S t u p ro come tortura - L'Osservatore Romano · che i soldi che avrei potuto guadagnare l ......

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DONNE CHIESA MONDO MENSILE DELLOSSERVATORE ROMANO NUMERO 61 OTTOBRE 2017 CITTÀ DEL VATICANO Stupro come tortura

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D ONNE CHIESA MOND OMENSILE DELL’OSSERVATORE ROMANO NUMERO 61 OTTOBRE 2017 CITTÀ DEL VAT I C A N O

S t u p rocome tortura

numero 61ottobre 2017

TESTIMONIANZE

Le ultime del mondo: Blessing e FatimaFRANCESCA MANNO CCHI A PA G I N A 3

IL MEDICO

Tracce indelebili della torturaMARIA STELLA D’ANDREA A PA G I N A 13

I GIURISTI

Basta con l’impunitàNICOLA CANESTRINI E GIUSEPPE SA M B ATA R O A PA G I N A 19

LA S A N TA DEL MESE

O roraDARIO FERTILIO A PA G I N A 26

NEL NUOVO T E S TA M E N T O

Maria di Magdala

MARINELLA PERRONI A PA G I N A 29

OMAGGIO D’A R T I S TA

Le donne sono eroiF R AT E L ELIA A PA G I N A 36

ME D I TA Z I O N E

Mettere in pratica l’a m o reA CURA DELLE SORELLE DI BOSE A PA G I N A 39

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TESTIMONIANZE

Le ultime del mondo:Blessing e Fatima

D ONNE CHIESA MOND O

Mensile dell’Osservatore Romanodiretto da

LU C E T TA SCARAFFIA

In redazioneGIULIA GALEOTTI

SI LV I N A PÉREZ

Comitato di redazioneCAT H E R I N E AUBIN

MARIELLA BALDUZZI

ELENA BUIA RUTT

ANNA FOA

RI TA MBOSHU KONGO

MA R G H E R I TA PELAJA

Progetto graficoPIERO DI DOMENICANTONIO

w w w. o s s e r v a t o re ro m a n o .v ad c m @ o s s ro m .v a

per abbonamenti:d o n n e c h i e s a m o n d o @ o s s ro m .v a

Per fermare i torturatori

Sta finalmente emergendo all’attenzione e alla coscienza del mondoil fenomeno dello stupro continuato e sistematico a cui sono sottopo-sti donne e bambini migranti, sia nel lungo e pericoloso attraversa-mento dell’Africa che nei campi dove aspettano di partire, nel corsodei terribili viaggi sui barconi, e perfino talvolta sul suolo che do-vrebbe riservare loro accoglienza e protezione, dove queste donne re-se schiave sono obbligate a prostituirsi. Ma l’attenzione è tuttoratroppo debole, non si prendono provvedimenti né giuridici né mediciper farvi fronte. Soprattutto, di fronte a un fenomeno di tale gravitàe portata, si sente la necessità di strumenti giuridici che tengano con-to della sua natura non occasionale ma strutturale, e consentanoquindi di fermarlo e punirlo su scala più vasta possibile. Numerosisono i riferimenti di documenti giuridici internazionali recenti alleanalogie, in queste situazioni, fra stupro e tortura, fra stupro e delitticontro l’umanità. Sono spunti che meritano di essere ripresi e appro-fonditi. Equiparare giuridicamente lo stupro sistematico attuato sudonne (e bambini) migranti alla tortura consentirebbe infatti di af-frontare il problema a livello internazionale, e non solo nazionale,con possibilità di intervento assai maggiori, e quindi di prevedereprotocolli di riabilitazione ad hoc. E soprattutto, in sostanza, di co-gliere la natura delittuosa dello stupro, troppo spesso visto come unatto di cui la vittima e non il carnefice si deve vergognare, e quindisottovalutato e neppure denunciato.

Abbiamo chiesto in questo numero il parere di due avvocati, e diun medico legale e criminologo clinico, Maria Stella D’A n d re a ,esperta nell’assistenza medica alle donne vittime di queste terribiliviolenze. Vi abbiamo accostato le testimonianze lucide e coraggiosedi due donne africane, ambedue vittime delle violenze sessuali che sitrovano ora in una struttura protetta. Ma la pietà e l’empatia non so-no sufficienti. Bisogna fermare i torturatori, e trovare gli strumentigiuridici per farlo nel modo più rapido ed efficace costituisce il pri-mo passo. (anna foa)

L’EDITORIALE

Blessing e Fatima sono due donnespeciali. Blessing e Fatima sono duedonne come tante. Sfuggono alla vistadei più, sono due donne tra le ultimedel mondo. Fuggono dalla guerra,dalla fame, dalla povertà. E per cerca-re un po’ di pace vanno incontro allaviolenza, agli abusi, alle ferite insana-bili.

Blessing e Fatima sono due fanta-smi per noi, occidentali. Sono numeri,numeri sui migranti in arrivo, numerisui migranti bloccati ai confini del Ni-ger, della Nigeria, del Sudan, dellaLibia. Numeri di donne costrette aprostituirsi, ad abbandonare i proprifigli per cercare di dare loro un futuromigliore, lavorando lontano da casa.

Blessing e Fatima sono numeri.Eppure queste donne hanno in sé

tutta la forza del mondo. La forza diessere figlie, madri, mogli. Donne.

Donne che hanno il coraggio di af-frontare e superare le violenze più

atroci per raggiungere una vita digni-tosa, migliore.

Blessing e Fatima oggi vivono indue centri protetti, stanno cercando disuperare i traumi della violenza, dellaperdita, stanno cercando di superareil dolore. Incontrare gli occhi di que-ste giovani donne mi ha ricordato, an-cora una volta, quanto sia importanteraccontare le loro vite, le loro storie,attraverso le loro parole, gli sguardi.Per dare ai numeri la possibilità di di-ventare vita. Per dare ai numeri la di-gnità.

Perché troppo spesso, e sempre piùspesso, le violenze per queste donneiniziano nei paesi di origine, ma con-tinuano a consumarsi anche qui,nell’Europa che le respinge. Sui mar-ciapiedi dove vengono costrette a pro-stituirsi, oggetti del desiderio di clien-ti europei. Non meno colpevoli deglischiavisti di casa loro.

interviste di FRANCESCA MANNO CCHI

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morta e con me sarebbero morti tutti i miei familiari. Solo allora hoscoperto che avrei dovuto sdebitarmi una volta arrivata in italia, manessuno ancora mi aveva detto a quanto ammontava il debito. L’uni-ca cosa che ricordo di quella notte è la paura, è che non volevo piùpartire ma non avevo il coraggio di dirlo a mia madre, perché sapevoche i soldi che avrei potuto guadagnare l’avrebbero aiutata a sfamarela famiglia».

La notte dopo Blessing è partita, con un uomo e altre sei ragazzi-ne, l’uomo era il connection man: ruolo fondamentale nelle mafie enella tratta di donne destinate alla prostituzione, è colui che ha ilcompito di scortare le ragazze fino in Libia, talvolta fino in Italia.

Blessing ha 17 anni, è nata nel 2000 a Benin City, in Nigeria. Oggi,dopo aver attraversato troppi inferni per la sua giovane età, Blessingvive in un centro protetto in Italia centrale. Un centro per minori vit-time di tratta sessuale.

Ha attraversato l’inferno del dolore, della fame, della paura dellamorte. L’inferno della violenza sessuale, della prostituzione.

Oggi ha un letto dove dormire, in una stanza che divide conun’altra giovane — nigeriana anche lei, anche lei vittima di tratta — inun luogo sicuro, dove la incontriamo, un pomeriggio d’estate.

Ha colorato i capelli di rosa, li ha raccolti in due lunghe trecce, halo sguardo basso, come se la vergogna indotta dalle violenze che hasubito non riuscisse ad abbandonarla. Quando ricorda i giorni degliabusi, le sue mani tremano a lungo.

«Sono nata a Benin City — dice Blessing — e precisamente in unpiccolo villaggio nelle campagne, ultima di otto figli. Quando sononata mio padre era già invalido, mia madre poverissima e dovevaprendersi cura di tutti, da sola. Io e altri tre miei fratelli e sorelle dabambini trascorrevamo le giornate in strada, vendevamo pocheverdure del nostro orto, un po’ d’acqua, quando non avevamo nienteda vendere chiedevamo l’elemosina. Io non sono mai andata a scuo-la, ho imparato a leggere e scrivere poche parole da quando sono inItalia».

Nel 2015, quando Blessing aveva solo quindici anni, una donna,una vicina che spesso acquistava acqua e verdure da lei o dai suoifratelli, visitò la madre della ragazza, consigliandole di trasferirsi inEuropa. Sua madre non voleva, aveva sentito i racconti dei morti neldeserto, ma quella donna fu così convincente che la madre, alla fine,approvò il viaggio.

«La donna disse che c’era molto lavoro, che avrei lavorato in unnegozio di parrucchiera in Italia e che non avrei dovuto pagare nien-te per il viaggio, perché mi avrebbe affidato a un suo amico per far-mi proteggere, dalla Nigeria fino alla Libia, diceva che avrei dovutoseguire le sue indicazioni e tutto sarebbe andato bene».

Il giorno prima della partenza la donna ha portato Blessing in unacapanna in un villaggio vicino al suo, per incontrare un baba-loa, unuomo che avrebbe fatto un rito vudù, richiamando a suo dire le anti-che divinità, rito che avrebbe garantito la bontà del patto stretto conla ragazza.

«Mi hanno staccato una ciocca di capelli, i peli pubici, mi hannofatto un taglio su un dito per avere il mio sangue — racconta Bles-sing — e poi mi hanno detto che se non avessi rispettato il patto sarei

Blessingha colorato

i capelli di rosae li ha raccoltiin due lunghe

t re c c eHa lo sguardo

basso come sela vergogna

per le violenzesubite

non riuscissead abbandonarla

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sullo stesso materasso sporco, a piangere per ore. Pensavo a mia ma-dre, pensavo alle ragazze intorno a me, sentivo le loro lacrime e sa-pevo che non avrei potuto dire nulla a mia madre, anche se avessiavuto modo di parlare con lei, avrebbe sofferto troppo».

Dopo cinque mesi di violenze e abusi, l’uomo ha detto a Blessingche era arrivato il momento di partire, di notte, su un gommone dauna delle infinite spiagge libiche.

Blessing non piangeva più, aveva perso i suoi sogni, la sua purez-za. Le restava solo la speranza di soffrire meno una volta in Italia.

«Ricordo il nero delle onde, ricordo che pensavo che sarei potutamorire — dice la ragazza, stringendo un fazzoletto tra le mani — maero già morta, perciò nulla davvero mi spaventava».

L’uomo le aveva dato un biglietto con un numero di telefono, leaveva detto che avrebbe dovuto dire di essere maggiorenne così daevitare i centri protetti e avrebbe dovuto chiamare quell’uomo il pri-ma possibile.

Così, dopo essere stata salvata da una nave di soccorso nel Medi-terraneo, otto mesi fa, Blessing ha fatto quel numero, cui ha rispostoun altro ragazzo nigeriano, che l’ha portata dalla Sicilia fino ad Asti,dalla seconda madam, dalle nuove violenze, su una strada italiana, inuna periferia dell’Italia del nord.

«La madam mi ha detto che avrei dovuto prostituirmi fino a chenon avessi ripagato il debito di 45.000 euro. Che dovevo darle alme-no 800, 1000 euro alla settimana senza ribellarmi e che in più avreidovuto pagare l’affitto del posto letto e il cibo che mi avrebbe dato.Ricordo che sono arrivata ad Asti un venerdì pomeriggio e il sabatomattina ero già in strada, sotto un ponte. Con dei pantaloncini cortie un reggiseno e mi vergognavo tanto».

Blessing non sapeva una parola di italiano, le sole parole che co-nosceva erano quelle a sfondo sessuale, per assecondare le richiestedei clienti — che la sua madam le ha insegnato in una sera — e sapevacome contare i soldi. Tutto qui.

Blessing ha passato su quel marciapiede quattro mesi, ogni giorno,a volte anche con quattro, cinque clienti al giorno, per non esserepicchiata dalla madam.

Oggi — dopo essere stata salvata da un’unità di strada — vive inuna comunità protetta e prova ancora vergogna ogni volta che chia-ma sua madre in Nigeria e le nasconde la verità e le dice: mamma,ancora non posso mandarti dei soldi, ma un giorno ce la farò.

Le ragazze hanno raggiunto dapprima Kano, poi Sokoto, al confi-ne con il Niger, lì hanno ricevuto dei passaporti falsi da un gruppodi trafficanti che erano già in accordi con il connection man, nei passa-porti falsi le ragazze erano tutte maggiorenni.

«Il viaggio nel deserto è stato terribile, sono nata nella povertà esono cresciuta nell’indigenza ma non avevo mai sofferto la sete, unasete tale che avevo paura di morire. Abbiamo viaggiato sei giorni neldeserto, due delle ragazze con cui viaggiavo si lamentavano, stavanomale, hanno chiesto aiuto all’uomo che era con noi, che da quel mo-mento ha cominciato a diventare aggressivo e violento».

Una volta arrivate in Libia le ragazze sono state destinate in postidiversi, Blessing e altre due giovani di Benin City come lei sono statetrasportate di notte in una casa di Tripoli.

Da quella casa Blessing non è uscita per cinque mesi consecutivi.

«Quando sono entrata in quella casa sporca, c’era un odore terrifi-cante. Odore di corpi, di sporcizia, di malattie. Non sapevo dove mitrovavo, chiedevo spiegazioni, dicevo all’uomo che era con noi chevolevo partire. Che volevo andare in Italia o tornare a casa mia. Inquel momento l’uomo mi ha detto: Ora stai qui per un po’, così im-pari a lavorare».

Il lavoro che Blessing doveva imparare era vendere il propriocorp o.

E quella casa non era la casa che l’avrebbe accolta od ospitata inLibia fino alla partenza del gommone o del barcone, ma una connec-

tion house, una tappa intermedia della tratta delle donne, la tappadelle prime violenze, dei primi abusi, della prima tortura dei giovanicorpi.

«Una donna, la prima madam, mi è venuta incontro, mi ha dettoche da quel momento sarei rimasta lì, con altre ragazze e che avreiincontrato degli uomini. Tutti i giorni».

Blessing ha perso la sua innocenza, la sua infanzia, la sua verginitàe i suoi sogni su un materasso sporco di una connection house di Tri-poli, minacciata da una donna libica, picchiata dal suo connectionman, mentre sperava solo di arrivare in Italia, cercare un umile lavo-ro per poter spedire una manciata di dollari al mese alla suafamiglia.

«C’erano giorni in cui la madam faceva entrare solo un uomo odue, e giorni in cui venivano in gruppo. Anche cinque o sei uominicontemporaneamente. Quando arrivavano mi trovavano su un mate-rasso a terra, mi violentavano e quando andavano via io rimanevo

Mi hanno staccatouna ciocca

di capellii peli pubici

Mi hanno tagliatoun dito

per avere il miosangue

Poi mi hanno dettoche se non avessirispettato il patto

sarei mortae con me tutti

i miei familiari

La “madam”mi ha dettoche avrei dovutop ro s t i t u i r m ifino a ripagareil debitodi 45.000 euroSono arrivataad Astiun venerdìpomeriggioe il sabato mattinaero già in stradasotto un ponte

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FFatima è nata in Eritrea, 26 anni fa, lei e suo marito si sono cono-sciuti da bambini.

Entrambi molto poveri e suo marito destinato a essere arruolatoforzatamente dall’esercito, rischiando di passarci la vita intera, suben-do angherie e violenze. Costretto a uccidere o a vivere con la pauradi essere ucciso.

Anche Fatima finché non si è sposata ha fatto il servizio militare,fino a che non è nato il suo primo figlio è rimasta a disposizionedell’esercito, nonostante il servizio militare sulla carta duri solo unanno e mezzo, di fatto gli uomini e le donne restano arruolati a tem-po indefinito, a volte gratis, a volte per una manciata di dollari algiorno.

Quando il figlio aveva quattro anni Fatima e suo marito hanno de-ciso di fuggire, rischiando la vita per cercare un futuro migliore, congrande sofferenza e contro la volontà di tutti hanno lasciato il bam-bino con i genitori di Fatima, e hanno pagato dei trafficanti per arri-vare in Sudan e poi in Libia e poi raggiungere l’Italia, via mare.

«Mia madre non avrebbe voluto — dice Fatima — ma io e mio ma-rito desideravamo un futuro migliore per tutti; per questo, nonostan-te il parere contrario delle famiglie intere, abbiamo deciso di rischiaree partire».

Oggi Fatima vive in un centro di accoglienza in Italia del nord. Èsola, suo figlio in Eritrea, suo marito perduto lungo il viaggio chel’ha portata in Italia.

«Ci siamo affidati a diversi gruppi di trafficanti, il primo dovevafarci attraversare il Sudan, il secondo farci arrivare sulle coste libiche.Ci abbiamo messo dieci giorni, giorni di fame, di stenti, di lacrimedelle persone intorno a noi. Un giorno non ce l’ho fatta, non aveva-mo acqua e sono stata costretta a bere la mia pipì. Le donne nonavevano niente da bere e da mangiare per i bambini, i bambini gri-davano, disperati».

Fatima, in Libia, ha perso tutto.

Quando il gruppo di eritrei con il quale viaggiava è arrivato a Be-ni Walid, per essere trasportato verso la parte più occidentale delpaese, a Sabratha, punto di snodo del traffico di uomini e tristemen-te noto per il numero di partenze e di morti sulla spiaggia, le donnesono state separate dagli uomini e portate in un capannone, un cen-tro di smistamento. Quando ricorda quella notte Fatima trema, è lanotte in cui le sue speranze sono morte, in cui il suo corpo è statoviolato, in cui ha perso suo marito.

I numeridella vergognaUn numero semprecrescente dei migrantiche arrivano in Italia,non solo profughi erifugiati, sono vittimedi sfruttamento, cioèdestinati al mercato sessuale.Negli ultimi anni, l’aumentodelle donne e dei minorinon accompagnati è statoi m p re s s i o n a n t e :rispettivamente, 11.009 e3040 nel 2016, a fronte dicirca 5000 donne e 900minori non accompagnatisbarcati nel 2015. Secondol’O rganizzazioneinternazionale per lemigrazioni (Oim) solo negliultimi di tre anni il loronumero è cresciuto del 600per cento. La quasi totalitàdelle donne — sp essogiovani e minori tra i 13 e i24 anni (nel 2016 è stataregistrata una diminuzionedell’età delle più giovanivittime di tratta) — è oggettodi violenza e abusi giàdurante il viaggio: l’80 percento delle ragazze arrivatedalla Nigeria denuncia abusi e il loro numero è passatoda 1500 nel 2014 a oltre11.000 nel 2016.I dati raccolti dall’Oim neiluoghi di sbarco e nei centridi accoglienza per migrantiper alcuni versi sono

sorprendenti. Tra i primiquindici paesi perprovenienza delle personeche hanno cercato diarrivare in Italia via mare, laSiria non c’è: nel 2016 laprima nazionalità pernumero di arrivi via mare inItalia è stata la Nigeria

(quasi raddoppiati gli arrivirispetto all’annoprecedente), non solo daEdo State (zonapoverissima) ma da diverseregioni del paese (Delta,Lagos, Ogun, Anambra,Imo). A seguire Eritrea,Guinea e Costa d’Avorio.

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Un gruppo di uomini libici, trafficanti, ha scelto cinque tra ledonne per portarle in una stanza adiacente al capannone.

Fatima era una di queste donne. Quando suo marito ha capito co-sa stava per accadere ha cominciato a gridare, si è gettato sui traffi-canti con le poche forze che aveva ancora in corpo, gridava che nontoccassero sua moglie, che l’avrebbe salvata, gridava il suo nome. Fa-tima.

Ma un trafficante ha estratto una pistola dalla tasca e l’ha ucciso,a sangue freddo. Di fronte a sua moglie e agli altri eritrei.

Fatima è una giovane donna in un corpo esile, le labbra vorrebbe-ro accennare un sorriso, ma il dolore è troppo. È troppa la fatica del-la memoria.

«Quando mi hanno trascinata via io non avevo la forza nemmenodi gridare, pensavo al corpo di mio marito, coperto di sangue a terracome un animale. Mi hanno violentata in cinque, per una notte inte-ra. E non solo me, anche altre due donne almeno, che sentivo grida-re nelle stanze vicine. Ricordo solo il corpo a terra di mio marito e ilrisveglio il mattino dopo. Nel mezzo c’è la fine della mia vita».

Il mattino dopo i trafficanti che l’hanno violentata non erano piùnel capannone, sostituiti da altri uomini, sconosciuti, che avrebberoportato il gruppo a Sabratha.

Fatima era sotto choc, non camminava, non parlava. Ripeteva soloil nome di suo marito, il suo corpo non c’era già più, gettato chissàdove, chissà quando, chissà da chi.

Le altre donne, sopravvissute come lei a quella notte d’inferno, letenevano ferme le mani tremanti, le sussurravano parole di confortoalle orecchie, per convincerla a partire. Perché Fatima non voleva piùpartire. Voleva cercare il corpo del marito. Piangere almeno la suamorte.

«Mi hanno caricato sul camion diretto a Sabratha con la forza, iomi disperavo, ricordo solo le urla. Poi mi sono addormentata e misono risvegliata in un’altra casa, vicino al mare, un altro capannone,nella città da cui avremmo poi preso un gommone».

Nel secondo capannone Fatima ha trascorso un mese, quattro set-timane di stenti. Non c’era cibo per tutti, al punto che le donne sipicchiavano per dividersi il poco pane raffermo a disposizione da da-re ai propri figli.

Ogni giorno le persone aumentavano, ammassate.

Dopo una settimana Fatima ha capito che avrebbero atteso inquella stanza sporca e infetta fino a che i trafficanti non avessero rag-

giunto un numero di uomini e donne che ritenevano sufficientementere d d i t i z i o .

Così dopo un mese, quando nello stanzone c’erano ormai più di400 persone, sono stati svegliati una notte, diretti verso la spiaggia.

«Non dimenticherò mai l’odore di quel luogo, non dimenticheròche bestie ci hanno fatto diventare. Quando compariva la mano diuno dei trafficanti, con del cibo o dell’acqua dalle grate delle finestrenon eravamo più uomini. Eravamo meno delle bestie. Eravamo carneumana che non serviva a niente, se non a pagare il prezzo del viag-gio in Italia. Ognuno faceva la guerra alla persona che aveva accantoper avere un tozzo di pane, un sorso d’acqua. Gli uomini picchiati.Le donne violentate».

Una notte dello scorso settembre Fatima è stata salvata a pochemiglia dalle coste libiche, ricorda il sorriso di chi l’ha accolta abordo. Il primo dopo mesi di abusi. Il primo dopo aver perso suomarito.

Oggi Fatima ha iniziato la sua lenta battaglia per ottenere asilo.Per avere suo figlio accanto a sé, che ancora non sa che ha perso suop a d re .

Ma ci vorranno anni, e chissà se allora Fatima avrà ancora la forzadi accennare un sorriso.

Eravamo menodelle bestie

Eravamo carneumana

che serviva soloa pagare il prezzo

del viaggioin Italia

Ognuno facevala guerra alla

persona che avevaaccanto per avereun tozzo di paneun sorso d’acqua

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Le suore americanee i presidentiNon è questione dipolitica, ma di vitavera, quella che èanche fatica,impegno, sofferenza,sudore della fronte edel cuore: 7150 suorecattoliche cheaccompagnanoquotidianamente imalati, che ascoltanole ragazze madri, glianziani e gliimmigrati, cheinsegnano nellescuole e combattonoaccanto aitossico dip endenti,hanno preso carta epenna persottoscrivere undocumento comune.Inviato ufficialmentea tutti i senatori delC o n g re s s ostatunitense, ildocumento contestala legge voluta dalpresidente Trumpper gli effettidrammatici chefinirebbe per averesulle famiglie.Citando PapaFrancesco («la salutenon è un bene diconsumo, ma undiritto universale,quindi l’accesso ai

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Tracce indelebilidella tortura

IL MEDICO

di MARIA STELLA D’ANDREA

Affrontare oggi una riflessione sulle donne vittime di tortura e di stu-pro vuol dire inevitabilmente essere pronti ad ascoltare l’inenarrabile,condividere l’abisso della disumanizzazione che gesti così violenti edeterminati hanno squarciato nel cuore delle vittime, raccontare unasofferenza senza confini.

Da sempre, come medico legale e criminologo clinico, mi sono oc-cupata di vittime di violenza, soprattutto donne e minori; col passaredegli anni, attraverso la crescita dei processi migratori, questo ha vo-luto dire occuparsi anche di donne migranti che mostrano nel corpo,nella mente ma soprattutto nel cuore le ferite della tortura e dellos t u p ro .

Chi sono le donne straniere torturate e stuprate? Sono esseri uma-ni che secondo una precisa volontà di altri hanno smarrito la loro es-senza più intima, il loro tesoro più prezioso: la loro umanità. Hannorappresentato “un pezzo di carne” su cui imprimere, con violenza estrategia del terrore, un dominio e una forza. Sono stati brandelli disesso rubato, anche in maniera perversa, non tanto per il piacere del-lo stupratore ma con il preciso scopo di renderle oggetto di umilia-zione, dolore e annientamento. Trascinano un corpo distrutto dal do-lore e una mente frantumata in mille frammenti. Sono donne avvilite,a cui sono state rubate la femminilità e la speranza.

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Ecco allora che per queste donne scappare da tutto ciò diventa es-senziale, sopravvivere a tutto ciò diventa una sfida. Le donne mi-granti vittime di tortura sono donne in fuga dal loro paese, dai loroaguzzini, sono donne in fuga dal “male”. Vivono il dolore della sepa-razione e dello sradicamento, la nostalgia degli affetti, l’angoscia delpassato, l’incertezza del futuro. Negli occhi, nel cuore e sul loro cor-po non hanno “solo” scene di miseria, di sofferenza, di guerra (chesarebbero già di per sé un “troppo di dolore”!) ma sono diventate es-se stesse sepolcro vivente delle torture subite e degli stupri patiti.

Lentamente attraverso l’incontro con l’altro e la restituzionedell’integrità del loro corpo e del loro cuore, coltivano la speranzache anche per loro possa esistere un mondo migliore e ci interroganoquotidianamente per sapere se anche noi ne faremo parte, se saremoquel pezzetto di mondo migliore che cambierà la loro vita. Accanto auna donna torturata o stuprata ciascuno di noi, inevitabilmente, do-vrà decidere se “chinare i l capo e volgere lo sguardo altrove” o p p u rediventare protagonista di quel cambiamento che, partendo da noistessi, restituirà alla vittima quel volto e quello sguardo che l’aguzzi-no ha deliberatamente annientato.

Giorno dopo giorno, incontro dopo incontro, mi sono accorta che,per le vittime di tortura, il vero processo curante non poteva conclu-dersi in un gesto medico di tipo diagnostico e/o terapeutico ma do-veva andare oltre assumendo su di sé l’impegno di una svolta auten-tica nella vita di queste donne. Ecco allora che la visita, la mia visita,non poteva essere solo un modo per accertare le lesioni o curare lemalattie o le ferite ma, inevitabilmente, doveva diventare un gesto sa-nante capace di “umanizzare ciò che altri hanno brutalizzato e disu-manizzato”.

Visita medica, quindi, come restituzione della bellezza di un cor-po, della tenerezza dei sentimenti, dell’unicità di un volto, della pos-sibilità di sognare.

Questi pensieri sono diventati dirompenti quando, all’inizio dellamia professione, ho colto drammaticamente che con i miei gesti dicura andavo a ripetere sui loro corpi gesti probabilmente già compiu-ti dall’aguzzino. Aver scoperto la drammaticità evocativa di ciò cheper me era solo gesto curante ha reso essenziale dare un nuovosignificato alla cura. Visitando una donna vittima di tortura, inevita-bilmente mi avvalgo di una gestualità che entra in relazione con lesue ferite più profonde e che viola una volta di più il suo corpo. Ep-pure i miei gesti possono diventare autenticamente terapeutici se, ol-tre a curare le ferite del corpo, sapranno restituire umanità alla don-na stessa.

Accomunare la tortura e lo stupro facendosi carico delle donneche patiscono l’una o l’altro vuol dire, finalmente, fare proprio e met-tere in pratica ciò che l’Onu ha enunciato e riconosciuto da tempo:infatti il 23 settembre 1998 il Tribunale penale internazionale per ilRwanda (che fa capo all’Onu) ha equiparato la violenza sessuale aicrimini di guerra. Con la risoluzione 1820 del 19 giugno 2008 l’Onu hainserito lo stupro tra le armi da guerra usate dai governi o dalle miliziedurante i conflitti per torturare, umiliare, spaventare, degradare, deva-stare. Infine il protocollo di Istanbul, promosso dalle Nazioni Unitenel 2008, ha sancito che lo stupro è una forma di tortura e lascia lestesse tracce indelebili della tortura nella mente di una persona.

Con questa consapevolezza osservo entrare nel mio ambulatoriodonne migranti, vittime designate di un pensiero perverso che fondale sue radici nell’azione disumanizzante della tortura (sia essa fisica,sia essa sessuale).

Incontrare queste donne ha voluto dire, per me, fare i conti dram-maticamente con gli esiti fisici e psicologici di una vera e propria “or-ganizzazione del male”. Ha voluto dire accettare che non c’è un limi-te al dolore consapevolmente inflitto e al desiderio di sopraffare edominare attraverso il terrore e la violenza.

Nel torturatore mancano empatia, emozioni, sentimenti, tenerezza,percezione del dolore dell’altro, per lui la vittima è solo carne da usa-

Accomunare la tortura e lo stuprofacendosi carico delle donne che patiscono l’una o l’a l t ro

vuol dire finalmente fare proprio e mettere in praticaciò che l’Onu ha enunciato e riconosciuto da tempo

servizi sanitari nonpuò essere unprivilegio»), le suorehanno scritto chetogliere l’assistenzamedica non è unaposizione pro life.Dopo interventi diesperti (e non) diogni schieramentopolitico e religioneche hannodimostrato che senzal’Obama Care nelprossimo decennio22 milioni distatunitensi nonavranno più i soldiper pagarsiun’assicurazionesanitaria, un’altraspinta per una(forse) definitivabocciatura è venutadalle religiose,testimoni viventidelle difficoltà chevive l’America dioggi. E di domani.

Cuscini per il partoper le ugandesiSono stati presentatia Washington i«cuscini per ilparto» ideati dallaong Medici conl’Africa (Cuamm)per convincere ledonne dellaKaramoja, regione anord dell’Uganda, apartorire in ospedaleo nei centri sanitari,senza doverrinunciare alleproprie tradizioni. Ibirth cushionsr a p p re s e n t a n oun’innovazione low-

re, da trasformare in un grumo di dolore. Il dolore e la sofferenzapatiti, durante le torture, dalle vittime sono così acuti che, spesso,l’unico desiderio che esse hanno è quello di morire, perché solo lamorte potrà porre fine a ciò che già vivono come una fine. Eppurenella strategia dell’aguzzino e dello stupratore la sopravvivenza dellavittima diventa elemento fondamentale, condizione essenziale delproprio potere e monito per le genti: la vittima di tortura deve soffri-re ma non morire, deve essere terrorizzata, degradata e umiliata macontinuare a vivere.

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Ecco quindi che l’incontro con le vittime di tortura, nel mio am-bulatorio, assume i colori di una nuova sfida: traslando il meraviglio-so insegnamento di Lévinas diventa imperativo restituire loro un vol-to e uno sguardo per umanizzare ciò che “perversi aguzzini” hannoinvece disumanizzato. All’inizio la maggior parte di loro arriva in unforte stato di choc, sono spaventate, hanno paura e non sanno se sipossono fidare di noi. Sono silenziose, chiuse, oppositive, difficil-mente disposte a condividere le loro storie, soprattutto se sono statevittime di stupro.

Poi, lentamente, molto lentamente, iniziano a rivelare vissuti dolo-rosi in cui ritroviamo, variabilmente, privazione di cibo e acqua, con-dizioni di prigionia disumane, gravi percosse con corpi contundentidi ogni genere, percosse sulla pianta dei piedi o sul palmo delle ma-ni, torture per sospensione o per posture stressanti, ustioni provocatecon liquidi bollenti, acidi o strumenti arroventati di ogni genere, sca-riche elettriche, avulsione di unghie o denti, tentativi di soffocamentoo di annegamento, stupri e ogni altra forma di aggressione perversa asfondo sessuale. Raccontano di aver visto persone della stessa etnia odella propria famiglia torturate o uccise, rivivono l’orrore della pro-pria impotenza di fronte alle grida di dolore e di aiuto, e incarnano ilsenso di colpa per essere sopravvissute a tutto ciò.

Hanno vissuto violenze fisiche e sessuali così traumatizzanti che,spesso, sviluppano un Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD:Post-Traumatic Stress Disorder) semplice o complesso, disturbi de-pressivi, somatizzazioni legate al trauma, disturbi d’ansia e del sonnoche vanno ad aggravare un quadro già di per sé complesso. Non daultimo sono vittime di ciò che noi tecnici chiamiamo i fenomeni di“ritraumatizzazione secondaria”.

Per le donne migranti, vittime di tortura, subire ritraumatizzazionimoltiplica in modo esponenziale l’effetto psicopatologico del trauma,aggravando i sintomi o facendone insorgere di nuovi sino a peggio-rarne il decorso clinico (solo in apparenza tutto ciò è scollegatodall’evento traumatico originario). Se la tortura o gli stupri, eventitraumatici originari, devono avere caratteristiche di estrema gravità,gli eventi ritraumatizzanti possono anche essere di portata minimaleeppure sono capaci di innescare una reazione post-traumatica di enti-tà smisurata. L’incontro con personale in divisa (sanitaria o militare),essere collocati in stanze chiuse, il suono delle sirene, toni di voce al-terati, odori particolarmente pungenti e mille altre situazioni di unbanale quotidiano possono essere vissuti dalle donne torturate comeuna miriade di esperienze ritraumatizzanti. Ecco allora che visitareuna donna vittima di tortura vuol dire, prima di tutto, dar vita con

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pazienza a un incontro tra persone per sovvertire ciò che gli aguzziniavevano reso solo scontro violento tra una figura dominante e una fi-gura sottomessa.

Diventa essenziale cercare con pazienza momenti in cui costruireuna relazione fondata sul dialogo nuovo; infatti, mai come in questicasi, la relazione terapeutica ha bisogno di “vedere e ascoltare colc u o re ” stabilendo un dialogo in cui le parole, ma soprattutto i silen-zi, diventano la dimensione dell’una verso l’altra. Dialogo e ascoltoche presuppongono vicinanza, quella vicinanza che è il movimentodella mia mente e del mio cuore verso l’altro; solo così dialogo eascolto potranno dare voce a chi non ha voce, rendendo visibile l’in-visibile.

Accanto al dialogo e all’ascolto si affaccia dirompente una nuovadimensione del tempo inteso come sostanza della nostra vita; con ledonne vittime di tortura il tempo della visita sarà inevitabilmentescandito da loro sino ad assumere la dimensione di una restituzionedi consapevolezza e di autodeterminazione. Tempo della relazionecon l’altro e del suo ascolto come segno tangibile della sua umaniz-zazione e del mio pormi accanto a lui, tempo come dimensione del“mio” coinvolgimento non solo professionale. Dialogo, ascolto, tem-po sono quindi dimensioni essenziali nella relazione clinico-terapeuti-ca che permettono alla donna torturata o stuprata di raccontare e diraccontarsi, la aiutano a misurarsi con silenzi e parole, le permettonodi piangere e di essere consolata, le permettono di vincere il senso dicolpa, la rendono viva. Solo così, all’interno di un lento percorso diumanizzazione, attraverso la restituzione di un volto, di uno sguardoe di una fisicità rubati e violati, la relazione clinica potrà diventareautenticamente terapeutica.

Riconoscere le donne migranti vittime di tortura, farsene carico,dando risposte mediche competenti e tutelanti, rendere il gesto medi-co un primo passo verso lo svelamento della violenza patita ci per-metterà, davvero, di costruire, per loro e con loro, percorsi diagnosti-ci, terapeutici e riabilitativi, ma soprattutto umanizzanti. In realtànon sappiamo quasi nulla di loro, non sappiamo chi sono, né da do-ve vengono, non conosciamo la loro storia né dove andranno masappiamo che ciascuna di loro ci è sorella, madre, amica, figlia, com-pagna di vita, sappiamo che le loro sofferenze sono le nostre soffe-renze, le loro speranze sono le nostre speranze. Sappiamo, e ne sia-mo certi, che il senso più profondo del nostro agire diventa valoreautentico attraverso i loro volti e i loro sguardi, perché il nostro agirerappresenti sempre un cammino umano di cure competenti, di soli-darietà e di speranza.

IIl dato che emerge dal più recente rapporto Unicef, stilato a partireda una serie di interviste a donne migranti, è allarmante: sul totaledel campione intervistato, circa metà ha subito abusi sessuali duranteil viaggio, spesso in più occasioni e in luoghi differenti. Il dato nondeve sorprendere, se solo si pensa alle innumerevoli situazioni di ri-schio a cui queste persone sono esposte una volta entrate nel circuitomigratorio. Come recentemente confermato da numerosi rapporti diorganismi internazionali — si vedano, oltre a quello già citato, quellidel Parlamento europeo e di Amnesty International — le violenze ses-suali avvengono tanto nei paesi di transito quanto in quelli d’arrivo,nei centri d’accoglienza.

Elemento drammaticamente ricorrente nei racconti dei richiedentiasilo è poi quanto accade in Libia. Qui i migranti, in gran parte pro-venienti dall’Africa sub-sahariana, sono spesso trattenuti in veri epropri campi di prigionia in attesa di attraversare il Mediterraneo,spesso perché non in grado di pagare la traversata. In queste struttu-re private, gestite dai trafficanti, vengono sottoposti a ogni tipo ditortura e sevizie.

Le bambine/ragazze/donne vengono stuprate sotto minaccia dimorte, spesso in gruppo, anche se incinte.

Bastacon l’impunità

I GIURISTI

di NICOLA CANESTRINI e GIUSEPPE SA M B ATA R O

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Preso atto della gravità dei fatti, un primo problema è l’impunitàdi tali crimini.

Visto il numero di paesi interessati e la necessità di prestare tutelaanche sovranazionale alle vittime, il primo riferimento è quello deldiritto internazionale.

La strada non può essere che quella di (ri)affermare per la violen-za contro le donne una “giurisdizione universale”, principio validoper gravi crimini contro l’umanità, che consente a qualsiasi stato dipunirne il responsabile a prescindere da dove sia stato commesso l’at-to e da che nazionalità hanno reo e vittima, derogando così al tradi-zionale principio di territorialità.

Nonostante la gravità di questo tipo di crimini, rivolti non solocontro un bene fondamentale come la libertà sessuale, ma capaci dicolpire la stessa dignità umana, e nonostante sia evidente come, incontesti di forte instabilità sociopolitica, le donne siano sempre statesoggetti particolarmente vulnerabili, il percorso che ha portatoall’introduzione di strumenti giuridici di tutela è stato tutt’altro cherapido.

Si pensi infatti a come nei processi che seguirono il secondo con-flitto mondiale non fu fatta menzione rilevante alle violenze sessualicommesse durante la guerra. Anche nelle quattro Convenzioni di

Per la violenza contro le donne va riaffermatauna giurisdizione universale come per i crimini contro l’umanità

Che consente a qualsiasi stato di punire il responsabilea prescindere da dove sia stato commesso l’atto

tech e a bassoimpatto economico:giacché le donnedichiaravano dicontinuare a preferireil parto in casaperché nelle struttureerano costrette apartorire distese, ilCuamm ha prodottoun cuscino su cui sipuò partorire nellap osizionetradizionale. Che èpoi quella, dice lascienza, che aiutameglio la discesa deln a s c i t u ro .

In mostra il gridodelle lacrimesilenzioseHa raccolto letestimonianze di 25donne provenienti da20 paesi la fotografaaustraliana BelindaMason: il risultato diquesti racconti dimaltrattamenti,botte, mutilazionigenitali, abusisessuali, violenze,abbandono esterilizzazioni forzateè confluito nellamostra multimedialeSilent tears. Promossadall’AustralianCouncil for the Arts,l’esposizione (chedopo l’Australia hafatto tappa aGinevra, Berlino eVenezia) racconta ledonne disabilivittime di violenza ele donne divenutedisabili a causa delleviolenze subite tra le

Ginevra del 1949, che hanno introdotto un corpo di norme minimeda rispettare in caso di conflitto armato, il cosiddetto «diritto umani-tario», i riferimenti espliciti a questo tipo di crimini sono pressochéinesistenti.

È stato solo a seguito dei numerosi abusi denunciati durante ilconflitto nell’ex Jugoslavia che lo stupro giunge all’attenzione delleautorità internazionali, che hanno previsto l’inserimento di questoreato nello statuto del Tribunale penale internazionale per la ex Ju-goslavia (I C T Y, 1993) definendolo crimine contro l’umanità accanto atortura e sterminio.

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mura domestiche oall’interno distrutture in teoriadestinateall’accoglienza.

Le donne mulo chemuoiono alle sogliedell’E u ro p aL’enclave di Ceuta èuna delle ported’accesso in Europadall’Africa equotidianamente allasua frontiera siaccalcano intantissimi. Tra irisultati dellapressione di questamassa vi è la stragesilenziosa delledonne-mulo, donnemarocchine rimastesole (perché vedove,divorziate oripudiate) che, perconto deicontrabbandieri,trasportano enormicarichi (tutto ciò cheè portato a manoviene consideratobagaglio personale,quindi esente dadazi) tra Marocco eSpagna. Si parla di80 chili di peso afronte di unaremunerazione di 5euro, sotto il sole,senz’acqua,sottoposte a ognitipo di sopruso,anche sessuale. Enell’i n d i f f e re n z agenerale diverse diloro dall’iniziodell’anno sono statetravolte dalla folla,rimanendo uccise,menomate ogravemente ferite.

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Analogamente, nel 1998, il Tribunale penale internazionale per ilRuanda (ICTR, 1994) nel caso «Akayesu» riconosceva come lo stuproe le altre forme di violenza sessuale fossero state usate nel conflittocome strumenti per commettere un vero e proprio crimine di genoci-dio. Nella stessa sentenza, si stabiliva come questo tipo di abusi, seperpetrati in modo diffuso e sistematico contro i civili, costituisconoa tutti gli effetti dei crimini contro l’umanità.

È sempre in questa pronuncia, poi, che si identifica con chiarezzalo stupro con una forma di tortura.

«Come la tortura» si legge «lo stupro è usato per intimidire, de-gradare, umiliare, discriminare, punire, controllare e distruggere unapersona. Come la tortura, lo stupro è una violazione della dignitàp ersonale».

Infine, anche lo statuto di Roma della Corte penale internaziona-le, in vigore dal 2002, include stupro, la schiavitù sessuale, prostitu-zione forzata e «qualsiasi altra forma di violenza sessuale di analogagravità» tra i crimini contro l’umanità, anche qui solo se commessoin modo diffuso o sistematico. Quest’ultimo tribunale ha pronuncia-to nel marzo 2016 la sua prima condanna per sexual and gender-based-

crimes contro l’ex vicepresidente della Repubblica Democratica delCongo, Jean-Pierre Bemba Gombo, per gli stupri commessi dalletruppe di cui era a capo all’epoca del conflitto che ha lacerato il pae-se nel 2002.

Rimanendo in ambito esclusivamente europeo, poi, una menzionemerita la sentenza «Aydin c. Turchia (1997)» della Corte europea deidiritti dell’uomo. In questa pronuncia, lo stupro è stato ancora unavolta ricondotto alla violazione dell’articolo 3 della CEDU (Conven-zione europea dei diritti dell’uomo), articolo che prevede un divietoassoluto rispetto alle condotte di tortura e di altri trattamenti inuma-ni e degradanti.

Le violenze sessuali, praticate in questo caso da un gruppo diagenti di polizia turchi ai danni di una minorenne, sono state infattiequiparate alla tortura invece che ai meno gravi trattamenti inumanie degradanti, in considerazione del particolare stato di vulnerabilitàdella vittima e alla posizione di potere degli assalitori. «Lo stupro»,si legge nella pronuncia, «atto di per sé particolarmente crudele, checolpisce l’integrità fisica e morale della vittima, risulta in queste cir-costanze aggravato perché commesso da persona dotata di autorità adanno di una maggiormente vulnerabile», riconoscendo peraltro che«lo stupro lascia conseguenze psichiche non paragonabili ad altreforme di violenza fisica o mentale».

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vrà cioè intervenire anche sul sistema di accoglienza. Fondamentalesarà innanzitutto l’adeguata preparazione degli operatori coinvoltinelle fasi immediatamente successive all’arrivo nel paese di destina-zione. Come riporta un articolo di Open Migration, infatti, spesso levittime di violenze sessuali non vengono riconosciute come tali.

Ciò accade ad esempio per l’inadeguata preparazione rispetto aquesti casi degli operatori e di chi compone le commissioni territoria-li competenti a esaminare le richieste d’asilo. Le interviste dovrebbe-ro essere cioè svolte con tutte le precauzioni e le accortezze che que-sto tipo di traumi richiedono. Si consideri poi che le stesse vittimesono in molti casi restie a raccontare quanto accaduto, per vergognao per paura di perdere il lavoro loro promesso prima della partenza.Addirittura, da alcune inchieste è emerso come molte donne vittimedi tratta prima di partire subiscano rituali vudù che le legherebberoai loro aguzzini, da cui deriverebbero maledizioni per le loro famiglienel caso non si comportassero come richiesto. A volte, però, il pro-blema è procedurale e il migrante non arriva neppure a richiedereasilo a causa della procedura di pre-identificazione che si effettua im-mediatamente dopo lo sbarco. Questa fase è spesso svolta con talefretta che gli intervistati, magari ancora sotto shock, facilmente sba-gliano risposta, finendo così nella lista delle espulsioni.

Se questo è stato il percorso dei tribunali internazionali e sovrana-zionali, va rilevato come una maggior attenzione alla tematica delleviolenze di genere abbia interessato anche il diritto convenzionale.Per citare un caso emblematico, a ciò è dedicata la Convenzione diIstanbul, siglata in seno al Consiglio d’Europa e sottoscritta dall’Ita-lia nel 2012. Concretamente, lo strumento cerca di introdurre unostandard di tutela minimo, definendo le diverse tipologie di condottelesive e introducendo degli obblighi per gli stati di criminalizzarlenei propri ordinamenti interni. Strumenti di questo tipo però, essen-do di natura pattizia e rimettendo di fatto alla discrezionalità dei sin-

La punizione di chi si macchia del criminenon deve far trascurare il destino di chi queste violenze subisceSi dovrà cioè intervenireanche sul sistema di accoglienza

L’intero sistema d’accoglienza, quindi, dovrebbe essere riportato ilpiù possibile nell’alveo di una legalità efficiente e umanitaria, evitan-do soluzioni semplici e inefficaci come il respingimento automaticodelle vittime nelle mani delle stesse persone da cui sono scappate, fa-cendole ritrovare così in una terra di nessuno lontane dal loro paesed’origine. Creare canali d’accesso legali, quindi, invece che lasciare ilfenomeno nelle mani della criminalità. Ciò però deve andare di paripasso con l’azione culturale di promuovere idonee misure contro xe-nofobia, discriminazione ed emarginazione dei migranti e rifugiati,nei paesi di transito e in quelli di destinazione.

goli stati membri le modalità con cui punire le violazioni, si risolvo-no in meri impegni.

Dovendo trarre qualche conclusione da quanto detto finora, va da-to atto di un lento ma inesorabile aumento di attenzione rispetto allatematica delle violenze di genere da parte dell’ordinamento interna-zionale. L’auspicio è che questa tendenza continui, così da renderepiù facile l’introduzione e l’applicazione di strumenti giuridici neces-sari alla punizione di questi crimini anche in contesti giuridicamentefrastagliati, per il numero di attori e territori coinvolti, come quellimigratori. È infatti davvero intollerabile il silenzio della comunità in-ternazionale, seppur sollecitata da più parti (inchieste giornalistiche,rapporti dettagliati di organizzazioni umanitarie, denunce delle vitti-me). Ricordando Martin Luther King, spaventa non solo la cattiveriadei malvagi ma il silenzio degli onesti.

Se ciò riguarda la punizione di chi si macchia del crimine, però,non deve trascurarsi il destino di chi queste violenze subisce. Si do-

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LA S A N TA DEL MESE

«Bella», commentò la cameriera sgomberando iltavolo.

L’uomo seduto si girò verso la motociclettaparcheggiata alle sue spalle.

«Ah, certo», convenne.

«È una superbike, vero?».

«Una Bmw S 1000 RR. Lei se ne intende, dimoto?».

«Abbastanza», fece la ragazza gettandoleun’altra occhiata. Posò le stoviglie e spiegò:«Mio fratello ne aveva una simile, ma più pic-cola».

«Questa è una quattro cilindri in linea da 999centimetri cubi». Non poté fare a meno di ag-giungere: «... con gli estrattori d’aria a branchiadi squalo. Fa anche i 270, in rettilineo».

«Un bel correre», riconobbe la ragazza, «leici è arrivato?».

«Ai 270? Certo, ma adesso la prendo più co-mo da».

«Però è stato pilota, da giovane?».

«Vero, e ho corso il Tourist Trophy fin dopo icinquanta, se le interessa saperlo».

Lei non parve colpita. «Tutti i motociclistiche vengono all’Isola di Man ci provano, nonconta l’età. Come si è classificato?».

O rora

«Oh, be’, dal modo in cui continua a man-giarsela con gli occhi».

Era vero, non poteva fare a meno di gettareuno sguardo, di tanto in tanto, alla scocca giallacon gli estrattori d’aria a branca di squalo lucci-canti.

«Ci tengo infatti», ammise dopo un po’.«Perché è la mia ultima moto, dopo questa nonne avrò altre».

«Allora potrebbe essere sua moglie», lo stuz-zicò la ragazza. Ma poi osservò: «quest’anno, agiugno, ne sono rimasti stesi due sul circuito.Stesi, capisce...».

«Già», annuì lui e poi recitò, «venite, signo-ri, al Tourist Trophy dell’Isola di Man, la garapiù pericolosa del mondo».

«Lei lo sa che cosa vuol dire, restare stesi sul-lo Snaefell Mountain?». C’era un’intonazioneprecisa nella sua domanda.

Lui ritagliò attentamente una fetta di Loa-ghtan, ma non la portò alla bocca.

«Sì», disse alla fine. «È stato otto anni fa, sulGo oseneck».

«E ha avuto paura?».

«Non c’è stato il tempo. Credo che non ci siamai il tempo di capirlo, quando succede. Lamoto... questa qui... è partita da sola, mi è sgu-sciata da sotto come un cavallo imbizzarrito».Incontrò lo sguardo di lei, prima di aggiungere:«Sul Gooseneck si toccano i 240, a volte. E ioc’ero vicino, sicuramente».

«Il Gooseneck», cercò di mettere a fuoco laragazza, «mi sembra che da quella parte non cisiano muretti».

«Uno c’era, e la moto ci finì contro, con medietro. Andò a sbattere in un decimo disecondo, con tutto il peso, poi rimbalzò e mivenne addosso. Ero già steso... Però la moto miè passata sopra, ho sentito i pedali accarezzarmii capelli. E ho continuato a strisciare sull’asfaltofino a un centimetro dal muretto, senza farmiun graffio. Mentre mi tastavo per controllare se

«Due volte fra i primi tre. Ho un bel po’ dicose da ricordare», borbottò fra sé sogghi-gnando.

«Be’, ricorderà anche il nostro agnello Loa-ghtan, se ha voglia di provarlo. Qui è il piattomigliore. Lo serviamo con le focaccine Bonnag,sempre che le piacciano le cose dolci».

Quando ritornò, la ragazza portava sul vas-soio anche un boccale schiumoso di birra rossa.

«Non ha freddo, qui fuori?», chiese dopoaverlo servito. «Ottobre è un mese umido, daqueste parti».

«Ma oggi il sole scalda», ribatté lui. Perònon attaccò subito il Loaghtan, notando l’inte-resse di lei per la moto. Anche nel sole incerto,il metallo mandava bagliori intensi.

«Come mai è qui adesso?», indagò di puntoin bianco la ragazza, «il Tourist Trophy si correa giugno. Nessuno viene a provare lo SnaefellMountain in ottobre. È un circuito troppo peri-coloso con la nebbia e l’asfalto bagnato».

«E chi ha detto che voglio provare ilcircuito?», ribatté lui, saggiando una focaccinaB o n n a g.

«Si vede lontano un miglio che lei non hachiuso con le moto», sentenziò la ragazza.

«Ah sì, e da che cosa si vede?».

di DARIO FERTILIO

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ero intero, mi è caduto di tasca un porta-fortuna».

Il racconto dovette colpirla, perché si sedetteal suo tavolo. «E se l’è cavata così? Allora quel-la cosa ha funzionato».

«Già», commentò lui, «ma non credo si siatrattato solo di fortuna».

Cominciò a pescare nella tuta, finché ne tras-se due minuscoli frammenti di legno. Compo-nevano una figura femminile dai capelli avvoltiin un fazzoletto e con gli abiti fluenti, ma spez-zata in vita. Li posò con cura sul tavolo.

«Io credo piuttosto che sia opera sua. L’ave-vo comperata il giorno prima, in un negozio diDouglas, questa statuetta di santa Orora. Noipiloti siamo superstiziosi, così mi sono informa-to prima su chi fosse la santa dell’isola».

«Posso?», chiese la ragazza, e saggiò con de-licatezza i due legnetti. «E questi le hanno sal-vato la vita?», aggiunse dubbiosa, prima di re-stituirli.

«Non la statuetta. Lei, santa Orora. Sa chiera?».

«L’ha appena detto. Una di queste parti».«Giusto», riprese lui, «misteriosa. Vissuta quinel nono secolo. Mi sono documentato, ma nel-le cronache non è rimasto niente di lei. Secondome il suo nome viene di sicuro da Aurora... e sisa soltanto che confessava i peccatori. Dovevaesserci anche una chiesa intitolata a lei, vicino aDouglas, l’ho cercata ma ormai non ce n’è piùtraccia».

«Come fa, allora, a sapere che l’ha pro-tetto?».

Le rivolse uno sguardo pensoso e aggiunsepiano: «Be’, queste cose si sanno. O si sentono.Comunque, bisogna esserci stati, in sella, alGooseneck, per esserne sicuri». Si schiarì la vo-ce, provò la birra, e aggiunse: «Per questo sonoqui oggi, è un voto. Vengo ogni anno il 20 diottobre, per la sua festa».

«Davvero?», si stupì la ragazza. «Si può vi-vere qui tutta la vita e non conoscere una cosacosì importante?». Ma non c’era traccia d’i ro n i anella sua voce.

«Adesso però lo sa», disse lui. «E farebbebene a ricordarsene. Può succedere — aggiunse —che noi ci dimentichiamo di certi santi, ma giu-rerei che loro non si dimentichino mai di noi».

Lei gli rivolse un sorrisetto, prima di lasciarloal Loaghtan e alle focaccine Bonnag. Poi cam-biò idea, si girò e gli chiese come si chiamava.Prima ritenne giusto presentarsi: «Agatha».

«Edmund Laycock», rispose lui, e le porse lamano. «Una volta ero abbastanza famoso. Maadesso che sa la verità su santa Orora e su dime», concluse, «può anche chiamarmi Eddie».

L’a u t o reDario Fertilio (1949) discendeda una famiglia di origine dalmatae vive a Milano. Giornalista e scrittore,con il dissidente antisovieticoVladimir Bukovskij, ha lanciatoil Memento Gulag, giornatadella memoria per le vittimedel comunismo e di tutti i totalitarismi,che si celebra il 7 novembre.Sperimenta diverse forme espressivealternando articoli, narrativa, saggisticae teatro. Tra i suoi libri, i raccontiLa morte rossa (Marsilio),il saggio Il virus del totalitarismo

(Rubbettino) e il romanzo storicoL’ultima notte dei Fratelli Cervi (Marsilio).Predilige i temi della ribellione al potereingiusto, della libertà di amaree comunicare, e il rapporto con il sacro.

NEL NUOVO T E S TA M E N T O

Mariadi Magdala

di MARINELLA PERRONI

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In punta di piedi e a piccoli passi: in questi anni Mariadi Magdala ha recuperato un po’ di terreno anche nellaChiesa d’occidente. È stato Giovanni Paolo II che,nell’omelia di una domenica di Pasqua, ha gridato almondo che è stata lei la prima testimone del risorto. E,finalmente, se ne è fatta eco la stampa, è diventata no-tizia, sembrava la scoperta del secolo. In pochi si sonoposti la domanda del perché ci sono voluti secoli e se-

coli perché quanto narrato nel vangelo di Giovanni da quasi duemilaanni venisse recepito per come era stato scritto. Ma non importa, labreccia ormai era stata aperta. Papa Francesco ha poi decretato chela celebrazione di Maria di Magdala fosse elevata da memoria obbli-gatoria a festa liturgica e, da due anni, nella messa del 22 luglio vie-ne utilizzato il proprio degli apostoli. Testimone, apostola. Sembranofinalmente archiviate tutte quelle istantanee che l’imponente produ-zione iconografica occidentale, oltre a tanta letteratura e recentemen-te anche tanta cinematografia, ha contribuito a fissare nell’immagina-rio di generazioni di cristiani facendoli fantasticare sulla sua sensuali-tà di prostituta, di amante, di moglie.

Dopo tante leggende, Maria è stata finalmente restituita alla so-brietà delle narrazioni evangeliche. Da tempo, in realtà, studiose estudiosi avevano provato a farlo, ma ci voleva l’autorevolezza di duePontefici per cominciare a purificare la memoria della Chiesa latina.Non così per le Chiese d’oriente che, da sempre, nella terza domeni-ca dopo Pasqua, celebrano la festa delle mirofore, cioè di quel picco-lo gruppo di donne con a capo Maria di Magdala che, portando lamirra per ungere il corpo del maestro morto, vanno al sepolcro e, perprime, ricevono l’annuncio della risurrezione. Per la Chiesa d’o cci-dente era invece necessario superare un equivoco che per millecin-quecento anni ha segnato profondamente la storia della spiritualità,soprattutto delle donne. Un equivoco che viene da molto lontano,dal successo di un’omelia di san Gregorio Magno nella quale, di tredonne evangeliche, si fa un’unica “Maria”. Per il grande Papa, lapeccatrice anonima del vangelo di Luca che lava i piedi a Gesù conle sue lacrime (7, 36-50), Maria di Betania che, secondo Giovanni,unge profeticamente il capo del maestro nella notte del tradimento(Giovanni 12, 1-8) e quella Maria di cui il maestro rifiuta l’abbracciola mattina di Pasqua (Giovanni 20, 11-18) coincidono e creano così ilprototipo della donna alla sequela di Cristo, la prostituta penitente,la figlia di Eva finalmente riscattata dal peccato che ogni donna, peril fatto solo di essere tale, immette nel mondo e nella storia. Il bino-mio Eva-Maddalena ha, d’altro canto, radici antichissime perché èpresente già in antichi scrittori cristiani come Ippolito, in Padri di

Giovanni GirolamoSavoldo«Maria Maddalena»(particolare, 1535-1540)

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no espunte dalla lista dei testimoni della risurrezione: all’origine delkèrygma pasquale ci sarebbero stati solo un numero crescente di di-scepoli a cui è apparso il risorto, tutti rigorosamente maschi (1 Corin-

zi 15, 3-7). La deformazione della memoria comincia, insomma, moltopresto e, purtroppo, a ben poco servirà il recupero delle antiche tra-dizioni narrative sui fatti di Pasqua che insistono sul protagonismodelle discepole da parte di tutti e quattro gli evangelisti.

Invece, è proprio dai racconti evangelici che deve prendere le mos-se il riscatto della memoria. Perché Gesù di Nazaret non è riducibilea uno dei tanti miti soteriologici che hanno accompagnato gli ultimitempi di un impero che andava sgretolandosi, né a un’ideologia po-tente che consente a quell’impero di ricomporsi in una nuova unità.Gesù è «nato da donna», e a fondamento di ogni riflessione cristolo-gica deve essere posto l’interrogativo dei suoi compaesani: «Costuinon è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il pa-dre e la madre?» (Giovanni 6, 42). Lo stesso vale per i suoi discepolie per le sue discepole che non sono tutte figure letterarie, personaggifittizi che abitano piccoli racconti mitici su un profeta carismatico,ma sono uomini e donne che hanno creduto in lui mentre chiamavaa raccolta l’intero Israele perché il Regno era ormai tanto vicino daessere già presente, si sono messi alla sua sequela e, dopo la sua mor-te hanno creduto che il Padre lo ha risuscitato dai morti.

I discepoli e le discepole, insomma, hanno vissuto concretamenteil difficile passaggio che va dal discepolato del nazareno alla sequeladel risorto, ed è proprio qui, in questo passaggio, che Maria di Mag-dala gioca un ruolo decisivo. La testimonianza degli evangelisti è, alriguardo, inequivocabile. Solo a partire dai testi, allora, è possibile ri-costruire l’immagine autentica, libera cioè da secoli di fraintendimen-ti e di manipolazioni, della Maria discepola, testimone e ap ostola.

Se tutti e quattro gli evangelisti canonici concordano nel ricono-scere a Maria un ruolo di spicco per la genesi della fede pasquale, èanche vero però che i sinottici e Giovanni modulano questo dato sto-rico servendosi di registri teologici diversi. A dimostrazione dellacreatività con cui è stata conservata e tramandata la memoria di que-sta discepola e, quindi, del valore fondativo che essa ha avuto per lacostituzione delle diverse Chiese protocristiane.

La tradizione sinottica, sia pure con sfumature diverse, attribuiscealla figura di Maria e delle altre discepole galilee un chiaro caratterekerigmatico: queste donne sono strettamente collegate all’annunciocristiano e alla sua diffusione, prima come testimoni della morte, del-la sepoltura e dell’avvenuta risurrezione, poi come prime destinatariedell’annuncio pasquale e poi, a loro volta, come messaggere della

Insegna NuovoTestamento alPontificio ateneoSant’Anselmo diRoma, ed è ancheprofessore invitatopresso la Facoltàteologica Marianum.Dopo aver fondato ilCo ordinamentoteologhe italiane(2003), ne è statapresidente dal 2004 al2013. Dal 2013 èvicepresidente emembro del comitatoscientifico di Biblia.Pubblicazioni recenti:Le donne di Galilea.

Presenze femminili nella

prima comunità cristiana

(Edb, 2015),Maria di Magdala.

Una genealogia

apostolica

(con CristinaSimonelli, Aracne,2016) e Dio nessuno l’ha

mai visto. Una guida al

vangelo di Giovanni,(con Pius-RamonTragan, San Paolo,2017).

tradizione greca come Gregorio di Nissa o, più tardi, di tradizionelatina come Ilario di Poitiers o Ambrogio.

Fin dai primi secoli i grandi Padri si sono tutti interrogati su que-sta figura, soprattutto perché era molto difficile per loro accettare cheil risorto avesse voluto riservare un’apparizione individuale proprio alei: nessun evangelista riferisce infatti di un’apparizione a Pietro, an-che se un’eco di essa c’è alla fine del racconto sui due discepoli diEmmaus (Luca 24, 34). Della sua esperienza della risurrezione si par-la invece diffusamente in tutti e quattro i vangeli. In quello di Mar-co, che contiene il più antico racconto della passione, e negli altridue sinottici, Maria è sotto la croce (Ma rc o 15, 40-41; Matteo 27, 55-56;Luca 23, 49), alla sepoltura (Ma rc o 15, 47; Ma t t e o 27, 61; Luca 23, 55-56) e, la mattina di Pasqua, al sepolcro vuoto dove le discepole gali-lee ricevono il primo annuncio della risurrezione (Ma rc o 16, 1-8; Ma t -

teo 28, 1-10; Luca 24, 1-11). Nel più recente dei vangeli, quello di Gio-vanni, Maria è sotto la croce (19, 25) e, soprattutto, è la destinatariadell’unica apparizione individuale del risorto (20, 1-2.11-18). Né sipuò dimenticare che Luca la menziona accanto ai Dodici e come lea-der del piccolo gruppo di discepole al seguito di Gesù durante il suoministero in Galilea (8, 1-3).

Paolo invece, benché per lui la vicenda del galileo si concentri tut-ta nei fatti di Pasqua, sembra non sappia nulla di questa testimonedella risurrezione. Anzi, proprio Paolo fa da cassa di risonanza aun’antica formula di fede in cui Maria e le altre discepole galilee so-

L’autrice

W i l l i a m - Ad o l p h eB o u g u e re a u

«Le saintes femmesau tombeau» (particolare

1890)

D ONNE CHIESA MOND O 34 D ONNE CHIESA MOND O35

carnazione, accettando che colui che è stato esaltato è colui che è na-to da donna (19, 25-27). Per Giovanni, la sua partecipazione alla mor-te di Gesù non ha quindi il valore di testimonianza oculare, comeper i sinottici, ma è piuttosto propedeutica all’investitura apostolicache riceverà «il primo giorno della settimana» nel giardino doveGiuseppe di Arimatea e Nicodemo avevano sepolto il corpo di Gesù(19, 38-42).

Infatti, poco dopo, in quel giardino della sepoltura, sarà lei a do-ver accettare, per prima, di non restare ancorata al ricordo del mae-stro morto, e a farsi discepola di colui che, ormai, è asceso al Padre.Per Maria l’esperienza del risorto comporterà il passaggio dall’unaall’altra conoscenza, dalla conoscenza del maestro alla conoscenza delrisorto, e sarà investita dal risorto stesso del ruolo di annunciare aidiscepoli la qualità del tutto nuova del rapporto che l’esaltazione diGesù ha stabilito sia tra il risorto e i suoi, sia dei discepoli tra loro(20, 17-18). Maria di Magdala, insomma, racchiude in sé la sintesidella cristologia giovannea, così fortemente caratterizzata dalla pola-rità incarnazione-esaltazione.

L’interrogativo allora si impone: a cosa si deve l’amnesia che haportato la tradizione successiva a far scivolare Maria di Magdala dal-la storia di Gesù e della sua comunità discepolare prima e dopo Pa-squa al susseguirsi di infinite leggende che, pur conservandone il ri-cordo, lo hanno alterato e lo hanno reso comunque insignificante perla storia della grande Chiesa? Anche solo uno sguardo alle tradizionicosiddette apocrife lascia capire che all’interno di alcune comunitàmarginali, invece, il ruolo di questa donna viene riconosciuto e ri-spettato. In realtà, anche nella tradizione della grande Chiesa si è le-vata ogni tanto qualche voce che metteva in luce l’importanza diMaria di Magdala. Basta ricordare le parole di Rabano Mauro quan-do afferma che Cristo elesse Maria di Magdala «apostola della suaascensione, premiando con una degna ricompensa di grazia e di glo-ria, e con privilegio di onore colei che per i suoi meriti degnamenteera la guida di tutte le sue cooperatrici, la quale poco prima avevaistituito evangelista della resurrezione».

La voce di questo abate di Fulda e arcivescovo di Magonza degliinizi del IX secolo è rimasta, però, come quella di molti altri, solouna voce marginale. Possiamo solo sperare che non accada altrettan-to a due Papi come Giovanni Paolo II e Francesco che hanno resti-tuito alla Chiesa latina la Maria di Magdala evangelica, discepola diGesù, testimone della risurrezione e, per questo, come l’ha definitaPapa Francesco nella catechesi del 17 maggio 2017, «apostola dellanuova e più grande speranza».

buona notizia. Non può stupire se, all’interno di due culture patriar-cali come quella giudaica e quella greco-romana, il loro protagoni-smo viene cautamente stemperato con il motivo dell’incredulità daparte dei discepoli (Ma rc o 16, 11; Luca 24, 11). In realtà, esso viene in-vece rafforzato. Infatti, che nessuna preoccupazione apologetica ab-bia potuto espungerlo dai racconti pasquali è riprova del suo radica-mento nelle più antiche tradizioni storiche: a poco tempo di distanzadagli avvenimenti, chi avrebbe potuto tacere su particolari che dove-vano essere, evidentemente, di dominio pubblico? Anzi, se nella se-conda conclusione del vangelo di Marco, aggiunta in seguito, vieneripreso il motivo dell’apparizione del risorto a Maria di Magdala, ciònon fa che confermare quanto fosse importante per le chiese nascenticonservare la memoria di questa discepola come leader del gruppodelle donne che seguivano e servivano Gesù.

È però soprattutto il vangelo di Giovanni a profilare con grandeforza il ruolo apostolico di Maria di Magdala. In realtà, all’internodella narrazione giovannea sono proprio le figure femminili — ladonna di Samaria, Marta, Maria di Betania e Maria di Magdala e,per ben due volte, la madre di Gesù — a giocare un ruolo decisivo.Una tale strategia narrativa, che fa intervenire i personaggi femminilinei momenti cruciali per la rivelazione di Dio da parte di Gesù, nonpuò essere casuale ed è quindi lecito pensare che, all’interno delle co-

A cosa si deve l’amnesia che ha portato al susseguirsidi infinite leggende che pur conservando il ricordo Maria di Magdala

lo hanno alterato e lo hanno reso insignificante?

munità giovannee, le donne credenti fossero particolarmente impor-tanti anche per quanto riguarda l’elaborazione della fede cristologica.Assolutamente in linea con il resto del vangelo, il protagonismo pa-squale di Maria di Magdala non può allora sorprendere.

Si dovrebbe dare maggiore risalto alla presenza sotto la croce, ac-canto a Maria di Nazareth e al discepolo amato, di Maria di Magda-la testimone della scena della “consegna” da cui ha inizio la vita del-la comunità di coloro che credono nel risorto. Sotto la croce la disce-pola galilea, in silenzio, è testimone dell’ultima volontà di Gesù neiconfronti della nuova comunità discepolare: la comunità del discepo-lo amato deve accogliere con sé Maria, deve cioè restare fedele all’in-

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OMAGGIO D’A R T I S TA

di F R AT E L ELIA di Bose

Le donne sono eroi

JR sono le iniziali del foto-grafo francese Jean René,scelte come suo nomed’arte. Nel 2011 vince ilpremio TED ( Te c h n o l o g y,Entertainment e Design)

messo a disposizione da un’organizzazione no-profit a personaggi capaci di sognare cambia-menti globali. Ritirando il premio JR annunciòche il premio in denaro che il TED metteva a di-sposizione al vincitore sarebbe stato utilizzatoper portare aventi i suoi progetti artistici.

L’idea alla base dei suoi progetti è quella dipermettere alle persone che vivono ai marginidelle città (gli ultimi) di “mettere la faccia” p erun sogno in cui credono. JR ha iniziato la suacarriera da street artist nelle banlieue di Parigi,dove i suoi lavori venivano considerati vandali-smo. Ora che ha raggiunto un discreto successoha scelto di fare in modo che la sua produzioneaiuti le persone a cambiare il proprio destino eda grande visionario crede che l’arte sia capacedi farlo.

Nel progetto Womens are Heroes (Le donnesono eroi), JR ha fatto emergere storie di donnedi tutto il mondo — Sierra Leone, Liberia,Kenya, Brasile, India, Cambogia — che lottanoper un presente più umano e un futuro miglioreper i propri figli. Ha filmato e ascoltato le don-ne che lottano per i beni di prima necessità nel-le baraccopoli in Brasile, le donne dei campiprofughi in Africa e quelle che combattono inCambogia contro l’abbattimento delle loro caseper far posto ai quartieri di lusso delle città inespansione. Tutte queste donne hanno in comu-ne la tenacia di lottare per cose semplici, mafondamentali, che cambieranno quella piccolaparte di mondo che è stata loro affidata e dellaquale si sentono responsabili per il presente eper il futuro.

Dopo aver ascoltato le storie di queste donnee averne scelte alcune come soggetti fotografici,i loro volti, in particolare gli occhi, si sono tra-sformati in giganteschi poster affissi sulle faccia-te delle case fatiscenti della favela oppure sullecase che stavano per essere abbattute in Cambo-

gia. Questi volti richiamano a una relazione co-loro che incrociano il loro sguardo e fannoemergere le storie di queste donne da un anoni-mato che le avrebbe cancellate.

Il lavoro di JR è fatto di carta, è fragile comele case o le strade dove sono affissi questi postere una volta che il tempo li scolorirà, questi voltitorneranno alla loro quotidianità, il luogo in cuicontinuano a combattere con tenacia.

Per le donne che ha incontrato in Kenya, JR

ha trasformato le loro immagini in teloni di pla-stica che adesso fungono da tetto per le loro ca-se di lamiera. Viste dall’alto sono tanti sguardiche richiedono attenzione.

Così JR descrive l’ultimo atto di questo pro-getto svoltosi nel porto di Le Havre: «Il 5 lu-glio 2014, una nave lunga 363 metri lascia ilporto di Le Havre, in Francia, per attraversare ilmondo fino alla Malesia. Duemilaseicento stri-sce di carta sono state incollate in soli 10 giornisui container con l’aiuto dei lavoratori del por-to. Nel 2007, il progetto Women Are Heroes èstato creato per rendere omaggio a coloro chesvolgono un ruolo essenziale nella società, ma

che sono le vittime primarie delle guerre, delcrimine, degli stupri o del fanatismo politico ereligioso. Ritratti e occhi di donne sono stati in-collati su un treno in Kenya, sulle facciate dellebaracche di una favela in Brasile, su una casademolita in Cambogia: queste donne hanno da-to all’artista la loro fiducia e hanno chiesto diesaudire una sola promessa, “fai che la mia sto-ria viaggi con te”. È stato fatto ponendo i loroocchi sui ponti di Parigi e sulle mura di PhnomPenh, sugli edifici di New York…».

Il progetto Women Are Heroes termina conuna nave che lascia un porto, con un’immagineenorme che diventa microscopica dopo pochiistanti. Queste donne invece rimangono nei lorovillaggi e affrontano difficoltà nelle regionistrappate alle guerre e alla povertà, dall’altraparte dell’infinito oceano. Non abbiamo alcunaidea di ciò che c’è nei container della nave: og-getti di persone che lasciano un paese per co-struire una vita diversa in un’altra regione, mer-ci che saranno trasformate, usurate, consumatein un paese diverso. Non abbiamo idea di dovee come la gente vedrà questa opera d’arte, ma

D ONNE CHIESA MOND O 38 D ONNE CHIESA MOND O39

LUCA 10, 25-37

Questo vangelo è così noto che ciè difficile ascoltarlo davvero.Eppure, come dice il salmo 81,le parole di Dio sanno arrivarcicome parole sempre nuove, sco-

nosciute, inaudite. Unmaestro della Torah inter-

roga Gesù sul punto centrale della loro fede co-mune, e sebbene la sua intenzione sia provoca-toria, non deve sfuggirci lo straordinario di que-sto dialogo. Prima di tutto Gesù risponde conun’altra domanda, perché sia l’altro a trovare larisposta da se stesso, lasciando cadere così laprovocazione: «Cosa vi leggi tu nella Torah?».E quel maestro risponde: «Amerai il Signoretuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tuaanima, con tutta la tua forza e con tutta la tuamente e il prossimo tuo come te stesso». La co-sa straordinaria è che la sua risposta è identica aquella che in altri vangeli viene messa in boccaa Gesù! Quest’uomo concorda a pieno con Ge-

ME D I TA Z I O N E

M e t t e rein pratical’a m o re

a cura delle sorelle di Bose

Vincent van Gogh, «Il buon Samaritano» (1890)Nella pagina successiva

Safet Zec, «Exodus» (particolare, 2017)

siamo certi che alcune donne lontane proveran-no un’emozione guardandola.

Anche noi dovremmo emozionarci di più in-crociando lo sguardo delle donne che segnanola nostra vita, senza andare a cercarle lontano,per scoprire quanto lottano tutti i giorni, forseun po’ anche per noi. Se sapremo guardarle e

ascoltarle come ha fatto Gesù con la donna ca-nanea oppure con la donna siro-fenicia, scopri-remo non solo che sono eroi, ma che sono an-che capaci di una fede e di una speranza nellavita davvero grandi. Scopriremo anche noi ilmiracolo di un incontro fatto con un semplices g u a rd o .

D ONNE CHIESA MOND O 40

sù sul cuore della Torah e dei Profeti, tutti con-densati in quest’unico comandamento sull’amo-re di Dio e del prossimo.

E Gesù gli dice: «Fa’ questo e vivrai»; perchéquesta è l’intenzione esplicita della Torah diDio: che mettiamo in pratica ciò che Dio, rive-landosi, ci insegna. «Beati coloro che ascoltanoe mettono in pratica la Parola di Dio» è unaparola di Gesù del tutto conforme alla loro tra-dizione comune. E allora quell’uomo religioso,cercando di giustificarsi, gli chiede: «Chi è ilmio prossimo?» come se non ne sapesseabbastanza per mettere in pratica il comanda-mento. Qui il vangelo stigmatizza la tentazionereligiosa per eccellenza: quella di conoscere perfarsi maestri, e non per compiere! Come giusti-ficazione, e non come via e vita per sé. Il van-gelo è pieno di questi rimproveri di Gesù:«Amano farsi vedere sapienti e pii, ma non fan-no ciò che dicono agli altri di fare». «Dicono enon fanno».

Non sono le parole della fede a contrapporrequesto maestro della Torah a Gesù. Ma ciò chelo contrappone, e tutti noi credenti rischiamo diessere quell’uomo, è la non-volontà di metterein pratica il grande comandamento che ha ap-

pena recitato perfettamente, è la mancanza diamore per gli esseri umani e dunque per Dio. Eallora Gesù racconta una parabola alla fine del-la quale gli porrà un’altra domanda alla qualenon potrà sfuggire. Dovremmo ogni giorno ri-peterci nel cuore ciò che Gesù ci dice di questosamaritano, poiché è anche il suo invito pres-sante a farci a nostra volta prossimi agli esseriumani che incontriamo: «Vide quell’uomo sven-turato, ne ebbe compassione, gli si fece vicino,gli fasciò le ferite versandovi olio e vino; lo cari-cò sulla sua cavalcatura, lo portò in un luogo si-curo e si prese cura di lui».

Questo samaritano è l’icona di Gesù che conla parabola ci invita a riconoscere la sua com-passione per noi. Ognuno e ognuna di noi, senell’ascolto del vangelo ha incontrato Gesù, haconosciuto la misericordia del Signore sulla pro-pria miseria che ci faceva sentire perduti. E co-me il Signore Gesù si è curvato su di noi, cosìchiama ognuno di noi a fare lo stesso verso chiincontriamo nella miseria del dolore.

Con questa parabola Gesù ci dice che cono-scersi umani fragili e bisognosi è il modo per ri-conoscere la nostra stessa umanità nell’altro chesoffre. E, come dice altrove, basta immaginareche l’altro ci appartenga, prezioso dunque pernoi come un figlio o come un asino, per saperecosa fare per lui, come prendercene cura, persentire in noi il desiderio e l’urgenza della suasalvezza. Questo vangelo è sempre di un’attuali-tà sconcertante: ogni giorno coloro con cui vi-viamo aspettano che ci facciamo noi prossimiper loro, e ogni giorno incontriamo personenuove incappate nella tragica sventura della fa-me e della guerra.

La differenza tra quell’uomo religioso e Gesùnon sta nella fede né nell’interpretazione delleScritture, ma nell’unico modo di ascoltarle estudiarle: per metterle in pratica. Ogni nostroascolto della Parola di Dio che non abbia l’in-tenzione di mettere in pratica l’amore, non ci faincontrare il Signore.