Saer Palfi · 2020. 1. 31. · Perceval di Chrètien de Troyes), nella sua ingenua semplicità, nel...

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OSCAR SIMONETTI Saer Palfi Storia di un cavaliere contadino Keltia Editrice – Aosta. Collana “GLI AILANTI BLU” Maggio 2002. DEDICA Questo libro è dedicato ai cavalieri – contadini. A coloro che, consapevoli o meno, vivono la propria ricerca con quotidiana semplicità. Dalla Prefazione …Il racconto di Oscar Simonetti si inserisce dunque nella scia dei grandi racconti epici dei cavalieri, della Cerca del Graal e delle gesta di chi vaga per il mondo alla ricerca del bene che ancora vi alberga. Si tratta di un’opera gnomica, con tratti di lucida ironia filosofica e costellata di brani di profondo lirismo. Il linguaggio e la costruzione non convenzionale che vengono utilizzati dall’autore, benché possano talvolta non rendere agevole la lettura, riescono però nell’intento 1

Transcript of Saer Palfi · 2020. 1. 31. · Perceval di Chrètien de Troyes), nella sua ingenua semplicità, nel...

  • OSCAR SIMONETTI Saer Palfi Storia di un cavaliere contadino Keltia Editrice – Aosta. Collana “GLI AILANTI BLU” Maggio 2002. DEDICA Questo libro è dedicato ai cavalieri –contadini. A coloro che, consapevoli o meno, vivono la propria ricerca con quotidiana semplicità. Dalla Prefazione …Il racconto di Oscar Simonetti si inserisce dunque nella scia dei grandi racconti epici dei cavalieri, della Cerca del Graal e delle gesta di chi vaga per il mondo alla ricerca del bene che ancora vi alberga. Si tratta di un’opera gnomica, con tratti di lucida ironia filosofica e costellata di brani di profondo lirismo. Il linguaggio e la costruzione non convenzionale che vengono utilizzati dall’autore, benché possano talvolta non rendere agevole la lettura, riescono però nell’intento

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  • di scollegarci dalla realtà per proiettarci in una coinvolgente atemporalità, una nebbiosa e incerta collocazione spazio temporale che, con rara maestria, avvolge il lettore conducendolo in un mondo che non c’è, ma che potrebbe essere di tutti noi, là, a i confini della coscienza del quotidiano. Una vera iniziazione spirituale che pare non volersi mai concretizzare in scena d’azione o in personaggio, ma che proprio da questa brumosità onirica trae il proprio fascino. E’ nella semplicità del poeta contadino, del Cavaliere errante dotato di uno scopo (anche se a tratti più simile al Don Quijote di Cervantes che non al Perceval di Chrètien de Troyes), nella sua ingenua semplicità, nel fanciullesco candore di Saer Palfi, che possiamo ritrovare la purezza del cercatore del Graal. E che cos’è mai il graal, la pietra filosofale dello spirito, il cratere in cui fu raccolto il sacro sangue del Cristo, se non un simbolico percorso, una mappa per il tesoro dell’anima, una via iniziatica al raggiungimento di una maggiore consapevolezza di sé? Fedele alla tradizione del Parsifal come si è sviluppata dopo Chrètien de Tryes, anche il Saer Palfi di Oscar Simonetti è intriso di una pregnante moralità, di una dottrina implicita, di una profonda verità costantemente sottesa alla realtà…

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  • PROLOGO E il bambino camminava, avvolto nell’aria fredda e antica di una recente solitudine; non ricordava da dove fosse venuto, eppure…, com’era cosciente di essere vicino alla memoria, com’era intenso quell’odore di timo che s’innalzava dalle pietre cercando di ricondurlo, non foss’altro che con la mente, sui propri passi. Pareva che ogni anfratto, ogni passione che l’acqua aveva cantilenato nei secoli, convertendo una roccia dopo l’altra al proprio credo, nascondessero il sommesso borbottio della ramina dove il paziente infuso attendeva il miele bruno del castagno. E, proprio come allora, tra il vapore profumato e la cucina e il russare della cagna nell’altra stanza, quella dei giochi e del divano, il profilo dei suoi genitori s’inspessiva, diventava vivo, annusabile. Loro erano là, con i piedi appoggiati alla stufa, a raccontarsi una vita, la vita, l’unica che potesse essere vissuta. La vita dei suoi genitori era là, in quegli scarponi gettati nell’angolo, quegli scarponi enormi, scivolati dal distratto disordine di suo padre fin nell’esatto punto dove non avrebbero dovuto essere, o nella dolce malinconia di sua madre d’inverno, quando le giornate s’accorciano e le leggende s’allungano. Anche per quell’odore di timo li amava, per il sapore asprigno che emanava da taluni loro giorni, eppure,

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  • proprio mentre ne assaporava uno, maturò la propria scelta di andarsene. Il bambino ha un’età indefinita, da una piccola particella di tempo successiva al nulla, più spostato nella direzione dei mille anni. Il bambino è sempre esistito e, prima di lui, gli scarponi. Proprio per questo doveva andarsene, per vedere oltre la porta, oltre il bosco, ma nello stesso tempo in ogni pianta di quel bosco stesso, l’esistenza propria e del proprio seme, la certezza che tutto ciò era vero. Che la morte e la vita battono nello stesso petto, come due cuori separati, ma nello stesso tempo consapevolmente uniti, da non poter esistere che nell’altro, come per una schizofrenia sottile, tanto forte nell’uomo da non poter essere fermata che nella paura o nel Dio; la vita e la morte,o, se si vuole, la coscienza di esserci o di non esserci, e , nell’esserci, in che modo,con che distacco; il valore prezioso di poter cercare la propria strada fuori da quella porta, sapendo già che la ricerca altro non porterà che ad un’altra soglia, a un altro bosco, ad altre pietre e ad altra acqua, e ad altra sete. E allora perché fermarsi, meglio andare, percorrendo quello che è il sentiero, ogni sasso un’ombra, grottesco ricordo di una luminosità accecante, ma pur sempre traccia di quella luminosità stessa. Oltre il prato, un filo che lo separa dal bosco, solo un filo arrugginito dal tempo, il confine tra il conosciuto e

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  • l’ignoto, fra noi stessi e l’altro, tra il bambino e la vecchiaia, proprio come fra l’incudine e il martello. Decise di andarsene mentre ancora il suo corpo restava a guardare i suoi genitori avvolti da una tranquillità quasi assopita; sarebbe tornato in fretta,prima ancora che se ne fossero accorti. Nacque così la storia di Saer Palfi. (pag. 21-22).

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  • FIL DE FER E FRASSINOT La nebbia, che durante l’incontro con Regina aveva atteso discreta e paziente al di là dei volti, lo accolse festosa. Certo che quei pochi minuti non dovettero davvero sembrarle eterni, poiché la nebbia è il corpo, l’essenza stessa dell’attesa ed il suo tempo sospeso; sbaglia chi la detesta e la biasima e la taccia di menzogna, essa è affettuosa come il migliore degli animali, è una madre ed infinite altre cose nello stesso tempo. Saer la comprese, perché di comprensione egli voleva nutrirsi, in quella notte che aveva sedotto il giorno, costringendolo a coricarsi anzitempo fra le sue soffici braccia. Camminò senza fretta; il ritorno, ora, gli appariva distante, irreale persino nell’immagine sfumata dei suoi genitori; come un torrente che, dopo i primi salti, inizia inconsapevolmente a scordare la fenditura nella roccia da cui è scaturito e il ventre della montagna che così a lungo l’ha conservato e nutrito, offrendogli come cibo i minerali del proprio stesso corpo, così, ora, il bambino sceglieva lo scorrere dell’amore e della conoscenza.

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  • Fu così che, arrivato al confine del secondo campo, si accinse a superarlo, là dove ben sapeva che le pietre del muricciolo avevano allentato la loro vigilanza, per intercessione del viandante o del tempo. Ma, mentre ancora cercava il passaggio, i pensieri parvero abbandonarlo e la nebbia stessa assunse quell’espressione stupita che indossava soltanto quando, attraversando le valli, veniva sorpresa dal satireggiare del vento e restava così, scapigliata e confusa, ad osservare il proprio corpo smarrito lacerarsi fra le pietre e gli sterpi che, graffiandola, cercavano di recare un po’ di umido conforto al proprio signore, il gran fiume morente, distante altri secoli e altri mondi, profondi oltre la soglia di memoria dell’acqua. Quella notte, però, la nebbia non si staccò di molto, si limitò a scostarsi leggera dal corpo del bambino, forse per proteggerlo meglio dal vento che trascinava i suoi occhi di foglie e di voci, rubate chissà dove ed appartenute a chissà chi, fra le stanze immense del bosco, fra i baci degli alberi e la tempesta. Ora, quelle voci parevano davvero essere lì, anche se non si capiva bene da dove provenissero. Erano due. Nella prima, più profonda e grave, le parole uscivano lente, misurate, come se dietro ad ognuna di esse ci

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  • fosse una lunga attesa in qualche remota caverna del tempo, ed ora, finalmente liberatesi, apparivano, seppure felici, diffidenti e fataliste come vecchie ergastolane. L’altra era, al contrario, sottile ma energica, anche se di un’energia irregolare, che pareva talvolta tendersi sino al limite, divenire tagliente e penetrare la prima, per poi, improvvisamente, incurvarsi, perdere tensione, come se pensieri, leggeri ma estranei, vi saltassero sopra contemporaneamente, cercando di piegarla, ma ecco che di nuovo si rialzava, riacquistava forza e vigore, si riaccordava, ed il colloquio, in un’altalena di alti e di bassi, ricominciava. Saer mosse qualche metro verso di loro, senza che questo lo costringesse a mutare la direzione che s’era prefissato, ma quando le voci furono vicinissime, allora si fermò e cercò di zittire quel suo cuore che gli pareva toppo rumoroso, mentre persino la nebbia sembrava trattenere il fiato e mettersi all’erta, drizzando le sue grigie orecchie da lupa. Solo le voci, indifferenti, continuavano a chiacchierare, anzi, il silenzio pareva accentuarne i toni, quasi che questo fosse loro dovuto. Erano fatti un po’ alla loro maniera, Fil de Fer e Frassinot.

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  • “…perché questa è la notte dei senza confini, viaggiatori davanti ai quali i mondi scoperchiati dell’attraverso si spalancano ed ognuno diventa, per gioco o per vergogna, nient’altro che quello che vuole essere e resta così a contemplare, nell’intimità del volo, la propria nudità davanti al baratro. Le maschere e gli specchi adagiati a terra null’altro sono che le schegge di un mondo già percorso. Alla cintola, come una bisaccia, una luna vuota ondeggia pigramente accompagnandone il passo, tutt’intorno centinaia di pleniluni fanno a gara a far abbaiare i propri cani luminosi fino all’alba.” “ Io non so, Frassinot, o non ricordo, ma l’amarezza che provo è come d’uomo che non riesca a sottrarsi al proprio destino, ma venga da questi trascinato, come un cane in catene, fra le musiche dolci di un dolore, finchè a ridestarlo non giunga la risata sguaiata della propria pazzia. Sono colui che ferma, interrompe, smorza ed attenua. Sono la linea retta del dovere e quel corpo che vi giace oltraggiato; ogni sogno di libertà o di viaggio riflette dentro di me, storpiato, il senso deforme della mia colpa e del peccato.

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  • Sono il filo in cui sono attorcigliati i due me. Il boia e l’arcangelo si baciano frenetici nella cappella. Sono l’urlo silenzioso del pensiero.” “Ma caro Fil, davvero non ti accorgi che senza te non vi sarebbe desiderio, quel desiderio di peccato e piacere su cui camminano i saggi? Ognuno di noi è confine e viandante, vino e taverna, a seconda dei tempi. Che ne è rimasto di Battista e di Luigi, cosa delle loro quattro mucche, ognuna delle quali voleva pascolare l’al di là, cosa di quel loro mondo prepotente e delicato insieme? D’entrambi m’arriva, a tratti, un residuo, un gesto o un odore, cadono come un sasso da un altro mondo, rotolano sino a me, facendomi sobbalzare dalla tenerezza per un bambino che cresce e invecchia. Guardo te e capisco che il sentiero è doloroso, e cosa vi è di più doloroso di una libertà che passa dall’abbandono, cosa di più magico e felice? La carovana continua lenta e inarrestabile la propria marcia nella sabbia di un deserto infinito. Quando il filo si scioglierà e tu tornerai ad essere semplicemente ferro e con la stessa semplicità la terra che ti ha partorito ti accoglierà di nuovo nel suo ventre castano, allora ti resterà solo un attimo per fare le tue valigie, ma di quell’attimo dovrai cercare di ricordare quante più situazioni possibili; eri

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  • ferro e ora sei già foglia, poi un altro inverno e,forse, sarai albero. Siamo qui per imparare a rispettare e comprendere il gioco delle stagioni; la pioggia di un’unica consapevolezza. Dove finisce la musica, è silenzio.” “Ho ricordi di mercato, visi smussati dalle rughe si sfaldano in sorrisi di cartapesta. Tutto è cosa, tu, io,altri; tutto è cosa, ed ogni mano ne allunga i tratti del senso costringendolo e tirandolo fino,e dentro, allo scopo. Ogni banco una tappa di una processione di voci e di bisogni; le parole si sovrappongono, si mischiano così che non vi è più né verità nè menzogna. Ai tavoli, i mercanti discutono bevendo: hanno il cappello e gli abiti puliti e una ricercata semplicità che ha lo scopo di mettere a proprio agio il cliente, e lo seduce, cosicchè alla fine, quello se ne va contento, non sapendo nemmeno se ha perso o guadagnato. Cambiando livello, il senso delle cose si confonde, persino il loro nome può significate tutto, oppure nulla. Solo l’infinito se ne resta distante, lui, sì, potrebbe ridere o piangere, ma nella propria sobrietà tutto gli è indifferente. E, nel mio ricordo, fu una roccia… Una roccia scolpita nel corpo di una donna dalla maestria di generazioni di istanti; la mano forte

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  • stringe con ferma dolcezza quella di un bimbo; le sue dita si muovono piano, quasi distratte, come se quel movimento provenisse da un’altra realtà o appartenesse loro ad un livello più profondo della stessa coscienza, un livello che solo il contatto eterno con la mammella di un animale può dare. Il suo ventre è collina, sull’altrimenti sterile pianura di quell’abito a fiori; chi può provare, fra le donne, a rendere vivi i fiori del proprio abito?Forse quella che la vita non spaventa, né teme le domande e le risposte che non sa, non vuole o non può dare, mentre il suo ventre cinge ed è cinto dal profumo primaverile che la spinge, come un’ape gravida, di banco in banco. Chi mai poteva dire che l’avrei rivista, un giorno, mentre giacevo gettato lì, in un angolo della sua corte. Io, Fil de Fer, avrei difeso i confini del suo regno contro chiunque, uomo o bestia,li avesse voluti valicare. Questo pensiero assolse anche i chiodi che mi conficcarono ai pali di castagno; alle roverelle e a te, Frassinot, amico rimasto, mentre tutto, dolore o vita, intorno a me crollavano, come arsi dallo stesso fuoco che bramavano.E questa nullità greve di vita la chiamano attesa, anche se tutti sanno che il tempo, che lo vogliamo o no, prima o poi ci compirà. Ma ora, mentre gran parte del mio

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  • corpo penzola lontano da me, mentre mi arrugginisco, cosciente di arrugginire, mi domando che senso abbia osservare quel mondo finire ancor prima di me.” “Pensa, amico, quel mondo tu non lo hai visto nascere, non puoi pretendere di poter capire la sua morte. Forse quel mondo non è mai esistito e tu eri solo il guardiano della sua inesistenza. Quando diciamo ”mio” e “tuo” o lo facciamo per fame o per odio; ma quale fame può giustificare l’assassinio? Si può uccidere solo ciò di cui non crediamo l’esistenza. Chi uccide in realtà grida” Non credo, non credo a niente di quello che i miei occhi vedono, le mie orecchie sentono, il mio corpo percepisce”. Io posso dire di essere albero, le mie radici penetrano, le mie fronde ricevono, sono completo. Sono completo e aspetto il canto della folgore o dell’accetta ma quando avverrà sarà già bosco, e tu, albero e ricordo. Ma ora tacciamo, perché il bimbo ha già

    trascorso il proprio istante ed è già oltre”. Saer scostò un ramo dal viso e proseguì, mentre la nebbia, pettegola, continuò a raccontarsela impigliata al passato. (pag.35 – 39).

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  • ARTURO O DEL RE PESCATORE Proseguì fino a quando il vecchio davanti a lui si girò e, con un breve e semplice cenno del capo, lo invitò a sedersi sopra una roccia che l’acqua trascorsa aveva trasformato in un seggio. Sedendosi, Saer poggiò gli avambracci e le mani sui braccioli dell’eterno mutamento e sentì che quella pietra l’aveva sempre aspettato, fedele e immutabile proprio in quel suo adattarsi ai continui capricci delle stagioni, agli elementi che si spartivano il possesso di quel corpo di pietra, bisticciando e rotolando insieme nei millenni. Il vecchio si chinò e l’erba di fronte a lui sembrò trasformarsi in una gigantesca rete in cui le parole balzavano sul dorso, come pesci in agonia, ansiosi dell’acqua dell’ascolto. Si trovavano in una radura che, in un tempo non lontano, s’indovinava essere stato prato. I giovani arbusti, come figli di un unico ceppo, una volta glorioso, si contendevano la supremazia. Giovani lupi ai primi amori, ai primi odori, l’avanguardia, o i profeti, del ritorno del bosco. “Ci vengo poco,qui, troppo poco. Fa bene, a volte, cambiare il colore del proprio punto di

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  • vista, del proprio orizzonte. Aiuta a capire, a modificare il senso del proprio tempo. Per questo ci venivo, anche se allora era per cambiare compagni alla morra o per bere un goccio di vino col Celeste ed il Nino che d’autunno scendevano leggeri dalle malghe come foglie, indugiando appena sui sassi della molina e, rituffandosi subito nell’intimità del bosco, riportavano le bestie a mezzo monte, o per le castagne che Michele, dall’aspetto così poco santo ma dal cuore pieno di paradisi, faceva danzare sulla padella forata, uniche ballerine al suo compleanno. Quel Michele che leggeva il futuro dal modo in cui si cuocevano e,ubriaco, dispensava profezie e versava nei bicchieri quel vino nuovo avuto dai suoi parenti del basso lago, in cambio di qualche forma di formaggio che lui preparava su alla malga. Anche là, mi dicono, il tempo è trascorso ed ha portato i suoi frutti, more di rovo, rosa canina e gli ululati del vento che rincorre i fantasmi dei cani fin dentro le loro cucce stravolte, mordendoli con i loro stessi denti diventati cenere, polvere e ruggine che, mescolati insieme, abbaiano ancora selvaggiamente al tasso. Quante notti trascorse senza che il sonno riuscisse a farla da padrone. C’era sempre una risata, un discorso, ma di quel discorso, forse

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  • una sola parola, che ne risvegliava altre, salvava il guerriero dall’ilarità degli altri; si tuffava allora, nell’enfasi di un ponte sospeso; quanti equilibrismi per riagganciarsi ad un senso che tutti già avevano dimenticato, eppure c’era, era lì, c’eravamo tutti al compleanno di Michele che aveva rubato il nome la santo del giorno in cui era nato, che aveva rubato forse anche qualche ultimo filo d’erba alle bestie, nelle stagioni in cui pioveva e qualche giorno in quelle paglierine, quando la siccità accendeva il ritorno ed era meglio spegnere bene le sigarette crocefisse lungo il percorso. Era bello godere di quella solitudine selvaggia che li accompagnava giù per le montagne, sobbalzando con loro sui sassi, quella solitudine che presto avrebbero abbandonato, sacrificandola senza premura al desiderio di civiltà, che poi non è altro che il desiderio di una donna, di una ninna nanna mormorata dallo squittire del ruscello sotto casa, con le saracinesche socchiuse come labbra che non vogliono dire altre parole che non siano il canto dello scricciolo che segna la fine della stagione della piuma al cacciatore che cammina, solo con il suo cane e, come il suo cane, perso nei propri pensieri. L’amore. La guerra e quel suo odore che risveglia nel

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  • sangue chissà quali sapori, come il ricordo di vecchie ferite. Mi ci tuffavo anch’io e mi divertivo in quel mio essere uguale, ma per diversi motivi. Io di gente ero stanco, e di pesci, e di blu e di nero, stanco dell’alba che mi ridestava, con la sua molle luce di verme chiaro, ai miei pensieri silenziosi d’esche, come mani lunghe e sottili che carezzavano quel mio essere vivo, ma per quanto e perché? Ogni mattina pareva dimenticarsi nell’acqua un po’ della sua luce e un po’ delle mie voglie finchè ad un certo punto, in equilibrio sulla spina della rosa dei venti, sentii che era giunto il momento di lasciare che la voce che mi percorreva scatenasse le sue lingue attraverso gli stretti corridoi del futuro, li riempisse, restituendomeli un giorno in un unico sussulto di ventre sazio come la rete della notte miracolosa. Vederli crescere, i miei figli, e ogni volta che guardavano distante, girati con le spalle all’acqua, provare un brivido freddo, quel sentore di tempesta che ti invita, quelle onde che sembrano portare lontano. Oltre e dentro all’antico, ripercorrevo allora l’istante del delirio. Togliendomi le scarpe, camminavo lungo l’universo diventato liquido, come se nulla m’importasse e la gente guardava quel vecchio pescatore che moriva e, nello sguardo

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  • umido di quel cordoglio esibito anzitempo, io mi intenerivo nel ricordo di tutti i pesci. Parlavano a lungo i miei piedi con i sassi levigati, mentre il mondo si faceva sempre più vicino e, nell’ispessirsi delle sue nuvole, perdevo d’occhio quei bambini che andavano a scuola di temporali con le tasche piene di biglie e frammenti di demoni. Li ho lasciati andare e le mie mani hanno lasciato andare le reti. Così sono rimasto solo, mentre, da quelle maglie lacerate dagli scogli, l’importanza delle cose se ne andava via,scivolando verso l’acqua, macchiandola, e attorno a quelle macchie chiare, i sogni si rivestivano di scaglie dorate, mentre l’inafferrabile pesce del passato pretendeva che mi voltassi. Lottai a lungo, finchè l’amo della curiosità non riuscì ad afferrarmi, volli capire e mi voltai. Le case se ne erano andate. Era come se un soffio implacabile di vento le avesse strappate dalla riva, le vedevo laggiù, sorridenti e ammiccanti nel loro abito nuovo. Sembravano felici, ma qualcosa non andava. Era come se tutto si fosse trasformato in un teatro. Sì, un teatro, e la gente che arrivava,a bordo di rombanti automobili, era lì per divertirsi. Una lunga strada segnava il confine ed io restavo al di là come un vecchio, incorreggibile errore. Da allora trascino la mia ferita di inchiostro rosso

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  • sulle incontinenti pagine dei miei pensieri. E non capisco come gli altri facciano a capire”. Poi il vecchio si chinò di nuovo e, ripiegando la propria rete, senza dire altro,sparì. “Questa è la notte dei senza confini ed io sono così solo che persino l’altro me stesso mi ha abbandonato, è fuggito, ha rigettato la mia solitudine. Il mio corpo, il mio spirito stesso, ogni angolo di me sono impegnati dalla ribellione. L’Io è il confine da abbattere. Sono l’infinito che si confronta con altri infiniti, il tutto che si comprende. Gli alberi sono dei saggi, ma guai a far dell’albero un maestro, se non sai far maestri anche gli uccelli che lo abitano, i sassi che gli sono conficcati nei piedi. Ogni dolore perde la sua origine nel diventare urlo e l’urlo è la potenza del creato. Da quell’urlo originario è nata la parola-uomo, la parola-uccello, la parola-acqua, la parola-montagna, la parola-fuo…”. Improvviso. Un rumore lo strappò ai suoi pensieri e si materializzò in un uccello notturno della durata di in istante. Riaprì gli occhi e si ritrovò Saer. (pag.41- 44). LA CHIESA E IL CIPRESSO

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  • Si alzò e vi si diresse. Ma più si avvicinava e più la comprensione cresceva dentro di lui, facendogli provare nel contempo il desiderio di fuggirsene lontano, di tornare a casa per stringersi a qualcuno che lo facesse sentire nuovamente piccolo. Ma non gli riusciva di fermarsi, il suo corpo aveva accettato quello strano invito e si lasciò camminare senza peso verso quelle ombre che divenivano sempre più grandi. Nell’aria, l’odore del potere era un qualcosa che riempiva le narici, qualcosa di molto simile all’odore di ozono che, in certe giornate estive, annuncia l’avvicinarsi di un temporale, allora solo il saggio o il pazzo vi si dirigono, alla ricerca delle radici del fulmine, entrambi con la certezza che i boati non siano che illusioni. Saer non era né pazzo né saggio, era di più, era un bambino per il quale un luogo di potere non è altro che uno di quegli strani punti dell’universo dove tutto si esprime nella propria pienezza. Ogni luce porta con sé la propria ombra e nel ventre di ogni notte pulsa silenziosa l’aurora. Così egli capiva che, in quell’istante, nessuna energia l’avrebbe respinto, perché lui camminava nel vuoto, estraneo alla forma e, di conseguenza alla paura, come un pellegrino

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  • senz’altra meta che la propria conoscenza. Continuò perciò a camminare finchè la chiesa e l’albero non gli furono proprio di fronte; allora si pose una mano sul cuore, mentre dalla sua bocca emersero parole provenienti da chissà quale spazio: “Salute a voi, Estasi e Potenza. Ringrazio il viaggio che mi ha ben ricompensato della mia fatica; il tempo della voce e quello del silenzio che hanno raccolto le proprie sommità fiorite nel gran cesto dell’universo. Saluto gli animali che hanno trovato rifugio e quelli che ancora vagano tra le energie selvatiche della madre terra;le gocce di pioggia che ho sfogliato adagio, mentre il pudore delle nuvole si dissipava adagio e, appoggiato faccia a terra, mi nutrivo alla mammella del bosco. Sono passato attraverso il sangue che scorre nelle vene elle pietre, guardando gli uomini camuffarsi da serpi, quando ormai le serpi erano diventate angeli e la battaglia era già alle porte. Sono qui e nelle tasche porto solo il desiderio di guarire in tempo”. Finito ch’ebbe di parlare, il bimbo sentì, dal profondo del proprio essere, salire un lento rintocco di campane che, attraversandolo, andava a posare la propria vibrazione tutt’intorno.

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  • Fu come un breve ed intenso passaparola e ben presto quel battito divenne la voce stessa delle cose, di quelle che avevano un nome e di quelle che non l’avevano ancora e, forse, non l’avrebbero mai avuto. Ora pareva uscire dai camini e odorare di fumo, ma già era un uccello a portarlo in volo e a deporlo sul ramo di un albero; ora era la terra stessa, gli insetti, i vetri rotti, qualche stoviglia dimenticata, una volpe che passava tenendolo in bocca come fosse cibo, e, in un certo senso, lo era veramente. Poi, come per incanto, il lieve frastuono cessò ed il verde druido prese la parola: “Benvenuto a te, Saer; perché lieto è quel giorno in cui un uomo riesce a rientrare nel linguaggio circolare. Pochi sono passati di quei e quasi nessuno si è fermato a salutare, da quel giorno in cui, dalle fronde del viaggio, le strade si sono staccate e simili a foglie accartocciate dall’autunno sono rimaste lì a marcire le une accanto alle altre, senza alcuna memoria che si potesse dire propria, nel silenzio del bosco. Da allora l’uomo si aggira come un pazzo negli immensi corridoi dell’infinito. Sai qual è la sua colpa, la sua malattia o il suo sogno? Quello di aver creduto di poter interrompere l’eternità. Con l’uomo abbiamo conosciuto l’inizio, senza di lui non

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  • vedremo la fine, perché sono il suo inizio e la sua fine. Morirà e continuerà a vivere senza saperlo e se mai un giorno dovesse ricordare, sarà salvo, ma la perdita d’ogni memoria è il cibo di cui egli troppo a lungo si è nutrito, perciò pochi ricorderanno. Non ha forse già dimenticato il respiro di chi l’ha appena preceduto? Non ha forse già dimenticato se stesso? Dimenticarsi è la morte che si è scelto ed ogni generazione si allontana sempre più dal ricordo. Di padre in figlio il cordone s’attenua e con esso i sensi, la capacità di usarli, così che per lui non ci sarà altro orizzonte che l’immobilità di un cervello inebetito d’insoddisfazione. Si è posto al centro di un’ipotetica creazione, plasmata da un dio che gli rassomiglia, né può essere diversamente, perché, in realtà, egli nel suo intimo cova l’ambizioso solletico di essersi auto creato, sublime incarnazione del divino ermafrodita. Ma in realtà non è così: egli vive nella schiavitù di un eterno dualismo, ciò che nasce da lui non è che opposizione, squilibrio. Tutto questo l’uomo riesce ad intuirlo, ma la sua mente elementare non può che reagire scatenando un’altra guerra santa, questa volta definitiva, contro quella parte di sé che non accetta le regole dettate dall’Unico. E va alla

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  • deriva, naufrago in quello spazio sterile che chiama intelligenza, godendosi lo spettacolo della propria luce ch’è già stata spenta. La tua lotta è disperata. Senzaconfini; una volta che avrai bevuto alla coppa della memoria, comincerai a ricordare e il cavaliere del tempo cercherà d’abbatterti con l’affilata lancia dell’irrisione; avrà la forza di cento elefanti e l’agilità della propria finzione. Vedrai quello che non si dovrebbe vedere; cerca di non dimenticarlo, perché la memoria è la rivincita delle piccole cose, quelle che non hanno importanza che per noi soli;essa rifugge dai libri di storia, rigonfi di malcelata cortigianeria per il potere, il grande Meschino. Tu leggili ugualmente, ma cerca di immaginare, tra il fumo ed il rimbombo di centinaia di migliaia di guerre, di viaggi, di scoperte, il viso contratto dal terrore del contadino che fugge dinnanzi ai soldati del grande imperatore, cercando di radunare più in fretta che può, tutto ciò che appartiene al suo quotidiano violentato;quel viso avrà la stessa espressione di quella del marinaio, inchiodato ad un timone impazzito, frustato dall’acqua crudele di una tempesta, laggiù, in quell’oceano dove ogni goccia è confine ed ogni cosa non è meno conosciuta che il suo nome; e cosa dire della

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  • scienza, quell’enorme arena che nutre il proprio sagrato con le speranze dei poveri? Lascia che nella tua anima ci sia posto per ognuno di quei volti e, nelle sere d’inverno, sfogliali uno ad uno, vedrai che una cosa li accomuna: la religione del ricordo. Tu hai attraversato il bosco, Saer, ne hai visitato i sentieri, scoperto il sasso su cui anche il tuo piede è scivolato; vi ricrescerà il muschio aggrappandosi con i minuscoli artigli delle sue rughe e …altri passi cadranno nel suo verde mantello. Fa in modo che ogni stupore venga ricordato. Siano tuoi maestri gli umili che hanno sudato,pregato, bestemmiato…vissuto in questi luoghi; per il resto sarà la terra stessa a guidare i tuoi passi. Ascolta il vecchio e, mentre parla, osserva i suoi occhi, perché sono i secchi che egli ha calato nel pozzo del tempo per porgerti la sua acqua. Non cercarvi la saggezza, ma il bimbo che ha attraversato lo stupore. A quegli occhi stringiti forte, sono i cavalli alati che ti permetteranno di oltrepassare i confini del sogno, là dove vive in esilio la realtà”. Detto questo, il druido tacque e attorno tornò a regnare un silenzio lucido. Tutte le cose tacevano a proprio modo e forse ognuno in

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  • cuor suo pensava, o pregava, a aspettava, mentre Saer, lentamente, si accinse ad entrare in chiesa. “Ricorderai. Non preoccuparti, ricorderai.” lo accolse una voce rassicurante,”Tu ricorderai perché la memoria dimora già dentro di te. E’ stato il suo richiamo, e non il caso a guidarti fin qui. Accendila, ora, e rischiara il volto dei suoi doni.” Lo stupore lo raggiunse che già camminava, in quel buio fresco e conosciuto, e subito scivolò via, carezzandolo. In pochi passi raggiunse l’altare e accese uno dopo l’altro i due grossi ceri che stavano ai suoi lati. Fu lieto del risveglio di quel chiarore anche se, per un attimo, i suoi occhi abituati all’oscurità si contrassero a tal punto che dovette farsi schermo con una mano. Poi cominciò a guardarsi intorno. C’era in quel luogo, che pure non aveva mai visto, qualcosa di vagamente familiare. Forse era la bianca tovaglia che rivestiva l’altare, così simile a quella sulla quale, in certe domeniche d’inizio primavera, quando le prime finestre si aprivano alle lusinghe del vento, lui aiutava la nonna a fare gli gnocchi; l’aria di festa che c’era in quei giorni, gli turbinò nell’anima con una tenerezza tale, che dovette lottare non poco per non cedere alla commozione; ci riuscì, dicendosi

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  • che quei giorni li avrebbe di certo ritrovati una volta tornato a casa. E avrebbe avuto voglia di prendere quella tovaglia e, come allora, sbatterla sulla ringhiera di legno del terrazzo per far cadere la farina che, ostinata, non voleva staccarsi; eppure si trattenne, quasi che la leggera pellicola che ricopriva il desco gli incutesse rispetto, come se per la prima volta si trovasse al cospetto della cenere del gra fuoco della trasmutazione. Qui, lo sentiva, il corpo e il pane continuavano a compiersi, a penetrarsi, trasformarsi l’uno nell’altro, senza che l’accesso al divino fosse una prerogativa umana. Tuttavia, con un gesto riemerso da profondità insondabili, con due dita toccò dapprima la polvere e , l’istante successivo, il centro della propria fronte. Restò per un attimo sorpreso da quell’agire che non si conosceva, poi iniziò a muoversi fra gli inginocchiatoi, alcuni dei quali recavano, incise sul legno, iniziali di nomi e date di antiche donazioni, chiedendosi in che realtà vivessero ora e che visi potessero aver avuto quelle I.C. o B.B. Si trattava di vera fede o erano solo incisori di umana vanità?Probabilmente entrambe ma, a dispetto degli stessi committenti, ora quei simboli stavano lì e, in quel loro sfiorare l’eterno, ricordavano non un gesto o un nome,

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  • bensì un tempo, gravido di luci e ombre, come questo presente di candele accese. Alle pareti, gli affreschi dei santi mostravano i segni di uno o più successivi interventi. Non ne parevano comunque turbati, divertiti piuttosto, anche quel San Pietro, cui la maldestra devozione di un qualche anonimo contadino, di certo più avvezzo ad altri strumenti che i pennelli, aveva ingrossato i piedi, come per una cattiva circolazione o, forse, per aver troppo a lungo camminato con scarpe pesanti su e giù per la montagna. E rimaneva così, immobile come i suoi fratelli in Dio, ad osservare il volgo cimentarsi con orecchie e bocche, e visi in cui il divino, per assurdo, affiorava proprio nella sublime, umana imperfezione di quella mano che vangava orti, mungeva vacche, riassestava ruote di carri e affreschi. In quel momento risentì la voce che l’aveva accolto al momento del suo ingresso. “Cominci ora a capire perché in questo luogo non fermenti la primitiva tensione della paura e della magia che vi regna sia dolce e tranquilla come l’acqua cristallina della sua fontana? Un tempo gli uomini e gli dei erano bambini, si rincorrevano, si cercavano, giocavano fra loro e gli animali e gli alberi, ridendo, benedicevano quei giochi. La vita e la morte, non ancora

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  • considerate colpe, suonavano i propri strumenti in ogni angolo e in qualunque occasione; l’intero paese s’agghindava allora dei colori vibrati da ciascun suono. Poi i bambini crebbero e in quella felicità usurata cominciarono a comporre i primi puberali sintomi del malinteso: i ritornelli vennero dimenticati ed ogni strofa asseriva il contrario della precedente. Il dualismo ebbe il suo trionfo quand’anche la vita e la morte, non riuscendo più ad accordare insieme gli strumenti, decisero a malincuore, di andare ognuno per la propria strada. La prima si diresse verso sud, là dove il sole scalda i corpi e i desideri danzano selvaggi sulle creste di onde luminose come eterni meridiani, l’altra si vestì di nero e andò nella parte opposta, a nord, portando con sé la malinconica dolcezza della ballata del fuoco ed un violino. A tutt’oggi nessuno degli uomini sa se si siano più rincontrate e solo qualche raro viaggio dà adito a questo pensiero, portando con sé, dalle regioni remote, antiche storie di fanciulle dalla carnagione bianchissima e dai capelli di fiamma, fanciulle che, dai pugni minuti, lasciano sgorgare alcune volte l’oro delle dune ed altre volte fredde lacrime di ghiacciai.

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  • Rimasti soli, gli uomini si rinchiusero nella fortezza della storia, gli dei in quella del mito. Certo non tutti gli uomini scelsero di ritirarsi e nemmeno tutti gli dei; pochi, molto pochi, degli uni e degli altri, non cercarono di forzare la propria scelta e continuarono a vivere come avevano sempre fatto. Sotto i “Senzaconfini”, ai quali anche tu appartieni; essi vivono negli alberi, nella pioggia, nella corsa degli animali selvatici e nella mansuetudine di quelli domestici, nel frutto maturo e nella mano che lo coglie, nel pensiero di un’unicità che unisce tutte le creature che sono bocche, radici, cascate, frane, lento consumarsi e menti si sono nutrite, si nutrono e continueranno a farlo, alle dolci mammelle della madre terra. Questo è il popolo eterogeneo cui dovrai cercare di riunirti, al di là di ogni convenzione che appartiene al mondo sofferente dell’apparenza, nelle cui nebbie la maggioranza degli uomini e degli dèi si combattono, cercando entrambi l’altrui sopraffazione. Se guardi il mondo con occhi consapevoli, potrai vedere che tutta la storia dell’uomo non è che un cammino a marce forzate verso l’imprendibile torre ed in questo massacrante percorso egli cerca di far propri alleati, adulandoli, innalzandoli ad Unici, i falsi dèi dell’incomprensione. Ma falsità non può che

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  • generarne altra; così alla falsa sottomissione dell’uomo alle leggi divine, che nasconde il suo progetto di scavalcarlo in una presunta, quanto folle, scala gerarchica ed a cui dà l’ottimistico nome di futuro, cioè di un qualcosa che gli arroga il diritto di distruggere l’oggi di realtà infinitamente più consapevoli, anche se, e proprio per questo, apparentemente più fragili della sua, segue l’altrettanto falsa disponibilità degli dèi ad aiutarlo. Così, fingendo di stare al gioco, essi si lasciarono adorare, dandogli in cambio potenti simboli di morte, nel cui nome egli uccise e continua a farlo, divorando sangue, polvere e linfa, ma la menzogna che vi inzuppa, presto diventerà il pane della propria disperazione, perché il futuro che fagocita il proprio passato in realtà non divora che sé stesso. Così, questo villaggio, che non molti anni or sono ferveva di vita, è rimasto vuoto, ma la vera morte non è quella di chi vi ha perso la vita nell’impossibile battaglia ed è caduto, trafitto dalle frecce degli anni, ma quella di chi si crede vivo perché ha venduto il proprio passato. Perciò temi gli uomini, Saer, e la folle bramosia con cui cercheranno di contagiarti, ma fa sì che il tuo timore non si trasformi mai in paura ed il

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  • distacco saprà tramutare in acqua anche la tua morte. La coppa è nel sangue che ti condurrà attraverso i giorni che basteranno a donarti quel poco che manca al tuo esser figlio. Ricorda che in ogni pietra che vedi devi saper riconoscere la montagna, perché questo svolgersi del padre nel figlio è la chiave che ti permetterà di entrare nel mistero della croce, ovvero dell’albero delle quattro direzioni da cui si irradia quell’eterna energia circolare che nutre il tentativo dell’Uomo e del Dio di ricongiungersi alle proprie origini. Perciò le radici della croce vanno ad attingere l’acqua della verità a profondità tali da affondarsi in quelle nuvole che dissetano in ugual modo l’occidente e l’oriente. Avvicinati all’immagine del Cristo crocefisso e guardalo con gli occhi nuovi di chi vuole realmente vedere; lascia che le lacrime li purifichino dai granelli blasfemi d’ogni credenza. Varie follie s’adageranno sulle rive della tua mente, come sabbia portata dal fiume in piena che ha raccolto gli affluenti di moltitudini di memorie; di parole, alberi senza più radici provenienti dal territorio dell’urlo e da quello del sussurro, dalle minacce e dagli insegnamenti, andranno ad ostruire il corso della tua conoscenza.

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  • Ma basterà che tu ti lasci scorrere, affidandoti con fiducia alla rapida che tutto trascina e accomuna, per accorgerti come, al tuo risveglio, bisbigliato dalla dolce nenia di un’acqua chiara, ti sembrerà ozioso e senza importanza cercare di capire se l’immagine di quel dolore appartenga ad un uomo oppure ad un dio. Solo, sul ciglio del dolore, resterai ad asciugarti quelle lacrime che sentirai appartenere ad un sole che ha superato i limiti imposti dall’alba e dal tramonto: Un sole senza confini. Il sole dei”Senzaconfini”. Saer tirò su dal naso e solo allora si rese conto che, per tutto il tempo passato davanti all’affresco di quell’antica crocifissione, aveva pianto, senza che questa volta il suo orgoglio di bimbo avesse fatto nulla per impedirglielo e proprio mentre cercava ancora una volta di mettere a fuoco lo sguardo inumidito su quell’immagine sofferente, questo cominciò ad apparirgli sotto un’altra prospettiva. Sembrava che una luce cercasse di farsi strada sotto la maschera di quel dolore, una luce che, partendo dalle guance, donasse calore all’intero viso restituendolo lentamente alla vita. Ora gioia e dolore erano indistinguibili fra loro, solo quegli occhi sapevano in che mondo si trovavano. Quel viso non apparteneva più ad

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  • un Cristo, ne ad un uomo o ad una donna; ogni confine era scomparso in lui e gli opposti si erano lasciati teneramente scorrere uno nell’altro, come due fiumi che si fossero penetrati, come mari che continuassero ad intrecciarsi senza fine. Riuscì solo a dire:”Vi ringrazio, Maestri”. Poi spense le candele su quella che ora gli pareva un ‘incredibile intimità e, dopo aver chiuso gli occhi, ed essersi riempito le narici dell’ultimo saluto della cera, accompagnato dal buio, riattraversò in silenzio la chiesa e ne uscì, chiudendo piano la porta alle proprie spalle. Non ebbe neppure il tempo di ripensare alle sensazioni che aveva appena provato, che subito la sua attenzione fu catturata da un canto che sfociava dolcissimo da una decina di metri più in basso. Con infinita leggerezza, si abbandonò completamente al vortice di quella nuova magia. Non riuscì neppure, come avrebbe voluto, a scendere di corsa i cinque rapidi scalini che conducevano alla fontana, chè, giunto al primo, dovette sedersi su una lastra di pietra, incapace di proseguire. La dolce malinconia di quel canto lo soggiogava, impedendogli ogni altra cosa che non fosse fermarsi ed ascoltare.

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  • LA ROSA E LA MARGHERITA A differenza delle altre, questa non sembrava cadente, anzi, gli infissi erano al loro posto, le imposte serrate e il tetto, per quel che si poteva vedere, pareva sistemato di recente.

  • marcate, non facessero parte di una messinscena teatrale. Un’altra vecchia, di non diverse proporzioni, stava invece seduta sull’orlo di un camino e con un attizzatoio era intenta a modellare il fuoco. Con gesto lento e misurato spostava le braci dal punto dove inutilmente si sarebbero consumate a quello dove, invece, erano necessarie. I suoi capelli che conservavano quasi completamente il loro originario colre scuro, erano raccolti in due lunghe trecce che le scendevano per tutta la lunghezza della schiena ed erano fermati in fondo da cordini di lana rossa; con la stessa secolare ed armoniosa pazienza ora pareva pettinare il fuoco. Quando Saer entrò era girata di profilo ed in quella posizione restò ancora per qualche istante, poi si voltò verso di lui. C’era qualcosa in lei che riportava alla mente certe figure di indiani d’America viste sui libri. Gli stessi occhi che parevano aver visto le radici dolorosamente profonde della vita e da quelle radici fossero poi sbocciati come fiori in questo mondo, non per essere solamente ammirati, ma per insegnarci ad accettare il profumo e il veleno che la vita ci offre. Degli indiani aveva anche un certo taglio del viso, scolpito nell’argilla,diversi,invece, la pelle e gli abiti.

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  • Ma forse india lo era veramente e nel modo più doloroso e profondo,sciamanico. Era donna di terra e di riti, in un mondo dove, quando resistevano, erano ridotti ad un mero e fotografico folclore. Nella stanza,satura degli odori della pipa e del fuoco, sembrava che il tempo si fosse fermato o addirittura che non fosse mai esistito, come se tutto facesse parte di un magico cerimoniale che aveva lo scopo di preparare il guerriero a lottare, per cercare di salvare quel mondo antico dal genocidio culturale cui era stato condannato, quel mondo antico di cui ora anche Saer faceva parte; ed egli capiva che il suo arrivo era stato lentamente preparato ed atteso come pioggia su di una terra riarsa, perché quando il bambino incontra l’antico ogni sogno diventa possibile. Stettero così a lungo, senza parlare, ciascuno dei tre consapevole di quella magia. Le due vecchie lo guardavano e lui, guardando nei loro occhi senza fine, vedeva i mondi trascorrere piano. Lenti passavano i secoli e la terra, su medesimo guanciale di profumi e colori, partoriva la bimba; la banda degli insetti ne ronzava i giorni della crescita. E lei cresceva dolce, pigra, generosa e crudele come tutti i bambini e volava, gareggiando con

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  • le più belle farfalle fino a che, sfinita, si addormentava sazia fra il caldo dei fienili e l’ombra degli alberi sudati., fra forti schiene ed il sapore circolare delle danze al vino, fiera di sentire scorrere nelle proprie vene l’energia dei fulmini, allegra quand’anche il pesante gong del tuono faceva tremare il tempo e le sue certezze. E si svegliava, domandandosi da quali occhi il vento avesse fatto fuggire le foglie, come l’uomo nero che nessuno teme ma nemmeno aspetta, quel vento che unisce nella loro nudità gli alberi e le anime. Per le gocce arruffate di neve che vengono a scrollarsi davanti al fuoco, come cani, lasciando nella stanza piccole chiazze di brividi, quel fuoco eterno che non ci lascia andare e sempre ci riporta, dinnanzi alla finestra, ad aspettare il fiore. E da quegli occhi gli anni come lacrime e, passando, scivolavano sempre sul medesimo solco, a segnare le pietre di graffiti silenziosi. Infine le immagini s’offuscarono e giunse il presente, col suo bisogno di parole; il presente dalla memoria corta, il presente che è solo un accordo fra vivi. “Io…, io non sapevo che qui ci abitasse qualcuno. Ho visto il fuoco…pareva che mi chiamasse. Voi abitate qui, vero?”

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  • “In un certo senso”, rispose la prima vecchia, staccando la pipa dalla bocca, mentre con l’indice ne premeva leggermente l’interno per far incendiare bene il tabacco, “ in un certo senso da qui non ci siamo mai mosse, vero Rosa?” aggiunse rivolta all’altra che annuì dicendo: “Ti aspettavamo, Saer. Per te abbiamo coltivato questo fuoco”. Fece una breve pausa e continuò: “Ma ora avrai fame, caro il mio bambino. Ti abbiamo preparato del caffè col latte e dei biscotti. Siediti e mangia con calma, parleremo dopo. Margherita, dove hai messo i biscotti, non li avrai mica bruciati, eh?”. “Ma figurati. Eccoli qua. Una bella tazza e questi biscotti. Assaggiali, li abbiamo preparati noi. cotti nel forno della stufa, sentirai che buoni”. Saer si buttò avidamente sui biscotti, inzuppandoli a due a due; non si era accorto di avere fame, ma dopo il primo morso non si fermò finchè non li ebbe terminati tutti, infine vuotò la tazza e, soddisfatto, si pulì la bocca con la manica della giacchetta. Ancora più soddisfatte di lui e quasi all’unisono le due vecchie gli domandarono se ne volesse ancora; Saer fece cenno di no e disse:”Davvero mi stavate aspettando?”, mentre l’eco

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  • dell’ultimo biscotto scivolava piano nello stomaco, lasciandogli un senso di dolce sazietà. “Sì” rispose Rosa, “ ti abbiamo aspettato a lungo ed ora ci sembra un sogno che tu sia qui. Se solo fossi arrivato qualche mese prima…”. Qui la sua voce sembrò quasi sopraffatta da un velo di tristezza recente, ma fu solo un attimo e continuò “ No, non è niente, non importa. Non importa più. L’importante è che tu sia arrivato e ormai credo che tu ne abbia anche capito il motivo.” “No…Cioè sì, credo di sì.” “Lo credo anch’io” intervenne nuovamente Margherita, che aveva approfittato dell’intermezzo per caricarsi minuziosamente la pipa “ E credo anche che tu sappia come fra noi le parole non contino. Pure è importante che parliamo, affinchè gli altri ci possano ascoltare.” “Gli altri?” domandò il bambino guardandosi intorno con apprensione. “Sì, gli altri. Ma non guardarti intorno, non sono presenze che si possano vedere, ma sono veloci e parleranno del tuo arrivo. Stavo dicendoti che è importante che parliamo perché è nel silenzio che si cresce, ma è parlando che si giunge al silenzio. Arrivando in questo villaggio, tu hai aperto un libro e ora che sei all’ultima pagina hai capito che il tuo compito è

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  • quello di non chiuderlo, né lasciare che latri lo facciano.” “Non so, amiche mie” si giustificò Saer, “mi sembra tutto così enorme. A volte ho come l’impressione di sognare ed ho paura di non riuscire a condividere il mio sogno con nessun altro.” “E se così fosse? Se fossi solo? Basterebbe il solo fatto di saperlo per cambiare il corso della tua vita? La tua casa non è altro che un’illustrazione di questo libro. I tuoi genitori, i tuoi amici, tutti ne fanno parte. Ognuno legge e rilegge le pagine che gli sono state assegnate. Qualcuno lo chiude subito, altri si sforzano di tenerlo aperto, per altri ancora sarebbe impossibile non farlo, perché la loro esistenza si svolge tra quelle righe. Tu sei uno di questi, Saer, perciò non essere assillato dall’idea di dover far tanto o poco, perché in ogni caso farai solo quello che ti è concesso di fare. Affronta tutte le prove che ti si presenteranno, con la dolce elasticità dei felini. Ti sia scudo la comprensione degli altri e spada la conoscenza del nome delle cose; perché troppo spesso quello che ci separa negli altri, non ci esaspera, o vorremmo che non ci esasperasse in noi, e rivestire il male di piume colorate è un gioco che ci deprime e, nel contempo, ci affascina. Finchè la parola resta

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  • tale niente ha importanza, ma è quando il verbo si fa gesto, movimento, carne che incomincia la vera battaglia. A volte, però, parole che non ci appartengono, che ci sono, all’apparenza, estranee, ci toccano, ci catturano, ci rivelano la presenza di mondi diversi, che non conoscevamo e dei quali è, invece, necessario sapere l’esistenza. Mondi che vivono il tempo di rivelarcisi e poi scompaiono dalla nostra consuetudine, lasciandoci in cuore l’amarezza di non sapere fino a quando dovremo ricordarli invano. Mondi che hai già incontrato: Mondi…, mondi come questo.” E qui la visione divenne impercettibilmente diversa, forse un po’ meno luminosa, meno nitida. “Ma anche tutto questo può sparire?” “Non perdere tempo a domandare. Ascolta. Tutto continuerà a parlarti. Limita ogni tua interruzione al fatto di avere ancora poco tempo.” “Ma…anche questo fuoco sparirà?Anche voi?” “ Quando uscirai da qui, continua per la tua strada. Incontrerai qualcuno che resterà con te. Lui potrà seguirti, noi dobbiamo restare qui e aspettare.” “Aspettare cosa? Cosa?” L’ultima voce di Saer fu quasi un urlo che rimbombò nella stanza deserta, facendo cadere

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  • un po’ ovunque quelle ragnatele così povere e sgualcite, ricordo di antichi ragni che già da un pezzo le avevano abbandonate. Uscendo, tolse quelle che erano precipitate sul vaso, coprendone quasi completamente i due fiori secchi che erano lì ad aspettare, e soffiò al vento quel poco che gli era rimasto ancora nelle mani. Era di nuovo solo. Superò, rabbrividendo leggermente, la curva della valle, dove anche la strada sembrava consigliare al viandante di sveltire il passo e, per favorirlo in questo, si allargava leggermente, per quanto lo consentivano le rocce, alcune delle quali insistevano, ferme al loro posto, come burbere genie del posto. Continuò a camminare ancora un poco; dopo che anche l’ombra dell’ultima casa non venne risucchiata dal buio cui apparteneva, si fermò si di una pietra a guardare le luci che nitide s’intravvedevano al di là del lago. In quello stesso punto, pensò, suo padre si sarebbe sicuramente fermato per arrotolarsi una delle sue solite sigarette; il pensiero lo tranquillizzò e lasciò andare libera la mente a pascersi in quel nulla così permeante e quieto. Quando si rialzò si sentiva di nuovo rinfrancato e pronto ad affrontare qualsiasi nuova prova gli si fosse presentata davanti.

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  • “Comprensione degli altri e conoscenza del vero nome delle cose” ripeteva ogni tanto, gagliardamente, dentro di sé, perché il bello di essere un bambino è di potersene, talvolta , dimenticare. Tutto immerso in quest’eroica allegria, arrivò ad un quadrivio. (pag.79 – 84)

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