Come morire

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Il primo capitolo di Come morire (prima di aprire un negozio di surf) di Silvano Scaruffi.

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Silvano Scaruffi vive a Ligonchio, un pic-colo comune abbarbicato sull’Appennino in provincia di Reggio Emilia.Ha dato alle stampe “La leggenda degli Aligonti” e “Devianti” a cura della Gold studio editrice. Con il manoscritto “I giocatori dell’Armageddon” (pubblicato dalla Effedue edizioni) ha partecipato al premio Urania ricevendo una nota di qualità dalla giuria.La saga “Jack & Daniel” e “ Jack & Daniel2. L’arte di ammazzarsi con le proprie mani.” Edito da Prospettiva edi-trice. Assieme a Massimo Zanicchi ha pubblicato l’antologia Avant Pop “Write Club” per Giraldi editore.Di prossima uscita il libro “La fossa del malcontagio” a cura di Elytra edizioni.

Quattro ragazzi cresciuti nel quartiere di Saint Kilda, sulle rive dell’Oceano hanno l’idea fissa di aprire un negozio di surf. Purtroppo non è facile racimolare i fondi per l’attività.Phil ex campione nazionale di surf si è ritirato dalle gare ed ora si professa un sensitivo delle onde e un integralista del surf. Mc Dermot, quasi laureando in medicina, lavora come infermiere all’ospedale e consegna cibo cinese porta a porta il fine settimana.Alan svolge lavoretti saltuari all’Oslo hotel, è in perenne crisi con la fidanzata.Eddie soffre sin da bambino di un disturbo bipolare.Tra giornate trascorse a surfare e serate di bisboccia i quattro si ritrovano un fine settimana da Alan per giocare la solita partita a poker.Eddie si presenta più ‘fatto’ del solito, ha uno zaino pieno di soldi; con quella somma potrebbero finalmente aprire il negozio, ma nulla di quello che fa Eddie è logico o onesto…

€ 10,00

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Come morirePrima di aprire un negozio di surf

di

Silvano Scaruffi

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ISBN 978-88-96340-028Prima edizione: febbraio 2009

© Tanit Snc - licenza CC [by-nc-sa] 3.0 unportedCollana Samekh

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Disordine bipolareEddy McNear

Da bambino tutti i giorni portavo da mangiare a Jefferson. Gli riservavo avanzi del pranzo che a lui piacevano tanto.

Dopo un mese che lo allevavo nello scantinato ricava-to nel sottoscala mi accorsi di quanto era cresciuto. Un giorno, spinto dalla curiosità, presi la vecchia bilancia di mamma. A fatica riuscii a buttarcelo sopra.

Quando lo avevo raccolto era piccolo, nero e appal-lottolato. Ora invece era forte e robusto. Merito della dieta, pensavo.

Mamma era solita sgridarmi ogni volta che mi sor-prendeva a svuotare un piatto nel sacchetto. Io mica le dicevo niente quando gettava le bucce delle mele sul fondo della gabbia del suo stupido pappagallo Roy, l’unico essere, per quello che ne so, in grado di strillare più forte di lei.

Jefferson era timido, quando aprivo la porta dello stan-zino e la luce filtrava da fuori, lui si schiacciava in un an-golo e raspava. Rovesciavo il contenuto del sacchetto a terra, poi lo chiamavo.

«Jefferson. Jefferson, vieni qua». Lui grattava ancora un po’ battendo il capo contro il muro, allora socchiudevo la porta e di nuovo lo chiamavo. Si avvicinava guardingo e iniziava a mangiare. Tritava persino le ossa.

Era una forza, ancora oggi penso che trovarlo sia stata una fortuna, giaceva in mezzo alla strada, una macchina lo avrebbe travolto. Nel sottoscala cresceva bene, man-giava, beveva acqua dalla ciotola, si rannicchiava nel suo angolo preferito e se ne stava perennemente al buio.

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Un giorno, a scuola, quell’idiota di Nick Valenzi mi ha tirato una testata dritta sul naso. Nick Valenzi non faceva che vantarsi di quanto fossero forti e feroci i pit bull di suo padre. Di quei molossi, il padre di Nick ne possede-va quattro. Ricordo ancora i nomi: Maya, Hudrey, Kurt e Saw, il favorito di Nick.

Nick raccontava a un gruppetto di ragazzi di un’ag-gressione del suo Saw.

«Una volta Saw è saltato alla gola di un tizio che era venuto a casa mia per vendere bibbie. Uno di quegli idioti che suonano a tutte le porte sperando di venderti la paro-la di dio rilegata in cuoio».

«Dicci di come l’ha assalito». Lucas era il tirapiedi di Nick; lo seguiva ovunque come se gli fosse stato imbullo-nato alle chiappe.

«Il bibbiaiolo ha aperto il cancello». Nick parlava, c’era-no anche un paio di ragazzine che lo fissavano assorte mentre fumava una sigaretta. «Ha risalito il vialetto come se non avesse letto i cartelli che avvertono della presenza dei cani, mio padre li chiama le quattro bufere».

«Ma non erano tre le bufere?» Lo dissi… non so ancora adesso il perché, tanto per rompergli le palle. Lo odiavo perché tutti dicevano che era un duro, ma soprattutto lo odiavo quando raccontava dei suoi cani.

Nick mi ha guardato come se avessi due nasi e mi ha chiesto: «E tu chi cazzo sei?».

Avrei voluto andarmene, le ragazze sorridevano a quel bulletto, Lucas era pronto a fare giustizia senza che il “capo” si sporcasse le mani. E io c’ero troppo dentro per fare un dietrofront. «Sono uno a cui stanno sulle palle i tuoi merdosi cani». Mi è uscito così, è stato come dare un calcio a una tigre e poi mostrarle i denti per essere sicuro che ti aggredisca.

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Pack!Nick Valenzi non ci ha pensato su, nessuno poteva az-

zardarsi a rompergli le palle nel mezzo di un simposio sulle sue fiere domestiche. Mi ha colpito, il sangue è cola-to piano dal naso, ma non me lo ha rotto. Sono volato al tappeto tra le risate generali.

Tornato a casa mi sono infilato dritto nello stanzino di Jefferson, lui mi è venuto incontro camminando lungo il muro. Pensava gli avessi portato da mangiare.

A quei tempi spesso mi chiedevo se mi volesse bene, mi fosse grato per avergli salvato la vita e averlo alleva-to; io di bene gliene volevo parecchio. Non aveva mai un cazzo da lamentarsi, mai ti rompeva le palle parlando dei suoi problemi, mai testate sul naso e mai gridava.

Quel giorno, seduto accanto a Jefferson al buio, ascol-tavo mia madre di sopra che strillava come un’aquila. Te-lefonava ai vicini, poi avrebbe chiamato la scuola, pensa-va non fossi tornato a casa. Pensava… e strillava… mia madre non pensava, gridava e basta.

Se non ricordo male, è stato il giorno che Nick Valenzi mi ha picchiato sul naso che ho pensato che Jefferson si sarebbe meritato di uscire qualche volta. Ho deciso che dovevo procurarmi un guinzaglio, una catena o qualcosa del genere, mi sarebbe servita anche una paletta e il sac-chetto per metterci dentro le cagate che avrebbe sparato sui marciapiedi.

Mia madre non voleva smetterla di urlare, era dal gior-no che se n’era andato mio padre che lei gridava. Urlava a me, al postino quando consegnava le bollette, strepita-va quando i giornali e i campioncini della Dawson’s non entravano nella buca delle lettere e il corriere li lasciava a terra davanti la porta. Strillava al supermercato, se c’era la fila alla cassa, o i suoi biscotti preferiti erano sullo scaffale

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sbagliato, se lo sconto che aspettava sul pesce era scaduto il giorno prima. Per quello che ne posso sapere, strillava anche quando andava di casa in casa a fare le dimostra-zioni delle creme Dawson’s.

Jefferson era riuscito a scollare una mattonella sul fondo dello stanzino. Voleva uscire, e presto lo avrei accontentato.

Più tardi mia madre si mise a strepitare al telefono con mio padre, era pomeriggio inoltrato e io non ero a casa. Con lui ululava più forte, per farlo sentire in colpa. Se ne era andato da due anni. Era uscito una sera che lei sbraita-va. Dopo una settimana mia madre era spuntata in camera mia e si era messa a spiegarmi che lei e papà avevano biso-gno dei loro spazi, che lui mi sarebbe venuto a trovare una volta al mese, che ci avrebbe mandato i soldi per le spese; è andata avanti così per un pezzo, “vedi Eddy il papà ha de-ciso di prendere un’altra strada, ma lui ti vuole bene come prima” e bla bla bla, il solito pezzetto teatrale. Lo aveva ca-pito anche Jefferson che, in realtà, mia madre aveva scoper-to che Paul McNear, mio padre, si sbatteva allegramente la sua segretaria e che se l’era perfino portata al mare un paio di weekend. Ho fatto finta di niente. Sono stato lì a inghiot-tire le sue storielle sapendo che la verità era tutt’altra. Non volevo contraddirla, non avevo voglia di altri strilli.

Sono entrato in casa che erano quasi le sette di sera, avevo un grosso ematoma tra il naso e la fronte. Mia ma-dre mi ha spedito a letto senza cena. Più tardi, quando lei dormiva sul divano davanti alla televisione, sono tornato a trovare Jefferson, gli ho portato una decina di biscotti. Li sgranocchiava con calma, come faceva sempre. Mi rende-va tranquillo guardarlo nella penombra.

Deve essere stato circa un mese dopo che è successo tut-to. Avevo combinato altri casini a scuola, Nick Valenzi una

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volta mi aveva inseguito fino a casa con il suo cane Saw al guinzaglio; per fortuna non lo aveva liberato, mi avrebbe sbranato. Correvo e buttavo occhiate indietro, non vedevo altro che i denti di quella bestia sempre più vicini e sentivo gli schiamazzi di Nick e Lucas.

Quando io e un mio compagno avevamo bruciato una fila di spogliatoi di legno a Combo Bay, ho visto per la pri-ma volta un poliziotto incazzato nero gridarmi che ero solo un teppista. Quell’imbranato che era con me aveva spento male la sigaretta che stavamo fumando di nascosto dopo aver fatto il bagno. La fila di spogliatoi si era incendiata in quattro secondi, come fossero stati impregnati di benzina.

In quei giorni mi hanno sottoposto alla prima visita dal dottor Guzman. Mi ha fatto un sacco di domande, alla fine mi girava la testa. Mia madre se ne stava zitta seduta ac-canto a me annuendo a ogni domanda del dottore. Dopo qualche altra visita, l’idiota in camice bianco ha senten-ziato che potevo soffrire di un leggero disturbo bipolare o un disturbo maniaco depressivo. Ha assicurato che se ne erano scoperte le cause, che si trattava di un difetto di un gene che codifica una proteina coinvolta nella costruzione delle connessioni tra i neuroni, mi ha ordinato delle pa-stiglie. Dopo la seduta ha raccomandato alla mamma di controllare se avevo episodi di allucinazioni o se tendevo a confondere la realtà con la fantasia.

Una settimana più tardi la mamma mi comunicò la proposta che aveva ricevuto dalla Dawson’s. Le offrivano un ruolo, a detta sua, molto vantaggioso. In pratica si trat-tava di fare l’assistente personale di un rappresentante. Quella era la parte buona, non ne avrebbe mai accennato se dietro non ci fosse stato qualcos’altro. La prima brutta notizia: il lavoro era a Melbourne, ci saremmo trasferiti da lì a un mese, giusto al termine delle lezioni scolastiche.

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La seconda brutta notizia: il rappresentante del quale mia madre era la segretaria personale era Donald Jarmush, il suo amante, l’omuncolo che ha vissuto con noi fino a che non me ne sono andato di casa.

Un pomeriggio gironzolavo per Sidney senza una meta precisa quando mi sono ritrovato davanti a una ferramen-ta. Mi ci sono infilato senza sapere cosa cercassi esatta-mente. Pochi minuti e sono uscito con una robusta catena lunga un paio di metri e un anello alla fine.

Prima di tornare a casa sono passato da un campo gio-chi dove sapevo che Nick e Lucas trascorrevano i pome-riggi a fumare e fare gli idioti con le ragazze. Ho affronta-to Nick dicendogli che avrei voluto far combattere il suo Saw con Jefferson. E siccome lui mi era apparso abbastan-za stupito di fronte alla mia determinazione, mi sono fatto prendere la mano e l’ho spronato a portare anche l’altro cane, Kurt. L’appuntamento era in quello stesso campo giochi alle undici di sera.

Una volta a casa, mi sono ritrovato su una montagna rus-sa di emozioni, mi sentivo un bel po’ euforico ma al tempo stesso mi maledicevo per aver combinato la stronzata più grossa di tutti i tempi: i cani si sarebbero mangiati Jefferson, dopodiché Nick e Lucas mi avrebbero pestato di nuovo.

Ero così preso da quei pensieri che, durante la cena, quando mia madre mi ha chiesto se più tardi sarei uscito a giocare con gli altri ragazzi per strada e mi ha raccoman-dato di non combinarne una delle mie e stava per strillare rammentandomi la bravata degli spogliatoi bruciati, io pacifico le ho detto che quella sera avrei portato Jefferson a fare un giro.

Lei mi ha squadrato più che stupita. «Eddy, dovremmo pensare a chi lasciare il tuo Jefferson quando andremo a Melbourne».

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«Verrà con noi» ho protestato.Lei ha alzato la voce. «Diavolo, Ed! Ho già fin troppe

preoccupazioni, il trasferimento, organizzare il trasloco, il nuovo lavoro e il tuo cambio di scuola. Ci manca solo uno stupido cane a complicare le cose!»

«Ma Jefferson non è un cane» ho sussurrato alzandomi e uscendo.

Sono rimasto un paio d’ore nello stanzino con lui, mia madre non scendeva mai là sotto, era terrorizzata dai topi. Io non ne avevo mai visto uno.

Infilato l’anello in una zampa, ho provato più volte che non si sfilasse, poi gli ho parlato a lungo per prepararlo all’incontro. Quando si è fatto buio sono uscito con Jeffer-son alla catena. Era cresciuto ancora.

Al campetto non c’era nessuno, ma sarebbero arriva-ti. Ho legato Jefferson a una pianta; era felice, raspava nell’erba e scavava qua e là, fin dove la catena glielo consentiva. Nick è sbucato dal buio con i due cani al guinzaglio, sbavavano da schifo e quando mi hanno visto si sono fatti furibondi. C’era anche Lucas, me lo aspettavo.

«Dov’è il tuo stupido cane che la facciamo finita?»«Non è un cane, è Jefferson» ho sorriso a Nick e sono

andato a prenderlo.Al mio ritorno, tirava la catena come un matto, a fatica

lo tenevo. Nick e Lucas per poco non sono svenuti; i cani, che in un primo tempo ringhiavano famelici, si sono fatti indietro.

«Oddio ma quello è…» Lucas non credeva ai suoi oc-chi. Cazzo, erano mesi che lo allevavo, curandolo come fosse un bambino, era uno spettacolo.

«Questo è Jefferson» ho sentenziato, fiero del mio campione.

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Ripresosi dallo shock, Nick Valenzi ha sciolto i cani. Io ho lasciato andare la catena perché Jefferson era troppo forte. I cani gli si sono avvicinati con la coda fra le gambe, lo annusavano, poi uno dei due, non so se Saw o Kurt, ha provato a mordere una delle sue sei zampe.

Sapete cosa può fare uno scarafaggio di cinquanta chili a due stupidi cani? Con le tenaglie Jefferson ha tranciato la testa del cane che lo aveva morso. L’altro pit bull tenta-va di scappare, ma la corazza sulla schiena di Jefferson si è spalancata proiettando all’esterno ali trasparenti. Il mio coleottero ha spiccato il volo producendo un rombo simi-le a quello di un elicottero in decollo ed è atterrato sulla schiena del cane in fuga. Ho sentito solo un mugolio. Poi di nuovo il frullo di ali e Jefferson che se ne andava. Nick e Lucas stavano fuggendo e urlavano come pazzi.

Se ne era andato, e questo mi ha fatto male; ancora adesso, a venti anni di distanza, a volte penso al mio ami-co Jefferson, che mi ha ripagato di averlo salvato massa-crando quei due cani, e si è ripreso la libertà.

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Silvano Scaruffi vive a Ligonchio, un pic-colo comune abbarbicato sull’Appennino in provincia di Reggio Emilia.Ha dato alle stampe “La leggenda degli Aligonti” e “Devianti” a cura della Gold studio editrice. Con il manoscritto “I giocatori dell’Armageddon” (pubblicato dalla Effedue edizioni) ha partecipato al premio Urania ricevendo una nota di qualità dalla giuria.La saga “Jack & Daniel” e “ Jack & Daniel2. L’arte di ammazzarsi con le proprie mani.” Edito da Prospettiva edi-trice. Assieme a Massimo Zanicchi ha pubblicato l’antologia Avant Pop “Write Club” per Giraldi editore.Di prossima uscita il libro “La fossa del malcontagio” a cura di Elytra edizioni.

Quattro ragazzi cresciuti nel quartiere di Saint Kilda, sulle rive dell’Oceano hanno l’idea fissa di aprire un negozio di surf. Purtroppo non è facile racimolare i fondi per l’attività.Phil ex campione nazionale di surf si è ritirato dalle gare ed ora si professa un sensitivo delle onde e un integralista del surf. Mc Dermot, quasi laureando in medicina, lavora come infermiere all’ospedale e consegna cibo cinese porta a porta il fine settimana.Alan svolge lavoretti saltuari all’Oslo hotel, è in perenne crisi con la fidanzata.Eddie soffre sin da bambino di un disturbo bipolare.Tra giornate trascorse a surfare e serate di bisboccia i quattro si ritrovano un fine settimana da Alan per giocare la solita partita a poker.Eddie si presenta più ‘fatto’ del solito, ha uno zaino pieno di soldi; con quella somma potrebbero finalmente aprire il negozio, ma nulla di quello che fa Eddie è logico o onesto…

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