L'osservatore in cammino

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Numero speciale • Pe(n)sa differente. Festeggia il tuo peso naturale! • Giugno 2014 L’OSSERVATORE IN CAMMINO in / differenze

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Il tavolo adesso è nella luce. Una nuova "casa" dove incontrarsi al mattino per sapere i giorni della cura. Quante passioni intorno a quel tavolo. Quanto cercare. Portano nomi e ogni nome suona una storia. Solisti che trovano luogo. Adesso son coro, tentano almeno divenirlo, un noi. Scambiano sguardi ed è bello vederli pian piano aprirsi, conquistare il sorriso, trovare parole di coraggio, di fiducia, valicare l'angusto del "no". Farsi corpo, finalmente. Nascere sì, proprio nascere, accogliere la consapevolezza, mutarla in forza, farla méta, nuovo cammino. Le mani prese al fare "sconcertano" il pensiero, lo distraggono dall'assedio, dall'ossessione, dalla monotonia della malattia. Tutto può trasformarsi, anche una vita pensata storta, pensata tradendo il corpo. "Speriamo di farcela...", "Ce la faremo!"... "Ce l'abbiamo fatta!" *** Ce l'ha fatta il Centro per la Cura e la Ricerca sui Disturbi del Comportamento Alimentare del DSM della Asl di Lecce - la fucina dove è nata questa rivista

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Numero speciale • Pe(n)sa differente. Festeggia il tuo peso naturale! • Giugno 2014L’OSSERVATORE IN CAMMINO

in/differenze

Page 2: L'osservatore in cammino

Domanda di apertura • 3

Corale • 3

Il mio vestito • 4SILVIA DONGIOVANNI

Le cose di adesso • 5 MAurO MArINO

L’identità personale si specchia nell’identità corporea • 6ILArIA CAPrIOGLIO

Intervista a Ilaria Caprioglio • 7 - 8rOSSELLA ASSANTI

L’essere in sé • 9 - 10ANDrEA SAGNI

La paura del vuoto • 11MICHELA MArZANO

Apologia del selfie • 12TOMMASO ArIEMMA

Oltre la materia • 13 - 14IrENE ESTEr LEO

Il diritto all’opacità • 15 - 16MAIrA MArZIONI

Verifica di impatto umano • 17 - 18ILArIA SECLÌ

Raccontare l’anoressia • 19 - 20rOSSELLA ASSANTI

L’abito etico • 21SANTA SCIOSCIO

L’AbeccedarIO • 21

Pe(n)sa differente • 22-23CATErINA rENNA

C’è MadamaDoré • 22-23

Contenuti

L’Osservatore in cammino è un progetto Artlab, Atelier per l’espressione e la produzione creativa, all’interno del quale competenze, vocazioni, capacità s’integrano e cooperano insieme.In particolare, scrittura e illustrazione interagiscono per dar vita a una rivista che si muove sul doppio binario della comunicazione, quello verbale e quello visivo.L’Osservatore non è solo una rivista di informazione culturale ma, soprattutto un cantiere libero ed aperto all’incontro, per accogliere nuove vocazioni ed attitudini, un luogo dove sperimentare e mettere a frutto l’inventiva e le capacità comunicative di quanti desiderino aderire al progetto.Chiunque abbia voglia di partecipare a questa avventura trimestrale, può inviare i suoi elaborati (scrittura, grafica o illustrazione), in formato elettronico, alla nostra redazione:[email protected]

Le illustrazioni di questo numero dell’O sono di Chiara Spinelli.Diplomata presso l’Istituto Statale d’Arte G. Pellegrino di Lecce in Decorazione Pittorica, prosegue il percorso di studi artistici presso il Corso di Grafica Editoriale dell’Accademia di Belle Arti di Lecce. Nel corso di questi anni, ricchi di esperienza e formazione, sviluppa e approfondisce il disegno: l’Illustrazione.Partecipa e segue corsi di formazione, concorsi e inuagura il 16 Marzo di quest’anno, la sua prima personale di illustrazione presso il SuM km97.“È un tratto che mi rappresenta, figure, simboli e colori che descrivono una realtà nascosta in ognuna di noi: l’infanzia.”

un insiemedi tante cose.

cos’èla persona?

CoraleCuT-uP POETICOLeggendo il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry

Mi sarebbe piaciuto cominciare questo racconto come una storia di fatenon è solo per la fiducia che ripongo nelle mie sorelle...

È che la fiducia, è così debole in questa terra di granito... un sentimento che può tenerti a galla o farti sprofondare senza lasciarti il tempo di combattere.

Gli uomini hanno delle stelle, lì guardanoma non sono sempre le stesse: alcune sono raggiungibili con due soli passi...altre, invece, possiedono una scala esterna, chiedono un lungo cammino…

Per gli uomini, libero è colui che domina. Non si può ammettere di soffrire,significherebbe riconoscere la nostra impotenza davanti al mondo.

Nessuno capisce, ne tenta di trovare il bambino nascosto dentro sè.Dobbiamo imparare a sostenere i legami concreti quelli che spingono le persone fuori dall’isolamento nel quale la società tende a rinchiuderle.

Guardando dritto davanti a sè non si può andare molto lontano. Quando si è finito di lavarsi al mattino, bisogna fare con cura la pulizia del pianeta.

Triste, dicono sia triste, dimenticare un amico... doloroso, struggente l’essere dimenticati.Così capita al Mondo…

Siamo salpati tutti sulla stessa barca e nella tempesta nessuno può salvarsi da solo.Sono molto belli i tuoi ricordi ma le parole non mi interessano mai...l’immaginazione è stanca, stremata, instabile.Voglio che le mie disgrazie vengano prese sul serio.

Il più bello e triste del mondo, mi sentouna luce senza ombre sono, pura limpida, penetrante…che possa riscaldare questo gelido cuore artefatto...era così sola, aveva bisogno di un amico. Di amici…Vuoi vivere, ma non puoi accettare che possa essere questo!

I legami concreti sono la nostra salvezza.Se un gruppo ha un obiettivo comune non importa quali siano le difficoltà per raggiungerlo sarà proprio la volontà di ogni singolo individuonel gruppo che riuscirà ad arrivarci.

Soltanto con l’appoggio e l’aiuto dei nostri più cari affettiriusciremo a vincere questo male.

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Page 3: L'osservatore in cammino

Corsivo

Vestirti da me. Perché? Vuoi che ti presti quell’abito rosso che soffoca insieme agli altri in questa scatola che non può più chia-

marsi armadio. Perché? A te sta così bene, e poi è un Valentino.

È il mio vestito.

No, non sono un’egoista! Vestiti da te. Lo dico per te. Apriamo il tuo armadio, apriamo il tuo gusto, indossalo, indossa quello che tu sei. A me quel Valentino fa schifo, non fraintendermi, è di un bel colore, gran taglio, ottima fattura, ma non è stato punzecchiato da mille aghi per il mio corpo.Ti dirò la verità: la vedi quella rouche? Non c’era. E quella balza asim-metrica nemmeno. Ce li ho messi io. Sì, sarà un Valentino sull’etichetta, ma è il mio vestito. Mi sta bene per questo, perché l’ ho rivestito di me.Apriamo il tuo armadio, amica. Vedi? Ma come schifo! Sei tu: quei fi ori gipsy, quelle stampe coloratissime, quei jeans vintage. Ecco, questo è il tuo vestito. Ricordo quando la scorsa estate tua mamma te lo regalò per il compleanno, lo odiasti all’istante, ma è un Gattinoni. Però con quel giacchetto sfi lacciato addosso ti stava da dio. E’ tuo.

Parliamo piuttosto dell’odio per quel vestito, odio per lui o risentimento per tua madre, che spera di comprarti comprando. Odio per lui o per la 38 bionda occhi blu che lo indossa sul catalogo? Odio per le ultime due settimane di agosto in cui ti si vedeva la pancetta e non potevi più indossarlo.Lo sai che ora ti andrà un po’ largo, vero? Riesci a vederlo, a vederti?Guardati. E’ passato un anno e a me sembra sia passata una vita schifosa, triste, piena di vuoto, strabordante di pensieri acconciati come una chioma dalle mille trecce. Non sorridere così, non con me, non vestirti da me, non servirebbe a nulla. Io amo i tuoi abiti, amo te, ma se continui così non ti riconosco più.Strappa quel poster di Giselle, quello di Kate. Non è quella la moda.La moda è arte, l’arte è libertà, la libertà è persona, la persona sei tu. Non te la prendere con i vestiti, con le top, con la 38 capelli biondi occhi blu. Il vestito deve essere il tuo.

Sono stanca ora, ho fame. Andiamo a fare merenda, magari va via quel grigio che hai in viso. Sarai stupenda stasera. Domattina porto cornetti a colazione, voglio che mi racconti tutto. E voglio trovarti col pigiamo-ne, non con quella roba trasparente della pubblicità. Sei bella. Sei tu.

di Silvia Dongiovanni

Il mio vestito

Editoriale

Il tavolo è nella luce. Una nuova “casa” dove incontrarsi al mattino per sapere i

giorni della cura. Quante passioni intorno a quel tavolo. Quanto cercare. Portano nomi e ogni nome suona una storia. Solisti che trova-

no luogo. Adesso son coro, tentano almeno divenirlo, un noi.Scambiano sguardi ed è bello

vederli pian piano aprirsi, conqui-stare il sorriso, trovare parole di coraggio, di fi ducia, valicare l’angusto del “no”. Farsi cor-po, fi nalmente. Nascere sì, proprio nascere, ac-cogliere la consapevolezza, mutarla in forza, farla méta, nuovo cammino.Le mani prese al fare “sconcertano” il pensie-ro, lo distraggono dall’assedio, dall’ossessio-ne, dalla monotonia della malattia. Tutto può trasformarsi, anche una vita pensata storta, pensata tradendo il corpo.“Speriamo di farcela...”, “Ce la faremo!”... “Ce l’abbiamo fatta!”

Ce l’ha fatta il Centro per la Cura e la Ricerca sui Disturbi del Comportamento Alimentare del DSM della Asl di Lecce - la fucina dove è nata questa rivista - da pochi mesi è nella sua nuova sede, lungo il viale dell’ex-Opis in quel-lo che fu il II° Padiglione Donne.Un luogo liberato dallo “stigma” della follia, più volte attraversato negli anni – dal 1998 (anno della defi nitiva chiusura dell’Ospedale Psichiatrico di Lecce) ad oggi – dalla città con incontri, feste, appuntamenti dedicati alla co-noscenza e alla sensibilizzazione sui temi dei Disturbi del Comportamento Alimentare, del pe(n)sare differente... Un nuovo cammino si è aperto, nuove opportunità, nuove possibili-tà, come la neonata MadamaDorè, associa-zione delle famiglie e degli amici di persone con problemi di anoressia, bulimia e disturbo da alimentazione incontrollata. Un altro passo nel nome del “noi”, un allargamento di fronte, un nuovo aiuto e un nuovo riconoscimento al lavoro sin qui fatto. Certo, c’è ancora tanto da fare, da migliorare! Questo numero dell’Os-servatore in cammino aggiunge un tassello al confronto, alla discussione, alle proposte. Alla battaglia di ogni giorno per migliorare la vita di chi ha dimenticato la bellezza scegliendo di inseguire il fantasma della “perfezione”.

Le cose di adesso

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di Mauro Marino

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Incontri

Intervista con Ilaria Caprioglio

Nell’ombradella modaAnoressia, bulimia, sono i principali disturbi del comportamento ali-mentare. Sono una guerra combattuta sul proprio corpo, il controllo sprofonda in quella bilancia dove i numeri continuano a scendere e di-ventano un obiettivo, un traguardo. E’ la guerra di quel silenzio dove il corpo muta in parole, sfi orare la propria magrezza è sentire come una lama tagliente la sofferenza dell’anima. Ilaria Caprioglio, avvocato e modella, ci ha raccontato la sua esperienza in quel tunnel apparente-mente senza fi ne, asfi ssiante che è l’anoressia.

Le andrebbe di raccontarmi la sua storia?La mia esperienza come modella, iniziata nel 1988 con la vittoria del concorso internazionale Super Model of the world, sono solita defi nirla con luci e ombre. Le luci, come i fl ash dei fotografi accanto alla pedana di una sfi lata o la perfezione profusa nelle riviste patinate, abbagliano chi osserva dall’esterno quel mondo. Le ombre, invece, sono meno gla-mour e, diffi cilmente, vengono percepite all’esterno: nel mio caso sono scaturite dal senso di solitudine, dovuto allo sganciamento dagli affetti familiari, e dall’incontro con i disturbi del comportamento alimentare. Ammalarsi di anoressia svolgendo un mestiere che si avvale della ma-grezza eccessiva non sorprende, anche se ritengo corretto sottolineare come non tutte le modelle siano anoressiche. Tuttavia è suffi ciente una frase, un commento insinuato con noncuranza da uno stilista o dall’a-gente che ti rappresenta per gettare, su un terreno fertile, il seme dal qua-le germoglierà la malattia. Il corpo rappresenta lo strumento di lavoro, già perfetto ma sempre perfettibile, e la perfezione diventa una questione di centimetri: quelli del seno, della vita, dei fi anchi. Ero cresciuta senza curarmi troppo delle mie misure ma, quando mi accolsero in agenzia con il metro per verifi carle e riportarle sul composit diventarono presto la mia ossessione. Capii immediatamente che se riuscivo a “limare un po’ il fi anco” potevo sfi lare per uno stilista in più nella settimana della Milano-Collezioni. Iniziai così ad alleggerire i pasti tagliando i carboi-drati, la pasta, il pane, i dolci e poi proseguii eliminando le proteine, i condimenti, i latticini fi no ad arrivare a nutrirmi di mele e yogurt. Più l’ago della bilancia scendeva e il metro si stringeva intorno ai miei fi an-chi, più l’autostima saliva e il delirio di onnipotenza, nel constatare che riuscivo a modifi care il fi sico con la ferrea volontà, aumentava. Vivevo un delirio di onnipotenza che non mi permetteva di cogliere i segnali d’allarme che il corpo in riserva mi stava lanciando: la scomparsa del ciclo mestruale e il senso di spossatezza che costantemente mi attana-gliava. Ero malata di dismorfofobia, percepivo in modo errato la mia immagine rifl essa nello specchio: vedevo una perfetta indossatrice e non una giovane donna ormai ridotta a pelle e ossa. Dopo aver lavorato a New York e Parigi, arrivai a Monaco di Baviera e a quarantasei chili per centottantuno centimetri di altezza, la mia granitica forza di volontà si sbriciolò lasciandomi sola in balia di un intenso freddo fi sico e psichico, di un improvviso vuoto interiore da colmare con il cibo. Il desiderio di cibo, in precedenza rimosso, divenne la mia ombra, il pensiero fi sso che mi accompagnava durante gli scatti del fotografo o i provini. Lo assecondavo entrando nelle pasticcerie per comprare i dolci più ricchi di calorie che avrei divorato, al riparo da sguardi indiscreti, in totale solitudine. Mangiavo senza piacere, con voracità e rabbia, sforzandomi di terminare tutto quello che c’era fi nché il senso di nausea mi assaliva e io mi addormentavo con un sentimento di inadeguatezza e il proposito che quella sarebbe stata l’ultima volta. “Da domani smetto” mi ripetevo, sapendo di mentire a me stessa, mentre il peso aumentava e diminuiva, proporzionalmente, la forza di volontà. Raggiunsi i settanta chili e la convinzione del mio totale fallimento: a quel punto la depressione mi incontrò e in sua compagnia consumai qualche anno della mia esistenza.

di Rossella Assantidi Ilaria Caprioglio

In passato gli specchi erano piccoli, rari, preziosi e adornavano i pa-lazzi dell’aristocrazia: i volti e i corpi, in un mondo senza specchi,

venivano percepiti solo attraverso lo sguardo altrui, «dallo sguardo allo specchio sono derivati non solo il gusto per l’apparenza ma anche una nuova geografi a del corpo che dona immagini sconosciute e accende il sentimento della coscienza di sé». (1) Un sentimento spesso tormenta-to, poiché il rapporto che l’uomo instaura con la sua immagine rifl essa, quando in questa non si riconosce appieno, si risolve inevitabilmente in un rapporto confl ittuale. Non riusciamo più a prescindere dal rifl esso di noi stessi: lo ricerchiamo anche attraverso le fotografi e che scattiamo e immediatamente controlliamo sulla macchina digitale o sul cellula-re. Stiamo vivendo in un’epoca nella quale, come sostiene il politologo Giovanni Sartori, il video ha trasformato l’homo sapiens in homo videns, (2) nella quale cioè l’immagine ha spodestato la parola e di conseguen-za l’immagine del corpo ha assunto un ruolo centrale nella costruzione dell’autostima di ciascun individuo. Il nostro aspetto è sempre stato il primo biglietto da visita speso nell’approccio con l’altro ma, ormai, sem-bra essere diventato anche l’unico: orfani come siamo del tempo e della volontà di andare oltre, ponendoci all’ascolto, coltivando il silenzio. Per questo motivo la ricerca dell’identità personale passa, spesso, attraver-so l’identità corporea: «il corpo è diventato il luogo dove si esprime il potere e si esercita la repressione». (3) Risulta diffi cile emanciparsi da questa costruzione sociale di bellezza sinonimo di magrezza e gioven-tù. È diventata, dunque, un’esigenza improcrastinabile far comprendere, soprattutto ai giovani, che la centralità della persona consiste nel sentirsi unici senza bisogno di essere copie conformi a un modello prestabilito. Un modello che, spesso, induce a vivere il corpo con imbarazzo, a causa della sproporzione fra l’immagine socialmente richiesta e la propria che si rispecchia negli sguardi e nelle reazioni altrui, ricevendo da queste ultime un immediato e, talvolta, impietoso feedback. Appare quanto mai urgente aiutare a ricomporre il confl itto interiore fra il modello ideale irraggiungibile e la realtà, costituita dalle peculiarità corporee che ca-ratterizzano ogni individuo. L’univocità del modello quotidianamente proposto è evidente: sarebbe quindi necessario educare i giovani a una visione corretta delle immagini che li bombardano sin dalla più tenera età. Il mondo adulto, sempre più fragile e privo di regole, dovrebbe assu-mersi l’onere di adottare una tipologia alternativa di vera libertà che non derivi dall’essere in possesso di qualcosa, siano essi mezzi economici o requisiti fi sici, bensì che appartenga all’essere, «alla grandezza del suo desiderio, vero propulsore della vita e delle opere, capace di dilatare il campo delle possibilità, andando oltre il limite, tramutando l’ostacolo in punto di leva, trovando sempre nella mancanza l’opportunità». (5) Ma anche le generazioni alle quali spetterebbe questo compito si sono uni-formate e non sono più in grado di fornire l’esempio che sta alla base di ogni processo di identifi cazione.

APPArE QuANTO MAI urGENTE AIuTArE A rICOMPOrrEIL CONFLITTO INTErIOrE FrA IL MODELLO IDEALE IrrAGGIuNGIBILEE LA rEALTÀ, COSTITuITA DALLE PECuLIArITÀ COrPOrEECHE CArATTErIZZANO OGNI INDIVIDuO

1 Sabine Melchior-Bonnet, Storia dello specchio, Dedalo, Bari 20022 Giovanni Sartori, Homo videns, Laterza, Roma-Bari 20003 Simonetta Marucci, Laura Dalla Ragione, L’anima ha bisogno di un luogo, Tecniche Nuove, Milano 2007.4 Pierre Bourdieu, Il dominio maschile, Universale Economica Feltrinelli 2009.5 AA.VV., Ricomporre Ipazia, Tribaleglobale Primary Art, Genova 2010.

L’identità personalesi specchianell’identitàcorporea

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OSSERVATORE IN CAMMINOL6

L’intervista

Page 5: L'osservatore in cammino

Nella nostra società, è sempre più raro interrogarsi sul significato delle parole, soprattutto le più utilizzate, quelle che a prima vista paiono for-nirci definizioni certe e rassicuranti. Ed è sempre più difficile accettare ciò che è indefinito. In generale, si ha la tendenza a cercare certezze, baluardi sicuri cui aggrapparsi, definizioni date una volta per tutte in grado di incasellare il reale. Ed ecco che in questa nostra epoca, dove precarietà, alterità, discontinuità, costituiscono una costante sfida per il pensiero, alcune nozioni prendono il sopravvento in virtù della rassicu-rante – e fittizia - capacità di far risuonare in noi certezze definitive. Tra queste, la nozione di identità pare un’evidenza: ognuno ha la propria o, almeno, deve costruirsene una, per potersi affermare. Un’individualità completa, compatta, possibilmente indiscutibile.

Ma che cosa vuol dire “identità”? Raramente ce lo si chiede. Quello che importa è raggiungere quel senso di pienezza e di autosufficienza cui questa nozione rinvia. Un “Io” monolitico che si crede assolutamente indipendente e che pare essere in grado di definirci, di catturarci in una posa. E laddove non si riesce a darsi una cosiddetta “identità”, si è spesso disposti ad ancorarsi a quella che ci danno gli altri. Perché senza di essa, crediamo di mancare di consistenza, privi di strumenti per far fronte alla paura dell’indefinito, di ciò che è più specificatamente umano. Perché, a ben guardare, l’identità con l’umano centra ben poco.

Basti pensare al fatto che, come fa notare l’antropologo François La-plantine, la nozione di identità nasce a partire dai discorsi medievali del-la filosofia scolastica che designava con essa gli attributi della divinità: la sua onnipotenza, la sua eternità, la sua immutabilità. Una nozione che prese forma nell’ambito della teologia, dove l’identitas designava l’esse-re in sé - semper idem e semper unum - sempre uguale a se stesso e al di fuori del tempo: un’unità completa che nulla ha di molteplice e plurale. Ecco allora che le difficoltà sorgono nel momento in cui si tenta di tra-sportare ciò che è stato pensato nel dominio della teologia in quello della psicologia e della sociologia.Certo, dal punto di vista delle scienze uma-ne, la nozione si è per così dire evoluta. Ma nel pensiero comune si ha la tendenza a credere, che per realizzarsi come persone, quest’identità vada affermata quasi fossimo delle divinità autosufficienti e cristallizzate.

L’identità nega il carattere cangiante, plurale e contraddittorio dell’uma-no. Rifiuta l’infinità dei punti di vista su ciò che è potenzialità o divenire, mettendo spesso a tacere tutto quello che possa metterla in discussione, come quell’alterità che ci abita, quelle contraddizioni e fratture, con cui è difficile fare i conti. E allora si teme il vuoto, che va a tutti i costi col-mato, perché bisogna sempre essere completi. Si ha paura del corpo, che va controllato e manipolato, in modo che sfugga ai segni del tempo e della nostra finitezza. Si rifugge tutto ciò che costringe a ripensarci, neu-tralizzando l’insolito, cancellando l’indefinito, affibbiando o accettando etichette. Si nega la precarietà del vivere, quasi fossimo delle essenze piuttosto che delle esistenze. Ma per quanto questa volontà di control-lare tutto sia forte, c’è sempre qualcosa che ci sfugge. Ed ecco allora che quando quell’io monolitico cui ci si era aggrappati crolla, crolliamo anche noi. Precipitando talvolta nel baratro della disperazione.

ALLA rICErCA DI uN’IDENTITÀ PErCOrrIBILE? MEGLIO PArTIrE DALL’INDEFINITO

di Andrea Sagni

Cosa l’ha spinta a rinascere, a scegliere la vita? Quando ha iniziato a vedere il cibo non più come un nemico, come uno strumento sul quale scaricare tutti i dolori dell’anima, ma come un nutrimento?Vent’anni fa si parlava poco di disturbi del comportamento alimentare, erano considerati il capriccio delle ragazze viziate non una malattia vera e propria: si soffriva in clandestinità, provando uno sconfinato senso di vergogna e di sconfitta. La paura di confidarmi, mettendo a nudo le mie fragilità innalzò un muro fra me e il mondo. Da quel totale isolamento, dall’apatia di giornata trascorse a interrogarmi sul senso della mia vita e a rovistare fra gli avanzi di cibo, mi strapparono poche frasi pronunciate, con smisurata dolcezza e accorata partecipazione, da chi quella strada l’aveva già percorsa tutta. La scintilla, che mi rimise al mondo, scoccò con chi aveva vissuto lo stesso disagio e con lo sguardo mi spiegò che non mi giudicava, bensì mi comprendeva e ascoltandomi mi sosteneva nella rinascita. Il percorso di guarigione è stato lento, simile alla marcia di un granchio tuttavia, consapevole della mia vulnerabilità, avevo or-mai affinato le tecniche per fronteggiarla. Uno degli strumenti dei quali mi sono servita è stata la scrittura autobiografica che mi ha aiutato a far chiarezza in me stessa. Annotavo le mie esperienze di sofferenza, cercando di riordinare le sensazioni che mi opprimevano attraverso la narrazione di cosa stavo vivendo. Avevo tracciato un punto fermo su ciò che era stato, smettendo finalmente di ripetermi sempre domani, doma-ni mi impegnerò a riemergere. Potevo rileggere quanto avevo scritto e trovare la forza per urlare mai più. Dopo aver pubblicato il libro “Mila-no Collezioni andata e ritorno” (Liberodiscrivere edizioni) mi sono resa conto che altri si riflettevano nelle mie parole di dolore, comprendendo di non essere soli nel loro cammino di rinascita. Scrivere la propria sto-ria rappresenta un sollievo per chi la narra e un’inestimabile risorsa per chi la legge, rendendo il sapere dell’esperienza prezioso e ponendolo al servizio degli altri.

Quanto crede che influiscano negativamente sulle ragazze o sui ra-gazzi i media, i quali spesso ritraggono persone che “incarnano” apparentemente la “perfezione”?Erodoto scriveva “Portano il malato in un luogo di mercato affinché le persone che hanno sofferto di qualcosa di simile lo possano consigliare” e io utilizzo sovente questa frase per giustificare la mia titolarità a parlare di pressione mediatica e disturbi del comportamento alimentare durante i convegni medici o gli incontri con gli studenti. Il progetto di educazio-ne alimentare per le scuole “Mi nutro di vita”, realizzato dall’omonima associazione della quale sono vice presidente e che è promotrice della Giornata Nazionale del Fiocchetto Lilla, è finalizzato alla sensibilizzare dei giovani sui problemi legati ai disturbi alimentari e all’alimentazio-ne scorretta indotti dallo specchio deformante della nostra società e a illustrare, in seguito, i principi alla base di una corretta alimentazione, non omologata o imposta da cattivi maestri. Cattivi maestri sono la te-levisione, il mondo del web e della moda che, complice l’agonia delle istituzioni famiglia e scuola, hanno assunto ormai una funzione didattica proponendo un modello corporeo al quale tutte le generazioni tendono ad aderire, percependo il proprio aspetto come inadatto e inaccettabile. In questi anni trascorsi con gli studenti, ma anche con i miei tre figli, ho ritrovato in loro le vulnerabilità della mia adolescenza, quell’ingrato periodo di transito che ci traghetta dall’infanzia all’età adulta. Un mo-mento nel quale le incertezze dominano la vita affettiva e il futuro pro-fessionale appare lontano e confuso: solo il corpo viene percepito come una proprietà di cui poter liberamente disporre per rendersi visibili e individuarsi nella società. Mi rivolgo a loro per far comprendere quanto siano fallaci i modelli proposti e di come sia importante portare avanti con orgoglio e consapevolezza le proprie qualità fisiche e le proprie atti-tudini mentali. Sorprendentemente i giovani ascoltano, desiderosi di rin-tracciare finalmente nel mondo adulto dei modelli coerenti e autorevoli ai quali ispirarsi.Eppure quella tempesta interiore si placherà un giorno, il cibo non sarà più il nemico da combattere, il corpo non sarà più un foglio bianco sul quale segnare i chili che separano dalla vita. La solitudine, l’assenza di un punto fermo, il vuoto, non stringeranno più così forte. Da quelle pro-fonde ferite dell’anima nascerà una primavera di parole e vita. La guerra sarà finalmente finita.

Tematica

L’essere in sé

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OSSERVATORE IN CAMMINOL8

Page 6: L'osservatore in cammino

di Michela Marzano

Viviamo in un’epoca in cui niente sembra farci più paura del “vuoto”. Ecco perché siamo disposti a fare qualunque cosa pur di non sentirlo. Con frenesia e accanimento. Anche quando corriamo il rischio di smarrirci, e di perdere di vista il senso della nostra vita. Tutto, tranne il vuoto! Tutto, tranne quel terrore di scivolare nell’abisso, in quella frattura che si apre in noi all’improvvi-so e che potrebbe risucchiarci. Senza renderci conto che è proprio quel vuoto che talvolta sentiamo sorgere in noi che ci permette di vivere e di creare, di trasformarci e di desi-derare. Perché se fossimo veramente “pieni” non avremmo più bisogno di niente. E ci soddisferemmo di un eterno pre-sente, senza più speranza e senza più futuro.In una lettera al fratello Paul, Camille Claudel scrisse un giorno che c’era sempre “qualcosa di assente” che la per-seguitava. Riuscendo così, in poche parole, a darci una delle più belle definizioni della condizione umana. Chi di noi, d’altronde, non è mai perseguitato dall’assenza di qualcosa o di qualcuno? Chi di noi potrebbe affer-mare con certezza di “avere tutto” e di “essere tutto”? Il vuoto è un segno d’umanità. È il segno tangibile del-la nostra vulnerabilità e dei nostri limiti. È la traccia di quel desiderio che ci portiamo dentro e che ci spinge ad incontrare gli altri, ad avere dei progetti, a fare di tutto per realizzarli. Forse è per questo che non lo si potrà mai colmare completamente. E che l’unica cosa che l’essere umano possa fare per imparare a convivere con il vuoto che si porta dentro, è cercare di “attraversarlo” insieme ad un’altra persona. An-che lei consapevole delle proprie mancanze e delle proprie fratture. Il vuoto ci accompagna. Ed è solamente quando la smettiamo di combatterlo, che può diventare un luogo fertile: una piega in cui l’anima si ri-fugia per generarsi e trovare nuove energie; una frattura da cui scaturiscono il pensiero e la scrit-tura, anche semplicemente per trovare le parole giuste per nominare quello che ci manca e che ci mancherà per sempre. Un sorriso. Una ca-rezza. Un figlio. Tutto quello che non si ha e che si vorrebbe avere. Nonostante si abbia già tanto.

Michela Marzano è nata a Roma, dopo aver studiato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e avervi conseguito un dottorato di ricer-ca in filosofia, è diventata professore ordinario e Direttore del Di-partimento di Scienze Sociali (SHS - Sorbona) all’Università Paris Descartes. Autrice di numerosi saggi e articoli di filosofia morale e politica, ha curato il Dictionnaire du corps (2007) e il Dictionnaire de la violence (2011). Fra i suoi libri, alcuni dei quali tradotti in diversi paesi: Penser le corps (2002), La fidélité ou l’amour à vif (2005), Je consens, donc je suis... (2006), La mort spectacle (2007), L’éthique appliquée (2008), Visage de la peur (2009) e Le contrat de défiance

(2010). Con Mondadori ha pubblicato Estensione del dominio della manipolazione (2009), Sii bella e stai zitta (2010), Volevo essere una farfalla (2011), La fine del desiderio (2012) e Avere fiducia (2012). Nel 2013 con Utet ha pubblicato L’Amore è tutto – è tutto ciò che so dell’amore. Dirige una collana di saggi filosofici per le Edizioni PUF e collabora alla «Repubblica». Attualmente è deputato del Parlamento italiano.

Twitter: @MichelaMarzano

CHI DI NOI NON È MAI PErSEGuITATO DALL’ASSENZADI QuALCOSA O DI QuALCuNO?CHI DI NOI POTrEBBE AFFErMArE CON CErTEZZADI “AVErE TuTTO” E DI “ESSErE TuTTO”?

La pauradel vuoto

Da dove partire allora per ricercare un po’ di consistenza? Forse, si po-trebbe incominciare prendendo in considerazione proprio il nostro ca-rattere indeterminato, costituito da tutte quelle possibilità e quei limiti che ci caratterizzano e da quella capacità di libertà che proprio da questa indeterminatezza proviene. Prendendo in considerazione la nostra vul-nerabilità, il nostro essere sempre incompleti e la conseguente dipen-denza strutturale dal riconoscimento dell’altro, vedremo come questa nostra condizione di esposizione alla precarietà e al vuoto, della quale non siamo responsabili, crei al tempo stesso le basi sulle quali possia-mo assumerci la responsabilità di ciò che diveniamo. Si tratta di ricono-scere il proprio valore, la novità di ciò che si è, a partire dalla propria incompletezza e dall’incapacità di poter rendere pienamente “conto di sé”, definendosi una volta per tutte. Si tratta della promessa, ogni giorno rinnovata, di essere fedeli a se stessi, accettando di mettersi in discussio-ne, aprendosi alla coesistenza con e per l’altro. Non un impegno cieco nei confronti di un’identità data o che dovremmo darci, ma un dispiega-mento di sé che ci fa essere soggetti sempre in divenire. Quella fragile promessa di essere se stessi, che non è altro che la consapevolezza del proprio valore, al di là di ogni definizione.

SI TRATTA DI RICONOSCEREIL PROPRIO VALORELA NOVITÀ DI CIÒ CHE SI È

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* Marta Toraldo - Vie fuggitive è edito da I libri di Icaro

di Irene Ester Leo

è edito da I libri di Icaro

Oltre - la materia #1

Quanto ci affi diamo ai nostri sensi?Alla vista, soprattutto alla vista. Ci basta vedere per ipotizzare di aver capito. La vista è veloce e pratica, simultanea al pensiero, quasi. Privi di vista non potremmo gustare un bellissimo quadro, sfi orarne con lo sguardo le cromie o leggere un libro o inviare una lettera, un messaggio. Non potremmo guardare il profi lo di chi amiamo, la sua carnagione, il colore dei suoi capelli, ma ancora quanto ne siamo infl uenzati? Tutto quello che ci passa sotto lo sguardo bombarda la nostra corteccia cere-brale di messaggi subliminali o anche poco subliminali. Siamo nell’era dell’occhio.

Oltre - la convenzione costante #2

Una formica sotto la scarpa di un uomo non ha la più pallida idea di come sia un volto umano. E noi, di fronte al volto di un uomo igno-riamo nella stessa maniera come sia il suo cuore.

Milena Jesenská (1896-1944), donna amata da Kafka, scriveva così e celebri furono le lettere scambiate con l’amato suo uomo e scrittore che noi conosciamo bene per i suoi trascorsi letterari fatti di punte e veli, di materia insondabile ma bellissima, sincera.Pensavo di fronte a queste parole alla piccolez-za dell’agire, alla supponenza con la quale spesso ci accostiamo agli altri (e con ‘’al-tri’’ non intendo una persona specifi ca, o forse tutti), ognuno di noi crede, im-magina, il cuore della persona che ha di fronte. Può scorgere una ruga d’espres-sione agli angoli delle labbra ed allora sa che è felice, può vederla diventare rossa, allora immagina provi imbaraz-zo, può guardarle gli occhi che lasciano scivolare lente lacrime e intuisce un do-lore. Ma questo ‘’immaginare, sapere, intuire’’ è relativo. Il cuore resta lon-tano e nascosto e subentra un vizio di comunicazione prima e interpretazione poi dannatamente pericoloso. Quel-lo che si vede non sempre è. Perchè è chiaro che siamo ciò che gli altri vedo-no di noi, e questa immagine a volte è concava a volte convessa, a volte solo di rado coincide con il vero, quando subentra non lo sforzo di capire ma quello di sospensione: la sospensione di giudizio. Allora in quell’istante non cercando nell’altro pregi o difetti che in realtà sono nostri, ci appare nella sua interezza. Ed il cuore che è legato all’anima che è legata alla pelle che è legata alle ossa che sono legate alla mente...si apre come in un mecca-nismo lento ma prezioso, si apre e forse era sempre aperto. Solo che noi ci ostinavamo a non guardare l’altro ma noi stessi.

Oltre la materia

Secondo l’autorevole Oxford Dictionary, “Selfi e” è la parola del 2013. Stigmatizzata per lo più dagli studiosi, la diffusa pratica dell’autoscatto fotografi co fatto circolare sui social media rappresenta l’ultima forma di ciò che fi losofi come Michel Foucault e Thomas Macho hanno chiamato rispettivamente tecnologie del sé e tecniche di solitudine. A differenza delle antiche tecniche di solitudine, miranti alla costruzio-ne della celebre cittadella interiore, la pratica del selfi e ne rappresenta piuttosto la versione pop, nella misura in cui si fa carico della ricerca dell’indistinzione, tra celebrità e persona comune, propria della visione del mondo della Pop Art.In questo senso essa è, curiosamente, l’unica tecnica di solitudine capace di soddisfare il motto, molto apprezzato da Montaigne: “Necessiti sol-tanto, quando sei solo, si essere popolo a te stesso”.Una tale pratica si situa in quella dimensione dove si incontrano tecniche dell’immagine e tecniche del corpo, dove si gioca cioè la costruzione della nostra identità corporea e la sua condivisione estetica e sociale.C’è sicuramente una linea rossa che unisce l’autoritratto artistico e la pratica del selfi e. Hanno, innanzitutto, un’origine comune: non tanto l’impulso narcisistico, ma un’esposizione di sé come “risposta” a un’in-vasione di immagini. All’origine dell’autoritratto artistico c’è l’esigenza per l’artista, in epoca moderna, si separarsi dall’artigianato e dall’asser-vimento della sua capacità di produrre immagini. In epoca postmoderna, questa capacità di produrre immagini di sé e di condividerle si è enormemente diffusa, ma non ha cambiato la sua ra-gione: una resistenza alla produzione incessante delle immagini, che veicola modelli, icone, e che negli anni è stata all’origine di sofferenze simboliche per tutti quei soggetti che non avevano le caratteristiche dei modelli dominanti (magrezza, tonicità, muscolosità, prosperosità). Certo, fi n dalla nascita della fotografi a gli individui hanno avuto presto la capacità di produrre immagini di sé, ma questa produzione, in mancanza di una distribuzione capillare, era funzionale alla pressione del modello imposto e diffuso: forniva piuttosto la prova oggettiva che non si asso-migliava all’icona. Come lo specchio, anch’esso diffusosi progressiva-mente, l’autoscatto o la foto di sé divengono strumenti per esaminarsi alla luce di canoni circolanti. La propria foto non poteva competere con la popolarità, i ritornelli, delle icone della società dello spettacolo. Adesso, con la complicità della diffusione dello smartphone, unito alle potenzialità dei social network, l’effetto sociale della pratica del selfi e è sorprendente. Come giustamente ha osservato Boris Groys: “Ai pochi scelti che proponevano immagini e testi a milioni di lettori e spettatori sono subentrati milioni di produttori che emettono altrettante immagini e parole per uno spettatore, il quale non ha mai avuto tanto poco tempo per osservare”.Alimentando la varietà e un più democratico contagio estetico, nella pra-tica del selfi e viene promossa una tecnologia del sé esposta ai luoghi e agli stili, a quell’essere insieme che ci indefi nisce.

Tommaso Ariemma, dottore di ricerca in Filosofi a, insegna Estetica presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Immagini e corpi. Da Deleuze a Sloterdijk (Aracne 2010); Contro la falsa bellezza. Filosofi a della chirurgia estetica (Il melangolo 2010); Estetica. Ma-nuale per giovani artisti (Aracne 2012); Il mondo dopo la fi ne del mondo.

Facebook, l’arte contemporanea, la fi losofi a (et al. 2012); Estetica dell’evento. Saggio su Alain Badiou (Mimesis 2012); Il corpo preso con fi losofi a. Body building, chirurgia estetica, clonazioni (Il Prato 2013); Canone Inverso. Per una teoria generale dell’arte (Villaggio Maori 2014).

COME LO SPECCHIO, L’AuTOSCATTO O LA FOTO DI SÉDIVENGONO STruMENTI PEr ESAMINArSIALLA LuCE DEI CANONI CIrCOLANTI

FOrSE NON OCCOrrE SOLO VEDErE, COSÌ FOSSE SArEBBE SOLO uN VIrTuOSO ESErCIZIO DI rICONOSCIMENTO ESTETICO IL GuAr-DArE, E PEr TALuNI LO SArÀ. MI PIACE PENSArE CHE LA VISTA SIA uN VALOrE AGGIuNTO NON uN VINCOLO

Apologiadel selfi e

di Tommaso Ariemma Scritture‘

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S e mi chiedono se lavoro la risposta è indefinita, se mi chiedono cosa faccio anche.

È difficile sostenersi quando non si sta nelle definizioni, lo è ancora di più quando al contrario dentro e nel corso dei giorni si ha dimestichezza con la forma molle di sè, ne si conoscono i confini, seppur mutevoli.So che cos’è per me lavoro, lo costruisco da anni e da poco ho anche imparato da me stessa dove voglio mettere le energie, il tempo, in cosa voglio crescere, cosa voglio imparare, dunque si direbbe che io sia defi-nita, eppure mi tocca sempre tergiversare davanti alla domande secche e anti-materiche delle persone. Chiedermi: «Lavori adesso?» è una do-manda fuori dal tempo, non ha sostanza, è una domanda che aleggia su un livello fumoso, senza corpo. Allora la risposta diventa una serie di proposizioni, di specificazioni, si apre la vasta gamma delle possibili risposte. A volte semplicemente dico un no, definito, secco, lo dico pure con una certa spocchia, tiè, no non lavoro; ancora più bello è quando decido di affermare che sono contro il lavoro, che poi è vero, ma vai a spiegare…allora a volte non spiego e lo butto lì, una bella pietra.Quando lo faccio e se lo faccio è perché ho voglia di provocare qualcosa, metto un definito lì dove non c’è, per giocare alle differenze e vedere poi cosa accade, ma è un gioco pietra su pietra che spesso rimane duro, non costruisce ponti molli o scale a dondolo, di solito genera il successivo silenzio della relazione.Occorrerebbero domande più leggere per consentire risposte a capriola, proposizioni friabili.

L a massa corposa di me, quella che subisce mutazioni continue, a seconda dei vestiti, del momento, del ciclo, della capigliatura,

della stagione è la bussola della definizione, dell’unica possibile; è lei che risente e risponde, lei sa, lei sì, mi indica: sbruffa, s’arraffa, deride, sussulta, grida, definisce il mio sentire. Santa massa corporea, perché fai da àncora alla mente, perché salvi dalla complessità per forza e ovun-que… e santa materia altrui! La materia delle cose, santa e ineludibile: il ghiaccio del marmo di una panchina e invece il calduccio nel sedere che dà il legno, la liberazione dei piedi dai calzetti d’estate, la pastosità del cioccolato sotto la bocca, la goduria della schiena sull’erba, il battesimo dell’acqua gelida di maggio.L’indefinito si arresta sulle cose, sulla materia sensibile di cui è fatto ogni momento, a volersene accorgere.

IN DEFINITIVA NON C’È NIENTE DI DEFINITO.L’INDEFINITO CONDuCE AL MOVIMENTO, POrTA AL CAMBIAMENTO.DEFINITO È IL NIENTE

di Maira Marzioni

Il diritto dell’opacità

L’oltre - l’indefinito dell’essere #3

La premura dell’edera ha sottilissimi fili di seta,un anello di luce dono del giorno,canta e cammina lenta sulla superficie rischiosa,ha fede nel vento che la sposa e le solleva i verdi appigli.Nel vuoto più totale vola come non potrebbe, salva.E così noi, dal nero il germoglio che è il passo,il silenzio del respiro,la bellezza della nostra essenza,la salvezza ha il suono della prima parola,oltre.

Irene Ester Leo, nasce nel 1980 nella provincia di Lecce, dove vive. Laureata in Storia dell’arte moderna, è maestro d’arte (scultura e modellazione materie plastiche), critico d’arte, illustratrice. Ha pubblicato: Canto Blues alla deriva (Besa, 2006); Sudapest (Besa, 2009); Io innalzo fiammiferi (LietoColle, 2010) con prefazione di A. Anedda, Premio Letterario Nazionale di Calabria e Basi-licata I^ Edizione 2010 - Città di Trebisacce - primo classificato; Una terra che

nessuno ha mai detto (Edizioni della Sera, 2010) con prefazione di A. Leone; Cielo (La Vita Felice, 2012) con prefazione di Davide Rondoni; Senza ombre (Magazzino di Poesia di Spagine, 2014).

www.ireneleo.wordpress.com

Siamo ancora in grado di procedere ad occhi chiusi?Ascoltavo Camille Saint-Saens, (Danse Macabre), ho cominciato ad immaginare, ad ogni salire o scendere della musica mi sono prefigurata una proiezione unica di colori e profumi, pronta a farsi spazio nel nero della creazione simbolica della mente. Eppure quanto fa battere il cuore stringere al buio nel silenzio della notte la persona che amiamo, senza vederla. Percorrerne la pelle solo con il tatto, ridisegnarla e fissarla in maniera più profonda attraverso l’epidermide. Affidarci all’olfatto per ritrovare la strada di casa, sentire l’odore della panetteria all’angolo della strada, dell’erboristeria accanto all’edicola fino alla pioggia che ha reso vivo il respiro dei pini baciati dall’acqua. E poi il sapore dei biscotti caldi che slega tutta una serie di morbide sensazioni dell’infanzia.Forse non occorre solo vedere, così fosse sarebbe solo un virtuoso eser-cizio di riconoscimento estetico il guardare, e per taluni lo sarà. Mi piace pensare che la vista sia un valore aggiunto non un vincolo. Questo mi dico mentre scrivo alcuni versi sul mio taccuino viola che sarebbe viola anche se non lo vedessi, avrebbe l’odore dell’ambra e delle violette, il sapore delle more e la voce del vento di tramontana tra le sterpaglie. Il serissimo gioco della sinestesia così caro agli artisti è così straordinaria-mente fascinoso e radicato... Sarebbe bello, svegliarsi un giorno vedendo il suono delle cose, gustando il sapore del cielo, sentendo la fresca im-magine della gioia. Un noto critico scrisse che per amare un’opera d’arte occorre guardarla ma per comprenderla occorre chiudere gli occhi.Io stessa mentre scrivo, penso che il salto verso l’ignoto delle cose si muove su due livelli quello “visto’’ e quello “immaginato’’...e penso che le mie parole potrebbero somigliare se non avessero immagine icono-grafica convenzionale (consonanti e vocali) a questa musica. Mi fermo un secondo ad occhi chiusi a percepire l’ora di questo pomeriggio, senti-re la luce delle quattordici come una carezza di velluto piano e morbido, ha il sapore dell’uva rotonda nella forma anche, con quel lieve effluvio di rosa.Per assurdo la scrittura mi ha indotto alla cecità del plausibile. Ora per guardare posso anche smettere di “vedere’’. Ora “sento’’.

PER GUARDAREPOSSO ANCHE SMETTERE

DI VEDErE. ORA SENTO

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Poesia di Ilaria Seclì

ma potrei metterci vasi di fi orirossi su questi fi anchi larghiinutilizzati o bordarli di centrinitirolesi o farne autostrade d’accoglienzaper poeti frustrati barboni puttaneuna centrale di morte coraleper bruciare feticci di umanitàpagliaccia e defi ciente. o un cimitero di macchine e di memorieo un uffi cio delle cose perdute o incompiute o una calda sala d’accessosu confortevoli trampoliniper incipienti apnee o salvifi che mortio una bocca a precipizio sul mondoper salmodiare vomitare defecareo una tavola rotonda per sottoporre a mia Verifi ca progetti ad elevatissimocorrosivo letale Impatto Umano

non guarda non tocca non vuole a sé nonnon con cede non non solo […]

Non data fuga divisa amare e non avere cuorecuore che non ama e cura per separazione voladi fi ore in spada. fi ore del suo propriosconosciuto fi ore. vola fi ore ingeneratofi ore eterno mai dato. trafi tto occhio e non riposa. luce luce sollazzo ombratruce cosa intransitiva tersa mai stantetra arti e cosa che li tiene è stato il mare - sta -riposa, ronfa, muove, scuote, gonfi a, alzasi alza, impera, minaccia, copre, rovescia i cielimischia abissi e terre, trasforma gli elementifa dell’aria acqua e la respira e non germoglia e non riduce il canto canta di questo cantami questo fi ore eterno eterna resa eterna cosa disfatta e santa, cosa eterna cosa non detta, cosa che sgretola e rovinacosa che non muore, rosa nera, rosa vuotarosa e vento, sposa, sposa, aria.prendi, tieni, è questo, solo questosappi, dimmi, canta, la tua voce è questa cosastanca, non aspetta, stanca sposa, buia e bianca riposa sola. e dice non aspetto e aspetta un cantocantalo è un fi ore, il fi ore che non muore. e vuolee non vuole. cosa ferma, rosa al vetro, petalo prestatoreliquia del tempo che non è. non si tocca non si vedeè cosa lieve e pesa, è cosa lieve e pesa è lieve cosa e pesa e canta, canta di questo, dì che vedihai visto, sai, senti. è ciò che non arriva né provienericonosci, riconoscila. riconosci e canta cantami questo fi ore eterno eterna resaeterna cosa disfatta e santa, cosa eterna cosa non detta, cosa che sgretola e rovinacosa che non muore, rosa nera, rosa eterna e resaIl mio amore ha radici d’ acqua

Verifi cad’Impatto

Umano

tirolesi o farne autostrade d’accoglienzaper poeti frustrati barboni puttaneuna centrale di morte coraleper bruciare feticci di umanitàpagliaccia e defi ciente. o un cimitero di macchine e di memorieo un uffi cio delle cose perdute o incompiute o una calda sala d’accessosu confortevoli trampoliniper incipienti apnee o salvifi che mortio una bocca a precipizio sul mondoper salmodiare vomitare defecareo una tavola rotonda per sottoporre a mia Verifi ca progetti ad elevatissimocorrosivo letale Impatto Umano

Non data fuga divisa amare e non avere cuorecuore che non ama e cura per separazione voladi fi ore in spada. fi ore del suo propriosconosciuto fi ore. vola fi ore ingeneratofi ore eterno mai dato. trafi tto occhio e non riposa. luce luce sollazzo ombratruce cosa intransitiva tersa mai stantetra arti e cosa che li tiene è stato il mare - sta -riposa, ronfa, muove, scuote, gonfi a, alzasi alza, impera, minaccia, copre, rovescia i cielimischia abissi e terre, trasforma gli elementifa dell’aria acqua e la respira e non germoglia e non riduce il canto canta di questo cantami questo fi ore eterno eterna resa eterna cosa disfatta e santa, cosa eterna cosa non detta, cosa che sgretola e rovinacosa che non muore, rosa nera, rosa vuotarosa e vento, sposa, sposa, aria.prendi, tieni, è questo, solo questosappi, dimmi, canta, la tua voce è questa cosastanca, non aspetta, stanca sposa, buia e bianca riposa sola. e dice non aspetto e aspetta un cantocantalo è un fi ore, il fi ore che non muore. e vuolee non vuole. cosa ferma, rosa al vetro, petalo prestatoreliquia del tempo che non è. non si tocca non si vedeè cosa lieve e pesa, è cosa lieve e pesa è lieve cosa e pesa e canta, canta di questo, dì che vedihai visto, sai, senti. è ciò che non arriva né provienericonosci, riconoscila. riconosci e canta cantami questo fi ore eterno eterna resaeterna cosa disfatta e santa, cosa eterna cosa non detta, cosa che sgretola e rovinacosa che non muore, rosa nera, rosa eterna e resa

una delle mie migliori letture di sempre è stata

“Poetica del diverso” di Edouard Glissant in cui lo scrittore e antro-pologo creolo rivendica per tutti il diritto all’opacità, parlando di identità e appartenenze.L’opacità lungi dall’essere un pap-pone senza senso è una gustosa mistura di sostanze. A Martano, i monaci Cistercen-si producono un liquore giallo e trasparente che chiamano Gocce imperiali, D’Annunzio le descriveva come opale iridescenza: qui due consistenze materiche defi nite (in questo caso liquore a novanta gradi e acqua nella mistu-ra base, con infi nite variazioni: caffè, amaro, ghiaccio) collidendo ne formano un’altra che ne contiene entrambe, seppur in altra forma. Le due trasparenze inglobandosi diventano poetica opacità.L’opacità salva il pensiero dal rischio di con-siderarsi assoluto, mono-originato, uni-di-rezionato, l’opacità rende possibile l’abitare più stanze interne, l’essere originati da vari luoghi, da vari cuori, da differenti paesaggi, senza che questo faccia sfumare quel paesag-gio, quel luogo, quel cuore, quell’interno. È una mescolanza che mantiene il senso delle parti, ma facendole incon-trare genera il nuovo.Rifl ettevo pochi giorni fa, guardando i miei paren-ti, di come una delle più fortunate evoluzioni della specie sia stato l’uscire dal sistema endogamico: quanta fortuna c’è nel me-scolarsi a chi è diverso, a chi non appartiene alle stesse abitudini mentali e familiari, alle me-desime idiosincrasìe, è garanzia di evoluzione e cambiamento costante, perché da ogni spro-fondamento tra diversi uscirà qualcosa di ina-spettato, un indefi nito che prenderà la forma di qualcosa che prima non c’è mai stato.L’opacità è nodosa, non pulita, complicata, tiene insieme apparenti opposizioni, disturba la lucidi-tà e la rigidità, smuove le linee che congiungono i punti, rende possibili in ordini sparso: le traver-sate, i trans, le maschere, le lumache, il pomodoro nero, la pelle color cannella, l’ironia, il salto con l’asta, il suminagashi, il sushi, la pasta alla sicilia-na, il mare dalla punta di Leuca, la pizza con l’a-nanas, il colore viola, la bossa nova, la fase rem, la chantilly, la lingua, la musica, l’arte, l’ombelico…In defi nitiva, quando l’indefi nito è generato da due o più diversi materici affari, og-getti, accadimenti, quando è con questi giocato, rischiato, allora di-venta ciò che sal-va, conduce al mo-vimento, all’“oltre”, allo sgomento.

« Non è più necessario “comprendere” l’altro, cioè ridurlo al modello della mia stessa trasparenza, per vivere con lui o per costruire con lui »

Edouard Gliassant

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Letture

Il disturbo alimentare ti chiude in una prigione di giorni, mesi, anni di parole non dette, di sentimenti schiacciati, lacerati da un silenzio

assordante. Quando si è pronti a guardarsi, scavarsi dentro, ad entrare negli spazi più reconditi dell’anima e lasciare che tutto ciò che vi era nascosto veda la luce, allora si rinasce, ci si riscopre e le parole non diventano un nemico, una colpa, una paura ma diventano fi glie di un parto più grande che è l’amore verso se stessi, che è la vita. Da questo meraviglioso parto talvolta nascono libri che restano nel tempo come “Briciole” di Alessandra Arachi, dove anoressia e bulimia si incon-trano e si scontrano in Elena, la protagonista, dove la vita e la morte sono appese all’ago di una bilancia che continua a scendere. Prigionie-ra e vittima di un mostro creato con le sue stesse mani Elena ‘convive’ con il disturbo alimentare per anni, lasciando nel piatto l’amore non ricevuto, vomitando la sua inadeguatezza, digiunando l’oppressione della madre. “Soltanto scheletrica pensavo che avrei potuto avere il mondo ai miei piedi. E a pensarci ora non mi sarebbe nemmeno ba-stato”, leggiamo tra le pagine autobiografi che dell’Arachi. Ed eccola l’anima bulimica, affamata di attenzioni e di amore dei quali avrebbe potuto nutrirsene compulsivamente fi no a sentire l’anima sazia, fi no a volerne ancora, sempre di più. Il corpo poi è tutt’altro, è dall’altra parte del disturbo alimentare, quella che rifi uta il nutrimento fi no a che manca quello dell’anima. Elena ce la fa, dopo anni di guerre interiori, dopo i silenzi, i digiuni, le abbuffate e due dita in gola per gettare fuori tutto quello che non c’era. Dopo aver sfi orato la morte per aver così tanto digiunato dalla vita, l’attenzione di qualcuno di inaspettato la salva. Un’ emozione, essenziale, vitale. La lettere di quell’amico che a quel vizio mortale della droga non sapeva rinunciarvi, non voleva, al costo di tutto, anche al costo della vita. Quelle pasterelle condivise per un periodo troppo breve ma molto intenso, quelle pasterelle che fi nalmente acquistano un sapore, così come la vita per Elena, perché infondo come lei stessa conclude: “Qualcuno deve pur farcela…”

Ce la fa anche Emma Woolf, dopo quasi 14 anni di anoressia e quella che lei stessa defi nisce “ortoressia” - la quale è sempre

una branchia dei disturbi del comportamento alimentare - partorisce “Alla fi ne di un lungo inverno” e proprio da lì, proprio da quel gelido inverno che si espande al confi ne tra corpo e anima, Emma ripartirà, metterà con le spalle al muro “la bestia” attraverso la forza delle parole per cercare di “demonizzare l’anoressia”. Ossessionata dal peso, dal suo corpo, dalla fi ne di una storia che aveva generato dolore e rifi uto. Emma sentiva che il suo corpo era stato rigettato, rifi utato e proprio

Raccontare

Emma WoolfAlla fi ne di un lungo invernoTEA, 2013

Alessandra ArachiBricioleFeltrinelli, 2002

non ditegli che è disperso o annegatoo incerti imprevedibili percorsi.Non dite. Nella sabbia battono le suevene e i tronchi, non dite che non li trovateha forza di tuono ma sono mania migliaia aperte e le bocchespalancate al cielo. Non può un nome- non sfama né disseta –è altro il destino e altrovenell´ogniccosa che respira bassa e mutal´ogni destino minuto e sovrano che quiti porta, canto lontano che muove montagnee le porge alla tua guanciae porta il vento d´oro che bagnerà la boccase accovacciato e muto il respirogli sorprendi e la sua insonnia

Padre che vegli questo corpoin cristalli di viete vicinanzee con me avanzi a farne cantoe preghiera se quieto è il tempoquando diciamo ricco il nientee lo spazio vuoto tra pelle e pellelo chiamiamo aria e ventoe non feriscono i barbarisapendo che li muove la vogliadella patria che non hanno.Padre che vegli questo corposapermi orfana non ti dà pacema ti prego di curarla, vederlaquesta cosa inconsolabilemostrami cosa diventa lo spaziodi tanta lontananza.

Poiché il frutto del tuo seno lo conoscopoiché il frutto del tuo seno è mutonon alzi la mano al mio salutosai sempre dove sono ma non chiamiriempi i resti da buttare ma non dividi il panecasa scoperchiata che non fai restaremia insonnia che non mi dormi accantodifferita tra presente e vita, esilio, apneasedile vuoto accanto al mio, qui quitra quello che vedo della pioggiae quello che non cade, assente puntualissimotra l’uno e l’altro civico, tra letti e calanchibagagli spersi, chiavi, nulle proprietà.Poiché il frutto del tuo seno lo conoscomuseo del silenzio, sovrano del sottrattoe poco resto, insinuato vuoto tra un disegnoe l’altro, tra ciò che siamo e cosa diventiamoquando i bimbi se ne vannoe torna un vociare di sbeccati esordima non tornano i respiri né le mani.Poiché il frutto del tuo seno lo conosconon ti sfi do e non ti odio, ancora aspetto.

Ilaria Seclì, è nata a Ginevra, nel 1975. Vive e lavora tra Lecce, Parabita e Mas-safra dove insegna nella scuola primaria. Ha pubblicato D’indolenti dipendenze, Besa, 2005. Chiuderanno gli occhi, con Antonio Diavoli, Quaderni di Cantarena, 2007; dello stesso anno lo spettacolo teatrale, con Adamo Toma, tratto dalla rac-

colta inedita La sposa nera. Del pesce e dell’acquario, LietoColle, 2009. Nel tempo prima dei coman-di, Magazino di Poesia di Spagine, 2014.

di Rossella Assanti

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C i sono luoghi dove la parola non abita, non ha agibilità, abilità e si confonde, presa dal mormorare delle mente, ostaggio del malessere che spesso rende muti, lontani dall’ascolto.

Ci sono luoghi dove la coscienza perde la mira, ritrovarla è atto di creatività, implica lavoro, condivisione, nuovo nutrimento... Ci sono luoghi dove la “fra-gilità” abita muta, dove il valore diventa pena; lì c’è un piccolo giacimento di narrazioni da scovare da riportare in luce… ripartire dall’alfabeto, dalle lettere che lo compongono è un modo utile per rifondare le parole, il discorso, per dare verbi all’agire, al fare, al farsi pagina… un laboratorio allora, un laboratorio delle “fragilità” per mettere a confron-to esperienze. un gioco, una prova di coralità, di armonia: accordarsi per elaborare il “noi” e per poter porre rimedio alla “mancanza di fi ducia” nelle proprie virtù spesso mai sondate, sconosciute, tradite, poco valorizzate… per dare e darsi energia. Primo atto del laboratorio la realizzazione di un alfabeto, una collezione di caratteri che, nel corso del lavoro, permetterà al gruppo di accordare la ri-cerca e di creare parole. Parole essenziali, necessarie. La scrittura è il motore del lavoro, una scrittura intesa come segno evocativo capace di rappresen-tare senso ma valorizzata anche nella sua valenza estetica e formale. una scrittura fi nalizzata alla realizzazione di “artefatti comunicativi”, oggetti d’ar-te (libri, pubblicazioni, t-shirt, magneti, oggetti di design) riproducibili e da poter commercializzare ai fi ni della sostenibilità del laboratorio stesso.

Il gruppo di lavoro si incontra ogni giovedì dalle 15.00 alle 18.00 alle Manifatture Knos di Lecce

AbeccedarIOLAB/OrATOrIO FrAGILE NELL’AMBITO DI “GAP, LA CITTÀ COME GALLErIA D’ArTE PArTECIPATA” CONDOTTO DA MAURO MARINO IN COLLABOrAZIONE CON FRANCESCA MARCONI E COOrDINATO DA FRANCESCO MAGGIORE PrESSO LE MANIFATTuTE KNOS E IL CENTrO PEr LA CurA E LA rICErCA SuI DISTurBI DEL COMPOrTAMENTO ALIMENTArE DEL DSM DELLA ASL DI LECCE

per questo doveva essere punito. Il disturbo alimentare è anche una punizione che dai a te stessa, per quella che sei…o forse per quella che non sei, per quella parte di te che non va al ritmo del mondo o degli altri, per quella nota stonata che si prende tutto e spezza ogni corda fi no a far cessare la melodia. Emma rifi uta-va il cibo per rifi utare se stessa. Chilometri di strada a correre, a schiacciare l’asfalto nel tentativo futile di calpestare la rab-bia, la delusione, il dolore, la paura. Impossibile non averne. Quella parte sana schiacciata e minacciata dalla malattia ha costantemente paura di quegli artigli pronti a graffi are, in qualsiasi momento. Ci sarà sempre una parte che lotterà per

la vita, nascosta in qualche angolo di cuore dove le pulsa-zioni non cesseranno di mandare in circolo quella fl ebile voce,

che diventa un eco, che il disturbo alimentare cercherà sempre di prendersi, di fare terra bruciata di tutto quello che di buono c’è. Ma non ce la fa, non è una guerra ad armi pari, eppure non si può

che vincere. E’ un mostro che nasce dai punti deboli, ignaro del fatto che un giorno quelli forti avranno la loro rivincita. Per

questo Emma ce la fa, unisce cibo e amore. Curerà il corpo iniziando ad assumere tutto quello che pre-

cedentemente le faceva più paura per riuscire ad essere al tempo stesso balsamo per l’anima, insieme a quell’amo-

re che non colmerà i vuoti ma creerà altri spazi vitali, quelli fondamentali, necessari a riprendersi la vita e lentamente cercare di crearne un’altra che sarà quel-la di un fi glio, non appena il corpo sarà pronto per essere una culla sicura. Emma ora non raccomanda altro: “Take care of

your self…”

Il disturbo del comportamento ali-mentare è un mondo vasto fatto di in-

fi nite sfumature, di storie differenti eppure legate da un fi lo invisibile, lo stesso che ci

porta ad unire “Volevo essere una farfalla” di Michela Marzano con “Per fortuna c’era-

no i pinoli” di Margherita De Bac. Entrambe le protagoniste dei libri hanno sul corpo i segni di

una lunga guerra che sembrava segnare la fi ne ed invece ha solo generato un nuovo inizio. Entrambe si giocavano la vita a numeri di bilancia, tra le parole non dette e muri pronti ad alzarsi contro tutto il resto. Per entrambe, come per tutti coloro che soffrono di un disturbo alimentare, il cibo sembra essere il miglior monologo da avere con il mondo. Alla fi ne ce la fanno, affondano una bandiera di pace su quel terreno fertile che segna il confi ne tra se stesse e gli altri. Sarà la vita a cantare vittoria ed il corpo non sarà più un perfetto estraneo, un nemico, ma fi nalmente avrà il posto di amante dell’anima.

per questo doveva essere punito. Il disturbo alimentare è anche una punizione che dai a te stessa, per quella che sei…o forse per quella che non sei, per quella parte di te che non va al ritmo del mondo o degli altri, per quella nota stonata che si prende tutto e spezza ogni corda fi no a far cessare la melodia. Emma rifi uta-va il cibo per rifi utare se stessa. Chilometri di strada a correre, a schiacciare l’asfalto nel tentativo futile di calpestare la rab-bia, la delusione, il dolore, la paura. Impossibile non averne. Quella parte sana schiacciata e minacciata dalla malattia ha costantemente paura di quegli artigli pronti a graffi are, in qualsiasi momento. Ci sarà sempre una parte che lotterà per

la vita, nascosta in qualche angolo di cuore dove le pulsa-zioni non cesseranno di mandare in circolo quella fl ebile voce,

che diventa un eco, che il disturbo alimentare cercherà sempre di prendersi, di fare terra bruciata di tutto quello che di buono c’è. Ma non ce la fa, non è una guerra ad armi pari, eppure non si può

che vincere. E’ un mostro che nasce dai punti deboli, ignaro del fatto che un giorno quelli forti avranno la loro rivincita. Per

questo Emma ce la fa, unisce cibo e amore. Curerà il corpo iniziando ad assumere tutto quello che pre-

cedentemente le faceva più paura per riuscire ad essere al tempo stesso balsamo per l’anima, insieme a quell’amo-

re che non colmerà i vuoti ma creerà altri spazi vitali, quelli fondamentali, necessari a riprendersi la vita e lentamente cercare di crearne un’altra che sarà quel-la di un fi glio, non appena il corpo sarà pronto per essere una culla sicura. Emma ora non raccomanda altro: “Take care of

your self…”

Michela MarzanoVolevo essere una farfallaMondadori, 2011

Margherita De BacPer fortuna c’erano i pinoliNewton Compton, 2014

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QuANDO LA BELLEZZA È VErA NON È PErFETTA O IDEALE,PuÒ DurArE IN ETErNO, CI PErMETTE DI INNAMOrArCIDELL’IMPErFEZIONE, DELLA FrAGILITÀ

L’abito eticouN LAB/OrATOrIO CONDOTTO DA SANTA SCIOSCIO

I l laboratorio “Abito Etico” – avviato nello scorso mese di maggio all’in-terno del Centro per la Cura e la ricerca sui Disturbi del Comportamen-to Alimentare della Asl di Lecce - è nato con il presupposto di far incon-

trare due ambiti apparentemente diversi e lontani: Alimentazione e Moda. In comune, un solo e fondamentale denominatore: il Corpo. Nelle attese, nei tentativi, nei sospiri, nella predisposizione al ricevere, nell’intimo d’ognuno, nell’incompiuto consumato nel lungo tempo della fragilità, vedo la bellezza: autentica, sussurra l’unicità, la genuina qualità, la spontaneità.Mi sembra possibile ricomporre il signifi cato profondo: portare il senso del sé dallo stato latente alla vita, nel momento in cui scorgo il sorriso e la me-raviglia dei ragazzi nel vedere tradotta e restituita la loro identità, in forme e colori. Si meravigliano del sé che si manifesta, si palesa con il fare. Gli occhi non tradiscono! Quando la bellezza è vera non è perfetta o ideale, può du-rare in eterno ci permette di innamorarci dell’imperfezione, della fragilità.Nel voler dare forma all’abito etico ho chiesto in prestito ricordi, vissuti, emozioni. L’imprevisto, l’asimmetria, l’irregolarità, la deviazione, l’impreci-sione, la cicatrice sono proprietà intrinseche al vissuto, all’umano e contri-buiscono a rendere speciale ogni persona. Segni descrittivi d’identità, che disvelano e confermano il sé attraverso il fi lo, la cucitura. La superfi cie tutt’altro che superfi ciale diviene il testo che vestirà il corpo. una texture che racconta l’essere con originalità e singolarità.

Lab/oratori

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LA SETTIMA EDIZIONE DELLA CAMPAGNA E DELLA MANIFESTAZIONE INTErNAZIONALE DI SENSIBILIZZAZIONE Su ANOrESSIA, BuLIMIA, OBESITÀ E ALTrE IN/DIFFErENZE. UN PROGETTO DI SALOMÈ E BIG SUR

Pe(n)sa differente.Festeggia il tuo peso naturale!I DCA sono patologie psichiatriche emergenti che si stanno diffonden-do con notevole rapidità e riguardano fasce sempre più ampie di po-polazione determinando un impatto economico sempre più consistente sul Servizio Sanitario Nazionale. Affliggono all’incirca 3.000.000 di persone in Italia e rappresentano la seconda causa di morte tra gli ado-lescenti di sesso femminile dopo gli incidenti stradali. Si è abbassata l’età di esordio della patologia e sono aumentati i casi di cronicità con un aggravamento della prognosi e la necessità di un trattamento diffe-renziato e complesso. Appare, pertanto, quanto mai urgente elaborare e coordinare interventi preventivi, terapeutici e riabilitativi che affron-tino patologie mentali gravi spesso croniche e che presentano compli-canze fisiche e comorbidità psichiatriche, gestite spesso ancora oggi da personale non specializzato e in luoghi non idonei con notevole dispendio di risorse economiche e scarsi risultati.Pe(n)sa differente. Festeggia il tuo peso naturale! è campagna e ma-nifestazione internazionale di sensibilizzazione, informazione e for-mazione su anoressia, bulimia e obesità (e altre in/differenze) che ha preso l’avvio nel 2008 all’interno del progetto ministeriale nazionale ‘Le buone pratiche di cura e la prevenzione sociale dei DCA’ - Proto-collo di Intesa tra Ministero della Gioventù e Ministero della Salute / programma nazionale ‘Guadagnare la Salute. Rendere facili le scelte salutari’. Ideata e organizzata da ONLUS Salomè, associazione scientifico-cul-turale e Big Sur, laboratorio di comunicazione con la direzione scien-tifica di Caterina Renna e la direzione artistica di Francesco Maggiore, si configura quale azione di prevenzione universale e selettiva dei di-sturbi dell’alimentazione e dell’obesità e propone campagne di comu-nicazione sociale, approfondimenti scientifici, culturali, sociali e arti-stici che abbracciano i temi dell’alimentazione, della cultura, dell’arte e dello sport. Pe(n)sa differente. Festeggia il tuo peso naturale! promuove la cura di sé e vuole essere un invito a un percorso di costruzione personale

che passi attraverso la resistenza alle attuali forme di mercificazione e omologazione. Una celebrazione della soggettività che si manifesta come diritto al pensiero critico, alla differenza e alla variazione. Per valorizzare l’unicità e la novità che ogni persona essenzialmente è, con le sue potenzialità espressive, l’unicità dell’essere persona e la bel-lezza autentica che non sono determinate da un numero sulla bilancia quanto piuttosto dall’accettazione del sé inteso come unità psichica, fisica, emozionale e intellettuale che ha bisogno del giusto nutrimento in termini di alimenti, attività fisica, esperienze sociali e culturali che aiutano a maturare la propria autonomia accrescendo l’autostima.La manifestazione, evento unico in Italia, in linea con manifestazioni di altri Paesi quali il Canada Eating Disorder Awareness Week, l’In-ghilterra International No Diet Day e gli Stati Uniti I’m beautiful the way I am, si propone di celebrare la differenza fisica, mentale ed emo-zionale, inneggiare al pensiero libero da ogni omologazione, festeggia-re la bellezza in tutte le sue forme, perché ogni persona è unica, ogni bellezza è autentica e ogni ‘differenza’ è un valore. Rappresenta un momento di incontro tra la popolazione e le differenti professionalità in ambito scientifico, culturale e artistico, in cui competenze diversifi-cate collaborano alla creazione di una rete che sappia mettere in dialo-go forme integrate di prevenzione e trattamento. L’obiettivo è quello di sensibilizzare sul concetto del peso naturale, sulla sana alimentazione, sull’attività fisica salutare, sui messaggi ambigui relativi all’immagine corporea proposti dai media, sulle mistificazioni dell’industria della dieta, della moda, dello spettacolo e della bellezza, sulle opportunità di cura. Tratto distintivo di Pe(n)sa differente! è la capacità di mettere in relazione l’approccio scientifico con quello divulgativo, scegliendo una modalità di comunicazione informale, diretta e coinvolgente. La parola del claim ‘Pe(n)sa’ contiene in sé due accezioni, l’una si riferi-sce al peso che è determinato da molti fattori tra i quali quelli genetici e che quindi non può essere un numero ideale valido per tutti, l’altra si riferisce alla necessità di pensare, ciascuno con la propria testa, al fine di elaborare il proprio modo originale di essere nel mondo. Il marchio/simbolo di Pe(n)sa differente è una corona di carta che suggerisce un atto performativo: indossarla e portarla con sé per ‘festeggiarsi’ per quello che si è e mostrare a tutti ‘la regalità della propria bellezza au-tentica’.

Questo numero de L’Osservatore in cammino è dedicato alla 7a edizio-ne di Pe(n)sa differente. Festeggia il tuo peso naturale! che ha luogo a Lecce (Italy) il 12/13/14 giugno 2014

Eventi

uN NuOVO STruMENTO PEr POrrE ArGINE AI DISTurBI DEL COMPOrTAMENTO ALIMENTArE

C’è MadamaDorèSi è costituita a Lecce, l’Associazione di Promozione Sociale Mada-maDorè, presieduta da Anna Lucia Graziuso riunisce familiari, ami-ci e pazienti che insieme si propongono, come compito primario, di sostenere e aiutare concretamente le persone affette da Disturbi del Comportamento Alimentare e da Obesità, le loro famiglie e quanti vi-vono vicino a chi presenta queste problematiche, di tutelarne i diritti combattendo i pregiudizi e promuovendo azioni dirette per sensibiliz-zare l’opinione pubblica relativamente alle problematiche dei disturbi del comportamento alimentare, dell’obesità e del disagio esistenziale.Altro impegno, nello statuto dell’Associazione, il voler sollecitare l’at-tenzione dello Stato, della Regione e degli Enti Locali e delle forze politiche affinché promuovano e sostengano iniziative atte a miglio-rare le condizioni di assistenza e di vita delle persone affette da DCA e da Obesità, attraverso azioni legislative, normative e assistenziali a sostegno dei servizi attivi sul territorio.Una sollecitazione alle Istituzioni che non esclude il mutuo aiuto, l’Associazione infatti si impegna a collaborare con i servizi preposti alla cura e all’assistenza per favorire la presa in carico, la continuità terapeutica e riabilitativa e di sostenere le attività dei servizi per il trattamento dei DCA e dell’obesità attraverso la collaborazione diretta

e la raccolta di donazioni da destinare ai suddetti servizi per attivare, sviluppare e mantenere attività di assistenza e riabilitazione in favore di persone affette da queste problematiche. Cari a MadamaDorè anche i temi della prevenzione e della ricerca, l’Associazione si prefigge nelle norme statutarie di stimolare e soste-nere le iniziative di prevenzione primaria e secondaria ed eventi di sensibilizzazione, informazione e formazione e di predisporre e favo-rire la pubblicazione di libri, riviste e notiziari atti alla diffusione delle informazioni e delle conoscenze sui temi.

L’illustratrice argentina Bela Abud è ospite della settima edizione di Pe(n)sa differente

di Caterina Renna

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pensa-differente.itlosservatoreincammino.it

Editore: Big Sur s.c.r.l.

Direttore responsabileMauro Marino

Responsabili progettoCaterina Renna (Salomè Onlus)Sergio Quarta, Francesco Maggiore (Big Sur)

In redazioneLe ragazze e i ragazzi del ‘Centro per la Cura e la Ricerca sui Disturbi del Comportamento Alimentare’ (DSM, ASL LE)Rossella Assanti,Silvia Dongiovanni,Maira Marzioni,Caterina Renna,Andrea Sagni,Santa Scioscio

Hanno collaborato alla realizzazionedi questo numero:Tommaso Ariemma,Ilaria Caprioglio,Irene Ester Leo,Michela Marzano,Ilaria Seclì

Progetto graficoFrancesco Maggiore

ImpaginazioneEnrico Rollo IllustrazioniChiara Spinelli

Big Sur, immagini e visioniSede legale: via A.G. Coppola n°373100 LecceTel. 0832.346903 mail: [email protected]

Pubblicità: Big Sur – immagini e visioniTel./fax 0832.346903 – Mobile 347.1040009e-mail: [email protected]

Chiuso in redazione il 05/06/2014Iscritto al Registro della Stampa del Tribunale di Lecce n. 4 del 28 gennaio 2014

Stampa: Arti Grafiche Panico. Galatina (Le)

losservatoreincammino.it

L’osservatore in camminoANNO I - n° 1

Dall’anoressia, dalla bulimia e dagli altri disturbi dell’alimentazione si può guarire!

Parlane con la tua famiglia e col tuo medico o chiedi informazioni a:

Centro per la Cura e la Ricerca sui Disturbi del Comportamento AlimentareTel. 0832.215697

Campagna di informazione e sensibilizzazione sui Disturbi del Comportamento AlimentareAnoressia, bulimia e altri disturbi dell’alimentazione

a cura di ASL LecceDipartimento di Salute Mentale

Centro per la Cura e la Ricerca sui Disturbi del Comportamento Alimentare