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Salute e partecipazione della comunità. Una questione politica Angelo Stefanini, Chiara Bodini Sistema Salute, 58, 3, 2014: pp. 308-315, luglio-settembre 2014 Another tweet in the wall & Pink Floyd modified

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Salute e partecipazione della comunità. Una questione politica Angelo Stefanini, Chiara Bodini

Sistema Salute, 58, 3, 2014: pp. 308-315, luglio-settembre 2014

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Sistema Salute. La Rivista italiana di educazione sanitaria e promozione della salute, vol. 58, n. 3, luglio-settembre 2014

“Siamo partiti dal presupposto che scopodella medicina è la difesa della salute, ditutti e di ciascuno: perciò i soggetti del si-stema non possono essere che i cittadini,oggi troppo spesso considerati invece comeoggetto passivo della società consumisticaanche in questo settore vitale. […] Questaresponsabilizzazione dei cittadini nella ge-stione dei servizi… è insomma l’essenzastessa della democrazia…” (1).Questo è quanto scriveva oltre quarant’an-ni fa Alessandro Seppilli intravvedendo quel-lo che avrebbe dovuto essere il funziona-mento di un Servizio Sanitario Nazionale(SSN) basato sui principi di “rispetto delladignità e della libertà della persona uma-na… eguaglianza dei cittadini nei confrontidel servizio… garantendo la partecipazionedei cittadini” (2).Con l’obiettivo di analizzare l’evoluzione delconcetto e delle pratiche di “partecipazionedei cittadini” a livello nazionale e interna-

Salute e partecipazione della comunità.Una questione politicaHealth and community partecipation. A political issue

Angelo Stefanini, Chiara BodiniCentro di salute internazionale, Università di Bologna

zionale, questo articolo ripercorre brevemen-te la storia, il dibattito e le problematicheemerse negli ultimi decenni intorno al temadel coinvolgimento della popolazione nellaprogrammazione e gestione dei servizi pub-blici, arrivando a contestualizzare la situa-zione odierna e le sfide che essa pone allasocietà tutta.

Partecipazione come processo poli-ticoUn progressivo disincanto sul futuro delSSN così come concepito dai suoi padri fon-datori ha fatto seguito al disegno, attuatocon i DDLL 502/92 e 517/93, di fondare lasanità sulle leggi del mercato e della con-correnza. Appare sempre più evidente cheorgani di potere non eletti come le aziendesanitarie non godono della legittimazionenecessaria per prendere decisioni critiche cheriguardano la salute di tutti di fronte, peresempio, alla scelta tra servizi ospedalieri e

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servizi territoriali o di come allocare risor-se limitate. Le problematiche coinvolte intali decisioni sono di natura sostanzialmen-te non tecnica ma politica e richiedono giu-dizi non soltanto professionali ma anche esoprattutto di valore.Se il settore sanitario soffre di un vuoto de-mocratico, il governo locale è però soventeesso stesso colpevole di incapacità di legge-re i bisogni della comunità e di tendenzemonopolistiche, autoritarie e burocratiche.È necessario quindi che la legittimità poli-tica che gli proviene dall’elettorato sia raf-forzata da una varietà di altre misure voltea renderlo più sensibile verso gli utenti delservizio e i cittadini, anche attraverso unloro maggiore coinvolgimento. D’altra partel’effettivo rapporto esistente tra il pubblicoe il processo decisionale in sanità (ma nonsolo) è in pratica inesistente. Di là dal mo-mento del voto alle elezioni politiche oamministrative, sono in concreto assenti leoccasioni in cui i cittadini che non accetta-no il supino ruolo di sudditi cui accennaSeppilli possono far valere il potere dellaloro voce, di protesta o di persuasione. Alivello locale insomma esiste il bisogno diun processo decisionale informato e di unmaggiore protagonismo del pubblico nelledecisioni che lo riguardano.La partecipazione della popolazione nellescelte che concernono la sua salute è quindiessenzialmente un concetto politico. Ilmodo in cui una comunità “partecipa” di-pende ovviamente dal contesto sociale, eco-nomico e politico di cui essa fa parte e daivalori culturali e sociali che esprime. Inol-tre, parlare di partecipazione significa che èla comunità, e non un governo, non un’isti-tuzione formale né un gruppo professiona-le, che ha il controllo sulle risorse e il pote-re di decidere come usarle. Dovrebbe esse-

re chiara quindi la distinzione tra i concettiespressi dai due verbi “partecipare” e “con-tribuire”, dove il primo indica che il con-trollo è in mano alla comunità mentre ilsecondo significa che attori esterni, in ge-nere il governo – comunale, regionale, na-zionale – ma sempre più anche altri nuoviprotagonisti sovranazionali non governati-vi e al di fuori del controllo democratico,creano attività a cui forniscono risorse invi-tando poi la popolazione a contribuire sen-za tuttavia che essa ne abbia alcun control-lo. La politica, una “buona” politica, costi-tuisce un approccio irrinunciabile alla crea-zione delle condizioni che possono favorirela salute. Come dire che per migliorare lasalute della popolazione è necessario miglio-rare la salute della politica (3).

Alma Ata e il ruolo della comunitàParallelamente al percorso che in Italia por-tava alla nascita del SSN, a livello interna-zionale cresceva il dibattito ed emergevanole esperienze che avrebbero condotto nelsettembre 1978 alla Conferenza di Alma Atae alla Dichiarazione sulla Primary HealthCare (PHC), praticamente contemporaneadella Legge 833. Entrambe, Dichiarazionee L. 833, rappresentano indubbiamente, an-che se a due livelli diversi, un momentocritico nella interpretazione dei valori, deiprincipi e delle strategie che hanno caratte-rizzato la storia della salute e dei sistemisanitari a livello internazionale. La progres-siva rivalutazione anche in Europa e nelNord America della PHC come filosofia estrategia per la promozione della salute, untempo ritenuta rilevante esclusivamente peri Paesi più poveri, è dovuta non soltantoalla presa di coscienza della inadeguatezzadell’approccio ospedalo-centrico, ma anchealla necessità di una solida strategia sociale

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che porti a un cambiamento. È proprio al-l’interno dell’organizzazione sociale, infat-ti, che vanno ricercati i determinanti piùpotenti della salute e dunque è agendo su diessi che ci si possono attendere concreti van-taggi di salute.La Dichiarazione di Alma Ata era nata an-che grazie alle esperienze innovative di comele varie comunità in varie parti del mondoaffrontavano e gestivano con successo la lorosalute. Un elemento comune a tutte questebuone pratiche, documentate in una storicapubblicazione (4), era rappresentato da unaspetto della salute fino ad allora negletto:il potenziale e la necessità di avere comuni-tà che definiscono esse stesse i propri biso-gni di salute e su di essi agiscono. Il puntocentrale identificato dalle due agenzie delleNazioni Unite promotrici della Conferenzadi Alma Ata, Organizzazione Mondiale del-la Sanità (OMS) e UNICEF, non fu tanto dilamentare che le comunità nelle varie partidel mondo non fossero mai state coinvoltenella tutela della propria salute (cosa evi-dentemente non vera), ma di articolare uf-ficialmente la necessità di riconoscere e va-lorizzare tale coinvolgimento. In realtà, ilprincipio della PHC contenuto nella dichia-razione di Alma Ata sfidava molti dei con-cetti fondamentali di salute e assistenzamedica che avevano dominato le politichesanitarie dei precedenti decenni. Tra i puntiqualificanti di questo principio era l’affer-mazione che la responsabilità della saluterisiede nei singoli individui, nelle comunitàe nei governi.Continuando con l’analogia tra il contestoitaliano e quello internazionale, se in Italiatrascorsero quasi quindici anni prima di unarisposta “neo-liberista” nei confronti dell’uto-pia “socialisteggiante” di un SSN guidatodalla politica, alla contro-offensiva globale

del potente “complesso medico-industria-le” bastarono pochi mesi. Con la propostadi una selective PHC, pubblicata da una trale più prestigiose riviste mediche (5), veni-vano demoliti i principi di una comprehensivePHC espressi dalla Dichiarazione e così rias-sumibili:1. La salute è essenzialmente una questio-

ne politica;2. La medicina occidentale non è l’unica a

offrire cure efficaci;3. I professionisti creati da tale sistema non

sono gli unici in grado di dare risposteai problemi di salute delle comunità;

4. La salute non può essere isolata dalle al-tre politiche per lo sviluppo di una co-munità;

5. Le tecnologie più sofisticate non forni-scono necessariamente le cure migliori;

6. La decentralizzazione e la regionalizza-zione della programmazione e delle isti-tuzioni sanitarie sono maggiormente ingrado di rispondere ai problemi locali disalute.

Insomma, il messaggio contenuto nella com-prehensive PHC è che la salute è una condi-zione umana che non può essere miglioratasoltanto dall’offerta di servizi. Il suo mi-glioramento è anche e soprattutto respon-sabilità degli individui, delle comunità e deigoverni.

Dalla retorica alla realtàNell’accettare la PHC come politica di go-verno, tutti gli Stati membri dell’OMS ave-vano riconosciuto l’importanza di coinvol-gere i beneficiari dei servizi e dei program-mi, ossia la popolazione, nella loro proget-tazione e realizzazione. Le ragioni di questaaccettazione riguardavano in primo luogol’efficacia dei servizi sanitari: i servizi for-niti sono sotto utilizzati e male utilizzati,

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perché le persone per le quali sono stati pro-gettati non sono coinvolte nella loro pro-grammazione e gestione. Una seconda ra-gione era di carattere economico. Esistono,infatti, in tutte le comunità risorse finan-ziarie, materiali e umane che potrebbero edovrebbero essere mobilitate per migliora-re le condizioni ambientali e sanitarie loca-li. Un ulteriore argomento per abbracciarela causa della PHC era ancor più sostanzia-le: la salute delle persone è soprattutto ilrisultato di come esse organizzano il pro-prio contesto sociale e gestiscono la propriavita. Non è soltanto il risultato di inter-venti medici. Gli Stati infine si trovano adaffrontare una questione centrale per la pro-pria sopravvivenza e benessere: la sfida del-la democrazia e della giustizia sociale. Tut-te le persone, infatti, specialmente i poverie gli svantaggiati, hanno il diritto e il dove-re di essere coinvolti nelle decisioni che ri-guardano la loro vita quotidiana.Tuttavia, l’adesione formale a questa stra-tegia ha raramente soddisfatto le aspettati-ve in termini di impatto sulla salute. SusanRifkin sostiene che la ragione di questo fal-limento è stata l’adozione entusiastica di unparadigma che vede la partecipazione dellacomunità come una bacchetta magica perrisolvere sia i problemi di salute sia quellidi potere politico (6). Per questo motivo ènecessario utilizzare una diversa prospetti-va che interpreti la partecipazione come un“processo di apprendimento iterativo checonsente l’adozione di un approccio piùeclettico” (7) e, di conseguenza, di aspetta-tive più realistiche.Sotteso al cosiddetto ‘approccio partecipa-tivo’ – ovvero all’utilizzo della partecipa-zione come strumento di programmazionee attuazione di politiche, servizi, interven-ti, azioni – vi è infatti non tanto un metodo

quanto un preciso statuto ontologico edepistemologico. Dall’etimo latino (pars,parte, e capere, prendere), partecipare signi-fica prendere parte a, o di, qualcosa. Rispon-dere alla domanda del ‘che cosa’ implica ri-flettere su chi è il soggetto che fa partecipa-re/che partecipa, che cosa è conoscenza (ciòche chiamiamo ‘realtà’) e come si arriva adessa. Dal punto di vista ontologico, l’im-plicazione riguarda lo statuto dell’Altro,visto e rispettato nella sua alterità e noncome un complemento dell’io (per identitào opposizione), come avviene nell’approc-cio dialettico. Accettare realmente l’alteri-tà, svincolandola da una definizione stabili-ta unilateralmente a priori (o rispetto a un‘a priori’ che è il soggetto che definisce), èpresupposto fondante per una reale possibi-lità di dialogo e di relazioni mutualmentesignificative (8). Dal punto di vista episte-mologico, la partecipazione poggia sull’ideache la conoscenza non è costruita da indivi-dui isolati nella loro propria soggettività,ma nelle relazioni che le persone intessono,e di/da cui sono intessute. La complessitàdella relazione intersoggettiva è il terrenoin cui avviene la co-costruzione del signifi-cato e della conoscenza. Solo ponendo larelazione come fondamento e fonte di co-noscenza è possibile costruire un contestorealmente partecipativo (9).Oltre dieci anni dopo le osservazioni soprariportate, sempre Susan Rifkin (10) offre treragioni della grande difficoltà costantementedescritta in letteratura di integrare la par-tecipazione della comunità nei programmidi salute. La prima riguarda il predominiodel paradigma bio-medico che continua acostituire nella maggioranza dei casi lo stru-mento principale di programmazione, conconseguente concezione della partecipazio-ne della comunità come semplice interven-

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to tecnico. La seconda ragione concerne lamancanza di un’analisi approfondita dellapercezione e del punto di vista dei membridella comunità e, laddove esistono, degliagenti/operatori sanitari di comunità. Infi-ne, un altro motivo di difficoltà è la pro-pensione a utilizzare un quadro concettualeche limita l’indagine a ciò che funziona, alperché e al come funziona, e non prende inconsiderazione gli insuccessi. Alla base diqueste difficoltà si affacciano però più pro-fonde dinamiche di potere che devono esse-re chiamate in causa e analizzate.

Empowerment e dirittiLe diverse interpretazioni del significatodella partecipazione della comunità solle-vano la domanda se essa sia un mezzo op-pure un fine in se stessa, e ne interroganoquindi il ruolo e la collocazione nel proces-so politico di programmazione e sviluppodella salute e della vita della comunità. Daqui nasce anche la necessità di definire chia-ramente che cosa si intenda per “partecipa-zione” e per “comunità”. Su questi due si-gnificati si è svolto negli ultimi decenni unvasto dibattito.De Vos et al. (12) hanno esteso l’analisi sto-rica del dibattito accademico sulla parteci-pazione anche al concetto di empowerment ealle implicazioni derivanti da un approccioalla salute basato sui diritti umani. Parten-do ancora una volta dalla constatazione che:“Trentuno anni dopo Alma Ata, una rivisi-tazione delle politiche globali ha evidenzia-to che, di tutti i principi fondamentali dellaDichiarazione, il principio che ha in parti-colare mancato di prendere radice è quellodella partecipazione comunitaria”, gli au-tori argomentano come le diverse fasi nel-l’evoluzione dei concetti di partecipazione,empowerment e diritto alla salute hanno ag-

giunto importanti novità alla discussione.Tre sono gli aspetti cruciali che emergonodalla loro analisi: (a) l’importanza che vie-ne ad assumere la classe sociale quando sianalizzano gli elementi essenziali della par-tecipazione comunitaria; (b) il ruolo centrale(e ovvio, si potrebbe dire) del “potere” evi-denziato nel dibattito sull’empowerment, e (3)il ruolo dello Stato legato ai concetti di cit-tadino come “titolare dei diritti” e di Statocome “portatore dei doveri” in un approc-cio basato sul diritto alla salute. Il concettodi salute come “prodotto dell’empowermentdelle persone” viene proposto per descrive-re il significato fondamentale della parteci-pazione e della responsabilizzazione da unpunto di vista dei diritti umani e, in questomodo, elaborare strategie comuni. Se i grup-pi e le classi emarginate si organizzano,possono influenzare i rapporti di potere efare pressione sullo Stato affinché agisca.Questa pressione dal basso attraverso l’or-ganizzazione popolare può svolgere un ruo-lo essenziale nel garantire politiche gover-native adeguate per affrontare le disugua-glianze e affermare il diritto alla salute.Una tale prospettiva richiama il panoramaitaliano degli anni ’70 e in particolare, as-sieme ad altri pionieri come AlessandroSeppilli e Giovanni Berlinguer, la figura el’opera di Giulio A. Maccacaro, allora di-rettore dell’Istituto di Biometria e Statisti-ca Medica dell’Università statale di Mila-no. Denunciando la “medicalizzazione del-la politica”, ossia una “medicina [che è] sem-pre meno un sistema assistenziale e semprepiù un sistema gestionale”, Maccacaro rile-vava come “tutto si risolve in ultima anali-si in un aumento di capacità del capitale agestire medicalmente la società, magari fin-gendo di gestire socialmente la medicina”(13). La “politicizzazione della medicina”,

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al contrario, significa che la tutela della sa-lute e la lotta alla malattia non possono nonavvenire che “attraverso l’attrito delle for-ze sociali che si confrontano” e a opera deiloro soggetti storici. È in tale contesto dicontinua lotta per la salute che Maccacarovedeva il ruolo della partecipazione denun-ciando come, nonostante la Costituzioneitaliana (art. 3, secondo comma) ponga “l’ef-fettiva partecipazione di tutti i lavoratoriall’organizzazione politica, economica e so-ciale del Paese” tra i compiti fondamentalidelle Repubblica, “né la teoria né la prassidi tale partecipazione si sono alzate dal pia-no dell’attività, nemmeno in quella ipotesidi sanità riformata che declama la parteci-pazione come carattere essenziale delle sueunità di base” (14). Riconoscendo “l’intrin-seca solidarietà tra il problema della ‘salu-te’ e quello della ‘partecipazione’” (15),Maccacaro contrapponeva la nozione di“malattia come perdita di partecipazione”del sociologo Talcott Parsons (16) al suomodello concettuale di “perdita di parteci-pazione come sostanza di malattia”. In par-ticolare, identificava come nemici della par-tecipazione l’autorità, l’efficienza e la prov-videnzialità. L’autorità che rifiuta Macca-caro è quella che “indossati i panni dellacompetenza, separatasi nella tecnica, costi-tuitasi come corporazione, legittimatasicome ordine - si pone di fatto quale esecu-trice dei comandi di un potere che la sovra-sta e che, pagatala con ruoli e privilegi, nefa lo strumento più insidioso ed efficace delcontrollo sociale nelle forme della medica-lizzazione”. L’efficienza è nemica della par-tecipazione quando diventa “domanda delpotere costituito” (17), avvalendosi dellavoluta e perpetrata confusione con l’effica-cia e tra la funzione dell’istituzione sanita-ria, ossia la tutela della salute, e il suo fun-

zionamento, ridotto a ottimizzazione di sestessa anziché all’adempimento di tale fun-zione. Per “provvidenzialità”, infine, Mac-cacaro intende il “paternalismo”, ossia “quelmodo di mettersi in rapporto con la realtàche prescinde dal suo ascolto; quell’attitu-dine a disporre risposte preformate che pre-scindono dalla formazione delle domande;quell’interpretazione del mandato ammini-strativo che infine determina una richiestacui si consente soltanto di conformarsi al-l’offerta” (18).

Partecipazione e salute globaleUn altro importante spartiacque nella sto-ria moderna del concetto e della pratica dellapartecipazione popolare per la salute è statala Dichiarazione del Millennio delle Nazio-ni Unite, firmata nel settembre del 2000.Nonostante il percorso modestamente par-tecipato che ha portato alla loro identifica-zione, i Millennium Development Goals (19)hanno segnato un cambiamento paradigma-tico nel modo in cui i policy-maker affronta-no i miglioramenti di salute. Tale cambia-mento si è incentrato sul riconoscimentoche la salute migliora grazie a fattori socia-li e ambientali, e non solo attraverso inter-venti tecnici bio-medici e modelli econo-mici. Mentre il predominio degli operatorisanitari qualificati nelle scienze mediche èrimasto intatto, è cresciuta la domanda diattenzione nei confronti dei determinantisociali della salute e dei bisogni ed esigenzedei beneficiari dell’assistenza sanitaria. Duedocumenti pubblicati nel 2008 dall’OMSsono indicativi di questo cambiamento. Ilprimo è il World Health Report dal titolo“Primary Health Care: ora più che mai” (20)che, se pur timidamente, promuove il ri-torno ai valori e alla visione della Dichiara-zione di Alma Ata. Il secondo è il rapporto

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della Commissione OMS sui determinantisociali della salute (21), istituita nel 2005 ecomposta da una vasta gamma di espertiprovenienti da una varietà di discipline ePaesi. Il rapporto documenta con forza lastretta relazione tra stato di salute e deter-minanti sociali quali il reddito, l’istruzio-ne, il tipo di lavoro, l’accesso alla assistenzasanitaria, la capacità dei popoli di compierescelte e il buon governo.Non sarebbe corretto sostenere che questidocumenti hanno prodotto un consenso ge-nerale su come migliora la salute. Quelloche hanno fatto, però, è stimolare un’arenaper un ulteriore dibattito su questi temi. Atitolo di esempio, il terzo simposio globalesulla ricerca nei sistemi sanitari, svoltosirecentemente a Cape Town, ha avuto cometema portante gli approcci ‘centrati sullapersona’. In tale contesto, l’egemonia del-l’ideologia di mercato è stata presentatacome fondamentale ostacolo per qualunquetentativo di riportare realmente le persone,e dunque i bisogni (o determinanti) sociali,al centro dei sistemi di salute. La logicaconseguenza è la necessità di agire su levedi potere per controvertire l’attuale(dis)equilibrio, che non consente l’emerge-re di alternative soprattutto a livello istitu-zionale. A questo proposito, è stato chia-mato in causa in maniera esplicita il ruolodei movimenti sociali, e l’importanza dicontemplarne le potenzialità e i meccani-smi d’azione a livello di ricerca, di analisipolitica e di pianificazione delle politiche.Solo la mobilitazione sociale può infatti rap-presentare la forza necessaria a orientarerealmente le politiche di salute verso le per-sone. Si torna così alla necessità primaria dicostruire potere politico, ed è chiaro che ciònon può avvenire in un convegno di espertiné a livello dei ‘piani alti’ della governance

globale, bensì là dove le tanto citate ‘perso-ne’ sono naturalmente al centro, ovvero neiloro contesti di vita e di lavoro.

Il contesto italianoSecondo Luca Negrogno e Riccardo Ierna,autori di un contributo sul bloglavoroculturale.org, la questione della par-tecipazione nello scenario italiano “va col-locata in un problema molto più generale,che investe oggi tutti i servizi sociali e sa-nitari. Si tratta della crisi dello stato socia-le tradizionale, una crisi che oggi prende laforma di due imperativi: controllare la spe-sa e rendere più efficaci gli interventi” (22).Coinvolgere la comunità diviene dunqueanche una necessità di fronte alla crescentecarenza di risorse e all’inadeguatezza del-l’offerta rispetto a bisogni sempre più com-plessi (si pensi all’incremento delle patolo-gie croniche e alla necessità di muovere ra-pidamente verso una territorializzazione deiservizi in un sistema ancora largamenteospedalo-centrico, nella struttura come nellacultura organizzativa). Prendendo come casodi studio il coinvolgimento di utenti e fa-miliari esperti nei servizi di salute mentale,Negrogno e Ierna evidenziano il rischio chele pratiche di partecipazione messe in attocostruiscano forme di “cittadinanza dimi-nuita”, in cui il cittadino è partecipe solo inquanto utente o familiare e in cambio di unadeguamento alla cultura e all’organizzazio-ne del servizio: “per essere “utenti esperti”l’identità di utente deve essere accettata,anzi, deve diventare un’identità totalizzan-te: solo attraverso di essa si può accedere aduna forma positiva di cittadinanza, ad unposto dignitoso nel mondo. La responsabi-lità di cambiare è dei singoli, le personepossono migliorare il servizio “lavorandocidentro”, e soccorrendo alla carenza di risor-

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se pubbliche” (23). Nella situazione descrit-ta, ciò che viene chiamato “partecipazione”è di fatto un processo gestito attraverso ilfiltro delle etichette e in un rapporto indi-vidualizzato con l’utenza, il cui oggetto èdefinito dalla diagnosi e dall’intervento tec-nico al netto di possibili conflitti.I concetti di partecipazione ed empowermentrimandano però a ben altre relazioni, in cuii cittadini hanno la facoltà di intervenire neilivelli tanto programmatori quanto gestio-nali dei servizi, in un’accezione non setto-rializzata e predefinita ma di negoziazione

ampia sulle priorità di allocazione delle ri-sorse e di intervento. Riprendendo l’analisifatta a livello internazionale, è verosimileche tale cambiamento di prospettiva e pra-tiche non possa provenire “dall’alto”, adopera di decisori o programmatori per quan-to “illuminati”. Per immaginare nuove ereali forme di partecipazione è dunque ne-cessario pensare a una crescita del poterecontrattuale collettivo dei cittadini, all’in-terno di una riconfigurazione dello spaziopubblico in spazio nuovamente, e profon-damente, politico.

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