SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

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SAN FILIPPO RIDE E GIOCA GIUSEPPE DE LIBERO GLI ANEDDOTI DOTTRINA - INDIRIZZI - ESPERIENZE DI GIOIA SANA SOLUZIONI BRILLANTI GENIALI DELLE SITUAZIONI PIÙ VARIE E DIFFICILI NEL CORAGGIO E NELL'OTTIMISMO CRISTIANO UNA VIA FACILE DI SPIRITUALITÀ IN LETIZIA UN CONVERSARE BRIOSO FASCINATORE DI EDIFICAZIONE 1962 COLETTI EDITORE ROMA NIHIL OBSTAT P. Gaetano ANGILELLA Preposito della Congregazione dell'Oratorio. Roma - 3 Maggio 1982 IMPRIMATUR + Aroisius Card. Traglia Pro. Vic. Gen. S. S. E Vic. Urbis, die 21 maji 1962 NIHIL OBSTAT Aloisius M. Manzini barn. Romae, 18 maji 1962 « Voglio qui ringraziare vivamente la dott. Donna Angela Cantarelli delle Oblate di S. Francesca Romana, in Tor de' Specchi, in Roma, per la diligentissima collaborazione nelle varie correzioni del dattiloscritto, delle bozze di stampa e della redazione della presente opera ». CAPO I IL PRINCIPE DELLA GIOIA I cultori della gioia. Dacché mondo è mondo, la gioia in se stessa e nelle sue molteplici manifestazioni di riso, di gioco, di beffa, di spiritosità, di umorismo, di facezia, di arguzia, ha avuto, diciamo così, i suoi clienti. Senza un po' di gioia non si potrebbe vivere e tutti ne cerchiamo, almeno una stilla. In fondo la gioia è espressione di quella felicità alla quale tutti necessariamente tendiamo: essa è necessaria alla vita dello spirito come l'aria alla vita materiale. La gioia, oltre i clienti ordinari, e cioè tutti gli uomini, ha avuto i suoi cultori e questi sono tutti coloro che si sono dedicati a meglio conoscerla, a coltivarla, a potenziarla, a diffonderla, come un autentico bene ed a difenderla dai nemici che pur essa ha. Un editore coraggioso e geniale A. F. Formiggini, per esempio, nel 1922 iniziò la pubblicazione dei «Classici del Ridere » molto oppurtunamente e con grande successo, per consenso generale. Tutti questi cultori della gioia collaborarono più o meno a questa nobile missione, secondo la loro capacità e molti ne fecero un'arte, una attività dell'intera loro esistenza. S. Filippo ha superato tutti costoro di ogni tempo, di ogni luogo ed ha fatto una cosa nuova, quasi incredibile: ha vissuto la gioia per se stessa, ha sistemato, organizzato la su vita in funzione di gioia, anche nei suoi discepoli ed è divenuto perciò il maestro insuperabile, il principe di questa grande disciplina.

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Senza un po' di gioia non si potrebbe vivere e tutti ne cerchiamo, almeno una stilla.

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SAN FILIPPO RIDE E GIOCA GIUSEPPE DE LIBERO

GLI ANEDDOTI DOTTRINA - INDIRIZZI - ESPERIENZE DI GIOIA

SANA SOLUZIONI BRILLANTI GENIALI DELLE

SITUAZIONI PIÙ VARIE E DIFFICILI NEL CORAGGIO

E NELL'OTTIMISMO CRISTIANO UNA VIA FACILE

DI SPIRITUALITÀ IN LETIZIA

UN CONVERSARE BRIOSO FASCINATORE DI

EDIFICAZIONE

1962 COLETTI EDITORE ROMA NIHIL OBSTAT

P. Gaetano ANGILELLA

Preposito della Congregazione dell'Oratorio.

Roma - 3 Maggio 1982

IMPRIMATUR

+ Aroisius Card. Traglia

Pro. Vic. Gen. S. S.

E Vic. Urbis, die 21 maji 1962

NIHIL OBSTAT

Aloisius M. Manzini barn.

Romae, 18 maji 1962

« Voglio qui ringraziare vivamente la dott. Donna Angela Cantarelli delle Oblate di S. Francesca

Romana, in Tor de' Specchi, in Roma, per la diligentissima collaborazione nelle varie correzioni del

dattiloscritto, delle bozze di stampa e della redazione della presente opera ».

CAPO I

IL PRINCIPE DELLA GIOIA

I cultori della gioia. Dacché mondo è mondo, la gioia in se stessa e nelle sue molteplici manifestazioni di riso,

di gioco, di beffa, di spiritosità, di umorismo, di facezia, di arguzia, ha avuto, diciamo così,

i suoi clienti.

Senza un po' di gioia non si potrebbe vivere e tutti ne cerchiamo, almeno una stilla.

In fondo la gioia è espressione di quella felicità alla quale tutti necessariamente tendiamo:

essa è necessaria alla vita dello spirito come l'aria alla vita materiale.

La gioia, oltre i clienti ordinari, e cioè tutti gli uomini, ha avuto i suoi cultori e questi sono

tutti coloro che si sono dedicati a meglio conoscerla, a coltivarla, a potenziarla, a

diffonderla, come un autentico bene ed a difenderla dai nemici che pur essa ha.

Un editore coraggioso e geniale A. F. Formiggini, per esempio, nel 1922 iniziò la

pubblicazione dei «Classici del Ridere » molto oppurtunamente e con grande successo, per

consenso generale.

Tutti questi cultori della gioia collaborarono più o meno a questa nobile missione, secondo

la loro capacità e molti ne fecero un'arte, una attività dell'intera loro esistenza.

S. Filippo ha superato tutti costoro di ogni tempo, di ogni luogo ed ha fatto una cosa nuova,

quasi incredibile: ha vissuto la gioia per se stessa, ha sistemato, organizzato la su vita in

funzione di gioia, anche nei suoi discepoli ed è divenuto perciò il maestro insuperabile, il

principe di questa grande disciplina.

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La gioia pervade tutte le sue attività, tutti i momenti dell'esistenza ed è come un lievito che

agisce benefico in tutto il suo essere.

La sua gioia non sgorga a scatti o diversa in diversi momenti, ma fluisce a getto continuo

come una fonte. Nessun avvenimento esterno, anche doloroso, come le perdite, le

persecuzioni ed i dolori di ogni genere possono distruggerla o solo attenuarla o turbarla.

La stessa morte perde il suo aspetto lugubre alla sua presenza o al suo contatto e si riveste

di uno splendore come il sole.

Questo principato di gioia, per Filippo, è conosciuto da tutti e non è finito con la sua morte,

come finiscono tutti i principati, ma si è cambiato in un principato spirituale, in un'eredità e

permane anche oggi come una tradizione ferma, resistente ai secoli, alla maniera della gesta

di antichi eroi, immortalata in canti popolari che tutti ripetono.

Cultori o maestri di gioia, nelle varie espressioni, finiscono con la morte ed anche la loro

gioia svanisce oppure ne rimane il ricordo in carte che pochissimi conoscono.

Chi oggi ha cognizione de “La Secchia Rapita” che pure costò tanta fatica all'autore

Alessandro Tassoni? Chi conosce le poesie giocose di Guadagnoli e così le opere di comici,

satirici?

I letterati, i critici le vanno a scovare nelle biblioteche per farvi noiosi studi di critica e

anatomizzarle come i medici fanno dei cadaveri.

Gli studenti poi che debbono farne materia di esame, chi sa quante volte maledicono quella

comicità elaborata e artificiale e mandano accidenti a chi l'ha inventata.

La gioia di S. Filippo non è studiata, elaborata, nasce e cresce da sè e viene fuori alla più

piccola occasione, come un albero carico di frutti li lascia cadere al più lieve alito di vento.

Questa naturalezza della gioia in tutte le sue espressioni è anche quella che spiega, per la

maggior parte almeno, la gloria umana di S. Filippo.

S. Filippo è, certo, un grande santo ed ha fatto veramente opere straordinarie, ma sarebbero

ben pochi quelli che lo conoscerebbero, come è avvenuto di altri grandi santi, se non ci

fosse stata quella sua gioia e festività straordinaria.

Ci sono stati santi grandissimi come S. Bernardo, per esempio, ma chi lo conosce? Gli

uomini di chiesa, religiosi e religiose, cristiani studiosi: ma tutti costoro sono una

minoranza.

S. Filippo, entrando dappertutto col bagliore dei suoi giuochi, porta con sè tutto il resto.

La festosità per S. Filippo è come una nave che solca i secoli e ne perpetua la presenza nel

mondo.

Così egli che non cercava la gloria con le sue facezie, come gli scrittori profani, ma il bene,

ha avuto anche la gloria.

Coloro che han giocato e fatto ridere, per puri interessi umani, han visto finire gloria e

interessi.

Un poeta, un giovane e due morenti...

Diamo una prima prova di quanto veniamo dicendo, con alcuni esempi.

Johan Wolfango Goethe, grandissimo poeta, nacque il 1749, ben due secoli dopo Filippo:

era tedesco ed avrebbe dovuto essere di religione luterana, ma non sappiamo di preciso che

cosa credesse e se avesse una credenza: sicuramente credeva in se stesso.

I tedeschi poi sono brava gente, quando vogliono, ma vogliano o non vogliano, hanno gli

occhi della mente avvolti nelle tenebre nordiche, come dice lo stesso Goethe.

Or costui venne due volte in Italia e si fermò abbastanza anche in Roma, dove ebbe luogo il

suo incontro con Filippo: incontro ideale, spirituale ma intimo e vero.

La conoscenza della personalità di Filippo, del suo stile di vita contribuiscono grandemente

a disgelare la mente del tedesco, idolatra di se stesso, ed accendere il suo cuore.

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Egli lasciò ricordo, per i secoli futuri, di questo suo incontro spirituale col santo fiorentino e

romano, in un libro famoso.

In questo libro, egli tesse le lodi di Filippo con le più belle parole: dice che ha lasciato una

grande fama di sé e ch'è un santo che edifica e rallegra e noi, potremmo dire, che cambia le

persone...

Sapete come finisce il festoso e ammirato ricordo del santo? Il tedesco, il luterano, il

grand'uomo che venera se stesso, festeggia Filippo, il 26 maggio 1787 e lo elegge come suo

patrono.

Ora la testimonianza di un giovane, molto anteriore che, sotto un certa punto di vista, è

anche più importante perché nel giovane parla la natura umana.

Quando S. Filippo era nel pieno della sua attività, un giorno, un chierico non edificante, che

noi conosceremo meglio dopo, Marcello Ferro, entrò nella Chiesa della Minerva e

gironzolava curioso piuttosto che devoto.

Egli vede un altro giovinetto dal volto luminoso di bontà, gli si accosta e chiede

- Che fai qui? Aspetti qualcuno?

- Si, aspetto un certo P. Filippo da San Jeronimo: egli ci ha dato appuntamento qui ed io

sono uno dei suoi: fra poco egli verrà con altri.

Il giovane anonimo dà alcune informazioni su Filippo, sulla sua attività, sul suo amore per i

giovani e termina così: « Se tu lo conoscessi, gli parlassi, beato! » Le parole conclusive del

fanciullo sono come di un innamorato.

Filippo poco dopo arrivò, Marcello gli parlò, ne fu preso e diventò un figliolo spirituale di

Filippo, un suo seguace, un innamorato anche lui, per sempre.

Nel movimento suscitato da Filippo, c'entrava anche del canto, della musica, come vedremo

meglio dopo, ed uno dei cantori di Castel Sant'Angelo, un certo Bastiano o Sebastiano, che

cantava pure all'Oratorio di Filippo, si ammalò e moriva fra terribili paure.

E' chiamato il Santo al capezzale del morente e si presenta affabile sereno e dice, come

spesso usava, entrando: « che c'è, che c'è? ».

Bastarono queste poche parole di famigliarità per calmare il morente.

L'ammalato guardando Filippo in viso cominciò a gridare: «Viva il Padre Filippo, viva

l'Oratorio, benedetto il giorno che conobbi il P. Filippo... » «Oh! P. Filippo », invocava

lentamente, continuamente, lieto, Bastiano, e ringraziava. Preso poi come da un impeto di

gioia intonò una di quelle laudi, che si cantavano nell'Oratorio, di cui i versi più belli

dicono così

Gesù, Gesù, Gesù,

Ognun chiami Gesù.

Una vecchia piena di malanni, Caterina Corradina, se ne moriva anch'essa e come Filippo

lo seppe andò a visitarla: condusse alcuni cantori che intonarono una dolce canzone.

La vecchia giubilava ed in quel giubilo, poco dopo, chiudeva gli occhi e moriva.

Come la vecchia, come il musico ancor nel vigore degli anni, i figlioli spirituali di Filippo

passavano da questa vita all'altra, nella serenità, nella gioia come se la morte avesse perduto

il suo potere.

CAPO II

UN PICCOLO QUADRO

L'alba di un grande.

Prima di ascoltare Filippo nei suoi giochi e nelle sue facezie, bisogna che io vi dica qualche

cosa di lui, della vita: sarà un piccolo quadro ma necessario. Perché le nostre azioni, per

vederle bene, si debbono guardare nella persona, nella fonte.

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Molti fatti, staccati dalla persona, o non si comprendono o si comprendono male: inoltre,

certi episodi della vita hanno veramente un carattere comico, pur nell'apparente serietà, ma

questa comicità non si scorgerebbe, se non si avesse notizia della vita.

Diremo subito dunque che Filippo nacque a Firenze il 21 Luglio 1515 da buona famiglia..

Facciamo notare ancora, cosa molto importante, che era un ragazzo come gli altri, che

saltava, rideva, capace di fare quelle monellerie e di dire quelle impertinenze che ogni

ragazzo normale deve saper fare e dire, se non è ammalato o un poco scemo.

Ricordiamo qualche episodio in proposito: una volta il ragazzo trova un asino

momentaneamente incostudito, ci salta su, gli batte i piedi nei fianchi e lo mette in cam-

mino, piuttosto rapidamente: l'asino imbocca una porta, che non era quella dell'uscita, ma

della cantina.

La scalinata che metteva in giù era abbastanza lunga e l'asino e il piccolo Filippo

precipitarono e fecero un groviglio solo nella cantina: il ragazzo sotto, l'asino sopra.

I ragazzi sono elastici come la gomma: mentre quelli di famiglia, accorsi al rumore,

pensano che il buon monello sia stato schiacciato, ecco che egli balza come una palla, sano

e salvo.

Ecco un altro episodio di nuovo genere che mostra come nel piccolo ci fosse anche la

capacità di fare le monellerie non del tutto innocenti.

Un giorno, mentre Filippo leggeva presso la finestra, con una sorella più piccola di lui,

Lisabetta, ecco che una altra sorella, la maggiore, Caterina, che già faceva la mammina,

venne a rimproverarli, non sappiamo per quale ragione giusta o ingiusta.

Filippo, seguendo la vivacità del suo carattere e il suo primo impulso, avrebbe dato, forse, a

quella molesta più di un ceffone: l'educazione ricevuta però aveva avuto i suoi effetti ed

egli non poté fare a meno di darle uno spintone poco piacevole. Qui finiscono gli episodi di

qualche rilievo.

Andò a scuola Filippo e fu bravo, ma non del tutto per suo merito: Dio gli aveva dato

un'intelligenza acuta, pronta, luminosa.

Stette in Firenze fino ai 17 - 18 anni, e poiché le cose familiari non andavano bene

economicamente, partì per la cittadina che oggi chiamiamo Cassino e che allora si

chiamava San Germano, dove c'era uno zio cugino, Romolo, che faceva il commerciante,

aveva molti quattrini, era senza figli e senza nessuna speranza di averne.

Si era d'intesa che il giovane avrebbe fatto il commerciante come lo zio e ne sarebbe stato

l'erede.

E qui dobbiamo richiamare un episodio di profonda comicità, benché... patetico

nell'apparenza, e che ci mostra come il giovane avesse già un carattere, un'indipendenza,

uno spirito di fierezza.

Nel momento del commiato, sempre denso di commozione, Francesco, padre di Filippo,

non seppe far di meglio che spiegare un foglio, preso per l'occasione, e darlo al figlio con

un visibile senso di orgoglio: era l'albero genealogico del casato Neri.

Molto probabilmente Francesco avrà ricordato al figliolo il lontano antenato Giovanni che

fu notaio di grido, decorato di nobiltà e con uno stemma ben vistoso: avrà ricordato altri

antenati che, per le cariche occupate, ottennero il titolo di venerabili e così, pensiamo,

molte gloriuzze di famiglia.

Chi avesse fissato in viso il giovane, si sarebbe accorto che egli ascoltava le parole

orgogliose del padre con molta indifferenza.

Ed era veramente ridicolo vedere l'uomo tutto sussiego dire in sostanza: sono cose grandi

queste, figlio mio, e il figlio invece pensare: per me sono cose piccole e non me ne importa

niente.

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E che la situazione fosse questa, si rivela dal fatto che il giovane, non appena lo poté, senza

irritare il padre, prese l'albero... che non era davvero robusto, lo fece in tanti pezzetti e lo

consegnò al vento!

Una spedizione fallita.

L'avventura di S. Germano ebbe seguito, in un altro episodio, più comico ancora nella

sostanza.

Il viaggio per S. Germano fu una piccola spedizione ed anche un'avventura, alla ricerca di

una fortuna.

Arrivare a S. Germano, infatti, non fu piccola fatica, bisognando percorrere vie torte e

malagevoli, per un complesso di circa settecento chilometri.

Qui ci possiamo domandare: ma Filippo andava condvinto alla conquista dì una fortuna?

Pensiamo che andasse ma non convinto.

Il giovane che aveva riso della bagattella nobiliare, poteva aver mai aspirazione a qualche

cosa di più basso, come le ricchezze?

Comunque, poco dopo, il germe che egli aveva in cuore di un'aspirazione più grande,

crebbe, si nauseò di fare l'aspirante mercante e l'aspirante ricco, si presentò agli zii e disse

- Cari zii, mi dispiace, ma debbo dirvi che io vi lascio e vado via...

- Ma che sei pazzo? Vuoi rinunciare ad un avvenire? - Non m'importa! (Ma ciò era detto

nel cuore).

- Guarda questa casa, tutta questa mercanzia e pensa ai danari che ho al banco: è tutta roba

tua.

- Non m'importa! (Sempre nel cuore). - E dove vuoi andare? A fare che cosa? - Non

v'importa! (Sempre nel cuore).

- Pensa, disse qui probabilmente, la zia, intervenuta molto opportunamente ad aiutare il

marito, pensa che più in là, perché ora sei troppo giovane, ti cercheremo una bella e brava

ragazza e ti sposerai e sarai felice!

- Risata (nel cuore).

- Avvisiamo, riprese qui lo zio, poiché il giovane non mostrava minimamente di

persuadersi, i tuoi di Firenze, tuo padre, le tue sorelle.

- Non occorre! (ancora nel cuore).

Il dialogo finì male e, forse, zii e nipote non si salutarono neppure: egli partiva come un

colpevole.

Quando Filippo fu sulla via, avrà detto probabilmente finalmente) Ero stufo.

Si mise così allegramente sulla via di Roma come uno che andasse a festa.

Quando quelli di Firenze, Francesco, le sorelle i parenti tutti seppero la notizia, non avranno

mancato di dire, nello stupore e nello sdegno, secondo la logica comune che stupido quel

Pippo! Non poteva fare una bestialità più grande.

Una carriera bellissima. Completiamo i brevi cenni biografici, per i curiosi. Arrivato a Roma, Filippo si dette ad una

vita austerissima ma non segregata dal mondo: impartiva lezioni ai due figlioli di un

fiorentino, che l'aveva ospitato, un certo Galeotto Caccia, uomo nobile di cuore e di nascita,

direttore delle imposte pontificie in Roma e personaggio molto in vista e ben provvisto di

quattrini.

Nella città eterna il giovane compì cose meravigliose, nella lunga vita che vi condusse fino

al 1595, quando morì all'età di ottanta anni ed acquistò una celebrità universale.

Compì opere grandiose, ma di ciò s'informi chi vuole, in altri libri.

Fu la sua una carriera bellissima, per parlare al modo di dire del mondo.

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Fin da principio però, egli non si limita ad impartire lezioni ai due figli del nobile Caccia

con i quali, naturalmente, avrà riso e giocato, ma si mette subito tra i giovani più o meno

sviati, o addirittura scapestrati ed esercita un apostolato meraviglioso tra loro.

Tale apostolato però ha già uno stile, che sarà quello di tutta la sua vita: rideva, giocava con

i giovani, senza distinzione di persona o di luogo, per le botteghe e nelle vie, e faceva gara

di botte e risposte, ma alla fine trovava sempre il modo di dare un avvertimento, un

consiglio buono ai suoi compagni improvvisati, mettendoli sulla via di una gioia sempre più

grande.

Ciò, tuttavia, senza darsi l'aria di missionario o di padre spirituale ma in una maniera

scanzonata, nel carattere dei giochi.

Divenne presto un capo tra questi compagni, costituì un centro di attività ed arrivò a creare

un movimento. Studiò contemporaneamente teologia e filosofia ed arricchì la sua mente di

belle cognizioni: se non fu un dotto, fu un uomo che sapeva il fatto suo, meglio di certi dot-

tori con tanto di laurea.

Il segreto del suo successo fu sempre quello della sua ricchezza di riso e di gioia, che gli

ardeva nel cuore come una lampada inestinguibile.

A stare con lui, si godeva e questo fu il potere di tutta la sua vita.

Genialità.

Questa carriera bellissima però, avvolta sempre in un alone di gioia, raggiunse la genialità e

pervenne ad orizzonti nuovi, nel progresso dello spirito.

La genialità di S. Filippo si palesò nell'organizzare tutta la vita in letizia, nel superamento

del pessimismo, della paura, dello scoraggiamento, di ogni male e di ogni viltà.

Egli, pertanto, introdusse nel mondo un nuovo costume di perfezione, di santità: aprì una

nuova via all'ascetica.

E qui osserviamo un fenomeno che si trova in tutte le grandi figure storiche: la maggiore

qualità che essi possiedono non lascia vedere le altre, che pure ci sono, perché meno

luminose, come il sole che, in pieno giorno, oscura le stelle talmente come se non ci

fossero.

Gli esempi sono innumerevoli: San Francesco, ricchissimo di ogni virtù civile e cristiana, è

conosciuto tuttavia solo come il santo poverello, perché la povertà superò in lui, di gran

lunga, tutte le altre virtù.

Fuori la storia sacra, Tito, imperatore romano fu anche uomo politico, guerriero,

amministratore, ma tutti lo vedono nella luce della sua clemenza, che fu la sua dote

principale.

La genialità di S. Filippo, nel vivere e nell'insegnare a vivere in letizia, a santificarsi in

letizia, ha oscurato agli occhi degli uomini, tutte le altre sue eccelse virtù e così si conosce

solo un S. Filippo che rideva e faceva ridere e, ridendo, operava e faceva operare il bene.

Tutto ciò è vero, ma è troppo poco, ma noi non possiamo uscire dai nostri limiti e chi vuole

s'informi, con l'aiuto di libri di diverso genere del nostro.

L'inventore. La genialità di S. Filippo fece di lui anche un inventore.

Qui noi dobbiamo fare un passo indietro nella storia, per comprendere questa affermazione

e comprendere meglio il nostro personaggio: il passo indietro però equivarrà, per lo scopo

che ci proponiamo, ad averne fatti due innanzi. Premettiamo che qui il vocabolo inventare

ha il significato originario classico e più vero, di trovare, e non il significato più moderno di

fabbricare un oggetto un congegno nuovo, prima inesistente, come, per esempio, furono al

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loro tempo l'invenzione della bicicletta, della macchina da scrivere, e, più modestamente, la

macchina per il caffè espresso o per affettare i salumi.

Ci possono essere invenzioni di vario genere; invenzioni scientifiche, invenzioni utilitarie,

materiali, ed anche invenzioni di carattere morale, intellettuale, spirituale: trovare una

verità, prima sconosciuta, è un autentico inventare.

Trovare un nuovo costume di vita, pertanto, è un vero inventare e, la gloria dell'inventore

per S. Filippo, è proprio in questo aver trovato un costume di vita anche ascetico permeato

di gioia, di riso prima sconosciuto.

Diremo un esempio, letto or sono molti anni addietro, in un libro di cui non ricordiamo

l'autore, ma il fatto è verissimo, e ciò importa.

In una tribù di cannibali, un vecchio intelligente e pensoso, con una certa finezza morale,

quale poteva esserci in un cannibale, nella sua lunga esperienza di mangiatore della carne

dei propri simili, venne alla conclusione che, dopo tutto, potendo mangiare carne di animali

di ogni specie e magari cani, gatti, topi, era di cattivo gusto mangiare la carne dei propri

simili, anche se nemici.

Questo bravo uomo aveva fatto una scoperta di ordine morale e sociale: aveva trovato una

verità nascosta agli altri, come un navigatore scopre un'isola.

Voleva subito cominciare a diffondere la sua invenzione, ma poi pensò che gli altri non

l'avrebbero presto accettata e che poteva finire lui stesso, per essere mangiato alla sua volta

dai compagni di tribù e di fede come un eretico qualunque.

Si confidò con qualcuno e così, piano piano, fondò una società segreta per l'abolizione del

cannibalismo.

Ed anche quella della società segreta fu, in certo modo, un'invenzione suggerita dalla

necessità, che aguzza l'ingegno, come dice il proverbio.

I collotorti. Ecco come e perché quella di S. Filippo fu un'invenzione.

Ogni professione umana influisce, non solo nell'interno, ma anche nell'atteggiamento

esterno; quelli pertanto che fanno la carriera militare, siccome pensano e sentono parlare di

guerre, di colpi di forza, assumono un atteggiamento, un portamento marziale, fiero, anche

se, qualche volta, sono buoni come il pane e timidi come i conigli.

Questo atteggiamento marziale spesso viene esagerato e diventa una posa.

E' nota quella storiella, in proposito, di un sovrano, il quale ammoniva i suoi soldati ad un

atteggiamento fiero, dicendo: fate la faccia feroce.

Un tempo, com'è ben noto, i militari non potevano tagliarsi i baffi, perché si pensava che i

baffi conferissero fierezza e roba simile...

Un procedimento simile s'era introdotto nella classe di coloro che facevano vita divota, di

perfezione, ed aspiravano alla santità.

Siccome i loro pensieri sono di distacco dalle cose del mondo, di raccoglimento, così essi

andavano seri, gravi, occhi bassi e modesti, atteggiamento umile, compostezza in tutta la

persona e poi nessuna leggerezza di parola o di altro.

Tutto ciò è bene, finché l'esterno corrisponde all'interno e si resta in quella moderazione

naturale, senza esagerazione.

Ne venne però una specie di stile esterno della santità, della vita devota e, come accade

nelle cose umane, gli inesperti e gli ingenui potettero credere spesso, che tutta questa

compostezza esteriore fosse qualche cosa di essenziale.

E cadde in questo errore, in un primo tempo, anche un uomo di genio, come S. Francesco di

Sales.

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Avendo conosciuto un santo ecclesiastico, che si comportava in certe determinate maniere

personali, credette che egli dovesse imitarlo anche in ciò per ricopiare le virtù dell'uomo.

Un tale stile esteriore... di santità fu esagerato da persone troppo zelanti o poco illuminate:

qualche volta, anche, l'interno non corrispondeva all'esterno e così spuntò il tipo del

bigotto.

Siccome poi tali soggetti portavano spesso il capo leggermente reclinato da una parte,

venne fuori il collotorto. I collotorti screditavano così la vera pietà e gettavano il ridicolo

anche su i veri devoti.

Tutte le religioni hanno conosciuto questa forma di involuzione e questo scambiare o

sostituire le apparenze con la sostanza.

Ne troviamo una documentazione nel fariseismo.

Al principio, il fariseismo fu un regime di vita austera, ma poi, col dare sempre maggiore

importanza alle forme esteriori, diventò una menzogna, un'ipocrisia, senza ombra di

contenuto e che noi oggi conosciamo appunto con la parola fariseismo.

Ci entrò anche l'orgoglio ed i farisei cominciarono a disprezzare gli altri, che non avevano

quel loro comportamento stilizzato e artificioso ed a ritenere se stessi i solo giusti, i santi...

Infagottati in vesti ampie e solenni, camminavano a passi brevissimi, fino ad urtare un

piede contro l'altro, con gli occhi tanto bassi da arrivare facilmente ad un capitombolo.

Si mettevano poi, a pregare negli angoli delle vie, dove potevano essere ben visti da tutti,

perchè chi passava dicesse poi: guarda, quello è un santo.

Ma la natura, birba indomabile, cacciata con la forca, ritornava sempre e si vendicava: i

farisei facevano in segreto ciò che affettavano di condannare in pubblico e si prendevano,

non solo le libertà lecite, ma anche quelle illecite e perciò Gesù li ebbe a chiamare sepolcri

imbiancati, candidi di fuori verminosi di dentro.

Naturalmente un simile genere di vita provocava la reazione, il biasimo degli uomini di

buon senso e gli scherni e le beffe dei cattivi.

S. Filippo buttò per l'aria tutte le forme artificiose, forzate, talvolta tradizionali e ridonò alla

pietà tutta quella ricchezza di gioia, di sana libertà, di ricreazione, che noi abbiamo messa

sotto il nome di gioco.

Egli apri così le porte della santità ad ogni persona ed in ogni luogo anche senza divise e

cerimoniali prestabiliti.

Andò anche oltre: non solo distrusse o rigettò ciò che non era vero bene, ma fece del gioco

un ausiliario del bene, della santità.

Egli infatti praticò ed insegnò il bel gioco e per quella via portò innumerevoli anime a Dio.

Non fu questa un'invenzione genialissima?

Ma non si deve credere però che la faccenda sia andata liscia.

Il santo incontrò molte difficoltà che bisognò vincere faticosamente e dolorosamente e noi

potremmo addurre parecchi esempi, ma ci limitiamo ad uno.

S. Carlo Borromeo, pur amico di S. Filippo, dubitò che il nuovo stile... ascetico non fosse

buono ed incaricò un suo agente in Roma, quando egli era già a Milano, di avvertire il

Santo del danno che aveva fatto e che poteva fare con il suo comportamento libero, le sue

facezie, i suoi giochi.

In un certo tempo, ci fu una vera guerra, perciò, contro S. Filippo ma egli tenne duro e

vinse.

Il giocoliere di Dio. La libertà dei figli di Dio, anche nella forma esteriore della pietà, come sentita da Filippo,

sconfinò nel gioco e il Santo divenne il « giocoliere di Dio».

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Diamo alla parola giocoliere il significato originario di uno che pratica il gioco, quello

naturale e spontaneo, e non quello venuto dopo, professionale, pensato ed elaborato, come

il gioco del prestigiatore.

I giochi che praticò S. Filippo furono innumerevoli e di svariatissime forme ed ebbero la

finalità lontana del bene ma spesso ebbero anche la finalità immediata, prossima,

dell'insegnamento, della formazione, dell'educazione, specialmente nei riguardi dei giovani.

I giochi sono come la pasta, con la quale si può fare il semplice pane o grissini o biscotti di

vario genere.

Col gioco si possono fare anche i quattrini come fanno i giocolieri di circo e di fiere che,

poveretti, non fanno male a nessuno: campano ed aiutano a campare con un po' di allegria,

quando riescono a tenere allegri: quando non riescono non nuocciono a persona.

S. Filippo come giocoliere di Dio insegnò anche uno spirito di gioco e così fondò una

scuola, in senso largo, aprì una tradizione e perciò veramente lo possiamo chiamare il

giocoliere di Dio.

Riuniremo, in questa nostra trattazione, i giochi di San Filippo in diversi gruppi, secondo il

loro carattere, lo scopo immediato, per quanto è possibile una divisione in questa materia e

perciò metteremo innanzi molti di quei giochi che vorremmo chiamare i giochi «puri» o

giochi della sanità.

Questi ultimi sono un'esigenza dello spirito e della sanità e perciò noi li abbiamo chiamati

giochi puri, cioè il gioco per il gioco.

Perché poi essi sono un'esigenza della sanità?

Lo spirito affaticato dal pensiero, dalle preoccupazioni, teso dolorosamente nella lotta della

vita, ha bisogno di ristoro, di distensione.

Tale distensione dello spirito teso e lo svagarlo, il distrarlo dalle cure opprimenti di ogni

giorno, noi chiamiamo ricreazione, in quanto porta l'anima alla primitiva freschezza di

energie.

La ricreazione, come si vede, è per riposare il corpo e per riposare lo spirito: è quindi

un'esigenza naturale, santa, in funzione della nuova tensione, del nuovo logoramento che

riporterà l'attività ripresa, come il sonno è in funzione della nuova veglia faticosa.

Guardiamo questa legge di vita nel bambino. Se domandiamo ad un bambino: perché

giochi? Ci risponderà gioco per giocare.

Se il bambino se ne potesse rendere conto risponderebbe: gioco perché ne sento bisogno per

vivere, per essere sano.

Ora occorre sapere che l'uomo, l'adulto è ancora un bambino, solamente un bambino

grande, cresciuto: similmente il bambino è un uomo ma che deve ancora crescere.

L'adulto e il bambino hanno tutti e due le stesse esigenze perché tutti e due uomini.

Pertanto come l'uomo mangia, il bambino mangia: così il bambino gioca e l'uomo gioca.

CAPO III

LE DUE FONTI LONTANE DELLA SUA GIOIA

Una vita sempre in festa.

In questo breve quadro della vita del Santo, non possiamo tacere di un elemento

determinante della sua gioia e, senza il quale, S. Filippo non sarebbe più il personaggio che

noi conosciamo.

Questo elemento è la sua purezza, la quale fu la prima fonte di ogni gioia.

L'intuizione umana, molte volte, vede più profondamente delle elocubrazioni filosofiche:

questa intuizione, pertanto, per determinare la purezza di un'anima usa lo stesso termine che

per la purezza di cose materiali, come l'acqua, per esempio, e diciamo pura un'acqua non

contaminata.

Page 10: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

E così per il contrario: di un'acqua torbida o sporca diciamo ch'è impura e questo termine

noi usiamo per una coscienza torbida di impudicizia.

E come può essere gioiosa un'anima travagliata da ansietà, vergogna, rimorsi?

L'impurità poi fa insorgere la carne con tutte le sue bestiali esigenze ed allora la carne lotta

contro lo spirito, contro la legge, contro Dio: la guerra è scatenata, dura ed implacabile in

quell'anima, con i travagli dei pentimenti e delle ricadute.

Filippo non conobbe una simile situazione.

Egli è felice nella serenità del suo spirito, ch'è come un cielo senza nubi.

La saggezza dei parenti, la sua docilità, lo difesero da ogni contaminazione sozza e se ne

trovano molte testimonianze nel processo.

Conosciuti i domenicani del convento di San Marco in Firenze, fu avviato presto ad una

vita di pietà e messo al contatto con Dio: la sua purezza così fu maggiormente assicurata e

custodita.

Egli ricevette in quella consuetudine con i buoni religiosi la fisionomia spirituale

inconfondibile delle anime pure e pie.

Esiste dunque una fisionomia plasmata dalla purezza? Sì! E poiché sarebbe lungo

dimostrarlo con il ragionamento, vediamolo con un esempio che vale per tutti. Pensiamo

alla figura dell'apostolo S. Giovanni.

E' il S. Vangelo che dà rilievo alla sua castità: la sua figura si muove, opera in questa

cornice.

Solo il suo purissimo occhio conosce il Maestro che si presenta in forme misteriose,

nell'incorruttibilità della resurrezione.

La sua anima è un cielo sempre sereno, anche nella sofferenza estrema della sensibilità: per

questa serenità egli solo, tra gli apostoli, si presenta sempre uguale a se stesso, anche ai

piedi della Croce, nel privilegio unico di essere accanto a Maria.

Vuol dire forse ciò che chi non è stato puro non può accedere più alla gioia?

No! Vuol dire semplicemente che chi non è stato puro deve cominciare ad esserlo, ed allora

comincerà ad essere lieto; posta così la prima causa della letizia.

Come dice un testo sacro, non v'è pace per gli empi.

Neppure bisogna pensare che per purezza s'intenda celibato, perché così la gioia sarebbe

interdetta ai coniugati esiste una purezza coniugale che presenta, talvolta, lati più difficili e,

umanamente parlando, più simpatici della continenza assoluta.

Per riguardo a Filippo, il suo corpo stesso era come un'immagine di tutta la sua vita in festa.

Fanciullo saggio, quanto può esserlo un fanciullo, lo chiamarono perciò ben presbo «Pippo

Buono» e questa qualifica gli restò tutta la vita e divenne storica.

La tradizione iconografica e biografica, fondata, su testimonianze e documenti

contemporanei, ce lo presenta giovinetto bellissimo, elegante, nella moda artistica dei figli

di buona famiglia, affascinante specialmente per la luminosità del suo viso.

In un quadro attribuito al Bronzino, e che si trova nell'Oratorio di San Firenze ed in un altro

che si vede nella galleria Doria in Roma, creduto del Baroccio, si ammira il fanciullo che

quasi si compiace di essere così ben vestito e ne gode: s'indovina che se avesse seguito altra

via, sarebbe stato un elegantone...

Infatti, sacerdote, sempre preso dal suo apostolato, poverissimo, ci tenne sempre alla

pulizia, alla proprietà, che sono le forme primitive basilari di quella bellezza anche fisica

che concorre poi molto alla gioia: e ciò fino alla tarda vecchiezza.

Sentiva il fascino della natura e godeva della visione dei cieli, dei campi sterminati, dei

liberi orizzonti e preferì sempre pregare nei luoghi alti, allo scoperto, sotto la volta dei cieli.

Apprezzò sempre la bellezza umana, capolavoro di Dio, e ci sono frasi nelle lettere o

espressioni riportate nel processo che parrebbero di un artista raffinato.

Page 11: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Vecchio, asceta, distaccato dal mondo, ritenne sempre integra la sensibilità del bene.

Avvertiva il palpito della vita e l'orma di Dio in tutte le creature.

Un astrologo astrologa di Pippo. Cioè, interroga gli astri intorno a Filippo.

Una conferma di quanto veniamo dicendo la troviamo appunto nella sentenza... di un

astrologo.

Al tempo del nostro Filippo, l'astrologia era in fiore come un scienza e tale era ritenuta da

molti.

Uno degli astrologi più rinomati, preceduto da grande fama, arrivò a Firenze, proveniente

da Roma: si chiamava Zoroastro.

Forse il padre, forse la matrigna o qualcuno degli altri parenti invitò Zoroastro a leggere

negli astri il futuro del fanciullo, che, unico maschietto, era il cocco del padre e delle molte

donne.

Non sappiamo quanto ciò precisamente avvenne, né che procedimento Zoroastro tenne, ma

sappiamo una cosa molto più importante e cioè che egli dette questa sentenza « Se costui

fosse religioso, sarebbe perfetto ».

La predizione fece impressione, perché se ne serbò memoria e fu ricordata nel processo,

dopo la morte del Santo. Che pensare di questo giudizio di Zoroastro?

Doveva essere costui uomo, evidentemente, di un certo ingegno, di una certa cultura, se si

dette all'avventuroso mestiere di astrologo e si fece un nome e, come pare, anche una

fortuna.

Ad ogni modo, egli intuì, forse con la sua molta esperienza e perspicacia, nel giovinetto,

una meravigliosa disposizione, vide un tipo, un temperamento, quale noi abbiamo descritto

di sopra, azzardò e colpì nel segna.

Non astrologia ma introspezione.

Persone ben più sagaci e veraci, videro Filippo con una luce naturale di intelligenza e

sensibilità squisita, molto meglio dell'astrologo.

Giovenale Ancina, che diventerà poi figliolo spirituale di Filippo, così descrive il Santo,

prima ancora di averlo conosciuto intimamente e da vicino, ad un suo fratello: « Il P.

Maestro Messer Filippo è un vecchio bello, pulito, tutto bianco che pare un'armellino;

quelle sue carni sono gentili e verginali e se, alzando la mano, occorre che la contraponga al

sole traluce come un alabastro».

Come S. Filippo vedeva la bellezza umana nella sua interezza negli altri, così gli altri la

vedevano in lui.

S. Caterina de' Ricci è così vista da Filippo non tanto in un ritratto, ma nella fisionomia che

egli aveva impressa nel cuore: « S. Caterina era più bella ed aveva un viso allegro e

gioviale».

Così egli sentenziò dopo aver visto un'immagine della santa sua contemporanea.

Alla sua volta, una donna santa e per tale stimata dallo stesso Filippo, Marta da Spoleto, un

giorno, trovandosi innanzi al Santo e guardandolo nell'alone di bellezza nel quale egli era

avvolto, affascinata gli disse: « Molto sei bello Padre mio ».

Fabrizio Massimo, intimo di Filippo per molti anni, nota anche egli una particolare bellezza

che, alla sua volta, fa intravedere una bellezza più grande, interiore: dice in particolare che

Filippo aveva lo sguardo come di un giovinetto e di tale chiarezza che nessun pittore seppe

ritrarre.

Page 12: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Germanico Fedeli, pur esso intimo di Filippo, osserva la stessa cosa e si duole che un

pittore, il quale ha eseguito un ritratto del Santo, non abbia saputo presentare la sua

espressione di dolcezza.

Molto più tardi, al Magalotti, come notano gli editori del processo di canonizzazione,

Filippo appare quasi « la gentilezza della santità».

E vogliamo concludere questi brevi cenni con un ricordo personale e piuttosto recente.

Il 2 giugno 1951, si inaugurò in Roma una nuova chiesa dedicata a S. Eugenio, in onore del

Pontefice allora regnante, Pio XII, (Eugenio Pacelli) e una folla straordinaria si

avvicendava nel tempio e tutti commentavano.

Gruppi di visitatori sostavano anche dinanzi ad una statua di S. Filippo Neri, al quale 8

dedicata una cappella: noi ci indugevamo ad ascoltare le diverse opinioni.

Un signore ed una signora guardavano con particolare interesse, e il signore lodava la statua

di S. Filippo, tra le meno discusse del nuovo tempio.

La signora osservò al compagno: « S. Filippo aveva uno sguardo più dolce! »

Dove aveva visto lei S. Filippo? Era un ricordo di altre immagini del Santo? No! Pensiamo

che il San Filippo dal volto più dolce, la signora l'aveva visto, come tanti altri, nel suo

cuore, dove la tradizione secolare e le impressioni suscitate dalla sua gesta, l'avevano ben

fissato.

Mettendo di fronte il giovine Filippo di Firenze, anzi il Pippo Buono dei primi tempi e

questo Filippo della maturità e della vecchiezza quale si palesò sempre in Roma, ci

possiamo domandare che cosa fosse cambiato, col tempo, nel nostro Santo.

Nessun cambiamento, anzi un aumento di meravigliosa bellezza: una fiamma di maggior

santità ardeva ora nel suo cuore e si irraggiava in tutta la sua persona.

È questo il segreto del suo fascino irrresistibile, gioioso. Dopo quanto abbiamo detto,

qualcuno potrebbe osservare: dunque un predestinato?... Dunque nato cosa?... Quindi,

nessun merito!

Egli certamente ebbe da natura un temperamento gioioso ma ciò non bastava e tutto non è

qui: egli lo coltivò, lo lavorò, l'affinò come un artefice fa di un opera abbozzata in un

momento di genialità.

Ci sono stati tanti, certo, che hanno avuto un bel temperamento o anche un temperamento

simile ma poi lo hanno trascurato e magari guastato, profanato con azioni non degne.

CAPO IV

MONETA FALSA E MONETA BUONA

Il diavolo.

È un valore il riso, che può essere largamente falsificato come la moneta: ora il riso

autentico è unico, mentre le falsificazione sono molte, come la verità è una e le menzogne

tante.

Perché il riso autentico è unico? Perché procede dal bene, ch'è sempre lo stesso.

Pensiamo un uomo, tranquillo nella sua coscienza, sano di corpo, provvisto di ogni bene,

dall'amicizia ai danari. Quest'uomo non ha più nulla da desiderare: il suo godimento, il suo

riso è completo.

Ora immaginiamo ancora che a questo felice vengano tolti lentamente, uno per uno, tutti i

beni, come ad una gallina si tolgano tutte le penne: viene così piano piano al colmo dei suoi

mali, ma gli resta una speranza, piccola sì, ma pur viva, che egli potrà rifarsi di tutto e

riprendere la sua esistenza di prima.

Questa speranza, per quanto tenue, è ancora un bene ma ecco, ad un momento, anche questa

speranza viene meno e arriva la morte.

Page 13: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Se l'attimo in cui viene la morte si potesse fissare, prolungare eternamente, in guisa che

morte e vita restassero avvinti a quell'uomo, egli vivrebbe la morte e morirebbe

continuamente.

Ciò non può avvenire per l'uomo, perché, all'atto della morte, il corpo si scioglie dall'anima

e resta la sola morte. Ciò che non può avvenire per l'uomo è avvenuto per il demonio:

essendo spirito e non avendo un corpo dal quale staccarsi, l'attimo in cui egli peccò e

perdette Dio, e cioé ogni bene, l'attimo della sua morte restò fissato e perciò egli vive la sua

morte.

Il diavolo non ride, non può ridere neanche di un risolino come quello abbozzato negli

uomini, perché non c'è in lui ombra di bene.

Ciò ch'è avvenuto per l'angelo decaduto, avverrà per l'uomo dannato dopo la risurrezione

dei corpi.

Si ristabilisce la vita allora, nella rinnovata riunione dell'anima e del corpo, ma questa vita,

nella disperazione di ogni bene, è vita di morte.

La morte uccide così eternamente la vita: e la vita si alimenta della morte.

Pertanto solo il diavolo non ride e solo il dannato non riderà.

Fantasie! dirà qualcuno senza fede.

Intanto però, tutti hanno una certa paura di un oscuro avvenire e chi non crede rischia di

fare un'esperienza che durerà tutta l'eternità.

Tanto abbiamo voluto premettere perché ognuno dei nostri lettori si guardi dall'essere

ingannato con quella moneta falsa che poi porta al destino del diavolo.

Il riso autentico.

Il concetto e il nome di riso possono coprire una merce che non è riso davvero e, talvolta, è

proprio il contrario.

Il riso dello scerno, del pazzo, dell'ubriaco, del buffone, del superbo, del crudele, sono

degenerazioni, maschere di riso.

Il riso autentico, purissimo, si vede in tutta la sua luminosa spiritualità e purezza solamente

nei Santi: essi sono i più ricchi di riso perché più ricchi di bene: il loro riso è una luce tutta

chiara, in cui non è ombra di oscurità.

È vero che anche nei santi la manifestazione fisiologica di riso e le altre espressioni del riso

interno spesso non appaiono, ma ciò avviene perché essi sanno contenersi, controllarsi, e

non sciupano, per dire così, esternamente la ricchezza interiore.

Fissateli, un po' questi Santi: le linee del volto sono riposate, lo sguardo è dolce,

l'atteggiamento calmo, la serenità completa.

Questo è il riso, il vero riso, l'intima festa dell'anima. Questo riso dei Santi, custodito

interiormente e talvolta trasparente appena in tutta la persona e in tutte le attività, si può

paragonare alla luce di certe potentissime lampade elettriche resa blanda, tenue, direi quasi

umile, intima, da un globo di candida porcellana: se levate il globo, la luce di quella

lampada vi inonderà, vi accecherà.

Provatevi a conoscere un Santo, un Curato d'Ars, un S. Giovanni Bosco, per esempio,

parlategli, toglietegli, nella confidenza e nella fiducia, quel globo di riservatezza, che esso

ha, ed il Santo verserà nell'anima vostra un fiume di pace che voi non avete mai conosciuto.

I Santi, direte voi, sono pertanto sempre felici nel possesso della pace, della gioia, anche in

questo mondo? I Santi non conoscono il dolore, la sofferenza? Nessuno può sottrarsi alla

legge della sofferenza e del dolore di ordine materiale o di altro ordine, e nemmeno i Santi,

finché sono in questo mondo, ma essi sanno elaborare in bene tutti i mali dell'esistenza nel

fuoco dell'amore e nella speranza incrollabile.

Page 14: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

L’'insegnamento di S. Paolo Apostolo in queste parole: « I patimenti del tempo presente

non sono degni d'essere confrontati con la gloria che si manifesterà in noi ».

E perché? Perché le cose che si vedono sono temporanee, quelle, invece, che non si vedono

sono eterne.

San Francesco d'Assisi, poeta, con due versi che valgono più di un lungo canto ci spiega il

mistero del dolore gioioso:

Tanto è il bene che mi aspetto

Che ogni pena m'è diletto.

Pare che egli ci guazzasse, insomma, nella sofferenza fisica, pensando a quella realtà che

dura sempre.

S. Filippo, secondo il suo stile, tradusse in un gesto lo stesso pensiero, quando di fronte alla

proposta di un grande onore terreno, in una esplosione di gioia, prese il suo berretto, lo

lanciò per l'aria, come fanno i ragazzi, giocando, e disse: «Paradiso, Paradiso!

Le spine pungono e non sono buone a farne oggetto alcuno, però messe nel fuoco

producono calore e servono a cuocere le vivande, che sostengono la vita.

Il riso spurio.

Ma dobbiamo mettere il nostro lettore in guardia contro un fenomeno di illusione, che

seduce la maggior parte degli uomini, per via di certe somiglianze esterne. La prima di

queste somiglianze è che il riso vero e quello falso dànno tutti e due, in un certo momento,

godimento: qui è il tranello.

Il riso falso, proveniente da un falso bene, è quello dei sensi, il quale è comune con le

bestie, come abbiamo accennato.

Noi pure siamo bestie, animali, benché ragionevoli, e l'animalità si fa sentire fortemente.

Tutti o quasi tutti, molte volte, ci comportiamo proprio come gli animali e ciò accade

quando facciamo il male: ma ci sono moltissime persone che si dimenticano completamente

e presto di essere anche ragionevoli e lasciano stare la ragione nel cranio, inoperosa, come

una cosa inservibile, buttata nel solaio.

Sotto l'impulso dell'animalità imperante, perciò, questi uomini così imprudenti si mettono

alla ricerca del riso solamente nei beni materiali e in quei piaceri puramente bestiali, dei

quali abbiamo fatto cenno innanzi.

Essi, pessimi viaggiatori della vita, fanno come quei viaggiatori ordinari di ogni giorno che,

nella fretta e nella furia, nella inconsideratezza più stolta, prendono un treno per un altro e

quando s'accorgono che quello non è il loro treno, non sanno come rimediare.

Il treno della vita, una volta arrivato alla fine, non consente ritorno.

Eppure sarebbe tanto facile discernere il bene vero da quello falso e quindi il riso vero da

quello falso, badando ad alcune differenze.

Il godimento, il piacere del falso bene, nasce, si svolge, si esaurisce nella materia,

nell'animalità come una fiammata di un mucchio di paglia, che presto diventa cenere nera.

Il riso, la gioia, il godimento nato da un bene vero, nasce, si sviluppa nello spirito e dura

sempre: esso si proietta anche nel corpo.

Oltre questa differenza di origine tra bene vero e bene falso, v'è una differenza di carattere

assai rilevante.

Il riso dal bene falso è grossolano, inebria e finisce per nauseare, come certi dolci, che

finiscono per procurare disgusto.

Il godimento dal bene vero poi è come la dolcezza fine e delicata che viene dal pane, che

non reca mai disgusto, per tutta la vita e serve a facilitare l'alimentazione, rendendola

gradita.

Page 15: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

L'insegnamento di un cane. Ma la fine dei due procedimenti svela il loro essere opposto, contrario.

E qui ci soccorre una favoletta di quel grande Esopo al quale nessuno ha mai pensato di

erigere un monumento, mentre nelle piazze, nei giardini di ogni grande città, si vedono

monumenti a ciarlatani e perfino a malfattori ed assassini, presentati come grandi uomini.

Ci racconta, dunque, questo grande pensatore, moralizzatore della società, come un cane

s'era procurato un bel pezzo di carne, e, per mangiarlo indisturbato, lontano dal luogo del

furto, doveva attraversare un fiume.

Ad un certo momento, l'ignorante, vide la sua immagine nello specchio dell'acqua e

credette che fosse un altro cane vivo e vero come lui, con della carne autentica come quella

che egli teneva tra i denti.

Spinto dall'avidità e abituato a fare il prepotente, volle prendere anche il pezzo di carne

dell'altro cane e lasciò cadere la carne vera, che stringeva con i denti.

L'attimo in cui il cane vide la carne nello specchio di acqua e cercò di afferrarla, dovette

essere di grande gioia, di grande piacere, seppure di piacere canino.

Ma quel piacere durò come un baleno, e nell'attimo immediatamente seguente, il cane

sciocco ebbe una disillusione amarissima: né l'una né l'altra carne.

Quel cane, pensiamo, ci capitò una sola volta, ma gli uomini, nelle stesse circostanze, ci

capitano infinite volte e non si correggono mai.

Essi, infatti, disgustati e disillusi di un falso piacere, si buttano su un altro similmente falso

e poi su un altro ancora e così sempre per tutta la vita.

Inoltre, questi piaceri sensuali, materiali, come una merce qualsiasi si pagano cari, come i

gioielli falsi venduti da un imbroglione.

Questi piaceri falsi logorano, per tenere loro dietro, e si vede che, ad un certo momento i

cacciatori di piaceri, di riso falso finiscono nella miseria, per lo sperpero di danaro, o nelle

cliniche, negli ospedali di malattie mentali, di malattie veneree e simili luoghi.

Ci sono ancora altri che si credono più furbi, vogliono arrivare più presto al godimento dei

falsi piaceri, e, nella mancanza di mezzi o nell'insofferenza dell'aspettativa, come chi si

butta per vie scorciatoie, si dànno a tutte le male arti, come ruberie, imbrogli, inganni e,

nella maggior parte dei casi vanno a finire nelle carceri.

Altro esempio è quello dei contrabbandieri, i quali, per fare un guadagno più grande e più

rapido, non seguono le vie ordinarie del commercio, ma poi un giorno o l'altro cadono nella

trappola e il gioco finisce male.

Si vede allora e, se n'accorgono essi stessi, che, invece di essere i più furbi sono stati i più

stupidi.

La più grande stupidità infatti è quella di fare il male per avere il bene come chi volesse

cogliere i fichi dall'albero di sorbo.

Molti di questi stupidi cacciatori di falso bene e di falso piacere arrivano alla disperazione e

si ammazzano: i suicidi sono, per lo più, i disillusi, i disperati dei piaceri sensuali.

Costoro sono poi gli stupidi in grado superlativo: fanno come coloro che, per esempio,

avendo un grosso mal di denti dal quale non sanno liberarsi o vogliono liberarsi presto,

invece di cavarsi il dente, fracassano le mascelle con una martellata.

Tutto ciò solamente in questa vita, prima di arrivare al traguardo, ma poi tutti arrivano al

traguardo dell'esistenza, anche coloro, se ci sono, che possono sfuggire alle conseguenze

ordinarie dei falsi piaceri e passare tutta l'esistenza da gaudenti, da mondani fortunati.

Il traguardo della vita è la morte.

Allora il corpo, quello che elaborava il piacere, il falso riso, come un macinino che elabora

e riduce in polvere le droghe inebrianti, si scioglie...

Page 16: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Allora il distacco tra il buono e il cattivo, tra il riso falso e quello vero, appare completo,

sostanziale, definitivo. L'uomo buono arriva anche lui al traguardo, perché tutti muoiono.

E' da osservare intanto che il buono ha goduto, anche in questa vita più del cattivo, e,

perché un po' di bene l'hanno tutti, e, perché quel tanto di male che egli ha dovuto

affrontare l'ha elaborato in bene, con la pazienza e con l'offerta al Signore delle sue

sofferenze.

Ma per lui cominciano ora, dopo la morte, il bene e la felicità che durano sempre, mentre

per il cattivo, ora, vengono i guai senza fine e il pianto eterno.

Dice un sapiente proverbio che « ride bene chi ride l'ultimo».

Il santo, il buono, ride ultimo e ride per sempre: ha riso bene.

L'uomo al di sotto delle bestie. Ma dobbiamo rispondere a qualche domanda, che più di un lettore avrà formulata nelle

pagine precedenti: le domande sono queste.

Da quanto s'è detto, si deve concludere forse che il piacere è un male?

Si deve concludere che il riso, il piacere, resta confinato nello spirito e che l'uomo

completo, così come si presenta, spirito e corpo, deve rimanere estranea ad ogni anche le-

gittimo piacere e godimento, che si afferra nel corpo?.

Si deve concludere infine che quest'uomo buono, per restare tale, deve rimanere lontano da

ogni sorta di gioia e deve vivere come un piagnone?

Ritenere ciò sarebbe come arrivare a delle conclusioni, che non sono, in nessun modo, nelle

premesse.

Il piacere, per se stesso, non è né buono né cattivo moralmente.

Il piacere è una capacità propria della sensibilità e aiuta a compiere un'opera buona, un

dovere, oppure spinge ad osservare una legge di natura.

Il piacere, anche nel bene è come un lubrificante che fa scorrere meglio le ruote e

spieghiamo meglio la questione con un esempio.

Chi farebbe quell'operazione, che noi diciamo mangiare e bere, cioè riempirsi lo stomaco

come un sacco, di certe materie e di certe bevande, se non ci fosse il gusto? E ne abbiamo

noi stessi l'esperienza.

Quando, a tavola, noi siamo sazi e magari, in certi giorni, abbiamo mangiato anche qualche

dolce e bevuto un caffé e non sentiamo più stimolo di fame ed arriva un vicino che

comincia a mangiare un piatto di pasta asciutta, ci disgusta.

Quel piacere, che si sviluppa col gusto, non ci fa accorgere della grossolanità dell'atto di

mangiare e così noi compiamo il dovere di mangiare che diversamente non compiremmo:

se non avessimo gusto tutti moriremmo di fame.

Quale animale mangerebbe, se non sentisse fame cioè non avesse gusto?

Il gusto lo spinge a compiere una legge naturale, che il bruto non conosce.

Il piacere, per tanto, per se stesso non ha nessun valore morale e cioè non è ne buono né

cattivo e diventa buono o cattivo se l'intenzione è buona o cattiva.

Tra il piacere che prova uno scienziato, un mistico, un santo, nel mangiare un pezzo di

agnello profumato di erbe odorose e che i romani chiamano abbacchio, ed il piacere che

prova un gatto nel mangiare un topolino tenero, fragrante di latte materno, non c'è nessuna

differenza moralmente.

Nell'uomo, il piacere resta moralizzato dalla moralità dell'atto che si compie: se uno

mangia, per il dovere di mangiare, di vivere, quel piacere, che se ne prova, è santificato

dalla santità dell'intenzione di vivere per la gloria di Dio e per il bene del prossimo.

Ma gli uomini hanno una possibilità che le bestie non hanno.

Le bestie, quando sono soddisfatte, non mangiano più.

Page 17: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Si direbbe che il piacere, nelle bestie è sempre morale. Gli uomini possono separare il

piacere dal dovere. Anche sazio, un goloso, può ricercare il piacere del gusto, senza più il

bisogno del mangiare, anzi, quando il mangiare gli riesce nocivo.

Il piacere per il piacere fa cadere gli uomini al di sotto delle bestie.

Il santo fa servire il piacere al dovere, ma egli non serve il piacere: egli è un uomo libero

che sottomette il piacere, lo modera, lo regge, lo mantiene nell'ordine morale, come un

buon cocchiere mantiene all'obbedienza il suo cavallo governandolo fortemente con la

briglia.

CAPO V

ALCUNI GIOCHI DELLA SANITA'

La tintura per la barba. Apriamo questa nuova sezione del nostro libro con un episodio della tarda vecchiezza che

dimostra la perenne freschezza della sua anima lieta, pur in quell'età e tra i molti acciacchi

di salute che non lo lasciarono mai.

Passava dinanzi alla Chiesa Nuova, fatta edificare dal Santo recentemente, in carrozza, il

Cardinale Michele Bonelli, nipote di S. Pio V.

Il Cardinale aveva conosciuto Filippo, quando egli era ancora novizio tra i Domenicani

della casa della Minerva, in Roma: aveva imparato a venerarlo come uomo di Dio e gli s'era

affezionato.

Gli era riconoscente per l'affetto che Filippo gli aveva sempre dimostrato.

Il Bonelli, arrivato ora così in alto, per un'esigenza del suo cuore, sentiva il bisogno di

rendere qualche favore a Filippo, ma questi non gli chiedeva mai niente e, forse, qualche

volta, dovette rifiutare favori offerti, come era accaduto tante altre volte.

Quella volta che il Cardinale passava, in quella forma piuttosto pomposa, che le norme

della prelatura imponevano a quei tempi, specialmente ai Cardinali, ecco che Filippo si fa

avanti fino al margine della via, e con un cenno prega il prelato per dirgli qualche cosa.

- Vorrei un piacere, inizia il Santo, ma sono certo che Vostra Signoria Illustrissima - come

si usava dire allora ai Cardinali - non me lo farà: ne sono certo.

Il Cardinale, che vide nella richiesta di Filippo l'occasione buona tante volte cercata invano,

rispose subito, si profferse, senza neppure chiedere cenno di che cosa si trattasse.

- Perché non dovrei farle il piacere che mi chiede, P. Filippo?

- Eppure, no, questo piacere Vostra Signoria non me lo farà...

- Vostra Reverenza parli, dica subito perché io sono tanto contento di servirla.

Il Santo dopo che ebbe portato alla massima tensione, la curiosità del Cardinale, alla fine

disse: Vorrei che Vostra Signoria Illustrissima mi trovasse un segreto per far diventare nera

questa barba bianca.

Uno scoppio di risa si udì da parte di quelli che accompagnavano il Prelato in carrozza, del

cocchiere e di qualche curioso che intanto s'era fermato vicino.

Il Bonelli, certo, non si offese, perché conosceva troppo Filippo e lo amava, ma dovette

sentirsi un po' disilluso, e con un cenno dette ordine al cocchiere di proseguire svelto.

Il Santo, a sua volta rideva da sornione, perché s'era divertito.

Il finto disperato. Un giorno, insolitamente solo per la via, Filippo scorse due frati Domenicani che

camminavano innanzi a lui: subito un lampo gli passò per la mente ed ideò uno scherzo ai

due religiosi. Perché? Per quella esigenza della sanità, come da noi descritta, che ha

bisogno di esplodere in gesti e parole di gioia.

Page 18: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Colpì Filippo il momento in cui i due religiosi erano un pò discosti tra di loro, prese la

rincorsa, passò in mezzo ad essi, dicendo a voce alta e concitata: Io sono disperato!...

E passò oltre come una freccia, quasi avesse gran cosa da fare.

Nessuno più dei due Domenicani, i quali generalmente hanno la testa piena come una

pentola ricolma, della teologia di S. Tommaso, poteva comprendere la gravità del grido

angosciato « Io sono disperato ».

Non sperare più in Dio è già un grave peccato, ma poi è un principio di perdizione anche in

questo mondo, oltre che nell'altro.

I due religiosi dunque, compresi della condizione del povero disperato, affrettarono il

passo, lo trattennero, se lo misero in mezzo e seguitarono a camminare insieme ed a

ragionare.

- Perché questa disperazione? diceva uno.

- Che ricavate disperando? Male in questo mondo e nell'altro.

- Con la disperazione si va all'inferno.

- Son disperato!...

- Ma diteci, di grazia per quale ragione siete disperato!...

- A tutto c'è rimedio a questo mondo! Coraggio! Spiegatevi!

- Se possiamo aiutarvi, lo faremo volentieri, ma diteci in che modo.

- Sono disperato.

Il dialogo seguitò in questo modo per un pezzo, e Filippo rispondeva sempre e solo: sono

disperato!

Chi avesse guardato Filippo in faccia, avrebbe visto però che il suo viso non era

congestionato, ma placido ed un leggero sorriso increspava di tanto in tanto le labbra un

sorriso tra quello del sornione e dell'ingenuo.

I due domenicani, dopo parecchio, disperavano essi alla loro volta, di persuadere il

disperato, quando Filippo disse, fermo, deciso:

- Si, sono disperato di me stesso, ma spero in Dio. Nella fonte da cui attingiamo, non è

detto come restarono i due religiosi, in un primo momento, ma pensiamo che il Santo li

conquistò subito, come sapeva fare lui e non si amareggiarono, né si offesero di essere stati

beffati.

L'imprecatore impenitente. L'imprecazione, ch'è della cattiveria umana e si trova dovunque, in Roma è tanto comune

come la bestemmia in Toscana.

Sono due pessime costumanze, ma i Santi, talvolta, sanno capovolgere l'imprecazione,

mettendola con i piedi all'insù e facendola diventare buona.

La forma di imprecazione, in Roma, più generale, è questa detta in dialetto romanesco:

«che ti possino ammazzà!» E' sentita anche come offesa ed è origine talvolta di litigi e

questioni anche gravissime.

Essa, però, nell'uso comune che se ne fa, ha perduto il suo significato cattivo ed è diventata

un'esclamazione o qualche cosa di simile.

Non è raro perciò che vedendo una bella ragazza, uno dica: Ammazzala quanto è bella!

Oppure mangiando un buon piatto di pasta asciutta, uno esclami: ammazzala quanto è

buona!

La gente si confessa delle imprecazioni come di peccato.

S. Filippo fece delle imprecazioni, un'espressione di benevolenza, di augurio santo e, in

certo modo, di catechesi. Ecco come si svolgevano le scenette: un amico arriva. - O

Giambattista, come stai? Perché non ti sei fatto vedere prima? Che ti possano ammazzare!...

ma per la fede sai, per Gesù Cristo, soggiungeva dopo con voce più debole e sorridente.

Page 19: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Gli auguri di questo genere cambiavano molto spesso e talvolta diceva: che ti possano

bruciare vivo... col fuoco di S. Antonio... ma sai tu qual'è il fuoco di S. Antonio? è il fuoco

dell'amore di Dio.

Una volta ne fece una grossa e tale che nessuno ne ha osato una simile.

Si trovava egli in Vaticano nell'anticamera del Pontefice Gregorio XIV in attesa di udienza

particolare.

Ecco che, ad un momento, il Papa compare sulla porta ed in modo familiare gli dice: « O P.

Filippo ben venuto». - O Santo Padre che possiate essere ammazzato... per Gesù Cristo.

Il Papa sorrise di compiacimento con l'ingenuità di un bambino che avesse ricevuto un

dolce presto messo in bocca.

Vita e morte messa ai voti

Un moribondo che vuole il vino

Bartolomeo Fugini, nell'agosto 1590, fu colpito da fortissima febbre pestilenziale e si

ridusse in poco tempo agli estremi.

Moribondo, le donne lo segnavano con la candela benedetta nella festa della Purificazione,

per difenderlo, secondo un'antica usanza, contro gli spiriti cattivi; il barbiere fu chiamato di

urgenza per il salasso alle gambe con le coppette, piccoli vasi di vetro che si usavano per

tirare sangue.

Questi e altri rimedi tornarono vani.

Il P. Angelo Velli che l'assisteva, somministrati i Sacramenti, si ritirò e così pure il medico

che disse: è finito. A casa Filippo domandò al P. Angelo Velli come stesse l'ammalato.

- Padre se ne va presto: appena, forse, arriverà a domani mattina come ha detto il medico.

C'erano presenti parecchie persone e Filippo disse lieto: voi volete che muoia o che non

muoia?

- Padre vorremmo che non morisse!

- Orsù dite questa sera per lui cinque Pater, cinque Ave Maria.

Il far dipendere la vita o la morte di un uomo dalla volontà dei presenti era una cosa nuova

ed abbastanza comica, e la richiesta dei cinque Pater Noster e delle cinque Avemaria dava

appena una tinta di religiosità alla scena. In realtà, il Santo nascose, con la trovata

stravagante della... votazione, la certezza del miracolo che stava per compiere.

I presenti poi si illusero che erano stati essi ad ottenere la salute a Bartolomeo con le brevi

preghiere.

Era ancora qualche cosa come il tranello e la beffa. Nella notte l'ammalato galoppa verso la

salute.

Il medico curante, ch'era poi Angelo Vettori, una celebrità, la mattina, sicuro che

Bartolomeo fosse morto, mandò a vedere, tanto per formalità.

Vettori sente che l'ammalato non è morto e, meravigliato, corre.

- Come stai? chiese.

- Bene.

- Che cosa ti senti?

- Niente.

- Che cosa vuoi?

- Un poco di vino.

- «Questa non è cosa naturale, borbottò Vettori; bisogna che ci sia qualche cosa qua». E se

ne andò.

Un debole per le barbe.

Page 20: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Per le barbe degli altri e per quella sua ma di quest'ultima parleremo in altro posto, perchè

in un altro ordine di idee.

L'ultimo dei Papi coi quali ebbe a fare S. Filippo fu Clemente VIII.

La loro amicizia, perchè si trattava di questo più che altro, rimontava a quando Clemente

era ancora Ippolito Aldobrandini e frequentava la Vallicella.

Un quadretto fa comprendere, più di una descrizione, la natura dei rapporti tra i due.

È un giorno di udienza e Filippo va pure lui, ma mentre gli altri s'indugiano a fare

genuflessioni e comportarsi secondo il cerimoniale, il Santo va difilato innanzi, senza

genuflessione, si leva un momento il berretto, si inchina un poco, e dice con grande

semplicità

- Buon giorno... Mi copro io, aggiunge e si rimette il berretto.

- Voi siete il padrone, risponde il Papa.

Quando non ci sono altri, ma solo qualche compagno di Filippo, egli seduto accanto a

Clemente gli prende le mani, le accarezza, poi gli fa carezze sul viso, gli accarezza la barba.

Il Papa lascia fare soddisfatto.

Perché tutto ciò? Per quell'intima esigenza per cui una madre carezza il figlio: uno sfogo

dell'amore. Quanto abbiamo detto è testimoniato nel processo da chi si trovò insieme.

Tutto ciò però, se con grande naturalezza, pur con tanto rispetto che nessuno avrebbe potuto

pensare ad atto poco rispettoso, irriverente, e meravigliarsi.

Che meraviglia poi, quando si sapeva che Clemente, talvolta, era lui a baciare la mano al

Santo?

Un'altra barba maltrattata.

La Chiesa della Vallicella, fondata da Filippo stesso, come s'era avviata ad essere una delle

più maestose di proporzioni, così si avviò presto ad essere una delle più ricche di opere di

arte e di preziose reliquie.

Ottenne il Santo dal Cardinale Agostino Cusano il dono dei corpi di due martiri, Papia e

Mauro, che si trovavano nella diaconia di S. Adriano.

Il giorno che se ne fece la traslazione dalla chiesa di S. Adriano, fu grande giorno e tutto il

popolo partecipò all'avvenimento.

Ci fu un corteo quale mai o raramente visto, e Filippo aspettava sulla porta della chiesa: era

il giorno 11 febbraio 1590.

Man mano che il momento dell'arrivo delle reliquie si avvicinava, Filippo si sentiva sempre

più in preda ad uno di quegli stati mistici contro i quali doveva lottare, come nella S.

Messa, per restare padrone di se stesso, e per non perdere il contatto col mondo esteriore.

La guardia svizzera faceva servizio di onore e di ordine e proprio innanzi alla chiesa, un

soldato, tutto rigido, come se fosse di pietra, offriva una bella barba al bisogno di Filippo di

svagarsi, di distendersi.

Afferrò dunque la barba, certo non delicatamente, e la tirava.

Il soldato non poteva muoversi e subiva, non poco contrariato, mentre i vicini ridevano:

quel riso si propagò presto come un'ondata.

Quelli più distanti, che non avevano potuto vedere, domandavano: che baccano è questo?

Perché questo ridere? - Ma come non hai visto? Il P. Filippo ha tirato la barba ad una

guardia ed il poveretto non ha potuto reagire, anche perché il P. Filippo è il P. Filippo...

La breve notizia, comunicata sotto voce arrivò presto a tutti ed un fremito di riso agitò il

corteo.

Baci, pizzicotti e ceffoni al demanio.

Page 21: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

La Congregazione religiosa dei Barnabiti, di recente istituzione, non aveva ancora una casa

in Roma e per trovarne una, il superiore generale mandò a Roma un religioso molto capace,

P. Tito degli Alessi, ed un compagno.

S. Filippo ricevette i due che si diressero a lui per aiuto, con molta benevolenza e li accolse

perfino in casa.

Il P. Tito nelle sue relazioni al Superiore non faceva che parlare di Filippo con grande

elogio.

Il P. Generale alla sua volta, rispondendo, aveva espressione commovente di gratitudine, di

affetto per il nostro Santo: una volta gli fu consegnata una di queste lettere. Il Santo, che

ormai sapeva il contenuto, prese la lettera e la cominciò a carezzare come se fosse stata un

bambino, a baciucchiarla, a mettersela sul cuore e stringerla come in un abbraccio.

I due barnabiti presenti ed altre persone di casa vedendo quella scena graziosa, abilmente

commentata da espressioni del volto e parole opportune, pensavano ad un atto di umiltà del

Santo od a qualche cosa di simile e si commovevano anch'essi, si edificavano.

Niente di questa filosofia: S. Filippo esprimeva semplicemente con un gioco ciò che altri

avrebbe espresso con parole convenzionali o di rito.

Antonio Gallonio, uno dei prediletti del Santo, candido e semplice, un giorno passò accanto

a Filippo, il quale lo guardò in una maniera tanto severa che il poveretto ne sentì un

grandissimo dolore.

Egli si sentiva innocente e fu preso così all'improvviso che non pensò nemmeno

lontanamente ad uno degli scherzi abituali e delle finte bravate, e si sentì profondamente

offeso.

Mentre cercava la ragione di questo trattamento del Padre tanto amato, ecco ché si sente

chiamare

- Antonio, Antonio, vieni qua!

- Ma che volete Padre, rispose il poveretto, mentre si aspettava il resto della scena

precedente?

- Vieni qui, presto che voglio darti un bacio. Appena arrivato quel bravo figliolo, Filippo lo

prende per il capo e lo bacia teneramente, come una madre e chiede di essere baciato!

Ma, alla fine, come in questo caso ed in tanti altri, quando la bizzarria era passata o quando

aveva fatto cilecca, ed in un certo modo, egli voleva chiedere scusa, esclamava, come uno

che rimprovera se stesso: io sono balordo, sai!

Talvolta mentre o si stava seduti vicino o si andava insieme per la casa e per la via, in

grande tranquillità, ecco che il vicino gridava: ahi!... come per una trafittura improvvisa, e

guardava in viso il Santo, come interrogando.

Che cosa era successo? Era arrivato l'estro nel cervello di Filippo e subito aveva dato uno o

due pizzicotti, nel luogo strategicamente più opportuno: in un fianco, sulle costole, nel

collo.

Filippo allo sguardo interrogatore rispondeva similmente con uno sguardo di meraviglia,

ma nello stesso tempo festoso, che diceva tante cose, ma tutte care come, per esempio, che

quel pizzicotto era stato una dimostrazione di affetto.

Uguale al pizzicotto era il ceffone, deposto specialmente sulle guance o dietro al capo.

Talvolta gli veniva a portata di mano qualcuno che si trovava in una piccola crisi di

malinconia, di preoccupazione, in una condizione di spirito non normale, non serena.

Bisognava scuotere quel tale da quel malessere spirituale.

- Si udiva improvviso un « paf » e nello stesso tempo un ceffone cadeva su una guancia o,

come surrogato del ceffone, una percossa su la parte più disponibile del corpo!

Il maltrattato si volgeva a Filippo, sorpreso e sconvolto nel viso, come per dire: perché

questo? che cosa ho fatto? ma questi non sono scherzi!...

Page 22: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Il Santo alla sua volta, con un'aria ingenua, come chi sentisse pienamente innocente, diceva:

- Perché ti lamenti? Non ti ho fatto niente.

- Come niente? Ho sentito io, ho sentito.

- Ma no, hai sentito male; io non ho dato a te ma al demonio.

Era un bel modo di giustificare un rimedio un po' costoso e di far ricadere sul demonio,

come presunto autore di uno stato malinconico, la colpa di ogni cosa.

Talvolta invece di schiaffi o pizzicotti usava piccoli capolavori di destrezza e di genialità,

che però pungevano come spillo.

Uno dei suoi giovani, richiamato talvolta per una monelleria od altra piccola colpa

giovanile, si scusava sempre, negava e mai confessava la sua colpa.

Un giorno Filippo lo vede arrivare e dice scherzoso - Ecco che arriva Eva!

- Come Eva? Quello è Luciano, rispondeva uno dei presenti.

- Non è vero: si chiama Eva, rispondeva Filippo, con convinzione.

- Se mai, Padre, si potrebbe chiamare... Evo, ma non Eva, perché è un uomo, rispondeva

l'interlocutore.

- Si chiama Eva invece e sai perché? Perché quella sciocca di Eva, dopo aver fatto il grosso

peccato di cogliere, mangiare e poi offrire ad Adamo il frutto proibito, al rimprovero del

Signore, invece di accusarsi e chiedere perdono, cercò di scusarsi, di giustificarsi dicendo:

il serpente mi ha ingannato.

Da una prima volta il nomignolo di Eva venne distribuito con una certa profusione, ma

sempre con successo.

I due ladroni.

Ed ora, a conclusione di questo capo, un episodio dei primi tempi di Filippo in S. Girolamo

della Carità, in cui si vede che la pace profonda che regna nel cuore dei santi, anche nella

sofferenza fisica, è capace di vincere ogni più grave malvagità.

Appunto nella casa detta s'erano intrufolati, tra il personale che badava alla sagrestia, due

apostati, due frati sfratati, scappati dai loro conventi.

Il capo del personale di tutta la casa e della chiesa un tal Vincenzo Teccosi, medico, si dette

ad organizzare una persecuzione contro Filippo, per riuscire a ciò a cui non era riuscito da

solo.

I due furfanti, messi su dal Teccosi, iniziarono col mettere in ridicolo il Santo: fingevano di

piangere, di commuoversii, di sospirare come a Filippo avveniva durante la Messa.

Passarono al peggio: gli nascondevano le vesti sacre, prima di pararsi per la celebrazione e

poi, alle ripetute richieste, davano le più brutte e perfino indecenti: gli nascondevano la

chiave dei Tabernacolo per non fargli distribuire la santa Comunione, lo screditavano in

mezzo al pubblico e cercavano di allontanare i penitenti dal suo confessionale.

Talvolta, passandogli accanto, come fanno i peggiori monelli, lo urtavano, cercando di farlo

cadere.

Filippo pativa molto, ma non scattava e seguitava per la sua via.

Una tale condotta, ch'era una vittoria, esasperava sempre più il Teccosi e i suoi aguzzini.

Un giorno, sotto questa pressione di rabbia, uno dei due scomunicati incontra Filippo e lo

investe in maniera del tutto insolita, come un selvaggio: dava l'impressione di voler

ricorrere alle mani e ci sarebbe arrivato, forse, se non fosse capitata cosa del tutto

inaspettata.

Arriva l'altro compare, l'altro scomunicato e vede la scena: lo sfratato suo collega si dimena

come un energumeno e pare un veno posseduto dal diavolo: Filippo è di fronte, sofferente

sì ma dignitoso.

Page 23: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Quel tanto di pietà umana che restava ancora nello scomunicato arrivato dopo, si ribellò e

comprese, come in un momento di luce, la vigliaccheria di cui anch'egli s'era reso

colpevole, tante volte.

Crediamo che, forse, intervenne un raggio di grazia: Filippo gli appare com'è, un santo, un

martire ed egli si scaglia contro il complice del giorno prima, lo afferra per il collo, lo butta

per terra ed è per strozzarlo...

Ci sarebbe riuscito, ma Filippo interviene e, giovane com'era, riesce a strapparlo dalle

unghie del suo improvvisato, ma ancor feroce difensore.

Questo fu il primo atto.

Poco tempo dopo, l'apostata difensore di Filippo, ritornato in sè, riprese l'abito religioso,

ritornò al suo convento e fece penitenza.

Il medico Teccosi anche lui si ricredette, si pentì, e non potendo più resistere al rimorso, un

bel giorno, mentre Filippo era con altri, irruppe in mezzo, si gettò ai piedi di lui, chiese

perdono, gli prese la mano e la baciò e pianse. Divenne figliolo spirituale di Filippo e non

passava giorno che non lo vedesse per averne ordini, consigli, per confessarsi.

Arrivato a morte, Teccosi già cristiano edificante sotto la guida del Santo, volle lasciargli,

come attestato di riconoscenza, un legato di cento scudi, somma non piccola per quei tempi,

ed anche altra roba.

Il Santo, quando venne a conoscenza dell'atto generoso del suo figliolo spirituale, dette

tutto alle nipoti di lui e non volle accettare.

CAPO VII

GIUOCHI PER LA LIBERTA'

Il fascetto di ginestre. Un bel giorno, i romani poterono vedere, per i luoghi allora più frequentati nelle vicinanze

di Castel S. Angelo, un prete vestito, come i preti di S. Girolamo della Carità con una

zazzera che scendeva sulle spalle, la zimarra con le maniche lunghe ed ampie, il copricapo,

oggi più conosciuto col nome di zucchetto e sopra di questo un autentico cappello dalle

larghe falde, legato sotto il mento, come gli Uditori di Rota, cioè certi altissimi funzionari

della S. Sede, quando accompagnavano il Papa, cavalcando.

L'acconciatura era solenne, ieratica e concorreva a conciliare riverenza, per altro meritata,

ai preti di S. Girolamo. Ma la figura tanto austera di quel prete era resa ridicola dal fatto che

egli aveva in mano un gran mazzo di ginestre, un vero fascio, e faceva con esso una

commedia buffa, un chiasso incredibile.

Odorava le ginestre di tanto in tanto, con eccitata voluttà, le metteva sotto il naso di quelli

che gli stavano vicino, ci giocherellava con le mani, scambiava qualche parola di lode e di

gradimento per quei fiori con chi gli stava di fianco e dimenava il capo a destra e sinistra,

come per raccogliere consensi, pavoneggiarsi.

Un'autentica piagliacciata.

Badandoci, si sarebbero potute raccogliere frasi contrastanti di questo genere: ma è un

pazzo quel prete? come si permettono certe cose? mai in Roma s'è vista cosa simile! I più

ridevano, beffavano, si divertivano...

Dei molti che facevano gruppo intorno a lui, chi stava silenzioso e con disagio, chi si

sforzava di ridere per mostrarsi superiore alle beffe del pubblico, ma i più accoglievano con

evidente rincrescimento la parte di scherno che toccava ad essi come compagni del prete.

Di tanto in tanto, però, qualcuno che la sapeva lunga e mostrava di conoscere il prete

diceva: è proprio un santo! come la sa vendere! sempre lui!

Qualcuno ancora rifletteva e confidava al suo vicino è inesauribile quel padre Filippo: oggi

gli è venuto l'estro delle ginestre: sempre una nuova!

Page 24: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Dopo questa prima volta, lo spettacolo si ripetè, ma con minor successo.

Si faceva sempre più strada l'opinione, la convinzione che, in fondo, non erano gli altri a

canzonare Filippo, ma lui a canzonare gli altri, seppure in buona fede e senza cattive

intenzioni, facendo credere quello che non era...

Le acconciature. Un'altra delle specialità del Santo erano le acconciature della sua persona ed ho

l'impressione che nessuna donna si affatichi tanto e tanto lavori di fantasia per parere bella,

quanto Filippo si affaticò e ricercò per parere... brutto, nel senso di apparire goffo, scemo,

stupido, pazzo e, forse, peggio!

Era, un anno, la festa della Natività di Maria Vergine, solennità delle prime per la Chiesa

Nuova ed erano intervenuti al Vespero, cardinali, prelati di ogni ordine ed anche il Card.

Pietro Aldobrandini, nipote del Pontefice Clemente VIII, ed una massa di popolo occupava

anche gli angoletti del tempio.

La cerimonia si svolgeva nella commossa, silenziosa attenzione dei fedeli ed il canto

liturgico dei salmi innalzava la preghiera di tutti.

Ad un momento, dal fondo della chiesa, si vede avanzare una figura strana: un uomo con un

giubbone di raso bianco molto lungo, abito che non era di ecclesiastico, né di laico per

venire in chiesa.

Da un lembo di veste nera, verso i piedi, si comprendeva che chi veniva era un prete o

magari un chierico. Un volgersi di teste, verso il nuovo venuto attrasse anche i più devoti e

parole sommesse corsero per tutta l'ampia navata: si chiedevano: Chi è quell'uomo? Che

vuole? Che disturbatore! Ma lo mandino via...

I più vicini lo riconobbero presto: era Filippo.

Egli andava fiero nella sua strana veste, come il più alto dignitario.

La gente gli faceva largo ed ora, chi rideva, chi faceva commenti di altro genere e tutti si

chiedevano: ma dove va il P. Filippo così conciato?

Giunse al presbiterio, salì il gradino ed avanzò ancora tra le bianche cotte e i paramenti

fastosi: si pensava che lo avrebbero fermato, ma non fu così.

Nel presbiterio tutti conobbero Filippo ed allora Pietro Aldobrandini si levò dal suo alto

posto, gli andò incontro, lo salutò rispettoso, lo invitò a prendere il suo posto.

Filippo si scusa amabilmente, si mette a sedere tra i chierici minori, come un caudatario

qualsiasi, dicendo - Sto bene qui.

Segui la cerimonia con la più grande devozione ed edificazione.

Filippo pensava di trovare un'umiliazione ed invece trovò un'altra glorificazione.

La pelliccia di martora.

Un giorno vedono Filippo per i Banchi, quando il luogo era più affollato, con una ricca

pelliccia di martora della quale egli fa ostentazione, come un vanitoso: la liscia con l'una e

l'altra mano e pare godere al contatto col pelo fine e caldo.

Non sta mai fermo: se l'aggiusta e la rimuove ancora, la guarda e poi gira con gli occhi

come per vedere se gli altri apprezzano la sua nuova e bella veste.

Si ride, si commenta, e si dicono delle spiritosità molto divertenti.

Sembra proprio un teatro.

Che storia è questa, chiede qualcuno con confidenza, ad uno dei complici di Filippo?

Apprende così la storia della pelliccia.

Il cardinal Alfonso Gesualdo amava molto Filippo e gli regalò quella pelliccia, perché la

portasse per casa, nell'inverno, ma essa servi per altro.

Page 25: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

La pelliccia, come un attore, recitò la sua parte nella vita complessa di Filippo per un mese

circa e cioè finché gli altri ci risero, poi andò a finire dietro le quinte, vale a dire in un

ripostiglio della casa.

Ma la pelliccia era diventata storica, in un certo senso, e dopo molte vicende è passata alla

casa dei Filippini di Firenze, dove fa la parte di reliquia ma tutta spelata.

La veste alla rovescia ed altri abbigliamenti.

Un'altra volta, Filippo vuol dare spettacolo, ma non sa egli stesso come: pensa e ripensa e

non trova: si mette allora a cercare per la casa.

Dopo un certo tempo, il suo occhio si posa sopra una veste vecchia, logora, con non pochi

strappi nella stoffa e nella fodera.

Benissimo! esclama egli, mentre subito un pensiero gli sorride nella mente.

Afferra con gioia la vestaccia, se la mette alla rovescia, con le ampie tasche rovesciate

all'infuori che parevano vesciche sgonfie.

Se l'aggiusta in modo da mettere in evidenza quanto vi era di peggio, ed esce con l'aria di

chi va ad un ricevimento.

Passa con sussiego e cerca di attirare lo sguardo.

La solita scenata con concorso specialmente dei ragazzi, qualcuno dei quali vuol toccare la

veste.

- P. Filippo, dice uno appena arrivato, da poco avete acquistato questa nuova veste?

- P. Filippo vi sta a pennello: siete più bello cosi!

- P. Filippo chi è il vostro sarto?

- Auguri, auguri P. Filippo per cento anni.

E' inutile dire che queste battute non avevano nulla di sprezzante: v'erano anche quelli che

dicevano parole di ammirazione e di edificazione.

Nessuna manifestazione di disprezzo ed il Santo anche questa volta tornò deluso di 'non

aver avuto quello che cercava.

Per casa, aveva una specie di vestaglia rossa, ben lunga e girava così con disinvoltura,

ricevendo le persone che venivano abitualmente: era., diciamo così la divisa per ricevimenti

confidenziali, come oggi per noi il pigiama. Abbigliamento più complesso era poi quello

che importava più cose insieme, come quando usava uno zucchetto rosso, scarpe bianche,

berretto da prete ma alla brava, con una certa aria spavalda.

Talvolta usava indumenti oppure oggetti propri di persone costituite in prelatura e di grande

autorità ed assumeva pose convenienti.

Un giorno così si mise la berretta rossa da cardinale mandata da Gregorio XIV.

Le reazioni di quelli che venivano erano, spesso, non quelle di solito riso o di festosità

burlona, ma assai più piacevoli.

Un giorno, egli si trovava truccato così da grande personaggio, quando uno arrivò e si

fermò su la porta, esitando.

- Avanti! perché non entri? disse egli.

- Non so Padre cosi come si trova, se doverle dare dell'illustrissimo o del reverendo o altro

titolo.

Disilluso allora e fingendo una distrazione che voleva nascondere il suo giochetto non

riuscito, diceva: che sciocco sono io, che sbadato!

Un giorno si mette in testa un cuscino, uno di quelli che si usano, non già per il letto ma per

poltrone e divani e poi ordina a coloro che sono con lui:

- Ora andiamo a fare quattro passi.

- E questo cuscino che ne facciamo? Lo mettiamo giù? Datelo a me che lo porto via io.

- No, questo è un copricapo e lo tengo per me e usciremo così.

Page 26: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

E uscirono infatti: il cuscino ad una certa distanza pareva uno di quei fagotti oblunghi, che

le contadine portano equilibrandolo con movimenti del capo.

Egli procedeva solenne e non era un momento quieto con le mani, non perché ce ne fosse

bisogno ma per recitare la commedia.

Anche questa volta ci fu festa, si, chiasso, risa e beffe amabili ma, disprezzo niente.

Crudeltà contro la sua barba e... raffinatezza per i suoi capelli.

Filippo aveva una bella barba, piuttosto tondeggiante che incorniciava bene il suo viso

bello, ma un giorno gli venne in mente di incrudelire contro quella barba.

- Vieni fratel Giulio, egli dice a Giulio Savira, prendi le forbici e il resto per aggiustare la

mia barba.

Quando il panno bianco che usano i barbieri fu intorno al collo, Giulio disse:

- Che facciamo, Padre?, Accorciamo la barba o solo l'aggiustiamo?

- Dobbiamo tagliarla e aggiustarla nello stesso tempo, come ti dirò io.

- Aggiustarla e tagliarla! Io non capisco Padre.

- Ecco devi tagliarla da una banda sola ed ora vedremo se dalla parte destra o sinistra: è

cosa da studiare un poco!

- Come? Tagliare la barba da una parte sola? Ma ciò è impossibile e non si è fatto mai da

che mondo è mondo!

- Ed ora si comincia a fare! Non parlare più Giulio ed ubbidisci!

Il buon fratello si oppose ancora un poco, ma poi, figlio dell'ubbidienza com'egli era, non

disse parola e si mise all'opera: non poté fare altrimenti, perché Filippo, che scherzava di

tutto, con l'obbedienza non scherzava mai. Una volta compiuta l'opera, Filippo si alza come

trionfante.

I commenti questa volta furono varii ed il Santo ottenne, in certo modo, il suo scopo,

perché molti deploravano quel suo gioco straordinario.

La commedia durò finché la barba non crebbe e fu essa a far tacere familiari e gente.

Il racconto fu raccolto dalle labbra del P. Pietro Consolini e si trova nel Codice 13 «Fondo

di S. Francesca Romana» della Bibblioteca Nazionale.

Era un giorno di festa grande alla Chiesa Nuova ed all'altare si celebrava una solenne

Messa cantata e tutto pareva tranquillo.

In fondo alla chiesa però, presso la porta, dalla parte interna, si notava un folto gruppo di

persone, che ridevano sommessamente e facevano commenti animati.

- Che cos'è? Domandavano i nuovi venuti e intanto si facevano largo per arrivare al centro

del gruppo ed ecco che vedevano.

Filippo era seduto su una sedia, col solito panno bianco intorno al collo e il fratel Giulio

Savira gli tagliava i capelli.

Ma questo era il meno: Filippo non stava tranquillo, come per solite si sta sotto le mani del

barbiere, ma faceva delle smorfie e diceva in modo che ognuno potesse sentire parole di

compiacimento e consigli per Savira; rivolto poi ai circostanti, come un invito ad osservare,

esclamava

Adesso mi acconcio bene!

L'effetto di queste azioni? Scandalo? Meraviglia? No! Il contrario.

Lo stesso Savira ci confida che il Santo aveva notato che alcuni raccoglievano i suoi capelli

per devozione e ne domandavano allo stesso Giulio e perciò ordinò di buttarli dalla finestra:

li andavano a raccogliere nella via e non solo persone del popolo, ma anche persone

autorevoli per nascita e per cultura, come i Crescenzii.

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Molte volte gli scherzi del Santo non si limitavano ad un atto, ma divenivano scenette, più o

meno complesse, e, spesso, come vedremo in seguito, piccoli drammi di gioia che si

svolgevano durante lunghi giorni.

In pubblico si metteva a leggere e declamare con l'aria di un dottore o di un artista, ma lo

faceva in tal modo che lo avessero a credere un ignorante pretenzioso.

Quando glie ne veniva l'estro, si dava l'aria di ballare e faceva salti non solo in pubblico, tra

la gentarella, ma anche in camera sua, presenti cardinali, personaggi dell'aristocrazia.

Invece di scendere le scale, un gradino per volta, ne scavalcava due o tre, rapidissimo, quasi

correndo e poi, arrivato giù, o si voltava a quelli che erano restati di sopra o si volgeva a

quelli intorno come per riscuotere approvazione e per significare: sono o non sono bravo

io?

Una scenetta che si ripeté tante e tante volte ma con varianti che le circostanze

richiedevano, era quella di ricevere gli :ospiti o leggendo o udendo leggere con profondo

interessamento e con pause di commenti, con gesti più o meno strani e smorfie del viso di

ogni genere, come chi è talmente compreso dalla lettura che non se ne può stare quieto.

Il libro che leggeva o faceva leggere era sempre un libro di facezie, principalmente quello

de «Le Facezie del Piovano Arlotto ».

Questo Arlotto Mainardi, detto semplicemente il Piovano Arlotto, perché era parroco di una

parrocchia presso Fiesole, era stato un personaggio strano, divenuto popolarissimo in

Toscana, per le sue trovate bizzarre, le sue facezie e le sue spiritosità.

L'umore di quest'uomo strano, non mancante di una certa genialità, non si arrestò nemmeno

dinanzi al pensiero di quella cosa tanto seria ch'è la morte e scrisse questo epitaffio per la

sua sepoltura: « Questa sepoltura il Piovano Arlotto la fece fare per sé e per chi ci vuole en-

trare ».

La curiosità delusa di una grande dama. Un incontro avvenne, una volta, di Filippo con la moglie dell'Ambasciatore di Spagna, in

casa della marchesa Giulia Orsini Rangona.

Verosimilmente fu questa nobilissima gentil donna romana, penitente di Filippo, a

preparare l'incontro, perché essa conosceva benissimo i doni soprannaturali del Santo

e ne avrà parlato molto alla sua amica spagnuola, la quale ardeva ora del desiderio di

conoscere di persona un tanto uomo, di parlare con lui: parlare con uno giudicato santo è

sempre una grande e nobile curiosità.

Altre dame probabilmente facevano corona alla padrona di casa ed all'ospite.

Dopo le prime battute e qualche ragionamento piuttosto generico, l'ambasciatrice venne al

punto centrale della conversazione e domandò

- Da quanto tempo, Padre Filippo, avete lasciato il mondo?

Essa immaginava, forse, una drammatica crisi spirituale, un combattimento interiore, una

vittoria sudata, come si legge di tanti convertiti e già assaporava uno di quei colloqui di

pietà dolciastra come piacciono alle donne. - Io non so d'aver mai lasciato il mondo,

signora, rispose Filippo.

L'ambasciatrice cadde dalle nuvole, come si dice e, forse, pensò tra sé: ma valeva la pena di

parlare con un prete qualsiasi? E questo è. un santo? Una grande disillusione, come, per un

ghiottone, di un piatto prelibato che poi trova disgustoso.

- Io, infatti, prosegui Filippo, mi diletto, di libri di facezie come quello del Piovano Arlotto,

leggo le Rime di Petrarca, il poema di Ludovico Ariosto e tosi altri libri simili,

specialmente di favole: e questi sono belli e buoni libri.

Il Santo, per accreditare meglio le sue parole, si volse al P. Antonio Gallonio, che si trovava

con lui e soggiunse di, Antonio, non è così?

Page 28: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Egli serviva queste notizie tanto bene, che la signora dovette mostrarsi visibilmente

sconcertata e... quasi scandalizzata. Gallonio avverti tutto ciò.

Invitato poi a fare una testimonianza, materialmente vera, ma falsa nella sostanza, mise le

cose a posto e disse - Che meraviglia, Padre, che voi leggiate di questi libri, se non potete in

altro modo temperare le fiamme dell'amore di Dio?

La situazione si ristabilì, ma Filippo ne restò scontento e, a casa, rimproverò il suo buon

figliuolo spirituale e gli disse ironicamente: mi hai dato proprio una bella risposta... Che t'8

mai passato per la mente a dire ciò che hai detto? Dio te lo perdoni!...

Un cattivo beffato in chiesa. Della Messa del Santo si leggono nel processo di canonizzazione cose che, se non fossero

state viste, osservate attentamente, moltissime volte, da innumerevoli spettatori, non si

potrebbero assolutamente credere: era una vera azione scenica vissuta, goduta, patita, nello

stesso tempo, e tuttavia sempre mantenuta su un piano di profonda riverenza.

Un impeto di fervore l'investiva, solo che si cominciasse a preparare, e, per non essere

sommerso in uno stato mistico, che gli avrebbe impedito di celebrare, si faceva leggere dei

brani di quei libri detti innanzi.

Era l'unico mezzo per restare padrone delle sue azioni. Durante la celebrazione, sempre

tutto vibrante di commozione pia, per non essere completamente assorbito, prendeva un

oggetto, lo rimuoveva, rivolgeva la parola a chi serviva per una cosa insignificante,

avvertiva di non fare rumori, di mettere fuori un cane, che magari non c'era, e così di

seguito.

Nel momento culminante dell'elevazione dell'Ostia o del Calice, era come agitato da una

corrente elettrica, che si produceva in lui e ne riceveva uno slancio fisico, che spesso si

cambiava in estasi, dinanzi a molti spettatori gravi, attentissimi.

Le parole della Messa acquistavano un movimento interiore.

Quella Messa lo esauriva, lo fiaccava ed era poi obbligato a distendersi sul letto, per

riprendere le forze con un riposo di abbandono assoluto.

La sua Messa divenne celebre ed ebbe fama di uno spettacolo carismatico: assisterci era

desiderio, privilegio, godimento spirituale, ma non tutti potevano essere ammessi per tutta

Roma se ne parlava come di fatto mai visto. Tutte queste meraviglie culminarono poi in una

meraviglia più grande, alla quale accenneremo poi, ma qui dobbiamo parlare della beffa a

quel cattivo.

Godeva grande credito ed aveva grande influenza, al tempo di cui parliamo, un certo Attilio

Serrano, un monaco che, fuggito dal suo convento, era venuto a Roma e con le finzioni,

l'astuzia, era arrivato molto in alto nella prelatura: non bisogna meravigliarsi di questa cosa,

perché nel mondo ed in tutte le classi ci saranno sempre lupi che si coprono con la pelle di

agnello.

Costui vedeva male Filippo e fra le altre cose lo tacciava di ignoranza e fece molto male al

nostro Santo e ne ostacolò l'opera.

A sentir parlare tanto della Messa di Filippo, gli venne la voglia di assisterci anche lui e,

una volta, informatosi dell'ora, andò in chiesa e si mise in posto dove poteva udire, e vedere

anche i più piccoli gesti.

Alla curiosità si accoppiava in lui una cattiva intenzione, quella di avere la prova

dell'ignoranza del Santo ed un nuovo argomento per nuocergli e giustificare la sua

avversione.

Il Serrano rappresentava un personaggio e perciò ci fu chi avverti Filippo e gli disse:

Guardi, P. Filippo, c'è in Chiesa, Monsignor Attilio...

Page 29: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Chi avverti il Santo aveva buone ragioni e, certo, sapeva le disposizioni poco buone

dell'uomo contro di lui. Filippo ebbe subito un lampo di genialità e, forse, pensò: ti servo

io!

Andato all'altare cominciò a fare una strage delle parole latine: le corte le diceva lunghe, le

lunghe corte, e tutte le maltrattava in un modo o nell'altro, come avrebbe fatto un

contadino...

Serrano faceva lo scandalizzato, fremeva, dava segni di impazienza, di riprovazione: ma

godeva anche: ormai aveva la prova che Filippo era un ignorante, un fanatico e tutt'altro che

un santo.

Tutto ciò, anche riguardo alla Messa, non deve fare meraviglia, si spiega con il

temperamento speciale del Santo e nello scopo santo che egli si proponeva. I contem-

poranei, le autorità ecclesiastiche ed anche insigni uomini di spirito che assistettero alle

Messe di Filippo non si scandalizzarono mai, anzi si edificarono.

Alla fine della Messa, rientrato il Santo in sacrestia, chiese con curiosità, come chi si

appresta a bere un bicchierino di liquore prelibato, che faccia aveva fatto il Serrano, mentre

lui diceva Messa e, man mano che udiva, rideva, rideva e si divertiva un mondo.

Filippo si regolò in quel modo proprio per bullarsi del Serrano?

No! La burla venne dallo svolgimento dei fatti, ma Filippo ebbe l'idea di umiliarsi: è lo

stesso scopo che aveva nel fare le altre sue bizzarrie.

Uno scopo ben più nobile di quello di burlarsi di un nemico.

Fu anche un atto di coraggio, perchè non ebbe paura di dare altro pretesto di nuocere a chi

gli aveva già nuociuto.

La conferma di quanto diciamo viene non solo da tante altre circostanze, ma dalla

conclusione della lotta e da un fatto straordinario.

Nel pieno della persecuzione di Serrano contro Filippo, un giorno, certo Vincenzo da

Fabriano, devoto del Santo, incontra nella piazzetta di S. Girolamo della Carità, il P.

Antonio Gallonio, il quale poi narrò l'episodio nella sua deposizione al processo, il giorno

sette settembre del 1595. Vincenzo dice: Padre Antonio, mons. Attilio perseguita il Padre:

vedrete che presto morrà.

In breve tempo, al Serrano fu tolta la pelle di agnello, venne fuori il lupo, furono cioè

conosciuti i suoi cattivi precedenti e ne restò svergognato.

Ci si ammalò e morì quasi disperato.

Mentre stava male e tutti gli altri l'avevano abbandonato, Filippo solo, dimenticando ogni

ingiuria, lo visitò. Ed ora facciamo solo l'accenno agli ultimi sviluppi personali di quella

Messa di Filippo, quando il Serrano era già morto ed il consenso, la venerazione per Filippo

erano senza contrasti.

Per consiglio di uomini dotti e pii e per licenza di Gregorio XIV, ottenne il Santo di poter

celebrare in una cappelletta vicina alla sua camera.

La Messa iniziava come il solito, ma, arrivato all'« Agnus Dei» tutti' i presenti uscivano,

l'inserviente spegneva le candele ed accendeva una piccola lampada, chiudeva le finestre

che erano a quattro doppi e le due porte a chiave, in modo che nessuno poteva entrare o

udire anche sillaba stando fuori.

Infine affiggeva una tavoletta con questa scritta: Silenzio che il Padre dice Messa.

II chierico poi andava per le sue cose e magari andava a pranzo.

Passavano non meno di due ore e, talvolta di più, e il chierico veniva e picchiava

discretamente: se Filippo, di dentro, con la voce, dava segno di entrare, apriva porte e

finestre, riaccendeva la candela e la Messa proseguiva. Se Filippo non rispondeva, il

chierico andava ancora via e ritornava dopo qualche tempo e non entrava fino a che il

celebrante desse licenza.

Page 30: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Ricevimento solenne di ambasciatori polacchi. Erano venuti a Roma, per conferire con il Pontefice Clemente VIII alcuni ambasciatori

polacchi ed il Papa consigliò loro, per gentile sentimento di ospitalità, le cose più belle di

Roma, le maggiori e più importanti come il Colosseo, il Palatino, S. Paolo Fuori le Mura ed

un certo Filippo Neri...

E' logico pensare che il Pontefice, per invogliare maggiormente i nobili personaggi, avrà

anticipato qualche notizia, qualche aneddoto.

Quando la visita fu annunziata, prima che arrivassero su, Filippo ordina al P. Pietro

Consolini di prendere il libro del Piovano Arlotto, come ci racconta il card. Agostino

Cusano, e gli comanda di leggere...

Filippo si volge ai nuovi venuti, appena arrivati sulla soglia della camera, e si scusa come

chi è impegnato in una grande faccenda e dice: aspettate un poco che si finisca di leggere

questa favola.

Nell'attesa della fine dava segni di compiacimento, di ammirazione e, per accattare stima,

commentava: vedete, signori, se ho dei buoni libri, se mi occupo di cose importanti, e simili

banalità.

I poveri polacchi si guardavano trasecolati e non sapevano se pensare ad uno scherzo di

cattivo genere, ad una beffa offensiva, ad un caso di pazzia, e tradivano visibilmente il loro

sdegno.

Si sbrigarono presto ed andarono via e sfogarono il loro malumore.

Il Santo, invece, si mostrò contento, come di un successo, e disse al lettore poco

soddisfatto, certo: Abbiamo fatto quanto bisognava fare.

Non sappiamo se i nobili polacchi ebbero tempo e modo di ricredersi, ma dovettero pensare

che un'avventura simile resterebbe unica nella loro vita e che un personaggio come Filippo

non si sarebbe mai trovato.

Una visita ed uno schiaffo solenne. Il nobile Lorenzo Altieri, come si ricava dalle circostanze, era tra i pochi nobili romani che

non avevano ancora avvicinato Filippo e, forse, ne aveva un poco di curiosità e si decise a

fare una visita quando il medico famoso Angeli Vettori lo esortò e s'impegnò a preparare la

visita stessa.

Filippo si mostrò col visitatore oltremodo allegro, frivolo e parlò di tutti e di tutto, ma di

anima, come l'Altieri s'aspettava, niente, niente!

Deluso, disgustato, preso commiato dal Santo, senza troppi complimenti, disse al Vettori

che l'accompagnava: - La condotta del Padre Filippo è stata davvero poco edificante e non

valeva la pena di incomodarsi per udire facezie e barzellette.

- Ma no, Lorenzo, non devi credere alle apparenze: il P. Filippo costuma fare così per

nascondere la sua santità: se tu ci ritornerai ed avrai pazienza vedrai che uomo, che santo è

il Padre Filippo.

E tanto disse, tanto fece il medico che persuase Lorenzo almeno a ritornare, seppure non del

tutto convinto, per arrivare in fondo a quella faccenda.

Il buon Vettori, ch'era buono si, ma non fino al punto di sopportare in pace una puntura

fatta all'amor proprio ed aveva trangugiato di malanimo la brutta figura, secondo lui, con il

principe romano, risentito com'era, disse al Santo:

- Padre Filippo, quando siamo andati via, Lorenzo Altieri mi ha confidato che, se non

propriamente scandalizzato, era restato per nulla edificato della vostra condotta: sperava di

udire qualche cosa per l'anima sua ed, invece, ha dovuto udire parole allegre e senza nessun

interesse: io so le vostre sante intenzioni, ma gli altri non le sanno: vorrei dunque pregarvi

Page 31: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

che trattiate con più gravità quel nobile signore, se ritornerà: mi ha promesso, infatti, che

ritornerà.

Il Santo, per nulla offeso della paternale, ma risentito, alla sua volta, per quello che egli

stimava un cattivo consiglio, rispose:

Che vuoi che io faccia? Vuoi, forse, che io mi metta sul grave? Che io sputi belle parole?

Non vedi, bestia, che direbbero: ecco P. Filippo è un santo. Sappi che se ci torna, voglio far

peggio. Uno schiaffo solenne volò sulle guance di Vettori.

Ma la battaglia... non seguitò, come sembrerebbe da queste premesse!

Altieri tornò e Filippo si comportò come le altre volte, ma il nobile era stato preparato e,

sotto quelle forme leggere alla superficie, cominciò a vedere ben altra sostanza e fu anche

egli tra i buoni figliuoli spirituali di Filippo.

Un terribile competitore.

Le competizioni ordinarie della vita sono per chi vuole essere superiore all'altro, accopparlo

moralmente, socialmente: le competizioni tra persone perbene sono per voler essere uno

inferiore all'altro.

E' in fondo, la situazione descritta dal Vangelo, nel paragone del banchetto: in un banchetto

ordinario c'è una gara ad accaparrarsi i primi posti: nel banchetto di quelle persone perbene

che sono i Santi, la gara è a mettersi all'ultimo posto.

Il competitore di Filippo nelle sue allegre imprese si chiamava Felice da Cantalice (Rieti)

ed era un laico cappuccino, nato pure lui nel 1515.

Dopo aver fatto il lavoratore dei campi fino a trenta anni, diventato cappuccino, fu mandato

a Roma, tra il 1547-1548 e qui fece il frate questuante, per ben quaranta anni, con un

grande spirito di umorismo, di gioia e di fervore.

Salutava tutti con le parole: « Deo Gratias» e così gli appiccicarono il nomignolo di «

Fratedeograzias », ma egli non se ne aveva a male, anzi ci godeva.

Superava, con grande spirito evangelico, tutte le non lievi difficoltà del suo incarico di

questuare: se v'erano di quelli che offrivano e, almeno, rispettavano, v'erano di quelli che lo

ricevevano male e gli facevano anche beffe ed ingiurie: egli, per contrario, dava cose

buone, diceva parole buone.

Svolgeva con umiltà un apostolato continuo: domandava se andavano a Messa, se facevano

la Comunione, se pregavano e lo faceva con tanta grazia che nessuno se ne sentiva offeso o

infastidito.

Ai giovanotti domandava se ubbidivano ai genitori, alle ragazze se erano modeste, ritirate.

Analfabeta, ma intelligente e di grande spirito interiore, non parlava a casaccio, sapeva

dove far cadere le sue parole.

Divenne, in breve, una figura popolare, una « macchietta», nel senso migliore della parola,

un «originale», un beniamino del popolo romano.

Tutti lo conoscevano e lui conosceva tutti e, si può dire che era, in un certo senso, un

familiare per ogni casa. Anche le persone più in alto e più in vista, come S. Carlo

Borromeo, lo amavano ed ammiravano.

Era impossibile che due Santi, due Santi della via, non si incontrassero, non si amassero e

non entrassero in gara per farsela a vicenda.

Se ne raccontano di belle in proposito, ma il lettore, dato l'umore di tutti e due, può

immaginarsele; noi ne riportiamo solo alcune.

Passa il Cappuccino per il luogo detto oggi Banchi Vecchi, ma allora semplicemente

Banchi ed ecco che spunta, dall'altra parte, Filippo, che si raggirava spesso in questo stesso

luogo.

- Buon giorno Padre Filippo avete sete? dice il Cappuccino, malizioso.

Page 32: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

- Tanta, fra Felice.

- Ecco la fiaschetta: voglio vedere se siete bravo a bere qui nella via.

- Clo... clo... clo..., fu la risposta di Filippo, che subito aveva afferrato la fiasca, vi s'era

attaccato con le labbra e fingeva di bere con quel caratteristico rumore del gargarozzo di chi

beve in fretta ed avidamente.

La gente attorno rideva e quelli che non sapevano commentavano variamente e tutti si

divertivano.

Alcuni che conoscevano e Filippo e fra Felice si edificavano e qualche spiritoso avrà

pensato su per giù: costoro la vogliono dare a bere a noi.

Quando il Santo ebbe finito di bere, restituì la fiasca, ma nello stesso tempo, mise il suo

gran cappello di prete sulla testa rasa del cappuccino, dicendo:

- Ora a te, Fra Felice, e va pure via...

- Sì, vado via, ma se il cappello mi sarà tolto, non é colpa mia.

Per un pezzo, il Frate camminò sempre tra le risa della gente e sarebbe arrivato molto oltre,

quando Filippo pensò che lo scherzo ora poteva avere termine e, forse, temé, che il cappello

non sarebbe ritornato: mandò qualcuno e la commedia ebbe termine.

Altre scenette simili, almeno in parte, si svolsero tra Filippo e Felice, senza nessuna

intenzione di giuoco, ma lo svolgimento stesso delle scenette, il carattere dei due attori, e le

circostanze portarono una nota di comicità.

Un giorno, a Montecavallo, sito pur esso molto frequentato, Fra Felice scorge di lontano

Filippo, gli corre incontro, gli afferra le mani, gli si getta ai piedi, chiede la benedizione,

senza dir parola.

Filippo abbraccia il frate e stanno per un pezzo tutti e due così in atteggiamento di riverenza

l'uno verso l'altro. Si dice che i Santi sono quelli del chiodo cioè cocciuti, almeno quella

volta fu così.

Nessuno cedette e, cessato quel primo impeto, si rialzarono e senza dir parola, si

separarono.

Un'altra volta, fu fra Felice ad andare a S. Girolamo della Carità a chiedere la benedizione a

S. Filippo.

- Non te la voglio dare: sei tu che devi dare la bene dizione a me.

- Assolutamente, Padre Filippo, io non ve la darò io sono laico, voi prete.

- Neppure io te la darò, ripeto: tu, fra Felice, anche laico, puoi benedire.

Stettero cosi abbracciati lungamente e poi, in silenzio si separarono.

Fra Felice morì otto anni prima di Filippo e, certo, il Santo dovette soffrirne molto, nella

sua sensibilità umana, ma anche goderne nello spirito, pensando che ora il Cappuccino si

trovava in paradiso...

Filippo combinò a fra Felice un amabile inganno del quale avrà avuto notizia nell'altra vita,

ma in questa certamente no.

S. Filippo desiderava di avere e serbare un ritratto del suo santo amico, ma non formulò

neppure la più lontana idea di arrivare al suo scopo per le vie ordinarie e... legali.

Se avesse detto una cosa simile al Cappuccino, lo avrebbe, anzi, messo in guardia e non ci

sarebbe arrivato più nemmeno per le vie torte.

Andò dunque da un suo amico pittore, che si chiamava Giuseppe De Cesari, ma ch'era più

comunemente conosciuto col nome di Cavalier d'Arpino, gli espresse il suo desiderio e

suggerì, molto probabilmente, il piano.

Un giorno, il frate questuante arrivò anche in casa del pittore per chiedere l'elmosina per

amore di Dio...

Il Cavaliere tenne a bada il cappuccino, con qualche pretesto e, intanto, mentre fingeva di

attendere ad altro, ne ritraeva le linee.

Page 33: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Collocato il ritratto, rifinito poi, lo mandò a S. Filippo, scrivendo la lettera dietro la

tavoletta della pittura, con queste parole: « M.R.P. Venne fra Felice lo feci aspettare e

sedere e intanto ordinai che le dessero il pane p. l'elemosina solita et io finsi disegnare altro

e discorrevo con d. P poterlo ben considerare dove mi e riuscito di farlo senza che de si sia

accorto e Pertanto lo mando a vostra Rev.za e mi benedica. Al Padre Filippo Neri umil.mo

servitore Giuseppe De Cesari Darpino.

Abbiamo riportata la forma originale della lettera, perché aiuta, in qualche modo, a vedere

l'episodio nella luce del tempo.

Filippo ebbe così il ritratto, che poi, chi sa per quali vicende, ora si trova in casa Gaetani.

Collocato in un'antica cornice di ebano è una delle cose. più belle della Galleria d'arte del

Duca di Sermoneta. Tanto ricaviamo dal Capecelatro, che prese visione di ogni cosa.

Fra Felice che subì un inganno dal suo santo amico Filippo, subì anche un'affettuosa

violenza dai suoi devoti. Restato per tre giorni esposto in chiesa, per soddisfazione della

città tutta, poichè era già ritenuto santo, come la Chiesa poi lo proclamò il 22 maggio 1712,

per averne reliquie, i visitatori non gli lasciarono veste intera o pelo di barba...

CAPO VII

UNO STILE DI GIOIA Non bisogna credere che oltre gli episodi riportati e che riporteremo, non vi siano altre

manifestazioni di gioia nella vita del Santo.

V'è in lui uno stile di gioia, vorrei dire, al quale non si sottraggono le più varie circostanze

della sua multiforme attività, come non vi è espressione che si sottragga allo stile di uno

scrittore.

Molte volte, un sorriso, una carezza, un gesto, un semplice cenno, un atteggiamento del

volto sprigionano una fiamma di gioia.

Raccogliamo in questo capo, alcuni di questi momenti, di queste fiamme, che non possono

trovare posto in altre parti del volume.

Il giovane dal collare.

V'è un giovane che tiene troppo alla sua eleganza per poter restare tra le fila degli «

spirituali» e si compiace di un collare tutto ricci, increspature, una bellissima gorgiera

insomma.

Filippo lo vuol liberare da quella miseria e gli va vicino, gli passa una mano intorno al

collo, comincia ad accarezzarlo e ciò fa varie volte.

Alla fine gli dice: ti farei più spesso carezze, se questo tuo collare non mi raspassel

Il giovanotto capi e, l'indomani, tornò senza quel collare che raspava, non già le mani del

Santo, ma la serietà del giovane stesso.

Una pazzarella.

Non era una pazzarella Ersilia Bucca, una giovane sposa che portava una creatura nel seno.

Non si sa per quali manifestazioni, la poveretta era divenuta di umor nero, tutta affanno,

perché temeva di dover morire nel prossimo parto e non trovava mezzo di liberarsi da

questo incubo.

Un giorno la giovane sposa, tornando dalla chiesa a casa, incontra presso la pila dell'acqua

santa Filippo, il quale era stato informato del travaglio.

Si volge a lei e dice paterno, scherzoso, beffando:

- Guarda questa pazzarella, guarda che s'è messa in testa.

Questa presa in giro, come un raggio di sole, spazzò via la nuvolaglia da quell'anima.

Pose poi la mano sulla testa della sofferente ed aggiunse

Page 34: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

- Non dubitare.

Ersilia tornò a casa festante ed ebbe poi un parto felice.

La balia di Dio. Pietro Focile e Sulpizia Sirleti erano due coniugi, che avevano una figlioletta di tre anni, la

quale si ammalò presto a morte.

La madre inconsolabile pregava il Santo di compiere il miracolo della sanità della piccola,

ma egli sapeva che Dio la voleva in Paradiso e lo disse chiaramente alla madre.

E' difficilissimo trovare una frase, una parola di conforto, in simili casi: le parole che si

dicono comunemente sono frasi fatte, luoghi comuni inefficaci.

- Quietati, che Dio la vuole, disse Filippo e ti basti di essere stata la balia di Dio.

Parole e pensiero sublime! Certo il dolore sensibile restò nel cuore della donna, ma il

pensiero suggerito dal santo che in fondo, quella piccina, prima di essere figlia di lei e del

padre, era figlia di Dio e che sarebbe andata in Paradiso e ch'era stato un grande onore per

lei, Sulpizia, essere stata come la balia di Dio, questo pensiero illuminò il dolore della

donna, lo santificò, lo superò.

La cosa passò diversamente con il padre, Pietro Focile la piccola era morta ormai e il

povero padre era sempre in lacrime e si doleva con Filippo.

- Che hai, balordo, che sei tanto afflitto? gli chiede Filippo.

- M'è morta, la mia figliola ed io non ho altri figli.

- Quietati, balordo, e non ti affliggere più perché avrai un figlio che ti darà gran da fare.

Venne il figlio, a cui fu imposto il nome di Bartolo, ma vennero anche i dispiaceri che quel

figlio, anche da giovane procurò alla famiglia, fino a che morì.

Lo stesso Focile depose ció nel processo quando il figlio era già morto.

Quel a balordo » lanciato così famigliarmente e quella predizione di guai fece pensare a

Pietro ciò che i figli costano di cure e di dolore, e forse, suggerì la considerazione che anche

la piccola Chiara poteva recare dispiaceri ai genitori, se fosse vissuta.

La serenità nel cuore di Pietro fu completa.

Un « balordo» che non lo era.

Giovanni Battista Guerra era uno dei fratelli laici più bravi della congregazione e un capo

mastro così bravo che faceva anche le parti di architetto: era lui che conduceva innanzi la

grande fabbrica di quella che fu poi la Chiesa Nuova.

Un giorno, il poveretto, cadde da una scala altissima e giaceva moribondo, senza parola,

senza conoscenza. Tutti quelli che erano accorsi e che si trovavano sul lavoro erano

sgomenti, ma Filippo cercava di animarli incitando a pregare.

Arriva il medico famoso Angelo Vettori, chiamato di urgenza, e dopo aver visto e tastato, si

volge a Filippo e dice triste:

- Padre, nessuna speranza di vita!

Le parole del medico accrebbero lo sgomento, che, a sua volta, fece disperare i presenti.

Filippo voleva vincere quello sgomento, quella disperazione, che toglieva ogni fiducia in

Dio, ogni capacità di pregare ed allora si volse al medico, trattandolo come un monello, che

ne abbia detta una grossa e disse:

- Tu sei un balordo, Angelo! Io non voglio che costui muoia: voglio che si finisca questa

chiesa.

L'energica risposta di Filippo infuse coraggio ed animò i presenti a fare ciò che bisognava

fare in simili circostanze: Guerra guarì.

Colui che riferisce è lo stesso Angelo Vettori.

Page 35: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Uno che vuole ammazzare... Antonio Fantini è un rigattiere, ma anche persona devota, discepolo di Filippo, ed ha una

moglie giovine e bella. Un domestico di un gentiluomo del Gran Maestro dell'Ordine dei

Cavalieri di Malta, insidia la bella donna insistentemente e pericolosamente.

Fantini se n'accorge, decide di ammazzare quel cattivo, prepara lo spadone e dispone tutte

le altre cose in una concitazione grande, in una grande tenebra interiore.

Prima di passare a sì terribile impresa, egli però vuol confidarsi con Filippo... come per

aver consiglio e benedizione... e magari confessarsi!

Va, infatti, e trova il Santo in camera sua fra tre o quattro persone: egli non se ne cura, entra

come se non vi fosse nessuno, si getta ai piedi di Filippo e dice di voler ammazzare...

E qui narrò la breve storia, come poteva, in quel momento di eccitazione.

Filippo sorride e parla con gli occhi, con il volto: tutta una grande parola di pace, direi,

emana dalla sua persona. Tutto l'atteggiamento di Filippo fa comprendere che la cosa non è

da prendersi sul serio: egli fa scaricare a l'uomo la sua grande ira, come se fosse una massa

di elettricità, poi dice calmo:

- Non è niente Antonio, non è niente!

Alla fine gli pone la mano sul capo e lo vede ripartire sereno.

Non ne fu niente: forse la gelosia aveva suggerito al povero Fantini paure o timori che non

esistevano.

Una gentildonna vinta.

Lavinia de' Rustici, prima moglie del nobile romano Fabrizio Massimo, non vedeva bene

che il marito le dicesse mirabilia di Filippo, che lo avvicinasse tanto e fosse uno dei

discepoli più devoti.

Essa personalmente si riufiutava anche di vedere Filippo e, in fondo, ne diceva male: lo

riteneva un devoto qualsiasi, come ce ne sono tanti, se non addirittura un bigotto.

Alle preghiere del marito sempre ripetute di avvicinare il Santo e poi far come voleva lei, la

donna rispondeva con rifiuti recisi, con parole non rispettose, ma finalmente la curiosità,

potente per tutti ma più potente per i cuori femminili, promise a Fabrizio di veder Filippo,

come se avesse fatta una grazia ed andò.

Non sappiamo come la cosa passasse ma quel primo e non lungo incontro bastò per far

cadere la donna spregiudicata nelle reti del mago.

Conquistata una volta per sempre, molto spesso prese a fare la Comunione, pratica rara in

quel tempo, ed a visitare Filippo, lieta di seguire i suoi consigli: come attesta il marito

Fabrizio, essa fece un gran profitto nella vita spirituale.

Un gesto, una parola...

Un giorno Filippo esce dal confessionale e vede quel buon figliolo Giulio Savira, che già

conosciamo, immerso in un grande pianto.

- Ma che ti succede Giulio? Non ti ho visto mai piangere come un fanciullo.

II Santo comprende che la morte aveva rapito la madre e allora non cerca le parole per

consolare quell'afflitto, come generalmente si usa, ma compie uno di quei gesti che

sdrammatizzano le situazioni più complicate.

Egli ha in mano la sua lunga corona e subito la getta al collo di Giulio, si toglie la berretta

da prete di capo e la pone in testa di lui e tutto ciò nel bel mezzo della chiesa, fra tante

persone che vedevano.

- Non piangere più! Tua madre è andata in Paradiso e tu sei accettato subito in

Congregazione: sta allegramente.

Giulio cessò di piangere e tornò subito sereno, come era sempre.

Page 36: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Ciò attesta lo stesso Savira.

Una zitella che non l'era.

La nobildonna Costanza, sposa di Virgilio Crescenzi, fece pregare il Santo di recarsi da lei

perché il marito era ammalato.

Filippo andò e la donna in pianto gli andò incontro. Contrariamente a ciò che pensavano gli

altri ed anche i medici, egli sapeva che il Signor Virgilio sarebbe morto. Non volle

ingannare la moglie e neppure dire parole inutili: d'altra parte, sarebbe stato duro dirle che il

marito sarebbe certamente morto.

- Zitella raia, fa il santo, bisogna contentarsi di quello che piace a Dio.

Nel tornare a casa, in carrozza, accompagnato dal figlio di Virgilio stesso, Filippo gli disse

che non trovava parole e modo di pregare perché l'ammalato guarisse.

Era un modo per fare intendere anche a lui, e più chiaramente, che bisognava disporsi a fare

la volontà di Dio per la morte del padre.

E' un bel modo di dare la gioia anche quello di disporre l'animo a fare la volontà del

Signore.

I fiori di martiri. Al tempo di Filippo, infieriva la persecuzione del governo inglese contro la Chiesa ed i

cattolici.

I giovani chierici inglesi del collegio vicino a S. Girolamo della Carità, prima di partire per

la loro patria, dove avrebbero trovato certamente dolori, sofferenze, e forse, la morte,

venivano a chiedere la benedizione al Santo. Questa tradizione, molto attendibile, ha

trovato espressione anche nella iconografia filippina.

Il momento della partenza era di grande sofferenza interiore, ma Filippo illuminava e

santificava quella sofferenza dicendo ai partenti le parole dell'inno liturgico per i Santi

Innocenti: « Salvete, flores Martjrum » vi saluto o Sori di martiri.

La visione del martirio per Cristo come quello dei Santi Innocenti, gittata improvvisa

dinanzi alla mente dei giovani, dissipava ogni ombra in quell'ora di grande sofferenza.

Zia Rosa stizzosa.

Una povera donna era stata provata duramente e per lungo tempo: il marito dopo essere

stato carcerato per debiti, come allora usava, ed aver avuto altri travagli, ora era morto e la

Rosa era sola e bisognosa.

La donna, in una grande tristezza e poi in una irritazione incredibile, non poteva veder cosa

o udir parlare ed era sempre come un cane arrabbiato.

Non poteva pregare: non poteva confessarsi, era quasi come in uno stato di disperazione:

riuscì a confidarsi col P. Angelo Velli, uomo di santa vita e tra i più cari compagni di S.

Filippo, ma non ebbe giovamento alcuno.

La Rosa, una mattina, era tanto fuori di se ed infuriata, che il povero Angelo Velli non

trovò di meglio che mandarla subito a S. Filippo.

Il Santo, come la vide comparire, comprese subito, e senza tanti complimenti le disse: vien

qui zia Rosa, perché sei tanto stizzosa e mettiti in ginocchio.

Parlò il Santo in una maniera imperiosa, senza tutte quelle forme che lasciavano tempo alla

donna di sbizzarrirsi, la costrinse ad inginocchiarsi, le mise la mano sul capo e poi parlò,

parlò...

Zia Rosa ascoltava e Dio solo sa quello che fu detto questo è certo che la poveretta senti

cadere la sua tristezza come ci si libera da una camicia di forza, e cominciò ad avvertire un

benessere, una allegrezza, una leggerezza di vita, un rinnovamento e una grande devozione.

Page 37: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Un mutamento radicale, insomma: tali cose deponeva la paziente stessa, nel processo, il 4

giugno 1610, quindici anni dopo la morte del Santo.

La cosa più importante a sapere è che questa nuova felice condizione durò fino alla morte.

Una matta di nuovo genere.

Non era una matta no, questa donna anzi madonna Bradamante come si diceva allora.

Ma era solo una grande sofferente.

Disperando di ogni mezzo naturale, al colmo del male, la poveretta mandò a chiamare P.

Filippo come facevano tanti altri, per casi più o meno gravi o disperati.

Il Santo comprese che Bradamante era veramente molto malata e soffriva assai, ma volle

nascondere come usava sempre, il suo potere carismatico, gittando il merito del prodigio su

altre persone o cose.

Come egli dunque la vide con il capo fasciato, con volto lieto, come chi ride di una cosa

buffa, le disse:

- Matta, che vuoi tu fare di tanti panni in testa? La donna si tolse quei panni, ma il toglierli

e sentir sparire il dolore fu una cosa sola.

Titoli a buon mercato. Giovanni Manzoli, penitente del Santo, era ammalato e fu mandato il sacerdote Mattia

Maffei ad assisterlo nel difficile momento dell'agonia.

Quando il sacerdote vide che Manzoli aveva perduto la parola ed era alla fine, tornò da

Filippo e riferì che il moribondo non sarebbe arrivato al mattino.

L'indomani, il Santo fa chiamare di nuovo Mattia e gli ordina di andare dal malato e vedere

se era vivo o morto. - Penso che sia morto, Padre, e sarà inutile andare, ma tuttavia andrò.

- Comunque sia, va, prendi informazioni sicure: ti raccomando.

Il messaggero va e gli dicono che Giovanni è morto: egli non crede neppure necessario

salire su: la notizia della morte è sicura e pacifica.

- Padre, riferì il Maffei, è come ho detto io, come si supponeva: Manzoli è morto.

- Ma tu l'hai visto con i tuoi occhi? - No! Ma è come se l'avessi visto io. - Bestiaccia, torna

ancora ed assicurati: cerca di vedere se dorme o se è morto, ma vedi tu e non ti fidare di

altri.

Mattia, questa seconda volta, trovò che Manzoli era a letto si, ma vivo, ben vivo.

Ritornato mortificato da Filippo, fece uno sforzo per riferire che il malato non era morto.

- Sei una bestiaccia che non sai fare i servizi, ringraziò Filippo.

Modi decisivi. Una sera, si faceva l'Oratorio, ed ecco che entra un certo Stefano da Rimini calzolaio, non

meglio conosciuto. Dà egli un'occhiata al locale e scorge delle persone per bene: faccie

chiare, rassicuranti, vestiti decenti e tutta un'aria distinta.

Non osa entrare Stefano, vecchio soldato, uomo litigioso, con tanti nemici e con più di un

peccatuccio sulla coscienza...

Se mi riconoscono, diceva egli fra se stesso, mi metteranno fuori, e cercava di non essere

notato.

Filippo, che dominava però ed ispezionava la sala, col suo occhio sempre in giro, lo notò,

comprese molte cose ed andò rapido verso di lui.

Senza dire parola, assolutamente niente, lo prese per il collo, lo tirò con decisione, lo

condusse alle prime file. L'uomo fu tanto confortato, acquistò tanta fiducia, che divenne un

assiduo frequentatore dell'Oratorio e riuscì ad essere persona di grande virtù, di grande

Page 38: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

carità: pervenne anzi ad una certa santità: poverissimo come era, del guadagno della

settimana, tolto il necessario, dava il resto ai poveri.

Gioielli. Sono veri gioielli certe espressioni, certi motti, che splendono da se stessi, pur senza la

cornice di un episodio. Vecchio, malato, sempre nelle fatiche, nelle veglie, nelle astinenze,

talvolta quelli che gli volevano bene ed erano premurosi della sua salute, lo esortavano ad

aversi dei riguardi, moderarsi nel lavoro, mangiare in modo da nutrirsi sufficientemente e

poi dormire un poco di più.

Come giustificare il suo proposito di voler sempre fare così? Sarebbe stato poi scortesia

opporre un no nudo e crudo.

- Il Paradiso non è fatto per i poltroni, rispondeva egli. Giustizia era fatta.

Ci fu, tra i discepoli e penitenti del Santo, un certo Turchetti Pensabene uomo di grande

valore, che poi venne in fama di santità e fondò opere di bene ad imitazione dell'Oratorio.

Filippo vedendolo venire, gli diceva sorridente: Pensabene, facci sentire una pensabenata.

Era un saluto e un modo di far festa, più efficace di molte parole.

Nel colloquio stesso con Dio la sua vena di gioia rimane freschissima e prende forma di

gioco quasi impertinente, eppure umilissimo.

Bisogna sapere che nelle sue tante malattie, leggere o gravi, il Santo pregava di guarire, per

convertirsi, diventare un angelo, come disse una volta.

Guarito però, gli pareva di non essersi mai convertito... Perché? Per quello stesso fenomeno

per cui un dotto, quanto più diventa dotto, tanto più vede l'immensità della scienza e

l'immensità, della sua ignoranza.

Il Santo pertanto, quanto più diventa santo ed approfondiste il mistero di Dio, tanto più si

vede peccatore di fronte alla santità di Dio stesso.

Negli ultimi tempi, pertanto, non diceva più di voler guarire per convertirsi, ma pregava in

questo modo: Signore se io guarisco, per quanto riguarda me, farò sempre peggio... se tu

non m'aiuti.

Filippo: in mano al boia.

Ogni uomo, in quanto tale, teoreticamente, è capace di ogni bene e di ogni male: ogni uomo

può diventare o un grande santo, o un grande assassino.

Filippo nella sua grande umiltà e nella profonda conoscenza del cuore umano, si direbbe

che aveva quasi paura di diventare un bandito degno di morte.

Ecco dunque come egli pensa in forma di dramma questa terribile possibilità.

Era con lui il medico Angelo Vettori ed egli dice: «che diresti, Angelo, se un giorno tu mi

vedessi col boia di dietro che mi frustasse e voi e gli altri diresti: è questo quel Padre

Filippetto. Quanto pareva buono!

Signorilità e amore in gioia. Documento bellissimo dello stile di gioia del Santo è una letterina, che egli indirizzò ad una

giovane sposa, che si chiamava Fiora Ragni, ma era conosciuta più co-. munemente col

nome di madonna (signora) Fiora.

Filippo imposta sul nome Fiora la sua letterina e, sempre giocando su quel nome, arriva a

pensieri altissimi di spiritualità ed a sentimenti di un amore paterno ben grande. Ecco la

lettera

« Ancorché io non scriva a nessuno, non posso mancare alla mia quasi figliola primogenita

madonna Fiora, la quale desidero fiorisca: anzi che dopo il fiore produca buon frutto, frutto

d'umiltà, frutto di pazienza, frutto di tutte le virtù, albergo e ricettacolo dello Spirito Santo:

Page 39: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

e così suol essere chi si comunica spesso. Il che quando non fosse, non vi vorrei per

figliola; e se pur figliola, figliola ingrata, e di sorte che al giorno del giudizio vorrei essere

contro di voi. Dio ciò non permetta; ma sì bene vi faccia flore fruttuoso come di sopra ho

detto e tutto fuoco, onde il poverello vostro padre, si possa riscaldare, che si muore dal

freddo. Non altro. Tutto vostro.

Roma alli 27 di giugno 1572 Filippo Neri.

Il dono della volontà. E' difficile consolare i malati e dare loro una linea sicura di condotta nel travaglio della

sofferenza, ma Filippo riusciva benissimo.

Qualche volta, egli per rassicurare il sofferente contro le tentazioni, specialmente nei

momenti terribili dell'agonia, proponeva ad essi:

- Mi vuoi donare tu la tua volontà? - Ma sì, Padre, lo fo molto volentieri.

- Ebbene quando verrà il demonio per tentarti ed invitarti a qualche male, oppure vorrà

spingerti a non sperare, tu gli dirai: io non ho più volontà ma l'ho donata a Padre Filippo.

Io poi la tua volontà l'offrirò a Dio.

Un consiglio a doppio effetto. Una signora si trovava ad una specie di bivio tra la vita spirituale e la vita mondana e molte

incertezze l'angustiavano e tra le altre questa, se conveniva ad una buona cristiana portare i

tacchi alti delle scarpe, come allora usavano le mondane e come oggi usano mondane e non

mondane...

Filippo, dopo aver ascoltato, quanto la donna diceva, con molta serietà, tra compunta ed

agitata, rispose:

- Signora, guardi di non cadere.

Un'amabile e pungente verità.

Filippo soffrì molti mali ed anche gravi ed i medici di allora usavano rimedi dolorosi, come

salassi, bottoni infuocati e cose simili.

Una volta, al colmo della crisi di una malattia, i medici, come estremo rimedio, usarono

appunto il rimedio del bottone infuocato.

Essi pensavano che il Santo, nell'incoscienza in cui essi lo ritenevano, avesse trovato

beneficio del rimedio, ma non avesse sentito dolore.

Quando al termine della crisi, uno dei medici gli domandò come si sentisse, che avesse...

Egli rispose:

- Io non ho altro male se non quello che mi avete fatto voi.

Una penitenza che fa male alla borsa. Tra i seguaci di Filippo, s'era intruppato un signore anziano, certo Alessandro Boria il

quale, lavorando, s'era fatta una bella fortuna ed ora voleva proseguire la sua vita badando

un po' all'anima.

Anche lui fu preso dal gusto, in cui può entrare un po' di compiacimento umano, di fare

delle penitenze, come portare il cilicio, fare delle veglie, dei digiuni e simili pratiche.

Anch'egli, come altri, un giorno disse al Santo, con aria compunta:

- Padre Filippo, indicatemi una penitenza buona per me, perché voglio farmi santo!

Volentieri digiunerei, per esempio.

- Niente digiuni, caro, ma piuttosto elemosine.

Il Borla, per quanto buono, doveva essere un po' attaccato al danaro e le parole del Santo

colpivano direttamente la borsa, ma egli senti il colpo nel cuore.

Page 40: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Quella penitenza, per una persona come lui, era pà penosa di tre digiuni insieme.

CAPO VIII

I GIOCHI DRAMMATICI

Un pazzo che fa diventar pazzi gli altri.

Man mano che Filippo andava innanzi, i suoi giochi diventavano sempre più complessi,

drammatici, e certe volte, audaci.

Molti suoi contemporanei, lo giudicarono male e qualcuno dovette pensare che se egli non

era pazzo del tutto, avesse almeno molte rotelle spostate.

Leggendo molti degli episodi detti innanzi, la domanda di un tempo potrebbe, forse, essere

fatta anche oggi: per non essere poco rispettosi, si potrebbe supporre un originale di nuovo

genere.

Se uno oggi si facesse radere i capelli del capo, ma da una parte sola, come egli si fece

tagliare la barba, non sarebbe internato in un manicomio?

Pensiamo che oggi neanche un pazzo dichiarato tale dai medici, avrebbe il coraggio di farsi

radere in quella maniera.

Ma la cosa più paradossale è che, col passare del tempo e di fronte a giochi sempre più

pericolosi... per la stima, la folla dei suoi seguaci cresceva e così cresceva l'opinione della

sua santità, fino al punto che una moltitudine di centinaie di persone lo seguiva per le vie di

Roma.

Molti di questi seguaci poi diventavano pazzi anch'essi... a modo di Filippo.

Un principe serve il suo servo.

Tra i seguaci più in vista di Filippo, fu Giambattista Salviati, nipote di Leone S, parente

piuttosto stretto di Caterina de' Medici, Regina di Francia, e fratello di un Cardinale.

Questo Giambattista non era uno stinco di santo: era un uomo rotto al vizio, che vestiva

sempre lussuosamente, accompagnato per lo più da una turba di servi, pronti a venire anche

alle mani per il loro signore.

Filippo lo ridusse ad essere un galantuomo e poi un perfetto cristiano.

Il Santo mandava, specialmente nei giorni festivi, trenta o quaranta dei suoi pazzi, divisi in

varie categorie, a servire i malati negli ospedali e cioè a fare i letti, scopare, pulire scodelle,

vuotare i vasi di ogni genere, pulire e lavare gli ammalati stessi e, talvolta, ammazzare

qualche animaletto che non era raro trovare.

In quel tempo, questi servizi erano i più schifati, come gli ospedali erano i luoghi tenuti in

più grande orrore. L'ufficio di infermiere era considerato vilissimo e vi si adattavano solo

alcuni che non trovavano altro mezzo da vivere.

Il Salviati come tutti gli altri, indistintamente, era uno dei mobilitati da Filippo, ed una volta

gli toccò di andare all'ospedale della Consolazione.

Vi trovò un suo vecchio servitore, che s'era ridotto là perché a quei tempi non v'era a chi

ricorrere quando un servo o per vecchiaia o per malattia doveva lasciare il servizio.

Il Salviati, come lo scorse, si avvicinò al suo letto e gli disse:

- Fammi il favore, alzati, ché ti voglio rifare il letto.

Il vecchio servo che nulla sapeva della pazzia del suo borioso padrone di un tempo, si

credette preso in giro e disse offeso:

- Oh! signor Giambattista, non è questo il tempo di burlarsi dei poveri servitori: lasciatemi

in pace.

- Sai, dico davvero io, proprio ti voglio rifare il letto. - Ma via non insistete: vi conosco

abbastanza.

- Ma sì ...

Page 41: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

- Ma no ...

Era una scena gustosa e quelli che stavano attorno se la godevano: alla fine il vecchio servo,

un po' perché abituato ad obbedire, e perché seccato, si alzò.

Il vecchio malato intanto guardava con gli occhi sgranati il signore di un tempo, che faceva

con grazia, con amore quello che fanno tutti gli infermieri: guardava come avrebbe

guardato un orso diventato agnello.

Altri pazzi ed altre pazzie. Una volta, venne al consueto convegno, uno di questi pazzi con un bel vestito nuovo, del

quale evidentemente si pavoneggiava.

Il Santo, dopo che l'ebbe squadrato ben bene, con finto compiacimento, gli disse

amabilmente, come uno che vuol fare un complimento:

- Senti, caro, tu devi andare a S. Maria Maggiore, devi metterti alla porta principale della

Chiesa e devi chiedere l'elemosina a quelli che entrano.

L'altro non fiatò e già si avviava come se fosse stato mandato ad una impresa onorevole o

ad un pranzo di festa.

- Senti ancora, riprese il Santo, oggi tu non devi mangiare altro che quello che ti daranno

per elemosina.

L'altro, zitto ed allegro, se ne andò e si piazzò al luogo detto, come un monumento.

Passarono alcuni minuti e Filippo chiamò due o tre altri pazzi e disse loro, come se avesse

fatto un'invenzione importante

- Andate dove il nostro amico cerca l'elemosina e uno per volta, di tanto in tanto,

accostatevi a lui e ditegli delle insolenze, su per giù:

- Come, con questo bel vestito non ti vergogni di chiedere l'elemosina?

- Fannullone, così vuoi mangiare il pane a sbafo? - Questo è rubare il danaro alla povera

gente!... Il paziente non rispondeva...

Stette parecchio, fino alla fine delle Messe, a casa mangiò quello che aveva accattano e,

l'indomani tornò a Filippo come un trionfatore.

Tutti manovali.

Fino al 1557, Filippo riuniva i suoi pazzi nella piccola camera da letto. Divenuta questa

insufficiente, con il permesso dei superiori della casa di S. Girolamo della Carità, dove era

ospite, edificò un locale per le riunioni, sopra la piccola chiesa, e quel locale, dalle pratiche

che vi si facevano, fu chiamato Oratorio.

Mancavano i mezzi per pagare gente ed acquistare materiale, e cosa ti fa Filippo?

Un bel giorno dice ai suoi pazzi: vedete questo materiale che ho acquistato con debito?

Pietre, mattoni, calce, travi? Bisogna portarlo su per costruire la nostra sala.

Detto fatto, e quelle persone che, altra volta, avrebbero avuto vergogna di caricarsi di una

cesta di fiori o di frutta sulle spalle, quando erano savi... cominciarono a caricarsi di pietre,

di mattoni e tutta quell'altra roba detta innanzi, come tanti manovali abituati al mestiere.

Avresti veduto un medico famoso, Giambattista, Modio, scrittore elegante, benché poco

corretto, libertino e gaudente, come un garzone di muratore, andare su e giù a gara con gli

altri, che lo guardavano stupefatti.

Avresti veduto un elegantone, uomo bellissimo, per altro, un certo Francesco Maria Tarugi,

parente dei due Papi Giulio III e Marcello II, con le sue vesti fiammanti e l'aspetto di gran

signore, non farsi vincere dagli altri nel far presto.

Avresti visto un giovane piuttosto sconosciuto, Cesare Baronio, studente di legge, spiegare

uno zelo straordinario in quel lavoro così poco delicato.

Page 42: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

E tutti quanti, pezzi grossi e povera gente, fraternizzavano, ridevano, scherzavano come se

avessero servito il Papa in persona.

“Netturbini”. Un giorno i pazzi, attorno al loro capo andarono, in una chiesa e Filippo osservò che

dinanzi alla chiesa stessa era molta immondizia.

Egli disse allora a Marcello Vitelleschi, nobile romano - Marcello, subito, tu con qualche

altro, pulisci qui innanzi alla porta e spazza tutto il piazzale.

- Ma non abbiamo scope.

- Procuratevele, balordi, dalle case vicine e poi le restituirete.

La cosa fu presto fatta e l'immondizia ammucchiata da una parte.

- Bel lavoro, davvero, osservò Filippo, quando vide ciò: i monelli spargeranno subito quella

immondizia: raccoglietela alla meglio e portatela via.

E quelli subito senza parlare s'affaticarono gioiosamente, magari con le mani, in mancanza

di palette.

Ciò non accadde una sola volta.

Domande curiose ma assennate - Perchè queste pazzie, potrebbe chiedere qualcuno? Non si può esser buoni, far bene,

magari farsi santi, senza queste stranezze?

- Queste pazzie servono, nella tecnica della santità, per Filippo ad una cosa molto grande: la

conquista della libertà!

- Di quale libertà? Sono in carcere quelli che fanno queste cose e perciò hanno bisogno di

questo mezzo per uscire da galera?

- Essi, come quasi tutti, purtroppo hanno bisogno di conquistare la libertà dalla schiavitù

della pubblica opinione.

Gli uomini scio, più o meno, quasi tutti schiavi della pubblica opinione.

Ci rattristiamo, se uno dice male di noi: ci rallegriamo se ne dice bene, anche se non è vero!

Noi siamo sempre alla ricerca della lode dagli altri, fuggiamo ogni critica, ogni biasimo.

Più disgraziati dei mendicanti che chiedono pane, noi andiamo accattando il bene, bravo,

evviva, e cioè, quella cosa inesistente che per usa e consumo di poeti ed altra gente simile,

con un termine grosso, si chiama gloria, con termine più vero si chiama vana gloria e, con

termine giusto, vanità.

Noi facciamo dipendere la nostra felicità o infelicità dall'opinione degli altri.

Questa opinione degli altri è il nostro padrone, il nostro idolo.

Noi ci vergogniamo, talvolta, anche di cose sante e belle come, per esempio, di apparire

religiosi, pii, in un ambiente miscredentè, e rinneghiamo Dio.

Fingiamo invece di essere buoni con quelli che sono buoni e religiosi, facciamo anche i

bigotti, quando dobbiamo attirarci la benevolenza di persone di chiesa, sempre per quella

tirannia dell'opinione degli altri su di noi. Mentiamo per essere stimati, commettiamo tutte

le viltà per accaparrarci l'opinione pubblica.

I poeti, i guerrieri, i politici, tutti quelli insomma che fanno a pugni per aprirsi una via,

perchè si agitano tanto? Per il bene pubblico forse?

No! Per mettersi in mostra e far dire. quello è un grande uomo!

Molti si dànno da fare, similmente, con tutte le arti lecite o illecite per ammucchiare

quattrini, ma anche i quattrini sono una scala per salire in alto ed emergere, nella fiera

universale della vita.

Page 43: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Vi sono anche altri, i più crediamo, i quali commettono la vigliaccheria più grande, quella

di uccidersi o per aver fatto una brutta figura, o per evitarla, o perchè credono che

l'uccidersi possa essere quasi un atto di eroismo.

I casi di questo genere sono innumerevoli e noi ne abbiamo una documentazione molto

ampia: citiamo qualche episodio, tacendo, quando è necessario, il nome.

Una giovane tentò di suicidarsi per la morte di quell'attore tanto popolare Mario Riva.

Un giovane, avendo avuto una sospensione dalla scuola, si suicidò lasciando un biglietto in

cui diceva di aver fatto ciò per non dare un dispiacere alla mamma ed intanto ne dava uno

grandissimo.

Un altro che si vantava di essere il più grande nuotatore del Tevere, vi si buttò da un ponte

per provare la sua bravura e vi morì.

Una donna abbastanza conosciuta Eveline Mahyère vuol vivere ma non ci riesce e si

ammazza.

La colpa di questa mentalità che fa ritenere il suicidio un atto eroico è dovuta in gran parte

ai giornali che dei suicidi più ingiustificati e sciocchi fanno un quadro o drammatico o

sentimentale o, comunque, non quale dovrebbe essere, col mettere i fatti nel giusto colore.

C'è qualche prova anche più esplicita: una poveretta napoletana che vivacchiava col

vendere castagne arrostite, un giorno tentò di suicidarsi ma poté essere salvata: dopo

dichiarò di volersi uccidere per far parlare di sé, ed essere messa sul giornale.

Che questa, mania di volere apparire più degli altri sia molte volte il motivo principale, si

deduce anche da un'esagerazione che si crederebbe impossibile: si commettono o si

suppongono perfino reati più grandi per apparire maggiori.

Sant'Agostino nelle sue « Confessioni » dice come si vantava di birbonate giovanili, che

non aveva mai commesso, per apparire più bravo.

Da tutto ciò si vede quanto fosse sapiente S. Filippo nel comprendere e valutare la forza

quasi irresistibile della vanità e come quelle esercitazioni, apparentemente pazzesche, erano

un allenamento, a non tener nessun conto del giudizio umano e a disprezzare la gloriuzza

della vanità ed ogni altra gloria.

Dopo un certo tempo, con quel trattamento, i pazzi di S. Filippo avevano tagliate tutte le

funi che tenevano in catenata la libertà e non avevano più paura di giudizio umano.

Avevano imparato ad essere se stessi ed a non tenere conto che del giudizio di Dio.

Egli era convinto di avere scelto la via buona e teneva fermo che un giorno avrebbe avuto

ragione di tutte le opposizioni.

Mi pare, che tutto ciò si veda chiaro in quei versi apparentemente strani, inconcludenti, che

dicono così:

Io sono un cane che rode un osso, perché della carne roder non posso se verrà tempo che

posso baiare farò pentir chi non mi lascia stare.

Egli dice ironicamente, ed un po' velatamente: pigliatevi pure gioco di me, ma vedrete che

avrò ragione e voi resterete con un palmo di naso.

Ed il tempo gli dette ragione, ragione piena: i pazzi crebbero in tutta Roma ed allora

ognuno si accorse che quei pazzi erano i veri savi ed il più gran pazzo, Filippo, era il più

savio.

Musica di nuovo genere. Ecco alcuni dei giochi più drammatici di Filippo.

Tra i suoi seguaci v'era un giovane, forse, un po' più vanitoso degli altri e il Santo gli fece

iniziare la cura contro la vanità in questa maniera.

Page 44: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Un giorno, gli consegna un grosso campanello e gli comanda di girare per Campo dei Fiori,

per via dei Giubbonari e in tutti i luoghi molto popolati del quartiere, agitando fortemente il

campanello, come per un allarme.

Il giovane partì imperterrito e quelli della strada si fermavano e qualcuno interrogava: che

cos'è? Ma egli non rispondeva: le donne si affacciavano dalla finestra oppure si facevano

sulla soglia e si interrogavano a vicenda e nessuno sapeva niente di quel gran chiasso.

Quando fu manifesto che non c'era niente di straordinario, contro il suonatore improvvisato

cominciarono a piovere torsoli, bucce di frutta e altre di queste cose che si trovavano

abbondantemente nel mercato di Campo dei Fiori.

Gli accidenti, le male parole, e le beffe di tutti i generi, facevano concorrenza al lancio di

quei proiettili.

Il giovane, corre se avesse eseguito un mandato di grande importanza, girò per tutti i luoghi

che gli erano stati detti e tornò a Filippo trionfante.

Un penitente originale.

Tra gli altri pazzi di Filippo uno si chiamava Alberto Legnaiolo e aspirava, come ad una

grande cosa, a portare il cilicio...

Gli pareva che il portare il cilicio lo consacrasse, in maniera speciale, seguace degli

«spirituali», come erano anche nominati i figlioli spirituali di Filippo.

Il Santo non volle mai contentarlo, ma quello sempre insisteva: Padre mi faccia mettere il

cilicio.

Un giorno Filippo gli disse: Senti Alberto, io ti do il permesso di portare il cilicio ma a

questa condizione che tu lo metta ben in evidenza sulle vesti.

Il bravuomo eseguisce subito l'ordine e va via, pavoneggiandosi, come di una grande

decorazione: nella via lo accolsero beffe, risate, deplorazioni e motti pungenti di ogni

genere.

Alberto non né fece caso, così il giorno seguente, così tutti i giorni dell'anno: i romani si

abituarono a vedere quell'originale e non ci fecero più caso.

Fu soprannominato Berto del Cilicio e godette la stima di tutti.

Un falso goloso.

Una volta, il volto di Filippo si illuminò come di un raggio di luce, sorrise compiaciuto,

chiamò un suo penitente e gli disse: tu devi fare la piccola penitenza che ti ordino.

Chiamò poi un altro, si fece portare il coperchio di una grande scatola e vi fece scrivere

queste parole a lettere ben grandi che si leggevano anche ad una certa distanza: « Per aver

mangiato la copeta ».

La copeta poi è una specie di dolce popolare che si vende anche oggi nelle Sere, nei

mercati, composto di nocciole, miele e pasta. Anche oggi si usa ed è chiamato con lo stesso

nome in molte regioni dell'Italia meridionale.

Ognuno può immaginare le accoglienze che ebbe il falso goloso, perché non aveva

mangiato davvero la copeta, quando girò per lungo e per largo tutti i luoghi intorno a S.

Girolamo della Carità, portando dietro le spalle il vistoso cartellone.

Punizione ad un malpensante... Certamente in uno di quei momenti nei quali Filippo fece o disse qualcuna delle sue

stranezze più grandi ad un suo penitente presente, vennero dei pensieri che Filippo non

meritasse davvero nessun credito, che non fosse una persona seria ed altre fantasticherie del

genere.

Page 45: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

E’ un fenomeno che si comprende di fronte a certi fatti e la cosa poteva accadere ad

ognuno, ma il poveretto ripensando a tutto quello che gli era venuto in mente contro

Filippo, con maggiore serenità, ritenne di aver commesso una colpa, tanto più che la

conclusione di quelle sue impressioni era che non stesse ad ascoltare il Santo nella

confessione.

Egli però ebbe il coraggio e la forza di scoprire al Santo, fuori la confessione, tutto quello

che aveva patito e tutti i pensieracci che aveva avuto contro di lui: S. Filippo non si turbò

ma solo gli disse:

- Benissimo: ora quello. che tu hai detto a me, lo devi dire in pubblico refettorio, alla

presenza di tutti, minutamente, pensiero per pensiero.

L'uomo ubbidì e immaginate la filastrocca di cose ingiuriose che egli sciorinò.

Gli altri erano meravigliati e non sapevano cosa pensare, tanto il caso era strano: Filippo

ascoltava beato, sorridente.

Il corteo delle pentole.

S. Filippo era stato sempre nella casa di S. Girolamo della Carità da quando s'era ordinato

sacerdote, ma ora i suoi figli avevano una casa propria e grande ed erano costituiti in

Congregazione: Filippo però era alieno dal raggiungere la nuova dimora.

Egli oppose ogni resistenza, ma poi intervenne il Papa e fu obbligato a trasferirsi alla

Chiesa Nuova, alla casa nuova.

Quel poco di amarezza che egli dovette avvertire nella sua sensibilità, pur nella volontà

completa di ubbidire al Papa, egli la digerì e la convertì in gioia con una delle pensate più

originali.

Il 22 novembre, pertanto, nel 1583, giorno della festa di S. Cecilia, egli convocò tutti i suoi

e quando ogni cosa fu pronta, tra la meraviglia di tutti, ordinò che ognuno prendesse

qualche cosa della casa, come padelle, palette, pentole, piatti ed altri simili oggetti.

Per quanto la casa di S. Girolamo fosse poveramente arredata e per poca gente, tuttavia le

masserizie che vi si trovavano erano parecchie per i presenti e, forse, qualcuno dovette

anche prendere due o tre cose.

Così pronti, ordinati in corteo, uscirono fuori e sfilarono in mezzo ad una folla, che presto

s'era fatta, tra le risa, i motteggi e le facezie più piacevoli di questo mondo.

Il chiasso che si fece attirò anche i carcerati della prigione di Corte Savella che, come

meglio poterono, si arrampicarono alle finestre e, dietro le grate di ferro, ridevano e

dicevano motti piacevoli.

Uno tra gli altri, ben sapendo che l'autore di quella commedia era Filippo, gridò ad alta

voce: Padre, fate buone frittate.

Piccole farse. Un giorno, mentre la chiesa era abbastanza popolata. di gente, ecco che Filippo compare dal

fondo e si dirige verso l'abside.

Sulla veste nera, ha una casacca grossa, un giubbone come quelli dei militari, ma con la

fodera all'infuori. Aveva in testa la berretta, il copricapo cioè che i preti usano nelle

cerimonie, a tre spicchi, ma, alla brava, voltata verso un lato.

Dietro a lui, c'era un complice, od un condannato... a fare quella goffa figura, un suo

figliolo spirituale, che aveva una spazzola in mano e spazzolava Filippo dietro la schiena, ai

fianchi, in alto, in fondo, senza posa, mentre egli di tanto in tanto si voltava, fingeva di dire

qualche cosa, di richiamare e poi volgeva gli occhi intorno come per dire: sono un gran

personaggio si o no?

Page 46: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Egli procedeva da elegantone con una posa di dignità ed atteggiamenti ben curati, avendo

un paio di scarpe bianche o di altra foggia strana e magari larghe come barchette.

Un'edizione diversa di queste comparse in pubblico, era la messa in scena di letterato, di

dotto.

Aveva un libro in mano e leggeva in maniera molto movimentata, a voce alta per essere ben

inteso.

Buttava fuori errori enormi, ch'erano tanto più grandi quanto più egli si vedeva ascoltato.

Storpiature di ogni genere, di parole e frasi, erano accolti con risate sonore del pubblico, e

nel silenzio un po' penoso, da quelli dei suoi seguaci che dovevano dividere con lui anche le

beffe.

Naturalmente egli non riusciva a dare un'impressione cattiva di sè e molti, più che

scandalizzarsi, si edificavano, perché vedevano in queste scene una manovra per distrug-

gere ogni buona opinione di se stesso.

Tuttavia, fra tanta gente, c'erano alcuni che non lo conoscevano, non sapevano, e quindi lo

giudicavano male. Una volta, pertanto, dinanzi alla chiesa di San Pietro in Vincoli, egli

saltava, ballava, e diceva cose convenienti a quella sua ginnastica.

Uno degli spettatori dinanzi a quella scena, con atto di disgusto, di disprezzo disse ad alta

voce: « guarda quel vecchio matto »

Egli intese, ne godette come del più bel complimento e si ritenne trionfatore.

Ordini crudeli.

Un giorno il Santo, che ormai si tratteneva la maggior parte del tempo in camera, fu

chiamato in chiesa ed andò a conferire con la persona che lo aveva fatto chiamare, con una

veste foderata di pelle.

Ritornando e passando per il cortile, incontra il nobile Marcello Vitelleschi, suo penitente, e

lo ferma come un ladro che avesse la preda.

Si tolse di dosso la veste e la buttò, ma rovesciata, addosso a quel nobile giovane: gli disse

poi in tono di comando preciso:

- Marcello, tu devi andare, così come ti trovi, e dire questa tal cosa al P. Baroni, superiore.

Non sappiamo l'ambasciata che il mal capitato doveva fare, ma si trattava certamente di una

scusa inventata là per là, per organizzare quel gioco...

Marcello, da una parte non poté disubbidire, ma da un'altra parte voleva evitare, per quanto

era possibile, di fare quella brutta figura: andò dunque rasente il muro, si accostò al Baronio

e parlò: ritornò nella stessa maniera. Filippo, appena giunto a lui, gli dice: ma bravo Mar-

cello! I servizi non si fanno così: tu te ne sei andato raserete il muro come un cane.

Ora, riprese severo, fa la cosa a modo e ritorna. Talora mandava questo o quello con le vesti

più o meno stracciate, senza ferraiolo ed un giorno, capitò ad uno dei più cari discepoli di

mandarlo a far qualche cosa con le maniche della veste molto stracciate.

Un signore, che aveva visto certamente più di una volta il poveretto con le maniche

stracciate, si provvide di maniche nuove e le offrì.

Ma colui che rappresentava quella commedia, sapendo di non averne bisogno, ringraziò e

rifiutò.

Il Santo venne a sapere di questo rifiuto, ed allora chiamò il finto straccione e gli disse: ti

par bello aver rifiutato un dono? Ritorna da quel signore e digli così: quando voi mi avete

offerto le due maniche io non ne avevo bisogno, ma ora ne ho bisogno e vi prego di

darmele!

Il gentiluomo gliele dette ed il Santo disse a quell'ubbidiente: ora mettitele e portale.

In momenti di estro diverso, metteva su la testa di uno un berrettino di tela bianca di quelli

usati per notte e lo mandava fuori.

Page 47: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Ad un altro dava un cappello largo, con le falde ampie, come quelli che certi militari

usavano per parata, con un cordone legato sotto al mento e via anche lui nella strada.

Talvolta consegnava una corona grossa da romito bene evidente al collo con un crocifisso

pendente e ,ordinava di girare per la chiesa.

Una delle acconciature più geniali era questa: con del taffettà, cioè una stoffa fine, leggera,

e frusciante, faceva o faceva fare una specie di barba, come, in certo modo, le barbe delle

maschere che rappresentano, per esempio, l'anno che tramonta in un vecchio barbuto.

Questa barba era poi contornata da una trina di oro e l'uomo così aggiustato doveva andare

o per la chiesa o per la via, mentre ogni suo piccolo movimento impremeva al taffettà un

fruscio di richiamo.

Un'altra volta, chiamò Giullano Maccaluffi, fratello laico, gli fece indossare una giacca da

cacciatore, gli mise in spalla quell'arma che allora chiamavano archibugio con una lunga

canna, un berrettino in testa e gli ordinò di andare a passeggiare per il refettorio, mentre gli

altri mangiavano e gli lanciavano frizzi e occhiate di beffa.

Più crudele, benché meno apparente, era questo gioco. Tutti i figlioli spirituali di Filippo

erano chiamati appunto col nome di spirituali, godevano fama di persone gravi, pie,

purissime, distaccate dal mondo: erano ritenuti, insomma, come dei santoni, ma senza

quello che di brutto ha oggi questa parola.

Certe volte, egli ne chiamava uno, due, tre e diceva: voi dovete andare dal tale libraio, e se

questi non ha il libro che io vi dico, dovete andare da un altro libraio: dovete insomma

vedere chi ha questo libro!

Aggiungeva poi il nome di uno di quei libri che solevano leggere le persone mondane o

poco ben famate come, per esempio, «L'Orlando Innamorato » di Matteo Boiardo.

Quando il libraio udiva quello spirituale fare tale richiesta, non mancava di sgranare gli

occhi e dire canzonatoriamente: questi libri sono quelli che leggete voi spirituali?

I commenti dei presenti non erano certamente gradevoli.

Il simposio mistico ed allegro. Tra le istituzioni più belle e resistenti al tempo, del Santo, c'è la visita alle sette Chiese, cioè

alle sette Basiliche principali di Roma: S. Pietro, S. Paolo fuori le Mura, S. Sebastiano, S.

Giovanni in Laterano, Santa Croce in Gerusalemme, S. Lorenzo fuori le Mura e S. Maria

Maggiore.

Questa visita egli la praticò per tanti annì solo, dì notte.

Diventato sacerdote, incominciò a condurvi alcuni compagni.

Fin qui nessuna novità, perché, la visita alle Basiliche, una o più, fu un antico costume:

erano visite di devozione o penitenziali.

Su questo piano della devozione o della penitenza, altri, forse, avrebbe potuto portare la

pratica ad una vibrazione altissima di spiritualità, ma nessuno, osiamo dire, avrebbe potuto

compiere il mìracolo che compì Filippo quello di non togliere o diminuire la spiritualità,

anzi di potenziarla e, nello stesso tempo, di comporla con un movimento di gioia, di festa,

e, diciamolo pure, di svago.

Il pellegrinaggio divenne così una scampagnata che durava un giorno intero, fuori le porte

della città allora uggiosa e triste, con le sue vie strette e sporche.

La via libera, il tempo primaverile, poiché la Visita cadeva in una delle domeniche dopo

Pasqua, la maestà della campagna romana, le rovine dei monumenti che parlavano all'anima

ed agli occhi, aprivano subito un vasto orizzonte materiale e spirituale.

Il lungo cammino si faceva in diverse tappe.

Ad una determinata Basilica, ci si confessava e Comunicava: un tempo, per esempio, a S.

Sebastiano.

Page 48: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Non si andava od arrivava mogi mogi, ma decisi, perché c'era una fanfara, quella di Castel

S. Angelo che suonava.

Il popolo cantava ed anche i cantori dello stesso Castel S. Angelo sostenevano la musica.

Le Laudi che si cantavano, delle quali abbiamo fatto cenno, erano vivaci e rappresentavano,

più che parlare. Ripresa la via, ad un'altra tappa prestabilita, i pii gitanti rompevano le file,

si accomodavano sul prato, sui muriccioli, in qualche luogo adatto e cominciavano una re-

fezione, che non era da epuloni, ma neppure da eremiti, sebbene discreta: pane, un uovo,

una mela o altra frutta, un po' di salame, un po' di vino.

A ciò provvedeva un provveditore...

Un anno, il provveditore fu S. Carlo Borromeo, che pagò per tutti.

Pensiamo però che ognuno portava qualche altra cosa e quindi si stava benino.

Anche durante il pranzo, la fanfara si faceva onore ed i bravi musici e cantari un po'

suonavano con i denti... e un po' con gli strumenti.

Le spiritosità, le risa, la conversazione spensierata di simili occasioni, condivano ogni cosa.

Ad ogni ripresa c'era poi, per lo più, un oratore che dava ossigeno all'anima e coraggio al

corpo che sentisse venir la stanchezza.

Ad un punto determinato, una sorpresa: un ragazzo si faceva innanzi, saliva su un

muricciolo o su un rialzo e diceva un discorsino imparato a memoria ma insegnato anche a

recitare disinvoltamente, come se fosse farina del suo sacco.

Questo ragazzo, che divenne una figura storica nel movimento Filippino, si chiamò Putto

ed il suo discorso il discorso del Putto.

Tutti ci si divertivano e ci si edificavano.

Al tramonto, all'ultima sosta a S. Maria Maggiore, si cantava e si pregava in onore della

Madonna.

Ora sì, si era un po' stanchi ma allegri: più che allegri soddisfatti.

Una giornata bella ma anche buona.

Alla visita partecipavano persone di ogni ceto: popolani, prelati, nobili, professionisti,

artigiani, perfino cardinali.

Quanti erano, ci si chiederà, i visitatori? Il numero variava sempre, ma si manteneva sempre

alto: sotto il pontificato di Pio IV i gitanti arrivarono a un seimila.

Filippo, come un generale, correva qua e là e trascinava quella massa enorme.

Egli superò ciò che la fantasia, la favola aveva immaginato di Orfeo che attirava dietro a sé,

col suo canto anche le fiere.

Gli uomini che Filippo, come una calamita attirava a sé, erano ben difficili ad essere

comandati.

Fuori i margini della Visita, nacque una leggenda ed anche un gioco di umorismo non

sempre amichevole. Maggiormente nelle occasioni delle visite quelli che restavano fuori

della sfera dell'azione del Santo, davano sfogo a questo loro umorismo.

Riferiamo questo mormorio umoristico con le parole di Marcello Ferro quali troviamo nel

processo il giorno 23 aprile 1610: «alcuni si ridevano e burlavano del beato Padre e, tra

questi, non solo erano persone basse, ma v'erano .anche molti Cardinali... e io lo so perché

non era mai giorno che io non mi trovassi con alcuno dei detti Cardinali e, quasi ogni

giorno, dicevano qualche burla di detto beato Padre e mi domandavano spesso: quante

minestre ha oggi mangiato il P. Filippo? quanti capponi ha avuto? quante minestre, signor

Marcello sono toccate a voi? quanti pignattini sono stati portati? »

E ogni giorno mi facevano simili interrogazioni e durò questo per molti e molti anni, e s'era

divulgata questa cosa per Roma e se ne parlava pubblicamente in Banchi... e io andavo poi

a riferire al detto beato Filippo quanto avevo sentito e mi stupivo nel vedere la pazienza e la

mansuetudine del beato Padre e con quanta allegrezza sentiva di essere burlato e che si

Page 49: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

dicesse male di lui. E quando io gli dicevo le burle che si dicevano di lui vedevo che si

rallegrava tutto e aveva caro sentirle riferire con grandissimo gusto come se quei tali

dicessero la verità.

E so di certo che il Cardinal Gambaro, dopo aver burlato per molto tempo il beato Padre, si

riconobbe dell'errore suo e mi pregò che io conducessi il beato Filippo da lui. E subito che

io dissi al beato Padre che il cardinal Gambaro gli voleva parlare subito vi andò.

E so che il detto Cardinale restò molto edificato delle parole del beato Filippo, perché poi

mai più dopo si burlò di lui e mi disse poi: mi piace, signor Marcello, il padre Filippo: è un

santo uomo e voi fate che preghi per me. E mi diceva spesso queste parole. Così uno ad uno

si arresero tutti e Filippo passò trionfatore nel popolo romano».

CAPO IX

POESIE ESTEMPORANEE

Poeta si e no. Poeta S. Filippo? Poeta o di mestiere o di arte, nel senso comune, no.

La poesia, come acqua dalla fonte che si può raccogliere in tanti vasi diversi, si raccoglie

nella parola, in versi o senza versi, e in mille altre forme.

La poesia si raccoglie e si condensa anche in un gesto, in una trovata.

S. Filippo infatti non scrisse poesie, con o senza versi, e di lui abbiamo solamente un

sonetto: gli altri che gli si attribuiscono, probabilmente non sono di lui.

Avrà scritto, magari da giovane, quando si commettono questi peccati, dei versi poi perduti:

niente male!

La vera e più grande poesia di Filippo è quella fresca che scorre nella sua vita e si esprime

in gesti, fatti, parole. Poesia bellissima è per esempio la lettera che abbiamo riportato

innanzi e che egli scrisse a Madonna Fiora...

Raccogliamo qui alcuni dei suoi giochi, scattati come scatta una poesia estemporanea, in un

momento felice.

La gallina e la penitenza.

C'era una donna che con molta facilità mormorava, diceva male delle persone e, magari,

calunniava, in buona fede.

Era una maldicente un po' incallita e S. Filippo non trovava mezzo per farla rinsavire:

raccomandazioni, minacce, gridate, niente valeva.

La donna non arrivava a comprendere la gravità della sua condotta, perché la malvagità di

quello che faceva, poteva essere sì riconosciuta nella mente, ma non passava nella sua

sensibilità.

Un giorno S. Filippo, in un lampo di genialità, afferrò come a volo un rimedio che doveva

appunto trascrivere nella sensibilità della poveretta la realtà dei peccati, che essa non

riconosceva bene.

Dopo averla ascoltata e aver sentito che ancora una volta essa aveva ecceduto in quel suo

brutto vizio della maldicenza, le disse:

- Senti linguacciuta: io ti darò ora una penitenza più leggera delle altre volte per

incoraggiarti a fare qualche sforzo per emendarti, almeno un poco, ma questa penitenza la

devi fare con molta diligenza.

Andata a casa, prenderai una delle tue galline o la comprerai...

- E la porterò a voi P. Filippo?

- Bestiaccia, balorda che sei! A me no! Senti, fammi parlare.

Page 50: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

- Prenderai quella gallina, comunque sia, e poi verrai da me: per via però spennerai ben

bene la gallina di modo che non deve restare neppure una di quelle piume che sembrano

lanuggine: ti raccomando.

Io poi la gallina te la renderò e ne farai l'uso che vorrai, per la penitenza però è necessario

che tu la porti a me e veda se hai fatto il servizio bene.

- Farò proprio così P. Filippo!

Così disse con le labbra ma nel suo cuore andava domandandosi: che razza di penitenza è

mai questa? Il P. Filippo se non è stato pazzo sinora, l'è diventato ora. Venne il giorno della

penitenza e la donna era soddisfatta e mise innanzi la gallina spennata per farla bene

osservare al Santo.

Filippo, senza indugiarsi in altro, disse decisamente:

- Va benissimo, ma la penitenza non è ancora completa: e tu farai così; ritornerai su i tuoi

passi, rifarai la via di casa tua senza cambiare strada, raccoglierai tutte le penne dalla prima

all'ultima, le metterai insieme e me le porterai qui.

- Mamma mia! E come farò, caro Padre, a raccogliere le penne?

- E come farò io, cara figliola, a darti l'assoluzione se tu non raccoglierai le penne?

Ricordati che senza l'assoluzione ti resta il peccato e, quando sarai morta, ti resta l'inferno:

non c'è via di mezzo.

- Io sono disperata, io sono dannata! come farò?

- A tutto questo ci dovevi pensar prima, maldicente impertinente. Se non puoi raccogliere le

penne di una gallinella, come raccoglierai le maldicenze che fanno male a tanta gente, tanto

più che le maldicenze che tu dici, le altre persone le portano lontano lontano, dove tu non

pensi?

- (singhiozzi della donna)

- Va bene: per questa volta ti darò l'assoluzione, ma spero che avrai ben capito.

Il silenziatore della bocca.

Capita una donna a Filippo e comincia a parlare concitata

- P. Filippo non ne posso più con quell'animale di mio marito, anzi di quel demonio!

- Cosa ti fa? Ti vuole ammazzare forse?

- Ammazzare no veramente, ma poco ci manca: immaginate P. Filippo che mi insulta, mi

minaccia, cerca pretesti di litigare e, qualche volta, mi percuote anche. Io naturalmente, mi

debbo difendere e gliene dico tante, perchè se non facessi così, guai... E poi io ho ragione.

- Io pure, madonna, ti do ragione; ma voglio darti un'acqua miracolosa che ti darà vittoria

su tuo marito. Detto questo, il Santo va a prendere una boccetta d'acqua da una brocca: era

acqua da bere, ma la donna non vide questa operazione.

Il Santo tornato con la bottiglia piena d'acqua, con un certo senso di mistero, la dette alla

poveretta e le disse, con un'aria ancora di mistero:

- Questa è un'acqua miracolosa: quando tuo marito comincia a litigare, tu sveltamente,

magari senza farti vedere, metti un boccone d'acqua in bocca, però non inghiottirla, ma

tienila quanto più puoi in bocca. Quando poi non puoi più tenere quell'acqua, un'altro

boccone e così di seguito se tuo marito seguita a litigare...

La donna, fiduciosa nel Santo, andò a casa e l'occasione di litigio sorse presto: essa poi

esegui l'ordine del Santo e mentre il marito s'infuriava magari a gridare, essa faceva la

manovra con la bocca e con l'acqua.

Il marito, non sentendosi rispondere, o rabbonito o pensando di essere vittorioso o

immaginandosi che la donna fosse pentita, si calmava o se ne andava e tutto era finito.

La donna ritenne quello stratagemma un miracolo e non finiva di ringraziare il Santo e di

parlarne alle altre donne.

Page 51: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Il cappello inchiodato sul capo. S. Filippo, per suo temperamento e anche per le finalità del suo ministero, cercava di avere

rapporti cordiali con tutti e quando questi rapporti non erano cordiali, s'industriava in tutti i

modi di renderli tali.

Capitò che un giovane, che lo aveva avvicinato in altri tempi, passando per la via, una

volta, vide Filippo e, non solo non si fermò a scambiare qualche parola, come il solito, ma

neppure volse lo sguardo e salutò.

Insomma, dall'insieme dell'attegiamento, si poteva pensare che il giovane fosse imbronciato

contro Filippo: i giovani prendono di queste impuntature.

Il Santo non si offende, non si scoraggia e pensa: come un raggio di sole tra le nuvole gli

balena un pensiero: si volge verso di lui con un volto simile a chi è preoccupato e dice:

- Oh, senti senti... come mai si vede un chiodo lungo sul tuo cappello?

L'altro si ferma sorpreso, si volge verso il Santo e, contemporaneamente prende il cappello

lo rigira su una mano, guarda tutto intorno e non vede chiodo...

Allora, ancora più sorpreso, dice al Santo:

- Come mai Padre mi dice che ho un chiodo lungo sul cappello? Scusi, ma Lei lo ha visto

nella sua mente... Come mai un chiodo per dritto si può reggere sul cappello!

- Io non ti sto a spiegare la cosa, caro mio, ma poiché non sapevo persuadermi che tu

potendo salutarmi non mi hai salutato, ho pensato, per tua scusa, sai, che avessi il cappello

inchiodato in testa!

Una reciproca risata fu la spiegazione naturale: si compresero e se una piccola nube c'era

stata, essa era sparita immediatamente.

Un esame di coscienza fatto da Gesù in persona...

Un giovane era venuto da Filippo a confessarsi e si confessò infatti.

Ma la sua non fu una confessione sacramentale, come si dice: l'accusa di una persona che si

sente colpevole. Diceva le sue colpe, il figliolo, come uno che racconti una sua passeggiata

senza nessun cenno di pentimento, senza nessun segno di rammarico: i peccati erano poi

gravucci e parecchi, e pareva anche che il giovane ne dicesse qualcuno come una bravura.

Filippo comprese che quel giovane non era pentito, non era compreso del male che aveva

fatto, che non ci poteva essere vero proponimento ed allora ecco un rimedio efficacissimo

anch'esso scoccato nella mente come un lampo.

- Senti, mio caro, io ho una cosa urgentissima da fare e devi aspettarmi un po' : fermati qui,

dinanzi a questo bel Crocifisso e stai a guardarlo.

Filippo andò via e passarono parecchi minuti e poi altri ancora e poi un bel pezzo: stava in

camera a pregare. L'altro dinanzi al Crocifisso un po' stette a guardare pazientemente, un

po’, con noia, ma poiché Filippo non arrivava cominciò a pensare.

Il Signore, rifletteva fra se stesso, fu ridotto così, per i nostri peccati, per i peccati miei...

Sarà stato un gran brutto dolore, quella crocifissione di tre ore... E poi tutto il resto.

In breve, senza volerlo, l'uomo fece una grande meditazione sulla passione e alla fine fu

commosso e baciava il Crocifisso e quasi piangeva.

Allora Filippo tornò, lo vide, comprese che ora il peccatore era preparato.

Certo intervenne la grazia ed anche la preghiera di Filippo, ma il procedimento per arrivarci

non perde nulla della sua originalità giocosa.

La congiura di due santi a danno di un giovane...

Uno dei tanti giovani che frequentava Filippo, era un po' vanitosetto: se fosse stato

semplicemente un po' elegante non guastava, per uno che voleva apprendere di fare la vita

Page 52: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

di perfezione, ma la vanità, quella non stava bene. Aveva un bel ciuffo, come si usava in

quel tempo, ma troppo ben curato...

S. Filippo gli fece capire che quella cosa non andava bene e che bisognava mettersi in

regola.

- Faremo così, disse il Santo, tu andrai da un buon religioso, un certo Fra Felice al tale

convento dei Cappuccini, lo farai chiamare e gli dirai che ti ho mandato io: sempre a nome

mio, lo pregherai di aggiustarti i capelli, ciò che lui farà gratis.

S. Filippo, che da parecchio aveva pensato al tranello, aveva anche detto a Fra Felice di

tosare il giovane come una patata mondata.

Tutto avvenne così, e il povero giovane ritornò al Santo che dovette non poco ridere con

quelli che si trovavano presenti, ma fu forte e portò la cosa pazientemente.

Scena muta fra un lupo ed un agnello.

Predicava in Roma nella Chiesa di Aracaeli un certo P. Alfonso cappuccino, oratore sacro

famosissimo e che passava continuamente sui più grandi pulpiti d'Italia commoveva le folle

e le riconduceva alla pratica della vita cristiana: estenuato dai digiuni, con la sua figura

ascetica, produceva un'impressione grandissima.

Forse per l'irruenza con cui il P. Alfonso si scagliava contro il peccato ed i peccatori, lo

chiamarono col nome di P. Lupo: nessuno più conosceva il suo vero nome ma tutti lo

sapevano come P. Lupo.

Il successo che egli stava ottenendo in Roma ad Aracaeli non era minore degli altri ottenuti

a Milano, Genova ecc...

Al momento buono, S. Filippo lo andò a trovare e, assumendo un contegno autorevole e

facendo il viso severo, gli si mise di fronte e, senza tanti altri complimenti, gli disse:

- Siete voi quel Fra Lupo, predicatore che dicono così famoso?

- Sì, Padre.

- Ebbene credete voi, per l'applauso che avete nel mondo, di essere quel gran predicatore

che vi credete? Sappiate che il pavoneggiarsi sui pulpiti, non significa essere un grande

oratore!... Credete voi che in Italia non vi siano predicatori migliori di voi che sono nello

stesso tempo dotti e santi come voi non siete?

Mentre Filippo parlava con impeto, una scena curiosa succedeva tra quelli che erano

intorno: alcuni non sapevano se quella fosse realtà o sogno :alcuni pensavano che Filippo

fosse un pazzo: alcuni erano mortificati per le insolenze dette ad un uomo che godeva

grande stima universale: solo qualche seguace di Filippo pensava che quella non era una

tragedia e che tutto sarebbe finito allegramente.

P. Lupo sotto la pioggia delle parole di Filippo, stava col capo chino, commosso.

Quando il Santo ebbe finito di tempestarlo, Fra Lupo si buttò in ginocchio e con molte

lagrime disse:

- O Padre Filippo, si veramente avete ragione: avete detto la verità...

Forse avrebbe seguitato, ma Filippo smessa la sua maschera di austerità e di risentimento,

con allegrezza l'abbracciò, lo baciò e disse:

- Seguitate pure o Padre a predicare il Vangelo di Gesù come avete fatto finora e pregate

Iddio per me. Senza dire altro si parti e tutto fini in una gioia ed in uno stupore di paradiso.

La mula e l'asino.

S. Filippo, con la sua disinvoltura, quando era il caso, andava anche in carrozza e si serviva

di ogni mezzo, con la stessa semplicità con cui andava a piedi.

Una volta, poiché le vie erano impraticabili, ed egli doveva recarsi in un certo luogo, per la

sua opera di bene, non esitò a servirsi di una mula.

Page 53: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Il cavaliere ad un certo punto ecco che incontra Fra Felice che veniva dalla parte opposta.

Filippo fermò la mula e ci fu uno scambio di parole, alla fine delle quali il Frate analfabeta

ma spiritoso disse a Filippo:

- Si potrebbe dire che, una volta tanto, un'asino è a cavallo di una mula.

- Bravo Fra Felice, mai hai detto una verità così grande.

Come tutti i colloqui e gli incontri dei due Santi, anche questo fu rapidissimo, ma più

efficace e divertente di un dramma.

Gli occhiali.

Una volta, Filippo si trovava per via accompagnato da un bel gruppo di discepoli, quando

viene di contro un giovanetto, che fa per baciargli la mano.

Subito Filippo inventa una storia e dice al ragazzo:

- Senti, figliolo, tu devi andare a tal posto, dalla tale persona e dire questo e questo: e

mentre nominava luoghi e persone, tirò di tasca un paio di occhiali di quelli che portavano i

dottori e li mise sul nasino del ragazzo e poi gli disse con tono di comando: va!

Le risa dei presenti allo spettacolo del giovinetto occhialuto e i commenti di quelli che

passavano, ognuno li può immaginare.

La persona, alla,quale poi si presentò, avrà forse conosciuto Filippo e si sarà divertita un

mondo, alla vista di quell'insolito messaggero.

Ma quella non fu la sola volta; fu l'occasione di far trovare un mezzo strategico per tante

operazioni. Filippo si forni di un bel numero di lenti e le portava sempre in tasca: quando

era il caso o gliene veniva l'estro, le metteva sul naso di questo e di quello per uno scopo

determinato, come per non essere stretto da vicino o per fare allontanare qualche persona o

per mortificare, ma sempre a scopo santo.

Capitava talvolta che questa o quella buona cristiana incontrava Filippo e si gettava ai suoi

piedi per avere la benedizione e baciare la mano.

Filippo tirava fuori le lenti e le aggiustava sul naso della devota.

Ciò fece passare a più di una la voglia della benedizione e del bacio della mano che non

erano graditi troppo.

Un annunzio di morte in una scena allegra.

Il Santo, come abbiamo visto e come vedremo altre volte ancora, aveva la capacità di

trattare col suo umorismo, pur senza, profanazione, cose sacre o solenni come la morte.

Figliolo spirituale tra i maggiori di Filippo era Costanzo Tassone, che il Santo aveva

convertito, traendolo dalle vie del mondo.

Tornando questo bravo uomo a Roma da Milano, si fermò con la sua cavalcatura, dinanzi

alla casa di S. Girolamo della Carità per andare dal Santo prima che da ogni altro.

Qualcuno che stava alla finestra e che lo conosceva, subito si ritirò e disse al Santo: Padre

Filippo, è arrivato Costanzo Tassone, è giù nella via ed ora scende dalla cavalcatura.

Il Tassone era ammalato da parecchio e la sua malattia era inguaribile: può darsi che S.

Filippo sapesse la cosa per via naturale o per lume divino, come noi pensiamo, e perciò

sapeva ancora che sarebbe morto fra poco.

Il Santo pensò subito ad un modo di farglielo sapere, ma senza dirlo.

Comandò a due giovanetti che si trovavano con lui, Ottavio Paravicino e Germanico Fedeli:

stendetevi dinanzi alla porta, in modo da sbarrare il passaggio, ma non vi movete, fate i

morti.

I due giovanetti ubbidirono.

Passarono pochi minuti e arrivò Costanzo, il quale vide quella scena e si fermò.

Page 54: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

In un primo momento restò sorpreso, ma poi la somiglianza dei due giovinetti a due

cadaveri stesi per terra, gli fece balenare l'idea della morte in genere: fu facile, riportare

quell'idea di morte alla morte propria. Costanzo superò il momento di imbarazzo, scavalcò i

corpi stesi per terra e si buttò commosso tra le braccia di Filippo commosso.

I loro occhi si spiegarono tutto: ora Costanzo era certo che sarebbe morto tra poco, come

realmente avvenne. Quell'annunzio di morte, dato in una maniera apparentemente strana e

apparentemente giocosa, tolse il disagio di un annunzio doloroso.

Un pauroso.

L'intraprendere la scuola dei giochi per la libertà dell'anima richiedeva, almeno al principio,

un certo coraggio, come quello di un malato che intraprende una cura dolorosa o di uno che

dev'essere operato e deve sottomettersi ai ferri dei chirurgi.

S. Filippo con quella discrezione degli spiriti, che aveva così profonda, non sottometteva

alla cura dolorosa o all'operazione anime timide, paurose, che non si potevano condurre alla

conquista della libertà dai giudizi e pregiudizi umani.

Egli per tanto non provava neppure certi temperamenti: diamo qui il nome di due che

furono lungamente suoi discepoli e seguaci, il P. Gianfrancesco Bordini e il P. Antonio

Talpa.

Qualche volta, provava o perchè realmente era incerto della capacità del paziente o per

mettere in evidenza questa incapacità.

Un nobile giovane guardò per un certo tempo, con ammirazione, il movimento degli «

spirituali » o dei pazzi e gli pareva bello essere uno di loro, perché in fondo, quella loro

austerità seduceva e poi essi erano circondati da un alone di simpatia, sebbene tra molte

contraddizioni.

Si presentò dunque questo giovane di cui non sappiamo il nome, e pregò chiaramente S.

Filippo di metterlo fra i suoi.

S. Fillippo, da poche domande, comprese anche che il giovane aveva ancora un'idea poco

chiara dell'impresa che voleva intraprendere: traspariva inoltre un certo senso di orgoglio ed

un attaccamento al mondo.

Tuttavia chiese permesso al giovane, andò in camera e prese una bella e lunga coda di

volpe, e la mise in evidenza dinanzi agli occhi del postulante e disse: Guarda come è bella

questa coda di volpe! Tu devi cominciare la tua nuova vita in questa maniera: ti attaccherai

dietro sulla veste questa coda proprio al posto dove l'aveva la volpe a cui apparteneva.

In questa maniera, percorrerai le vie del rione ed anche, se ti piace, uscirai fuori: vedi, sarà

una bellissima cosa. Man mano che Filippo parlava, il volto del giovane si oscurava ed alla

fine, quando il Santo ebbe finito, disse indignato: P. Filippo io sono un giovane onorato e

serio! Io non fo simili pazzie!... Detto ciò voltò le spalle e andò via.

Ciò dette a Filippo ed agli altri la prova che il giovane, contrariamente a quello che

sembrava, era un debole, un vile ed aveva paura di essere creduto pazzo o di fare una brutta

figura, subiva la tirannia del rispetto umano e non aveva il coraggio di riscattare la sua

libertà.

CAPO X

I GIOCHI DIDASCALICI

La suora verniciata da santa.

Tutti i giochi di S. Filippo possono essere considerati didascalici in quanto insegnano

qualche cosa, ma questo insegnamento o è diretto, o si può ricavare dal lettore.

Un insegnamento si può ricavare anche da quei giochi che noi abbiamo chiamati della

sanità e che scattano spontanei senza nessun fine prestabilito.

Page 55: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

I giochi che raggruppiamo in questa sezione sono alcuni di quelli che S. Filippo trovava con

la finalità precisa di insegnare qualche cosa, una verità.

Il gioco, diciamolo pure così, di quel filosofo che si faceva vedere in pieno giorno con una

lanterna in mano, come cercando qualche cosa, e precisamente l'uomo, voleva insegnare

che un uomo veramente tale, è tanto raro da cercarsi con la lanterna come un oggetto

perduto e quasi introvabile.

C'era una volta, ma davvero, non come si dice a principio di certe storielle, una suora che

passava per santa e se ne dicevano cose meravigliose in Roma ed anche fuori: si

raccontavano miracoli e predizioni del futuro, come se essa leggesse in un libro stampato.

Si presentava poi con una faccia, con un atteggiamento da parere una di quelle madonne,

spiccicata da una tavola di altare, che fanno piangere e che innamorano. Parlava poi con

tanta unzione da compungere il peccatore più ostinato.

Qualcuno però, che aveva veramente lo spirito di Dio, sentiva al fiuto che quella suora non

era una santa, magari era una divota di quelle che si trovano dappertutto, ma non si poteva

addurne prove.

La cosa fu riferita al Pontefice, che pregò Filippo di vedere che c'era di vero in quella

faccenda.

Il Santo accettò e, un bel giorno, si presentò al convento della suora con le scarpe bagnate

ed infangate, quali potevano essere in una Roma dove non esisteva ancora il servizio di

nettezza urbana.

Dopo le prime parole convenzionali di presentazione, Filippo si sedette in parlatorio.

Alla suora, che domandava la ragione della visita e che, forse, si aspettava l'inizio di una di

quelle conversazioni mistiche che fanno andare in sollucchero le divotelle sentimentali,

disse, con affettata sgarbatezza:

- La prego di tirarmi dai piedi queste scarpe infangate e pulirmele per bene e poi passeremo

al resto.

Che rispose la suora, il documento da noi consultato non lo dice e, forse, parole non ne

disse, tanto restò male, ma il volto e tutto l'atteggiamento manifestavano una ribellione

risentita, offesa.

Naturalmente non solo non levò le scarpe ma fece chiaramente capire che Filippo se ne

poteva andare.

Il Santo infatti andò via presto e riferì al Papa che quella suora era tutt'altro che una santa,

perché le mancava la base della santità cioè l'umiltà.

Una santa vera.

Una delle più frequenti tentazioni delle anime buone, e talvolta anche dei santi, è quella di

dubitare di salvarsi è una tentazione che si sviluppa dalla virtù esasperata della umiltà.

Se la tentazione non si combatte potrebbe arrivare fino alla disperazione.

Queste anime buone si vedono tanto indegne e peccatrici che non credono possibile salvarsi

o per lo meno difficilissimo: esse non considerano profondamente la misericordia di Dio o

non vi fanno caso, appunto sotto il fa-_ scino malefico della tentazione.

La suora di cui parliamo era una certa, Suor Scolastica Gazzi, del monastero di S. Marta in

Roma.

Filippo, che conosceva l'intimo travaglio della santa religiosa, andò al monastero, la fece

chiamare alla grata del parlatorio e dopo qualche complimento, le disse subito

- Tu sei quella Suór Scolastica che dubita di salvarsi, perché si vede affogata in un mare di

peccati e di male?

- Disgraziatamente, Padre, sono io e così non fosse ed io non fossi mai nata!

Page 56: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

- Ebbene Scolastica io sono venuto a bella posta a darti una bella notizia e cioè che tu devi

stare allegramente, poiché il Paradiso è assicurato, come se tu avessi in mano un documento

firmato da Nostro Signore.

- Il documento che io ho nella coscienza, reverendissimo Padre, è che io sono a questo

mondo, ma come se avessi già tutti e due i piedi sul pavimento dell'inferno.

- Io invece ti assicuro di nuovo che il Paradiso è tuo e solo tu devi rispondere a qualche mia

domanda.

- Dite pure, Padre, risponderò ma sarò convinta sempre come sono.

- Dimmi, Scolastica, per chi è morto Gesù Crocifisso?

- Per i peccatori.

- E tu chi sei una santa o una peccatrice?

- Io santa? Io sono una delle peggiori peccatrici.

- Dunque sei a posto, Gesù è morto per te e il Paradiso da lui conquistato è tuo.

Un'onda di gioia invase l'anima di Suor Scolastica, che mai più fu tormentata dalla

tentazione.

La trappola socratica.

Socrate, che abbiamo nominato altrove, aveva un suo metodo di ragionare, che pareva una

trappola nella quale egli adagio adagio chiudeva i suoi contraddittori.

Egli faceva come un abile giocatore che ti fa fare un passo innanzi per calcolo ma poi te ne

fa fare due indietro e proseguendo in questo modo nella polemica, ti riduceva con le spalle

al muro: ecco il suo sistema.

Il contraddittore esponeva una sua idea e Socrate non ribatteva subito dicendo, non è vero,

ma al contrario, concedeva: si è vero ma aggiungeva ancora, però...

E tosi di seguito ad ogni proposizione del contraddittore consentiva sempre, e faceva fare il

passo innanzi ma poi aggiungeva: «si ma, però, tuttavia, sebbene, pure, non di meno,» e

demoliva ad uno ad uno tutti gli argomenti dell'avversario come uno che spenna una

gallina, una penna per volta, senza far vedere che vuol togliere tutte le penne, ma a questo

arrivava.

Il ragionamento finiva sempre così che il contraddittore preso nella trappola come un topo,

finiva sempre per arrendersi, faceva omaggio al filosofo ed aggiungeva: Avevi ben ragione

tu, divino Socrate.

S. Filippo usava molto questo ragionamento e ne abbiamo visto una prova nella pagina

precedente a proposito di Suor Scolastica, ma ne abbiamo esempi più belli e sviluppati,

deliziosissimi. Eccone uno.

Francesco Zazzara, figlio di Monte Zazzara, apparteneva ad una distinta famiglia, devota di

S. Filippo. Francesco, giovinetto ancora, era stato molto vicino al Santo e poi s'era dato allo

studio delle leggi, con grande fervore.

Il giovane, intelligente, ambizioso, capacissimo, sognava una carriera luminosa e si

preparava a prendere d'assalto le più ambite cariche sociali: era un mondo di sogni, che

però sarebbe sfumato come un sogno.

Filippo, che voleva bene al giovane e, d'altra parte, ne conosceva la generosità, volle

avviarlo ad una meta più bella ed ecco che un bel giorno, venuta l'occasione propizia, non

gli disse come avrebbe fatto altri, che egli sognava, ma preparò la trappola e la mise in

azione.

Fu insolitamente affettuoso e cominciò a dire:

- Beato te, Francesco, che studi e poi un giorno sarai dottore e gran dottore...

L'altro, credendosi compreso ed ammirato, gongolava di gioia.

- Guadagnerai poi molto danaro e porterai innanzi la tua famiglia, anzi la innalzerai.

Page 57: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Francesco si gonfiava ancora.

- Poi comincerai ad avere cariche onorevoli e reddititizie... poi arriverai alle cariche più

grandi... diverrai famoso e sarai conosciuto dappertutto.

Ad ognuna di queste proposizioni il giovane beveva beveva...

Poi Filippo proseguì:

- Certo, potrai entrare in prelatura e avrai le più belle mansioni e non è difficile essere

Cardinale, dal momento che tanti altri, meno preparati di te, ci sono arrivati.

A questo punto il giovane faceva qualche smorfia di falsa modestia, ma, in fondo, credeva

di potere arrivare fin là e si compiaceva.

Filippo arrivò al colpo finale.

- E poi potresti essere Papa... perché no?

Il giovane qui fece cenno di no con la testa come per negare, ma un po' ci credeva e un po'

non ci credeva.

- Certo, non si può essere mai sicuri, ma i cardinali non sono migliaia, sono pochi, ma da

questi pochi deve poi uscire il Papa e tu ricordi bene come il Beatissimo Papa che oggi

felicemente regna era cardinale, ed è stato eletto quando nè lui nè gli altri se lo aspettavano.

Il giovane sentì il bisogno, per non parere un sognatore, vanitoso, ambizioso, di mostrare

che ciò non era possibile e disse: no, questo no, Padre...

Tutto ciò però esternamente ma internamente lui vedeva una possibilità... di arrivare anche

così in alto, e lo si vedeva dal suo volto raggiante.

Filippo poi parlava in una maniera come se fosse convinto, anzi come se avesse un po' di

santa invidia e gli dolesse di essere innanzi negli anni e non poter percorrere anche lui una

sì bella carriera.

Ma a questo punto del dialogo, il suo volto si cambiò: si fece serio, quasi addolorato e,

dopo aver cinto il collo del sognatore con un braccio, gli accostò le labbra all'orecchio e

disse:

- E poi, e poi, e poi?

Quella deviazione così rapida del discorso, fu come prendere per i capelli uno affondato nel

sonno, e scuoterlo. Quel « e poi, e poi, e poi» fece passare dinanzi allo sguardo del giovane

la fine della vita, la morte, la dimenticanza degli uomini e di ogni cosa!

Il giovane cambiò e invece di essere papa, diventò uno dei pazzi di Filippo.

Un «bravo» alla rovescia.

Un giovane, come quello del Crocifisso di cui abbiamo parlato innanzi, andò a confessarsi

ma neppure lui aveva buone disposizioni ed anche con lui mise in movimento la trappola

socratica.

Il giovane cominciò a dire i suoi peccati, ma per un senso di orgoglio, esaltava la bravura

che aveva messa nelle sue birbonate e metteva in mostra il suo ingegno.

L'orgoglio arriva anche a questo.di vantarsi dell'ingegnosità del male ed i giornalisti

moderni intendono, can nessun senso morale, di far vedere che ammirano una tale cosa

quando parlano di «delitto perfetto», come se un delitto potesse essere un'opera d'arte.

Filippo, col suo intuito, colse subito il fenomeno psicologico del disgraziato e dopo l'accusa

dei peccati gli disse - Si vede che sei... bravo... Benissimo, hai ingegno nella zucca.

Il giovane si compiacque di quella ammirazione e disse qualche altra cosa con più lusso di

particolari.

Dopo di ciò il Santo disse a quello stolto:

- Rallegramenti e buone imprese... Puoi andar via. - Ma, e l'assoluzione, Padre. me la da?

- Ma che ci serve l'assoluzione e adesso tu vorresti mutar vita? Vuoi smettere una così bella

carriera? Non lo devi fare! Tu sei a buon punto per arrivare definitivamente e gloriosamente

Page 58: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

alla fine di una così bella vita e cioè sei a buon punto per arrivare alla galera, magari, al

capestro qui, e poi all'inferno, nell'altro mondo, con molto onore, con molta gloria.

Allora finalmente quello sciocco comprese, poté vedere la sua stupida vanteria e fare una

discreta confessione.

Un aspersorio di nuovo genere. Si presentò, un giorno, a P. Filippo un giovane accompagnato da una giovane, ch'era sua

sorella.

Il giovane con volto addolorato disse:

- P. Filippo, questa mia sorella, da parecchio tempo è posseduta dal demonio ed ha

cambiato la casa in un inferno: la notte si alza e va gridando per tutte le stanze, ma ciò

sarebbe minor male.

Rompe piatti, proseguì il giovane, fracassa tutto ciò che le viene a mano e non c'è cosa

buona più in casa nostra: creda pure, non ne possiamo più.

P. Filippo fece alcune domande, guardò la disgraziata e poi, chiamato il fratello in disparte

gli disse:

- Qui il diavolo è innocente questa volta: vostra sorella è in preda ad un brutto capriccio.

Se ciò si fosse avverato ai nostri tempi egli avrebbe detto che la giovane era un'isterica, una

fintona, che aveva qualche scopo per fare quella commedia, come, per esempio, quello di

aver presto marito.

- Ogni volta che vostra sorella, disse il Santo, fa tali pazzie, staffilatela ben bene e vedrete

che guarirà.

La medicina tu efficace e quell'impzudente nvn solo non fece più le solite pazzie, ma

confessò anche la ragione per cui aveva agito così, ragione che prima non aveva voluto

palesare.

A proposito di ossessi ed ossesse, un'altra volta similmente presentarono a S. Filippo una

donna come posseduta dal demonio: Filippo riconobbe che era pazza.

Filippo compera un medico per pochi soldi.

S. Filippo tra i suoi detti faceti, spiritosi, diceva questo: non toccate le borse!... Non si

possono guadagnare contemporaneamente l'anima e la borsa! Lasciate stare la borsa, se

volete guadagnare le anime.

Egli mostrò, in tutti i lunghi anni, un disinteresse veramente eroico e si narrano tanti episodi

ma noi ne riferiremo qualcuno.

Ricordate che S. Filippo, per annunziare la morte prossima al buon Costanzo Tassone,

aveva pensato quello strano espediente di far fingere ai due giovanetti di essere morti,

distesi per terra?

Orbene quel Tassone amava tanto S. Filippo, che l'aveva convertito e condotto a Dio dalle

vie del mondo. Quando si accorse che doveva morire, fece testamento e poi sottoscrisse un

documento con cui lasciava al Santo, come segno di riconoscenza una forte somma di

danaro. Qualche tempo dopo la morte del brav'uomo, Filippo seppe la notizia e ricevette il

documento.

Senza pensarci per nulla, invece di ringraziare ed andare a mettere il documento al sicuro,

disse a chi era venuto per quella commissione che rifiutava il danaro, non poteva accettarlo,

non già per un falso sentimento ma perché non usava accettare nulla da nessuno.

Prese il documento e lo andò a mettere come coperchio sopra un vaso di marmellata per

difendere la marmellata dalle mosche e da altri animali golosi.

Page 59: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Or sempre a proposito di questo eroico disinteresse, un giorno, venne a confessarsi dal

santo un medico, certo Domenico Saraceni di Colloscipoli presso Narni; fu, in seguito, uno

dei medici più famosi del suo tempo.

Fatta la confessione, il giovane si mise le mani in una tasca, frugò e non trovò niente e così

in tutte le tasche. Restò male Domenico e si scusò dicendo al confessore: - Perdonatemi,

Padre, io non ho portato danari! Dalle sue parti usava offrire qualche cosa al confessore

dopo la confessione.

- Orsù, disse Filippo, di colpo, per quei danari che mi volevate dare, voglio che mi

promettiate di tornare sabato a confessarvi da me.

Una vera trappola anche questa: egli dette a credere al giovane di accettare e di aver diritto

al danaro.

Il giovane ritornò, si affezionò a Filippo, come se lo avesse... comperato.

Ci fu una lunga amicizia ed il Saraceni, per molto tempo ammalato di depressione psichica

e di malinconia, non trovò altro rimedio che venire da Filippo.

Il Santo lo guarì con quelle sue trovate allegre e con le sue dolci parole.

Quanta fosse la venerazione del Saraceni, diventato medico famoso e anche filosofo, come

abbiamo detto, si rileva da questo fatto.

Nel 1594, un anno prima della morte del Santo, come egli depone poi nel processo, avendo

saputo che era ammalato si offrì di servirlo, anche di notte.

Il Padre accettò l'offerta e lui si fermò per un mese circa a servirlo.

Una sorpresa piacevole. Un insegnamento altissimo è nel gioco didascalico che qui riferiamo.

Il nobile Salviati grande peccatore, e poi penitente di Filippo, doveva andare all'Ospedale di

Santo Spirito per quei soliti doveri di carità.

Egli talvolta, si fermava nella chiesa detta anch'essa di Santo Spirito, ed ora Parrocchia.

Gian Battista si tratteneva molto nelle sue visite al Santissimo Sacramento e, spesso, oltre il

tempo stabilito, in modo da trascurare o ritardare il servizio agli ammalati.

Una volta egli era estatico dinanzi al Tabernacolo e non accennava per nulla a dover

mettere termine alla sua visita.

S. Filippo gli combina uno scherzo.

Dice ad uno dei suoi che lo accompagnava: Guarda, va dietro a Gian Battista in punta di

piedi, sciogli il mantello che ha, e poi infilagli il grembiule.

L'altro fa, con grande abilità, la commissione.

Dopo molto tempo, Salviati ritorna in sé, fa per prendere il mantello dai lembi ma non li

trova, gli viene in mano invece il grembiule.

Capisce tutto, ma finge di non essersi accorto di nulla. Fuori trova S. Filippo che gli sorride

e gli dice: Gian Battista, Gian Battista, ricordati che lasciare Dio per la carità non è

lasciarlo, ma trovarlo ancora.

“Fatebenpervoi”

C'era in Roma un personaggio divenuto famoso, popolare, ch'era designato con questo

nomignolo e di cui nessuno o quasi nessuno conosceva il nome vero.

Era un esaltato, un impulsivo, che poteva parere un entusiasta ed un uomo intelligente

mentre non l'era.

Era, anzi, un ingenuo, che la maggior parte credevano un uomo di consiglio.

Voleva essere un pubblico moralizzatore, e perciò faceva il predicatore ambulante e molto

spesso aveva in bocca questa espressione: « Fatebenpervoi ».

Page 60: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Tutti ne parlavano in Roma e si arrivò a tal punto che non c'era chi dubitasse che

Fatebenpervoi era proprio un santo autentico.

Tra le altre imprese che si proponeva c'era quella di convertire tutte le meretrici di Roma, le

quali a quel tempo, e proporzionatamente alla popolazione, erano assai più numerose di

adesso: ed erano anche più potenti, perché avevano protettori palesi, senza che legge alcuna

intervenisse.

Fra le altre, c'erano quelle di classe, diciamo così, più alta e che erano chiamate le «onorate

meretrici» tenute quasi come una specie di matrone.

Ora, una volta, mentre Fatebenpervoi illustrava il suo programma, in un pranzo a cui era

stato invitato anche S. Filippo, avvenne un colpo di scena.

S. Filippo ascoltò per un pò di tempo, ma niente convinto, e un sorriso intelligente gli si

agitava sulle labbra egli sapeva qualche cosa.

Ad un tratto, il Santo rivolse la parola al predicatore e disse:

- Q Tonino, se fosse vero quel che si dice, beato te. Tutti quelli che non sapevano il nome

del moralizzatore di meretrici lo seppero così quella sera.

S. Filippo non credeva, come si vede, alla santità dell'uomo e a tutto il resto e, tanto meno,

alla possibilità di convertire le meretrici di Roma, neppure con una missione di un anno

intero.

Colei che ci ricorda questa scena è Cassandra Senese, la quale aiutava ad allestire il

banchetto e a servire a tavola: essa depose nel processo.

Pochi giorni dopo si seppe che Fatebenpervoi, il missionario delle meretrici, era scappato

con una donna che poi sposò.

L'avvocato degli zingari. Da quanto abbiamo detto finora, si potrebbe pensare che S. Filippo fosse un uomo solo

bontà, brio, condiscendenza, un uomo insomma latte e miele: no, era un uomo anche molto

forte che non esitava a rischiare la libertà e la vita.

Ci sono molti episodi ma noi ne riferiamo due solamente molto movimentati e che non

mancano di una certa blanda luce di umorismo.

Attori di un episodio furono gli zingari e non c'è da meravigliarsi: nella vita del Santo

entrarono individui di tutte le categorie, senza distinzione, ed anche gli ebrei e gli zingari.

Gli zingari, per un certo tempo, avevano anche fama di santoni, almeno per persone

ingenue, e si fingevano pellegrini che andavano al Santo Sepolcro in Gerusalemme a

pregare per i loro benefattori: così coperti, alleggerivano le persone di quanto potevano;

danari ed oggetti.

Al tempo però di cui parliamo, erano conosciuti più veramente come chiromanti, indovini,

specialisti di polveri miracolose o misteriose contro mali di ogni specie, conoscitori di

scongiuri contro la iettatura, il malocchio ed altre cosuccie di questo genere.

Avevano anche dei mestieri... onesti, come quello, per esempio, dì calderari e aggiustatori

di stoviglie: questi mestieri però coprivano il mestiere principale, ch'era quello di rubare.

Stati e città, per tanto, cercavano di difendersi dalla venuta degli zingari.

Anche a Roma erano stati fatti decreti contro di loro, ed uno di questi decreti del 1566

comminava, tra le altre pene, anche quella della frusta, se essi non fossero andati via in un

certo giro di giorni.

A Roma si facevano preparativi per la spedizione che condusse poi alla vittorìa di Lepanto

nel 1571, e molti zingari erano arrivati in città.

I preparativi per la spedizione contro i Turchi avevano messo l'entusiasmo negli animi e,

come nei preparativi di tutte le guerre, i più dicevano: armiamoci... e andate.

Si reclutavano pertanto, con grande difficoltà, persone per le navi e gli equipaggi.

Page 61: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Nella penuria dunque di uomini per remare ed altri servizi di navigazione, si prendono

quegli zingari, che erano arrivati da un castello degli Orsini, sfrattati per le loro imprese e si

chiudono in carcere a Tor di Nona per essere poi mandati sulle navi.

Mogli, figli, vecchi, malati di quegli zingari, che non potevano essere utilizzati e non

furono arrestati, cominciarono allora a percorrere la città, a chiedere pietà e a commuovere

il popolo.

Ci vuole poco a commuovere quel gran sentimentale che è i1 popolo, ma quella volta c'era

un giusto e grande motivo, per cavare lacrime dagli occhi della gente.

La violazione di un diritto umano era palese, e gli zingari, almeno questa volta, avevano

ragione.

Si organizzò, senza quasi volerlo, quella che oggi noi chiamiamo protesta e personaggi

grandi e qualificati si adoperarono per la liberazione dei carcerati; sappiamo così di un certo

frate conventuale Francesco Visdomini, chiamato « Franceschino » di un fra Paolino da

Lucca domenicano, molto considerato dal popolo.

Filippo si pose anche egli tra i protestanti, che fecero pervenire le loro rimostranze alle

autorità: la loro azione ebbe successo e gli zingari furono liberati: le autorità dovettero

ingoiare un boccone amaro, e qualche giorno dopo scoppiò la bomba.

In tutti i crocicchi, si diceva, un pò sottovoce: sapete ch'è successo? Hanno punito quelli

che si sono adoperati per liberare gli zingari, hanno mandato fuori anche « Franceschino ».

Toccare Franceschino allora, idolo del popolo, era come toccare oggi un campione dello

sport... Ci si rimette sempre. I figlioli spirituali di Filippo, com'è naturale, temevano per lui

e si dicevano: vedrete che manderanno via anche P. Filippo.

La paura era grande ma egli non aveva paura: quello che ebbe paura fu il governo e Filippo

non fu toccato e restò.

Mai paura. Una minaccia più concreta e più grave ebbe a soffrire il Santo, ma egli l'affrontò

impavidamente.

Una signora di altissimo casato e di grande ingegno e cultura, Lavinia Orsini della Rovere

era vecchissima, ammalata e se ne aspettava la morte.

Filippo la visitava molto spesso e l'assisteva per prepararla al grande passo, tanto più che

era stato proprio il Santo a riportarla alla fede dall'errore dei protestanti. Era ricca Lavinia e

un suo nipote, Giulio Cesare Colonna, ne aspettava... piamente la morte e l'eredità.

Or vedendo questo signore che Filippo andava e veniva dalla casa di Lavinia, pensò che

volesse carpire un testamento.

A principio sopportò, ma poi mostrò chiaramente di non gradire più la presenza del Santo,

ma Filippo fece il sordo.

Arrivò a dare ordine di non far più passare Filippo quando veniva, ma l'autorità dell'uomo

di Dio la vinceva sulla autorità del signorotto e passava sempre e sostava quanto voleva

presso il letto dell'inferma.

Seguirono minacce più gravi e villanie di ogni genere, e la faccenda si seppe anche in casa.

I figlioli cominciarono a scongiurare Filippo, trepidanti.

- Padre, non andate più dalla signora Lavinia: succederà qualche cosa di grave, perché voi

conoscete che arnese è quel tale.

- Succeda quel che vuole, mi dovesse pure ammazzare. E mette conto farsi ammazzare da

un delinquente? - Beh, sappiate, disse un giorno, più seccato del solito Filippo: sappiate che

la vecchia signora guarirà e vivrà ancora parecchio tempo e il giovane baldanzoso morirà

prima di lei.

Page 62: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Queste parole furono come una condanna a morte non passò molto tempo e Giulio Cesare

mori e la vecchia signora rifiorì, non certo come una giovinetta, ma rifiorì.

Si fecero meraviglie in Roma, ma ci si rideva anche era intervenuta la morte questa volta a

mettere un umorismo che Filippo non ci aveva messo.

CAPO XI

LE FONTI DELLA GIOIA

La clinica chirurgica per ringiovanire i vecchi. Richiamiamo alla mente che la gioia è il frutto della sanità, come abbiamo dimostrato in

altre pagine di questo lavoro.

La prima fonte della gioia è dunque la sanità e il fanciullo n'è l'esempio più bello: chi più

gioioso di lui? Perché?

Perché il fanciullo è, generalmente, sano nel corpo, nella primavera della sua vita in pieno

sviluppo, e sano similmente nello spirito perché innocente, senza i mali che attaccano

l'anima, mali che noi designiamo complessivamente col nome di malizia.

Il Vangelo, con la sua infinita autorità, ci espone questa dottrina ire una maniera

drammatica.

Gli apostoli, come la maggior parte dei Giudei, ritenevano che Gesù, quale Messia, avrebbe

fondato un regno di giusti, di persone perbene, che egli chiamava regno di Dio, ma in

questa terra e perciò regno terreno con i suoi gerarchi, capi e sottocapi, generali e, come

diciamo noi, marescialli...

Una gara pertanto era sorta tra gli Apostoli, per una certa gelosia per chi sarebbe stato il

capo di questo regno di Dio, il primo ministro, per dire così, perché vedevano Pietro e

qualche altro Apostolo, troppo preferiti dal Signore e come candidati al comando supremo.

Per uscire da questo dubbio, gli Apostoli, con una finta semplicità, perché un pò di malizia

l'avevano anche essi, si avvicinarono a Gesù e gli domandarono chi sarebbe stato il

fortunato, il più grande, il primo nel regno di Dio.

Gesù chiamò un fanciullo di quelli che stavano attorno, lo pose in mezzo e disse: vedete

questo fanciullo? Sappiate, prima ancora di dire chi sarà o non sarà il primo nel regno di

Dio, che non entrerete nel regno di Dio, se non diventerete piccoli come questo fanciullo:

una volta poi diventati fanciulli, è chiaro che sarà il primo quello che è più piccolo.

Gesù ritornò su questa verità in un'occasione più grande e in una maniera più viva.

C'era un fariseo, un certo Nicodemo, buono; pio, ma un pò paurosetto.

Egli amava Gesù, però, per non essere sospettato suo amico dai nemici, una volta andò a

trovarlo, di notte e si trattenne in un lungo discorso.

Egli mosse al Signore delle domande molto gravi e quando si venne all'argomento del

regno di Dio, gli disse bello e chiaro, non come aveva detto agli Apostoli che bisognava

ridiventare bambini, ma in una maniera più forte, che bisognava nascere da capo...

Il povero uomo restò stordito... Rinascere? Che discorso è questo? Come può mai un uomo

già vecchio rientrare nel seno di sua madre ed essere di nuovo messo al mondo, piccoletto,

piccoletto?

Il fariseo aveva compreso in una maniera grossolana la parola di Gesù e una spiegazione

come il fariseo aveva chiesto non si poteva dare: e pertanto gli disse indirettamente: caro

Nicodemo, non capisci niente!...

Ma questa espressione sarebbe stata offensiva e poco bella in bocca a Gesù e perciò rispose,

pur nella stessa sostanza : tu sei un maestro in Israele, un dotto e ignori queste cose? Hai

preso un qui pro quo, lucciole per lanterne, come diciamo oggi noi.

Il fariseo, con la testa ripiena di formule concrete e materiali, non aveva neppure sospettato

che rinascere, ridiventando fanciulli, voleva dire tornare ad essere, pur nell'età avanzata,

Page 63: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

semplici, veritieri, fiduciosi come i fanciulli. La prima fonte della gioia è questa, e neppure

c'è possibilità di compromesso: il profeta Isaia, parlando a nome del Signore, scrive: « Non

v'è pace per gli empi».

La pace poi è il sommo della gioia, è la gioia diventata condizione, stato permanente di vita.

Or, dopo quanto abbiamo detto, si può vedere il segreto della ricchezza di gioia di S.

Filippo, ricchezza che egli possedeva in tanta abbondanza da poterla poi riversare

nell'anima altrui.

Egli aveva accumulato questa ricchezza nell'innocenza straordinaria della sua vita senza

contaminazione di peccati veniali, piuttosto importanti, e senza frattura di peccati mortali.

Egli, pertanto, dai primi giorni fino agli ottant'anni, ebbe i modi, i gesti, i pensieri, il cuore

di fanciullo, pur nell'accrescimento di quella dottrina e di quella saggezza che lo rese il

consigliere, il maestro, la guida del popolo romano.

Fu inoltre, per questa ragione, straordinariamente indicato, per riportare gli uomini ad una

rinnovata fanciullezza, specialmente col ministero della confessione.

La confessione, o meglio il potere di perdonare i peccati in nome di Dio, è di tutti i

sacerdoti, ma per Filippo fu un ministero così intenso, continuo, vario di accorgimenti, che

la confessione stessa può essere rassomigliata ad una fucina magica per svecchiare la gente

e riportarla alla puerizia.

Lo si può rassomigliare ad un fabbro sempre pronto nella fucina ad accogliere i clienti che

dovevano essere operati.

In chiesa, in casa, al letto, in piedi, di giorno, di notte, il fabbro era sempre pronto: pensate

che il giorno stesso della sua morte, fino a qualche ora prima, nella notte tarda, confessò

numerose persone.

Ma chiediamo scusa di aver rassomigliato Filippo ad un fabbro: vogliamo chiamarlo, come

nel titolo di questo capitolo, un chirurgo che rifà l'organismo, come non possono fare i

chirurgi che conosciamo.

Conoscenza di alcuni operati. Un giovane di famiglia molto buona e amica del Santo, andava da lui tosi per divozione,

nella sua grande familiarità.

Un giorno, come il Santo si vide innanzi il giovane, si mise a piangere dirottamente...

Perché? Filippo aveva conosciuto chiaramente, se per un intuito naturale o per un lume

superiore, lasciamo andare, che il disgraziato aveva commesso peccati grossi e vergognosi.

Il suo volto era turbato, contratto, l'occhio come velato, fuggente, e tutta un'inquietezza,

distesa come maschera sul viso.

Ci fu un silenzio penoso che il giovane non sapeva spiegarsi,... cominciò a riflettere.

Un uomo in peccato grave è nella condizione di una persona che si ferisce gravemente con

un grosso chiodo, per esempio, che gli penetra nella carne.

E' avvenuto un trauma, un corpo estraneo è penetrato, s'è conficcato nei tessuti: il peccato è

come un chiodo che si conficca nell'anima.

Il giovane, nel riflettere, dando uno sguardo a se stesso e prendendo coscienza del suo stato,

comprese perché il Santo piangeva.

Come egli stesso poi ebbe a deporre nel processo, narrando in terza persona, taceva per

vergogna al suo confessore, che non era Filippo, un peccato grave, e così commetteva un

altro peccato più grave e cioé quello di sacrilegio.

Il giovane cominciò a piangere anche lui profondamente: la via per l'operazione era aperta:

egli cadde ai piedi del Santo e si confessò.

Si rialzò e il suo volto era rasserenato, disteso, gli occhi brillavano senza più quel velo di

tristezza, come l'aspetto di uno che da uno stato di paura torna alla sicurezza.

Page 64: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Filippo fissò allora il giovane e gli osservò: hai mutato faccia)

Tutto il resto si svolse come una festa, una grande festa.

Del resto questo fenomeno che noi abbiamo descritto si può osservare sostando accanto ad

un confessionale, mentre le persone attendono il loro turno ;per confessarsi si notano volti

oscuri, preoccupati, sofferenti.

Guardate uno di costoro dopo la confessione: è sereno, soddisfatto!

Pare un uomo veramente rinato.

Lettore, sii sincero, non è capitato qualche volta anche a te?

Un certo Giovanbattista Magnani, che faceva servizio alla corte di Gregorio XIII, un giorno

si mise a giuocare ma la fortuna gli fu contraria in maniera straordinaria come mai, e

perdette parecchie centinaia di scudi, ch'era somma grossa per quei tempi.

L'uomo, mezzo disperato, che pareva un pazzo, passava per Corte Savella, uno dei centri di

Roma, quando Filippo, che veniva dalla parte opposta, l'incontrò.

II Santo non l'aveva mai conosciuto ma comprese che si trovava in una crisi gravissima,

come diciamo noi. Senz'altro si fermò, lo prese per un braccio e gli disse: - Come vi

chiamate? Perché siete così sconvolto? Vi sentite male? Avete bisogno di qualche cosa?

- E voi chi siete?

- Io sono Filippo Neri il prete di S. Girolamo della Carità! Non mi conoscete?

- Sì, qualche volta ho sentito nominarvi, ma non vi ho mai avvicinato.

- Neppure io conoscevo voi, ma vi si vede nel volto uno stato grave: voi avete bisogno di

qualche cosa! Intanto lo conduceva a S. Girolamo. Voi avete bisogno di confessarvi subito,

bene.

L'uomo avrà pensato tra sé: che parlare è questo? Che c'entra la confessione con gli scudi

perduti? Io ho bisogno di scudi adesso.

Ma tralasciamo il resto: egli era capitato in mano al fabbro che faceva diventare fanciulli i

vecchi e, come tanti altri, non poté sfuggire.

Filippo indusse l'uomo a confessarsi, a vuotarsi di se stesso. Si rialzò lieto.

Il suo cuore si era allargato, il suo affanno era finito ed un'altra vita era cominciata.

Non si rese conto subito di questo prodigio, ma quando ci ritornò col pensiero comprese e

disse: Filippo è un grande Santo.

Un certo Pietro Focile era un tipo strano: di fondo buono ma vivace, pronto agli scatti, alle

decisioni rapide ma anche ai sinceri pentimenti.

Egli conobbe S. Filippo nella pratica dell'Oratoria e fu preso da ammirazione per lui e non

cessava di tenergli gli occhi addosso, dall'altra parte, Filippo guardava lui in una maniera

insistente, quasi con patimento.

Pietro, come poi depose nel processo, aveva la sensazione che il Santo gli leggesse i suoi

peccati, e sentiva una grande vergogna, tanto più ch'era vestito da giovane mondano,

licenzioso.

Dopo parecchio tempo anche egli si trovò nella fucina del fabbro che faceva i fanciulli dalle

persone adulte. Filippo ebbe a rimproverarlo per certe sue disobbedienze, una volta, ma

quell'uomo focoso montò in furia e disse: ma che non ci sono più confessori in Roma? non

c'è altro confessore che lui? e così a passo rapido andò via. Ma non si trovò bene: non era

soddisfatto e cadde in una grande malinconia.

Non osava tornare però e rimaneva in quella sua tristezza, ma Filippo che conosceva la

pecorella sotto la pelle di uomo bizzarro, lo mandò a chiamare.

Pietro non aspettava altro: si senti allegro, corse, si gettò ai piedi del Santo e pianse.

Quando si fu un pò rasserenato: Padre non voglio più disobbedire e prometto d'osservare

infallibilmente coi fatti tutto quello che mi dite.

Page 65: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

La trappola santa. Un uomo era immerso in un peccato grave a tale segno che le cadute erano continue, quasi

giornaliere. Molti altri peccati meno gravi facevano corona a quel peccato più grave ed

erano una corona di spine.

Il disgraziato aveva messo a prova e la pazienza e l'esperienza di molti confessori e non

aveva fatto alcun progresso: finalmente capitò da Filippo.

Il Santo ascoltò la confessione con volto allegro, come se udisse delle belle notizie. Il Santo

Sempre ascoltava con molta allegria le confessioni, e ciò dicono tutti i testimoni del

processo, ma quella volta sarà stato addirittura festivo.

Il penitente sapeva già per esperienza delle confessioni precedenti che dopo la confessione

gli sarebbe stata imposta una grave penitenza, come comportava l'uso.

Per dei peccati grossi, del genere di quelli in questione, la penitenza poteva essere di portare

il cilizio, per esempio: di digiunare per un mese come si digiuna in Quaresima: di dormire

su un tavolaccio: di andare a piedi scalzi ad un santuario lontano chilometri: di ascoltare la

Messa quotidianamente per mesi: di non bere una foglietta di vino per mezzo anno.

Finita l'accusa, il povero uomo aspettava con un certo batticuore e si chiedeva che cosa

avrebbe detto Filippo mi manderà scalzo?... mi farà digiunare per alcuni giorni? ecc.

Filippo mise flne a quell'intima ricerca e disse:

- La tua penitenza è questa: se ti accadesse di ricadere nel peccato, vieni subito e confessati.

- Solo questa penitenza, P. Filippo? disse trasecolato, quasi incredulo.

- Solo questa, ma esigo che tu la compia rigorosamente.

Si alzò lieto, baciò la mano, ringraziò e andò via pensando: me la sono cavata benissimo...

Mi aspettavo almeno di portare il cilizio! Ma guarda che novità!... Si sa: chi ha peccato

deve confessarsi e questo è un obbligo e non già una penitenza... ma lui è un santo e sa

quello che fa... del resto poi io non avrò più bisogno di fare questa penitenza, perché non

commetterò più quel peccato e quindi tutto è finito, ho fatto un proposito fermissimo.

Ma non passò molto tempo da quel proposito... fermissimo e ritornò a peccare come prima:

al proposito successe lo sproposito abituale.

Quando la calma ritornò nel suo cuore, comprese il disagio di dover tornare, la sofferenza

di fare quella penitenza che gli era parsa così lieve: si sentì male, tuttavia fece uno sforzo, e

si presentò a Filippo.

Questa volta s'aspettava, non solo una di quelle penitenze grosse ma anche una grande

lavata di capo: era stato troppo cattivo, dopo tanta indulgenza del Padre.

Anche questa seconda volta Filippo sorrideva, come l'altra volta, e impose la stessa

penitenza: tornare a confessarsi quando avesse peccato.

La strana cura di confessioni e penitenze di quel genere durò parecchio.

Ogni volta però che peccava il poveretto avvertiva sempre più la pena di dover tornare,

l'umiliazione pesante ed un certo disgusto di se stesso per la sua vita.

Per tutte queste ragioni, cominciò a resistere alla tentazione con una forza sempre

maggiore: finalmente con la perseveranza si liberò da quel peccato.

La penitenza aveva funzionato; il peccatore così proclive al male, certo, dopo un notevole

tempo, arrivò a tale grado di bontà che Filippo ebbe a dichiararlo un angelo. Questa astuzia

di Filippo, di far riconfessare subito in luogo della penitenza abituale, fu una delle più intel-

ligenti, rapide ed efficaci.

Il ridicolo è che il peccatore credeva di essere capitato nelle mani di un uomo semplice e di

un confessore di manica larga, mentre era stato preso in un santo tranello, che nessun furbo

avrebbe potuto trovare.

Quel peccatore indurito se fosse stato trattato al modo usuale, con le penitenze usuali,

magari di farsi la disciplina per una settimana, dopo la prima ricaduta, avrebbe rimandata la

Page 66: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

confessione, come succede ordinariamente. Sarebbe ricaduto ancora con più facilità, una

seconda, una terza, una quarta volta, e magari avrebbe detto a se stesso: una volta di più una

di meno... e sarebbe andato innanzi nella sua pessima abitudine.

Intanto la sensibilità spirituale sarebbe diminuita e avrebbe sentito meno rimorso, il vizio si

sarebbe approfondito e il disgraziato sarebbe andato di male in peggio.

Filippo rese impossibile tutto ciò, col suo tranello di finta indulgenza.

E poi anche quel tornare diventò penitenza.

La gioia anche per un condannato a morte.

Un condannato a morte si mostrava di una vigliaccheria straordinaria.

La morte, si sa, fa paura e molto e di più ancora ad un condannato che abbia dei grossi rospi

sulla coscienza... Andare con dei rospi sulla coscienza all'altro mondo non è il più bello dei

viaggi: ciò è vero.

Tuttavia, si può avere del coraggio, almeno un poco, anche di fronte alla morte.

Alla morte si può andare sereni quando non ci sono rospi sulla coscienza, quando si muore

per una causa giusta, come per la patria: maggiormente poi quando si va alla morte per Dio,

come i martiri.

Ma quelli che sono più crudeli con gli altri e che mostrano più coraggio nel fare il male,

sono più vigliacchi nell'affrontare, essi, la morte.

Uno di costoro, dunque, doveva essere giustiziato, ma nell'aspettazione era diventato un

energumeno.

I fratelli della Misericordia, un pia associazione del tempo che si preoccupava di assistere a

ben morire, non sapevano più che fare per dare un po' di calma e per indurre il condannato

a pregare e confessarsi.

Grida, bestemmie, minacce, gesti folli, erano la risposta del meschino ad ogni invito, ad

ogni parola buona: tutti gli esperimenti fallirono.

Così stavano le cose quando, un messaggero, appunto della Compagnia della Misericordia,

viene dal P. Filippo e gli dice:

- Padre Filippo, c'è un condannato che deve essere giustiziato ma non vuol saperne né di

Dio, né di Sacramenti, né di sacerdoti: nessuno di noi è riuscito a smuoverlo, a rabbonirlo!

E' una belva: anzi, pare che abbia quattordici diavoli in. corpo.

- Avete provato a chiamare sacerdoti diversi dalla vostra Compagnia? Ce ne sono tanti a

Roma.

- E come! Abbiamo chiamato sacerdoti di vari ordini religiosi, espertissimi del ministero,

ma non hanno cavato un ragno dal buco.

- Ebbene verrò io, dice il Santo, dopo aver un poco pensato.

- Venga, ci fa proprio una grazia, benché, lo dico prima, ci sia poco da sperare.

I due si avviano e arrivano presto al luogo: pareva uno spettacolo.

Il condannato proseguiva la sua reazione, come un pazzo furioso: c'erano parecchie persone

presenti, più o meno addolorate, ma tutte atterrite.

- Per favore, andate fuori, dice Filippo a costoro e poi si dirige, verso il condannato e, a

qualche passo di distanza, intima:

- Non parlare più, taci, scellerato!

Nel dire ciò il Santo, con movimento inconsueto, non fa, diciamo, una delle sue, ma ne fa

una ch'è nuova e non si ripeterà mai più.

Piomba addosso a quel furioso, lo prende per il collo, lo butta a terra e gli sta sopra con

risolutezza e seguita a dire imperioso: taci, taci, non ti muovere!

Mentre le parole dicevano ciò, gli occhi, le linee del volto dicevano peggio.

Si fece un silenzio assoluto.

Page 67: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Il condannato, in quella pausa dal chiasso esteriore, che egli stesso faceva e dalla presenza,

forse, eccitatrice, degli altri, è portato alla coscienza di se stesso e rimane stupito, stordito,

come in attesa di una spiegazione.

Filippo cominciò a parlare: le sue parole cadevano come un getto di acqua continuata sopra

grande fiamma: la fiamma di disperazione dell'uomo va diminuendo, poi si estingue

lentamente.

Le parole intanto continuavano a scendere ancora, ma come olio che lenisce, confortatrici.

Quanto tempo durò la scena? Non sappiamo.

L'uomo si calmò completamente, cominciò a riflettere, poi si rasserenò, si confessò.

Nel nuovo stato di coscienza, sentendo, forse, ancora una volta il bisogno di purificare la

sua anima per affrontare la morte, si confessò di nuovo.

C'era stato, certo, in tutta questa vicenda, una forza, divina, la grazia, ma la grazia svolge la

sua opera nelle leggi della vita, e Filippo, col suo gesto audace, fece il silenzio, e la

tranquillità esterna fece il silenzio e la tranquillità interna; la grazia operò, venne la

salvezza.

Filippo spara uno dei suoi più celebri mortaretti.

I mortaretti sono quei robusti cartocci, che i pirotecnici o costruttori di fuochi d'artificio,

riempiono di polvere pirica, stringono ben bene con fili robusti e poi fanno scoppiare,

accendendo una miccia: nell'esplosione, faville vengono fuori, ed un gran botto si produce.

Filippo molto spesso usava un procedimento simile ed annunziava una grande verità con un

motto di spirito, con un gesto comico, con una trovata spiritosa.

Era un uomo molto riflessivo, un meditativo: prima metteva la polvere nelle sue

meditazioni e poi, a tempo opportuno, la faceva scoppiare come un mortaretto. Pareva un

improvvisatore, ma era un uomo che aveva preparato il mortaretto.

Egli non faceva pertanto come i filosofi che, quando hanno qualche cosa da dire, tirano a

lungo, ragionano ragionano fino alla noia.

Una volta, pertanto, egli ragionava con uno dei suoi, il quale era abbastanza orgoglioso, non

sapeva sopportare le mortificazioni, polemizzava, si atteggiava a saputo e discorreva di

ogni cosa e tuttavia pretendeva di aspirare alla santità.

Ad un certo punto, Filippo, forse stanco delle chiacchiere del suo interlocutore, si irrigidi

nella sua persona e, persuaso come chi sa di avere causa vinta, porta tre dita distese alla

fronte, ve le batte e dice reciso, nervoso:

- La santità dell'uomo sta in tre dita di spazio: sappilo!

Come, Padre Filippo? Che volete dire?

- Dico che la santità sta in mortificare la « razionale », la quale si trova appunto qui nello

spazio di tre dita della fronte...

- E che cos'è questa razionale?

- La razionale è la ragione che cerca di farsi valere, anche- a torto: di mettersi in mostra: di

vincere: di non far conto dell'umiltà: la razionale è la ragione che non ragiona bene e o

zoppica o addirittura fa capitomboli come un ubriaco.

Da quella prima volta, la grande verità che bisogna mortificare la razionale, e cioè

raddrizzare la ragione zoppicante, divenne uno slogan di Filippo e della sua scuola.

Egli portava fino alle ultime conseguenze questa sentenza e diceva « Che uno il quale non è

capace di sopportare la perdita dell'onore, non può progredire in santità».

Il lettore comprenderà che questa scena non si trova così messa nei processi od in altri

scritti, neppure una volta, però è riconosciuta da come avvenne quasi tutte le volte.

Il fatto è che il mortaretto, pur consegnato nei libri, seguita a sparare, non appena il libro si

apre, e scoppierà nei secoli dei secoli.

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CAPO XII

QUATTRO RICETTE PER LA GIOIA

L'ingrediente principale di queste ricette. Sembra incredibile, ma è pur così che l'ingrediente di queste ricette per la gioia, è il

disprezzo.

Generalmente il disprezzo è ritenuto un sentimento cattivo e che produce male, tristezza e

quindi è contrario alla gioia.

Però del disprezzo, come di altre cose generalmente cattive, può avvenire come del veleno:

il veleno uccide, ma in proporzione di medicina, con altri elementi, diventa salutare.

Ma veniamo alla storia delle ricette.

Un santo monaco e vescovo irlandese, San Malachia, O Margair, scriveva tante belle cose

in prosa ed in poesia, in latino, s'intende, e tra le altre cose scrisse questo elogio del

disprezzo.

Spernere mundum

disprezzare il mondo

2

Spernere nullum

non disprezzar nessuno

3

Spernere se ipsum

disprezzar se stesso

4

Spernere se sperni

disprezzare di essere disprezzato.

Le ricette di felicità, sono state inventate in ogni tempo da uomini che avevano tutt'altro

interesse che quello della felicità, come, per esempio, il Conte di Cagliostro, che inventò

l'elisir di lunga vita.

Ma queste ricette erano truffe, mentre le ricette del santo Vescovo irlandese sono infallibili

come quasi... le definizioni del Papa.

Ma spieghiamo l'uso di queste ricette e come si debba prendere il medicinale che esse

prescrivono. Cominciamo dal riconoscere quel mondo che, chi vuole stare allegro, deve

disprezzare; il mondo è definito da certe espressioni che tutti dicono 'e accettano e cioè

«mondo infame - mondo pazzo - mondo cane - mondo traditore - mondo ladro - mondo

porco... ».

Queste definizioni sono tutte vere, ma la più pittoresca mi pare quella: mondo porco.

Immaginiamo un trogolone grande grande: il trogolone è quel recipiente in muratura o di

altro genere, nel quale si pone il cibo ai porci.

I porci vi buttano il muso dentro a gara e lavorano di bocca: quando il trogolone è molto

ampio i porci vi saltano dentro.

Questo immenso trogolone, che abbiamo immaginato, è il mondo, e quegli animali sono gli

uomini che vi si buttano per cercare i piaceri che il mondo offre, e si comportano come se

essi dovessero stare sempre in questo mondo e litigano tra di loro e si azzannano, talvolta,

nella gara di accaparrarsi una parte maggiore.

Ma la giostra finisce male: quel bene che questi emuli dei porci cercavano, non lo trovano,

ma solo malanni, disgusti ed altre cose del genere.

Se uno non sa vincere il fascino, le attrattive del mondo il quale ha una grande forza sui

sensi, addio pace, addio gioia e, spesso anche, addio salute dell'anima.

Page 69: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Ma non basta questo disprezzo del mondo, per non essere preso, nelle sue reti: non bisogna

disprezzare nessuno in particolare, come prescrive la seconda ricetta.

Nessuno ha il diritto di disprezzare un altro, sia anche costui un cattivo.

Se tu disprezzi questo, disprezzi quell'altro, per questa o quella ragione anche fondata,

perché tutti abbiamo dei difetti, tu litighi, perdi tempo, ti procuri nemici ed inizi una guerra:

in questo modo è finita la gioia, è finita la pace.

Se vuoi disprezzare qualcuno, puoi disprezzare te stesso: anzi la terza ricetta dice appunto

così.

Questo disprezzar se stesso è più facile, perché anche tu avrai i tuoi difetti ed avrai al tuo

passivo certe cosette poco onorevoli, che gli altri non sanno, ma che tu conosci bene.

Noi generalmente crediamo di essere più di quello che siamo ed abbiamo delle pretese...

Vogliamo essere calcolati, stimati, e creduti impeccabili: siamo superbi e siamo soli a non

conoscere i nostri difetti ed a non vedere certi punti oscuri ben vergognosi.

E qui giova richiamare l'insegnamento di quel grande uomo, di cui abbiamo fatto cenno a

principìo e cioè il favolista Esopo : egli disse che noi abbiamo sulla spalla, due bisacce con

innanzi i difetti degli altri, che vediamo, e indietro i difetti nostri che non possiamo vedere.

Naturalmente poiché gli altri non sono del nostro parere, riguardo a noi e non hanno quel

concetto grande che noi abbiamo di noi stessi e non vogliono dar soddisfazione alle nostre

pretese, ecco che noi ci troviamo impigliati in una guerra.

La maggior parte dei nostri dispiaceri e guai avvengono, infatti, per le credute

manchevolezze degli altri verso di noi.

In questa maniera addio gioia, pace, se non si osserva questa terza ricetta.

Disprezzare di essere disprezzato è la quarta ricetta: è l'ultimo dei quattro gradi di disprezzo

ed è il disprezzo grande, sublime, glorioso.

Noi inghiottiamo tutto, ma l'essere disprezzati, no! Ripetiamo, la maggior parte dei nostri

guai proviene dal fatto che ci riteniamo in diritto di essere considerati e tenuti in qualche

onore.

Anche un ladro, se lo si chiama ladro, benché riconosciuto da tutti per quello che è, guai!...

Se egli può, vi chiama innanzi al giudice per farvi riconoscere che egli è un galantuomo.

II nostro tormento è dunque di non essere considerati e noi facciamo dipendere la nostra

pace e la nostra gioia dal concetto che gli altri hanno di noi.

Pertanto, è una vigliaccheria, una stupidità quella di mettere la nostra pace la nostra gioia

nella considerazione degli altri: è una forma di schiavitù.

Se siamo dotti, forse, perché gli altri ci credono ignoranti, perdiamo la nostra dottrina? Se

siamo, invece, ignoranti, diventiamo sapienti perché gli altri ci credono sapienti?

Se noi ci riscattiamo dalla servitù del giudizio degli altri, noi abbiamo finita la cura e, nella

libertà dei figlioli di Dio, abbiamo trovata la gioia.

Un altro mortaretto.

S. Filippo da quel grande osservatorio, ch'è la confesalone, aveva studiato specialmente due

microbi micidiali della vita spirituale e si dette a trovare la penicellina... adatta per

sterminarli.

Quando gli capitavano infatti ammalati assaliti da questi microbi e cioè la scrupolosità e la

malinconia, metteva subito mano al medicinale, che era sempre proporzionato al malato e

diamo qualche esempio.

Arriva un giorno a lui un ottimo sacerdote, un certo Giambattista Ligera e fa per aprire la

bocca e cominciare a raccontare una delle sue paure ed angosce, tutto preso com'era negli

scrupoli: aveva poi una faccia scura, spaventata.

Page 70: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Filippo comprese e senza fargli dire parola, gli ordinò via, stenditi lungo lungo per terra,

davanti al mio confessionale e non ti muovere sai, non ti alzare finché non ti dico io.

I presenti che videro quella manovra e gli altri che arrivavano in seguito commentavano:

- Ma è matto quell'uomo là... La chiesa non è un teatro.

- Guardatelo: pare un salame affumicato!

- Che gli sia venuto un'accidente?

- Guarda che ti combina quel P. Filippo, diceva qualcuno che la sapeva più lunga ed aveva

capito chi era il regista di quella farsa, quando i registi non ancora esistevano.

Fu certamente al presentarsi di una di queste scene le quali non erano infrequenti, che

Filippo fece sparare un altro suo mortaretto, preparato da molto tempo.

Ma questa volta lo sparo, per un improvviso colpo di estro, avvenne in poesia, un po' zoppo

nel secondo verso, ma ugualmente efficace.

« Scrupoli e malinconia fuori di casa mia».

Da quel giorno, sono ormai secoli, il mortaretto spara ancora e, crediamo, sparerà per altri

secoli ancora, tanto esso è sempre moderno: non c'è sacerdote, educatore, padre o madre,

che, di fronte ad una manifestazione di scrupolosità o di malinconia, non ripeta quei due

versi.

Talpone.

In verità gran male è lo scrupolo: esso è come la ipersensibilità, cioè la sensibilità diventata

malattia.

Lo scrupolo, come una grossa talpa, lavora sotto terra per vie complicate, tortuose e così fa

inaridire le radici stesse della pietà, mentre vuol parere esso stesso pietà grande e raffinata.

Lo scrupoloso vede dappertutto male, peccato, e si tormenta inutilmente girando su se

stesso.

Gli scrupolosi arrivano talvolta ai margini della pazzia, per far troppo bene.

Lo scrupoloso se si distrae solo un poco nella preghiera, per uno di quei giochi

insopprimibili della fantasia, dice a se stesso: questa preghiera non vale... Ricomincia... Ma

poi si distrae ancora e ricomincia e finisce per non pregare più ma dire soltanto delle

formule vuote.

Un prete, che io ho conosciuto, non finiva mai di dire il suo Breviario e cambiava ogni

momento luogo, pensando che in un luogo diverso non troverebbe distrazione, non

sentirebbe rumore!

- Ma questo luogo non lo trovava mai e così non finiva mai di girare: una volta lo vidi,

dietro un bastione di Castel Sant'Angelo in Roma con la faccia al muro, come un fanciullo

castigato, con le spalle alla gente che passava e il suo Breviario in mano.

Questo fenomeno della scrupolosità, oggi, fa un gran male, specialmente fra persone

anziane, a proposito della Comunione.

Abituati al tempo in cui bisognava star digiuni dalla mezzanotte, per poter fare la

Comunione, credono che ricevere la Comunione secondo le leggi nuove della Chiesa e che

cioè tre ore prima si può mangiare e fino ad un'ora prima si possono prendere liquidi, meno

liquori, sia una Comunione meno perfetta.

Essi vogliono fare come si faceva anticamente: così dicono! Però siccome non badano ad

astenersi dal mangiare e dal bere, in così lungo spazio di tempo, oppure non sanno superare

il disagio di non prendere qualche cosa, magari un caffè, dicono: beh! la Comunione la farò

un'altra volta! Così, di volta in volta, la Comunione si rimanda magari fino a Pasqua.

Per fare la Comunione perfetta, non la fanno per nulla. Molto spesso questi poveri malati,

disperati di poter uscire ad essere buoni, come vorrebbero, si abbandonano ad ogni eccesso.

Page 71: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

S. Filippo li strapazzava, per toglierli all'incantesimo, li faceva cadere nel ridicolo, per

aprire i loro occhi. Mentre il sofferente, certe volte, aspettava chi sa quali gravi parole, quali

gesti misteriosi di liberazione, egli chiamava qualcuno che aveva una bella voce, come il P.

Antonio Gallonio e gli faceva cantare una delle canzoni della Ciociaria, dove magari si

dicevano tenerezze tra innamorati.

Il povero malato era come buttato all'aria libera. Talvolta, o dopo qualche parola oppure

senza dir niente, prendeva per mano il paziente e lo tirava dicendo: Facciamo a correre...

Voglio vedere chi arriva più presto. Talvolta dopo aver sentito la filastrocca di peccati ine-

sistenti, ma che lo scrupoloso credeva veri, Filippo gli dava questo ordine:

- Va benissimo... Ti libererai presto, ma devi fare quello che dico: a mezzogiorno, quando

tutti saranno nel refettorio, tu verrai, ti metterai in mezzo e dirai tutti questi peccati a voce

alta.

- Ieri, cominciava lo scrupoloso, ho visto due pezzi di legna, che erano disposti, mi pare, a

forma di croce, ed io ci sono passato sopra ed ho calpestato quella croce empiamente.

- Nella predica dell'altro ieri ho sentito parlare della fede viva, della speranza incrollabile,

della carità ardente ed io mi sono persuaso di non avere più né fede né speranza nè carità:

sono disperato.

- Un mio parente è morto e mi ha lasciato una certa somma in danaro: io non ho pianto: mi

pare che io abbia avuto piacere della sua morte e penso che se fosse dipeso da me l'avrei

fatto morire: io sono un assassino.

- Un altro giorno ho visto in faccia una donna che mi sembrava bella: ho sentito un piacere:

ho fatto segno con la testa di non consentire, ho agitato anche le mani, ma sentivo piacere...

Però non lo volevo: ho commesso adulterio perché quella donna era maritata.

- Non mi sono accusato bene nell'ultima confessione, perché quando il confessore mi ha

domandato da quanti giorni non mi ero confessato, ho risposto: da sette giorni, invece erano

otto giorni. Ho fatto una confessione sacrilega, sebbene non mi ricordassi precisamente, in

quel momento.

- Ho visto un amico che aveva una bella veste e mi sarebbe piaciuta averla anch'io, ho

desiderato la roba altrui.

Tutti quelli che udivano e conoscevano l'uomo incapace di commettere la più piccola

azione deliberatamente o di prendere uno spillo, man mano che udivano quelle credute

enormità, ridevano, beffavano, sghignazzavano.

Il poveretto si rialzava sudato per la vergogna ma mezzo guarito, perché, con la mezza parte

del cervello sano, cominciava a persuadersi che era pazzo per l'altra metà.

Ecco una cura che durò parecchio tempo ma fu efficacissima.

Tra i fratelli laici della Congregazione c'era un certo Egidio Calvelli. da Cingoli nelle

Marche: era un santo uomo, di vita purissima, ma scrupoloso per riguardo alla purezza

specialmente ed egli ad ogni paura di peccato faceva delle crocette, come gli avevano

insegnato e domandò al Santo se ciò era bene.

Se il Santo avesse fatto un bel ragionamento, sarebbe riuscito a nulla con quell'uomo

semplice e gli disse, senz'altro: si, è cosi. Con le crocette si vincono le tentazioni ed è bene

farne molte.

Avvenne che per ogni paura di peccato, Egidio faceva crocette dalla parte del cuore e ciò

accadeva specialmente in presenza di donne.

Capitava che ci fossero dei Padri ed altre persone, e lui Egidio a far croci, si avvertiva tra i

presenti un disagio grande: i Padri ricorsero al Santo.

- P. Filippo, Egidio ci fa diventare tutti ridicoli perché comincia crocette a serie non appena

sente il fruscio di una gonna: ditegli che la smetta.

Page 72: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Cattivo rimedio! Il Santo, volendo guarire il malato e mortificare gli altri, anche per quel

suo genio particolare,... venuta l'occasione, esortò Egidio a far sempre più crocette. II

poveretto si ridusse a tale che la veste, dalla parte del cuore, dove faceva quelle crocette si

consumò: Egidio finalmente comprese e la smise.

Una ragazzinaccia. E' questa la malinconia! La malinconia, nella lingua e nell'estimazione generale della

mentalità moderna, è ritenuta come una specie di tristezza sì, ma composta, delicata,

gentile, di creatura sensibile che geme dignitosamente: geme del male proprio e del male

altrui e vede tutto appannato, perfino il sole.

La persona malinconica ama la luna patetica, le ombre discrete, i luoghi solitari...

Essa, la malinconia, è come certe ragazzine, pallide, con gli occhi languenti che sembrano

delle madonnine, ma sono delle malate, anemiche e, molte volte, portano una origine

equivoca.

La verità, infatti, è un'altra e quegli uomini di ingegno che sapevano la natura vera del

male, la chiamarono con un nome composto di due parolette che vogliono dire bile nera.

Ecco dunque che cosa è la malinconia: produzione di un fenomeno lieve di avvelenamento.

Essa fa vedere tutto nero, fa ripiegare su se stessi, rinchiude l'uomo nel proprio egoismo.

La vita, il mondo, pensano essi, non è che un campo di morte, di dolore: vivono di paure, di

apprensioni, di sospetti: il malinconico sostituisce al mondo vero, un immenso funerale.

Il malinconico è senza coraggio e dappertutto vede peccati, insidie, morte latente.

Egli ritiene che non vi è ragione e diritto di vivere non è raro il caso che dei malinconici

arrivino al suicidio, senza nemmeno una ragione specifica.

Il malinconico è un uomo che contempla se stesso e gli altri e non saprebbe dire un perché

preciso.

Ecco un esempio dell'abbaglio che si prende a proposito del fenomeno della malinconia.

Ippolito Pindemonte, vissuto nel bel mezzo del romanticismo, colpevole in gran parte di

aver creato il mito di una malinconia benefica e decorosa, temperamento malinconico egli

stesso, così cantò:

Melanconia Ninfa gentile La vita mia consegno - a te.

E se si fosse fermato qui, meno male! Va oltre il poeta e sentenzia

I tuoi piaceri Chi tiene a vile Ai piacer veri Nato non è.

Questo poeta scrisse un poema, incompiuto, e che per fortuna non è stato mai pubblicato: «

I sepolcri ». L'insegnamento di Gesù tanto è decisamente contrario all'inquietudine della

malinconia, che la condanna. Egli richiama le anime affannate a considerare i gigli luminosi

del campo, gli uccelli cinguettanti del cielo, dei quali il Signore prende cura: invita ad

abbandonarsi in Dio, nella gioia, nel coraggio.

San Paolo, nella lettera diretta ai fedeli di Corinto, insegna che «la tristezza del mondo

opera la morte ». San Filippo, crediamo, solo fra tanti santi, almeno in una maniera così

esplicita e forte, individua e riprova la malinconia o tristezza, fonte di infiniti mali: egli si

rivela grande educatore e psicologo.

Solo dopo secoli, una scienza, nuova ha scoperto che i malinconici, i taciturni, i fanciulli

chiusi, sono spesso candidati alla delinquenza.

E perché? Perché il fanciullo malinconico, chiuso nel suo mondo interiore di fantasmi neri,

imbocca vie false e nessuno può disingannarlo perché egli si chiude: verrà un giorno in cui,

per quelle vie false, arriva al precipizio. S. Filippo reagisce in modo forte, violento, talvolta,

perché questi malati morbosi hanno bisogno di essere presi per le spalle.

Page 73: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Un sacerdote di S. Girolamo, Giuliano Foscherio, condusse un giorno un povero uomo

malamente torturato da uno scrupolo molto comune: quello di non sapersi spiegare nelle

confessioni.

Sono infatti numerosi gli scrupolosi che credono di fare una bella confessione, soltanto

vuotando un sacco di peccati che non trovano perché non li hanno fatti, e così restano

sempre insoddisfatti: credono di essere dei grandi peccatori e pensano di non saper trovare i

peccati e di fare perciò confessioni non valide, incomplete.

Arrivato quel tale innanzi a Filippo, disse il suo caso e il Santo così gli rispose:

- Va bene quello che dici, quando tu ti confessi ad uno solo, ma saresti ora disposto a

confessarti a tutti e due noi, a voce alta?

- Certamente, perché io non ho rispetti umani.

Ciò detto cominciò la sua confessione e quando ebbe finito, il Santo gli domandò

- Sei contento? Ti pare di aver fatto una buona confessione?

- Contentissimo P. Filippo.

- Bene, quello che hai fatto per due confessori, fallo per uno.

Il poveretto fece allora una esperienza, e dopo l'esperienza una riflessione: mi sono espresso

bene con due, mi posso esprimere bene con gli altri: che sciocco sono stato. E così guarì.

Procedimenti di poche battute e procedimenti drammatici.

Il Santo talvolta liberava dalla malinconia con poche battute ma fatte cosi abilmente da

tirare il malato dalla sua nebbia: queste battute erano però ripetute e costituivano una cura

tutta speciale.

Un canonico della bella Basilica di S. Marco in Roma, nell'allora omonima piazza S.

Marco, un certo pellegrino Altobello, vedeva molto spesso Filippo e lo incontrava magari

per via: il Santo, non appena lo vedeva, atteggiava il viso ad un sorriso, come si fa per un

ragazzo che deve essere incoraggiato, gli correva incontro e diceva, su per giù

- San Pellegrino... Che fai? Come stai? I tuoi di casa stanno bene?

Poi gli faceva delle carezze sul viso e tante altre moine per cui il poveretto doveva ridere

anche lui e rispondere a quella festa: tutto era finito.

Ecco un procedimento, invece, che si trova una volta sola.

Due cappuccini vennero a far visita al Santo, del quale avevano sentito dire mirabilia e

pensavano di trovare un uomo grave, che dicesse parole gravi, untuose.

Filippo invece li accolse come usava normalmente, ma con un volto più sereno.

Ad un certo momento uno dei due, quella giovane, sputò per terra...

- Maleducato, cominciò il Santo, fatto tutto buio! Sono azioni queste che si commettono in

casa di altri e poi dinanzi a me?

L'altro zitto e, per di più, con una faccia allegra, e si sarebbe potuto dire, con una faccia

tosta.

- E non avevi un fazzoletto? Non potevi trattenerti un poco? Non potevi sputare prima di

venire qui? Sono libertà queste che nemmeno i villani più ineducati si permettono!

E l'altro zitto ancora, sempre con quella faccia imperturbabile.

- E poi un religioso, per giunta! E' scandaloso. L'altro cappuccino, un anziano, s'era turbato,

fremeva e si vedeva che era irato contro il Santo.

- Lévamiti dinanzi, proseguì il Santo, e, nel dire così, fece l'atto di levarsi una pantofola e di

colpire in testa il giovane cappuccino sempre sereno e allegro come una Pasqua. Levati quel

mantello, aggiunse, perché non sei degno di portarlo!

- Vostra riverenza dice bene: è padrone di farmi levare il mantello, non solo perché non ne

sono degno, ma perché oggi non fa freddo e poi ho mangiato molto bene!

Page 74: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Non era una rivincita quella del giovane cappuccino ma, era una ingenuità incantevole,

mentre l'altro cappuccino si stizziva e faceva movimenti di sdegno.

Ci furono altri complimenti, tutti dello stesso stile, da parte di Filippo, ma sempre lo stesso

atteggiamento dei due ospiti.

- Non ho da dire nulla di più, concluse Filippo: potete andare.

Il suo sguardo era severissimo ed il volto come quello di un uomo irato: il Santo sapeva

recitare bene la commedia, quando voleva.

Erano arrivati i due alla fine delle scale, quando Filippo li fece richiamare e non appena essi

furono giunti, gittò le braccia al collo del giovane, gli disse le più belle parole di questo

mondo e soggiunse:

- Persevera pure, caro, in questa allegrezza, in questa imperturbabilità, in tutte le

circostanze, perché questa è la vera strada di far profitto nella via delle molte virtù religiose.

Il giovane fu confermato nel bene, il vecchio ebbe una dura lezione.

Il fatto sembra suggerito da un estro improvviso e ingiustificato; Filippo, invece, sapeva

qualche cosa o aveva intuito una situazione da dover curare.

Fatti e non solo parole...

Ma ci sono casi, e tanti, nei quali la malinconia, la tristezza, lo scoraggiamento, non

provengono dal temperamento o da cause interne, ma da cause esterne per le quali non

possono bastare le parole e i procedimenti più belli. In queste altre situazioni, Filippo

diventava un uomo che spendeva tutto quello che aveva, tutto quello che poteva procurarsi,

che spendeva se stesso per venire incontro ad un bisogno: liberò dalle mani della giustizia

persone anche potenti, procurò posti ai disoccupati e patrocinò la buona causa contro

prepotenti anche collocati molto in alto.

Soccorreva, con larghe erogazioni, i carcerati ed ottenne, direttamente dal Pontefice, la

liberazione di un nobile, Tiberio Astalli, accusato innocentemente di omicidio.

Salvò dalla fame e per molto tempo un nobile decaduto finché la sua situazione non

cambiò.

Talvolta trovava delle soluzioni rapide per fatti che si presentavano improvvisi, come gli

suggeriva l'estro, e diamo qui alcuni esempi.

Il cicoriaro. Allora, come anche oggi, venivano in città contadini e povere persone, che

vendevano erbaggi raccolti o coltivati da loro.

Un giorno, un cicoriaro, avendo sentito parlare dell'Oratorio, volle prenderne conoscenza e,

come era capitato a tanti altri, restò incantato e si fermò.

Passò così parecchio tempo e poi venne una pioggia dirotta ed il cicoriaro non ebbe più

tempo per collocare la sua povera merce e neppure poteva partire.

E poi che bella figura avrebbe fatto, riportando a casa la sua cicoria? E poi i soldi, che gli

servivano?

C'erano tante piccole ragioni, che per lui erano grandi, e però il povero uomo era desolato:

Filippo si rese-conto della situazione e subito decise.

- Cari amici, disse egli, questo povero fratello deve vendere la cicoria, ch'è una cicoria di

prima qualità, da far gola... lo ne compero una parte. Chi di voi ancora ne compera?

- Io... io... io..., cominciarono a dire alcuni.

C'era tuttavia chi non rispondeva all'invito e Filippo diceva:

- Avanti anche tu: non te ne pentirai e poi farai una bella figura a casa tua, portando della

roba così buona! La cicoria fu venduta tutta, il contadino ne ricavò un bel gruzzoletto e

andò via, ringraziando, leggero come un cardellino, nutrito nello spirito, per quello che

aveva udito, e contento per l'affare.

Page 75: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

L'orologiaio. Due fratelli orologiai, molto esperti, bravi anzi, della loro arte, ora abbastanza

vecchi, facevano pochissimi affari.

Avevano una numerosa famiglia, quasi tutta di ragazze che, forse, per mancanza di mezzi

non avevano trovato modo di collocarsi in matrimonio.

Filippo decise di salvare i due bravi artefici e perciò ordinava loro di preparare degli

orologi, che evidentemente non gli servivano.

Quando gli orologi erano pronti egli pensava... a delle persone che potessero essere vittime

del suo stratagemma. Andava da une o l'incontrava e diceva

- Vedi, conosci tu quegli orologiai alla via tale? Lavorano benissimo! Hanno degli orologi

belli e pronti e tu ne dovresti comperare uno.

- Ma io non ne ho bisogne!

- Bene, ti servirà per quando l'orologio che hai non sarà più buono!... Poi avere due orologi

è sempre meglio che averne uno!... E poi un affare è sempre un affare!.. E inoltre fai due

cose buone: un affare come ho detto e un'opera buona. Come vedi c'è convenienza e

vantaggio per l'anima e per il corpo.

L'altro finiva per comperare.

Con questi santi raggiri, gli orologi si vendevano ed erano tutti contenti: Filippo, chi

comprava, e chi vendeva.

Un grande capitombolo. Le forme per dare la serenità e la gioia, attraverso il soccorso, erano talvolta eroiche: una

volta soccorse per quattro anni continui una povera donna con quattro figli piccoli,

provvedendo non solo del cibo quotidiano e dei vestiti, ma dando perfino diciotto o venti

scudi per altri piccoli bisogni.

Una brava penitente sua, Gabriella da Cartona, rimasta vedova e con una figliola, si trovò in

grande bisogno: Filippo le maritò la figliola ed intervenne alle nozze con una piccola

comitiva, organizzando così anche la festa. Non era raro vederlo uscir di notte con dei

fagotti in cui erano vesti o cibarie, per soccorrere persone vergognose. Nell'anno 1550

capitò un caso straordinario: un nobile vergognoso aveva bisogno del pane e languiva

miseramente tenuto in casa dalla vergogna e dalla grave età. Filippo, su la mezzanotte, si

mette in cammino e avanza velocemente.

Ad un momento, di contro, una carrozza viene rapidamente ed il Santo deve prendere una

decisione immediata per non essere investito: si tirò da parte credendo di accostarsi al muro

e non vide che tra il muro e dove lui stava, c'era una fossa altissima, forse per fondamenta

di casa: vi cadde dentro.

Certo con un grande spavento ma pure nella limpida visione della situazione, si rese conto

della sua condizione: era impossibile uscire dal fosso.

Non aveva finito di pensare questo, che si vide preso per i capelli, tirato in alto, rimesso su

la via: un angelo era intervenuto.

Questo fatto narrato da lui stesso è di un'evidenza solare: egli camminava ed era bene

sveglio: nella fossa si trovava da sveglio e da sveglio si trovò di bel nuovo nella via: non ci

fu dunque possibilità di errore alcuno.

CAPO XIII

IL RISO E IL GIOCO VANNO ALLA BATTAGLIA E VINCONO

L'esercito contrario al riso e al gioco. - Questa è grossa davvero: il riso ed il gioco sono diventati ora dei personaggi, anzi dei

guerrieri?...

Page 76: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

- Il riso e il gioco non sono dei personaggi, ma sono valori, e valori più preziosi del valore

della moneta, la quale tuttavia ha tanti nemici, come i ladri... dai quali deve essere difesa.

Ma chiarirò con un esempio queste proposizioni, che paiono così strane.

Immaginate un uomo, il più pacifico di questo mondo, che non farebbe male nemmeno alla

famosa mosca, e che, non solo non ha nemici nella società ma, è ben voluto e crepa di

buona salute.

Ora la salute, valore preziosissimo, ed il corpo stesso, tutto di questo pacioccone sono

insidiati, attaccati da eserciti, per dire così di milioni e milioni di nemici, i quali sono

dappertutto e non danno tregua.

Questi soldati nemici della salute, del corpo e della vita in genere, che un tempo non si

conoscevano, sono tanto piccoli che non si possono vedere ad occhio nudo, sono stati

scoperti da poco e dagli scienziati sono chiamati microbi.

Come gli eserciti degli uomini si dividono e si suddividono in tante categorie: fanteria,

cavalleria, genieri, avieri ecc., secondo il compito che hanno nel combattere i nemici, così

questi eserciti di microbi, nemici del corpo e della salute, hanno il compito di attaccare chi i

polmoni e produrre la tisi; chi il sangue e produrre tosi la febbre terzana; chi i branchi e

generare la bronchite; chi gli occhi, la bocca e produrre tanti malanni e perfino cancri.

Gli scienziati, che hanno scoperto alcune specie di questi nemici della salute e del corpo, si

chiamano batteriologi perché certi microbi, molto importanti, sono detti batteri.

La maggior parte di questi soldatini invisibili non si vedono ad occhio nudo, o con

microscopi usuali, e alcuni non sono stati ancora scoperti ed essi se la ridono della caccia

che gli uomini danno loro inutilmente.

Per conservare la salute e mantenere in efficienza il corpo, bisogna combattere contro

questi nemici e non farli entrare nel corpo, o, una volta entrati, cercare di cacciarli e

ucciderli usando l'arma, cioè il rimedio contro di loro.

Il chinino, per esempio, è un'arma potente per combattere il microbo della malaria.

I medici, che conoscono in parte questi nemici e la loro strategia, sono quasi come dei

generali che dirigono la battaglia per distruggerli od espellerli dall'organismo.

I selvaggi, i contadini ignoranti, che non credono all'esistenza dei microbi, soldati nemici

della salute, perché non li vedono, ne diventano vittime.

Certo, però che, anche chi esegue gli ordini, dei generali... che sono i medici, gli igienisti,

va soggetto all'attacco dei microbi, una è questa come ogni altra guerra: se ne dànno e se ne

ricevono.

Anche la gioia, il riso hanno i loro nemici, e la società che frequentava Filippo al suo tempo

era la più attaccata da microbi contrari al riso e al gioco: questa società era composta, per lo

più, di uomini, giovani attaccabrighe, giocatori, oziosi, immorali e perfino sodomiti...

E perché, qualcuno domanderà, questo benedetto uomo di Filippo andava tra questa

gentaglia?

Ci andava per curare e guarire questi malati, precisamente come i medici si inoltrano

coraggiosamente dove si annidano i microbi del corpo e della salute materiale.

Un attacco che non fu il primo. L'attacco, che presto diremo, non fu il primo perché Filippo, prima di essere San Filippo,

era un uomo come tutti gli altri, esposto a tutti gli attacchi dei nemici.

Egli ebbe a combattere contro i nemici, specialmente del riso e del gioco, ma reagì e

trionfò, sempre ubbidiente, docile alle istruzioni di quelli che lo guidavano spiritualmente,

come trionfa chi, in quell'altra guerra ubbidisce alle istruzioni dei medici e degli igienisti.

Noi ne abbiaarno la prova dal decorso sempre più vigoroso della vitalità del suo ridere e del

suo giocare, col crescere di tutti gli altri suoi valori morali.

Page 77: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Ci limitiamo pertanto alla rassegna di alcuni combattimenti, dei quali egli stesso, in vario

tempo confidò la storia.

Era probabilmente una sera già inoltrata ed egli, tutto assorto nella preghiera, si dirigeva

verso un luogo di maggior raccoglimento, quando alcune figure di uomini gli si profilarono

di contro ancora un pò lontano.

Essi guardarono, anzi fissarono il giovane: la sua statura piuttosto alta, la forma slanciata, il

suo andare dignitoso, il suo volto bello e di quel candore che nel chiarore della sera acquista

splendore, luminosità, li colpirono vivamente, ed essi si scambiarono tra loro qualche motto

di compiacimento e di intesa: accelerarono il passo, gli arrivarono vicini, lo chiusero in

mezzo.

Non c'era nulla di ostile in quel loro movimento, ma tuttavia c'era qualche cosa che

dispiaceva: una decisione già presa ma nascosta.

Dopo uno scambio di battute incerte, quegli ignoti invitarono Filippo ad andare con loro.

- Perché cosa? Dove? chiedeva Filippo con lo sguardo, più che altro, e quelli dicevano

parole oscure, vaghe. La conversazione si svolse così per qualche tempo e poi, rivelandosi,

i tristi formularono una proposta chiarissima andare a divertirsi con loro in un luogo

appartato.

La natura del divertimento non fu subito specificata, ma Filippo sospettò che non fosse

tanto pulita, benché egli, forse, non avesse un concetto di certi vizi turpi, dei quali si parla

sempre con parole misteriose.

Il Santo, cresciuto in ambienti moralmente sani, chiari, conosceva le comuni forme di

peccato, una non immaginava a quale abisso potesse arrivare la creatura umana per tante

circostanze tuttavia s'accorse che non c'era da aspettarsi nulla di buono.

Il viso di quegli uomini ora si palesava come quello di sinistri figuri.

Sfacciati com'erano, tagliarono corto e proposero a chiare note un'orribile oscenità.

Filippo ebbe paura e avrebbe voluto fuggire, ma vedeva che era impossibile e che c'era

d'aspettarsi violenze o maltrattamenti.

Dovette soffrire terribilmente in quegli attimi. S'attaccò allora all'unico partito possibile di

salvezza: come per uno sforzo disperato, per una subita luce interna, dopo aver certamente

pregato, pensiamo, come potrebbe pregare un moribondo, cominciò a reagire, parlando.

Non disse parole di diniego, di contrasto, di polemica, di disprezzo, e tanto meno, di

minaccia, ma parole dolci, insinuanti, supplichevoli che invitavano ad ascoltare, a

considerare.

Gli altri a quell'umile, amorevole iniziare si sentirono involontariamente presi, ebbero

interesse ad udire e ascoltarono.

Le parole dalla bocca di Filippo uscivano sempre più dolci, premurose, continue,

avvincenti, e gli altri sempre più attenti!

Fu, forse, la prima volta che il suo temperamento di conquistatore si manifestò improvviso

e completo; quel temperamento che poi si perfezionò e, per tutta la vita, gli consenti di

affascinare i cuori, concquistarli definitivamente.

Ora egli aveva l'iniziativa e non mollò più: seguitò a parlare con calore, con impegno, che

non dava agli altri tempo di pensare.

Quanto tempo? Non sappiamo, ma alla fine quei cattivi lo ammirarono, consentirono,

persuasi, a quello che il giovane diceva, compresero di essere stati cattivi, si vergognarono

e sentirono il bisogno di essere buoni: si separarono da buoni amici.

L'episodio finì, ma gli scapestrati di poco tempo prima, passarono ad essere i discepoli di

colui che doveva essere la loro vittima.

Essi si confusero, in seguito, in una moltitudine anonima, quella che poi seguirà Filippo,

divenuto un capo, per le vie di Roma, a centinaia e centinaia di persone.

Page 78: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Una retata. Un altro fatto, apparentemente impossibile, ma diverso di proporzioni e di circostanze

interessanti, occorre conoscere qui.

Esso accadde molto tempo dopo, forse nel 1548, ma presenta il giovane stratega in tutto lo

splendore della sua genialità.

Filippo non era ancora sacerdote, ma già operaio ben conosciuto del Regno di Dio e,

insieme con un sacerdote anziano, Persiano Rosa, ed altri dodici o tredici uomini, di buona

volontà avevano fondato un'opera pia, che poi si chiamò: «Confraternita della SS. Trinità

dei Pellegrini e Convalescenti », si occuparono poi di tante altre opere generose, ma nel

primo periodo avevano solo delle pratiche di pietà, in una chiesetta detta « S. Salvatore in

Campo» nei pressi della ben nota Piazza Farnese.

Tra queste opere di pietà, fu eminente l'Adorazione delle Quarantore, introdotta, per primo,

dal Santo in Roma. Filippo organizzava tutto ed era sempre presente di giorno e di notte,

durante tutte le Quarantore: regolava anche i turni di adoratori.

Neppure qui il suo uhnore faceto restava indietro, ma trovava una via per sbottare fuori, in

una maniera però geniale e non irriverente verso l'Eucaristia.

Egli si accostava, al momento opportuno, alle spalle degli adoratori di turno e diceva: « E'

finita la vostra ora di adorazione, ma non è finito il tempo di far bene ».

Nella formula breve, c'è una esortazione ascetica, ma nel contenuto sottinteso, c'è una

ricchezza di umorismo. La formula infatti conteneva questo pensiero: cari amici, non fate

come tanti altri che in chiesa sono santi e fuori sono diavoli: che in chiesa borbottano

preghiere e fuori dicono bestemmie: come certi adoratori che, finita l'adorazione dinanzi al

SS. Sacramento, vanno ad adorare il vino nelle bettole.

Ciò che noi volevamo dire in questo capo e che diremo, non ha che fare col fatto riportato,

ma esso torna opportuno per certi richiami che chiariscono la tattica del Santo.

Infatti, Filippo, in moltissime occasioni passando da un argomento ad un altro, introduceva

subito un pensiero luminoso, che moralizzava la situazione.

Or proprio in occasione delle Quarantore, Filippo s'era improvvisato oratore sacro... proprio

come un prete.

- Ma come? Predicava? Proprio come fanno i preti?

- Precisamente!

- Ma chi gli aveva dato la licenza?

- Se l'era presa per amore di Dio.

Molte volte dunque, quando Filippo predicava ai pochi associati, andavano anche altre

persone estranee o isolate o in compagnia o addirittura a gruppo: questi gruppi erano

specialmente di quei giovani oziosi, sfaccendati della Roma del tempo, i quali faticavano

molto a cercare tutte le buone ragioni per non annoiarsi nell'ozio e, per questo motivo,

andavano anche in chiesa.

- Sai, si dicevano l'un l'altro, andiamo a divertirci nella chiesa di S. Salvatore in Campo: c'è

un vero teatro.

- Come un teatro? Di che si tratta? Chiedeva un novellino della compagnia.

- Come non ancora lo sai? C'è un giovane, un certo Filippo, che predica in chiesa!

- Come, con i pantaloni, con la giacca, dietro la balaustra?

- Precisamente: ti ho detto che è un teatro, perché si muove, fa gesti, qualche volta piange e

gli altri stanno ad ascoltare come tanti allocchi.

Con questi sentimenti dunque, si aggiungevano autentici giovinastri.

Episodi di questo genere si verificarono varie volte, come dice lo storico, ma di uno

principalmente egli fa memoria.

Page 79: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Una sera, una trentina di giovani, irruppero nella piecolla chiesa e presero un atteggiamento

di scherno, con mezzi sorrisi, sguardi d'intelligenza e simili trovate.

Dopo pochi momenti però, man mano che le parole arrivavano alle loro orecchie, i giovani

cominciavano a smettere le monellerie, poi si facevano attenti, poi s'interessavano: erano

già caduti nella rete.

Dopo la funzione furono attorno a Filippo, fecero conoscenza, s'intesero.

Il predicatore in calzoni dette loro delle istruzioni, disse dell'espressioni affettuose, dette

degli appuntamenti: il Santo legava così una fune invisibile ma tenace ai loro piedi.

I trenta naturalmente, nei contatti con Filippo, cambiarono ed entrarono a far parte della

santa masnada... degli «spirituali » e della società dei matti.

Tre agguati a vuoto. Un agguato a solo. Una sera piuttosto tardi, in via, con un amico, Filippo salutò il

compagno e fece per avviarsi a casa.

- No, resta con are stasera, dice l'altro: ho una camera libera e ti accomoderai alla meglio:

forse avremo anche qualche cosa da mettere in bocca.

- Beh! Vengo, rispose Filippo dopo una certa esitazione.

S'era fatto ancora più tardi, perché i due amici s'indugiarono a parlare del più e del meno e

finalmente Filippo si ritirò nella camera assegnata.

Forse pregava, secondo il solito, prima di mettersi a letto, quando gli parve di sentire un

passo lieve, un fruscio, un movimento cauto: tese l'orecchio...

Non passò molto tempo ed egli s'accorse che il movimento si era arrestato dinanzi alla sua

porta e perciò volse il capo indietro: la porta si apriva piano piano, come se si movesse da

se stessa...

Nel vano della porta apparve una giovane bellissima, col sorriso carico, che sanno fare le

donne specialmente in certe situazioni.

Non ci furono parole: lo sguardo, l'atteggiamento della persona, tutto diceva nella donna:

vengo a.stare con te!...

No... no... no... via, via dovettero essere gli sguardi, gli atteggiamenti di Filippo.

L'atto di ribellione del giovane fu così energico che la disgraziata si ritirò.

Fu il tentativo di una poveretta in preda ad un impulso di lussuria? Fu un piano preparato in

due? Riteniamo che la seconda ipotesi sia la più probabile ad ogni modo la cosa andò così.

Quattro o cinque contro uno. Un giorno fra tre o quattro amici di Filippo appartenenti a

quei gruppi giovanili fra i quali egli svolgeva la sua azione santa, il discorso cadde sul

giovane assente.

- Veramente Filippo, disse uno, è quasi un santo...

- Non ce n'è un altro in tutta Roma, rispose un secondo.

- Voi siete degli ingenui, disse un terzo: non è possibile che un bel giovane come lui, che

poi ha i suoi anni, non abbia amato o non sia stato amato e non abbia fatto quello che fanno

tutti i giovani.

Ne nacque una discussione animata: chi credeva e chi non credeva alla purezza

straordinaria del compagno assente: si venne alla decisione di metterlo alla prova: secondo

un disegno ben preparato, trovarono un pretesto e parlarono di un'opera di bene alla quale

Filippo non poteva rinunciare e lo invitarono in casa.

Precedentemente essi s'erano accordati con due sciagurate ragazze, le quali, pertanto, erano

state introdotte in casa a tempo opportuno.

Dalla narrazione del racconto, si ricava che la stanza dove il Santo restò solo aveva due

porte.

Page 80: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Gli amici, quando uscirono con un pretesto, chiusero di fuori la porta, di modo che chi era

dentro non poteva aprire da quella parte.

A questo momento, i due capi del laccio invisibile, gettato intorno al collo di Filippo,

dovevano essere tirati e stringere.

Chiusa la prima porta dal di fuori, dall'altra porta si avanzarono due donne procaci, decise...

Avvolsero con i loro sguardi concupiscenti il mal capitato e lo fissarono: era un invito

insistente, sollecitante, ed aspettarono la risposta dell'altro nel suo sguardo.

Trovarono invece negli occhi di lui, nel suo volto, in tutta la posa della sua persona, non

solo resistenza, ma reazione, ostilità.

Perdettero l'iniziativa...

I particolari che il Gallonio riporta, fanno pensare ad una narrazione diretta e minuta del

Santo.

Sia stato il timore di un castigo divino, sia stato per quel tanto di pudore che c'è sempre

anche nelle anime pervertite, le due donne si ritirarono in un angolo della stanza e neppure

osarono fissarlo più: parevano, ora, esse delle aggredite in difesa.

Cesarea.

La più famosa delle sue prove Filippo la provò, non già da laico, come le precedenti, ma da

sacerdote, per via di una donnaccia chiamata Cesarea, nome questo datole o per la sua

straordinaria bellezza o perché amica di certi signorotti.

Il Gallonio, infatti, lasciò scritto che essa « era donna di alcuni signori particolari », merce

riservata a chi aveva più danaro.

Donne di tal genere, a quel tempo ermo chiamate « onorate meretrici o cortigiane oneste ».

La posizione sociale di nobili, principi, marchesi, conti, che la frequentavano per turno,

dava alla disgraziata, dinanzi agli occhi del pubblico, una certa nobiltà...

Non è cosa nuova: anche oggi certe attrici, cantanti, ballerine, che passano da l'uno all'altro

amante con o senza la finzione del matrimonio, per divorzi consecutivi, trovano una certa

celebrità, con la complicità della stampa, ed hanno una certa fama.

La sola differenza tra le oneste meretrici di un tempo e quelle di oggi, è questa che le prime.

passavano con più disinvoltura da un uomo all'altro e con più coraggio, mentre quelle di

oggi vi passano magari con la tintarella del divorzio.

Al tempo di cui parliamo, nella vita di Filippo, tra l'onesta meretrice Cesarea... e il nobile

signore che allora la frequentava, sarà caduto il discorso sul Santo, già divenuto popolare e

l'uomo di cui tutti parlavano.

Le sue virtù e specialmente la sua castità erano ammirate: c'erano però quelli che non ci .

credevano.

Tra Cesarea e il suo amico, un giorno si aprì una discussione: io ci credo: non ci credo...

alla castità di quel prete.

Ad un certo momento... l'imperiale meretrice, già fiera di tante conquiste, avrà detto: se mi

venisse a tiro, vedresti che capitombolo farebbe il tuo Santo.

- Non ci riusciresti, avrà risposto l'altro.

Tutto ciò si ricava dalle varie deposizioni: ci fu insomma una scommessa: lo farò cadere:

non lo farai cadere.. Fissati i termini della scommessa si pensò al tranello. Ad un giorno

convenuto, ad un'ora determinata, qualcuno si presentò a Filippo in casa sua e fece questa

ambasciata, tutto compunto e fintamente addolorato.

- P. Filippo, in via Giulia, qui vicino, c'è una donna gravissimamente ammalata e vuole il

sacerdote per confessarsi.

Tutto fa supporre che il nobile scapestrato fosse nascosto in casa.

Filippo andò.

Page 81: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

La meretrice intanto andò a prepararsi, a fare la toletta e cioè a spogliarsi delle vesti che

aveva e che già coprivano poco o niente.

Si mise sul corpo una specie di velo, che velava quasi niente.

Quando essa intese che il sacerdote saliva le scale, andò a piazzarsi a capo di esse come una

statua...

Filippo alzò istintivamente gli occhi e vide quel masso di carname.

Tale essa dovette apparire ad un uomo come Filippo con la sua sensibilità umana e la sua

spiritualità.

Ne senti naturalmente schifo e paura, si fece il segno della Croce, voltò le spalle, fuggì,

infilò la porta a volo e fu nella via.

La disgraziata, confusa, svergognata, secondo lei pur nella sua svergognatezza, pensando,

forse, in un baleno, alla scommessa perduta, alle beffe del nobile amico, afferrò con

violenza uno sgabello che le venne a mano e lo lanciò contro il vittorioso fuggitivo.

Se l'avesse colpito, il meno che poteva accadere era di fracassargli la testa o rompergli

parecchie costole.

Non pensava, la poveraccia, che v'è Dio.

Il riso, il gioco, nella persona di Filippo, uscivano vivi da questo fiero combattimento.

Immaginiamo che fosse successo a Filippo quello che accade purtroppo, a tanti giovani e

cioè che egli si fosse buttato su quel carname per godere pochi istanti di ebbrezza bestiale.

Finito l'incanto dell'ebrezza : il rimorso e la vergogna. Il riso e il gioco, le due grandi

manifestazioni della gioia, della felicità, non sarebbero stati più due fuochi accesi, ma due

carboni spenti.

Da quel momento potevano venire tante cose: altre cadute e così via via fino ad una morte

triste.

Poteva avvenire anche un ravvedimento, ma sarebbe restato nell'anima sempre una cicatrice

deformante, un ricordo amaro!

Tutta la limpidezza di un tempo sarebbe finita: l'acqua si sarebbe intorbidata.

CAPO XIV

FILIPPO RIDE E GIOCA CON I NOSTRI FRATELLI MINORI.

Conoscenza dei fratelli minori.

- Chi sono questi nostri fratelli minori?

- Le bestie!

- E' una fratellanza, in verità, tanto lontana, che non si vede...

- E' una fratellanza, invece, vera e molto vicina. Come definiscono i filosofi l'uomo?

- Un animale ragionevole!

- Ebbene, noi possiamo fermarci alla prima metà della definizione e dire che l'uomo è un

animale: la definizione resta vera... E si vede anche nella pratica della vita: ci sono tanti nei

quali la ragione è come atrofizzata e non agisce più: vivono proprio come se fossero

solamente animali: mangiano, bevono, prolificano come gli uccelli e tutte le altre bestie.

Anzi gli animali-uomini sono, in certo senso, meno perfetti che gli animali-bestie: le bestie,

per esempio, sono sempre più moderate nel mangiare e nel bere e mangiano solo quanto

basta e mettono al mondo i figli e li conducono fino a che non abbiano autonomia e

possano vivere da sé, mentre gli animali-uomini mangiano e bevono fino al punto di

procurarsi malattie e dolori, fino a doversi purgare e cioè andar di corpo artificialmente e,

prolificando ad ogni stagione, spesso abbandonano i figli, per mettersi con un amante

magari, con il paravento del divorzio.

- Tutto questo va bene, dirà qualcuno, ma ci sono tante bestie-umane con cui ridere e

scherzare, e, andare a scherzare con le bestie-bestie è un po' troppo, una esagerazione.

Page 82: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

- Anche con le bestie si può ridere e scherzare quando si sappia fare, ed i Santi trovavano il

modo di saper ben regolarsi anche in questo caso: dico di più, i santi amavano le bestie...

Difatti si ride e si gioca con le persone alle quali si vuol bene: alle persone che non si

amano si fa il muso e si scansano quanto più si può.

Non solo S. Filippo, ma tutti i Santi come ho detto, hanno amato le bestie e, oserei dire, le

hanno amate tanto più, quanto più erano Santi.

Essi ci sono modelli anche in questo.

S. Francesco d'Assisi, per esempio, ch'è uno dei più grandi Santi, eccelle in questo

comportamento e tutti sanno che chiamava fratello perfino il lupo, ch'è anche un fratello un

po' discolo e addirittura cattivo con le pecore. Ma ci sono tanti modi di amare le bestie: le

ama il contadino perché trova in esse un aiuto al lavoro, come i buoi, e una fonte di

guadagno: le ama il macellaio... E le amiamo anche noi tutti perché ci forniscono le

bistecche gustose, gli spezzatini, le polpette, la salsiccia e il prosciutto. Senza le bestie, non

potremmo vivere, forse!

Immaginate un mondo senza bestie : a parte che sarebbe più brutto, e pensiamo sotto questo

aspetto, agli uccelli, alle farfalle, noi dovremmo ridurci a vivere di erbe, come gli asini e in

luogo degli asini.

Le bestie pertanto, oltre che l'amore, meritano il rispetto, la riconoscenza.

E', pertanto, segno di animo cattivo e di poco cervello quello di torturare le bestie, come

fanno alcuni che le inchiodono vive sui muri e su le porte, perché le credono di cattivo

augurio, come si pensa delle civette: i ragazzi poi, nei quali appare l'istinto umano non

ancora corretto, cospargono di materie infiammabili i topi e gli altri animali e si divertono a

vederli morire fra orribili tormenti.

Ma c'è anche un eccesso contrario, di quelli che, magari amando poco gli uomini, si

consacrano all'amore delle bestie... Gli inglesi si distinguono in ciò e vi mettono uno zelo

straordinario, ostentato.

Esiste, infatti, in Inghilterra una vasta associazione per la protezione degli animali e i

tribunali puniscono chi li tortura, magari col carcere.

Gli industriali poi hanno messo in commercio dei preparati molto nutrienti, gustosi, perfino

con vitamine, per la nutrizione degli animali come si usa fare con i bambini da tirare su

forti.

Ci sono, dicono, « case del cane » per cani randagi, sperduti, e, in qualche parte, ospedali,

ambulatori per cani, gatti ecc.

Nelle grandi stazioni balneari ci sono poi alberghi e pensioni per cani e gatti dei signori

bagnanti.

Non finiremo più se dovessimo elencare queste sempre più complicate provvidenze sociali,

ma dobbiamo accennare a certi eccessi morbosi, specie da parte di zitelle molto stagionate,

come quello di fare legati in beneficio di animali, di organizzare onori funebri e perfino di

imbalsamare le carogne.

Tutti i giornali italiani, il giorno 29 novembre 1959 segnalavano la morte di un mulo che

ebbe il nome di «Valoroso ». Questo valoroso appartenne ad un raggruppamento di

artiglieria alpina, partecipò alla battaglia di Nicolajewska in Russia nel 1943, ed ebbe la

medaglia d'oro per aver assolto il compito di traversare pericolosamente e con testardaggine

mulesca l'accerchiamento nemico.

Episodi di questo genere, tolgono ogni valore alle decorazioni umane.

Un altro eccesso: i giornali riportarono, un tempo addietro, che una ragazza di dodici anni

amava molto un cagnolino: quando la madre glielo tolse, per buone ragioni, la bimba si

buttò da una finestra e mori sul colpo.

Page 83: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Con l'occhio di Dio. Ma torniamo ai Santi e specialmente a S. Filippo: essi vedono gli animali con l'occhio di

Dio cioè con intelligenza, nella verità.

Dio che creò gli animali, dopo, come di tutte le altre cose, se ne compiacque.

Dio creò gli animali cooperatori degli uomini e per usarne: essi hanno una vita e perciò non

bisogna abusarne.

Tutte le bestie hanno un diritto a che non se ne abusi perché tutti hanno una funzione, anche

topi, rospi e perfino bestie feroci: e tutte le bestie sono belle, viste nel quadro delle loro

funzioni, come è bello il negro dal naso camuso, anche se noi non apprezziamo e

comprendiamo quella bellezza.

Se è così, dirà qualcuno, noi non dovremmo uccidere le bestie neppure per cibarcene.

Non è così: se noi ci cibiamo delle bestie, le portiamo, per dire così nell'ordine del loro

scopo come creature, ch'è quello di dar gloria a Dio.

Noi mangiando le bestie viviamo e, vivendo ed operando, diamo gloria a Dio direttamente,

e le bestie, delle cui carni ci siamo cibati, danno indirettamente questa gloria attraverso la

persona umana.

- Noi non dovremmo uccidere così, secondo questo ragionamento neppure le bestie feroci e

certe bestie come le pulci e i pidocchi ed i medici non dovrebbero neppure uccidere i

microbi che procurano le malattie...

- Qui interviene un'altra ragione: certe bestie, pur avendo una funzione nel creato, che noi

ignoriamo, ci danneggiano e noi ci difendiamo e poiché, in certi casi non possiamo

difenderci senza distruggerli, così arriviamo anche a questo.

In fondo è la stessa logica della guerra: quando non ci si .può difendere da un nemico se

non uccidendolo, lo uccidiamo: noi non intenderemmo ucciderlo ma difenderci e l'uccisione

resta l'estremo mezzo di difesa.

S. Filippo aveva, pertanto, una sensibilità che lo guidava in tanti casi della vita, e gli dava

un comportamento, che per noi è un esempio.

Un giorno passava davanti ad una macelleria e il macellaio badava al suo mestiere: passò

un cane, il quale se ne andava per conto suo: il macellaio afferrò un grosso coltello e ferì

gravemente la bestia che si era avvicinata. Il Santo ne fu talmente turbato, che si

domandava che gusto avesse potuto avere quel macellaio a far del male ad una povera

bestia che non nuoceva.

Aveva talvolta delle delicatezze per gli animali.

Un suo penitente gli portò a far vedere un uccelletto che a mala pena volava.

Filippo ne sentì visibilmente compassione e gli disse: - Non gli far del male, apri la finestra

e lascialo andare.

Poco dopo, però, lo chiamò e gli disse

- Che hai fatto dell'uccellino?

- Ma l'ho lasciato volare, come voi avete comandato.

- Forse, replicò alquanto pensoso il Santo, sarebbe stato meglio ritenerlo e curarlo: era

troppo piccolo e può darsi che non saprà trovare da mangiare e morrà.

Avvertiva quasi uno scrupolo di non aver protetta la bestiolina.

Se riceveva in dono degli animali, non permetteva che si ammazzassero, ma, alla sua volta,

li donava, pregando o di governarli o di donarli ad altri che ne potessero aver cura.

Andando in vettura aveva una preoccupazione e, ogni volta, dava su per giù queste

istruzioni al cocchiere che guidava:

- Non aver fretta, Paolo, e non investire nessuno, specialmente ragazzi, zoppi, malati:

facciamo sempre a tempo ad arrivare...

- Va bene P. Filippo.

Page 84: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

- Guarda ancora, Paolo, diceva dopo un poco, bada di non metter sotto polli, cani, gatti ed

altre bestie.

- Scusa Paolo, se ti infastidisco: anche se vedessi lucertole, cerca di scansarle e non

ucciderle...

- Va bene anche questo, Padre, ma come regolarmi con dei moscerini che volano e non

debbo colpire con la frusta?... Così forse, più di una volta avranno scherzato i vetturini, con

quell'umorismo tutto romano.

Le bestie collaborano con Filippo.

Un suo penitente francese, Luigi Amés, regalò al Santo due uccelletti che cantavano tanto

bene.

- Le ho portato, P. Filippo, due uccelletti, perché so che lei ama le bestie e poi sono due

uccelletti bravi, cantano ch'è una meraviglia.

- Grazie Luigi! Sei sempre tanto buono con me. Prendo gli uccelletti però con questo patto

che tu stesso devi venire ogni giorno a governarli.

Fu un'astuzia santa per guadagnare anche il donatore e per assicurare agli uccelli quella

cura che egli non poteva averne.

Un giorno 1'Amés venne dal santo e lo trovò ammalato, a letto: entrato in camera, vide che

la porticina della gabbia era aperta e uno dei due uccelletti roteava intorno al viso di Filippo

cantava e scherzava festosamente.

- Luigi, gli dice il Santo, hai tu insegnato a questo uccellino a giocare cosi?

- No! Non ne avrei avuto il tempo.

Il Santo intanto con la mano cerca di allontanare l'uccelletto e quello si spostava intorno a

lui di qua e di là e non andava mai via.

- Prendi la gabbia, Luigi, accostala all'uccelletto e vedi se rientra.

L'animaletto come se avesse compreso, entrò senza esitare...

Chi sa, se anche gli animali per una facoltà di istinto, non abbiano simpatia ed antipatia e

distinguano chi li ama e non li ama? E la storia seguente sembra confermare positivamente

questa interrogazione.

Costanzo Tassone, penitente di S. Filippo, era un personaggio di qualche importanza come

maggiordomo di Guido Ascanio Colonna di S. Fiora, signore fastoso che aveva una vera e

propria corte.

S. Filippo lo converti e Costanzo prese a frequentare l'Oratorio, cioè quegli esercizi di pietà

che si tenevano in S. Girolamo della Carità.

Tassone portava con sè un cane del Cardinale, chiamato « Capriccio » : una volta

conosciuto Filippo e visto il luogo, non ci fu più verso di far tornare Capriccio al suo

padrone, il Cardinale, o a seguire il maggiordomo.

Santa Fiora, benché brontolasse contro Filippo, sapeva essere anche comprensivo e, da

signore, prendere in buona parte qualche dispiacere che non poteva evitare.

Egli disse pertanto, per consolarsi, che Filippo non si contentava di prendergli le persone,

convertendole, ma gli tirava perfino gli animali.

A questa conclusione, più o meno accettata, egli venne molto dopo, ma Francesco Zazzara,

testimone oculare, ci racconta minutamente come la cosa seguì e fu così.

S. Filippo che sapeva gli umori del Cardinale Guido Ascanio fece riportare a casa sua il

cane che però sempre ritornava.

Questo cane era grande come una grossa lepre, di pelo bianco con alcune macchie rosse: il

suo padrone lo faceva cibare delicatamente e per bere faceva usare una tazza di pregio.

Dopo le prime volte che il cane fuggi a S. Filippo, il Cardinale cominciò a fargli carezze più

del solito, ma non giovava.

Page 85: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Dopo le maniere dolci, il suo padrone usò le maniere forti e fece legare il cane per alcuni

giorni, ma non appena l'animale era lasciato un po' libero, correva al suo nuovo padrone di

elezione, S. Filippo, benché questi non gli desse altro che qualche tozzo di pane o avanzi di

minestra oppure ossa spolpate, quando c'erano, invece dei buoni pezzi di carne che dava il

Cardinale.

Restato finalmente indisturbato a S. Girolamo, Capriccio... collaborò alla grande missione

di Filippo per ben quattordici anni.

Il Santo, per mortificare o esercitare la pazienza o far praticare l'umiltà ai suoi discepoli,

ordinava ora all'uno ora all'altro di lavarlo, pettinarlo e condurlo a spasso per Roma traverso

i luoghi più frequentati: spesso era portato in braccio come un bambino.

Talvolta Capriccio era condotto con una catenella, ma esso andava innanzi e tirava in modo

che quelli che lo menavano parevano ciechi tirati da un cane.

Un altro personaggio strano aveva Filippo in S. Girolamo, senza un nome preciso, come il

cane, ma tenuto in maggiore considerazione e cioè una gatta.

La gatta era curata come il cane ed anche meglio, sotto gli occhi del Santo, finché egli stette

in S. Girolamo, ma quando di là si trasferì alla Chiesa Nuova, il 22 novembre 1583, come

abbiamo visto, dispose un accurato trattamento per l'animale lasciato padrone in S.

Girolamo.

Ogni giorno, infatti, qualcuno della Chiesa Nuova, o due o più insieme, doveva portare da

mangiare alla gatta e se non c'era niente in casa, doveva girare per le macellerie, procurare

qualche cosa e poi assistere al pasto della gatta, come se fosse una reginetta...

Al ritorno, il Santo interrogava, con finto interesse, il governatore della gatta, di quel

giorno, e voleva sapere se stava bene, se aveva mangiato di buon appetito e tante altre

notiziole del genere.

Ma venne il tempo che il primo personaggio animalesco, Capriccio, mori e proprio nella

stanza che un tempo era stata di Filippo.

Uno allora dei più tormentati per via del cane, quello che più spesso doveva portarlo in

braccio per le vie della città e che aveva dato ad esso il nome di « crudel flagello delle

menti umane » sfogò il suo malumore con questi versi, tra gli altri

Non ci darai più, spero, tentazioni e tormenti come hai fatto! Quel ch'è avvenuto a te

avvenga al gatto.

Anche questa imprecazione, come tutte le imprecazioni, fece cilecca.

La gatta visse fino al 1588.

Non sappiamo se ci furono necrologi o poesie, come per il cane, ma ci fu una

partecipazione funebre dell'avvenimento ai Padri della Congregazione di Napoli, e questa

partecipazione fu redatta e spedita da Germanico Fedeli, il quale invitava i Confratelli di

Napoli a far le condoglianze al P. Gallonio, come colui che più degli altri era incaricato di

accudire alla gatta e portare il mangiare mattina e sera.

CAPO XV

LE DONNE SUL PALCOSCENICO

Guerra senza tregua: Pace senza fine. - Di chi è questa specie di guerra e questa specie di pace? Di due nazioni, di due bestie? Di

due mostri o di due pazzi?

- NOI E' la guerra dell'uomo e della donna! L'uomo e la donna sono sempre in guerra: di

ogni male che avviene, essi si accusano a vicenda e litigano, fanno a botte e, talvolta, si

ammazzano...

Questa guerra, supponiamo, cominciò subito dopo aver mangiato il pomo fatale nell'Eden.

Chi sa quante volte, Adamo, ricordando la felicità perduta, disse.

Page 86: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

- Stupida di una donna, per colpa tua abbiamo perduto ogni bene: chi ti autorizzava a

cogliere il frutto proibito dal Signore?

- Più stupido tu, che ora fai il sapiente! Io non ti ho costretto a mangiarlo! Anzi, ricordo che

l'hai messo in bocca appena afferrato e lo hai mangiato come un ghiottone.

- Ma se tu non me lo davi, come potevo prenderlo e mangiarlo?

- Lo potevi rifiutare e non l'hai fatto... Colpa tua! Chi ripensa ad uno dei tanti battibecchi

che avvengono tra marito e moglie, non troverà improbabile quanto noi abbiamo supposto

tra Adamo ed Eva all'alba stessa dell'umanità.

Questa guerra di sempre tra singolo uomo e singola donna, nei tempi moderni s'è

organizzata quasi militarmente...

Le più coraggiose tra le donne hanno formato un esercito di così dette « femministe» che

ogni giorno strappano concessioni all'esercito degli uomini.

Queste femministe ora combattono per ottenere che quando una donna si sposa non debba

più assumere il cognome del marito ma serbare il cognome proprio e che essa non sia

obbligata ad obbedire al marito, perché, dicono esse, uomo e donna hanno una propria

dignità e la donna non è una schiava, ma una persona libera.

Pertanto se il marito vuole stabilire il suo domicilio in un certo posto, ci bisogna un accordo

con la moglie, la quale, se non consente, può non seguire il marito.

Similmente quando un uomo dice alla donna: oggi mi preparerai a pranzo due fettuccine

all'uovo, la donna è libera di fargli trovare i ceci o i fagioli... o niente addirittura.

Questa guerra tra uomo e donna è così universale che quando un uomo ed una donna sono

riusciti a non far guerra, l'hanno scritto su la tomba, dove pur si scrivono tutte le menzogne.

Ricordiamo due sole iscrizioni tombali nelle quali è detto che un marito e una moglie non

litigarono mai. Una di queste iscrizioni si trova nella catacomba di S. Callisto in Roma e

un'altra nella «Chiesa Nuova » di Roma.

In questa seconda è detto come Camilla Raggi e Virgilio Crescenzi vissero nel matrimonio

per ben trent'anni senza litigio. Tanto la cosa parve rara.

Eppure durante questa guerra permanente, l'uno e l'altra cercano la pace, si sforzano di stare

insieme e gli uomini vanno sempre appresso alle donne e le donne cercano addirittura di

accalappiare gli uomini: infatti come gli animali selvaggi si prendono col calappio o laccio,

esse li prendono con i loro ornamenti, con le truccature e simili industrie.

Non possono fare diversamente: un uomo che non riuscisse ad afferrare una donna, sarebbe

infelice per tutta la vita ed una donna che non riuscisse ad accalappiare un uomo e restasse

zitella, finirebbe zitellona e sarebbe più infelice ancora.

E sapete perché questo cercarsi a vicenda, pur combattendosi?

Perché l'uomo e la donna, benché sembrino completi, autonomi materialmente, sono

incompleti moralmente e spiritualmente e non possono vivere senza compagnia.

Immaginate un mondo di solo uomini! Che disgraziati...

Immaginate un mondo di sole donne : si caverebbero gli occhi tra di loro: tutto ciò per via

della loro incompletezza.

Con un mondo di solo uomini o di sole donne, non ci sarebbe l'umanità: con un uomo ed

una donna soli, c'è tutta l'umanità.

Adamo ed Eva erano già l'umanità: dopo il diluvio, pochi uomini e poche donne erano

similmente tutta l'umanità.

Un proverbio orientale rappresentava questa situazione mettendo in bocca ad un uomo che

litigava con la sua donna queste parole: non posso vivere con te, non posso vivere senza di

te.

Page 87: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

I contatti tra uomo e donna, pertanto, nella pace e nella guerra di sempre tra loro, sono

difficili e pericolosi. E non diciamo solo i contatti familiari e matrimoniali ma anche i

contatti sociali.

I santi ci sono maestri anche in questo.

Essi, per esempio, con le donne sono più comprensivi, più indulgenti del più tenero tra i

mariti, che troppo spesso non riescono ad essere teneri e comprensivi.

Noi abbiamo riportato molti episodi come quello della donna con le scarpe dai tacchi alti e

la gustosa risposta del Santo.

Ebbene S. Filippo si comportava con esse sempre così quando venivano a consultarlo

sull'uso di certi ornamenti, sull'acconciatura dei capelli, sui belletti.

Ammoniva inoltre gli altri confessori a non esagerare con le donne ed egli stesso

dissimulava, chiudeva un occhio e spesso tutti e due, su le loro debolezze: a bisogna

sopportare, diceva, questi difetti naturali in altri come sopportiamo, contro il nostro volere,

i difetti naturali in noi».

Nella pace come nella guerra tra uomo e donna, talvolta i mali possono venire da una

condizione di pace... troppo pacifica, che poi, per eccesso, sfocia nella guerra!

Pace e guerra vanno dunque affrontate con praparazione.

Troviamo pertanto nella vita di Filippo due momenti di diverso comportamento verso le

donne.

In un primo momento, egli era piuttosto severo, rapido, contegnoso, distaccato nel trattare

con le donne. Sapete perché? Perché le donne, nella troppo confidenza, gettano quei lacci o

calappi dai quali uno non sa come sia stato avvolto.

Una volta preso al laccio, la donna fa cattivo governo dell'uomo.

In un secondo momento, quando Filippo si senti padrone di evitare o, di spezzare

eventualmente i lacci, egli fu di una grande dolcezza con loro, che entravano così spesso nel

suo amabile gioco.

Abbiamo accennato già ad alcuni episodi e qui ne riporteremo pochi altri, perché essi sono

innumerevoli.

Una papessa tra i frati.

Una volta, nell'anno 1578, nella casa dei sacerdoti accanto alla chiesa di S. Giovanni dei

Fiorentini, mentre un bel numero di preti, tutti con tanto di barba come allora usava,

stavano a tavola, ecco che appare Filippo sorridente, seguito da una vecchietta piuttosto

curva, impacciata, vestita alla ciociara.

Una donna in quel luogo, a quell'ora, per il pranzo? Nessuna scena simile si trova narrata

nelle vite dei santi.

Veramente quei sacerdoti che si trovavano a tavola non erano frati, giuridicamente, ma la

loro vita, nelle forme esteriori e nella austerità era più severa di quella dei frati.

Non appena Filippo comparve con la donna, ci fu un momento di meraviglia, un mormorio,

ma il Santo andò innanzi imperterrito e fece sedere la donna in mezzo a tutti...

Un uomo di spirito avrebbe detto: ecco una papessa tra i frati.

Abituati ai colpi più originali del loro maestro, i presenti stanno al gioco, che questa volta è

un gioco vero.

- Bongiorno, Madonna Porzia (come si diceva allora in luogo di signora...) Buonappetito,

madonna Porzia... Avete fatto buon viaggio madonna Porzia?... Vi piace Roma, madonna

Porzia?

Questi e tanti altri complimenti affettuosi ed allegri nello stesso tempo arrivarono alla

vecchietta, la quale guardava timida qua e là e tuttavia molto compiaciuta.

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Il pranzo si svolse allegro e la donna fu il centro delle attenzioni, degli sguardi e delle

interrogazioni dei presenti.

Un documento del tempo esprime tutto ciò, con lo stile allora usato, dicendo che da ogni

banda e da ogni persona le si facevano carezze, e s'intende che tutti usavano con la donna

premure affettuose.

La vecchietta spilluzzicava le vivande e, sì e no poggiava le sue labbra al bicchiere di vino,

ma i suoi occhi bevevano e divoravano uno dei presenti, un prete dalla sagoma di

montanaro, la barba incolta, i capelli disordinati, ma con gli occhi profondi e limpidi:

l'uomo si chiamava Cesare Baronio, già ben noto in Roma, che sarebbe stato presto famoso

in tutto il mondo ed era figlio di quella vecchietta.

Aveva bramato molto essa dì vederlo, prima di morire, ed era venuta a Roma con quanto

disagio, ognuno lo può pensare.

Questo stare con lui, sedere a tavola con lui non lo pensava lei, perché non lo credeva

neppure possibile. Filippo, col suo gran cuore, con la sua sensibilità penetrante, superando

una tradizione severa ed universale, comprese il cuore della donna, della madre, e la

condusse a tavola insieme ai compagni del figlio.

Egli le riempì il cuore di gioia.

Una cieca che vede dal di dentro.

Si chiamava questa cieca Suor Antonia, o come dicevano sor Antonia, benché non fosse

propriamente suora, ma per la sua vita devota, santa.

Era sempre a letto, soffriva molto, era cieca di tutti e due gli occhi, e tuttavia era

pazientissima, sempre immersa in un mare di pace, di gioia.

Si dicevano di lei tante cose straordinarie, ma il Santo, forse, non ci credeva, perché

generalmente diffidava di fenomeni mistici.

Un giorno, dunque, decise di farne esperimento e mise in atto il suo pensiero in una

maniera straordinaria, facendo una specie di spedizione.

Un bel momento chiamò tutti i conviventi della casa di S. Giovanni dei Fiorentini, una

ventina circa, e si avviò alla dimora di Sor Antonia.

Prima che arrivassero, tra la curiosità della gente, che si chiedeva perché Filippo facesse

una spedizione di quel genere, uno della comitiva, ch'è poi colui che racconta, un certo

Salvatore da S. Severino, cappuccino, credette ben fatto andare innanzi e preavvisare

l'ammalata di una tanta visita e disporla.

Il cappuccino, come se avesse messo in pratica un disegno geniale, tornò indietro

soddisfatto per unirsi alla comitiva che avanzava.

Filippo però, che l'aveva visto andare ed aveva compreso, gli disse contrariato

- Voi siete andato a dire alla donna che io vado a casa sua?

- Sì, Padre: mi pare di aver fatto cosa buona.

- Avete fatto male, invece, come sempre: non dovevate avvisarla: ora tornate indietro e dite:

il P. Filippo non viene più!

L'altro ubbidì e Filippo allora rivolto ai compagni disse:

- Non andiamo più: ritorniamo indietro!

Tutti allora fecero per andare a casa e percorsero un bel pezzo.

Ma, ad un certo momento, Filippo disse:

- Fermatevi l Ritorniamo: si va da Sor Antonia.

Gli altri, chi borbottava, chi rideva, chi non sapeva cosa pensare, ma Filippo non se ne

curava e così, dopo un poco, tutti tacquero.

La casa molto piccola di Sor Antonia si riempì: mai c'erano state tante persone.

Page 89: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Filippo iniziò con l'ammalata una serie di prove: rimproveri che parevano seri, contumelie

apparenti, maltrattamenti per vedere la reazione dell'inferma.

Essa non si turbò: mostrò anzi, un coraggio, un ottimismo, una gioia sempre crescenti: lo

spirito di Dio si manifestava in lei.

Tutti seguirono il fatto che si svolgeva come se si trattasse di un dibattimento tra due

nemici e, nell'insieme, tutti si divertivano, come ad un teatro.

C'era tra i presenti un prete di Firenze, detto «il Piovano », forse, ospite di Filippo e buon

sacerdote, che si trovava ora vicino a lui.

Il Santo, alla conclusione del dialogo con la donna, lo prese per un orecchio come un

monello e gli disse

- Signor Piovano, inginocchiatevi davanti a questa donna, accanto al letto.

Il Piovano ubbidì subito e Filippo prese a dire alla cieca:

- Sor Antonia, qui c'è uno spiritato, un posseduto dal demonio e bisogna assolutamente

guarirlo.

La donna con movimento deciso, come se vedesse benissimo, prese tra le due sue mani una

mano del sacerdote, la portò alle labbra, la baciò e disse:

- P. Filippo, questo non è davvero uno spiritato, perché stamattina ha celebrato la S.

Messa... E voi, Padre, disse rivolto al Piovano, pregate per me.

Un'ondata di meraviglia percorse i presenti.

Prima Filippo, poi gli altri tutti salutarono l'allegra cieca e uscirono chiassosi e disordinati,

commentando l'accaduto a voce alta come un gruppo di buoni monelli.

Anche lui Filippo è creduto spiritato.

Sappiamo già, e si rileva dal processo di canonizzazione, che non tutti prendevano in buona

parte le trovate, i gesti del Santo: ci sono sempre, nel mondo, troppi conformisti, i quali

pensano in una maniera prestabilita, all'antica.

In una simile atmosfera si potevano fare i giudizi più disparati del Santo anche in buona

fede, per ignoranza, come mostra il fatto seguente.

C'era una donna, Sulpizia Sirleta, penitente di Filippo ed anima veramente pia.

Più di una volta essa assistette alla Messa di lui e si trovò presente anche a delle estasi,

fenomeni che la stupivano e la turbavano: che sapeva la poveretta delle estasi?

Il suo cervello lavorava a darsi una spiegazione e, non trovandone altra, trovò questa, o

meglio le venne in mente questa: « questo Padre è spiritato».

Ripensandoci su e rendendosi conto che spiritato voleva dire posseduto dal demonio, entrò

in angustia e rifletteva fra se stessa: e se il Padre non fosse spiritato? E se io mi fossi

ingannata? Può darsi che mi sia ingannata perché il P. Filippo è tanto buono... Avrò fatto un

giudizio temerario... Avrò fatto un peccato...

In questa sofferenza, capi che bisognava confessarsi, ma qui il problema si complicava.

Andare a confessarsi e dire al Padre che essa aveva pensato di lui che fosse uno spiritato,

non era davvero fargli un complimento.

Nella sua semplicità, essa era ben lontano dal sapere che poteva andare da un altro

confessore.

Credendo dunque che dovesse andare dal suo confessore ordinario, proprio Filippo, e

sembrando a lei che non poteva tacere quel peccato, senza fare un sacrilegio, si avviò al

confessionale, come ad un tormento.

Accostandosi alla grata cominciò a dire, a denti stretti - Padre, ho detto... Ho detto! Si

fermò, non ce la faceva a proseguire!

- Balorda, che hai detto? Hai mormorato forse di me, non è vero?

Il Santo aveva intuito, esperto conoscitore di anime com'era.

Page 90: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

si...

- Sì, ma che cosa hai detto? Specifica!

- Vi ho visto alto da terra, mentre dicevate Messa. A questo punto la paura della donna

ormai era finita, perché aveva cominciato e avrebbe proseguito. Cominciò Filippo ora ad

aver paura e perché?

Perché la buona donna era stata presente ad un'estasi, ch'è cosa da santi, e quindi essa

avrebbe pensato che Filippo fosse un santo e non ci poteva essere per Filippo cosa che gli

dispiacesse maggiormente nella sua umiltà, per cui si credeva grande peccatore.

Il Santo allora rimproverò la poveretta, le impose silenzio, fu duro con lei.

La donna però non aveva pensato così e la deduzione di Filippo, era sbagliata, per riguardo

al concetto di santità intorno a lui.

Dopo una pausa imbarazzante per tutti e due, la donna prese coraggio e disse:

- Padre, vedendovi dunque così levato da terra ho detto tra di me: questo padre deve essere

uno spiritato.

- Si, si, è vero sono uno spiritato.

E lui cominciò a ridere e prese a ridere anche lei ora rassicurata, contenta.

Una minaccia di morte. La capacità di vita spirituale di Filippo e la potenza di avvincere a sè le anime per portarle a

Dio è documentata, tra gli altri, da un episodio singolarissimo.

Anna Borromeo, comunemente conosciuta allora con la semplice parola di Borromea, era

sorella di S. Carlo, che partendo da Roma, per Milano, l'aveva affidata alla direzione

spirituale del nostro Santo.

La donna, di una interiorità tormentata, trovò in Filippo la via, che le dava pace, serenità.

Or, quando i rapporti spirituali tra Filippo ed Anna erano così placidi, accadde cosa assai

spiacevole.

Il Santo voleva che la nuova chiesa, detta ancor oggi, « Chiesa Nuova», edificata da lui in

Roma, fosse indipendente dalla vicina basilica di « S. Lorenzo in Damaso », per maggiore

libertà di ministero.

Il Cardinale Alessandro Farnese, abate della Basilica, non voleva dare l'indipendenza e

resisteva ad ogni pressione.

Filippo, per riuscire, fece quello che fanno tutti gli uomini in simili occasioni, ricorse alle

raccomandazioni. Anna, sorella di S. Carlo, sposa del figliolo di Marcantonio Colonna, il

vittorioso della battaglia di Lepanto, parve a Filippo la persona più adatta a spuntarla in

quella brutta situazione.

Egli le scrisse una prima volta, ma non ne fu niente scrisse una seconda volta, pensando che

Anna non si fosse curata della sua preghiera.

Che rispose la donna? Lo sapremo dal brano di una lettera della poveretta, che riportiamo,

nella forma moderna: Il Padre Filippo ha dichiarato che se io non trovo mezzo di

riconciliare lui con voi, si vuole dimenticare di me, non mi vuole più scrivere e, come io

ritorno in Roma, non mi vuole più confessare. Signor mio illustrissimo, mettetevi nei miei

panni e vedete quanto per me è dura e pungente questa minaccia. Io non ho, posso dire così,

conosciuto amore nè di padre nè di madre più tenero e sincero verso di me e della salute

dell'anima mia, di quello che, per onore di Dio, mi ha portato P. Filippo: dai suoi ricordi e

dalle sue preghiere riconosco tutte le grazie e i benefici che Dio mi ha fatto e se sopporto

gravemente la lontananza da lui, pur avendone qualche volta lettere e sapendo che si ricorda

di me e non mi abbandona con le sue orazioni, se ora mi cancellasse dalla sua memoria e,

ritornata a Roma, non mi ricevesse come prima, non sarebbe questo per me peggio della

morte?

Page 91: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Che Filippo proprio avesse in animo di abbandonare la direzione di Anna, se essa non

riuscisse, davvero non lo crediamo!

Mai egli avrebbe trascurata la salute spirituale di una persona, per qualsiasi ragione al

mondo e ce ne sono tante prove.

Il suo fu un gesto di quelli che spesso usava, una minaccia in cui entrava la spavalderia

finta e cioè ancora il gioco!

Filippo, giudice terribile, minaccia morte. Una giovine in fama di santità, Orsola Benincasa, nata in Napoli il 20 ottobre 1547 ed ivi

morta il 16 gennaio 1618, venne in Roma, dopo molti contrasti, dicendo che il Signore

l'aveva incaricata di recarsi dal Pontefice per sollecitarla ad una rapida riforma della Chiesa,

pena gravissimi castighi.

Venuta a Roma ed ottenuta udienza, parlò al Papa con una franchezza straordinaria ed il

Pontefice, pur dubbioso della affermazioni della donna, la licenziò umilmente dicendo:

«Pregate Iddio, buona figliola, e che Dio ci perdoni a tutti».

Permanevano nonostante la verità dei fatti e la purezza di vita di Orsola, grandi incertezze

su la natura delle rivelazioni messe in campo.

E' una visionaria? E' una spiritata, ingannata dal demonio? E' una fanatica? E' un'eretica?

Tutte queste interrogazioni indussero il Pontefice a nominare una commissione, per arrivare

alla verità, e della commissione fece parte Filippo, che poi ne diventò il capo

e l'arbitro: la donna si trovò, ad essere sotto il completo dominio del Santo ed egli, nella

prima riunione, così accolse la donna:

- Possibile che Iddio non abbia trovato una persona più degna di te, per un'ambasceria al

Papa? Tu sei una bugiarda, una stupida, una spiritata e ti fingi santa...

Così altri complimenti del genere si seguirono e la donna ascoltò paziente e poi soggiunse

- Io sono, Padre mio, quella che voi dite, degna di ogni castigo. Per carità, soccorretemi,

Padre, in questi miei mali: io una sola cosa bramo ed è di essere guarita da ogni male; non

voglio altro che Gesù Cristo: se lo spirito che mi muove a parlare è cattivo, voi, Padre,

aiutate ad allontanarlo da me.

Dopo questo primo interrogatorio, la donna umile e forte andava a casa ed ecco che Filippo

va ad incontrarla nella via e, postosi di fronte a lei le dice, con vigore di comando: «ciò che

io ho detto a te, tu dillo a me».

Perché questo strano comando? Per provare la giovane? Forse! Noi crediamo piuttosto che

abbia voluto mortificare se stesso; ciò era, del resto, nel suo stile.

Ad accompagnare la santa donna a Roma era venuto qualche altro suo parente ed anche un

suo nipote, che fu convocato dinanzi alla commissione come un complice.

S. Filippo sospettò che tutta la santità di Orsola fosse un trucco per far quattrini e perciò

investì il giovane e... facendo la faccia feroce, disse:

- Fatti avanti, perché voglio che ti conoscano tutti questi signori! Dimmi la verità, quanti

danari hai guadagnato?

- Danari? Niente, niente! La zia ci ha proibito di accettare qualsiasi cosa per riguardo a lei,

e noi non abbiamo mai disobbedito: non abbiamo accettato né danaro né regali.

- La sai lunga tu, giovinotto! Noi conosciamo tutto! Il Santo Padre si trova ora lontano da

Roma a prendere un po' d'aria, ma quando egli verrà da Frascati, vedremo che genere di

morte dovete fare tu e la zia e qualche altro colpevole se c'è: sarà la forca, sarà il rogo, il

taglio della testa.

Il giovanotto restò impassibile, sereno, non meno forte della zia.

Con tutto ciò, Filippo, non smise le sue prove severe, che durano mesi e mesi.

Page 92: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Orsola riuscì vittoriosa da ogni esame e da ogni nuova sofferenza, ritornò a Napoli e vi

rifulse come una stella nella Chiesa di Dio, senza nessun rancore per Filippo ed i suoi,

ch'essa, in seguito, aiutò generosamente.

La Chiesa ha riconosciuto poi la santità della donna approvandone e benedicendone le

istituzioni.

Anche Filippo si persuase alla fine del lungo processo e così i giudici tutti.

Dopo l'ultimo colloquio, il Santo mise fine alla dolorosa vicenda con uno dei suoi gesti

strani ma significativi. Egli si tolse di capo la berretta che aveva in testa, la pose con le

mani sue sul capo di lei e le disse: «quando ti levi la tovaglia (velo) dal capo ti porrai questa

berretta acciocché non ti faccia male ».

La mandò così parata.

Fu un attestato di affetto? Un modo di chiedere scusa della lunga tortura? Pensiamo che fu

l'uno e l'altro, ma anche un gesto di gioia, un invito alla gioia.

Una donna che sfida Filippo.

Marta da Spoleto era una piissima, umilissima cristiana, e benché compaia poche volte e

rapidamente nella vita del Santo, si rivela tuttavia una figura originale, forte, che pareva

sfidasse Filippo nelle sue bravure.

Ogni volta che veniva a Roma, essa faceva capo a Filippo, con il quale trattava

rispettosamente ma familiarmente e ricorderete che una volta fece un complimento a

Filippo, come abbiamo già scritto: di questi complimenti, anzi, ne faceva spesso, nella sua

ammirazione.

Più di una volta, come risulta da un manoscritto da poco ritrovato, disse a Filippo

- Padre voi siete un santo!

- E tu sei una stupida, matta! -- E' verissimo, Padre!

- Non dici mai una parola giusta, opportuna: sei pettegola, bugiarda!

- Solo questo, Padre? Seguitate pure, Padre, perché io ci trovo molto gusto.

Essa se la godeva un mondo e rideva: Filippo si vedeva vinto e disarmato e ci rideva anche

lui.

Qualche ceffone dovette toccare certamente anche alla donna, uno di quelli che Filippo

dava così facilmente a chi lo diceva santo, come Marta.

Del resto, egli stimava molto Marta, perché tutti quelli che parlano di lei la dicono santa

donna e Filippo le accordò una licenza veramente straordinaria e cioè quella di entrare, lei

donna, in casa, di girare per essa e di visitare singolarmente i Padri.

Emulando l'umorismo di Filippo, quando passava per i corridoi, diceva ad alta voce come

chi chiede aiuto:

- Portate l'acqua santa!... Subito l'acqua santal - Perché? Che volete fare?

- Passa il demonio. - Dove sta?

- Come non lo vedete?

Era un dirsi demonio, cattiva e peccatrice, ma alla maniera di S. Filippo.

Il Santo non solo le voleva bene, ma l'ammirava per la sua semplicità e quelli che

circondavano il Santo se ne meravigliavano.

Qualcuno, e ciò dovette accadere più di una volta, gli chiese la ragione di una amicizia così

particolare per Marta. Perché volete sapere questo? egli disse. Perché... Marta fila.

Chi interrogava restava con un palmo di naso, non si persuadeva che Filippo stimasse

quella donna perché filava e la risposta poteva parere o insignificante o evasiva. Era una

risposta certamente « alla S. Filippo» ma sapientissima e profonda: egli stimava Marta

perché restava donna nell'umiltà delle sue mansioni, nella sua semplicità e non usciva fuori

da quelle che sono le attribuzioni della donna.

Page 93: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

San Filippo oggi non approverebbe le donne femministe, le donne politicanti, le donne,

comunque impiegate, perché le donne hanno già un impiego ed un lavoro ben serio, quello

della famiglia.

Conchiudiamo questa breve rievocazione della donna, passata alla storia per merito di

Filippo con uno dei tanti singolari episodi della sua vita.

Un giorno, un giovane si raccomandò alle preghiere di lei perché il Signore gli tenesse le

mani in testa, cioè lo mantenesse nel bene.

Marta lo assicurò e tutto parve finito: avrebbe pregato per lui.

Pochi giorni dopo il giovane dovendo andar via, salutò Marta e questa gli disse

- Ho pregato per voi affinché il Signore vi mantenga le mani in testa, ma voi guardate di

tener ben ferma la testa.

Una santa beffa, per molti anni, a tutta Roma.

Un altro lato, del tutto nuovo, unico, anzi, nella vita del nostro Santo è che egli fu il

taumaturgo delle gestanti e delle partorienti.

Non si trova nulla di simile a quanto diremo, in tutta l'agiografia cattolica.

Teniamo ad affermare che questa è una gloria singolare, grandissima di Filippo, che mostra

la sua originalità e genialità, che lo han fatto superare pregiudizi, superstizioni.

Esisteva, infatti, ed esiste anche oggi, una persuasione per cui gestazione, parto vanno

guardati di lontano, con diffidenza, come cosa pericolosa, meno buona, e da tenere

nascosta, senza parlarne.

Prove di questo brutto pregiudizio se ne trovano dappertutto, ma una è meravigliosa e si

legge nel libro di Burger Lisbeth: «Le Memorie di una ostetrica», oggi « Fiocco Bianco».

Ancora giovane, di illibati costumi, essa fu invitata da un parroco intelligente e pio, a

fornirsi di diploma ed esercitare la professione di ostetrica in paese, essendo morta la

vecchia ostetrica.

Quando il parroco inviò la madre a dare il suo consenso, sapete che successe? Si ribellò e

disse che « questo non è un affare per una ragazza ammodo ».

Il parroco fece luce nella mente della poveretta, e le fece capire che gestazione e parto sono

leggi sante stabilite da Dio, traverso le quali arrivano al mondo nuovi figli di Dio, nuovi

cristiani e cittadini ed eredi del paradiso!

La Lisbeth esercitò un vero apostolato per quaranta anni e le sue Memorie scritte in tedesco

sono tradotte in tutte le lingue, con innumerevoli edizioni.

Ma e la Vergine Santa non andò nelle montagne della Giudea, per assistere la sua parente S.

Elisabetta, che portava nel seno S. Giovanni Battista, il Precursore, e vi si trattenne per tre

mesi, e fin dopo il parto, come dicono ragionevolmente i più?

Gesù trovò nel fatto del parto uno degli esempi più toccanti quando disse: u La donna

allorché partorisce è in tristezza... quando poi ha dato alla luce il bimbo non si ricorda più

dell'affanno, per l'allegrezza, perché è nato al mondo un uomo ».

S. Filippo vedeva con gli occhi di Dio. Ricordo io stesso una grande esperienza.

Fui per alcuni anni, qui in Roma, assistente religioso di un gruppo di ostetriche e posso dire

che nelle nostre pratiche religiose dell'associazione ci fu da guadagnare per tutti nello

spirito.

Tanto abbiamo voluto premettere per chiarire situazioni, esitazioni e dissipare pregiudizi.

Il parto è e resterà, forse, sempre un pericolo, e per la vita della madre e per quella del

figlio, ma ai tempi del Santo la faccenda non andava come oggi: medicina e chirurgia,

progredite di molto, possono assicurare una percentuale altissima di successi: i casi di

morte, a quei tempi erano numerosi e quindi anche di parti difficilissimi.

Page 94: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Quando la fama dei poteri carismatici del Santo si fu molto affermata, con innumerevoli

guarigioni di ogni genere, si cominciò ad invocare il suo aiuto anche per parti che si

presentavano male: il Santo accorreva.

Non si può leggerne la relazione negli atti del « Processo di canonizzazione» senza

commuoversi.

Spesso, un intervento di Filippo acquistava il movimento di un rapido dramma sacro.

E il risultato era quasi sempre la liberazione dal pericolo della madre, spesso la salvezza del

figlio, sempre l'edificazione, il miglioramento spirituale di tutti.

Ma le nascite allora erano molte e il Santo non poteva correre a tutte le invocazioni di aiuti

e poi, col passare degli anni, con gli acciacchi sempre più frequenti, il problema diventava

serio.

Un bel giorno, dopo aver molto pensato, si chiuse in camera, prese una di quelle borse che

il sacerdote mette sopra il calice, quando va all'altare per dire Messa, vi mise dentro

qualche cosa e poi cucì in modo che non era facile aprire.

Quella borsa la portava personalmente nei primi tempi e la gente credeva che fossero gli

oggetti sacri, rinchiusi in essa, che operavano il prodigio.

Quello della borsa fu uno dei tanti espedienti che egli cercava per allontanare dalla sua

persona la credenza ch'era egli ad operare miracoli.

S. Filippo aveva il terrore di essere creduto santo e santo da prodigi!

Cominciò dunque a mandare la borsa, dopo averne esaltate le virtù e fatte tante e tante

raccomandazioni di tenerla con rispetto, di non darla a nessuno, e tanto meno di pensare

solo ad aprirla!

I casi di successo si moltiplicarono, perché Filippo pregava: la borsa così acquistò fama di

grande personaggio. I testi del processo ne parlano molte volte ed è bello ascoltare la

narrazione di Francesco Zazzara, che poi fu Oratoriano ed uomo, di santissima vita e si

esprime così

“E questo l'ho visto più volte in nostra madre, la quale, nei parti che ha fatti di dodici figli,

ha adoperato sempre questa borsa in tutti i parti ed essa aveva grandissimi fastidi e tutti

sono riusciti bene”.

Dopo la morte del Santo, furono riguardate tutte le sue cose e venne anche la volta della

borsa.

Erano riunite alcune signore e tutte insieme presero ad aprire la borsa, con una curiosità

straordinaria, ed un grande batticuore!

Finalmente; pensavano esse, dopo tanti anni, scopriremo il mistero.

Con una trepidazione arrivata all'estremo, quasi fosse una profanazione scucirono la borsa e

venne fuori un involtino, ma niente ancora di interessante, fu necessario togliere sette o otto

pannolini, e finalmente il mistero fini, perché non c'era stato mai!

Trovarono solamente un purificatoio, cioé quella specie di fazzolettino, con una crocetta in

mezzo, che il sacerdote usa, per asciugare il calice nella Messa, più una medaglietta di S.

Elena di quelle che si mettono in collo ai bambini e niente altro.

Si guardarono tutte in faccia e quello sguardo diceva Tutto qui?

La notizia si diffuse nella città ed ognuno faceva i suoi commenti o ricordava fatti passati

riguardanti la borsa. Più di uno osservò: i miracoli, S. Filippo, li faceva lui e la borsa é

servita a farci credere diversamente.

E' stata una beffa, seppure santa! Una delle tante!

CAPO XVI

MONELLO TRA I MONELLI

Elogio del monello.

Page 95: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Anche monello Filippo?

Anche, anzi principalmente monello, ma non era colpa sua!

Come abbiamo detto innanzi, ed anche ampiamente, egli era restato fanciullo per innocenza

della sua vita e la freschezza della sua anima: ora restando fanciullo, si resta anche monello,

perché, più o meno, tutti i fanciulli sono monelli.

Forse è colpa dei pedagoghi meticolosi e delle mamme rabbiose, se noi alla parola monello

diamo il significato di ragazzo impertinente, ribelle, maleducato, e ciò è tanto vero che

quasi sempre, nella realtà della vita, si dà del monello al ragazzo col sorriso sulle labbra:

dunque la parola ma nello, più veramente è un complimento affettuoso, una carezza!

Forse il vocabolo birichino è più vicino alla realtà, perché il birichino è un fanciullo

intelligente, un po' furbo, che si diverte a molestare gli altri, per divertirsi e divertire.

Che male c'è in tutto ciò?

Questo è un primo aspetto buono del monello: un ragazzo poco intelligente, poco pronto,

poco vivo, poco ragazzo insomma, non può essere un monello.

Quale ragazzo sano può non essere monello?

Che il Santo intendesse così la cosa, si può rilevare dalle parole che egli rivolgeva ai

fanciulli in tante occasioni: burlate, burlate!

A creare la figura del monello, ragazzo cattivo, ha contribuito la figura del ragazzo «bene

educato», cioè il ragazzo istruito a muoversi secondo certe regole, come uno che recita sul

palcoscenico, un piccolo uomo complimentoso e tutto contegno, che non sa dare un

pizzicotto ad un compagno e fa gli inchini e i movimenti in perfetto stile: un ragazzo

falsificato.

Tanti dei giochi, che faceva Filippo e dei quali abbiamo già fatto discorso innanzi, come

protrebbero chiamarli i pedagoghi stilizzati che non monellerie?

Ma diamo ancora qualche saggio di giochi perfettamente monelleschi.

Egli aveva intorno un gruppo di medici valenti, alcuni dei quali, come Andrea Cesalpino,

che lo curavano, non solo con assiduità, ma anche con devozione: essi però o non

riuscivano a capire il suo male o non trovavano i rimedi adatti ed egli li maltrattava...

affettuosamente, per nascondere l'origine vera dei suoi mali.

Una volta pareva morente ed i medici erano intorno preoccupati, ma ecco che egli si

risveglia, si riprende, si mostra guarito in una maniera prodigiosa e dice sorridente:

- Balordi l Volevate guarirmi? Io ho altri rimedi più efficaci dei vostri!

I medici accettavano la cosa come un complimento. Un'altra volta, dopo una crisi

similmente gravissima, nella quale i medici hanno usato i rimedi che l'arte suggeriva ad

essi, si nota una ripresa grande, e quei medici sono soddisfatti: Filippo nota la loro

soddisfazione e rivolto ad essi dice:

- Ma credete che siate stati voi a guarirmi? Ma non è vero! Ecco qui questo reliquiario!

Esso mi ha guarito! Un'altra volta li canzonava in una maniera più viva e diceva:

- Prego Iddio di illuminarvi, per farvi capire il mio male.

Si direbbe che quei medici gli si affezionavano in misura che egli li maltrattava.

Un'altra monelleria di stile perfetto fu quella, non scattata improvvisa, ma fatta con

premeditazione, ad un Papa che gli voleva tanto bene ed era Clemente VIII.

Questo Pontefice si trovava a letto ed il Santo andò a visitarlo: il Papa era in preda ad

un'assalto violento di chiragra.

Entrato in camera, come il solito, senza etichetta alcuna, egli avanza, ma il Papa che ne

conosce i modi, dice allarmato

- P. Filippo, non vi accostate, non vi accostate... Filippo sorride e seguita ad avanzare.

- Vi ho detto fermatevi, P. Filippo: non posso essere toccato.

- Beatissimo Padre non dubitate! E intanto avanzava.

Page 96: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

- Per carità, prosegue il Papa, sempre più preoccupato, non toccate neppure il letto: ogni

piccolo urto rende più acuto il mio dolore.

Ma quest'ultime parole cadevano nel silenzio di Filippo che, fatto un balzo deciso, come

uno che si lancia sulla preda, afferra la mano del sofferente e la stringe, prima che possa

essere ritirata.

Non è questa una monelleria?

Comunque non ne fu niente di male: il Papa si senti guarito e per molto tempo ed a molte

persone narrò l'episodio, con grande dimostrazione di affetto per Filippo.

La commedia dell'impiccagione. C'erano in Ponte, come si diceva allora, e cioè presso ponte sant'Angelo, una volta, delle

forche preparate, forse per qualche esecuzione capitale.

Il Santo passa per di là con un gruppo di ragazzi e dice a uno:

- Va su quella forca e sali fino alla punta.

- Tu, dice ad un altro, stringiti a quel legno. - Tu, ad un terzo, passa per tre volte di sotto.

L'estensore del ricordo, forse Francesco Zazzara, come rileviamo dalla grafla, chiama

«solenne» l'episodio: si comprende che fece grande impressione a lui ed agli altri. Non c'è

altro nel documento, ma ciò che non è detto, s'indovina: Filippo voleva simulare

un'impiccagione.

E' facile immaginare il chiasso attorno, l'emozione di chi non sapeva ed immaginava

un'impiccato autentico e le risa, le beffe di quelli che sapevano.

Ma tutto finì, come una rappresentazione a lieto fine, nel divertimento generale.

Passiamo ad alcuni episodi che dànno subito la comprensione piena del comportamento di

Filippo con i ragazzi: comportamento di amicizia, come tra pari.

Il campo preferito era il colle Gianicolo, che si leva subito dopo la riva destra del Tevere.

Filippo dà l'appuntamento ad un gruppo di ragazzi:

- Figlioli, domani andremo al Gianicolo: avvisate i compagni: venite qui, andremo insieme.

- A che ora Padre?

- E' d'estate, lo vedete e fa molto caldo: venite quando l'aria rinfresca.

- Padre Filippo, Padre Filippo, gridavano i fanciulli sotto la finestra, l'indomani.

Filippo si butta il mantello addosso e scende frettoloso. Altri ragazzi arrivano, altri

s'incontrano per via ed è un grande chiasso, un vociare confuso.

La gente si volge a guardare lo spettacolo, vede Filippo in mezzo e gode.

Andando, chi afferra il Santo per una mano, chi per l'altra, chi gli va innanzi, chi gli si

accosta quanto più può ai fianchi, chi lo prende per un lembo del mantello e tutti, a gara,

cercano di dirgli qualche cosa e di attirare la sua attenzione.

Egli trova il modo di dar soddisfazione a tutti, magari con un sorriso, con un cenno, con

uno sguardo.

Si arriva su al Gianicolo molto presto e cominciano le proposte.

- Padre Filippo, giochiamo alle piastrelle? dicono alcuni.

- No, a pallamaglio, dicono altri. - No, a correre...

- A nasconderci...

Pare impossibile dominare quel disordine, ma Filippo in breve lo incanala, lo domina.

- Questa volta, dice egli, giochiamo alle piastrelle: più tardi o domani, giocheremo a

pallamaglio.

- Io sto con voi, Padre Filippo come compagno di gioco, dice Marcellino.

- No, oggi, perché sei stato con me l'altro giorno oggi sta con me Franceschino.

Il gioco procede animato e Filippo, qualche volta, finge di tirare male, di sbagliare, per

perdere, ma gli altri non se ne accorgono.

Page 97: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

- Padre Filippo, dice uno soddisfatto, ho vinto io. Egli gode come se avesse vinto lui due

volte.

S. Filippo mentre gioca, domina con l'occhio il campo... di battaglia e vede Pierino un po'

lontano dagli altri, silenzioso: va presso il giovinetto e gli dice:

- Beh, Pierino, che ti senti? A che pensi? Vieni con me, gioca anche tu.

- Date anche una piastrella a Pierino e mettete un altro dall'altra parte.

Egli s'allontana con uno scappellotto al ragazzo dicendogli: allegramente!

Egli va dietro un -cespuglio, dietro un albero, un muricciolo. Prega!

I ragazzi, presi dal gioco, non avvertono la sua assenza, ma dopo un certo tempo, per un

incidente qualsiasi, s'accorgono che P. Filippo non c'è.

- Padre Filippo, padre Filippo, chiamano quasi a coro ed a vicenda si chiedono

- Dov'è Padre Filippo? E' andato via?

- Son qui, son qui, grida egli e sbuca subito sorridendo.

Il gioco segue ancora, poi si canta, poi si prega e ci si riposa sull'erba fresca, mentre P.

Filippo dice parole belle. perché essi siano fanciulli buoni.

Al ritorno in città s'è un po' stanchi, ma festosi.

I monelli sono accusati: Filippo fa l'avvocato. E' vecchio ornnai Filippo... ma è come se fosse giovane e resta sempre il grande amico dei

fanciulli.

Essi vengono, talvolta, e si fermano nel cortile, ma il Santo non compare.

Chiamiamolo, chiamiamolo, si cominciano a dire i ragazzi.

- P. Filippooooo... P. Filippooooo... P. Filippooooo! E' un coro di chiasso.

- Che volete?, dice Filippo sporgendosi dalla finestra. - Venite con noi, stiamo qui,

vogliamo giocare insieme. Il vecchio scende e si rimette a fare il monello. Talvolta i

fanciulli invadono la casa e si mettono a giocare innanzi alla sua stanza: è un pandemonio.

Compare un Padre della Comunità e comanda ai ragazzi di andar via, minaccia, dice che

andrà a prendere il bastone, ma essi non se ne curano.

Arriva un fratello laico seccatissimo e li apostrofa: Maleducati: voi non fate riposare il

Padre; vi do una buona lezione, ma essi proseguono come se non avessero udito.

Talvolta qualcuno di questi protestanti entra in camera e dice la sua protesta concitata,

vibrata, esprimendo anche meraviglia che il Padre permetta tanto disordine.

Quando la scenetta è finita, Filippo esce fuori, si rivolge ai ragazzi e dice

- Lasciateli dire, burlate pure, saltate, state allegramente: io non voglio altro da voi se non

che non facciate peccati.

Un'altra volta, arriva un gran signore, tutto serio, compunto, come chi sa di dover comparire

davanti ad un uomo venerato da tutta Roma.

Non appena egli avverte quel chiasso, che davvero non s'aspettava, nel corridoio, dinanzi

alla camera del Santo, è preso da un movimento di sdegno.

- Padre Filippo, dice, arrivato alla presenza di lui, ma come non sentite questo diavolerio?

Come fate a sopportarlo? Io impazzirei!

- Io no, invece! Ci godo e mi pare di diventare giovane e più saggio. Sopporterei che mi

tagliassero le legna addosso purché non facciano peccato.

La gesta meravigliosa di Filippo, con i ragazzi, fu ricordata da una lapide posta sul

Gianicolo, luogo più frequentato dal Santo, accanto ad una quercia famosa alla cui ombra

Filippo spesso riposava, e Torquato Tasso sostava pensoso meditando la morte che egli

sentiva non lontana.

L'epigrafe, redatta da un uomo di genio e di cuore, dice così

Page 98: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

All'ombra di questa quercia Torquato Tasso vicino ai sospirati allori e alla morte ripensava

silenzioso le miserie sue tutte e Filippo Neri tra liete grida si faceva co' fanciulli fanciullo

sapientemente.

Tra i fiori di serra, all'aria libera.

Questi fiori di serra, riparati e difesi da ogni minimo contatto nocivo, sono i novizi degli

istituti religiosi.

E' difficile, per un laico, raffigurarsi bene la vita di un novizio: uscito dal mondo ed entrato

in religione, il novizio è sottoposto ad una vera segregazione, dolce, affettuosa

segregazione, ma sempre segregazione.

II novizio deve uscire dal noviziato un altro: non solo un uomo che ha lasciato il mondo,

ma che dev'essere 1'a postolo del mondo.

Per questa ragione, seguendo le istruzioni del Diritto Canonico, i Superiori sono

estremamente gelosi dei novizi. Gli stessi religiosi dell'istituto non possono avere molti

contatti con i novizi: il loro maestro è colui col quale essi comunicano.

Immaginate poi se si permettono avvicinamenti con laici o con religiosi di altri istituti!

Solo i parenti strettissimi, come quelli di famiglia e in determinati giorni, e col contagocce,

possono comunicare col novizio.

Per Filippo non c'era, invece, porta chiusa per nessun noviziato.

Sappiamo anzi che i superiori dei Domenicani della Minerva in Roma, affidavano talvolta a

Filippo i loro novizi per delle scampagnate.

Quelle figure di giovani che raramente si vedevano nelle vie e solo per motivi religiosi,

come processioni, andavano ad occhi bassi, composte nella persona, irrigidite, silenziose.

Ora, intorno a Filippo, essi ripigliavano i loro movimenti di buoni monelli, attorno al buon

monello maggiore. Si andava, si andava e poi, all'ora del pranzo ci si fermava in un posto

prestabilito.

I fagottini, contenenti una buona colazione, si aprivano e si appoggiavano sulla buona

mensa dell'erbetta e Filippo dirigeva, come un buon maestro, il suo complesso musicale:

egli era tutto occhi.

Un novizio là, in fondo, non sa smettere il suo comportamento rigido, di convento e forse è

un poco scrupoloso mangia lentamente, come un ammalato che soffre di inappetenza.

- Fra Gabriele, gli grida Filippo: coraggio! Sappi che io mi ingrasso a vederti mangiare: se

tu seguiti a mangiare come fai, mi fai dimagrire!

- Perché non bevi? Dice ad un altro che ha il bicchiere ancora pieno; sappi che la Santa

Scrittura ci insegna che il vino e la musica rallegrano il cuore.

- E tu, parla, Fra Paolino, dice ad un altro tutto silezioso! Sappi che in campagna sono

permesse anche le parole allegre e le sciocchezze... moderate.

Ad ogni intervento del Santo, gli altri rumoreggiano ma discretamente e tutti sono

incoraggiati a dire delle spiritosità.

- Padre, Fra Gabriele, vuol essere ammirato come penitente, dice uno.

- Fra Giovanni, beve per due se nessuno lo vede: non lo guardiamo, dice un altro.

Così, nell'animazione crescente, il gioco diventa fitto e le beccate fraterne si scambiano

numerose.

Filippo pure fa onore al suo grado di buon capo monello, ma sa dosare le sue parole e

variare la conversazione, passando opportunamente dalla facezia alla edificazione.

- Fra Pio, chiede ad un suo vicino, quando sarai sacerdote, che ministeri preferiresti: la

predicazione, l'insegnamento, le confessioni, la missione?

- Quello che vuole l'obbedienza, Padre!

- Va bene ciò: è fuori questione, ma io domando come tuo gustol

Page 99: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

- Io vorrei fare il predicatore.

- Ottima scelta, ma molto difficile... Il predicatore deve prima saper praticare le cose che

dice, perché diversamente faresti come un tale padre Zappata, che predicava bene ma

razzolava male!

- Io vorrei andare missionario, salta a dire Fra Giulio. - Il missionario lo volevo fare

anch'io, volevo andare in India, ma Dio mi ha voluto in Roma. Il missionario si può fare

dappertutto.

- Fra Giulio, osserva un compagno spiritoso, dovrebbe andare missionario fra i cannibali.

- Anche quelli sono uomini, conclude Filippo.

In questa guisa, tra una battuta e l'altra, egli esce in un'interrogazione che fa pensare

- Vorrei sapere ora da tutti voi: siete contenti di esservi fatti religiosi?

- Contentissimiii... Siii...

- Avete ragione: la vocazione è una grazia grande, un privilegio, ma da sola non basta.

- Perché non basta? chiedono due o tre nello stesso tempo.

- Perché bisogna perseverare.

E' impossibile, pur sulla traccia dei documenti e dei processi, ricostruire una gita di questo

genere, in tutta la sua varietà.

Basti dire che avvengono le cose più impensate: ad un certo momento, sulla via del ritorno,

ci si ferma davanti ad un monumento sacro e Filippo spiega, commenta, dicendo delle

bellissime cose.

- Vedete questa chiesa quasi completamente distrutta? dice passando innanzi a certe rovine

al lato delle terme di Caracalla. Era dedicata ai Santi Nereo ed Achilleo...

E qui, giù la breve storia dei martiri gloriosi. Dopo una certa tappa, Filippo propone:

cantiamo... - Va bene, cantiamo, dicono a coro!

Cantiamo, dice qui Fra Anselmo:

«Io dico spesso al mio cuore,

solo amando Dio l'alma non muore ».

Si prosegue sulla via del ritorno: un po' si chiacchiera, un po' si dice il Rosario, o ci si

riposa.

Presso qualche fonte, chi beve, chi guazza con le mani nell'acqua, e chi fa una piccola

doccia non richiesta, ad un compagno.

La sera, al ritorno i novizi si mostrano più allegri e più buoni.

- Grazie Padre Filippo: buona notte! A quando una altra passeggiata?

- Avete troppo fretta figlioli: parlatene al vostro Padre Maestro.

Passò del tempo, nella notte del 26 maggio 1595, Filippo morì e la mattina il popolo

romano cominciò a riversarsi nella chiesa.

Ad un certo momento si vide farsi innanzi una schiera di vesti bianche e nere: si aprirono

per forza la strada e si buttarono in ginocchio attorno al catafalco dove Filippo riposava e

piansero dirottamente.

Era il noviziato dei Domenicani della Minerva.

Il miglior compagno. In tutte le occasioni dell'attività di Filippo, specialmente in mezzo ai giovani, entrano

diversi fattori a creare l'atmosfera di gioia, ma l'anima era sempre lui.

Rivediamo una scena, che ci descrive Francesco Zazzara, ancora giovanetto, ma che in

seguito diventerà sacerdote e Padre dell'Oratorio.

Egli ed altri compagni stavano quasi sempre attorno a Filippo, il quale, di tanto in tanto

diceva ad essi

Page 100: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

- Ed ora andate un po' fuori a prendere un po' d'aria fate una. passeggiata, ma da bravi, mi

raccomando.

- Io non voglio andare, voglio stare qui con voi, Padre, dice Francesco.

- Beh, restate tutti: o tutti a passeggio o tutti qui. Gli altri restano scontenti.

La scena si ripeteva, e si rinnovava la situazione incresciosa, ed allora i compagni dicevano

al Santo, per un certo spirito... dispettoso:

- Padre, comandate però che venga anche Francesco: per forza!

Francesco, che non aveva voglia di uscire, cercava di prendere da solo il Padre e

supplicava:

- Padre, non mi date licenza di andare: trattenetemi qui: preferisco stare con voi.

Talvolta Filippo lo contentava ed il giovanetto restava, talvolta gli comandava di andare

con gli altri.

Che un giovanotto di buona salute, esuberante, preferisse una stanza ai liberi campi, che

preferisse la compagnia di un vecchio a quella di compagni chiassosi, pare un miracolo.

Ma non è un miracolo, è solamente un fatto bellissimo e che cioè Filippo, ancor vecchio,

era sempre il compagno migliore dei giovani.

In un lampeggiare di genialità il Santo esplode in una delle più grandi verità. Le grandi scoperte, molto spesso, più che frutto di studio, sono irruzioni, lampi di verità che

scattano come folgore dalle occulte capacità dello spirito.

Ne abbiamo numerosissimi esempi, ma qui ci limitiamo a qualcuno.

Archimede, il grande matematico e fisico di Siracusa, che mori 212 anni avanti Cristo,

stava esaminando, un giorno, un oggetto, per vedere se fosse oro vero o falso, quando

pensando al peso di quell'oggetto, in un baleno, con gli occhi dello spirito, comprese, intuì

che tutti i corpi hanno un peso specifico.

Ebbe tanta gioia, che dette un grido e disse: « ho trovato »! come avrebbe gridato un

ragazzo che avesse trovato una grossa somma di danaro.

Si narra che un altro scienziato avrebbe scoperto quella grande verità che tutti gli oggetti

tendono verso la terra e cioè la legge della gravità, sapete come e perché? Perché un frutto,

sarà stata una pera, una mela, gli cadde sul viso, mentre riposava sotto un albero.

Un altro, forse, avrebbe detto facetamente: guardate! Questa pera si è voluta gentilmente

offrire, perché io la mangiassi.

Quello scienziato, invece, nel folgorare del suo genio, intuì la grande verità detta legge di

gravità.

Filippo, una volta, si sarà trovato in una situazione un po' diversa dal solito: possiamo

supporre che fosse meno ben disposto di altre volte, e che si fosse seccato che i giovanetti

sotto la sua camera facessero il solito chiasso: aveva anch'egli i suoi nervetti, che non

sempre reggevano pazienti!

Si alzò dunque, corse alla finestra e disse energico - Eh... ragazzi, statevi...

Ma ecco, mentre diceva queste parole la sua mente si aprì, si accese, brillò, ed un altro

pensiero successe subito: ma come faranno questi poveri ragazzi a starsene, come io

pretendo ora? Non possono! E' un bisogno che essi hanno: quel loro chiasso non dipende

dalla loro volontà. Se fossero quieti, se stessero fermi, essi ne soffrirebbero nella salute.

Ebbe subito un senso di pena, si penti del richiamo, volle correggersi e disse a mezza voce

- Sì, sì, statevi, se potete.

Rise placato, soddisfatto: non era stato cattivo con i fanciulli, come sarebbe stato

imponendo duramente di star fermi.

Rientrato in camera, con la mente ancora accesa di quel bagliore interno, ed ora, con la

guida della ragione... ragionante comprese che il movimento dei giovani è un'esigenza

Page 101: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

vitale, una condizione di crescenza, di salute, di vita. Era arrivato a scoprire ciò che la

scienza pedagogica formulò faticosamente solo parecchio tempo dopo.

La sua formula di verità intuita era piena.

Anche i ragazzi eccedono e talvolta possono muoversi troppo ed allora il movimento

diventerebbe nocivo e perciò l'intervento dell'autorità è necessario, per moderare.

La paroletta: « statevi », indica la prima parte della formula ed essa è giustificata.

La seconda parte però: «se potete» modera e tiene la prima parte nei giusti limiti.

La bellissima formula di S. Filippo invita genitori, educatori ad essere comprensivi con i

ragazzi, ad essere pazienti, a non sacrificare la salute pur nel dovere di vigilare e moderare.

Ancora una volta Filippo fu l'avvocato dei ragazzi, contro educatori troppo esigenti.

Statevi se potete ... diceva S. Filippo, è la riflessione che mette in pace la coscienza delle

mamme arrabbiate contro i figli chiassosi.

CAPO XVII

FILIPPO VUOL DIVENTARE EBREO E FARE PEGGIO

Filippo incontra l'ebreo errante. E' una favola vera che tutti o quasi tutti conoscono, ma c'è sempre qualcuno che non la sa,

ed io perciò l'accennerò per questo qualcuno, affinché egli non resti disilluso, in modo

tuttavia da non seccare chi conosce e contentare chi non conosce.

Dice dunque la favola, che Gesù, portando la Croce nel salire al Calvario, ad un certo

punto, sfinito, chiese, di riposarsi, ma il portiere della casa di Pilato, od un certo Assuero,

dicono altri, non lo permise: avrebbe dato anzi un pugno al Divino Maestro, il quale gli

avrebbe detto: io proseguo la mia via, ma tu andrai errando sulla terra fino al giorno del

giudizio.

Da allora, senza posa, quell'ebreo cammina, cammina fin qui la favola.

Comincia ora la verità della favola stessa ed è che il popolo ebreo, fin dalla cacciata dalla

loro terra, l'attuale terra Santa come si dice oggi, e dalla dispersione nel mondo, «

Diaspora», mai possono trovare un centro di unità, una patria.

il un fenomeno unico nella storia umana: tutti i gruppi umani, nelle varie trasmigrazioni,

sono stati sempre assorbiti dal luogo in cui si sono fermati.

Un esempio grande e recente: i grandi gruppi di emigrati in America sono stati tutti

assorbiti nell'unità della regione, e mentre prima, erano italiani, irlandesi, polacchi,

tedeschi, ora costoro non ci sono più e n'e venuto fuori di tipo americano.

Gli ebrei no: francesi in Francia; italiani in Italia; tedeschi in Germania affondano le loro

radici nella razza e restano, per dire così, solo alla superficie geografica del luogo.

Questa situazione ha creato agli ebrei una condizione dolorosa: nei vari posti in cui si

trovano, sono considerati o come nemici o come stranieri e sono, spesso, perseguitati da

uomini che non vedono in loro dei fratelli.

Le persecuzioni nono state numerosissime e dolorosissime: qualcuna, quella nell'ultima

guerra mondiale, fu una vera carneficina.

Una belva straordinaria che si chiamava Hitler, ne fece un macello in tutta l'Europa.

Poiché gli ebrei sono diffusi in tutto il mondo, non v'è uomo di altra razza o religione che

non ne incontri.

L'incontro in Roma.

Anche in Roma, come in quasi tutte le città, c'era ai tempi di Filippo ed anche prima, un

forte gruppo di ebrei. Essi abitavano ed abitano ancora in un quartiere che si chiama il

Ghetto: così in tutti i paesi.

Page 102: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Il Ghetto è una specie di prigione senza porte, più o meno diviso dal resto della città: è

anche una specie di rifugio per la difesa e la sicurezza.

Nel Ghetto c'è la Sinagoga o « tempio» come dicono a Roma.

Al tempo di cui parliamo, tra il 1566 e il 1572, gli ebrei passavano un brutto quarto d'ora e

nessuno di loro si sentiva sicuro.

Erano poi obbligati a portare in testa, come segno di distinzione vergognosa, una specie di

berretto giallo che li additava all'odio, ed anche al peggio, dei cattivi: il berretto era come il

rosso per il toro allo sguardo degli altri. Un ebreo, forse piuttosto di alto grado, non

sentendosi sicuro in casa sua, chiese ad un buon uomo, Prospero Crivelli, discepolo di

Filippo, di dargli ospitalità: crediamo che il Crivelli ne abbia chiesto licenza al Padre che

l'accordò: generalmente i figlioli spirituali di Filippo, in cose abbastanza rilevanti, come era

questa, chiedevano sempre consiglio e licenza dal Santo.

Un giorno, andando Prospero col P. Filippo a San Giovanni in Laterano, avrà detto a

quell'ebreo:

- Esci fuori da questo nascondiglio: vieni a prendere un po' di aria con me e col padre

Filippo: noi andiamo a S. Giovanni in Laterano: vieni anche tu: sarà un bella passeggiata:

- Con tanto piacere, avrà detto l'ebreo, sento proprio il bisogno di sgranchirmi le gambe,

perché non ne posso più di stare nascosto.

Arrivati là, Filippo e Prospero, ginocchia a terra, si volgono verso il Tabernacolo, dove si

conserva Gesù Sacramentato, e pregano.

L'ebreo avrebbe potuto benissimo starsene in piedi e non fare atto di culto, ma essendo un

fanatico, un ignorante, come pare, seppure non cattivo, volse le spalle al Sacramento.

Era un atto offensivo per Filippo ed il suo discepolo ed un altro si sarebbe adirato e avrebbe

redarguito il cattivo modo dell'ebreo: Filippo invece gli disse, amabile:

- Uomo dabbene, prega così: « Se sei il vero Dio, ispirami a farmi cristiano!

- Questo non lo posso fare, disse quell'uomo pio, perché sarebbe un dubitare della mia fede

ed io non posso dubitare di questa fede.

- Preghiamo, disse Filippo a Prospero ed ai presenti: vedrete che si farà cristiano.

Non polemizzare: amare. Due angeli.

Si avverta come Filippo non polemizza: ama e vince sempre: pensate un altro cristiano,

anche zelante, nella situazione di Filippo con l'ebreo.

Avrebbe polemizzato, avrebbe rimproverato lo scortese e forse avrebbe detto: ma voi ebrei

siete sempre così testardi dopo tanti secoli e tanti miracoli e non vi convertite, anche

dinanzi all'evidenza, e cose del genere...

L'ebreo naturalmente avrebbe risposto e ne sarebbe venuta fuori una polemica incresciosa:

con quale risultato? L'ebreo non solo non si sarebbe convertito, ma offeso, irritato, si

sarebbe sempre più allontanato.

Con la polemica, anche se si vince la lite, si perde il cuore dell'avversario: ora vincere la lite

e perdere il cuore non è vincere.

Inoltre chi perde la lite, anche se ha torto, resta umiliato e non si arrende.

Ecco un grazioso episodio, nel quale figurano due ebrei che poi diventano due angeli.

La vigilia della festa dei santi Pietro e Paolo, il giovane Marcello Ferro indugiandosi sotto i

portici della basilica, vede due giovanetti ebrei, che probabilmente conosceva prima, ed

attacca conversazione con essi.

Marcello con bell'accorgimento dice ai due compagni Vedete, è la festa dei santi Pietro e

Paolo, che sono tanto gloriosi, ma sappiate che essi erano ebrei come voi: oggi è anche un

pò la vostra festa: era un invito toccante. Alla fine della conversazione, Marcello invitò i

Page 103: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

due giovanetti ebrei ad andare a San Girolamo della Carità e fare conoscenza col Padre

Filippo.

I due piccoli ebrei furono presi dalla maniera irresistibile del Santo e tornarono per

parecchio tempo, ma poi non si videro più.

Filippo preoccupato di quell'assenza ingiustificata, chiamò Marcello e lo pregò di indagare

e vedere che n'era dei due bravi giovanetti.

Marcello andò alla loro casa e seppe che uno dei due era ammalato gravemente: la madre

poi si lamentò con Marcello che quel caro figliolo non voleva prendere cibo e lo pregò di

fare anche lui qualche insistenza perché il malato mangiasse un poco.

Il poverino accettò e prese un poco di cibo.

Mentre Marcello badava a compiere questo buon servizio, nell'assenza momentanea della

madre, trovò modo di dire al suo piccolo amico malato

- Il P. Filippo vi si raccomanda!

L'infermo ebbe una grande gioia per l'interessamento e l'affetto del Santo.

Marcello nel partire, gli disse all'orecchio, discreto:

- Ricordatevi che avete promesso a Filippo di farvi cristiano.

- Me ne ricordo, e voglio farlo, se Dio mi dà vita. Quando Marcello fece la relazione al

Santo della sua pietosa missione, Filippo disse: Non dubitare, l'aiuteremo con la preghiera e

si convertirà.

Il giovanetto guarì, ritornò col fratello e tutti e due si fecero cristiani.

La promessa di farsi ebreo. L'episodio che narriamo è solo piccola parte di una grande vicenda.

Una grande e ricca famiglia ebrea, quella dei Corcos, che contava banchieri, rabbini, e

gerarchi di ogni genere nel mondo israelita, ben ventiquattro persone, si convertirono via

via e si fecero cristiani: non possiamo narrare tutta questa storia, ma non possiamo omettere

un punto che illumina il resto.

Di tutti questi ebrei convertiti, due deposero poi al processo: Agostino ed Ippolito i quali

avevano assunto il cognome Boncompagni, che era del Papa Gregorio XIII.

Sia Agostino che Ippolito raccontano dunque come di fronte alle loro difficoltà di farsi

cristiani, Filippo disse ad essi:

- Pregate il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe! I due pensarono che ciò essi potevano

farlo perché il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe era il vero Dio, quello che essi

avevano sempre adorato, mentre secondo essi i cristiani adoravano Gesù... che non era Dio.

Non potevano diffidare e rifiutarsi di pregare e così pregavano, senza sospettarlo, anche il

Dio di Filippo, ch'era l'unico Dico.

Filippo, prudentemente, non nominò né Gesù, né la Vergine: essi non li avrebbero invocati:

aggiungeva ancora Filippo:

- Voi dubitate o credete che la religione vostra sia la vera e la nostra sia la falsa, ma si può

vedere facilmente quale delle due religioni è la vera: ne convenite?

- Ma certo, risposero essi sicuri di poter affermare che la religione ebraica è sempre la vera

e che essi avrebbero avuto ragione.

- Ora facciamo questo patto, riprese Filippo: se la religione nostra è la vera, voi vi farete

cristiani, perché la verità non si può rifiutare: se poi è vera la religione vostra, ve lo

prometto, io mi farò ebreo. Con questa intenzione pregate pure il Dio di Abramo e dei padri

vostri.

La vicenda andò a finire, iniziando da questo abile procedimento, che i due giovani si

fecero cristiani ed amarono Filippo di un amore sconfinato.

Page 104: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Agostino si fece prete e prete dell'Oratorio. Nella sua deposizione del 26 agosto 1595, egli

concluse con parole che sanno di lacrime, ricordando l'ultima visita al Santo moribondo, il

quale lo abbracciò e gli disse di tenere bene a mente che egli era prete per far del bene.

Quella sera stessa Filippo dette l'ultima benedizione anche ad Agostino, con gli occhi rivolti

al cielo, in atto di preghiera.

« La mattina, termina Agostino, andai da lui ed era morto».

Altre malefatte di Filippo... A quella di farsi ebreo, altre malefatte aggiunse Filippo, come quella di impicciarsi a far

trovare moglie... ad un ragazzo che frequentava la sua camerata.

Questo ragazzo, Marcello, della nobile famiglia Vitelleschi, arrivato all'età della pubertà,

sui sedici anni, come sempre succede, scopri che esistevano le donne: come conseguenza,

gli piacquero e ne voleva avere una per moglie.

Non sappiamo come Filippo abbia conosciuto ciò, ma pensiamo che il ragazzo stesso si sia

confidato, semplice e buono com'era.

Saputa la cosa, ad ogni modo, il Santo chiamò il principe romano Fabrizio Massimo suo

penitente, e gli disse, su per giù:

- Caro Fabrizio, tuo nipote Marcello, vuol prendere moglie: ora tu devi dargli ad intendere

di volergliela trovare...

Questo il cenno molto rapido di una delle tante deposizioni del teste, che troppe cose più

interessanti aveva da dire.

Ad ogni modo la commedia dovette aver seguito e sviluppo, per un bel pezzo, come si può

dedurre facilmente dal testo della deposizione.

La vita spirituale però, che il Santo andava coltivando nell'adolescente, come acqua ben

versata, spense la piccola fiamma di concupiscenza, più che di amore, e Marcello non prese

mai più moglie, fu prete ed ottimo prete.

Peggio di peggio. La vena di Filippo non si arrestava alla proposta di farsi ebreo ed all'impresa di trovar

moglie ad un ragazzetto imberbe, ma andò oltre.

Sempre, nelle sue malattie, Filippo pregava e faceva pregare di riavere la salute per

diventare buono, anzi un angelo, come troviamo scritto una volta.

Nell'ultimo periodo della sua vita, però, cominciò a dire il contrario, nella sua preghiera al

Signore, ch'era questa, nella sostanza: tante volte, per l'addietro ho promesso di voler mutar

vita e mai ho mantenuto la promessa ed ora dispero di me stesso...

Sotto questa apparente disperazione, c'è la visione di un'umiltà sconfinata, perché egli

diceva ancora: «Signore io mi protesto che non sono buono a far altro che del male ».

Drammatico è questo episodio che si ripete spesso: egli ha il Sacramenti in mano ed a voce

che tutti possono udire, con gli occhi fissi su l'Ostia Santa, con l'anima protesa verso quel

Gesù che vi si nasconde, ma che egli avverte presente, così parla

- «Signore, guardatevi da me che vi tradirò e farò tutto il male del mondo ».

Nella preparazione alla Messa, e ciò lo confidò lui stesso, diceva:

- «Io nono pronto, per parte mia, a fare ogni male», se Dio non mi aiuta però, egli

sottintendeva.

Non si trova scritto in nessun testo, ma è ripetuto in una tradizione costante, questo suo

modo di parlare col Signore:

- Signore, mantieni le mani in testa a Filippo, se no Filippo si farà turco!

Quest'altra maniera è ancora più tragica: « La piaga del costato di Cristo è grande, ma se

Dio non mi tenesse la mano in testa io la farei maggiore».

Page 105: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Queste formule, viste alla superficie, possono apparire di un andamento troppo

confidenziale e, direi quasi, birichino, ma nella realtà sono di una umiltà sconfinata perché

Filippo si crede capace di tutti i delitti: sono di un abbandono senza limiti e quindi di un

amore senza riserva per Dio.

Un giorno, con l'aria di chi fa una confidenza straordinaria, un'esperienza nuova di un atto

di audacia, di una novità, insomma, si volge ad una persona vicina e dice all'orecchio: «Sai

io mi fido di Dio ».

Pare che egli voglia dire: ho scoperto che Dio è un galantuomo ed io mi fido.

Un'altra volta, con un gesto di dramma, esprime così una sua preghiera a Dio: « Io prego

Dio che faccia con la testa così! (e levava la testa in alto) e non: così (e abbassava

fortemente il viso al suolo).

Intendeva dire che egli pregava Dio che la. sua testa fosse sempre levata alle cose del cielo

e mai inclinata alle cose passeggere di questo mondo.

CAPO XVIII

CON I PROFESSORI DI SANTITA' ...

Beghe sante...

Al tempo di Clemente VIII, i quattro cardinali Bellarmino, Baronio, Tarugi, e Borromeo

Federico, che rifulgevano per una vita più bella, erano chiamati, un po' per spiritosità, un

po' per affettuosa malignità: « professori di timorata coscienza ».

Questo titolo c'è parso bello, fuori però da ogni gioco, per indicare quei personaggi che

hanno messo tutto il loro impegno ad acquistare la santità, come altri a professare altre

professioni umane.

Ed ora giustifichiamo l'espressione: sante beghe.

I santi, prima di essere santi, sono uomini e l'umanità, si modifica, si purifica ed anche si fa

spesso sentire.

La santità inoltre non è una cosa come il vestito che si confeziona e si indossa bello e

completo.

La santità è un vestito che si cuce addosso, punto per punto, ed in questa operazione la

sensibilità non resta estranea.

Prima dunque che si sia arrivati a buon punto, ci sono, ci possono essere, delle... sante

beghe, tra quelli poi che saranno santi perfetti.

Beghe però in buona fede, con buone intenzioni, errori di visuale, attriti di temperamento.

Vedere dunque come se la siano cavata in tante questioni, certi santi e specialmente S.

Filippo, è cosa che diverte utilmente ed istruisce, perché anche in queste circostanze essi

hanno saputo trovare una bella soluzione finale.

Con l'uomo dalla forza di leone. L'episodio più grave di tanti litigi fu quello con S. Carlo Borromeo, che poi era un lottatore

nato.

Erano amici S. Filippo e S. Carlo, anzi ammiratori l'uno dell'altro, e proprio per questa vìa

dell'ammirazione, S. Carlo cercò, per anni, di attirare Filippo ed i suoi a Milano, per

servirsene nel ministero.

Cominciò tosi una schermaglia, una manovra reciproca che si può riassumere in queste

brevi espressioni.

- Venite, P. Filippo, a Milano: starete bene. Tanto pensava e scriveva S. Carlo.

- Vengo, rispondeva Filippo, ma non ora: attendetemi.

- Venite almeno per qualche mese P. Filippo e poi tornerete a Roma.

Page 106: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

- Benissimo! Grazie! Ma ora sono troppo preso. Un giochetto così riassunto durò

moltissimo tempo.

Si trovò, in fine, una via di compromesso: Filippo mandò alcuni dei suoi ma col pensiero

preciso, che pure a Milano, restassero suoi, mentre il Cardinale pensava diversamente.

Il nodo venne finalmente al pettine e S. Carlo s'accorse che i compagni di Filippo volevano

ancora dipendere dal Santo e perciò l'Arcivescovo di Milano, risentito, fa dire a Filippo:

«Vengo che assai differenti sono le intenzioni mie da quelle di codesti Padri. Essi vogliono

dipendere da loro stessi ed io desidero che tutto stia nella mia volontà, non altro volendo io

fare che un sodalizio di uomini pronti ad ogni mio cenno, però di preti dell'Oratorio.

Questa presa di posizione senza equivoci, fece compiere a Filippo un atto risoluto: senza

informare nessuno, neppure il Cardinale, ordinò ai Padri di Milano, che, appena ricevuta la

lettera, tornassero a Roma.

S. Carlo chiamò Filippo in quell'occasione «uomo senza misericordia, senza cuore». Ciò

accadde nel 1576. Restarono tosi i due per sempre? Macché! Erano due santi che avevano

litigato...

Nel 1579, S. Carlo venne a Roma e fu una festa per tutti e due, tanto è vero che il 4 ottobre,

l'Arcivescovo di Milano celebrò la Messa nella Chiesa di S. Filippo e poi restò a pranzo in

comunità, trattenendosi una giornata intera.

Non mancò il solito gioco alla S. Filippo: il Santo fece improvvisare un discorsivo al più

timido dei suoi compagni, Giulio Saviolo che, naturalmente, avrà avuto un gran tremore di

gambe.

Ma le nuvole si addensarono presto, nel 1581, per un caso nuovo in cui vennero a giocare

due fattori: una certa condotta diplomatica di S. Carlo ed un equivoco.

Guglielmo V, duca di Baviera, chiese a S. Carlo due bravi preti, esperti di liturgia, per tener

fronte ai protestanti nel suo ducato.

Chi meglio dei preti del P. Filippo, può lavorare in questo bel ministero? pensava S. Carlo.

Sapendo però gli umori di Filippo, dette ordine al suo fiduciario in Roma di cercare due

preti per quel santo bisogno.

Il fiduciario invece di cercare lui e, come appare da tante circostanze, per suggerimento del

Cardinale, fece designare dal Papa due preti di S. Filippo senza che questi ne sapesse

niente.

Al Pontefice, pensava il Cardinale, Filippo non potrà dir di no, come ha fatto a me.

Il fiduciario si mosse, ottenne tutto e, felice, scrisse a S, Carlo che la commissione era

conclusa bene ed il Papa aveva accolto il suo desiderio ed i due preti dell'Oratorio

sarebbero presto partiti.

Gregorio XIII, ch'era allora Papa, fece sapere a Filippo che i due preti designati

dell'Oratorio andassero a Milano, per poi proseguire per la Baviera.

Il Santo, ch'era restato all'oscuro di tutto, ricevette la notizia come un colpo in testa: in quei

momenti poi la Congregazione dell'Oratorio, da poco nata, avrebbe subìto una grande

perdita con i due preti designati, ch'erano tra i migliori.

Filippo corre dal Papa ed espone con tanta forza la situazione, che il Papa aderisce alla sua

proposta: invece dei due sacerdoti oratoriani, andranno due sacerdoti liberi, ospiti però della

Congregazione in S. Girolamo della Carità.

I due soggetti designati, interpellati, accettano, ma poi si pentono e dicono: noi in Baviera?

Mai più!

Il fiduciario di S. Carlo, quando vide l'affare andato a male, non sapendo dell'intervento di

Filippo presso il Papa, del cambiamento di persone e tutto il resto, montò su tutte le furie, e

scrisse all'Arcivescovo di Milano, presentando Filippo ed i suoi come dei disobbedienti,

come dei ribelli ad un ordine del Papa!

Page 107: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

S. Carlo, credendo ora, di avere il coltello per il manico, scrisse al fiduciario formulando un

atto di accusa contro Filippo ed i suoi compagni, dicendo, che erano di molto delicato

spirito... cioè scrupolosi!

Ma era un fiera ironia e voleva dire che il Santo era di poco spirito religioso.

Il fiduciario avuta la lettera, la portò al Papa, il quale la mandò poi per conoscenza, come

diremmo noi oggi, al Santo, in S. Girolamo della Carità.

Essere accusati di disobbedienza al Papa e da un Cardinale era un colpo grave.

Il Santo però aveva buon gioco, in quanto non si sapeva come le cose erano andate e come

il rifiuto era avvenuto da parte dei due preti liberi, i quali per altro, potevano avere anche

buone ragioni.

S. Filippo, quindi, si giustificò col fiduciario e con San Carlo, che, forse, non fu del tutto

persuaso ed accusò Filippo ed i suoi di «sensualità ».

La parola, nel contesto e nel frasario ascetico, voleva dire attaccamento alle cose sensibili,

ai beni di questo mondo ed ai propri comodi.

Il Santo però senza reticenze non si giustifica, perché non ce n'è bisogno ma ribatte l'accusa

con un'altra accusa al Cardinale e dice: «quanto alla sensualità che dice di noi, mi perdoni

S. Signoria Illustrissima, perché ha nome di essere non solo sensuale, ma ladra e questo lo

diceva il vescovo di Rimini e di Vercelli, e molti altri perché quando può avere un soggetto,

non si cura di scoprire un altare per coprirne un altro: amicus Socrates, amicus Plato, sed

magis amica veritas».

Un bel tiro di Filippo ed un altro... del Cardinale. S. Carlo, perduta ogni speranza di aiuto da Filippo per la sua Milano, fece da sé e fondò un

nuovo istituto diocesano: gli «Oblati di S. Ambrogio », che poi, dopo la morte del fondatore

si chiamarono: «Oblati dei Ss. Ambrogio e Carlo ». Il nuovo istituto era sulle misure, per

dire così, di quello dei preti dell'Oratorio, ma da servire solo per la diocesi di Milano e ciò

fu nel 1578.

L'Arcivescovo scrisse le regole per i suoi Oblati e le portò a Roma: egli voleva udire il

parere di uomini esperti ed ottenerne l'approvazione.

S. Carlo portò le regole prima di tutto a S. Filippo, che egli non aveva mai cessato di

stimare come uomo di spirito, uomo di Dio.

Il Santo però tante ne disse che poté scusarsi, la sua umiltà fu più forte della sua rinnovata

amicizia per il Cardinale.

- Allora, disse tuttavia il Cardinale, Padre, venite almeno con me in carrozza: faremo una

passeggiata e parleremo delle regole per via.

- Sì, Monsignore Illustrissimo, disse il Santo, ma a patto che la carrozza deve portarci dove

voglio io.

Una delle sue, avrà pensato il Cardinale, ma acconsenti. Si arrivò tosi, dietro le indicazioni

date da S. Filippo al cocchiere, ad un convento di Cappuccini detto: «San Bonaventura».

S. Filippo fece chiamare un religioso che oggi noi conosciamo sotto il nome di S. Felice da

Cantalice, ma che allora era un povero laico che sapeva fare due cose solamente: questuare

e curare un poco l'orto: era un tipo ameno anche lui, vero figlio di S. Francesco, ma intanto

era ignorantissimo.

S. Filippo che lo conosceva bene e lo amava, fece chiamare Fra Felice e gli disse come

qualmente il Signor Cardinale di Milano aveva scritto una regola per persone religiose e,

che lui, Fra Felice; doveva leggerla e dire il suo parere.

- Leggerla? Ma io non so leggere...

- Te la fai leggere e ti farai segnare qualche appunto. Durante tutte le fasi precedenti di

questa gita ed il discorso seguito, l'uomo Carlo Borromeo, che poi non conosceva Fra

Page 108: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Felice, avrà avuto voglia di dirne quattro a S. Filippo, ma il S. Carlo fece tacere l'uomo

Carlo ed il Cardinale acconsenti.

Alla conclusione della cosa ed alla partenza di S. Carlo per Milano, si poté vedere che

Filippo s'era diretto bene e l'umiltà e la virtù di S. Carlo furono premiate: Felice, il laico

analfabeta, suggerì delle osservazioni, che un letterato non avrebbe fatto.

Teo da Siena.

Questo nuovo personaggio, oggi così poco conosciuto ma al suo tempo famosissimo, ebbe

dei contatti curiosi con S. Filippo.

Si chiamava Matteo Guerra e quel cognome gli stava bene, perché ebbe a combattere e fece

`bizzarrie di ogni genere.

Iniziò la sua carriera come domestico presso certe suore, per governare gli animali, poi fece

il cuoiaio.

Volle farsi cappuccino ma non fu accettato e, dopo tante vicende, fu preso come infermiere.

In seguito cadde da una scala, si ruppe una gamba e restò sciancato per tutta la vita.

Si dette alla vita spirituale e, lui laico, analfabeta, fondò un istituto religioso di sacerdoti

detto del Sacro Chiodo di Gesù Crocifisso: fondò ancora una Congregazione della Dottrina

Cristiana, un seminario di giovanetti di condizione civile.

Dotò moltissime ragazze povere e le maritò, togliendole al pericolo della prostituzione.

Godette l'amicizia dei più grandi del suo tempo. Fin da giovinetto si rivelò un originale.

Come fattorino e apprendista cuoiaio, mandato dal padrone a comperare della frutta, per

una certa somma, comperò la peggiore che trovò, da un contadinello che gli faceva

compassione.

A tavola, quando l'uomo vide quella frutta, montò su tutte le furie, ma il piccolo Teo non si

perdette d'animo e disse: Maestro, se aveste visto com'era povero quel giovinetto, con le

vesti stracciate, le guance patite! Faceva penai

Io poi immaginai il dolore dei suoi, se non avesse venduto quella brutta merce.

Teo proseguì su questo tono con tanta abilità, che il cuoiaio si placò, gli volle

maggiormente bene.

Andato in casa d'un certo Tantucci, usciva di notte e perché ciò non avvenisse più, il

padrone prese a chiudere la porta di casa.

Teo saltava dalla finestra ed andava via: il padrone ebbe dei sospetti gravi e lo spiò: scoprì

così che andava all'Oratorio di S. Bernardino, dove si faceva la disciplina e si recitavano i

sette salmi penitenziali.

Ecco una delle sue trovate di quando era infermiere nell'ospedale.

Un malato, evidentemente fissato o addirittura pazzo, si era messo in testa di essere morto e

quando gli portavano da mangiare rifiutava e diceva: « i morti non mangiano ».

Se gli facevano osservare che però i morti non parlano, mentre lui parlava, rispondeva che

egli era un morto speciale che parlava per fare intendere ai vivi che era un morto davvero.

Chiedeva inoltre, il poveretto, di essere sepolto.

I medici disperavano di farlo rinsavire ed ecco che a questo punto interviene l'infermiere

Teo.

Fa mettere egli in una bara il malato e lo fa portare in chiesa: in un'altra bara, molto ampia

dove c'erano delle provviste da mangiare, a tarda sera si corica lui Teso, accanto all'altro.

Ad un certo momento della notte, Teo dice al malato oh, quando mi vogliono seppellire

costoro? Io già puzzo di morto e tu che fai?

Il malato alza la testa e dice a Teo:

- Chi sei tu e come ti trovi qui?

- Io sono un morbo ed aspetto che mi seppelliscano. Intanto aveva cominciato a mangiare.

Page 109: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

- Come sei morto e mangi?

- Vedi che sono morto davvero, perché sono nella bara: mangio e così mi seppelliranno più

presto: se tu non mangi, non ti seppelliranno mai: ad ogni modo, io sarò seppellito prima di

te perché mangio: mangia ancor tu per l'ultima volta.

Il pazzo abboccò all'amo, si ristorò, poi si riposò, fu portato al piano di sopra e -poi guarì.

Teo insegna agli spirituali e predica al Papa.

Due volte Teo venne a Roma per difendersi innanzi al Pontefice, perché nemici e molti,

come chiunque fa il bene, ne aveva anche lui.

Teo fece capo a Filippo, l'oracolo di Roma, e ne fu ospite una volta.

Ebbe una sorpresa una sera durante il famoso esercizio dell'Oratorio.

Parlava S. Filippo e tutti erano intenti ad ascoltarlo, ma, inaspettatamente il Santo si levò,

chiamò l'ospite e gli disse

- Teo tocca a voi!

- In che cosa?

- Dovete parlare voi e proseguire il discorso che ho iniziato io.

- Ma Padre, tosi di sorpresa! Non so che dire.

- Su via senza tanti complimenti! Non vedete che tutti attendono?

Teo parlò, e noi pensiamo che ne avesse anche voglia, perché, in quanto a parlantina, era

molto esperto. Dovette aver successo, come argomentiamo dal fatto che ne lasciarono

memoria scritta, dalla quale attingiamo. Un'altra parlata Teo dovette fare dinanzi a Gregorio

XIII, in Vaticano, nel 1585.

Preceduto da grande fama di santità e di fondatore, Teo fu ricevuto dal Pontefice con una

certa solennità: il biografo dice che il Papa era circondato da cardinali.

Gregorio molto umilmente, ad un certo punto dice a Teo:

- Teo, diteci qualche parola di edificazione.

- Grazie, Padre santo, ma io sono un povero ignorante.

- Fa niente! Parlate lo stesso: diteci ciò che Dio v'ispira.

Teo si fece in mezzo e, prima di tutto, chiese ad uno che gli era vicino

- Datemi il libro.

- Quale libro?

- Come quale libro? il libro dico.

- La Santa Bibbia ?

- Datemi il libro che si legge di dentro e di fuori e dal quale traggo tutti i miei discorsi.

Capirono, voleva un Crocifisso e lo portarono.

Teco lo prese, lo fissò profondamente, specialmente nelle piaghe e poi incominciò a

ragionare con tanta profondità del valore del Sangue di Cristo, che si poté vedere come egli

fosse profondamente studioso di quel libro.

Facendo poi cadere a proposito le sue parole, mostrò come tutto ciò che la Chiesa

possedeva era frutto del Sangue di Cristo e come spendendo male il danaro della Chiesa

stessa, destinato ad uso sacro e per i poveri, si profanava quel Sangue prezioso.

Parve un rimprovero, un ammonimento e ci fu chi si offese.

Il Papa, umile, disse: « Questo servo di Dio ha toccato il punto ».

Un incidente con Filippo.

Una sera, dunque, come sempre, forse più del solito, Filippo per far credere all'ospite che

egli non era quel santo che credevano o dicevano, si mostrò particolarmente allegro: rideva

e faceva ridere e parlava con la sua solita libertà.

Page 110: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Teo che s'aspettava chi sa quale colloquio di vita interiore, prima restò disilluso, poi quasi

si scandalizzò e cominciò a pensare: ma questo non è un santo! Sarà, tutto al più, un buon

sacerdote, ma un santo no! E poi anche un buon sacerdote non ride così come ride lui, non

dice favole, non prende in giro la gente, e giù in questa maniera.

Andò turbato a letto Teo, ma Filippo così esperto nel leggere in volto, si accorse, forse,

dalla faccia dell'ospite, del suo cambiamento interno.

Il mattino seguente, Teo si volle confessare, prima della Comunione, come facevano

generalmente tutti gli « spirituali» e si confessò, ma tacque di quei pensieracci che gli erano

balenati alla mente: ma più che pensieri, riteniamo, erano impressioni e non peccati gravi:

non c'era dunque obbligo di confessarli, ma sarebbe stato bene anche accusarsene.

Alla fine della confessione, Filippo chiese all'insolito penitente

- Teo avete detto tutto?

- Tutto, P. Filippo; non ho più nulla da aggiungere.

- No, Teo, non avete detto tutto: completo io la confessione: voi avete fatto cattivi pensieri

sul mio conto. Sciorinò cosi dinanzi al povero Teo, come se ne avesse preso appunti, tutti

quei molesti pensieri e poi concluse tieni a mente Teo: nelle tue confessioni, devi essere

sempre sincero_ senza alcun rispetto umano.

Teo comprese allora che Filippo non solo era un santo ma un grande santo e la loro

amicizia ne fu rinsaldata. Filippo poi compose una... poesia di un solo verso, per tenere

allegro Teo e gli altri, e come incitamento a far meglio.

C'era stata in Siena una santa donna, fondatrice delle suore Cappuccine, e questa suora si

chiamava Passitea. Filippo per mantenere umile Teo gli disse... in poesia ascolta Teo perché

suor Passitea è migliore di te.

Ma ecco la poesia - bisticcio

Odi Tea: Passitea passa Teo!

Tutta la lunga consuetudine di amicizia tra Filippo e Teo si concluse, su questa terra, in

modo meraviglioso. Sulle ore sei del giorno 26 Maggio 1595, secondo il computo antico,

Teo dormiva in Siena, quando ad un momento vide arrivare Filippo, il cui volto gli era

familiare, sostare nella sua camera, lieto, paterno, secondo il solito, come chi arriva per un

commiato.

Il Santo disse semplicemente: la pace sia con te o fratello! Addio. Io me ne vado in luogo

migliore, addio.

Teo, nato il 1538, mori all'età di 63 anni ed andò anche lui in luogo migliore.

Con Federico Borromeo.

Federico, nel 1586, nella sua venuta a Roma, fu preso da una grande malinconia: egli non

era ancora cardinale. La dimora nella città eterna e la vita che si faceva in curia lo

annoiavano a morte e perciò bramava di ritirarsi nella solitudine del lago Maggiore, dov'era

il ben noto castello dei Borromeo e là dedicarsi allo studio ed alla pietà. Tra quello che egli

sentiva e quello che gli dicevano le persone attorno a lui, si trovò in una grande perplessità,

in una tenebra interiore.

Nel suo incontro con Filippo,egli versò nel cuore del Santo la sua amarezza.

Filippo comprese che se il giovane si andava a rinchiudere nella solitudine, ad immergersi

negli studi, era perduto: restando invece a Roma, avrebbe potuto realizzare una vita di

studio e di pietà, ma anche di attività benefica. Il Santo parlò dolcemente: Federico

comprese, si acquietò al consiglio e riprese la sua gioia: fu una prima vittoria.

Federico fu fatto poi cardinale e siccome era l'ora di mandare un altro arcivescovo a

Milano, la scelta cadde sul cugino di S. Carlo.

Page 111: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Federico ne fu terrorizzato: di andare arcivescovo a Milano, di prendere una così grande

responsabilità, non se la sentiva.

Anche questa volta, il giovane cardinale chiese aiuto e conforto a Filippo ed il Santo gli

suggerì di fare l'obbedienza.

Per dargli sicurezza e conforto ancora, gli consigliò che quella mattina, celebrando la

Messa, giunto alla consumazione, si fermasse alquanto e facesse al Signore questa protesta:

«Tu vedi, o Signore, che io non vorrei questo carico sulle mie spalle: Tu lo vedi. Se me lo

dai, io Ti chiamerò nel giorno del giudizio e Tu mi dovrai rispondere, mi scuserò di tutto

ciò di cui Tu mi accuserai e tu, non io sarai obbligato a rispondere».

Cosi pregò Federico e, confessa egli stesso, ne ebbe conforto e consolazione.

Filippo ebbe tosi il merito di dare a Milano un altro grande e santo arcivescovo, emulo di S.

Carlo.

Nella sua nuova condizione poi, e con la larghezza di mezzi che aveva Federico, poté dare

sfogo alla sua passione per gli studi e fondare e condurre a buon punto la grande

Bibblioteca Ambrosiana, che lo onora più che se avesse scritto molti libri.

CAPO XIX

SAN FILIPPO RIDE GIOCA CON PERSONAGGI D'ALTA STATURA

La sputacchiera.

S. Filippo ebbe contatti, e non fuggevoli, con persone di ogni classe e condizione: artigiani,

operai, servi, e con tutti se la cavò magnificamente, riuscendo a renderli più buoni.

Con i grandi egli trattò con dignità, senza mai adulare e seppe anche più di una volta essere

fiero e coraggioso. Diamo solamente alcuni di questi incontri con grandi. Ottavio

Paravicino, di nobilissima famiglia, era stato presso Filippo da giovanetto e fu alunno di

Baronio.

Fatto adulto e diventato cardinale, viaggiò, stette in missione nella Spagna e trattò con le

più grandi personalità del tempo.

Tornato a Roma, suo primo pensiero fu di visitare il Santo, ora molto vecchio ed ammalato.

Non appena Filippo lo vide, dopo i primi complimenti, gli disse

- Ottavio, desidero conferire con voi, ma quando tosso ho bisogno di sputare. Vorrei

dunque che mi pigliaste la sputacchiera.

- Padre mio, ciò è per me sommo favore e vostra riverenza mi fa troppa grazia.

Le lenticchie e una ciambella. Un altro grande prelato, Michele Bonelli, nipote di San Pio V, detto più comunemente il

Cardinale Alessandrino, offrì un pranzo ed invitò anche Filippo.

C'erano molti prelati e dignitari di riguardo, che avevano portato i loro servi, perché allora

questi grandi personaggi avevano tutti una piccola corte.

Filippo aveva fatto preparare una pignatta di lenticchie dal cuoco e, venuto il momento di

andare al banchetto, la fece avvolgere in un panno e l'affidò ad uno che l'accompagnava.

Quando Filippo giunse, la sala era piena, ed egli, dopo aver salutato col cenno del capo, si

accostò disinvoltamente alla tavola e mise il fagotto nel bel mezzo tra le argenterie ed i vasi

scintillanti: poi svolse la pignatta, che apparve nera, panciuta, brutta in mezzo allo

splendore della tavola.

Molti dettero segno di disgusto, e, forse, qualcuno disse parole di deplorazione, mentre

quelli che conoscevano Filippo se la godevano un mondo e ridevano.

Il cardinale si portò da gran signore ed uomo di spirito, mise il cucchiaio nella pentola portò

le lenticchie alla bocca e disse:

- Squisite, squisite l Non ho mai mangiato in vita mia un piatto come questo.

Page 112: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Anche gli altri, per non parere da meno, si servirono le lenticchie ebbero un momento di

gloria ma Filippo fu deluso nel suo pensiero di essere disprezzato.

Un'altra volta pure, Filippo andò con un bel numero dei suoi spirituali, alla casa dello stesso

Alessandrino. Alla fine della visita, come fanno certi accattoni, che conducono due o più

fanciulli per muovere a compassione, disse al Cardinale:

- Monsignore illustrissimo, vorrei da voi qualche cosa per dare a questi figlioli... Non

vedete voi come sono sfiniti? Pare che vengano meno.

- Certo, certo, P. Filippo! C'è anzi in quella dispensa una torta abbastanza grande e pare

mandata apposta dalla Provvidenza.

- Evviva, evviva monsignore illustrissimo, gridarono parecchi che sapevano come tener

bordone al Santo in questi giochi.

- Grazie, disse Filippo e, col fare dei bimbi capricciosi, quando sono finalmente contentati,

aggiunse: questa, questa volevo io.

Fatte le parti, qualcuno cominciava a mangiare con la fame finta di tre giorni, ma il P.

Filippo intimò:

- Non qui, non qui, ma fuori.

Uscirono e così tutti ben disposti dietro l'esempio del capo, cominciarono ad addentellare la

loro porzione, mentre ognuno diceva la sua.

- Che bellezza! ...Squisita!... Ce ne vorrebbe un'altra. Quelli che passavano, si fermavano a

guardare e ognuno diceva la sua.

- Guarda quel P. Filippo: ne inventa ogni giorno una nuova... Hanno buon tempo questi

spirituali... Se avessero a che pensare! Sembrano pazzi autentici.

Qualcuno che non sapeva ed era nuovo a quelli spettacoli domandava al vicino

- Sono zingari? Sono pezzenti? Di dove sono sbucati? Non sappiamo fino a che punto

quella torta rifocillò lo stomaco degli spirituali, ma, certo, rifocillò lo spirito di quel buon

umore che, spesso fa più bene del cibo materiale e di cui v'è bisogno.

Ordina ad uno di farsi beffare. Intorno al 1590-91, quando il Santo era già molto vecchio, ma la vena del suo umorismo

era sempre fresca, un giorno, si trovavano con lui alcuni giovani, tra i quali l'abate

Crescenzi, Marcello Vitelleschi e Pietro Aldobrandini. Ora Filippo sapeva, per intuito o per

lume superiore, non ci importa, che lo zio di Pietro, Ippolito Aldobrandini, sarebbe stato

papa e che quindi il nipote Pietro sarebbe stato presto cardinale, come era uso a quei tempi.

Ora Filippo chiamò Pietro e gli disse:

- Senti, Pietro, tu devi andare dai tuoi compagni là dentro e dire con una certa aria di

sostenutezza e di superiorità: il P. Filippo mi ha detto che io vi dica che fra poco voi tutti mi

avrete a dare dell'Illustrissima e riterrete un grande favore parlare con me.

- Ma Padre, questo non va! Non lo posso... risparmiatemi... Mi canzoneranno e crederanno

che io dica ciò di iniziativa mia e che io sia un ambizioso.

- Va, te lo comando. Per obbedienza sai...

Andò, ma di malumore, proprio per venerazione a Filippo.

Ripetette parola per parola quanto il Santo gli aveva comandato.

- Oh! oh! oh! Quando l'hai sognato? o Borse hai bevuto?

- Sciocco, stupido.

- Presuntuoso, imbecille.

- Fanatico.

- Me l'ha comandato Filippo, vi ripeto: domandatelo a lui, diceva Pietro sconfortato.

- Il giorno che tu dici, non verrà mai: consolati: noi ti tratteremo peggio di ora, sempre.

Page 113: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

E la commedia finì allo sciogliersi della brigata e Filippo rise più di tutti. Forse, quei

giovani ripeterono a casa il bel gioco ed ancora là si rise, ma il fatto ebbe un seguito non

molto tempo dopo.

Alcuni giorni dopo questa gazzarra, innanzi a Pietro, il P. Filippo parlando come a se

stesso, per rammaricarsi di un'umiliazione, di una brutta figura, borbottava

- Guarda a che san costretto io, nella mia vecchiaia dovrò dare dell'illustrissimo a costui!...

Io vecchio ad un ragazzaccio... Mi poteva capitare di peggio?

Pietro comprese: era la stessa beffa ordinata alcuni giorni prima e inghiottiva amaro,

torcendo la bocca.

Era tempo di Sede vacante e di conclave per eleggere il nuovo papa.

Passarono alcuni giorni e fu eletto il cardinale Ippolito Aldobrandini che prese il nome di

Clemente VIII.

In breve spazio, come usava generalmente in simili circostanze, Pietro fu creato cardinale

ed, in quello stesso momento, fu cominciato a chiamare illustrissimo signor cardinale Pietro

Aldobrandini.

Un personaggio un po' pericoloso.

S'era al tempo di Paolo IV, Caraffa, nell'anno 1559. La guerra con la Spagna aveva messo

divisioni, rancori anche in Roma, mentre proseguiva accanita la lotta del protestantesimo,

per penetrare sempre più profondamente nel cuore della Chiesa.

Il Pontefice, sempre in allarme, pensava a come arginare la corrente protestante: si

inasprirono le misure di ogni ordine, furono severamente vietati gli assembramenti. Poiché

era prossimo il tempo della visita alle Sette

Chiese col suo gran movimento di popolo, ci furono dei nemici che formularono accuse e

fecero insinuazioni e dissero anche calunnie.

- Che sta a fare quel Filippo di San Girolamo col suo Oratorio? Con le sue conventicole?

Con le sue visite alle sette Chiese? E poi quelle prediche di laici, quei finti convertiti, che

fino a ieri hanno fatto una vitaccia... Tutto ciò non è chiaro! Gatta ci cova.

Queste ed altre voci fatte circolare abilmente, arrivarono all'orecchio di Virgilio Rosario,

cardinale di Spoleto, al quale Paolo IV aveva dato ogni autorità.

Virgilio Rosario era, per dire così, come un gran fuoco acceso: soffiandoci dentro

produceva un incendio e così avvenne per Filippo.

Circolarono altre voci sinistre: Filippo è stato chiamato dal giudice... La visita alle Sette

Chiese si farà o non si farà?... Pare che i Superiori abbiano scoperto cose gravi

dell'Oratorio.. Si parla anche di false dottrine!... Qualcuno aggiungeva: Filippo è stato

arrestato e non si sa dove l'abbiano cacciato.

C'era del vero e del falso in queste voci ed il vero era che Filippo ora si trovava sospettato,

vigilato, come un cattivo.

Ad un bel momento, il Santo fu chiamato dal cardinale Rosario, il quale, abilmente

ingannato, gli contestò le accuse come se fossero fatti provati.

- Voi adunate gente, disse egli in sostanza, per acquistarvi favore popolare, procacciarvi

prelature, e tutto ciò sotto apparenza di santità... Voi siete un ambizioso e fate setta.

Il Santo, dinanzi a quell'uomo al sommo dell'irritazione, e che aveva anche il potere di vita

e di morte sopra di lui, si volse ad un Crocifisso e, con grande coraggio, come se vedesse

Gesù in persona, nella sua fede, disse: «Signore tu sai se quello che io fo, lo fo per far

setta».

Era l'appello ad un giudice superiore.

Page 114: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Il Cardinale, per niente placato, dette una sentenza preliminare: niente più Visita alle Sette

Chiese: niente adunanze nell'Oratorio: niente assembramenti per via, ed essere sospeso per

quindici giorni dalle confessioni.

Anche a queste pene egli dette una risposta degna di un sacerdote che, pur innocente, mette

l'ubbidienza ai superiori prima di ogni cosa, e disse: «Per gloria di Dio ho cominciato a fare

questi esercizi e pure per gloria di Dio sono pronto a lasciarli».

Rosario però non si dette per vinto ed avrebbe proseguito nella sua linea di severità cruda,

come risulta da varie circostanze della narrazione, se non si fosse verificata cosa che

parrebbe incredibile e che è riportata da testimoni autorevolissimi.

Mentre i più coraggiosi seguaci di Filippo si trovavano all'Oratorio, ben chiuso come i

primi cristiani nelle catacombe, appare in mezzo ad essi, non si sa come entrato, un prete

mai conosciuto prima, mai visto, e strano nelle vesti e nel volto.

«Aveva una cintura di corda, osserva Domenico Giordani, di statura ordinaria, con la barba

nera, magro, bruno»: una figura di asceta.

Egli, senz'altri complimenti, disse che la persecuzione sarebbe presto cessata e che Rosario

sarebbe morto fra quindici giorni.

Il terribile Segretario di stato, il 22 maggio 1559, con un fascio di carte sott4o il braccio, si

recava a riferire al Pontefice: si piegò su se stesso repentinamente, vomitando sangue

nell'anticamera di Paolo IV e perdette immediatamente i sensi.

Fu preso, portato nel suo appartamento, ed allora si vide che non si trattava di perdita di

sensi, ma di morte. Dopo la morte di Rosario tutto cambiò: il Papa riconobbe l'innocenza di

Filippo, gli fece sapere che poteva andare alla Visita delle Sette Chiese, poteva confessare,

riprendere la sua missione e si raccomandava alle preghiere di lui. Gli mandò due candele

della candelora, di quelle riccamente dipinte dell'anno 1558, dolente di non poter

partecipare alla Visita delle Sette Chiese.

Marcello Ferro, uno dei presenti alla scena, riferì anche le parole del Papa e portò il dono.

Era un modo di chiedere umilmente scusa a Filippo da parte del Pontefice.

Filippo in prigione...

Un giorno corse, per il rione, la notizia sussurrata all'orecchio, tanto essa pareva impossibile

e tanta era la venerazione per l'infaticabile prete, che Filippo era stato imprigionato.

- Sai, confida uno ad un altro che gli veniva di contro, che Filippo è stato arrestato e messo

in prigione?

- Quale Filippo?

- Filippo dico, il P. Filippo, Filippo di Santo Jeronimo.

- Impossibile.

- Eppure lo dicono quelli che hanno visto: così mi è stato riferito.

- E perché quest'arresto?

- Perché? E' incredibile, ma così han detto: perché preso in casa di una donna.

- Va! Ciò non solo è incredibile, è impossibile. - Andiamo a Santo Jeronimo.

Andarono, andarono anche altri e trovarono nel confessionale Filippo sereno, col volto

luminoso di un angelo.

Com'era nata la storiella? Un aiuto sagrestano, un sotto sagrestano, come dice il teste

Antonio Gallonio, che faceva appunto servizio nella Chiesa di S. Girolamo, e si chiamava

anche lui Filippo, fu trovato in una di quelle case....

Filippo... spretato e apostata.

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Nei brutti tempi dei quali trattiamo, c'erano molti religiosi che, entrati o messi in religione

dai parenti senza vocazione, senza disposizione alcuna, per intenti umani, finivano poi

quasi sempre malamente, per vie diverse.

Questi disgraziati, nella condizione in cui si trovò la così detta Monaca di Monza, ad un bel

momento, tagliavano la corda, calpestando i voti ed ogni altra virtù e divenivano apostati.

Si abbandonavano poi ad ogni eccesso.

Talvolta, quando potevano, cercavano di entrare nel clero secolare o seguivano altre

avventure.

Ci fu un provvedimento contro di essi nel 1558, e cioè che dovevano essere ricercati e

incarcerati.

Un bel giorno, un certo numero di sbirri, al comando di un bargello, come allora si diceva,

cioé un ufficiale, trovandosi in perlustrazione alla ricerca di cattivi soggetti, irruppero nella

Chiesa di S. Girolamo.

Non c'erano altri preti in quel momento, ma solo Filippo che sedeva al confessionale.

Il bargello ed i suoi, forse per insinuazione precedente, lo fissarono e pensarono che quel

prete potesse essere uno dei ricercati.

Filippo, vistosi preso di mira, si levò e disse semplice - Che volete, che cercate?

Il bargello, esperto conoscitore di cattivi soggetti, sapeva bene come costoro si tradiscono,

si agitano quando sono solo interpellati, scorgendo un viso luminoso di bontà, comprese di

aver preso un granchio, rispose semplicemente

- Niente, signore. Ed andò via.

Incontro con un galantuomo.

Il cardinale Morone, uno dei migliori del Sacro Collegio, un giorno tutto pensoso incontra

Filippo circondato da un bel gruppo di devoti che si recavano in qualche sacro luogo.

Nell'atmosfera di quei tempi agitati, carichi di sospetti, il buon Cardinale ritenne che quel

gruppo potesse essere di persone poco raccomandabili.

Un prete, fra tanti laici, non faceva buona impressione, per i pregiudizi appunto di quei

momenti storici.

Egli fermò Filippo e lo trattò da ambizioso, da trafficante e disse su per giù: invece di

andare in giro con delle persone, per fini egoistici, fareste meglio a starvene in casa, in

chiesa, a studiare...

Filippo che si sentiva sicuro, nella sua innocenza, dette ogni spiegazione al prelato, che

restò soddisfatto e tutto finì là.

Se Filippo avesse parlato ancora un poco, il cardinal Morone che era un galantuomo, si

sarebbe unito anche lui al piccolo gruppo, e questa non sarebbe stata la prima volta...

Un vigilato speciale che conquista chi va a vigilarlo. Filippo ebbe grande venerazione per S. Pio V, prima e dopo la morte di questo grande

Pontefice, e ne serbava due reliquie: una pantofola ed una berretta.

Pio V, che non poteva seguire da vicino il Santo, ascoltava quello che dicevano di lui e

naturalmente gli capitò di ascoltare persone che si spacciavano per gente da bene

il Papa perciò era obbligato ad indagare.

- Santo Padre, dicevano fra le altre cose al Papa, quel Filippo Neri va sempre con un

codazzo di persone per Roma...

- L'avete visto voi?

- Lo vedono tutti, e tutti i santi giorni dell'anno, e fosse solo questo.

Page 116: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

- In quelle riunioni dell'Oratorio, un po' segrete, un po' pubbliche, si dicono errori,

sciocchezze senza fine. L'oratore un giorno disse che S. Apollonia, per sete di martirio, s'era

gettata volontariamente nel rogo. Quindi era una suicida.

- Bene, bene, disse il Santo Padre, provvederò io, e provvederò subito.

Fece chiamare il P. Paolino Bernardini e gli disse: Sentite, fra Paolino, voi dovete andare ad

ascoltare all'Oratorio di quel tale Filippo Neri quei poveri uomini, che ne dicono ogni

giorno di più grosse, e poi dovete riferire a me non fate parola di questa commissione:

serbate il silenzio più assoluto.

Ubbidirò, Beatissimo Padre, da domani sera stessa comincerò a frequentare l'Oratorio, in

modo che nessuno noti la mia presenza.

Fece chiamare poi il Pontefice un altro domenicano, Fra Alessandro Franceschi, forte anche

lui in teologia e scienze ecclesiastiche, e gli dette lo stesso incarico, come all'altro.

I due però non sapevano l'uno dell'altro ed, inoltre, andavano prevenuti.

Si trovarono là senza essere sospettati, comparve l'oratore del giorno, il quale fu

brevissimo, egli ripeté la storia di S. Apollonia, storia ch'era servita di pretesto, per dare un

esempio dell'ignoranza degli oratori.

L'oratore si riferì al discorso precedente e precisò come S. Apollonia si gettò nel rogo senza

aspettare di esservi gettata, per impulso dello Spirito Santo.

I due già conoscevano Filippo e furono stupiti della precisione di dottrina e riferirono al

Pontefice quanto avevano visto: aggiunsero anzi che mai nell'Oratorio si era detta o fatta

cosa men che lodevole.

I domenicani divennero propagandisti dell'Oratorio e gli apologisti di Filippo e Fra Paolino

volle anzi ricopiare l'istituzione di Filippo e fondare in Lucca, sua città natale, un

movimento come quello di Roma e si servì perciò di un santo sacerdote che fu in seguito S.

Giovanni Leonardi, del quale avremo a dire altro, pur brevemente, in seguito.

Filippo armato di pugnale.

S'era al tempo del Pontefice Gregorio XIV, e, brigantaggio e carestia aumentavano.

Filippo soffriva e pensava che ci fosse bisogno di più rigore contro i cattivi, specialmente

contro i briganti ed i cattivi amministratori e che si facessero arrivare, ad ogni modo, viveri

almeno sufficienti, se non abbondanti.

Per dare una dimostrazione più efficace sulla sensibilità del Pontefice, egli prese uria

pagnotta di pane ed un pugnale, li nascose sotto la tonaca e via a Palazzo.

Quando fu innanzi al Pontefice, mise fuori il pane e fu grande meraviglia perché il Papa

non ne aveva bisogno né per pranzo né per la cena: Gregorio non si stupì neppure troppo,

conoscendo le altre imprese di Filippo.

Un attimo dopo aver messo fuori il pane, Filippo mise fuori il pugnale... Chi dà la breve

notizia non aggiunge altro, ma il Papa, quando vide quel gesto, si dovette domandare se il

suo santo amico non fosse impazzito e forse, chi sa, ebbe un po' di paura.

Ma bastava guardare la faccia del Santo per rassicurarsi e ridere.

Ad ogni modo, Filippo fece comprendere, col suo piccolo dramma, con molta più efficacia

delle parole, che c'era bisogno di viveri e di giustizia.

L'uomo dal perfetto equilibrio. Pur fra tante stranezze, Filippo fu un uomo di perfetto equilibrio e questo equilibrio

concorreva alla sua festività. La mancanza di equilibrio nella vita, più o meno, fa sbattere la

persona di qua e di là come certi sugheri nell'acqua agitata.

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L'equilibrio perfetto del Santo si può vedere in tutte le sue cose, ed anche nelle sue grandi

opere, ma riluce di più nelle piccole cose, come quelle che dimostrano la sua cura nel tener

conto anche di piccolezze spesso trascurabili.

Egli, per esempio, mostrava questo suo equilibrio anche nel vestire: non gli piaceva la

sudiceria di certi penitenti antichi, colpa, per altro, dei tempi ed aborriva, inoltre, ogni

ricercatezza ed aveva questa norma di S. Bernardo

« Paupertas mihi semper placuit, sordes numquam » - sempre mi è piaciuta la povertà, mai

la sorditezza -. C'era tra i seguaci del Santo, un giovane intelligente e buono, un tale Luigi

de Torres, che fece poi lunga via ed arrivò ad essere cardinale.

Egli, un po' per costume del tempo, un po' per la sua età giovanile; vestiva molto bene e

riteneva che la veste semplice di Filippo, di saia di Gubbio, col suo mantello di buratto di

Bergamo fosse poco conveniente ad un tanto Uomo.

'Allora anche gli ecclesiastici eleganti e ritenuti distinti, oltre le vesti più o meno costose,

imitavano i laici in certe ricercatezze e così avevano la camicia con i polsini, non sappiamo

se con o senza gemelli...

Il biografo di S. Filippo, più ricco di particolari, nota che il Santo era ben lontano da questa

forma di ricercatezza e la camicia non appariva mai intorno ai polsi.

Or il buon Luigi pensò di fare una bella veste al suo caro P. Filippo. Chi sa, pensava egli,

come il buon vecchio sarà contento.

Un giorno, prese un gruzzoletto di danaro e andò all'Oratorio, col proposito di uscire poi a

comperare la stoffa e portarla a Filippo alla fine delle pratiche serotine.

Egli pregustava e masticava la sorpresa del Santo, la sua gioia e godeva in anticipo della

piccola festa che Filippo gli avrebbe fatto.

Ma sia che altre volte Luigi avesse fatto osservazione al Santo per il suo modo di vestire,

sia per un fenomeno di telepatia, sia per quella intuizione degli uomini di genio, Filippo

conobbe il gesto che voleva fare il suo figliolo spirituale, ma disse niente.

Lasciò che andasse all'Oratorio tranquillamente, ma dopo lo chiamò e gli disse:

- Luigi, vieni con me un momento in camera mia. - Subito Padre.

Filippo andò innanzi, si diresse all'armadio che fungeva da guardaroba e puntando il dito

nell'interno dell'armadio disse:

- Vedi che non mi mancano le vesti.

L'altro restò di stucco, anzi male come quando si sbaglia un colpo.

Il Santo però mise dello zucchero in questo suo rifiuto ed aggiunse:

- Non voglio che tu faccia spesa per me, sai perché? Perché non ti voglio essere di gravame.

Da una e dall'altra parte, dunque, uno . stesso motivo di amore nell'agire.

La festa del dono ci fu lo stesso, anche senza il dono.

CAPO XX

I PIU' AMATI E MEGLIO MALTRATTATI

Da cortigiano... a ben altro. Non tutti quelli che avvicinavano Filippo erano trattati indiscriminatamente: essi erano

curati uno per uno, come il medico fa con i malati, con un disegno prestabilito ed una

finalità precisa.

Tratteremo, in questo capo, di quei suoi seguaci più vicini a lui e più amati e che i biografi

chiamano suoi « compagni ».

Il primo, per ordine di tempo, e più in vista, fu Francesco Maria Tarugi nato a

Montepulciano nel 1525.

Era nobile, parente dei due pontefici Giulio III e Marcello II, ed aveva qualità personali

meravigliose. Bellissimo di persona, era elegante ed un parlatore affascinante: indossava

Page 118: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

quasi sempre un mantello di velluto: aveva grandi aspirazioni, ma umane: Filippo, non ap-

pena lo conobbe, gli mise nel cuore un ideale ben più grande, perché comprese quali tesori

aveva quell'uomo sotto quelle esteriorità di mondano.

Generoso com'era, Francesco Maria avrebbe subito voluto seguire Filippo, ma glielo

impediva un laccio, un legame sentimentale.

- Sta tranquillo, gli disse un giorno Filippo, se tu non puoi incamminarti per la via che ti

indico, per questo tuo legame, non passerà un mese e tu sarai libero.

Entro il mese la donna mori.

Pazzo prima per una donna, s'intruppò in una nuova specie di pazzi: Filippo cominciò

presto la cura di lui per una guarigione completa.

Prima di tutto, contrariamente a quello che si credeva o che lo stesso Tarugi si aspettasse,

Filippo volle che egli seguitasse a portare la sua veste di elegantone, pur ora spirituale ben

noto.

Ricordate la gloriosa... storia del cane « Capriccio »? Filippo ordinò a Francesco Maria,

come il più robusto, di portarlo in braccio per Roma, più spesso degli altri, e fu Francesco

Maria che maledisse il cane in versi, ed augurò alla gatta di crepare presto.

Gli antichi compagni del nuovo spirituale, conoscenti ed amici, cortigiani, vedendolo per le

Per le vie della città vicino a Filippo, in quella guisa, dicevano:

- Vedi Francesco Maria che fa il bigotto e porta in braccio quel grosso cane? Io lo ricordo

quando era militare nelle Marche, tutto fiero nella sua veste, bello e maestoso come marte...

A che s'è ridotto!

-- Io ne so una più bella, diceva un altro. Un tempo era innamorato cotto di una dama... e

passava continuamente sotto le sue finestre e non aveva pace e fu preso da una malinconia

che pareva voler morire tisico.

- Ma questo non è tutto, aggiungeva un terzo, quel matto di Filippo non solo l'ha cambiato

in governatore del cane, ma lo manda a spazzare negli ospedali, a lavare le scodelle dei

malati ed a fare altri mestieri simili.

Qualche altro diceva ancora:

- Quella che vi dico è fresca fresca: in quella stanza che chiamano l'Oratorio, Francesco

Maria aveva avuto un giorno l'ordine di fare un discorsetto in cui dimostrare l'utilità e

nobiltà della sofferenza. Voi sapete che Francesco parla benissimo e fece un discorso che si

poteva scrivere. Sul più bello, mentre gli ascoltatori erano rapiti, estatici, si sentì un rumore

come di sedia smossa, poi si sentirono colpi di tosse ed altri disturbi che si seguivano.

L'oratore cercò di superare il disturbo, non badandoci, e cercando di tener ferma

l'attenzione. Macchél Si udirono dei ciaf, ciaf, ciaf, come rumori di grossi schiaffi. Che

succedeva? Filippo, in fondo alla sala, con la palma della mano, percuoteva un pilastro e

faceva quel chiasso e ciò durò fino alla fine e, forse, Francesco Maria abbreviò il suo

discorso a bella posta. Non appena l'oratore si mosse dal luogo di chi parla, andò lui, quel

Filippo, e disse su per giù: nessuno della nostra Congregazione ha ragione di gloriarsi come

se avesse sofferto qualche cosa: dopo tutto, proseguì, non c'è nessuno qui che abbia sparso

una goccia di sangue per amore di Cristo; anzi seguendo lui noi abbiamo riportato onore e

riverenza. Filippo insomma fece fare una figuraccia a quel povero Francesco Maria. Vi par

modo questo di trattare quell'uomo?

- E Francesco Maria non si offese?

- No, stava tutto compunto come per dire: sono un colpevole, un peccatore.

- Se fossi stato io, intervenne a dire un altro, non mi sarei tenuta l'offesa: avrei reagito, non

so che avrei fatto, ma non avrei subito quella brutta figura!

- Se fossi stato tu, merlo, riprese il primo che, evidentemente la sapeva più lunga di tutti, se

fossi stato tu al posto di Francesco Maria, ti saresti messo a piangere e avresti ringraziato P.

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Filippo. Tu non lo conosci quell'uomo! Egli fa diventare agnelli i leoni. Ti basti sapere che

ha fatto diventare un medico libertino e prepotente, un divotello umile come un sagrestano.

Uno che perde la nave e trova la vita. La vittima principale, il bersaglio preferito di Filippo, fu un uomo grandissimo la cui gloria

da limiti ristretti della Congregazione dell'Oratorio e della città di Roma, sconfinò nel

mondo della cultura universale.

La gravità dei giochi di Filippo non si potrebbe misurare se non si conoscessero alcune

linee ed alcuni episodi di questo uomo - bersaglio - Cesare Baronio, da Sora, nato nel 1538

e morto il 1607.

Era andato a Napoli, giovane diciasettenne, per studiare legge ma, timoroso di torbidi di

guerra, decise di trasferirsi a Roma, noleggiò un posto in una imbarcazione.

Il giorno fissato della partenza, con una grossa valigia sdrucita, il giovine arrivò al molo e

chiese

- Dov'è la nave che doveva partire a quest'ora per Roma?

- La nave diretta a Roma, giovinotto, è partita che saranno dieci minuti. La vedete là sulle

acque un pò distante? Voi siete in ritardo.

- Accidenti, disse lo studentello! Sono in ritardo, ho perduto così il mio danaro..., e dire che

ne ho tanto poco! Ci voleva anche questa!

- Guardate, c'è un altra imbarcazione che parte tra poco: potrete approfittare di quella.

- Se non c'è altro da fare, pazienza.

- Passarono alcuni giorni e si seppe che la prima imbarcazione aveva fatto naufragio e tutti

gli uomini erano annegati.

Fu questo il primo episodio di un grande destino: aveva perduto il prezzo del nolo, ma

aveva guadagnata la vita.

Futuro grande ingegno ma gid grande cuore.

A Roma, prestissimo, Cesare cadde nella rete di P. Filippo ed intraprese la nuova vita

spirituale con tanto entusiasmo che non pensò più ai famosi studi di legge che avevano

montato la sua testa ed esaltata la sua speranza. Un giorno, il giovane ascoltava una predica

nella Chiesa di S. Giacomo degli spagnoli ed il predicatore raccomandava alla pietà dei

fedeli una famiglia poverissima: portate, diceva egli, danari, scarpe vecchie, vestiti usati,

biancheria... hanno bisogno di tutto quei poveretti.

Cesare va a casa, prende le sole tre camicie che ha, le involge e le consegna in sagrestia al

predicatore.

Il predicatore, ch'era quel frate Lupo dal cuore di agnello, si commosse quando Cesare gli

disse che non aveva altro e che tutta la sua biancheria erano quelle tre camicie.

Il Lupo, dissimulando la sua ammirazione, chiese tante notizie al giovanotto e, piano piano,

con finto disinteresse, gli cavò di bocca tutte le notizie che credette necessarie.

L'indomani, frate Lupo, nella predica narrò al popolo l'episodio e l'offerta delle tre camicie,

descrivendo la figura del donatore, tozzo, alto, bruno, con i capelli arruffati e ne fece

l'elogio.

Cesare anche quel giorno era al suo posto di uditore e quando udì le parole di frate Lupo

per poco non gli scoppiò il cuore, si fece rosso rosso e fuggi via come un ladro.

Il predicatore delle pene infernali. Diventato assiduo frequentatore dell'Oratorio, Cesare ci si sentiva tanto bene come un pesce

nell'acqua: era felice, tutto inteso ad udire le prediche e tener gli occhi fissi sull'oratore.

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Una sera l'oratore non si vede e il posto è vuoto: Filippo s'accosta a Cesare e gli dice

imperioso

- Cesare vai innanzi e parla tu, questa sera. Era l'anno 1558 e Cesare stava in Roma da

meno di un anno.

- Ma, Padre, io?... lo non so parlare. Non seppe dire altro mentre le fiamme salivano al viso

e le gambe tremavano.

- Va ti dico! E non più parole.

Come per un miracolo, appena arrivato al posto dell'oratore e dette le prime parole o meglio

balbettate le prime parole, trovò la via e, pur rozzamente, espresse bellissimi pensieri.

Una volta rotto il ghiaccio, ottenne facilmente di farsi ascoltare con interesse ma diceva

sempre cose orribili e parlava di morte, giudizio, inferno, eternità.

Siccome egli sentiva quelle verità, riuscì sempre efficacissimo: la sua fantasia giovanile poi

aiutava ciò che egli aveva raccolto dai libri.

Parlando una volta, per esempio, dell'eternità delle pene, disse così: se ad un dannato fosse

detto che doveva restare nell'inferno, finché una formica passando e ripassando per un

ponte di ferro non avesse consumato quel ponte, e poi sarebbe andato in Paradiso: quel dan-

nato sarebbe stato subito felice pur dovendo aspettare miliardi di anni. Neppure allora però,

concludeva Cesare, l'inferno sarebbe finito!

Pur in queste nere immaginazioni, Filippo che studiava il giovane intensamente, comprese

che egli aveva un cervello straordinario, ed era un uomo eccezionale.

Fu questa grande scoperta di Filippo un avvenimento grande nella storia della cultura

umana.

Spunta lo storico. Non era passato molto tempo da quando Cesare aveva iniziato la sua nera predicazione, che

Filippo lo chiamò e gli disse reciso:

- Cesare, da domani sera in poi, nell'Oratorio tu comincerai a parlare di storia della Chiesa e

parlerai ogni sera: è ora di finirla con le tue prediche: ci fai morire tutti di spavento.

Per una illuminazione grande, soprannaturale, Filippo aveva compreso che, in quel periodo,

era necessaria una grande storia della Chiesa da opporre alla colossale falsificazione storica

protestante, sotto il nome di Centurie di Magdeburgo.

Filippo era sicuro che Cesare sarebbe diventato il grande storico della verità, ma egli non lo

disse a Cesare quel cervellaccio aveva bisogno di essere affinato, preparato lentamente.

Anche per questo nuovo compito Cesare si oppose, ma le sue opposizioni s'infransero

contro la volontà di Filippo. Anticipiamo qui ciò che avvenne dopo quasi un mezzo secolo,

per non tornare più sull'argomento.

Cesare scrisse in dodici grossi volumi in folio la grande storia della Chiesa.

Il successo inizia con una penitenza.

Durante questa immane fatica, man mano che i volumi erano stampati, Baronio ne offriva

la prima copia in omaggio a S. Filippo.

Il primo volume comparve nel 1581 e Cesare, giubilando, si recò da Filippo ed, in cuor suo,

pregustava la gioia del Santo, le belle parole che gli avrebbe detto e tante altre cose simili.

Arrivato innanzi al Santo, guardandolo negli occhi, gli mise quel bel grosso volume tra le

mani ed aspettava. - Bene, Cesare! Ora per compenso, per penitenza, servirai trenta Messe

in chiesa e non ne devi omettere nessuna.

Non sappiamo come restasse il Baronio, era un uomo dopo tutto, e nella sua sensibilità

dovette avvertire una grande ferita, ma egli era già un uomo di preghiera, di vita interiore, e

potè anche non badare alla ferita.

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Un altro avrebbe avuto un accidente!

Servire le Messe allora poi, benchè opera santa in se stessa, non era tenuta in

considerazione e chi serviva le Messe era o un sagrestano o un chierichetto.

Il grande storico in uniforme.

In S. Giovanni dei Fiorentini, i preti conviventi, tra i quali il Baronio, dovevano spazzare

chiesa e casa, fare tutte le pulizie e, non scolo servire a tavola, ma preparare la cucina per

turno.

Lo storico Baronio, la cui faina ormai, anche per altri scritti, s'era diffusa nel mondo,

compiva seriamente, scrupolosamente, la sua parte, ma c'era un altro servizio che ricadeva

sulle sue spalle sole, data la sua condiscendenza e benignità.

- Cesare, gli diceva uno dei conviventi, -mi faresti domani il favore di preparare il cibo in

luogo mio?

- Volentieri, volentieri.

Questo modo di fare divenne presto la furberia di tutti, che spessissimo, con dolci parole,

dicevano: Cesare mi fa il favore ecc.

Ora quell'uomo dottissimo, grave, che non sapeva ridere, una volta, considerando questa

sua situazione agli occhi del mondo, senti come un'ondata di umorismo, rise di se stesso,

prese un pezzo di carbone dal focolare e scrisse sul caminetto: « Caesar Baronius Coquus

perpetuus ». Non immaginava quell'uomo semplice e grande che quel suo gesto sarebbe

diventato storico e così quella sua scritta: nei secoli seguenti infatti, i visitatori della casa di

S. Giovanni dei Fiorentini leggevano, con riverenza il motto tracciato in nero.

Restauri piuttosto recenti fecero sparire la scritta incautamente e irriverentemente: ma essa

è restata nel ricordo col nome del suo autore, ed una lapide ne fa la storia.

Durante la dimora del Baronio, nel detto luogo, personaggi importanti, non solo dell'Italia

ma di tutta l'Europa, venivano per conoscere un uomo le cui opere ormai erano diffuse in

tutto il mondo.

Riportiamo uno dei tanti episodi: arriva un grande pre. lato e dice, per esempio: io sono

l'arcivescovo di Lisbona... Io sono il definitore generale dei Cappuccini... Io sono il teologo

dell'università di Bologna e vorrei parlare con il reverendissimo P. Cesare Baronio.

- Mi dispiace, diceva il portiere, ma sta in cucina apparecchiando il pranzo.

- In cucina? Ma voi scherzate fratello mio! Baronio in cucina?

- Dico davvero.

- Io voglio lo storico non il cuoco... Hanno forse lo stesso nome?

- Ma no! Qui c'è solo il P. Cesare che si chiama Baronio e so che ora si trova in cucina.

Ad ogni modo, conchiudeva il visitatore, pensando ad un gioco, chiamatemi lo storico

Cesare Baronio, dovunque si trovi.

Il portiere, seccato, finiva per obbedire ed ecco comparire Cesare con grembiule, più o

meno bianco, col viso arrossato, i capelli disordinati.

- Ma siete voi, faceva il visitatore, Cesare Baronio, lo storico? Non è uno scherzo?

- Sono io, carne ed ossa... Abbiate pazienza: stavo preparando la minestra...

La situazione si chiariva alla superficie ma il visitatore poteva pensare: non saranno costoro

dei pazzi?

Ed aveva ragione secondo la logica del mondo.

Un altro volume degli Annali e un'altra edizione di gioco.

Veniva fuori un altro volume degli Annali, e come se nulla fosse stato delle ricompense

precedenti, Baronio si presentava a Filippo, per fare omaggio di una copia.

In una di tali occasioni capitò un funerale solenne in Chiesa e grande folla di amici del

defunto, parenti, popolo si addensava.

Page 122: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

S'era formato il corteo ed un fratello laico reggeva la grande Croce che lo apriva.

Filippo fa un cenno a Cesare, che gli stava vicino e gli dice

- Cesare, prendi di mano la Croce a quel fratello e portala tu.

- Dammi la croce, chiede Cesare arrivato di fronte al fratello.

- Ma non la do! Voi siete un sacerdote e poi!... non conviene.

- La debbo portare io. - Non la cedo dico...

- Me l'ha detto il P. Filippo! Lo comprendi tu? Allora il fratello cede.

Tutti del corteo, a quello spettacolo, guardano, sorridono, commentano sotto voce.

La processione si snoda per le vie, e si colgono frasi di questo genere: Vedi quello là che

porta la Croce? Quello è uno degli uomini più dotti del mondo. Che figuraccia!

- Ne avrà fatto una grossa, se P. Filippo l'ha punito così. Certe cose P. Filippo non le

dovrebbe permettere.

- Forse la porta per devozione sua.

Qualcuno passa vicino al paziente e lo canzona amabilmente: pesa neh? Coraggio, dopo

avrai venti giulivi! (moneta del tempo).

Episodi del genere furono ripetuti parecchie volte anche per altri.

Il destino di un diploma di laurea. Una disciplina così severa alla quale Filippo formava i suoi, pure apparentemente strana,

raggiungeva uno scopo sublime, quello di distaccare il cuore dalle cose del mondo.

Cesare arrivò all'eroismo, come si potrebbe vedere in molti fatti, ma noi ne riportiamo uno

solo.

Quando Cesare si mise a seguire Filippo, abbandonò gli studi di legge, ma il padre di lui,

che sognava un figlio dottorone sopportò male la cosa e non mandò più quattrini al figlio,

per farlo rinsavire.

Era disperato quel padre deluso per la sorte del figlio, ma Cesare, dopo parecchio tempo,

volle placare l'ira del genitore, medicare la ferita, e alla svelta, intelligente come era, prese

la laurea di dottore e n'ebbe il diploma in bella e decorata carta pecora.

Generalmente quelli che ottengono un diploma lo mettono in una bella cornice e lo

collocano, in casa, in luogo molto evidente, perché chi entra ascolti l'ammonimento: badate,

il padrone di questa casa è un :dottore!...

Cesare, evidentemente, non si curò di collocare quel diploma come tutti gli altri, ma forse

lo mise in cassetto, buttato là.

Un bel giorno, però, Cesare aveva bisogno di pezzetti di carta per segni nel libro che

leggeva: cercò con gli occhi una carta inutile e non, la trovò: gli occhi gli caddero alla fine

sul diploma: non ci pensò due volte, lo prese, lo tagliò in tante striscie e ne fece quei segnali

occorrenti. Del diploma di dottore non gli restò più traccia... Se lo avesse saputo il padre l

Le prove più grandi.

Una medicina pericolosa. Baronio per la sua vita sedentaria, s'era rovinato lo stomaco e

l'intestino e, una volta, si ridusse in condizioni così gravi che non poteva quasi più prendere

cibo.

Il P. Filippo lo fece chiamare e venire in camera sua e gli additò una pagnotta, che sarà stata

ben rafferma ed un grosso limone e gli disse

- Cesare tu devi mangiare questa pagnotta e questo limone: subito e tutto.

- Ma io muoio! Mangiare quella roba è impossibile.

- Avanti, Cesare, ti ho detto.

Page 123: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Il Baronio stesso, che confidò il fatto a chi poi ne lasciò memoria, dice che ebbe una grossa

paura di morire. La sua fede in Filippo però fu più forte della sua paura: mangiò tutto alla

meglio, non ebbe nessun disturbo, anzi si sentì guarito.

Insegnante ed accattone.

Come altri, Filippo mandava Baronio ad insegnare catechismo alla gente rozza ed ignorante

dei castelli romani vi restava normalmente due o tre giorni.

Questi catechisti però non dovevano avere provviste e dovevano chiedere elemosina per

mangiare: era ben duro davvero chiedere elemosina a gente povera e presso la quale poi

uno aveva compiuto il nobile ufficio d'insegnante. Non solo gli alimenti bisognava talvolta

mendicare, ma qualche altra cosa.

Un giorno Filippo fissa un po' Baronio, come se lo vedesse per la prima volta, e gli fa

questa paterna osservazione:

- Cesare, questa tua veste è troppo vecchia, rovinata ed ha anche qualche toppa e perciò

bisogna smetterla assolutamente.

- Lo vedo anch'io, Padre, ed è necessario comprarne una nuova al più presto possibile.

- Questo lo so anch'io, ma comprarla sarebbe troppo facile.

- Però non la possiamo rubare: occorre trovare una altra via.

- L'altra via è che tu la chiedi in elemosina!

E Cesare si metteva in giro, e, a furia di canzonature, di beffe, di figuracce, riusciva

finalmente a trovare.

Certo, le persone richieste capivano che sotto quel gioco c'era lo zampino di Filippo.

Filippo comanda a Cesare di comandare. Era ammalato grave il cuoco di casa, di cui avremo a fare cenno in seguito, e Filippo

incaricò Baronio, lo studioso tosi incapace di fare le piccole cose pratiche della vita... di

assisterlo, come se fosse un infermiere di professione.

Quell'uomo obbediente compi come meglio poté quel suo nuovo dovere ma contrasse anche

lui la stessa malattia con febbre altissima.

Qualcuno riferì la cosa a Filippo, con una certa preoccupazione, in un momento di crisi più

acuta del male.

- Padre, Cesare ha una febbre da cavallo che mette paura!

- Bene, dice Filippo, ritorna da Cesare e digli che comandi alla febbre in nome mio di

andare via.

Questo è un bel rimedio, dice tra sè il messaggero andando via... Il povero Cesare se la

prenderà con me come se lo volessi beffare. Ad ogni modo, «messaggero non porta pena»:

farò così.

Cesare a differenza di quello che pensava chi riferiva, accolse l'ordine, con la stessa

naturalezza come se Filippo gli avesse comandato di bere un bicchiere di vino.

L'ammalato, richiamando al suo cuore tutta la fede di cui aveva bisogno, prese

l'atteggiamento di chi parla ad una persona viva, sordastra e poco docile e disse con impe-

rio, ad alta voce:

- Febbre, in nome di P. Filippo, ti comando di andare via.

Come se avesse visto una persona voltar le spalle ed uscire, l'ammalato si vesti e andò con

passo di persona sana alla basilica di S. Pietro, distante un mezzo miglio.

Il fatto è riferito dal Bernabei ed è di evidente provenienza diretta del Baronio, come

indicano le circostanze.

Un gioco da monelli.

Page 124: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Baronio confessò che, per studiare, non s'era mai potuto cavare di dosso completamente ii

sonno con una buona dormita.

Per rimediare, in qualche modo, e resistere poi a protrarre lo studio fino ad ora tarda, dopo

pranzo, faceva un pisolino.

Ma quel pisolino diventava nel nostro personaggio così stanco e grosso, un pisolone, un

sonno profondo.

Filippo, un giorno, vede quel suo buon figliolo così affondato nel sonno e pensa un gioco

simile a quello dei ragazzi, che pigliano gusto a molestare il cane che dorme.

Chiama egli un giovinetto, come ci racconta autorevolmente Aringhi, Agostino

Boncompagni, e gli dice:

- Agostino, prendi in camera mia quel cappellone da cardinale, che io ho tirato or ora da

una cassa, e mettilo in testa a Cesare che dorme.

- E se si sveglia? Non si offende? E potrebbe anche sgridarmi e darmi tubo scopaccione.

- Fa come ti dico, con modo, piano piano e poi, quando Cesare dorme non lo svegliano

neppure i tuoni.

La commissione fu eseguita con compiacimento dei ragazzo, come se fosse stata di sua

invenzione.

Cesare seguitò a dormire per tal pezzo ancora, ma quando si svegliò sentì qualche cosa sul

capo e portò la mano in alto: guardando il cappello, forse poté pensare istintivamente: che

gusto! Mi hanno interrotto quel poco di sonno! Pazienza... Ci sono dei matti al mondo.

Ma forse egli respinse questi pensieri come una tentazione, poiché aveva troppa

venerazione per Filippo. E così rise anche lui.

Quando Cesare, più tardi, fu creato cardinale, forse si ricordò di quel gioco e poté riflettere

che non era stato un gioco da matto, ma quasi tal gesto profetico.

Una beffa atroce. La beffa più dura fu quella di far credere a Baronia che qualcuno si accingeva a scrivere

contro di lui, già famoso, attaccando i suoi applauditi Annali.

Filippo mette in giro la diceria che il contraddittore era Antonio Gallonio, pure lui di

Congregazione e più giovane del Baronio di diciasette diciott'anni, allora alle prime armi

come storico e quindi per niente capace di far la critica agli Annali.

Baronio cadde nella trappola come un ingenuo contadinello, perdette la pazienza e reagì:

vogliono dirmi ora che ho sbagliato? Dovevano dirlo prima che io stampassi.

Pensiamo che il giovane Gallonio fosse complice consapevole, perché egli recitò una parte

troppo lunga e troppo ben fatta.

Cesare si va sfogando a destra e sinistra e scrive perfino a Napoli al P. Talpa, una lettera

che si conserva tuttora e ch'è tutto un pianto amaro.

In casa e fuori se la ridevano sotto i baffi, ma Cesare non dubitava.

La diceria va fuori, arriva al Vaticano, alle stesse orecchie del Papa e anche la è un bel

ridere.

Sopravvennero gli scrupoli: Cesare, ch'era uomo di Dio, cominciò a temere di offendere la

carità, polemizzando. Piuttosto che offendere la carità, si propose egli, avvenga quel che si

vuole, io voglio tacere, soffrire e « far da cristiano, come scrive egli stesso, e perdere per

vincere ».

Cesare enunziò così, senza averla troppo cercata, una massima di altissimo valore ascetico e

cioè perdere la lite per vincere nella virtù.

Piano piano la diceria si esaurì per via e, dopo parecchio tempo, seppure per ultimo, Cesare

poté ridere di se stesso.

Page 125: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Un puntiglio finto che minaccia di diventar vero. Il pontefice concesse a Cesare Baronio una grossa pensione, quando si trovava in difficoltà,

per via dei quattrini, a proseguire la stampa degli Annali.

Il pensiero che egli potrà ora lavorare serenamente bene, e compiere la grande impresa

iniziata, lo esalta e lui, così grave, ci scherza come un bambino e scrive al Cardinale

Federico Borromeo: «Io non sono più un furfante. Sua Santità mi ha dato quattrocento

scudi di pensione, saprò anch'io far del grande e spacciare il quamquam » e cioè darmi

importanza.

Baronio era allora un semplice prete e seguitando nel suo gioco, poté aggiungere al suo

amico Cardinale: « Avrà a grazia a potermi scrivere fratello carissimo ».

Ma su tanto sole, ecco una grande nuvolaglia.

Tutti i preti della Congregazione, allora, crome anche oggi, contribuiscono con una certa

somma, come possono, alla vita comune.

Se non possono, danno niente e Baronio, fino allora, non aveva contribuito.

Filippo allora, non per gioco, ma per una di quelle manovre sapienti che portavano alla

perfezione, fa dire a Cesare:

- Ora che hai i quattrini del Papa, devi pagare anche tu la pensione.

- Questo no, dice quell'uomo scrupoloso: i quattrini del Papa sono per la stampa degli

Annali ed io non posso distorglierli in altro uso.

- Comunque tu li abbia, non importa: li hai e devi pagare la pensione.

- Io non la pago in nessun modo.

Così si svolse, su per giù il dialogo, che s'inasprì per via.

Filippo, che voleva salvare un principio di vita comune nella Congregazione e la virtù

dell'obbedienza nel Baronio, sentenziò severo: o pagare o uscire di Congregazione.

A questo punto interviene il P. Tommaso Bozzio il quale fa capire al Baronio che quello

suo è uno scrupolo perché, contribuendo alla vita comune, quella quota parte della pensione

serviva per lui Cesare che si sacrificava per gli Annali. e quindi, indirettamente anche per

gli Annali. Gli scrupolosi sono fatti così: anche quando sono grandi in altre cose, nello

scrupolo diventano piccini.

Baronie comprese finalmente, si fece accompagnare dallo stesso Bozzio, si gettò ai piedi di

Filippo, pianse e chiese perdono.

Filippo, grande come sempre, rispose: Ora questo appunto io volevo da te: tieni pure i tuoi

danari, che non mi curo che tu dia cosa alcuna alla Congregazione, mi basta l'obbedienza.

La «foglietta » di vino.

Gli osti non sono sempre di buon umore e scattano subito: costretti a badare a tanta gente, i

loro nervi vibrano presto.

Un giorno venne in mente a Filippo di lanciare Cesare in pasto ai nervi di un oste.

Egli gli fece prendere un « boccione » cioè un recipiente capace di contenere un dodici litri

di liquido, e poi gli disse:

- Devi fare un buon servizio, andare da quell'oste che tu sai, con questo boccione che vedi e

comperare del vino, una mezza foglietta. Bada però che prima lavi il boccione, poi vai in

cantina a vedere dove ti da il vino, affinché sia buono: dopo poi darai all'oste uno scudo

d'oro e ti devi far rendere il resto.

L'oste, come vide arrivare il cliente con quel boccione, si rallegrò pensando: è un buon

affare.

Cesare poi chiese di saggiare le varie specie di vino e l'oste seguitò a rallegrarsi.

Quando poi Cesare pretese che il recipiente fosse risciacquato e disse finalmente: ora

versatemi qua dentro mezza foglietta di vino (un quarto...) l'oste montò su tutte quante le

Page 126: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

furie e per poco non mise le mani addosso a Cesare quando si vide richiedere il resto di uno

scudo.

Se Cesare scansò le botte fu un miracolo.

Una Cantata fuori posto.

Tra le donne più brave e più beneficate da Filippo v'era una certa Gabriella da Cortona, la

cui storia graziosa s'intreccia più volte meravigliesamente con la vita di Filippo, e noi

abbiamo riportato di lei un dolce episodio.

Tra gli altri beni che Filippo fece a questa donna, fu di farle maritare una figliola: cosa rara

poi, Filippo andò al banchetto di nozze con tre persone già autorevoli tra i suoi seguaci:

Francesco Maria Tarugi, Francesco Bordini ed il nostro Cesare.

Il gruppo dava molto onore e grande solennità alla piccola festa; mentre tutti

chiacchieravano allegri dopo i discreti bicchieri di vino, Filippo dice a Cesare:

- Cesare, ora tu ci devi rallegrare con un bel canto. - Io non so nessuna canzone allegra,

Padre.

- Ti dico io la canzone più allegra: canta il « Miserere» (salmo di penitenza che per lo più si

canta nei funerali).

- No, Padre, no: questa gentarella è superstiziosa e crederanno il canto del Miserere come

un cattivo augurio. - Canta il Miserere ti dico e molto bene!

Non sappiamo cosa successe di preciso, ma la conversazione dovette certamente languire,

mentre tutti si guardavano stupiti e gettavano occhiate ostili sul cantore improvvisato, che

neppure se ne accorgeva.

- Smetti, smetti, diceva più di uno a Cesare, non sapendo l'ordine di Filippo, ma il poveretto

guardava il Santo per sapere se smettere o seguire e dovette continuare fino alla fine.

Le azioni di Cesare salgono.

Per quante astuzie trovasse Filippo, per mantenere Cesare in umiltà, le sue azioni salivano,

salivano nell'opinione pubblica ed un bel giorno scoppiò come una bomba questa notizia:

Cesare è stato nominato confessore del papa Clemente VIII.

Era vero l Quando Filippo gli comunicò la nomina, Cesare si buttò ai piedi del Santo e disse

- Padre Filippo, ciò non è possibile i Cercate di mettere ogni impedimento e dite pure al

Santo Padre che io sono uno sciocco, un inetto: ditegli insomma ogni male di me. Io non

solo ve ne do licenza, ma ve ne prego.

Cesare cominciò le sue lamentele con tutti quelli che erano in casa, e nel 1594 scrisse una

lunghissima lettera al confratello Talpa il cui contenuto è questo: ho cinquantasei anni, ho i

capelli bianchi, sano consumato dalle fatiche, e per giunta mi capita questo grande guaio.

Il Papa ebbe ad accorgersi presto che quel confessore non era una pecorella paurosa e

docile.

Dovete sapere che allora c'era una grande controversia e cioè se il Papa dovesse ammettere

o non ammettere nella chiesa Enrico IV di Navarra, già precedentemente caduto nell'eresia

ed ora pentito.

Baronio era del pensiero che bisognava assolvere Enrico ed ammetterlo nella Chiesa.

La questione andava per le lunghe, intervenne anche Filippo e sapete che fece? Ordinò al

Baronio di portare questo messaggio al Papa: il P. Filippo si prende lui la responsabilità di

questa ribenedizione di Enrico e si obbliga a renderne lui conto a Dio.

Peggio ancora: dette al Baronio questo ordine perentorio: se il Papa non vuole, come si

dice, riconciliare il Re di Navarra e riammetterlo nella Chiesa, tu rifiuta di ascoltare le sue

confessioni.

Era come dare l'ordine al Baronio, per quanto dipendeva da lui, di non assolvere il Papa...

Page 127: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Un grande dramma in tre atti. Primo atto: il Papa scappa per ridere.

La carriera ecclesiastica del Baronio è questo dramma del quale non si trova altro simile

nella storia ecclesiastica.

Esso è il frutto dell'educazione ascetica, che Filippo aveva data al Baronio, con tutte quelle

beffe e quei giochi detti innanzi.

Qui bisogna premettere che Cesare aveva tanto profittato di questa educazione che, per

lunghissimi anni, anche quando era vegeto come una quercia, faceva ogni giorno

l'apparecchio alla morte, come se l'indomani dovesse morire.

Ora il Papa Clemente VIII, un bel giorno del 1595 pensò: il P. Cesare, mio confessore,

scrittore degli Annali e di altre .grandi opere, bisogna promuoverlo per ora, almeno al

protonotariato apo:ti.lico.

Il protonotariato apostolico è una grossa onorificenza, ecclesiastica.

Riassumiamo qui il racconto autentico da una lunghissima lettera del Baronio stesso.

Il 20 novembre, il papa si confessò e, invece di andare via, come il solito, si mette a sedere,

« come se avesse a fare un'azione pontificia » e dice

-- P. Cesare, desideriamo da voi una grazia...

- Vostra Santità mi mette paura con l'esordio di chiedere una grazia.

- E' conveniente che lo scrittore degli Annali abbia il titolo dì protonotario.

- Gli Annali si sono diffusi senza questo titolo, e se Vostra Santità proprio lo vuole, si può

mettere sotto il mio nome il titolo di protonotario, senza darmi la dignità. Essere fatto

protonotario e portarne, le vesti sarebbe un scandalo per quei visitatori esteri che mi hanno

sempre visto con una veste spelata ed unta.

- Per santa obbedienza, dovete accettare.

- Vostra Santità mi dia qualche giorno da pensare.

- Per santa obbedienza, vi comando di accettare. Baronia, spaventato dalla minaccia,

tremava con la voce, balbettava e non riusciva a concludere una frase.

Il Papa si mise a ridere, ripeté la minaccia e poiché Baronio insisteva sempre più

spaventato, dette di mano al campanello e suonò.

S'apri una porta e comparvero il Maestro di Camera del Papa ed un altro monsignore con un

fascio di vesti paonazze.

- Spogliate P. Cesare delle sue vesti, mettetegli queste altre vesti paonazze e poi, così

vestito, conducetelo da me, nell'altra stanza, dove io gli imporrò il rocchetto (altra insegna

dei grado).

Cominciò una lotta: i due gli volevano strappare il ferraiolo, ma Cesare se lo teneva stretto:

la lotta durò un pezzo, ma non potendo resistere a due, Cesare si buttò per terra.

Era tutto sudato e la camicia era inzuppata.

- Son partito da casa, piagnucolava egli, con la semplice veste di prete e non sarà nrai che io

torni con la veste prelatizia.

Così buttato per terra gemeva

- Monsignore, per carità, pregate Sua Santità che mi dia almeno un celo giorno di teinpo,

uno solo, prometto di non fuggire: domani tornerò e sarò quello che il Papa vuole l

Urlo dei due ebbe compassione ed andò dal Papa a porgere la preghiera.

Il Papa comparve, ma questa volta turbato, e disse:

- Non son contento di voi, Baronio, proprio non sono contento. Vi concedo un giorno di

tempo, ma a malincuore. Il Papa stesso però ebbe compassione e aggiunse qualche parola,

per rendere dolce la pillola.

- Non voglio che voi lasciate la casa della Congregazione, non voglio farvi mutare metodo

di vita, ma voi dovete obbedire.

Page 128: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Ritornato a casa, Cesare andò difilato alla tomba di S. Filippo e pianse copiosamente, per

quello che lui stimava un guaio ed altri avrebbero ritenuto grande fortuna.

Furono adoperati tutti i mezzi dai Padri della Congregazione, perfino l'intervento di

cardinali, ma il Pontefice restò fermo.

Come risposta a queste manovre l'indomani arrivarono, nella sagrestia della Chiesa Nuova,

Monsignor Diego e qualche altro con le vesti prelatizie.

In sagrestia Mons. Panfili, l'Abate Maffa ed altre persone circondarono Baronia e con

violenza gli strapparono le vesti e gli misero te vesti prelatizie.

Poiché il Baronio evitava di mostrarsi con le vesti prelatizie, il Papa, :ton appena lo vide, lo

rimproverò e gli disse:

- Guardate che posso adottare altre misure più gravi per voi.

- Piuttosto che obbligarmi ad andare con le vesti prelatizie, Vostra Santità mi mandi o in

Inghilterra (allora tutta eretica) o nelle Indie o in una prigione a Tor di Nona.

Secondo atto: la minaccia di scomunica.

A breve scadenza da questa tempesta, cominciò ad apparecchiarsene un'altra: nel 1596, si

sparge per la città una voce: Baronio sarà creato cardinale.

Tutti ci credono ma lui, per la sua umiltà, non ci crede, tanto si pensava indegno. -

Un bel giorno il Pontefice ben conoscendo l'uomo, mandò alla Vallicella Mons. Offredo

degli Offredi ad intimare domani Baronio non si muova di casa, perché deve essere

condotto a Palazzo per prendere l'abito cardinalizio. Cesare, per risposta fece sapere che

sarebbe andato a Palazzo, ma non per prendere l'abito cardinalizio, sebbene per esporre al

Pontefice le ragioni per cui non poteva accettare.

Il Papa non andò a letto quella sera alla solita ora, non sicuro di ciò che Baronio avrebbe

tentato e comandò al cardinale Aldobrandini: impedite al Baronio che venga da me: non

voglio riceverlo: sorvegliate che non fugga. Cesare infatti, aveva pensato di darsi alla fuga.

La mattina appresso, andò a tante porte per uscire fuori ma trovò sbarrate tutte le vie

d'uscita.

Il Pontefice troncò le ultime resistenze e sentenziò: Se Cesare non accetta io lo scomunico.

Il poveretto che aveva una fede non minore della sua umiltà, crollò.

Terzo Atto: è buttato verso il papato e lo respinge. Baronio, nel corso della narrazione della

storia ecclesiastica, attaccò certe pretese della Spagna in materia religiosa: Spagna e satelliti

attaccarono, alla loro volta, il Baronio.

In questa situazione, mori papa Clemente VIII, e si riunì la grande assemblea di cardinali

che, con termine ecclesiastico, si chiama Conclave, per eleggere un successore al pontefice

morto.

In quelle movimentate elezioni, Baronio arrivò ad avere trentadue voti: mancava solo un

voto per essere eletto. Egli però non lavorava per se stesso, ma per il cardinale Alessandro

Medici che prese il nome di Leone XI. Questo nuovo pontefice era stato amico e penitente

di S. Filippo, il quale una volta gli disse: Signor Alessandro, voi sarete papa, ma durerete

poco.

Lo stesso pontefice Leone XI ci credette e quando i cardinali, in atto di obbedienza

andavano a baciargli i piedi, subito dopo l'elezione disse: Daremo poco fastidio, perché

dureremo poco. Regnò ventisette giorni.

Si apri l'altro conclave, più movimentato, e dopo molte vicende, i votanti si accordarono sul

nome di un lombardo, per eleggerlo papa, il cardinale Tosco.

Era un uomo senza un pelo su la lingua, e coraggioso. acuto.

C'è di lui questo episodio che, quando venne a morire, vecchissimo, qualcheduno, come

usava allora, nell'imminenza della morte, gli disse di prepararsi a comparire innanzi a Dio.

Page 129: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Anche in quel momento Tosco non perdette il suo umorismo e disse ad un familiare: Dà la

mancia a questo messaggero.

Un tale uomo, dunque, era già portato verso il luogo dell'elezioni da tutti i cardinali, meno

Baronio e Tarugi che passeggiavano in disparte, addolorati.

Il Baronio infatti riteneva meno opportuna l'elezione del Tosco. Egli si fece incontro alla

massa dei cardinali, l'apostrofò e bollò a sangue il candidato Tosco.

L'effetto fu immediato, terribile: la massa si disgregò. Non sapendosi più che fare, il

cardinal di Montaltc disse ad altissima voce indicando con la mano il Baronio Perché non

facciamo papa questo santo uomo? Facciamo lui, facciamo lui!

Il cardinal Giustiniani si mise a gridare: Baronio, Baronio!

- Baronio, Baronio, gridarono molti altri.

-- Tosco, Tosco, risposero quelli che restarono fedeli al primo candidato.

La massa si divise in due ed una parte si diresse col Tosco.

Quelli però che portavano il Baronio lo spingevano con la forza di un'ondata furiosa verso

la cappella Paolina, per fare l'adorazione, come si diceva allora, e cioè l'elezione.

Quando Cesare si accorse e capi che ormai i più lo spingevano per crearlo papa, cominciò a

resistere, supplicò, gridò, ma nulla valeva perché la spinta diventava sempre più forte.

Egli allora cominciò ad attaccarsi alle porte, alle colonne che trovava sul passaggio e

gridava: «io non voglio essere papa, fate uno più degno di me».

La lotta non poteva durare così furiosa e si esaurì nella confusione, generale, per il rifiuto

sempre più energico del Baronio.

Messo da parte il cardinal Tosco, gli elettori si fermarono sul nome del cardinal Borghese,

che si chiamò Paolo V.

Ad elezione avvenuta Baronio disse: costui è migliore di me.

Si senti libero come se avesse superato un pericolo di morte.

Un barbaro.

Il BaronIo non fu papa e, perché non volte e, per le circostanze dette, ma anche per un'altra

ragione appena afSorata.

Era rigido, austero, montanaro impetuoso nel parlare e nell'agire, e S. Filippo lo bollò col

nome di « barbaro ». Il Santo anzi gli predisse: « tu sarai cardinale ma non sarai mai papa

per la tua natura fiera e rigida».

Il Santo giocava su questo rame di barbaro. Talvolta, in presenza di uomini dotti, nobili

diceva vedete questo omone? E' dotto, è profondo e scrive grandi libri, mentre io sono un

povero ignorante, però è un barbaro.

Ci teneva a mettere in mostra praticamente una cosa simile.

Ecco una scena inventata per dar risalto alle sue parole, e ripetuta parecchie volte, e con

diverse persone. S'era in molti, un giorno, in camera del Santo e Filippo ordinò al Baronio:

- Cesare, mettiti a sedere su quel piccolo sgabello e ascolta tranquillo.

- Voi, Abate Mafia, dovete farmi la cortesia di dire a voce alta a Cesare tutti i suoi difetti,

parlare della sua città natale e di quanto si trova da riprovare.

Maffa, con un gusto speciale, cominciò allora una filza di questo genere:

- Vedete Cesare là, tozzo come un montanaro, con i capelli disordinati come un selvaggio:

egli è-da tanti anni a Roma e pare che abbia lasciato solo ieri la Ciociaria. Non sa dire mai

una parola gentile, non sa mai sorridere: si comporta come se tutti gli altri fossero dei

peccatori e lui un santo... Non ha discrezione, non ha buon senso ecc.

Agostino Manni che era presente dice che l'Abate Maffa parlava copiosamente, Cesare era

fermo, serio come se udisse un panegirico.

Gli altri ridevano e sghignazzavano e, alle battute più forti, facevano baccano.

Page 130: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Quando l'abate ebbe finito, Filippo gli disse gentilmente ma fermamente:

-- Signore Abate, ora fatemi il piacere di dire tutto il contrario di ciò che avete detto finora e

mettete in luce la scienza, la cultura, la bontà e tutte le grandi virtù di Cesare.

CAPO XXI

I SATELLITI MINORI

Un astro che si eclissa presto.

Un astro dell'Oratorio fu Giovenale Ancina, umanista, musicista, poeta, e uomo di tale virt~

che dopo morto fu proclamato Beato.

Il Santo chiama il suo comporre poesie «sonettare » e cioè comporre sonetti che è una

specie di poesia. Pertanto, molte volte, quando lo vedeva passare, gli diceva col bel sorriso

- Giovenale, sei stato a sonettare o vai a sonettare? Ti raccomando di sonettare bene.

Una personalità così grande non poté sfuggire agli occhi del Papa che pensò di farlo

vescovo.

Quando Giovenale lo seppe, come se avesse saputo di un mandato di cattura, scappò via e

vagò per cinque mesi, chiedendo ospitalità a case religiose.

La paura però di una «scomunica» contro di lui e i Padri della Chiesa Nuova, ritenuti

complici della sua latitanza, lo fece tornare e costituirsi, come si dice dei banditi che si

arrendono.

Gli fu data la diocesi di Saluzzo, dove l'astro ritornò a risplendere ma per poco.

S. Francesco di Sales che lo stimava e l'amava molto venne a visitarlo nella sua diocesi.

In occasione di questa visita, Giovenale invitò S. Francesco a predicare e diopo la predica,

giocando sulla parola «Sales» gli disse: «Tu vere es sal ». (Tu veramente sei sale cioè

sapienza).

S. Francesco, rispondendo a Giovenale e giocando, alla sua volta, sul nome della città di

Saluzzo e specialmente su le due sillabe: « sa e lu », rispose: « Imo tu sal et lux » (tu

piuttosto sei il sale e la luce).

Un semplicione... però profondo

Giovenale aveva un fratello che si chiamava Giovan Matteo e che entrò in Congregazione

con lui, il primo ottobre 1578.

Anche Gian Matteo entrò in gara con gli altri e seppe giocare ed accogliere il gioco e

santificarsi, in questa maniera, secondo lo stile di S. Filippo.

Comandato di andare in S. Giovanni in Laterano, per una pratica di pietà, ancor che fosse

vecchio e non uscisse quasi mai, si mise subito in cammino e, colto da una grossa pioggia,

non volle attendere che finisse, per non ritardare l'obbedienza.

Era austero con sè, ma tutt'altro che severo con gli altri.

Talvolta si lasciava vedere in refettorio con una cuffia bianca in testa o andare per Roma

senza ferratolo, cosa allora ritenuta disdicevole alla gravità di un sacerdote.

Non era raro trovarlo in camera, senza tonaca, con dei pantaloni grossolani di stoffa e di

fattura: quelli che entravano non gli risparmiavano motti spiritosi.

Anche lui sapeva essere spiritoso ed ogni anno, nella festa di S. Matteo, suo giorno

onomastico, distribuiva in casa e fuori immagini del Santo con questa dicitura:

« Matteo, prega il Signore che perdoni a Matteo peccatore ».

Quando il P. Giulio Saviolo era confessore di casa, e si presentava Matteo per essere

confessato, si rifiutava e lo mandava dal cuoco, imponendogli di dire a costui tutte le sue

colpe e imperfezioni.

Il cuoco da principio si rifiutava ma poi doveva anche lui obbedire, e Matteo ascoltava con

grande compunzione i consigli ed i rimproveri del cuoco.

Page 131: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Aveva dei detti sublimi, che lasciavano trasparire la sua genialità e gettavano come un

lampo di bagliore rapido nella nascosta vita interiore: « Chi non dà a Dio quel che vuole,

non ha da Dio quel che vuole» - «L'impresa (lo stemma) di Cristo è una croce rossa in

campo bianco, cioè la croce con l'innocenza».

Quando operai ed artigiani chiedevano la loro mercede per il lavoro fatto, egli dava senza

contestare: alcuni lo rimproverarono per questa cosa come di una prodigalità, ma egli

diceva: « è meglio che l'artigiano abbia qualche cosa di mio che io di suo ».

Una botta sbagliata e una risposta azzeccata.

Il P. Angelo Velli, carattere dolce e chiaro, trovandosi ad avere un'immagine della Vergine,

un bassorilievo di pietra, pensò di donarlo al P. Filippo, ben conoscendo il suo amore

appassionato per la Madonna.

Angelo pregustava già la gioia del gradimento del padre, il suo ringraziamento commosso,

quando vide arrivare la persona incaricata a riportare indietro l'immagine.

- Ebbene? Forse il P. Filippo non era in camera?

- Come che c'era ed io ho fatto atto di dargli l'immagine, mentre dicevo che la mandavate

voi. Il Padre, dopo che ha ascoltato, ha risposto seccato, ed un poco infastidito: riportate

l'immagine al P. Angelo e ditegli che io non ho bisogno né di lui né delle sue cose.

- Ora voi, rispose P. Angelo, fatemi il piacere di ritornare di nuovo dal Padre e di dirgli, a

nome mio, che se lui non ha bisogno di me e delle cose mie, io ho bisogno di lui. Questa

volta l'alunno aveva vinto il maestro.

Un'altra volta Filippo chiama Pietro Consolini e gli ordina:

- Va da Angelo e parlagli così: Filippo dice: che ti credi di essere tu? Io sono più santo di

te!

Non sappiamo che rispose il Velli, ma pensiamo che anche questa volta se la sarà cavata

bene, magari rallegrandosi col Consolini...

Ma questi mistici matti sapevano anche essere fieri. II cardinale Aldobrandini, nipote di

Clemente VIII, volle per suo confessore un uomo così santo come Angelo e, una volta,

pensò di condurlo con lui in un certo viaggio a Ferrara.

Angelo da prima si rifiutò, ma poi condiscese per l'autorità del Papa, ch'era intervenuto.

Egli però non volle stare mai alla corte e chiese ospitalità ad un amico per poter vivere

piuttosto ritirato e compiere meglio gli esercizi di comunità.

Egli si teneva tanto lontano dalla corte, che il Papa, che gli voleva molto bene, se ne dolse,

ma Angelo rispose: Beatissimo Padre, e chi sono io, contadinello, che abbia a comparire

innanzi alla Santità Vostra?

Tornato a Roma, il Pontefice volle ricompensare, in qualche modo, il P. Angelo e perciò

dette ordine a Monsignor Paolino, Datario e penitente di Angelo stesso, che proponesse

qualche beneficio ecclesiastico.

Il P. Angelo rispose, risentito, offeso, a Mons. Datario

Mi meraviglio bene di voi, che, sapendo lo stato mio, (di persona di Congregazione)

parliate di questa maniera. Io non ho, per grazia di Dio, bisogno di niente, né voglio niente:

se volete, per l'avvenire, confessarvi da me, non parlate più di questa cosa.

Una scenetta da... teatro. Anche i tipi più austeri e controllati non erano immuni dal contagio di fare qualche cosa che

sapesse di originalità e di pazzia.

Uno di questi tipi era Alessandro Fedeli.

Page 132: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Tra le altre pratiche di Comunità, v'era e v'è tuttavia quella della «Congregazione delle

Colpe ». Tutti i conviventi della casa, in un dato giorno ed in una data ora, si riuniscono in

cappella e, prima di iniziare la pratica di pietà, un Padre anziano fa un breve discorso.

Quella volta toccava ad Alessandro ma ecco che succede.

Egli va al posto assegnato a chi parla e tutti attendono che cominci.

Contrariamente al solito, Alessandro si alzò e, in silenzio, si chinò profondamente e poi

toccò la terra con tutte e due le mani: si rialzò e, sempre in silenzio, si accostò le mani al

petto in forma di croce.

Mentre l'oratore muto faceva questa mimica, gli altri si chiedevano con gli occhi e con le

parole bisbigliate: ma ch'è questo mai? Che vuol dire? E' pazzo il P. Alessandro?

L'oratore... dopo breve attesa, commentò: Padri miei, non ho altro da dire, tanto basta:

siamo umili e amiamoci di cuore. E detto ciò scomparve.

Allora tutti compresero, e supposero: il primo atto, quello di toccare la terra con le mani

voleva inculcare l'umiltà, il secondo, quello delle mani incrociate al petto l'amore

fraterno.In servizio dell'umiltà, esigeva cose che ripugnavano al senso comune degli altri:

una volta, per esempio, ritornando dalla campagna con un confratello, propose a costui di

portare come appoggio una canna lunga con le foglie verdi.

Egli andava accanto, per dividere gli applausi, che non mancavano e cioè gesti e parole di

scherno.

Filippo ruba un figlio: il padre gliene regala due altri.

Venne a Roma, per far carriera, un certo Tommaso Bozzio da Gubbio.

Era già un dottorone e lavorava molto e bene per farsi innanzi all'assalto dei primi posti.

Pensate che era stimato dai due dottissimi Sirleto e Paleotto.

Conosciuto Filippo, questo idolatra dei libri, vendette i libri e ne distribuì il ricavato ai

poveri.

Quando il padre seppe della... triste fine del figlio, lo qualificò di pazzo, di ingrato, non gli

scrisse più e non gli mandò danaro.

Il Santo, perché un uomo così dotto ed esposto alla superbia potesse vivere ed imparare la

scienza nuova, per lui, dell'umiltà, lo mise ad insegnare l'alfabeto a certi fanciulli mocciosi.

Una persona, che conosceva Tommaso, si sdegnò di questo trattamento di Filippo e disse

- Padre Filippo non doveva darti una occupazione così avvilente! Te ne offro io una

decorosa e più remunerativa. Ad un uomo come te, fare insegnare l'alfabeto!

- No, rispose Tommaso, preferisco fare quello che sto facendo.

Cadde l'anno del giubileo 1575, sotto Gregorio XIII, ed il padre di Tommaso, con la scusa e

l'occasione del giubileo, venne a Roma.

Spinto dall'addolorato cuore di padre, disse tra sé: voglio vedere quel disgraziato di

Tommaso: voglio tentare di farlo rinsavire: voglio strapparlo al fascino di quel fanatico P.

Filippo, al quale farò anche la sua parte.

Cercando e domandando qua e là, il bravo uomo arriva all'Oratorio di San Giovanni dei

Fiorentini e tra padre e figlio corrono parole appassionate.

Ad un momento, compare nella sala il mago, l'affascinatore di Tommaso, Filippo.

Le prime battute del discorso sono concitate, benché rispettose.

Piano piano, Filippo che a principio parlava calmo e moderato, prende l'iniziativa della

conversazione e la domina.

Quanto tempo durò il colloquio? Non lo sappiamo, ma data l'abilità del mago, non dovette

essere lungo.

- P. Filippo, disse alla fine l'uomo di Gubbio, volete prendere anche questi altri due miei

figlioli? Dal momento che Tommaso è felice e le cose stanno così, io sarei contento di

Page 133: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

lasciarveli. E voi, disse poi rivolto ai figlioli: restereste volentieri qui col vostro fratello

Tommaso o volete tornare a Gubbio con me?

- Lasciaci qui, dissero i due fratelli.

- Tommaso, riprese P. Filippo, prendi cura di Francesco, formalo per la Congregazione e

trattienilo in casa fin da ora.

Anche Tommaso però senti presto la mano di Filippo che si abbassava sopra di lui con i

suoi giochi.

In un anniversario della morte del Pontefice, si faceva un grande funerale di lusso e,

secondo le costumanze del tempo, attorno al catafalco erano schierati molti mendicanti con

una vestaglia lugubre.

- Tommaso, dice Filippo ad un momento, procurati una di quelle vesti lugubri e mettiti

insieme con quei mendicanti.

Tra le personalità presenti, c'erano amici ed ammiratori del grande giurista i quali, quando

videro quella scena, si sdegnarono.

Ridurre quell'uomo così, bisbigliavano tra di loro, non è ben fatto.

Tommaso però, da parte sua, era contento e si godeva la brutta veste nera come se fosse

stata un abito prelatizio.

Tommaso, pur tra le vicende della Congregazione, seguitò a lavorare e pubblicò oltre venti

libri tutti di argomenti scientifici.

Molti dei tanti ammiratori stranieri e lettori delle sue opere, quando venivano a Roma,

facevano di tutto per rendergli omaggio.

Uno di costoro, fantasticando dagli scritti di Tommaso, lo immaginava austero, alto,

solenne, ma quando si trovò dinanzi un uomo piccolo, modesto, umile, non poté trattenersi

dall'esclamare: - Tantillus homo?... come a dire: questo cosetto di uomo ha potuto scrivere

tante cose grandi?

Francesco Bozzio.

II più grande dei due fratelli nominati, Francesco, entrato in Congregazione fu poi

sacerdote.

Non era della statura intellettuale di Tommaso, ma sapeva bene il fatto suo: coltissimo in

teologia sapeva dire, per esempio, della Somma di S. Tommaso in quante parti essa si

dividesse, quante fossero le questioni in ogni parte, quanti gli articoli in ogni questione ed il

dubbio relativo di ogni articolo, col numero delle opposizioni e le risposte e le soluzioni

diverse.

Sembra facile tutto ciò, per chi non conosce quella grande selva di dottrina, ch'è la Somma

Teologica di San Tommaso.

E' ben difficile sapere dove si trovi un verso della Divina Commedia, ma è ben più difficile

sapere e ricordare tutto ciò che Francesco sapeva e ricordava dell'opera citata.

La morte di questi due fratelli fu grande come la loro vita.

Tommaso, nell'imminenza della fine, fu richiesto se avvertisse il bisogno di fare un'ultima

confessione di qualche colpa passata.

Chi, di fronte all'ignoto della morte non cerca di togliere magari uno scrupolo?

- Per grazia di Dio, rispose Tommaso, non sento cosa che mi aggravi. Mori come uno che si

addormenta. Francesco, preso da occlusione intestinale, certo della sua fine imminente, ai

Padri e Fratelli convenuti intorno al letto di morte, raccontava facetamente gli episodi della

sua vita con S. Filippo.

- Sapete, disse tra l'altre cose, quando io ero piccolo, il P. Filippo mi chiamava

Franceschino e mi voleva sempre dalla sua parte nel gioco delle piastrelle...

In dire queste ultime parole rese l'anima a Dio.

Page 134: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Il maestro di un Papa. Capitò a Roma nel 1571 un pellegrino francese, senza un soldo in tasca.

Filippo lo accolse, lo fece suo, lo ricevette in comunità e poi lo fece ordinare sacerdote: si

chiamava Niccolò Gigli. Filippo, per fargli guadagnare da vivere, gli affidò l'insegnamento

dei fratelli della famiglia Borghese, uno dei quali poi fu in seguito papa col nome di Paolo

V.

Con lui S. Filippo, nelle sue prove, fu più spietato che con tutti gli altri ed, una volta, il

povero Niccolò confidò al P. Gallonio che S. Filippo, con le sue figuracce, gli aveva tolto

ogni onore.

- Tu sei un ignorante, gli diceva Filippo (ma ciò non era vero).

- Che ci volete fare, diceva Gigli, no sono nato in Troia (Troyes) nella Champagne e Troyes

non si trova in Toscana.

Questo martire straordinario dei giochi di Filippo era però anche amato straordinariamente

dal Santo.

Uno dei segreti della perenne gioia di Niccolò era il distacco dagli uomini e dalle cose.

Quando riceveva delle lettere dalla Francia, le gettava nel fuoco senza leggerle.

Un giorno, stando a celebrare in Tor de' Specchi, ecco che sentì che sarebbe morto in un

dato giorno ed in una data ora.

Tornato a casa, riferì tutto al Santo, e forse anche agli altri, precisando che sarebbe morto dì

a quattordici giorni: ci fu chi credette e chi non credette ed intanto egli seguitò a godere

ottima salute.

Ma ecco che, dopo un certo tempo, fu assalito da febbre violenta e morì il quattordici

giugno 1591 come precisamente aveva detto, dopo venti anni di Congregazione.

S. Filippo, come abbiamo detto, aveva una tenerezza particolare per lui e volle servirlo egli

stesso nella sua malattia: un giorno, anzi, condusse il cardinale Federico presso il letto

dell'ammalato ed alla fine comandò di impartire la benedizione al grande Prelato.

Nicola vuoi guarire? gli disse il Santo accostandosi al suo viso.

- Perché, Padre mio, perché? Che starei a fare in questo mondo? Ne ho tedio.

S. Filippo, tutto quel giorno fu immerso come in un oceano di gioia: era sicurissimo che un

nuovo santo era entrato in Paradiso: come di santo autentico, infatti, egli si prese per

reliquie, e li conservò, alcuni oggetti che eran stati di Niccolò.

Ma più espressivo è il seguente episodio.

Il cadavere del Gigli era stato portato in chiesa e Filippo aspettò che, all'ora solita, tutte le

porte fossero chiuse, quelle dell'esterno e quelle dell'interno.

Ben convinto di essere solo e che nessuno potesse vedere o udire, il Santo si accostò al

corpo benedetto e cominciò a fargli mille carezze affettuose, come se Niccolò fosse vivo

ancora.

Ma Filippo era, spiato ed egli non lo sapeva.

Giulio Saviolo: un dotto « infinocchiato ».

Era un nobile padovano, ben noto per la sua cultura in quella università.

Non voleva essere sacerdote, per umiltà, ma restare fratello laico, però Baronio lo persuase

a farsi ordinare sacerdote per mettere a profitto la sua cultura.

In seguito, Giulio si penti di essersi fatto ordinare sacerdote e, con una certa rabbietta che

faceva ridere, diceva: quel Baronio m'infinocchiò.

Voleva quasi cancellare la sua nobiltà e a chi non era ben noto il suo cognome diceva di

essere «un prete del contado di Padova ».

Page 135: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Andato una volta alla sua città, non volle prendere alloggio nello splendido palazzo paterno,

benché suo fratello se ne offendesse.

Quando riceveva posta e leggeva il suo cognome Saviolo sulla busta, diceva: «che Saviolo,

che Saviolo? pazzarello e non saviolo ».

Sulla via del disprezzo di se stesso sapeva trovarne sempre una nuova: mandato a subire

l'esame, per essere abilitato ad ascoltare le confessioni, ad ogni nuova domanda rispondeva:

non so, non so!

Gli esaminatori però conoscevano, per altra via, l'uomo e non ottenne il suo scopo.

Nelle riunioni dei Padri di Congregazione, non diceva mai il suo parere per nascondersi, ma

se era costretto, parlava con tanto senno che bisognava ammirarlo.

Lo urtava soprattutto la vanità così comune di voler comparire persona che sa, ed un giorno,

in ricreazione. gli capitò di domandare la soluzione di un dubbio ad uno dei presenti, il

quale rispose che non sapeva.

Ne gioì, si levò di capo il berretto, alzò gli occhi al cielo e disse soddisfatto: «sia ringraziato

Iddiol ho pur trovato uno, una volta tanto, che ha; detto che non sapeva ».

Nascondeva le sue aspre penitenze agli altri Padri, che però sapevano e lo esortavano a

smettere specialmente di disciplinarsi, per ragione di salute.

- Che discipline e discipline! ... Mi meraviglio ben di voi... Andate a cercare in camera mia

e non troverete nessuna cosa simile.

Parlava con sicurezza, quasi con aria di sfida, sapendo che i suoi strumenti di penitenza

erano accuratamente nascosti.

Parecchie volte i Padri andarono a frugare in camera sua e trovarono niente, ma un bel

giorno, quando già di speravano, per caso, sotto un mattone, trovarono una disciplina intrisa

di sangue e la mostrarono in pubblico come un trofeo.

Il povero Saviolo ne avvertì un colpo come di un ladro sorpreso a rubare.

Un « romanaccio ».

Questo romanaccio, nel senso in cui si dice « ingegnaccio » cioè ingegno straordinario, si

chiamava Antonio Gallonio e non era un romanizzato, ma tipicamente romano.

La sua figura ricorre qua e là, nelle pagine precedenti, ma qui ricordiamo solo qualche cosa

in questa rassegna speciale.

Era giovanissimo ed un giorno incontrò Filippo per via i loro occhi si incrociarono e si

fissarono profondamente. Da quel momento, Antonio non lasciò più il Santo. L'episodio

mostra il potere irresistibile del Santo e la sensibilità di Gallonio ad afferrare ed accogliere

gli intimi sentimenti altrui.

Ecco uno dei giochi che il Santo gli faceva fare. Diceva: va al tale monastero di suore, fa

chiamare la superiora e dille: io sono venuto qui per predicare e voi dovete chiamare le

suore e farle venire tutte. Tu poi non ti preparare su ciò che devi dire, ma parla così come ti

viene in mente.

La superiora poi magari diceva - Padre ma chi vi ha mandato?

- Ma questo non vi importa: vi importa sapere che io debbo predicare a voi e voi dovete

ascoltare.

La superiora pensava al principio che quel prete fosse un pazzo ma poi finiva per

contentarlo e Gallonio predicava.

Le suore, la sera, commentavano la piccola avventura ma poi venivano a sapere che il

predicatore era uno della combriccola di Filippo.

Un « goliardo ».

Page 136: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Agostino Mannì era stato un goliardo, anzi un capo di goliardi, nel senso di studente

chiassoso e un po' spregiudicato che si dà a questa parola.

Per far carriera venne a Roma, ma nel 1577 capitò tra le mani di Filippo e non poté più

liberarsi.

Entrando in Congregazione, pensava ad una vita, anche esteriormente, tutta compunta, un

po' col collo torto, ma quando udi, le prime volte, le burle di Filippo disse: oimé dove son

capitato! Costoro so sono pazzi o sono ipocriti.

Ma poi comprese e per il suo carattere e un po' anche per celia lo chiamavano il « Padre

manna dolce ».

A principio, messo a parlare in pubblico, ancora infetto di arte rettorica, fece un discorso

tutto fiorito, uno di quei discorsi che disgustavano Filippo.

Il Santo, alla fine, senza per nulla tradirsi, lo chiamò e gli disse:

- Agostino, il tuo discorso è stato veramente meraviglioso, incantevole: vogliamo udirlo

un'altra volta, non ti pare? Ma non devi mutare virgola, perché verrebbe meno l'effetto.

- Sono contento Padre, che il mio discorso sia piaciuto e cercherò di fare alla meglio.

La seconda volta, il pubblico ascoltò paziente ancora, ma con minore gusto.

- Sei stato più bravo ancora questa volta: vogliamo sentire una terza volta, però siamo

sempre bene intesi, senza mutare virgola.

Agostino cominciò a capire, benché un po' vagamente, ma dovette obbedire.

I commenti del pubblico furono abbastanza chiari e così pure i segni di noia, ma alla quarta,

quinta, sesta volta, ci fu una reazione.

Beffe, riso sotto i baffi, bene e bravo canzonatori, ed anche peggio, si avvertivano

chiaramente e udiva lo stesso oratore quando passava per andare al posto rialzato dove

parlava.

- Ma che viene a dire, bisbigliavano? Sappiamo a memoria i tuoi sermoni! Scemo!

Quelli di cuore più buono e più comprensivi, al solo comparire di Agostino, dicevano: ecco

quel Padre che sa un sermone solo e ce lo farà sentire dal principio alla fine dell'anno.

La cura fu efficacissima ed Agostino non mise più nei suoi discorsi la «dolce manna » delle

frasi.

Forse questo trattamento lo aiutò a comprendere la vanità di predicare per gloria umana e

perciò diceva che il predicatore che predica per vanità « è simile ad un cassiere di un ricco

mercante, il quale contando ogni giorno a diverse genti grandissima quantità di danaro, e

passando tra le dita grande copia di monete d'oro e d'argento, la sera non si trovava altro

che i sacchetti vuoti e le mani imbrattate ».

Ecco una preghiera, che indica la sua spiritualità ed è di una... monelleria quasi filiale,

monelleria che nulla toglie alla pietà profonda, anzi aggiunge qualche cosa di bello.

Egli si presenta a Dio come un creditore al suo debitore ed esige che il debito sia subito

pagato.

Quando c'era qualche ammalato non pregava la Madonna di aiutare l'ammalato ma di fare

l'infermiera essa.

Pregava poi Iddio così: « Padre Eterno, il Vostro Unigenito Figliolo tanto a Voi caro, nel

quale io spero, mi manda a Voi e vi prega che mi facciate questa grazia. Io vengo in nome

di Lui e vi porto una polizza (foglio) sottoscritta col Suo Nome con lettere del Suo Sangue:

Vedetela e leggetela e Vi troverete che mi fa donazione di tutti i suoi meriti, che sono

infiniti, ed io li ho accettati, talché Voi siete debitore, per giustizia, di darmi quello che io

domando».

Un dottore che poi fa professione d'ignoranza.

Page 137: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Flaminio Ricci, nobile di Fermo, venuto a Roma per la solita carriera, aveva già un bel

posto. Un giorno passava cavalcando ed incontrò il Santo, il quale lo fissò e gli disse -

Seguimi.

- Ecco vengo subito, rispose Flaminio: E voleva seguirlo immediatamente.

E vuoi venire anche con il cavallo? . Va a casa. Ti aspetto a S. Girolamo della Carità.

Da quella sera Flaminio fu sempre di Filippo.

Fatto prete, quando era domandato chi fosse, diceva io sono un prete via là... un prete di

contado.

Quando stava in confessionale, per attirare penitenti, ad alta voce diceva: venite, venite, ché

vi confessate da un prete peccatore.

- Ecco il confessore che fa per noi, si dicevano i presenti, e correvano da lui incoraggiati ad

essere sinceri senza rispetto umano.

Voleva che i preti dell'Oratorio non bazzicassero con i potenti e suggeriva: «bisogna questi

tali, quando porta il bisogno, aiutarli da lontano, come si fa con le anime del purgatorio e

cioè raccomandarli a Dio con le orazioni, ma non da vicino con insinuarsi tra di loro ».

Una volta, in viaggio, fu catturato dai banditi che lo condussero nel bel mezzo di una selva,

dove, in 'attesa di peggio, cominciò a recitare il breviario.

Ecco che arriva il capoccia e gli chiede con autorità e disprezzo:

- Che fai qua, prete?

- Non vedi che fio? Sto pregando per voi.

Queste parole dignitose, certo non senza intervento della grazia però, compunsero i cuori

duri di quegli uomini che lo rimisero a cavallo e lo mandarono via.

Procedimenti senza precedenti. L'ultimo dei tosi detti compagni di S. Filippo, Pietro Consolini, entrò tardi in

Congregazione nel 1590 e perciò stette solo cinque anni col santo Padre, ma ne divenne

l'erede spirituale.

La vicenda di costui è strana, come quella di tanti altri, ma il modo è diverso.

S. Filippo, come lo vede, gli dice senza tanti complimenti:

- Orsù, figliolo, siete dei nostri. Ma l'altro non vi bada, non capisce e tira innanzi per il fatto

suo.

Passato qualche tempo, senza che Pietro ne sapesse cosa, lo fa accettare in Congregazione,

ma le vicende si svolgono così che Pietro entra liberamente e chiede una licenza di pochi

giorni per andare alla sua città e provvedersi di denaro ed altro.

- No, gli dice Filippo: sarai provveduto di tutto: danari, mobili per la camera, vesti ed ogni

altra cosa. Essendo assente provvisoriamente il suo confessore, Pietro, per poco, si confessa

da Filippo: ritornato il confessore, Consolini disse a Filippo: Padre, io ritorno al mio

confessore.

- No, gli dice Filippo e così restò sotto la direzione del Santo.

È meraviglioso però che tutti questi arbitrii contribuirono alla perfezione di Pietro.

Ecco alcune bravure mortificanti che il P. Filippo gli impose.

Aveva Pietro ottenuto un beneficio ecclesiastico, per essere ordinato suddiacono, e ciò per

opera del cardinale di Montalto: S. Filippo gli proibì assolutamente di ringraziare il

benefattore.

Venuta poi l'occasione, quando il cardinale incontrò Pietro, si congratulò dell'ordinazione e

del beneficio avuto e Consolini, sempre per ordine del Santo, si capisce, rispose con una

certa alterigia

Page 138: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

- Signor Cardinale, io merito altro che questo! Un'altra volta, Pietro doveva essere

esaminato dal Pontefice per un provvedimento di carattere generale che obbligava tutti i

chierici beneficiati.

Venuto Consolini dinanzi al Pontefice disse prima d'ogni altra cosa: «Beatissimo Padre, io

sono un letterato ed i miei pari non hanno bisogno di essere interrogati».

Il Pontefice comprese subito la fonte di quelle parole, sorrise, esentò il giovane dall'esame,

lo benedisse e lo licenziò.

Un altro giorno, Pietro si preparava a fare un discorso nell'Oratorio, la sera stessa, quando il

Santo lo chiama e gli impone di smettere quella preparazione e di preparare invece di un

discorso, un gioco comico, buffo, da leggere la sera dinanzi agli invitati, come usava a quei

tempi. Venne l'ora di fare il discorso e il P. Agostino Manni, che già conosciamo e che

disponeva l'ordine dei discorsi, non vedendo arrivare l'oratore designato, lo rintraccia e lo

prega di venire.

Pietro risponde angustiato: il P. Filippo mi ha dato a fare un'altra cosa.

Disgustato il Manni, corre da Filippo e gli fa le sue lagnanze ma il Santo gli dice seccato,

fintamente irritato, scrollando la testa: che ragionare all'Oratorio, che ragionare! Mi

meraviglio ben di te che vuoi disturbare quel buon uomo applicato a cose di grande

importanza: lascialo pure stare in pace: ciò che egli fa importa molto più che i ragionamenti

che tu dici.

Il Consolini, da parte sua, ottenne un successone nel convegno facendo crepare dalle risa e

di quel suo lavoro si parlò in tutta Roma.

Umilissimo, pure essendo dotto in letteratura, medicina, teologia, sacra scrittura,, storia e

lingua greca ed ebraica, occultava, quando poteva, questo straordinario sapere.

Devotissimo della Madonna, dopo aver ottenuto la liberazione quasi istantanea da un

gravissimo male alle ginocchia, scrisse una specie di salmo devoto in lode di Lei e spesso

lo cantava egli stesso.

Quando i Padri dovevano uscire, dovevano chiedere la benedizione al Santo, ma Filippo

ordinò al Consolini di chiederla in ginocchio ad un Fratello laico.

CAPO XXII

I GIOCHI CON I PIU' SEMPLICI

Un patrono in cielo, ma ancora sulla terra. Bernardino Corona, ch'era stato gentiluomo del cardinal Sirleto, entrò in Congregazione

come laico.

Era di tanta virtù che S. Filippo, mettendolo in grande imbarazzo, quando lo incontrava,

invocandolo come un santo, gli diceva: S. Bernardino, prega per me.

Appena entrato in Congregazione, fu messo ai servizi più svariati e più umili e

principalmente a quello di cuoco. Talvolta, mentre Bernardino si trovava in fondo alla

chiesa, Filippo chiamava l'uno o l'altro, come gli suggeriva l'estro, e comandava.

- Vedi là Bernardino che sta seduto in fondo alla chiesa? Va e baciagli i piedi.

- Ma lascia stare, diceva io sono un povero uomo.

- Me l'ha detto Filippo ed io debbo ubbidire, devo baciarti i piedi.

- Ma no, non lo permetto, insisteva Bernardino e rotirava i piedi indietro.

- Metti qua fuori i piedi, diceva l'altro e tentava di tirargli la gamba innanzi per forza.

Abituato a chiedere la benedizione del Santo prima di andare a letto, morto Filippo,

Bernardino la chiedeva ad ad un oggetto ch'era stato del Santo e che egli ora riteneva come

reliquia.

Vecchissimo, uno dopo l'altro, gli cadevano i denti; egli li infilava via via in un teschio di

morto che aveva in camera.

Page 139: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Un democratico innanzi tempo... Battista Flores, di Como, era sempre silenzioso e perciò fu soprannominato il taciturno.

Anche di lui avremmo parecchio da dire ma ci limitiamo a questo tratto specifico.

Non aveva nessun riguardo per i grandi di questo mondo e quando qualcuno gli diceva,

forse per correggerlo: vedi Battista, tu devi usare modi più convenienti, più rispettosi per i

grandi personaggi come, conti, marchesi, principi.

Per me, rispondeva Battista, ciò non vale niente: io stimo ugualmente il principe come il

facchino e mi basta che uno sia immagine di Dio, tempio dello Spirito Santo.

Uno che se la prende con le donne.

Giuliano Maccaluffi era un altro Fratello laico che entrò in Congregazione in una maniera

curiosa.

Aveva fatto egli tutte le pratiche per entrare nei Cappuccini ed aveva in mano il documento

del P. Provinciale di questi frati, per mostrarlo poi alla casa del noviziato per essere

ammesso.

Prima di partire, andò a baciare la mano a P. Filippo per consiglio del P. Angelo Velli suo

confessore.

Arrivato innanzi al Santo disse la ragione della sua venuta e spiegò anche che aveva la

lettera bella e pronta del Provinciale

- Fammi vedere questa lettera dice S. Filippo. Lo guarda poi fisso fisso, gli leva la lettera di

mano, gli comanda di togliersi il mantello e di mettersi a lavorare.

Giuliano non disse parola, ubbidì e dopo confidò agli altri di Congregazione che, alle parole

del Santo, s'era tutto cambiato come se non avesse mai conosciuto i Cappuccini.

Filippo spesso vedendolo così posato e raccolto, alieno da ogni gioco, gli comandava di

ballare anche dinanzi a grandi personaggi quando venivano.

La sua paura, per questa cosa, arrivò a tale punto che quando si accorgeva del pericolo, per

la presenza di pezzi grossi, si andava a nascondere.

Filippo che conosceva l'ingenua astuzia di Giuliano, trovava sempre modo di farlo scovare,

di farlo venire innanzi come un reo ed ordinargli di ballare.

Talvolta quando vedeva che due parlavano in chiesa, magari due giovani innamorati, egli,

che stava recitando l'ufficio della Madonna, si andava a mettere vicino a loro... Quelli si

spostavano seccati e lui si spostava ancora.

I due malcapitati finivano per doversene andare a parlare fuori di chiesa.

Uno che pensa sempre bene. Egidio Calvelli di Cingoli, nelle Marche, ci racconta un episodio di San Filippo ed è questo.

Venne al Santo, un giorno, un frate Certosino, il quale ammirato del gran bene fatto dalla

giovanissima Congregazione dell'Oratorio, volle sapere le regole, attraverso le quali si

compiva questo miracolo e le chiese a Filippo.

- Ma noi non abbiamo regole!

- Impossibile! Vostra Paternità non me le vuol mostrare, ma è chiaro che senza una regola

non si può andare innanzi.

- Eppure è così: noi non abbiamo una regola, ma una norma di vita: la carità.

Egidio fu così compreso di questa santa regola della carità che mai neppur pensava male

degli altri.

Anche quando uno fosse stato un ladro di fama pubblica, egli diceva: ma chi può mai

sapere se è proprio vero e se il poveretto non è stato calunniato o condannato in-

giustamente?

Page 140: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Quando non poteva negare il fatto, scusava le intenzioni, per lui non c'erano altre persone

cattive che i diavoli dell'inferno.

Ne nacque uno slogan in Congregazione: «La buona intenzione di Egidio».

Quando qualcuno avesse fatto una cosa del tutto ingiustificabile, si diceva: «non si potrebbe

scusare nemmeno con la buona intenzione di Egidio».

Era tanto allegro tuttavia che il Pontefice Innocenzo R Lo mandava a chiamare e si

tratteneva con lui. Incontrandolo per le vie, lo trattava come un vecchio amico,

confidenzialmente.

Aveva un gruzzoletto di danaro, tutta la sua fortuna, raggranellata in molti anni, e gli fu

rubata.

Egli cercava di non parlarne, ma quando qualcuno insisteva, egli se ne sbrigava

prontamente: «chi ha rubato quei danari doveva avere certo più bisogno di me: sono quindi

ben collocati».

Si occupava anche della farmacia di casa ed Egidio mentre manipolava pillole e faceva

intrugli, salmeggiava e pregava.

Perciò in casa e fuori dicevano che le pillole ed i medicinali, che Egidio preparava, avevano

maggiore virtù di sanare per l'accompagnamento delle orazioni che per gli ingredienti che

contenevano.

Amava molto visitare chiese e luoghi santi in genere e, con qualsiasi pretesto, andava fuori

e perciò Filippo gli diceva:

- Egidio tu hai lo spirito (la devozione) nelle calcagna. Una volta egli non voleva dire al

Santo dove era andato e perciò Filippo lo chiamò: « capitano degli zingari». Intendeva dire

che Egidio faceva come gli zingari che vanno da un luogo all'altro vagabondando.

Era divotissimo della Madonna e tra le altre divozione in onore di Lei, recitava una corona

formata da S. Filippo con le parole: «Vergine Maria, Madre di Dio - Prega per noi ».

Ecco poi un'altra canzonetta che pure cantava spesso insegnatagli da S. Felice da Cantalice.

Oggi in questa terra - E' nata una rosella Maria Verginella - Che è Madre di Dio.

Se tu non sai la via - D'andare in Paradiso Vattene a Maria - Con pietoso viso,

Che è clemente e pia - T'insegnerà la via.

Mori per imprudenza o l'occasione di fare lo zingaro: d'estate, andò a S. Pietro, giunse tutto

sudato e, in quelle condizioni, volle andare nel sotterraneo della Confessione.

Con il freddo e l'umido del luogo, prese una pleurite e morì.

Aveva 87 anni e passò da questa vita il 14 luglio 1653.

Uno che lavora più di tutti e parla meno di tutti.

Era costui Taddeo Landi, fiorentino, laboriosissimo e di poche parole.

Sentiva tanto bassamente di sé che si considerava come una bestia, come un niente.

Nacque presto nella Congregazione una specie di proverbio: è difficile trovare un uomo che

lavori di più e parli meno di Taddeo.

Non bisogna credere che fosse uomo grossolano: non solo era un artigiano valentissimo, ma

arrivò ad essere un vero artista.

Egli fece tutti quei lavori in noce della Sagrestia e delle camere dei Padri, che anche oggi si

vedono e sono ammirevoli e degni dell'artigiano più progredito.

Sistemò l'altare marmoreo della Sagrestia stessa e, fu tanto ben stimato, che hanno scritto di

lui 1'Aringhi e il Ricci.

Nella sua semplicità tuttavia, consapevole della fine imminente e sicura, parlava del

Paradiso come di cosa della Gongregazione, e accettava dai circostanti, come un fattorino

postale, ambasciate, messaggi, per i Santi e Beati del cielo, per i Padri e Fratelli già morti.

Page 141: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Il cardinal Baronio, già passato all'altra vita prima di lui, aveva avuto un affetto particolare

per questo Taddeo, per la di lui grande semplicità e perciò quel dotto uomo gli chiese

talvolta consiglio in cose gravi ed eseguì il consiglio.

Taddeo, consapevole pertanto di questo affetto singolare del grande cardinale per lui, si

compiaceva a pensare alla sorpresa che egli avrebbe fatto al Baronio in Paradiso

e perciò, a chi lo assisteva in punto di morte disse: u che credete voi, Padre, che sia per dire

il nostro cardinale Baronio, quando mi vedrà comparire dove è lui? Quante carezze, credo,

mi farà! ».

Mori il 2 gennaio 1643 in età di 83 anni dei quali 52 di Congregazione e quattro sotto la

direzione del Santo.

Uno che comanda alla gatta. Quale era lo spirito di quei primi Fratelli e, in genere, di quei primi figli di S. Filippo e di

altri dei quali non possiamo parlare, si può dedurre da ciò che il Consolini racconta di un

fratello anonimo.

Messo in cucina a lavorare, amantissimo com'era della Madonna, passava i giorni interi in

pensieri divoti verso di Lei.

Per poter dire corone ed altre devozioni, senza interrompere le sue occupazioni, aveva sulla

tavola, accanto al fuoco, sessantatre stecche e, con ognuna di quelle stecche, segnava

un'Ave Maria già detta.

Una sua devozione speciale era quella di servir Messa, ma come andare la mattina in

chiesa, indugiarsi e lasciar nessuno in cucina?

Un giorno ebbe l'ispirazione di servirsi della gatta... La chiamò dunque e, con eccezionale

confidenza in Dio, le comandò che salisse sopra la tavola e avesse cura della cucina finché

lui avesse udita la Messa.

Comunque sia avvenuto, la gatta ubbidì e non si mosse da dove egli l'aveva messa.

Aveva trovato un metodo: così fece per molto tempo.

CAPO XXIII

FILIPPO RIDE E GIOCA CON I PAPI

Una protesta vivace dinanzi al Papa.

Crediamo che nessun personaggio laico od ecclesiastico abbia avuto rapporti così cordiali e

liberi coi papi ma, nello stesso tempo, così rispettosi, devoti, come S. Filippo: è un fatto

unico, almeno nel genere suo, nella storia dei pontefici, e ne abbiamo documenti solenni,

qualcuno dei quali autografo.

Tralasciamo qui la narrazione di avvenimenti di grande importanza, in questi rapporti con i

papi, e ci limitiamo ad episodi, giochi, spiritosità, per restare nei limiti del nostro tema.

Il primo dei papi dei quali Filippo godette la familiarità fu Gregorio XIII, già Ugo

Boncompagni, che conobbe Filippo molto presto.

Questo Pontefice, per il decoro della santità del Sacramento della Penitenza o Confessione,

prescrisse che i sacerdoti, nell'amministrazione sacramentale, portassero sopra le vesti

ordinarie la cotta, e cioè una specie di camice sacro, bianco che scende fino a metà della

persona.

S. Filippo pativa di una violenta palpitazione di cuore e di un calore insopportabile,

d'inverno e d'estate, per via della dilatazione del cuore, quando ricevette lo Spirito Santo.

Quando egli ebbe cognizione della disposizione del Papa, disse: povero me! Come farò io

ad indossare la cotta, quando mal sopporto le vesti di ogni giorno? Come farò? Scriverò una

supplica? Incaricherò qualcuno di far presente al Pontefice la mia condizione?

Page 142: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Ma questa incertezza durò poco, perché egli non era uomo di indugi e, forse, mentre

pensava a come regolarsi, si avviò verso Palazzo, cioè la dimora del Papa.

Per rendere più evidente il suo disagio, si presentò dinanzi a Gregorio con la veste e il

soprabito sbottonati, quasi come se fosse stato in camera sua, in tutta libertà.

- P. Filippo, avrà detto il Papa, ben meravigliato, come mai così sbottonato? Forse i bottoni

sono caduti? Non avete avuto tempo di abbottonarvi o ve ne siete dimenticato?

- Padre Santo, niente di tutto ciò, ma una cosa ben più grande: io non posso sopportare vesti

abbottonate e voi, per giunta, volete che io porti un'altra veste, confessando per lunghe ore?

Non posso, non posso, Padre Santo! - P. Filippo non vi agitate: voglio che l'ordine non sia

fatto per voi e andate come vi piace.

Visite con ogni precedenza. Le visite di Filippo al Papa erano frequenti e quasi sempre avvenivano così: il Santo

andava, senza aver chiesto udienza o farsi annunziare prima.

Giunto alla residenza pontificia, si dirigeva all'appartamento del Pontefice, come se fosse

stato a casa sua. Quasi sempre, nell'anticamera, v'erano grandi personalità, principi,

diplomatici e, molto spesso, nipoti ed altri congiunti stretti del Papa e tutti attendevano il

segno per essere ricevuti.

Filippo passava senza guardare nessuno, andava dritto alla porta dello studio e trovava un

domestico sulla soglia. Il domestico salutava con rispetto, apriva la porta, che si chiudeva

dietro al Santo.

Tra la meraviglia generale qualcuno chiedeva:

- Ma chi è quel vecchio prete audace che osa tanto? - Come non lo sapete? si sentiva

rispondere, quello è il P. Filippo.

- Chiunque sia, noi siamo qui da tanto tempo ad. aspettare e lui...

- Informatevi chi sia P. Filippo e vi spiegherete tutto e avrete pazienza.

Gregorio voleva far vescovo Filippo, come confidò egli stesso al Cardinal Federico, ma il

Santo se la sarà cavata. con una delle sue barzellette! Con una barzelletta infatti se la cavò

quando il Papa gli propose di farlo canonico di S. Pietro.

- P. Filippo, per l'affetto che vi porto vorrei nominarvi canonico di S. Pietro.

- Padre Santo, io accetterei ben volentieri, ma non so proprio portare la veste canonicale.

Era una di quelle risposte che tolgono il coraggio di riproporre.

Il più grande si fa più piccolo col più piccolo. Il Pontefice di cui parliamo qui è Gregorio XIV. Quando egli si chiamava ancora Nicolò

Sfondrato era un ammiratore dell'Oratorio ed un devoto di Filippo.

Un suo nipote, Paolo Camillo, che poi fu nominato cardinale, era stato per parecchi anni

sotto la direzione di Filippo.

Un anno prima della morte di Sisto V, Nicolò Sfondrato, allora solo cardinale di Cremona,

come spesso gli accadeva, si trovava alla Vallicella con Filippo.

Ad un certo momento il Santo disse al nobile Marcello Vitelleschi, ch'era tra i presenti

- Marcello, nell'armadio dell'altra stanza, c'è un berrettino bianco: portamelo qui.

Avuto che l'ebbe, s'accostò al cardinale di Cremona e gli disse

- Monsignore illustrissimo, penso che questo berrettino bianco vi starebbe bene! Volete

provarlo per cortesia? - P. Filippo, questo è un berrettino da pontefice, ma dal momento che

volete giocare per dare il buon umore ai presenti, vi accontento.

- A pennello! Va benissimo! Pare fatto proprio per voi!

Gli altri ridevano, rideva Filippo e rise pure il cardinale, che seppe prendere la cosa in pace,

benché avesse tutta la forma di una canzonatura.

Page 143: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Passò, su per giù, un anno da questo scherzo e tutti l'avevano dimenticato, quando Sisto V

morì.

Fu eletto Urbano VII ma, poveretto, regnò solo tredici giorni ed il conclave per eleggere il

successore non si decideva.

In uno di questi giorni, nell'atmosfera di incertezza e di attesa, ecco che arrivò alla

Vallicella il Cardinal Sfondrato e fece chiedere al P. Filippo se poteva salire.

- Dite a Monsignore Illustrissimo che vengo io giù, che non si muova, e vado a vederlo in

sala, dove si compiaccia di aspettare.

Filippo scende e lo seguono tutte quelle persone che si trovavano con lui, tra i quali i

documenti del tempo, nominano Paolo Crescenzi e Marcello Vitelleschi.

Il discorso volgeva sulle generali, quando Filippo ordinò ai presenti di baciare i piedi al

Cardinale uno dopo l'altro, in ordine.

In tempo di aspettativa di elezione questa era una burla solenne, fatta ad un cardinale: è

l'episodio che fa il paio con l'altro del berrettino bianco.

Non mancarono commenti salaci come questo: che bisogno c'è ora più che il conclave

prosegua? P. Filippo ha eletto lui il Papa e noi abbiamo fatto l'adorazione.

Ci fu forse qualcuno che riprovò in cuor suo perché ciò era mettere in burla non solo il

Cardinale, ma anche il segno ,di omaggio che si usava all'elezione del nuovo Papa.

Quasi tutti però non approfondirono la cosa e credet= tero che quanto era avvenuto, era

stato un capriccio del P. Filippo.

Non s'era ancora spento il ricordo di questo scherzo, quando, sempre in quella lunga

vacanza, si vede in chiesa il Cardinal Sfondrato, che pareva non potesse restare a lungo

lontano da Filippo.

- In chiesa, viene ad annunziare qualcuno, c'è il cardinale Sfondrato.

- Chi? Quel papa? Risponde Filippo.

Il messaggero che non sa i giochi precedenti del Santo, alla sua risposta, resta di stucco e

pensa che Filippo o sia impazzito o abbia scherzato e ripete: dico che è venuto il cardinale

Sfondrato, che non è papa ancora...

Non passò molto tempo e quello che pareva un papa da burla, creato da Filippo, fu eletto

Papa dal Conclave. Prese il nome di Gregorio XIV.

Pensiamo che Gregorio si ricordò in quel momento degli episodi da noi descritti e comprese

che il Santo era stato illuminato da una luce celeste e che quegli scherzi non erano stati

scherzi ma gesti profetici.

Il nuovo Papa, pertanto, quando vide Filippo, che andò a rendergli omaggio, gli disse: «P.

Filippo, vi facciamo cardinale ».

Gregorio si volse poi a Monsignor Vestri e gli comandò di redigere il documento di nomina

o il «Breve», come si dice in gergo curiale.

Filippo si accostò confidenzialmente al Papa e gli disse all'orecchio qualche parola: tagliò

netto, - almeno per il momento, all'offerta del Papa, con abilità e forse con qualche scherzo

che noi non sappiamo.

Il Papa tuttavia gli dette la sua berretta rossa da cardinale e Filippo la serbò come se avesse

accettato.

In realtà, però, l'offerta del Papa cadde per una di quelle manovrette che tante volte il Santo

faceva.

Quando poi di cardinalato non si parlava più, il Santo passò all'offensiva ed ogni volta che

vedeva Monsignor Vestri, faceva il viso scuro, seccatissimo, come uno che bruciava di

essere cardinale, e gli diceva: « Monsignore voi non mi avete fatto ancora il Breve,

fatemelo ».

Page 144: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Anzi della stessa offerta del cardinalato si divertiva anche in questo modo: diceva di avere

accettato di essere cardinale, ma con la condizione di fissare lui il giorno... Era un ripetere

la favola di Bertoldo, che, condannato a morte, chiese in grazia di essere impiccato ad un

albero di sua scelta.

Ogni visita di Filippo era una festa per il Papa, che prendeva subito un'aria serena al suo

arrivo, lo abbracciava affettuosamente, lo faceva sedere, lo faceva coprire e poi gli parlava

di tante cose.

Come ad un vecchio amico, il Pontefice gli chiedeva consigli e Filippo confidò questa cosa

a Germanico Fedeli.

Il Papa, un certo giorno, espresse al Santo questa confessione di grande umiltà: « Padre

miao, maggiore di noi in santità, sebbene noi maggiore di Voi in dignità».

Il primo biografo del Santo, Gallonio, era presente ed udì le parole del Papa, il quale era poi

felice, nel vero senso della parola, di concedere tutto ciò che Filippo gli domandava o gli

altri domandavano per lui o per la Congregazione.

Gli chiesero così il privilegio che il Santo potesse dir Messa in un Oratorio privato, per

ragioni della sua età e delle sue malattie e la commutazione della recita del Breviario in una

corona del rosario. Filippo non fece uso di questa commutazione.

Il Pontefice arrivò a questa sollecitudine affettuosa proibì al Santo di confessare in chiesa,

per evitargli di affaticarsi troppo e di dover salire e scendere le scale.

Il Papa che polemizza... con Filippo.

Questo Papa fu Clemente VIII, che ebbe con Filippo rapporti non meno cordiali di quelli di

Gregorio XIV, ma lo stile, diremo così, era diverso, come diverso era il carattere dei due

Papi.

Clemente, da quando era Ippolito Aldobrandini, frequentò molto la Vallicella: egli si

confessava da Filippo come attesta una chiara deposizione del processo.

Il Papa avrebbe voluto ancora Filippo per confessore, ma non potendo il Santo, per la sua

grave età, scelse il figlio prediletto di lui Cesare Baronio e noi ne abbiamo data notizia

innanzi.

Anche Clemente, quando riceveva Filippo, non solo lo faceva subito sedere e lo obbligava a

stare coperto, ma veniva ad abbracci e baci.

Il Papa aveva una fiducia assoluta delle preghiere di Filippo e quando le cose non gli

andavano bene o non andavano come avrebbe desiderato, con dolce rimprovero, diceva: « Il

P. Filippo non prega per noi».

Anche questo Papa fece l'offerta a Filippo di farlo cardinale, ma essa fini come le altre

offerte: Filippo ne fece anzi un gioco.

Abbiamo parlato innanzi di quel Bernardino Corona, laico di Congregazione.

Ora S. Filippo a questo laico, con l'aria misteriosa di chi fa una confidenza, dopo una nuova

offerta del Papa, tornò a casa e disse a Bernardino:

- Sai Bernardino: Il Papa mi vuol fare cardinale: che te ne pare? Debbo o non debbo

accettare?

- Certo: sarebbe bello accettare almeno per il vantaggio della Congregazione, rispose

Bernardino, che si sentì onorato di una consultazione del Santo.

Filippo però non lo lasciò molto pensare, si bolse la berretta di testa, la levò in alto col

gesto di un monello e disse in un impeto di esaltazione mistica: «Paradiso, Paradiso ».

Ma ecco la cosa più incredibile tra tante cose incredibili.

Gregorio XIV, come abbiamo detto, aveva proibito a Filippo di scendere in chiesa a

confessare, per via della salute, ma probabilmente il Santo aveva continuato a scendere: il

nuovo Pontefice Clemente dovette rinnovare la proibizione.

Page 145: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Nel rispondere al Pontefice, Filippo finge che si fosse pensato e creduto che egli, scendendo

ancora in chiesa, volesse far concorrenza al Pontefice.

Ecco il testo che S. Filippo fece recapitare a Clemente VIII, di un memoriale in cui era

detto «che si meravigliava oltre modo che fosse stato pensato e creduto che egli avesse

voluto togliere il papato a Sua Santità. Se era andato in chiesa e s'era lasciato baciare i piedi

e le mani da quelli che venivano a lui, non per questo si doveva fare giudizio che egli

volesse io ambisse il papato. Volendo esser lui (Filippo) papa non potendosi essere due

papi, sarebbe stato necessario desiderare la morte a chi tanto amava come Sua Santità.

Pregava che lo volesse riabilitare a confessare in chiesa quattro donnucce o uomini di poco

conto, perché Messer Cesare (il Baronio succeduto a Filippo come Superiore) gli aveva

tolto con la superioranza Monsignor Panfili e l'Abate Maffa. I cardinali li avrebbe

confessati a ietto, se non gli fossero stati rubati dal medesimo». (Baronio).

Genialità, devozione, rifulgono in questo brano con un umorismo finissimo.

Ma più bella e più gustosa è la lettera seguente che Filippo manda allo stesso Pontefice.

Una figliola di Claudio Neri, non parente però del Santo, Innocenza, doveva entrare tra le

oblate di Tor de' Specchi, ma v'erano difficoltà.

Si vede che Claudio aveva interessato Filippo, perché intervenisse presso il Pontefice che,

solo, poteva eliminare ogni difficoltà in quelle circostanze.

Filippo scrisse il memoriale, che noi riportiamo nella trascrizione moderna, con qualche

parola dichiarativa, tra parentesi, e la risposta del Papa, che si conserva ancora.

In questa lettera, fra le tante apparenti audacie, Filippo dice al Papa che il bene che ha detto

di lui un cardinale, è inferiore alla realtà che, insomma, il Papa non è così buono come si

dice.

Poi rimprovera il Papa di non essere andato a visitarlo, ma invece è andato a visitarlo uno

maggiore di lui nella santa Comunione, Gesù.

Sarebbero, queste, delle offese atroci e noi abbiamo voluto riassumere, perché il lettore

veda meglio come, sotto l'apparenza di simili proposizioni, Filippo trova il modo di

confessare al Pontefice un amore sconfinato e una devozione totale.

Ora ecco il testo che il lettore può gustare da sè. «Beatissimo Padre, e che persona son io

che cardinali abbiano da venire a visitarmi? specialmente ieri sera il cardinal di Firenze

(Alessandro dei Medici) e Cusano; e perché avevo bisogno di un poco di manna di foglie,

(un leggero purgante) detto signor Cardinale di Firenze, me ne fece avere due once da

Santo Spirito (l'ospedale) perché esso Signor Cardinale ne aveva mandato gran quantità a

quel luogo l'istesso giorno. Si fermò sino a due ore di notte e disse tanto bene di Vostra

Santità, più di quello che mi pareva, atteso ché, essendo ella Papa, dovrebbe essere l'istessa

umiltà, Cristo, a sette ore di notte, si venne ad incorporare con me (nella S. Comunione); e

Vostra Santità guarda che la venisse pur una volta nella nostra chiesa. Cristo è uomo ed è

Dio e mi viene, ogni volta che io voglio a visitare; e Vostra Santità è uomo puro, nato da un

uomo santo e da bene; esso (Cristo) nato da Dio Padre. Vostra Santità nato dalla signora

Agnesina, santissima donna; ma Esso nato dalla Vergine delle Vergini. Avrei da dire se

volessi secondare la collera che ho. Comando a Vostra Santità che faccia la mia volontà,

circa una Zitella, quale io desidero mettere in Ztor dé Specchi, figliola di Claudio Nerio al

quale Vostra Santità ha promesso di avere protezione dei suoi figlioli, ricordandogli esser

cosa da Papa l'osservare le promesse: però, detto negozio la Santità Vostra lo rimetta a me,

acciocché bisognando mi possa servire della Sua parola; tanto più sapendo io la volontà

della zitella, quale so certo muoversi meramente per divina ispirazione; e con maggiore

umiltà che devo li bacio i santissimi piedi ».

Page 146: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Clemente VIII che comprese bene tutta l'ondata di devozione religiosa e di amore filiale

nascosto in quelle parole materialmente aggressive, rispose nella finzione di una terza

persona, che esegue la commissione del Pontefice.

«Dice il Papa che la polizza (foglio) nella prima parte, contiene un poco di spirito di

ambizione, volendo che egli sappia che i cardinali la visitano tanto frequentemente se già

non fosse per insinuargli che quei tali signori sono spirituali, il che si sa molto, bene. Del

non esser venuto a vederla, dice che vostra reverenza, non lo merita, perché non ha voluto

accettare il cardinalato tante volte offertole. Quanto al comandamento, si contenta che Ella

con il suo solito imperio, faccia un rabbuffo a quelle buone Madri, se non fanno a suo

modo. E torna a comandare a Lei che si riguardi, né torni al confessionale, senza sua

licenza. E quando Nostro Signore la viene a vedere, lo preghi per lui e per i bisogni urgenti

della cristianità ».

CAPO XXIV

LA VITTORIA DI FILIPPO SULLA VECCHIAIA

GLI ULTIMI SPRAZZI

Filippo proclamato vittorioso del dolore nel mondo intero.

Non c'è, credo, nel mondo intero, persona alcuna che non ceda alla tristezza, alla

malinconia, all'abbattimento, nelle difficoltà e nelle angustie di una tarda vecchiezza,

specialmente se gravata di malattie.

Filippo, in questo lungo periodo, non cede di un pollice a qualsiasi forma di

scoraggiamento: malattie più o meno gravi si susseguirono dal 1592, ma la sua vena di

gioia e di gioco, rimane ferma come nella gioventù.

Che? Egli delle malattie stesse faceva occasione di gioco.

Il suo stesso organismo si rendeva complice di questa sua vena di umorismo, di guisa che

offriva sorprese, che poi diventavano beffe.

La mattina pareva morto e non parlava e la sera riceveva persone e celiava.

In una crisi lunga e penosa, la febbre fu altissima e la tosse insistente per quaranta giorni.

Una sera, il medico Gerolamo Cordella l'ha lasciato boccheggiante, disperando ormai della

vita.

L'indomani il medico arriva, calmo, sicuro di trovarlo morto, ma non appena lo guarda in

viso, si meraviglia, e anche Filippo si rende conto di questa meraviglia e gli dice

- Sta pur sicuro, Cordella, che io non morirò di questa malattia.

Alla fine di novembre, è di nuovo moribondo e vede che i suoi penitenti si sbandano e

cercano altri confessori. Egli, con la sicurezza di chi da un appuntamento, parla così

- Abbiate pazienza, figlioli. Per Natale udrò le vostre confessioni.

A Natale udì le confessioni di tutti, ch'erano ben molti. In un'altra crisi, lettere partono dalla

Vallicella a quei di Napoli e ad altre persone e dicono che Filippo è moribondo, ma dopo

qualche giorno debbono scrivere invece che sta bene.

Il controllo di se stesso tuttavia era rigoroso e non si illudeva quando gli altri, invece,

s'illudevano.

Poco meno di due mesi prima della morte, egli si presenta in tali condizioni fisiche che'

promette di vivere ancora alcuni anni: al contrario, proprio in quelle condizioni, vede la sua

fine vicinissima.

In tali circostanze, un giorno, l'abate Maffa gli dice sicuro: Padre, non dubitate che Dio vi

farà vivere lungo tempo ancora.

Come noi, quando non accettiamo un parere degli altri, diciamo scherzando: vuoi

scommettere che non è così? egli risponde all'abate:

- Se ti basta l'animo di farmi passare quest'anno, ti voglio dare una bella cosa.

Page 147: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Nella terza decade del mese di aprile è gravissimo: neppure gli altri s'illudono: non può

neppure celebrare la santa Messa.

Egli dice ai suoi sconfortati:

- Il primo maggio (mese in cui morì) io mi alzerò e celebrerò, perché quel giorno è la festa

dei santi Filippo e Giacomo, mio onomastico.

Puntualmente il primo maggio celebrò e voleva seguitare a celebrare ininterrottamente, ma i

medici gli imposero tre giorni di riposo, non celebrando, ed egli obbedì.

Il giorno 5 però, fatta l'obbedienza, riprese a celebrare e celebrò per alcuni giorni.

Nuova crisi però con manifestazioni nuove: grandi e frequenti sbocchi di sangue.

- Ora se ne muore il nostro Padre, dice il Baronio e bisogna dargli l'Estrema Unzione.

Il cardinale Federico Borromeo, quando il malato mostra un po' più di energia, gli

amministra il Viatico.

Gli sbocchi di sangue però riprendono, ed uno che gli sta vicino, probabilmente quello che

gli teneva la catinella per raccogliere il sangue, è sgomento e lo mostra nel viso.

Filippo lo guarda in faccia, si accorge di quello sgomento e dice allegro:

- Hai paura eh? Non ho paura io.

Il giorno 13 maggio, dodici giorni prima della morte, di mattina, i medici che lo assistono

arrivano prestissimo e lo trovano lieto, faceto ed egli dice loro stuzzicandoli:

- Guardatemil Non è vero che io sono sano? E li derideva.

Quel giorno 13, riprese a dire la Messa e sapete fino a quando la disse? Fino al giorno della

sua morte.

Solo la Messa disse? Macché! Quel giorno confessa, conversa, disposto a ricevere ogni

nuovo venuto, fino all'ultimo.

C'è un particolare di quell'ultima Messa: ad un certo momento, egli cominciò a cantare,

cosa davvero non solita.

Tutti si guardavano in faccia e pensavano: ma che succede, è impazzito P. Filippo?

No, egli era in un'estasi, in un mare di gioia.

Ma l'incredibile delle sorprese in questo ultimo giorno è la dichiarazione fatta a Filippo

stesso dal medico Cordelia, presente Gallonio

- Il P. Filippo da dieci anni in qua non è stato mai così bene come ora.

Filippo non credette a questa dichiarazione, come si rileva da circostanze che sarebbe lungo

riportare.

La sera di questo ultimo giorno si conchiude con un atto di spavalderia burlona.

Verso le diciotto, Filippo recitò quella parte dell'Ufficio divino chiamata Mattutino,

anticipandola dal giorno seguente: accompagnavano in quella recitazione il cardinal

Cusano, Gerolamo Panfili, Spinello Benci.

Alla fine si levarono tutti e, rientrando dalla loggia in camera, il cardinal Cusano gli dette il

braccio per aiutarlo a salire uno scalino, ma egli, con gesto deciso, ricusò l'aiuto e disse

come risentito, ma rîdendo

- Credete che io non sia gagliardo?

Alcune ore dopo, nella seconda parte della notte sui giorni 25-26, egli moriva placidamente.

In quello stesso anno 1595, prima ancora che Filippo morisse, uno degli uomini più dotti

del tempo, Gabriele Paleotto, pubblicò un libro intitolato così in italiano «Della beatitudine

della vecchiezza». Egli leva in alto, innanzi al mondo intero, la figura di Filippo, come

quella del vegliardo saggio che attraversa vittorioso l'ultimo, aborrito tratto del percorso

umano, della deprecata vecchiezza.

CAPO XXV

IL PAZZO E' PROCLAMATO MAESTRO FILOSOFO ED EROE

Page 148: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA

Maestro. Il riso e il gioco, nella nuova formulazione di Filippo Neri, nati piccoli e cresciuti

nell'ostilità e nel disprezzo, nei primi tempi, come tutte le cose belle e sante, guadagnarono

terreno, poi vinsero, poi stravinsero e poi dal piccolo presepe di S. Girolamo della Carità

strariparono nel mondo intero.

La pazzia di S. Filippo contagiò, per dire così, il mondo benignamente e Filippo apparve il

maestro di un nuovo costume di vita spirituale.

In breve tempo, le Congregazioni dell'Oratorio, a somiglianza di quella di Roma, sorsero in

molti luoghi e diventarono centri della spiritualità gioiosa di Filippo.

Queste nuove Congregazioni crebbero a centinaia, ed anche oggi molte restano, non solo,

ma riprendono, dopo l'ondata della rivoluzione francese e tutto il male che venne in seguito.

Dove non fu possibile la nascita di Congregazioni, si stabilirono Oratori e cioè gruppi di

uomini di buona volontà, non conviventi, che praticavano la vita spirituale come l'aveva

insegnata il Santo.

Ci limitiamo a segnalare alcuni esempi di soli Oratorii ed alcune di queste personalità che si

misera nella scia di Filippo.

Giovanni Leonardi, poi canonizzato anche lui (15411609) ch'ebbe la ventura di avvicinare

Filippo e conoscere l'opera sua in Roma, fu anche ospite del Santo.

Gli voleva bene S. Filippo, lo trattava molto familiarmente e scherzosamente e una volta gli

disse:

- Tu sei un santo, ma cerca di mantenerti come sei. Leonardi organizzò presto una

convivenza di giovani, che egli dirigeva e formava e poi sarebbe diventata la Con-

gregazione dei Chierici Regolari della Madre di Dio.

Ecco come egli a principio esercitava i suoi confratelli. Li mandava spesso con le vesti

logore e rattoppate per la città, a chiedere elemosine alle porte degli artigiani e di altri, dai

quali venivano spesso burlati e anche maltrattati, con parole e gesti ingiuriosi.

Oomandò un giorno a Giovanbattista Cioni di andare a casa di Giovanni Fornaini, di

pregarlo di dargli per amor di Dio un fascio di legna e portarlo così a spalla per mezzo alla

città.

Un'altra volta gli impose che, spogliatosi fino alla cintura, con le mani legate dietro,

andasse per le pubbliche strade insieme con un fratello, il quale con una scopa gli battesse

le spalle.

Obbedì egli prontamente, ma aveva appena posto il piede fuori di casa che lo fece subito

tornare indietro. Spesso chiamava uno, mentre stava a mensa, in mezzo al refettorio,

affinché dicesse tutte le sue colpe: lo lasciava poi così ginocchioni, fino a tanto che fosse

terminato il mangiare e anche oltre e, alla fine, voleva sapere da lui ciò che gli era passato

in mente in quel tempo. Talvolta avrebbe comandato ad uno che andasse nel mezzo della

pubblica piazza, quando vi era maggior frequenza di popolo e qui in ginocchio s'accusasse

ad alta voce di tutti i suoi peccati: ma poi l'avrebbe fatto richiamare dicendo che non voleva

che scandalizzasse tutto il popolo, ma facesse, quella stessa azione alla presenza dei fratelli

dell'Oratorio.

Abbiamo già ricordato un certo Turchetti Pensabene, tipo curioso e amabilissimo, di una

semplicità angelica. Costui esordi nella via della santità come mulattiere dei Romiti

Camaldolesi, i quali avevano una terribile mula, la quale menava calci e mordeva che era

una bellezza.

Quei romiti comandarono a Pensabene di condurre la mula alla fiera, che si teneva in un

paese vicino e venderla.

Pensabene andò, ma a tutti quelli che s'accostavano per comprare la mula egli diceva tutte

le virtù che essa aveva, tra le quali quelle di tirar calci e mordere.

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Pensate bene se vendette la mula...

Egli era un tipo fatto apposta per imitare i giochi più audaci di Filippo.

Venuto a Roma, conobbe S. Filippo, partecipò alle pratiche dell'Oratorio e, dopo molte altre

peripezie, si unì al P. Enrico Pietra nell'opera della Dottrina Cristiana e vi compì un

apostolato meraviglioso.

In Fermo, dove egli stette un certo tempo, introdusse gli esercizi spirituali praticati da S.

Filippo, imitando anche i modi più brucianti di mortificazione: per esempio, imponeva ai

suoi compagni che uscissero per la città e andassero in piazza chi con una testa di morto in

mano, chi con un cappellaccio alla foggia antica e in altre maniere, per attirare lo scherno.

Più tardi, un altro grande, S. Giuseppe Cottolengo 11786-1842) è tanto preso dall'esempio

di S. Filippo che vuol ricopiarlo in tutto, e il suo maggior biografo in un lungo capitolo di

oltre venti pagine della vita intitolato: - Il Cottolengo e la perfetta letizia - ci presenta il

Santo piemontese in una documentata rassomiglianza col Santo fiorentino.

Il Cottolengo si definiva un «orso » pur lui che aveva trovato il modo di elaborare la gioia

in poveri minorati di corpo e di mente.

Se gli dicevano che era un santo, rispondeva: «santo delle coma»!

Un tale aveva scritto sulla busta di una lettera a lui diretta il suo cognome sbagliato e cioè:

« Canonico Cotanengo » invece di Cottolengo.

Egli lesse ad alta voce l'indirizzo e si divertì un mondo a dire allegramente: «ecco una che

mi conosce 1 Sono uno che Contaniente!

Un giorno uscì perfino fuori la casa e fece un largo giro, sopra un asino, goffamente con la

berretta in testa, mentre un altro prete, pur lui con la berretta da chiesa, guidava l'asino

come staffiere, come se si trattasse di un cavallo di lusso.

Come S. Filippo, giocava con i fanciulli nella « Piccola casa» e il suo motto era: « Poverelli

ma allegri».

Un altra- ancor più tardi (1815-1888) Giovanni Bosco si assimilò in tutto lo spirito di S.

Filippo.

Non possiamo raccogliere episodi particolari, tanti essi sono e ci limitiamo ad una scena

avvenuta in chiesa. Una volta, Don Bosco nella piccola città di Alba, in Piemonte, tesseva il

panegirico di S. Filippo e s'inoltrava .a descriverlo drammaticamente, al suo ingresso in

Roma, tacendo il nome, per creare la sorpresa nell'uditorio, come portava il modo letterario

del tempo.

Quando Don Bosco ebbe finito la descrizione e disse il nome del giovane: Filippo Neri, più

di uno commentò sottovoce: Giovanni Bosco, Giovanni Bosco!

Venendo più vicino a noi, Don Luigi Guanella (1842-1915) ha rivissuto S. Filippo in una

maniera più drammatica e si resta incerto a scegliere questo o quell'episodio.

Il 26 maggio 1903, Don Guanella si trovava a Roma e scrisse ai suoi figlioli di lassù: «Cari

amici, oggi S. Filippo, anniversario della mia ordinazione (sacerdotale) vi auguro e vi

benedico tutti, col patto di essere savii, santi, sani... In Domino state allegri, asinelli tutti,

che lo sto bene pater asellorum » (padre degli asinelli).

Non c'era discorso in cui non entrasse il nome di S. Filippo.

Il sacerdote Leonardo Mazzucchi, superiore generale dei « Servi della Carità » cioè la

Congregazione fondata dal Guanella, così si esprime: « Il serafico e letiziante San Filippo

Neri gli veniva immancabilmente sulla bocca e nella penna per invitare se ed i suoi a

giubilare ancora». Di poco posteriore a questo Don Luigi, un altro Don Luigi, conosciuto

più comunemente col cognome di Don Orione (1872-1940) ebbe in S. Filippo il maestro e

il genio ispiratore.

Lesse e rilesse la vita di S. Filippo Neri scritta dal Capecelatro, e in Tortona si vede la copia

che egli usò, tutta segnata a matita.

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Tutti quei segni, scrive Don Luigi Orlandi, dicono quanto Don Orione abbia fatta sua la

spiritualità gioiosa filippina.

Se avessi tempo, egli aggiunse, potrei sviluppare uno studio dal titolo: «La spiritualità

Filippina nel servo di Dio Don Luigi Orione ».

Quando si Grattò di fondare in Roma un Istituto educativo e prendere possesso, per dire

così, della città eterna, egli non ci pensò due volte e chiamò quell'istituto S. Filippo Neri.

La nuova opera ebbe presto a sostenere grandi lotte e dovette chiudere i battenti.

In quei momenti dolorosi, il Servo di Dio, scrisse all'ingegnere Leonori, tra le altre cose: «

sono andato a ringraziare S. Filippo... L'Istituto S. Filippo Neri ci metterà nulla a risorgere.

La SS. Vergine e il suo caro Compatrono di Roma sorrideranno di coloro che l'hanno

creduto finito ». Fu una profezia: oggi l'Istituto è un grande Istituto, uno dei primi della

città, col suo vecchio nome: «Istituto San Filippo Neri ».

Chi non ha sentito parlare di Don Giovanni Calabria, partito ieri, si può dire, per il

Paradiso, fondatore in Verona dell'opera: « Buoni Fanciulli »?

Egli, per rendere S. Filippo vivo, presente, tra. i suoi « Buoni Fanciulli », tra le altre cose,

fece scrivere sulle mura del refettorio le massime di S. Filippo Neri ai giovani.

Nei suoi continui trattenimenti con i piccoli, rievocava episodi di S. Filippo: dove infatti ne

avrebbe potuto trovare più opportuni per quell'età?

Nei primi tempi dell'Opera, quando il numero ancora lo consentiva, egli conduceva i

giovanetti in massa a partecipare ad una delle più caratteristiche manifestazioni filippine, la

meravigliosa pratica della « Visita alle Sette Chiese ».

Non possiamo emettere il ricordo di una donna inglese, Eugénie Strong, che visse

lungamente in Italia, dama di grande capacità intellettuale e artistica, conosciuta in tutta

l'Europa e che, per un certo tempo, dominò in Roma, con un suo salotto di intellettuali,

morta nel 1943. Innamorata dell'Italia, di Roma e di S. Filippo, scrisse una magistrale guida

della «Chiesa Nuova», il tempio edificato dal nostro Santo.

Nella sua dimora in Roma, aveva una testa di S. Filippo, in cera, una copia, forse, dello

stampo preso subito dopo la morte del Santo, collocata in una custodia e messa in bella

mostra, per testimoniare il suo affetto, la sua venerazione per S. Filippo.

Un uomo di grande fede cattolica e di grande slancio nell'attività sociale, Giovanni Grosoli

Piroci, ebbe ad affrontare terribili lotte e incontrò delusioni, insuccessi, e perdette quasi

tutto il suo patrimonio.

Egli trovò ancora coraggio e serenità nel suo amore a S. Filippo e fece porre nella Chiesa

Nuova, proprio dinanzi alla tomba del Santo questa testimonianza: « A S. Filippo -

Potentissimo a rendere gioconde - Pur nelle avversità terrene - Le vie del Signore -

Giovanni Grosoli Piroci - Con animo grato - Pose – XXVI maggio MCMXXI».

Non passa anno, che, sotto un titolo o un altro, non venga fuori un libro, un opuscolo, che ci

presenta Filippo come il patrono, l'ispiratore, il santo della gioia.

Don Giovanni Minozzi, apostolo infaticabile di giovani, ha pubblicato nel 1959 un

volumetto rapido, lirico, biografico di S. Filippo, che egli presenta alla gioventù .come

l'uomo dalla « giovialità più fascinosa e più dolce ».

Joyous Heart presenta S. Filippo ai giovani americani come il maestro più grande di gioia

in una lussuosa edizione uscita nel 1957.

Perfino una rivista per fanciulli «Vita vera», che si pubblica in Napoli, ha svolto in vari!

numeri la vita del Santo illustrata graziosamente.

Il pazzo è proclamato filosofo.

L'umanista Agostino Valier, autore di un centinaio di opere tra edite e inedite, come il

Paleotto, di cui è fatta parola innanzi, ammiratore e devoto di S. Filippo, scrisse in latino

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un'opera che poi ebbe anche due edizioni italiane, dal titolo: «Filippo ossia dialogo della

letizia cristiana».

E' un libro di grande valore: un dialogo ad imitazionedi quelli di Platone.

Gli interlocutori del dialogo sono tutti grandi personalità come Federico Borromeo,

Agostino Cusano, Silvio Antoniano, ed altri.

Essi sono presentati in solenne seduta, intorno a Filippo, e discutono su quale sia la vera

letizia cristiana.

In quest'opera, Filippo viene chiamato: Socrate - Nostro Socrate - Socrate cristiano.

Ognuno sa che il Socrate greco fu veramente il più saggio degli uomini antichi, direi il

santo del mondo pagano. Egli fu pure il più grande maestro.

Non si poteva esaltare Filippo di più, che chiamarlo, come fa il Valier, Socrate, con

l'aggiunta di una grandezza soprannaturale.

Ecco dove giunse colui che esordi come un pazzo e come pazzo, secondo il giudizio del

mondo, visse e operò. Ora anche il mondo riconosce che Filippo era Socrate.

Il Pazzo è proclamato eroe. Era il 12 marzo 1622 e un folla incessante, come una marea, si dirigeva verso S. Pietro,

dove il pontefice Gregorio XV, circondato da un grande stuolo di cardinali, vescovi,

generali di Ordini religiosi ed altri prelati, era impegnato in una grande cerimonia.

Ad un momento, fu letto un documento solenne, e poi, alla fine della lettura, un velo cadde

da un quadro ed apparve l'effigie di S. Filippo, morto ben ventisette anni innanzi.

Al cadere del velo ed all'apparire della dolce immagine così familiare ai romani, un

applauso risuonò nella vasta piazza: Viva S. Filippo!

Che cosa c'era stato? Forse una commemorazione? No! Una cosa ben più grande! Il

Pontefice, nella sua autorità di Vicario di Cristo, aveva canonizzato Filippo Neri, come si

dice con parola liturgica, cioè lo aveva riconosciuto, dichiarato santo... E che significa

dichiarar santo? Significa riconoscere un uomo dalle virtù eroiche: un eroe.

Il Santo è veramente l'eroe più completo, più grande.