Martin Heidegger Kant e Il Problema Della Metafisica 2006[1]
Martin Heidegger - In Cammino Verso Il Linguaggio
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PENSIERO FILOSOFICO - LIBRI CONSIGLIATI
Martin Heidegger - In cammino verso il linguaggio
Unterwegs zur Sprache
Si tratta di un'opera del secondo periodo di Heidegger,
che raccoglie brevi saggi editi, conferenze, e un testo
inedito. Anche se con qualche ripetizione, il libro si
presenta con un carattere abbastanza unitario: non è fra i
più densi di Heidegger, dal punto di vista filosofico, ed è
spesso studiato dal punto di vista dell'estetica. Tuttavia i
riferimenti alla propria visione filosofica sono continui, e
guidano tutte le riflessioni, poetiche e non; anzi, per
poter comprendere il testo è necessario avere una
conoscenza previa dei capisaldi della filosofia di H.,
altrimenti non vi si riesce a trovare un punto fermo a cui
ancorarsi.
In questa recensione, a un'esposizione sommaria del
contenuto dell'opera seguirà un'esposizione più dettagliata di ogni breve
saggio: vi sono numerosissime citazioni perchè il linguaggio di Heidegger è
assolutamente peculiare, e nella sua visione della filosofia la singola parola ha
un ruolo insostituibile; non si tratta solo di precisione concettuale, ma anche di
evocazione; di ciò che la parola suggerisce e lascia parlare "attraverso se
stessa. Spesso H. è intraducibile, perchè crea parole nuove, piegandole
all'esigenza del suo pensiero. Egli rifiuta per "principio" (diciamo così, ma c'e
dietro un discorso molto lungo) il discorso fondativo; per questo si cercherà
invano in quest'opera una giustificazione logico-teoretica delle affermazioni. H.
cerca invece di "far vedere" una realtà difficile da contemplare, senza dare
dimostrazioni: ovviamente un discorso del genere si presta ad arbitrarietà
abbastanza macroscopiche.
Nelle citazioni indichiamo —ove non vi siano specificazioni in contrario— la
pagina della traduzione citata. Bisogna tener presente che in tedesco tutti i
sostantivi hanno la lettera maiuscola per cui la traduzione di "Essere", "Dire",
con le maiuscole è una scelta arbitraria del traduttore, che è rifiutata da altri
studiosi di H.
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Nell'esposizione dell'opera e nella scelta delle citazioni, abbiamo privilegiato
quei passi che meglio chiariscono la posizione complessiva di H., e che
espongono il suo "metodo" filosofico, esponendo invece per sommi capi le
analisi filologiche o ermeneutiche sulle poesie, che pure potrebbero aver avuto
un certo interesse.
ESPOSIZIONE D'INSIEME
L'indice dell'opera è il seguente:
I. Il linguaggio . . . . . . . . . . p.27
II. Il linguaggio della poesia. Il luogo del poema di Georg Trakl. p.45
III. Da un colloquio nell'ascolto del linguaggio . . p.83
IV. L'essenza del linguaggio . . . . p.127
V. La parola . . . . . . . . . . . . p.173
VI. I1 cammino verso il linguaggio . . p.189
Nota al testo . . . . . . . . . . . . p. 215
Heidegger riprende la sua tesi fondamentale secondo cui tutta la storia della
metafisica, dai Greci fino a lui, è una storia dell'oblio dell'essere; la metafisica
ha parlato degli enti, e ha ridotto Dio a un ente, ma ha ignorato l'essere (con la
E maiuscola o meno, non si sa), riducendo il pensare a un pensare "calcolante",
che ha la sua compiuta realizzazione nella tecnica moderna, come espressione
ultima della volontà di potenza (o "volontà di volontà") che è anche all'origine
della metafisica. Le consuete categorie, e il principio di causalità valgono per gli
enti, ma non per l'essere: l'essere quindi può essere colto solo in un pensare
"radicale", che non cerca dimostrazioni, "fondazioni", ma cerca nel linguaggio di
un'epoca le tracce dell'essere e del suo modo di rapportarsi all'uomo, e
—attraverso l'uomo, che è "esser-ci"— al mondo delle cose.
Questo pensiero è quindi un pensiero "rammemorante", che si avvale delle
ricerche filologiche ed ermeneutiche, ed è vicino alla poesia, anche se se ne
differenzia. L'essere non si rivela mai pienamente; mentre si dà si ritrae e
rimane velato. La verità è dis-velamento (a-lètheia), è presenza dell'essere,
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che mentre si dà (es-gibt: c'è) nell'ente, si ritrae. L'essere si dà nella parola: il
linguaggio è un luogo privilegiato di manifestazione dell'essere. E' prima
dell'uomo perchè gli è dato, ed è sopra l'uomo. Non è —propriamente— l'uomo
che parla, ma è il linguaggio che parla nell'uomo. Per questo bisogna
"ascoltare", porsi in un atteggiamento di ricezione e di ascolto, di accettazione
del messaggio dell'essere, senza voler dominare, misurare, calcolare. Bisogna
ascoltare, specialmente il linguaggio poetico.
Si avvicina una nuova epoca in cui la metafisica sarà superata (a questo allude
il cap.II); ma H. non dice se in quest'epoca l'essere si manifesterà, o vi sarà un
nuovo modo di "nascondimento" dell'essere, dopo quello dell'epoca della
metafisica. Del resto l'uomo non può fare molto per anticipare questa nuova
epoca: solo porsi in un atteggiamento di disponibilità e di ascolto. Nelle ultime
opere, e nell'ultimo capitolo di questa, H. parla molto dell'Ereignis (l'evento,
come appropriazione-espropriazione), che sarebbe più originario e più ricco
dell'essere, e a cui bisogna risalire per cogliere l'essenza più profonda del
linguaggio. Come si vede, quindi, la riflessione sul linguaggio è riflessione
sull'essenza stessa della realtà e dell'uomo.
Un' ultima precisazione: quando H. parla di "sacro", di "dei" o "divini", non si
deve intendere una prospettiva religiosa o teologica: si tratta di una "sacralità"
di tipo totalmente profano, e totalmente "al di qua" di un avvicinamento a Dio.
ESPOSIZIONE ANALITICA
Il linguaggio
Si tratta di una riflessione sul linguaggio svolta "dall'interno". "E' al linguaggio
che va lasciata la parola"(28). La nostra riflessione è un prendere dimora
presso il linguaggio.
"Considerare il linguaggio come espressione significa vederlo nella sua
esteriorità"(29). "In realtà nessuno dovrebbe dichiarare inesatte le definizioni
del linguaggio come espressione fonica di moti interiori dell'animo, come
attività umana, come rappresentazione figurativo-concettuale o rifiutarle come
inutili". Quello che però sfugge è il carattere "più antico" del linguaggio,
peculiare. Per coglierlo bisogna esaminare la "parola pura", la poesia. H.
esamina la poesia Una sera d'inverno, di Georg Trakl e svolge le sue
considerazioni mentre la illustra. La poesia è a p.31 del testo.
Una sera d'inverno
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Quando la neve cade alla finestra,
A lungo risuona la campana della sera,
Per molti la tavola è pronta
E la casa è tutta in ordine.
Alcuni nel loro errare
Giungono alla porta per oscuri sentieri.
Aureo fiorisce l'albero delle grazie
Dalla fresca linfa della terra.
Silenzioso entra il viandante;
Il dolore ha pietrificato la soglia.
Là risplende in pura luce
Sopra la tavola pane e vino.
"Il linguaggio nella sua essenza non è né espressione né attività dell'uomo. Il
linguaggio parla. Noi ricerchiamo ora il parlare del linguaggio nella poesia. Ciò
che si cerca è, pertanto, racchiuso nella poeticità della parola"(33). Il parlare
nomina. "Il nominare (...) non applica parole, bensì chiama entro la parola. Il
nominare chiama. Il chiamare avvicina ciò che chiama (..). Il luogo dell'arrivo
che è con-chiamato nella chiamata è una presenza serbata intatta nella sua
natura di assenza (...). Il chiamare è un invitare. E' un invito alle cose a essere
veramente tali per gli uomini" (34-35).
Le cose che la poesia nomina adunano "il quadrato" (Geviert). Esse sono
chiamate nella loro essenza. "Il terzo e il quarto verso della seconda strofa (...)
dicono al mondo di venire" (36), e facendo ciò, additano al mondo le cose. "Il
mondo concede alle cose la loro essenza. Le cose fanno essere il mondo. Il
mondo consente le cose" (37). Mondo e cose sono realtà che si compenetrano,
e passano attraverso una linea mediana che è la loro intimità e li rende uniti.
"L'intimità di mondo e cosa è nello stacco (Schied) del frammezzo, e nella
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dif-ferenza (Unter-Schied). (...) La dif-ferenza di cui qui si parla esiste solo
come quest'una. E' unica. (...) La differenza in quanto linea mediana, media il
realizzarsi del mondo e delle cose nella loro propria essenza, cioè stabilisce il
loro essere l'uno per l'altro, di questo fondando e compiendo l'unità"(37). La
differenza non è nè distinzione, nè relazione: "è semmai la dimensione del
mondo e delle cose" (38). Nella poesia la differenza a individuata nella"soglia"
(v.10), e "il dolore è ciò che congiunge nello spezzettamento che divide e
aduna" (39).
H. stesso, alla fine della conferenza, ne riassume il percorso: "Il linguaggio
parla. Il suo parlare chiama la dif-ferenza, la quale porta mondo e cose nella
semplicità della loro intimità, consentendo loro d'essere se stesse.
(...) L'uomo parla in quanto corrisponde al linguaggio. Il corrispondere è
ascoltare. L'ascoltare è possibile solo in quanto legato alla Chiamata della
quiete da un vincolo di appartenenza. (...) Quel che solo conta è imparare a
dimorare nel parlare del linguaggio" (43).
Il linguaggio nella poesia. Il luogo del poema di Georg Trakl
Una lunga ricognizione su testi poetici di Trakl, per scoprire il "luogo" (Ort: quel
che riunisce a sé, penetrando di sé tutto il resto; in origine "la punta della
lancia") del poema di Trakl. Poichè ogni vero poeta scrive a partire da un
poema, che non viene mai completamente esplicitato. Si tratta di una
Erörterung (lett. "trattazione", "commento", ma qui nel senso anche di "situarsi
nel luogo di") che aiuta all'ascolto di un problema.
Un verso di T. molto commentato è:
E' l'anima straniera sulla terra
Straniera non nel senso platonico. In realtà cerca la terra, non la sfugge.
Compare spesso l'"azzurro": "L'azzurro stesso è —grazie alla sua profondità che
raccoglie (il disperso), e che splende solo nell'occultamento— il Sacro"(51).
"Fiera azzurra" è l'uomo, animale che non ha ancora fissato il suo vero essere e
sul quale "il Sacro riflette la sua luce". Un'altra figura ricorrente è lo straniero.
La stirpe umana (das Geschlecht) è stata colpita da maledizione: la
"dilacerante discordia dei sessi" (55). Essa porta alla dualità e alla
individualizzazione egoistica. La dualità deve trapassare "nella mitezza di una
duplicità che è insieme semplicità o unità"; questo avviene per la stirpe che
segue lo straniero che conduce "nell'azzurro della sua notte". "Lo straniero è
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l'altro rispetto agli altri, cioè alla stirpe in disfacimento"(55). Lo straniero
peregrinante si chiama der Abgeschiedene (il dipartito). Poichè è il motivo
centrale di Trakl, "noi chiameremo il luogo della sua poesia la dipartenza (die
Abgeschiedenheit) (lett. anche: solitudine, isolamento, segregazione) (56).
Il dipartito è in cammino verso un altro luogo. Ha una follia "mite". "Questo
straniero dispiega il vero essere dell'uomo portandosi agli inizi di ciò che ancora
non è giunto a gestazione (...)" (59): questo momento è il "non-nato".
Il "mattino", l'inizio della stirpe non nata custodisce l'essenza del tempo. "Tale
essenza continuerà a rimanere preclusa al pensiero oggi dominante, finchè
vigerà la concezione del tempo che da Aristotele in poi è ancora dappertutto
determinante. Secondo questa il tempo (...) è la dimensione del calcolo
quantitativo o qualitativo della durata che si svolge nella successione. Ma il
tempo vero è l'avvento di ciò che è stato. Questo non è il passato, ma il
raccogliersi di ciò che è, il quale precede ogni avvento nell'atto che, in quanto
appunto raccogliersi, si ritira e cela entro la sua perenne priorità" (60).
"La dipartenza è geistlich, trae origine e accento dal Geist, dallo spirito, ma non
è geistig in senso metafisico. (...) Lo spirito è fiamma e, solo forse come tale,
soffio. (...) Il male è spirituale (geistlich) in quanto è l'erompere, a modo di
fiamma che trascina e acceca, di una forza che sconvolge, che porta nella
dilacerazione del funesto e minaccia di bruciare il com-posto fiorire della
mitezza. (...) In quanto l'essenza dello spirito consiste nel fiammeggiare lo
spirito apre la via, la rischiara, mette in cammino" (63). L'illuminazione si
compie nello sguardo contemplante. Il "fiammeggiante contemplare" è il
dolore, che penetra tutto ciò che vive. "Il dolore non è né l'avverso, né l'utile. Il
dolore è il dono del vero essere per tutto ciò che è" (66).
"La dipartenza è l'adunamento grazie al quale l'essere umano viene riaffidato
alla quiete della sua fanciullezza e questa agli albori di un altro inizio. In quanto
adunamento, la dipartenza ha la natura del luogo (Ort)" (68-69).
Poetare è "dire ascoltando", ma prima di tutto ascoltare. "La dipartenza assume
dapprima l'ascoltare entro la propria eufonia, affinchè questa penetri di sé il
dire che la ridice. La frescura lunare dell'azzurro sacro della notte spirituale
penetra del suo suono e della sua luce ogni visione e ogni dire. La parola di
questo dire diventa così un ridire: diventa poesia. In e per quel che giunge a
espressione il poema resta custodito come il per essenza inespresso" (71).
Dio si nasconde a tentativi di conquista (concettuale).
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Il linguaggio della poesia di Trakl "parla in quanto 'corrisponde' a quell'essere in
cammino in cui è e procede lo straniero. Il sentiero sul quale questi si è avviato
porta lontano dalla vecchia stirpe degenerata: conduce nel tramonto che è
passaggio in quel mattino della stirpe non nata, che permane, serbato
nell'avvento" (73).
Nel linguaggio di Trakl parla "l'essere in cammino della dipartenza". Il
linguaggio della poesia è polisenso in sé, e nel contesto del poema. "La
polifonia del poema trakliano proviene da un punto unificante, da una monodia
che, in e per sé, resta sempre indicibile" (74-75). E' una molteplicità di
significati che "non è l'imprecisione di chi lascia correre, bensì il rigore di chi
lascia essere" (75), conseguenza di un "retto contemplare". In altri poeti la
pluralità di significati è l'indeterminatezza di chi va a tentoni. Invece il
linguaggio polisenso di Trakl è, in senso più alto, così univoco da risultare
infinitamente superiore anche ad ogni esattezza tecnica che possa essere
raggiunta da un concetto la cui univocità sia quella propria della scienza" (75).
Trakl parla di "terra d'occidente", cioè "terra della sera", e di una stirpe: indica
non l'unità biologica, ma "quella forza unificante che unisce muovendo
dall'azzurro della notte spirituale (77).
La poesia di Trakl è astorica? E' storica (geschichtlich) nel senso più alto. "La
sua poesia canta il destino destinante (Geschick) del segno che, segnando di sé
la stirpe umana, la porta alla verità, sempre ancora in serbo, del suo essere, e
così la salva" (78).
"L'anima è in cammino verso la terra della sera. Regna su questa lo spirito della
dipartenza e la fa 'spirituale' (...). Una Erörterung del poema di Trakl ci
presenta questo poeta come il poeta della terra della sera ancora indisvelata"
(79).
Da un colloquio nell'ascolto del linguaggio
Dialogo fra due personaggi, un giapponese (G) e un "Interrogante" (I), che
sarebbe H. stesso, in tono esoterico e sacrale. Nelle citazioni testuali,
indicheremo se parla G o I solo quando è utile distinguere.
Il colloquio inizia con un chiarimento da parte di H. delle sue posizioni e di cose
scritte anni prima. In seguito, I principalmente interroga G su come l'essenza
del linguaggio viene "detta" in giapponese. E' un dialogo cortese, non un
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dibattito; entrambi sono alla ricerca di un qualcosa che viene "svelato" dal
linguaggio stesso che "parla" nel colloquio. Per questo, i due si lasciano portare
a frequenti divagazioni: nell'indeterminato il linguaggio viene meglio a parola.
La lingua giapponese è povera di concetti; c'è il pericolo "che noi ci lasciamo
traviare dalla ricchezza dell'elemento concettuale" europeo, "e svalutiamo come
qualcosa di indefinito e vago ciò che rivendica cotto la sua signoria il nostro
modo di esistere"
I due vedono una grossa difficoltà: parlare del linguaggio e della cultura
giapponese in tedesco corre il rischio di alterare tutto il senso. La terranno
molto presente e modereranno le loro pretese.
I tratteggia il suo percorso speculativo: Brentano e l'essere in Aristotele, Duns
Scoto, la fenomenologia di Husserl, specialmente le Ricerche logiche, e
l'interesse per il linguaggio, nato con gli studi di teologia e di ermeneutica
(Schleiermacher, ma anche Dilthey).
I vuole cercare "se alla fine (...) possa giungere all'esperienza pensante
un'essenza del linguaggio, la quale offra la certezza che il dire europeo-
occidentale e il dire asiatico-orientale vengano a colloquio in un modo nel quale
risuoni l'eco della stessa sorgente" (88).
I ripercorre le sue tappe perchè "la provenienza è futuro", e "come cominciasti,
così rimarrai" (Hölderlin).
Bisogna eliminare il voler sapere, che impedisce l'interrogare pensante e
l'ascolto; si appella in fondo alla razionalità di una ragione autofondata.
G parla a proposito dell'estetica, della distinzione simile a quella
sensibile/soprasensibile, di Iro (colore) e Ku (il Vuoto, l'Aperto, il Cielo): "Noi
diciamo: senza Iro non c'è Ku" (93). Tuttavia Iro indicando il colore "intende
qualcosa di essenzialmente diverso e superiore rispetto al sensibilmente
percepibile di qualsiasi specie" (93). Così Ku intende altro dal semplice
soprasensibile.
Una dimensione profonda del mondo giapponese, che è occidentalizzato solo in
superficie, è nel teatro del No. Il film, invece, e anche il più orientale come
Rashomon è una forma europea; è oggettivazione.
Il Nulla di cui parlava I in una delle sue conferenze non va inteso
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nichilisticamente; corrisponde al Vuoto, che è per i giapponesi il nome più alto
per indicare quello che I chiama Essere. I usava questa parola non nel senso
usuale dei metafisici, ma per cercare di "evidenziare l'essenza della metafisica
segnandone così anche i limiti.(...) Non una distruzione della metafisica o
anche solo un suo rinnegamento" (97). "(Il) mio pensiero (...) chiaramente
distingue tra "essere" come "essere dell'essente" ed Essere in senso proprio,
come verità (radura luminosa)"(98). Non ha usato un nome nuovo perchè
ancora è in ricerca: aspetta che "la parola si rivolga" a lui.
"Il linguaggio è la dimora dell' Essere": un'espressione da non concettualizzare
perchè "tocca l'essenza del linguaggio senza violarla" (99).
La parola, più che segno, è cenno e gesto. "I cenni sono enigmatici. (..) E il
loro cenno invita a un distacco mentre addita quello donde d'improvviso
muovono a noi" (102). Quando I parla di "essere" non ha in mente"l'essere
dell'essente metafisicamente rappresentato, bensì l'essenza dell'essere, più
precisamente la differenza (Zwiefalt) di Essere ed essente" (102-103).
Prima I usava la parola "ermeneutico" ("fenomenologia ermeneutica") per
nominare il suo pensiero: ora non la usa più: "per lasciare il cammino del mio
pensiero nel dominio di ciò che sfugge a una denominazione precisa" (104).
La parola greca da cui deriva "ermeneutico" viene fatta risalire —"in un gioco
del pensiero che è più vincolante del rigore della scienza" (105)— al nome del
dio Ermes. "Ermeneoein" è l'esporre che reca un annuncio, e quindi non
primariamente l'interpretare, ma anzitutto "il portare messaggio e annuncio".
"I: (...) Quello di cui si trattava e si tra-tta era ed è di evidenziare l'essere
dell'essente: certamente non più alla maniera della metafisica, ma in modo che
l'Essere stesso si manifesti. L'Essero stesso —ciò significa: la Presenza di ciò
che può farsi presente, vale a dire la differenza dei due momenti sulla base
dell'unità. E' questa Differenza che esige l'uomo per la sua propria essenza.
G: l'uomo è pertanto uomo in quanto corrisponde alla parola della Differenza e
l'annuncia nel messaggio che ad essa la Differenza ha affidato.
I: Ciò che predomina e regge nel rapporto dell'essenza dell'uomo con la
Differenza è perciò il Linguaggio. È questo che determina il rapporto
ermeneutico" (105).
Siamo in colloquio con i pensatori del passato, cercandone l'interpretazione.
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"Rapporto" non significa relazione in senso logico: vuol dire (quando si parla
del rapporto dell'uomo con la Differenza) che l'uomo è "nel servizio affrancante
che chiama l'uomo a custodire la Differenza" (107). Essa non si lascia chiarire
poichè è lei stessa che "sviluppa la chiarità, la radura luminosa entro cui la cosa
presente come tale e la Presenza si fanno indistinguibili per l'uomo" (107). La
Differenza non è oggetto del nostro conoscere rappresentativo.
I rivolge la sua meditazione verso ciò che è "familiare", cioè "quello che è prima
affidato alla nostra essenza e solo poi diventa esperibile" (108).
I intende fenomeno non in senso kantiano: ma in un modo simile (anche se è
stato erroneamente identificato) a quello dei Greci. "Gaivesa" significa per loro:
portarsi alla luce e in questa apparire. (..) Il compito che si pone al nostro
pensiero odierno è quello di pensare il pensiero greco ancor più grecamente.
(..) Se lo stesso esser presente è pensato come apparire, allora domina
nell'esser presente un emergere all'aperto nel senso del non essere nascosto.
Tale non esser nascosto si realizza in un disoccultare inteso come rischiarare.
Sennonchè proprio questo rischiarare resta, come evento, sotto ogni riguardo
non pensato. Impegnarsi a pensare tale non pensato: questo significa
perseguire il pensiero greco in modo più originale, scoprirlo nell'origine del suo
autentico essere" (111-113).
L'uomo porge ascolto al messaggio della Differenza. E' nella servitù liberante di
tale ascolto, cioè è in un rapporto "ermeneutico" (che reca annuncio di quel
messaggio ed esige che l'uomo gli corrisponda).
"L'uomo è il portatore del messaggio che il disvelamento della Differenza gli
aggiudica". Siamo arrivati a una "trasmutazione del pensare", che si realizza
come trasmigrazione: un luogo (la metafisica) viene lasciato per un altro. "Cosa
per cui risulta necessaria l'Erörterung come appunto evocazione e conquista del
luogo (Ort)" (115).
G prima parla dello Iki come grazia, inteso nel senso di " soffio della quiete che
luminosamente rapisce, e poi dice la parola —che aveva a lungo dubitato se
dire o no— che esprimerebbe l'essenza del linguaggio, in giapponese: è Koto
ba. "Il respiro della quiete, dalla quale nasce questo rapimento appellante
(dello Iki) è la forza che fa che quel rapimento avvenga. Ma Koto indica sempre
al tempo stesso quel che di volta in volta rapisce, ciò che si manifesta con la
pienezza del suo incanto, di volta in volta unico, nell'attimo irripetibile. Koto
sarebbe allora l'evento del messaggio rischiarante della grazia (..)" (117).
"Jaris" è avvicinato da Sofocle a: la generante. "La nostra parola tedesca
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dichten, tihton dice la stessa cosa. (..) La grazia stessa è poetica, è l'autentica
poeticità, lo scaturire del mesaggio del disvelarsi della Differenza" (l18). Per
nominare il linguaggio, I pensa che la parola tedesca migliore sia die Sage.
"Essa indica il Dire originario, quel che è detto da questo dire, quel che ha da
esser detto" (118).
"Ciò che mi induce al riserbo è la sempre più chiara consapevolezza della
sacertà intrinseca al mistero del Dire originario" (120).
Il problema è se e veramente possibile parlare su:L Linguaggio. Entra in gioco il
cosiddetto "circolo ermeneutico": "Un colloquio che derivi dal Linguaggio è
necessariamente connesso a un appello dell'essenza del Linguaggio. Ma come
può per quel colloquio realizzarsi l'appello se esso stesso, quel colloquio, non si
è prima disposto e impegnato a un ascolto che immediatamente attinga
l'essenza?" (122).
La risposta è il parlare "nell'ascolto del Linguaggio", assunti dal dominio
dell'essenza di questo.
L'essenza del linguaggio
Tre conferenze su un tema, che "vorrebbero portarci alla possibilità di fare
esperienza del linguaggio" (127), che "è altra cosa dal procurarsi nozioni sul
linguaggio. (...) La ricerca linguistica scientifica e filosofica mira (...) a costruire
ciò che viene chiamato "metalinguaggio" (128). E' una cosa legittima e utile,
ma diversa dal nostro "fare esperienza". "La metalinguistica è infatti la
metafisica della totale trasformazione tecnica di ogni lingua in semplice
strumento interplanetario d'informazione. Metalinguaggio e Sputnik,
metalinguistica e tecnica missilistica sono la stessa cosa" (128). Il linguaggio ci
tocca nella sua essenza specialmente là dove non troviamo la parola giusta. E'
il tema della poesia Das Wort (la parola) di Stefan George. L'ultimo verso: (per
la poesia intera cfr il cap. La parola)
Kein ding sei wo das wort gebricht
(Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca)
è un qualcosa che egli ha appreso. "In una poesia di tale altezza si pensa, ma
senza scienza, senza filosofia" (130). Non si può trattare una poesia come un
testo filosofico, cercando una conferma alle proprie tesi: sarebbe svalutarla.
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George è giunto nel rapporto della parola con la cosa. "La parola stessa è il
rapporto che via via incorpora e trattiene in sé la cosa in modo che essa "è"
una cosa". Il poetare, che era stato facile, a un certo punto vien meno a
George: non c'è il nome per il gioiello ricco e fine che gli sta sulla mano.
"(..) poichè si è prigionieri del pregiudizio secolare che il pensare sia compito
della ratio, cioè del calcolare inteso nel senso piu lato, si è subito diffidenti
quando si sente parlare di una vicinanza tra pensiero e poesia. Il pensare non è
un mezzo per il conosoere. Il pensare traccia solchi nel campo dell'essere"
(138).
H. torna sul titolo della conferenza, che sembra un po' pretestuoso: in realtà è
problematico, è una domanda: "Quando poniamo una domanda al linguaggio,
una domanda alla sua essenza, già del linguaggio deve esserci fatto dono (..).
Ogni posizione di domanda è possibile solo in quanto ciò che si fa problema ha
già iniziato a parlare e a dire di se stesso" (139).
Il tratto fondamentale del pensiero è l'interrogare, e, prima ancora, l'ascolto.
"In qualunque modo ci rivolgiamo al linguaggio per interrogarlo sulla sua
essenza, è prima di tutto necessario che il linguaggio stesso si sia rivolto a noi.
Se così stanno le cose, l'essenza del linguaggio si fa parola dell'essenza"
(139-140).
All'inizio della II confererlza, II. fa una parentesi sulla scienza: "Il metodo non
è (..) un puro strumento al servizio della scienza; è anzi al contrario il metodo
che ha assunto a proprio servizio le scienze. (..) Nel metodo è tutta la potenza
del sapere. Il tema rientra nel metodo" (141).
Noi parliamo del linguaggio e ripetiamo ciò che il linguaggio dice: è un parlare
inadeguato che porta a un irretimento; esso si dissolve se osserviamo la
regione del pensiero: essa "confina con il poetare" (142).
Il linguaggio è in quanto si partecipa; deve parteciparsi. La poesia è canto. Il
canto è linguaggio, e quindi ha affinità con il dialogo. "Il canto è la celebrazione
dell'avvento degli Dei, al cui giungere tutto si acquieta" (144).
L'essenza del linguaggio "ricusa di farsi parola, di dirsi cioè in quella lingua
nella quale noi facciamo asserzioni sul linguaggio" (147). Allora nella frase
"l'essenza del linguaggio è il linguaggio dell'essenza", la seconda parola
"linguaggio" esprime un modo diverso di parlare. Poetare e pensare sono vicini,
si muovono nell'elemento del dire, "stanno di fronte", ma non si intersecano,
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sono "paralleli". "Tornare indietro dove già (propriamente) siamo: è questo il
modo di procedere sulla via del pensiero, che ora dobbiamo percorrere" (150).
E' un re-gresso d'altra natura rispetto al pro-gresso del regno delle macchine.
Se si prende a pensare in modo "calcolante" si trovano aporie: come può la
parola far essere una cosa? Deve essere prima della cosa. Ma anche la parola è
una cosa, altrimenti è un nulla...
Invece parola e cosa sono realtà diverse. Noi abbiamo cognizione delle cose, e
la parola non è cosa. La cosa 'è'. Ma "né l' 'è' né la 'parola' hanno l'essenza
della cosa, l'essere (...). Cionondimeno ne l 'è' né la parola e il dire di questa
possono venir cacciati nel vuoto del niente" (152). L'esperienza poetica della
parola rimanda al "degno di essere pensato". "Essa rimanda a quello di cui può
dirsi 'es gibt', senza che possa dirsi 'ist'" (153). Nella parola si cela quello che
gibt (dà). La parola stessa dà: dà l'essere. (es gibt: c'è, si trova, cioè 'si dà',
locuzione simile al francese il y a).
La vicinanza fra poetare e pensare non è risultato di un processo: è essa stessa
l'evento che li costituisce nella loro essenza. La II conferenza è tutta una
riflessione sulla "via" da percorrere. "Per il pensiero meditativo la via fa parte di
ciò che chiamiamo contrada. Detto per cenni allusivi, la contrada è, in quanto
tale, la radura luminosa nella quale si dischiude a un tempo ciò che rischiara e
ciò che occulta (...). Solo la contrada, in quanto contrada, fa essere le strade"
(155-156). Anche nel pensare poetante di Laotse la parola guida è la via (Tao),
che però è stata tradotta volta per volta come ragione, spirito, Senso, logos.
Siamo già nel dominio di ciò che ci reclama, ma la via ci conduce là dove già
siamo, in un modo essenziale.
"La prossimità, che avvicina l'uno all'altro il poetare e pensare, noi lo
chiamiamo il Dire originario (Sage). In questo ci pare stia l'essenza del
linguaggio. Dire, sagan, significa mostrare: far apparire, dischiudere
illuminando-celando, nel senso di: porgere ciò che chiamiamo mondo. Questo
porgere il mondo, che è insieme un illuminare e celare o velare, è la vivente
essenza del dire" (157).
Quando si parla di "linguaggio dell'essenza" (Wesen), la parola Wesen non
significa "ciò che qualcosa è", ma va intesa come verbo, participio presente
(Wesend) di perdurare, permanere.
In una poesia di Hölderlin, il linguaggio è il fiore della bocca. Si avverte la
sostanza di "terra" che il suono materiale del linguaggio reca in sé nel suo
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sorgere "dal Dire originario nel quale si compie il rivelarsi del mondo. Il dire del
linguaggio proviene dalla parola che chiama e aduna, che, aperta all'Aperto, fa
sì che nelle cose si manifeati il mondo" (163).
La prossimità fa essere la vicinanza, e non si fonda su un rapporto spazio-
temporale. La scienza moderna ha dato un carattere parametrico (cioè di
misura) allo spazio e al tempo. Ma prossimità e vicinanza non sono
rappresentabili parametricamente. "Ciò che costituisce l'essenza della
prossimità non è la distanza, bensì il movimento che congiunge le regioni del
quadrato del mondo nell'essere l'una di fronte all'altra. Tale movimento è la
prossimità come prossimità vicinante" (166) Lo spazio e il tempo, nel loro vero
essere, non conoscono movimento: sono nella quiete. Il tempo temporalizza:
"porta a dischiudersi" (168). "Lo spazio del gioco temporale (l'idem et unum
che tiene uniti spazio e tempo) è quello che instaura il moto nell'esser l'una di
fronte all'altra delle quattro regioni del mondo: terra e cielo, Dio e uomo. E'
questo il gioco del mondo" (168).
La prossimità e il Dire originario, in quanto essenza del linguaggio, sono la
stessa cosa. "Il linguaggio, in quanto Dire originario del quadrato del mondo,
cessa d'essere soltanto qualcosa con cui noi, uomini parlanti, abbiamo un
rapporto (..). Il linguaggio, in quanto Dire originario che imprime l'interno moto
al mondo, è il rapporto di tutti i rapporti. Esso con-tiene, sostiene, porge oome
in dono e fa ricche le quattro regioni del mondo nel loro essere l'una di fronte
all'altra, le regge e le custodisce, mentre esso —il Dire originario— resta in se
stesso" (169). E restando in se stesso, il Linguaggio include noi che, in quanto
mortali, siamo parte del quadrato.
"Il Dire originario dona l' "è", facendolo presente nell'apertura luminosa e
nell'oscurità indistinguibilmente intrinseche alla possibilità del suo esser
pensato.
(..) Quell'adunare con appello silenzioso, con cui s'identifica il movimento
infuso nel mondo dal Dire originario, noi lo chiamiamo il suono della quiete.
Esso è il linguaggio dell'essenza.
Sostando presso la poesia di Stefan George abbiamo sentito
dire: Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca.
Abbiamo osservato come nella poesia rimanga non tematizzato qualcosa degno
ai meditazione: che cosa significhi: una cosa è. Degno di esser pensato ci è
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apparso, a quel punto stesso, il rapporto della parola, che —appunto perchè
non mancante— può essere pronunciata, con l' "è".
A questo punto, pensando alla vicinanza della parola poetica, ci è
probabilmente possibile dire:
Un 'è' appare là dove la parola vien meno.
Venir meno qui significa: la parola possibile a pronunciarsi ritorna nel silenzio,
là donde essa trae origine e possibilità, ritorna nel suono della quiete che, in
quanto Dire originario infonde movimento alle regioni del quadrato del mondo.
instaurando tra loro la prossimità.
Questo venir meno della parola è l'autentico passo a ritroso sul cammino del
pensiero" (170).
La parola
È una conferenza che commenta la poesia Das Wort di Stefan George, scritta
nel 1919. Ripete in massima parte le idee del saggio precedente, con qualche
leggera variazione.
La parola
Meraviglia di lontano o sogno
Io portai al lembo estremo della mia terra
E attesi fino a che la grigia norma
Il nome trovò nella sua fonte
Meraviglia o sogno potei allora afferrare consistente e forte
ed ora fiorisce e splende per tutta la marca...
Un giorno giunsi colà dopo viaggio felice
Con un gioiello ricco e fine
Ella cercò a lungo e (alfine) mi annunciò:
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"Qui nulla d'eguale dorme sul fondo"
Al che esso sfuggì alla mia mano
E mai più la mia terra ebbe il tesoro...
Così io appresi triste la rinuncia:
nessuna cosa è (sia) dove la parola manca.
La poesia nelle sue 7 strofe esprime le esperienze del poeta che, dopo esser
giunto più volte nelle terra della dea (norma) per trovare i nomi per il suo
poetare, avendoli sempre trovati si credeva signore del suo dire. Ma per "il
gioiello ricco e fine" non ci sono nomi: i due ultimi versi sono la chiave della
poesia. "Non è più solo la presa sulla realtà come esperienza già colta
dall'immaginazione, quella presa che consiste nel dare un nome: non è soltanto
mezzo per rappresentare ciò che sta dinnanzi. Al contrario. E' la parola che
conferisce la presenza, cioè l'essere, nel quale qualcosa si manifesta come
essente" (179). La rinuncia dell'ultimo verso resta un dire: conserva un
rapporto con la parola, ma trasformato. "Il dire giunge ad un altro ritmo, ad un
altro "mezos", ad un altro tono" (180). Per il poeta è stata una scoperta
folgorante: "Qualcosa d'insospettato, di tremendo gli stava dinanzi, avvincendo
a sé la sua attenzione: questo, che solo la parola fa essere una cosa come
cosa" (180). Il dire si trasforma "nell'eco di un Dire originario" (182).
"Il tesoro che la terra del poeta mai giunge a possedere è la parola per
l'essenza del linguaggio. La potenza e la vita della parola, scorta d'improvviso,
il suo essere e operare vorrebbe pervenire alla parola, alla sua propria parola.
Ma la parola pcr l'essenza della parola non viene concessa. (...) Il gioiello ricco
e fine è l'essere della parola che, dicendo, invisibilmente e tacitamente ci offre
la cosa come cosa" (185-186). Il gioiello è il Degno d'esser pensato, e di fronte
ad esso il poeta non oppose rifiuto. La parola splende come quella che chiama
a raccolta, portando quanto è presente al suo esser presente. "Logos" è il
termine più antico che indica il Dire originario (die Sage), "il quale, indicando,
fa apparire l'essente nel suo è" (186).
"Lo stesso termine "Logos", in quanto termine per indicare il dire, è però al
tempo stesso il termine per indicare l'essere, cioè l'esser presente di quanto è
presente. Dire originario ed essere, parola e cosa , s'appartengono
vicendevolmente in virtù d'un legame occulto, il cui pensamento è appena
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all'inizio, e destinato a non esaurirsi mai (..). Poetare e pensare sono entrambi
un dire privilegiato, in quanto ambedue affidati al mistero della Parola come al
massimamente Degno d'esser pensato e perciò da sempre l'un l'altro intrinseci"
(186-187).
Il cammino verso il linguaggio
"L'uomo non sarebbe uomo se non gli fosse concesso di parlare —di dire ' è '—
ininterrottamente, per ogni motivo, in riferimento a ogni cosa (...). In quanto il
linguaggio concede questo, l'essere dell'uomo poggia sul linguaggio". E, poco
prima: "E' la facoltà di parlare che fa l'uomo, uomo" (189).
Il nostro filo conduttore: "Portare il linguaggio, in quanto linguaggio, al
linguaggio" (190), cioè esperire (nel senso di eundo assequi) nell'intreccio del
linguaggio il vincolo liberante.
Dal primitivo "mostrare", a partire dalla Stoa, il linguaggio diventa "designare":
il segno nasce per convenzione. In collegamento col mutare dell'essenza della
verità, "la rappresentazione di un oggetto viene impiegata e indirizzata
all'erogazione di un altro oggetto" (192).
All'origine degli studi moderni sul linguaggio, è un saggio di Wilhelm von
Humboldt (1836). Per lui il linguaggio è un'attività, una realtà in continuo
divenire, che ha il momento essenziale nel parlare. Esso rimanda all'attività
interna dello spirito, con la quale vi è un reciproco influsso. Ma gli studi di
Humboldt passano dal linguaggio per arrivare come scopo all'uomo. Invece H.
vuole esperire il linguaggio come linguaggio.
Il pensiero non è stato capace di esprimere l'unità unificante del linguaggio.
"Dire e parlare non sono la stessa cosa. Uno può parlare, parla senza fine, e
tutto quel parlare non dice nulla. Un altro invece tace, non parla, e però, col
suo non parlare, dice molto" (198). Dire (Sagen) significa "mostrare, far che
qualcosa appaia, si veda, si senta" (198).
"Ciò che fa essere il linguaggio come linguaggio è il Dire originario (die Sage) in
quanto mostrare (die Zeige)" (199). Da esso traggono origine tutti i segni e la
possibilità di essere segni. E il parlare è un porgere ascolto al linguaggio.
Il "mostrare" del Dire originario proviene da una realtà che è l'Ort (luogo), che
non tollera Er-örterung: il luogo che non tollera d'essere raggiunto, perchè
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luogo di tutti i luoghi e di tutti gli spazi del gioco del tempo. "Noi lo chiameremo
con una parola antica e diremo:
Ciò che muove nel mostrare del Dire originario è lo 'Eignen'.
Lo Eignen adduce ciò che è presente e assente in quello che gli è proprio così
che, emergendone, la cosa presente e assente si rivela nella sua vera identità e
resta se stesso. Questo Eignen, in virtù del quale le cose emergono nella loro
verità, questo Eignen, che muove il Dire originario in questo suo mostrare, lo
chiameremo Ereignen. Esso fa essere il libero spazio della radura luminosa, alla
quale accedendo ciò che è presente può permanere come tale e dalla quale
sfuggendo ciò che è assente può essere tale, senza cessare di essere. Quel che
l'Ereignen grazie al Dire originario fa che sia non è mai l'effetto di una causa, la
conseguenza di un fondamento. Ciò che l'Eignen in virtù del quale le cose
emergono nella loro verità, ciò che lEreignen genera e accorda è ben superiore
a quanto può provenire da ogni possibile agire, fare e fondare.
L'Ereignendes (ciò che fa pervenire nel proprio, ciò che serba e rivela le cose
nella loro identità vera) è l'Ereignis [evento, come appunto Ereignen:
rivelazione rivelante, cioè costituente e disvelante le cose nella loro verità)
stesso, e nulla al di fuori di questo. L'Ereignis, visto nel mostrare costitutivo del
Dire originario, non può essere oggettivato né come un fatto né come un
avvenimento: può solo essere esperito all'interno del Dire originario come il
Donante. Non c'è nulla, al di fuori dell'Ereignis, cui l'Ereignis possa essere
ricondotto, in base a cui esso possa essere spiegato. L'Ereignen non è il
risultato (Ergebnis) di qualcosa d'altro: esso è, al contrario, la donazione (die
Er-gebnis). Solo il generoso dare di questa può concedere qualcosa come quell'
'es gibt', del quale 'l'essere' ancora ha bisogno, per pervenire, come esser
presente, a ciò che gli è proprio" (203).
"L'Ereignis è la più mite delle leggi" (204). "L'Ereignis, appropriando a sé
l'uomo, assumendolo in una servitù affrancante, fa che il Dire originario giunga
alla parola" (205). In nota H. afferma: "(...) il pensiero deve (...) perdere
l'abitudine a credere che ciò che viene qui pensato come Ereignis sia 'l'Essere'.
L'Ereignis è per essenza altro, perchè più ricco di ogni possibile determinazione
metafisica dell'Essere. Vero è invece che l'Essere, per ciò che riguarda l'origine
del suo essere, si lascia pensare in base all'Ereignis" (205).
H. parla di Bewëgung: far sorgere, e mantenere in vita la via. L'autentica
riflessione liberante sul linguaggio è una Bewëgung: essa porta il linguaggio
come Linguaggio (Dire originario) al linguaggio (alla parola che si realizza nel
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suono)" (206).
"Un pensiero che rifletta sull'Ereignis può già sospettarne, anzi già esperirne la
presenza nella essenza della tecnica moderna, essenza che si continua qui a
designare col termine che suona ancora strano e sconcertante, di Ge-stell (1).
In quanto pone un'intimazione all'uomo, in quanto lo provoca (den Menschen
stellt, d.h. ihn herausfordert) ad adibire (bestellen) ogni cosa che possa farglisi
presente a dispositivo tecnico (als technischen Bestand), il Gestell è come
Ereignis, ma è tale in modo che dell' Ereignis è al tempo stesso il
mascheramento, perchè ogni 'adibire' si vede inserito nel pensiero calcolante e
parla così il linguaggio del Ge-stell. Il parlare è provocato a corrispondere in
tutto e per tutto a quella posizione di fronte al reale per cui la presenza di una
cosa si identifica con la sua disponibilità tecnica.
Il parlare così ridotto diventa informazione. L'informazione s'informa su se
stessa per garantire —grazie alle teorie dell'informazione— il suo proprio
procedere. Il GeStell, quell'essenza della tecnica moderna che afferma
dappertutto il suo dominio, 'commissiona' per sè (bestellt sich) il linguaggio
formalizzato, quel tipo di informazione, in forza del quale l'uomo viene inserito
nel e conformato al mondo della tecnica e del calcolo, in esso 'installato', e
viene passo passo abbandonando il 'linguaggio naturale' "(207-208). La
naturalità del linguaggio intesa dalla teoria dell'informazione come semplice
mancanza di formalizzazione, è connessa alla "gusis", che poggia sull'Ereignis.
Ma non c'è linguaggio naturale nel senso di un linguaggio proprio della natura
umana: il linguaggio è sempre storico.
"Ogni parlare dell'uomo si realizza nel suo essere appropriato al Dire originario
(..). Ogni autentico linguaggio, in quanto è (..) assegnato all'uomo, è
'destinato' (geschickt) (inviato) e, perciò, destinatamente storico
(geschicklich)" (209).
"Il Dire originario non si lascia rinserrare in alcuna definizione. Esso esige da
noi che evochiamo silenziosamente la Be-wëgung in cui si realizza l'Ereignen
dell'Ereignis, guardandoci dal discorrere del silenzio. (..) Il Dire originario è il
modo in cui l'Ereignis parla: modo non tanto come maniera, quanto piuttosto
come "mezos", come il canto che dice cantando" (210).
È necessario, per riflettere sul linguaggio, un mutamento del linguaggio, che
non è in nostro potere conseguire. Forse però è possibile in qualche misura
prepararlo. Anche von Humboldt sottolineava il ruolo di filosofia e poesia per i
mutamenti del linguaggio.
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"Pensiero e poesia si coappartengono grazie a quel dire, che ha già votato se
stesso al Non-detto, perchè è il pensiero come atto di ringraziamento"
(211)[1].
OSSERVAZIONI CRITICHE
Le idee filosofiche di H. sono penetrate abbastanza in molti settori della cultura
europea, e hanno influenzato anche alcuni teologi, tanto che ormai alcuni
termini molto frequenti in H. (ascolto, dialogo, un certo modo di intendere "la
parola", progetto, disponibilità, ecc.) sono entrati nel linguaggio teologico
comune. Forse questo è in buona parte dovuto alla mediazione di Karl Rahner,
la cui opera più conosciuta si intitola, per l'appunto "Uditori della Parola. E'
interessante però notare che i termini cui abbiamo fatto riferimento hanno in H.
un senso equivoco rispetto a quello con cui li si usa di solito. Ci si sarà resi
conto che H. non si eleva al di sopra —o meglio, non riesce a uscire, dal suo
immanentismo di partenza, e la sua filosofia è, nonostante i discorsi sull'Essere
e sul Sacro, una filosofia atea, che certamente contiene alcuni spunti
apprezzabili; se però si vogliono valorizzare questi spunti, bisogna estrarli dal
contesto in cui si trovano, e correggere il loro riferimento metafisico.
Vediamo qualche punto più specifico:
1. Per quanto riguarda il rapporto uomo/linguaggio, è vero che il linguaggio in
qualche modo ci è dato, e ha sfumature, risonanze, giochi che in qualche
misura sfuggono al nostro intelletto nel momento in cui usa determinate
parole. Ma questo non significa che il linguaggio parla nell'uomo. È l'uomo che
parla, e il suo intelletto vive in un orizzonte che è pre-linguistico e superiore al
linguaggio: esso gli permette, per esempio, di giudicare se e quanto una parola
è adeguata ad esprimere un concetto, un sentimento, una situazione.
Ovviamente, proprio perchè è pre-linguistico, questo contenuto intellettuale
non può essere espresso con parole, anche se se ne ha un'esperienza
abbastanza comune. La più evidente è il momento in cui si ha in testa l'idea,
ma "manca la parola", e una per una si scartano le parole che ci vengono in
mente perchè si "vede" che non sono quelle che stiamo cercando. La stessa
"fatica" di esprimere un pensiero mediante una frase, è indice del fatto che
l'uomo volta per volta crea, non si limita a lasciar parlare; come quando crea
parole nuove (cosa che H. fa spessissimo), perchè quelle in uso non sono
adeguate. Nel capitolo La parola H. dice che la parola dà l'essere alla cosa: ma
questo può essere vero solo quoad nos, e parzialmente. La parola dà l'essere
alla cosa solo nel senso che le dà un'àncora, un punto stabile d'appoggio nel
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nostro intelletto, ma non di più. Se poi il discorso si fa teologico (ma non è
questo il discorso di H., anche se di termini e di problematiche teologiche egli
risente moltissimo), si può vedere come le cose sono, grazie alla Parola
(Verbum) di Dio, che è una Parola creatrice. Ma questo non vale per l'uomo, e
non vale per quel "Dire originario" (almeno fino a che H. non riesce a chiarire di
che cosa si tratta), che sfugge a ogni contatto con noi.
La teoria del "Quadrato" (cfr Saggi e discorsi), di cielo e terra, mortali e divini,
è abbastanza sconcertante, come lo sono molte affermazioni di H. Il problema
(e anche la sua soluzione) è che H. non dà dimostrazioni di ciò che dice,
pretende di "mostrare" e basta. In questo è aiutato dalla sua straordinaria
capacità di affascinare e stupire con scoperte di significati nuovi in parole
comuni, o proposizione di parole nuove, evidenziazione di analogie e di radici
comuni, che mal si possono rendere in una lingua diversa dalla sua. Si veda ad
es. l'atmosfera assolutamente incantata e "sacrale" del Colloquio nell'ascolto
del linguaggio.
Questo si innesta sul rifiuto del concetto e del "pensare calcolante" che vi è
connesso —come modo di pensare caratteristico dell'era della metafisica—; ma
resta da dimostrare che ogni metafisica non sia che uno stadio della volontà di
potenza (volontà di volontà), e che implichi un'oblio dell'essere. Se questo può
essere vero per le metafisiche razionaliste e idealiste, il discorso non vale per la
metafisica tomista dell'actus essendi, sia come metafisica sia per
l'atteggiamento che comporta nei confronti del reale; lo hanno messo molto
bene in rilievo, fra gli altri, Cornelio Fabro e Raul Echauri. E' certamente vero
che ci sono aspetti e dimensioni della realtà che sfuggono al pensiero
concettuale, o che —essendo realtà molto elevate— per poter essere
"introdotte" nel nostro intelletto vengono necessariamente impoverite, ma H.
abusa di questo richiamo alla conoscenza per allusioni —per "connaturalità"
direbbe Maritain seguendo san Tommaso— per giustificare salti molto
azzardati. Resta il richiamo, presente del resto anche in altre opere di H., alla
dimensione contemplativa della vita, che ha bisogno del silenzio e della quiete
per poter essere colta.
3. Da un accenno fatto al rapporto fra essere e nulla, e dai passi in cui H. parla
del rapporto fra essere e Ereignis, appare come probabilmente la sua
concezione dell'essere risente ancora molto di quella hegeliana, per cui l'essere
si definisce in rapporto al nulla ( essere come il nulla dell'essente); e quando
nell'ultimo saggio H. afferma che l'Ereignis è prima e più ricco dell'essere se ne
ricava una concezione heideggeriana dell'essere in qualche modo influenzata
dall'idea di "genere supremo", o di recipiente vuoto di contenuto metafisico,
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21 di 22 16/11/2015 09:59
propria di tanta tradizione, anche scolastica (ricordiamo gli studi di H. sulla
dottrina delle categorie in Scoto).
In conclusione si tratta di un'opera certamente suggestiva, che dopo un iniziale
disorientamento può affascinare, ed è certamente apprezzabile nel suo rifiuto
della mentalità dominatrice e tecnico-positivistica tipica dell'età moderna, e
nella ricerca di un contatto più autentico e immediato con la realtà delle cose.
Ma questi aspetti positivi non riescono a controbilanciare le pesanti arbitrarietà
e i chiari errori che si trovano nella esposizione del ruolo del linguaggio, nel
rifiuto di ogni metafisica, del silenzio su una prospettiva religiosa della vita,
ecc.
Fra gli studi su H. sono interessanti, anche se un po' difficili, quelli di
CORNELIO FABRO, particolarmente i capitoli dedicati a H. in Dall'essere
all'esistente, II ed., Morcelliana, Brescia 1965 e in Introduzione all'ateismo
moderno, Studium, Roma 1969.
Vi sono poi ,i libri di RAUL ECHAURI, editi in Argentina, ma probabilmente
reperibili in qualche biblioteca, dal titolo Heidegger e la metafisica tomista,
Universidad del Litoral, Cordoba 1969, e El Ser en la filosofía de Heidegger,
Universidad del Litoral, Rosario 1964.
Queste opere sono molto utili per un inquadramento e una critica d'insieme del
pensiero di H., anche se trattano poco le tematiche dell'ultimo periodo del
pensatore tedesco. Rispetto a quelle di Fabro, sono di lettura più scorrevole, e
non richiedono una conoscenza previa del pensiero di H.
Sulle tematiche specifiche affrontate da In cammino verso il linguaggio è molto
interessante l'opera di ETIENNE GILSON, Linguistique et philosophie, Vrin, Paris
1969, anche se ovviamente non si tratta dello stesso discorso, né ci sono
riferimenti diretti a H.
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Libri antichi Nuove uscite Martin Heidegger
2008 - Parodos Filosofia
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