’uomo di scienza

Jacques-Louis David, «La morte di Socrate» (1787)

di FERDINAND O CANCELLI

Q uattro anni dopo l’uscita inlingua tedesca con il titolo diÜber das Sterben è ora statotradotto in italiano il libro diGian Domenico Borasio,

neurologo e palliativista, direttore dellacattedra di medicina palliativa dell’Uni-versità di Losanna. Saper morire ( To r i n o ,Bollati Boringhieri, 2015, pagine 208, euro16,50), così la traduzione del titolo, è ope-ra solo in apparenza semplice e dalla qua-le emergono molteplici intenti. Alternan-do casi clinici e parti esplicative, l’a u t o reconduce alla scoperta del mondo dellamedicina palliativa dapprima esponendo-ne in modo lineare i principi e la pratica esuccessivamente addentrandosi nello spe-cifico di alcuni fra i più importanti e scot-tanti temi etici che ruotano attorno allafase di fine vita.

Il mistero anche biologico della morte,l’ospedalizzazione della stessa, i cambia-menti della moderna società, le paure deimalati e le pretese della medicina sono trale tematiche che permettono a Borasio dispiegare con chiarezza le possibili rispo-

nel panorama delle cosiddette “cure pal-liative integrali”.

Il dottor Borasio più volte ripete chel’eutanasia dovrebbe restare vietata machiaramente si mostra favorevole al suici-dio assistito per quelle persone che «desi-derino avere un’alternativa migliore rispet-to al gettarsi sotto un treno o legarsi unacorda al collo». Sorprende a questo pro-posito che chi come l’autore ha così a lun-go lavorato a contatto con i malati in faseavanzata di malattia non abbia percepitol’evidenza che il desiderio di morire suici-di in tali pazienti è ridottissimo. Sarebbesenza dubbio valsa la pena di sottolinearequesto dato con forza e di dire chiara-mente che il fatto di proporre il suicidioassistito come una delle alternative possi-bili non fa altro che indurre i pazienti afarvi ricorso, illudendoli di mantenere ilcontrollo fino alla fine sulla propria vitache stanno comunque inesorabilmentep erdendo.

Il fil rouge del controllo a tutti i costifino alla fine pervade molte pagine del li-bro ma ciò che più dispiace è che chi nel-la biografia del risvolto di copertina si de-finisce «cattolico praticante» mostri poi

la citazione tra virgolette dei due terminipesantissimi riferiti come in qualche modopronunciati o scritti dal “Va t i c a n o ”, il dot-tor Borasio avrebbe dovuto, come pocodopo fa puntualmente con la citazione diun quotidiano, indicare il documento o lafonte. Se si pensa che in quei giorni terri-bili Lucetta Scaraffia scrivendo su questogiornale (La dignità della morte, 8 febbraio2009) parlava di «toni esaltati ed esibiti,talora con accenti eccessivi (...) proprioquando sono così importanti la pacatezzae l’equilibrio», non si può non restare co-sternati nel constatare che quei toni esisto-no ancora nonostante i propositi di fac-ciata.

L’occhio del palliativista può restareperplesso anche su altri passaggi. Si sotto-linea che occorre essere precisi quando siparla di “malato terminale” o di “fine vi-ta”. Borasio afferma ad esempio che «lanutrizione e idratazione artificiale nel finevita non dovrebbe di norma essere effet-tuata» per garantire che il tutto avvenganel modo «più naturale e sereno possibi-le» ma senza precisare in termini precisicosa si intende per “fine vita” o “malatoterminale”. L’affermazione, posta così,può essere pericolosa.

Immagino uno dei miei studenti chepotrebbe chiedermi se allora sia lecito nonidratare o nutrire un paziente affetto dauna neoplasia, ad esempio della laringe,incurabile: immediatamente lo porterei ariflettere sul fatto che tutto dipende dalla

prognosi. Se la morte dipende dal fattoche non lo idratiamo o non lo nutriamo, enon dal fatto di avere un tumore incurabi-le, bisognerà considerare tale supporto. Eancora bisogna essere precisi, molto cautie onesti quando si vuole parlare del prin-cipio del doppio effetto: l’autore lo fa, main modo piuttosto maldestro.

Dopo averlo liquidato come una «con-gettura etica» da far risalire a san Tomma-so d’Aquino, Borasio, pur sottolineandoche l’uso moderno dei farmaci rende tale

principio quasi superfluo, dimentica com-pletamente che sessant’anni fa Pio XII inalcune risposte radiofoniche agli anestesi-sti in congresso considerava lecito sommi-nistrare analgesici ad alte dosi pur di leni-re il dolore dei sofferenti accettando il fat-to che la vita potesse esserne abbreviata.Non è quindi vero che «per decenni» ciònon fosse ritenuto lecito o almeno occor-reva dire che il Vaticano pareva in quelcaso precorrere i tempi.

nei fatti di essere spesso lontano dall’amordi verità che dovrebbe comunque contrad-distinguere l’uomo di scienza. A parte lacompleta dimenticanza della millenariatradizione cristiana della meditatio mortis,sbrigativamente oggidì sostituita da benpiù inconsistenti “spiritualità” a buonmercato, non si può non commentarequanto l’autore afferma a proposito delcaso Englaro.

Borasio scrive che «il Vaticano descrisseripetutamente la richiesta del signor En-glaro di lasciare che la figlia (...) morissedi morte naturale in seguito all’i n t e r ru z i o -ne della nutrizione e idratazione artificialecome un “abominevole assassinio”». Vista

«Spesso serpeggia la convinzione che laChiesa cattolica, con la riforma della li-turgia voluta dal concilio Vaticano II,abbia rinunciato al suo grande patrimo-nio musicale» scrive Massimo Palom-bella nella presentazione del cd CantateDomino. La Cappella Sistina e la musicadei Papi, registrato per la DeutscheGrammophon dalla Cappella musicalepontificia sotto la volta della CappellaSistina. Il disco sarà in commercio dal25 settembre.

«Occorre però onestamente affermare— continua il maestro direttore dellaCappella musicale pontificia — che solouna conoscenza superficiale e ideologicadella riforma liturgica può portare a taligratuite affermazioni». E il nuovo cd,che sarà presentato nel pomeriggio del29 settembre con un concerto nellaCappella Sistina, vuole contribuire asmentire questo pregiudizio.

Tutta la musica contenuta nel disco èoggi usata regolarmente dalla Cappellamusicale pontificia nelle celebrazionidel Papa, spiega Palombella. «Ciò chela riforma liturgica del Vaticano II chie-de è un’intelligente ricollocazione dellostorico repertorio musicale nell’attualeliturgia, ricollocazione che deve avvenirecon una “specifica attinenza celebrati-va”». Questo «esige — continua Palom-bella — riflessione, studio, conoscenzadelle fonti e insieme serio dialogo conla cultura contemporanea per operarequella vitale sintesi che la liturgia inogni momento storico ha attuato».

La Cappella musicale pontificia, me-glio nota come Sistina, è la più anticaistituzione corale del mondo e ha segui-to la vita liturgica del papato in tutti isuoi storici sviluppi. In un momentoparticolare del Rinascimento ha avutotra i suoi cantori Giovanni Pierluigi daPalestrina, Luca Marenzio, Cristóbal deMorales, Costanzo Festa, Josquin De-sprès, Jacob Arcadelt e Gregorio Alle-gri. Il luogo dove ordinariamente laCappella svolgeva il suo servizio eral’Oratorio annesso al Palazzo apostoli-co, fatto costruire da Sisto I V, noto co-me Cappella Sistina e famoso per gli af-freschi di Perugino, Pinturicchio, Signo-relli, Botticelli, Ghirlandaio, nonché perla parete di fondo con il memorabileGiudizio universale e la Volta di Miche-langelo.

Proprio in questo Oratorio, spiegasempre Palombella presentando il cd, èstato eseguito tanto repertorio rinasci-mentale composto per le celebrazionipapali, repertorio scritto quindi per unpreciso ambiente acustico assolutamenteparticolare e unico. Il disco si prefiggedi riunire le più alte forme espressivedel Rinascimento romano, cosa che si

pone anche come un’interessante sfidaper il recupero di una certa pertinenzaestetica della vocalità rinascimentale co-me del canto gregoriano.

«Infatti — continua il maestro Palom-bella — cantare nel luogo dove il Rina-scimento si è manifestato nella sua for-ma compiuta, in affreschi con intensi einsieme delicati colori, un repertorioscritto per la Liturgia — una realtà viva,che in ogni momento storico ha sempreoperato una sintesi culturale — obbligaa ricercare con attenzione gli elementi

del Rinascimento allontanandola decisa-mente da una visione in bianco e nero— tipica di molte esecuzioni del nordEuropa — e da una tardo romantica,operistica, nella quale per molti, troppi,anni la Cappella musicale pontificia si èidentificata, credendo di trasmettere aiposteri l’unico vero stile della scuola ro-mana».

Anche per il canto gregoriano, mon-do complesso e denso oggi di tanti di-battiti talora anche sterili, chiosa Palom-bella, durante la registrazione del discosi è cercato di applicare la semiologiasolo quando questa migliora il prodottomusicale attenendosi sempre e soloall’edizione ufficiale del Graduale roma-no, senza quindi operare la «restituzio-ne delle note».

I brani musicali contenuti nel cd se-guono il cammino dell’Anno liturgicodella Chiesa Cattolica, dal tempo di Av-vento alla preparazione alla Pasqua.Troviamo così l’introito gregoriano Ro-rate coeli e l’offertorio Ad te levavi ( Pa l e -strina), tipici del tempo di Avvento; ilMa g n i f i c a t VIII toni (Orlando di Lasso) el’antifona gregoriana Lumen ad revelatio-nem gentium alternata alla polifonia (at-tribuita a Palestrina) che caratterizzanoil tempo di Natale, il mottetto Superflumina Babilonis (Palestrina), l’offerto-rio della Domenica delle Palme I m p ro -perium expectavi cor meum (Palestrina), ilfamoso M i s e re re di Allegri (nella versio-ne originale, secondo il Codice Sistinodel 1661), il Graduale gregoriano Chri-stus factus est e la seguente versione po-lifonica di Anerio, il Popule meus (D aVittoria) e l’Adoramus te Christe a vocipari (Palestrina), due brani che caratte-rizzano profondamente il tempo liturgi-co della Quaresima.

estetici che costituivano essenzialmentequesto particolare tipo di musica. Ciòha condotto lentamente la Cappellamusicale pontificia, in questi ultimi an-ni, all’eliminazione dei contralti, sosti-tuiti da un gruppo di tenori che cantada altus, con la conseguente applicazio-ne della regola rinascimentale del tra-sporto che permette a ogni voce di can-tare nella tessitura più consona e quindicon una vocalità leggera; all’uso di untactus dinamico che, oltre ad assicurareun doveroso corretto rapporto tra prola-zioni, evidenzia plasticamente il testo; aun’attenzione meticolosa e orizzontaleal fraseggio, che permette una sapientearticolazione dei suoni; all’uso degli “af-fetti” e delle “messe di voce”, aspettiestetici che, usati e disciplinati esclusiva-mente a servizio del testo, conferisconovita, pulsazione, colore alla musica sacra

re persino che una così grande linearità echiarezza siano veicoli efficaci di informa-zioni discutibili. A partire dalla definizio-ne di cure palliative dell’O rganizzazionemondiale della sanità (Oms), riportata so-lo parzialmente ma senza dichiararlo, l’au-tore evita di scrivere ad esempio che talicure intendono accompagnare il morente,secondo l’Oms, senza «né accelerare néritardare il decesso». Manca così al lettorefin dall’inizio una pietra miliare per com-prendere l’estraneità alla medicina palliati-va di concetti come eutanasia o suicidioassistito, concetti che invece sempre piùqualcuno vorrebbe forzatamente integrare

ste, spesso sconosciute per lamaggior parte delle persone,che i progressi delle curepalliative offrono. Nonostan-te il taglio più attinenteall’area tedesca nella qualel’autore ha a lungo lavorato,le considerazioni sono quasicompletamente aderenti an-che alla realtà italiana.

Eppure, a una lettura at-tenta, il libro lascia in nonpochi passaggi piuttostoperplessi, tanto da far teme-

La copertina del cd