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PER UNA VOLTA NELLA VITA

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PER UNA VOLTANELLA VITA

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RAINBOW ROWELL

PER UNA VOLTANELLA VITA

Traduzione diFEDERICA MERANI

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Titolo originale: Eleanor & Park Copyright © 2013 by Rainbow Rowell. All rights reserved.

Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e situazioni sono frutto dell’immagi-nazione dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi somiglianza con eventi o luoghi o persone, vive o scomparse, è del tutto casuale.

ISBN 978-88-566-2777-0

I Edizione 2013

© 2013 - EDIZIONI PIEMME Spa, Milanowww.edizpiemme.it

Anno 2013-2014-2015 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

Stampato presso ELCOGRAF S.p.A. - Stabilimento di Cles (TN)

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Ormai non ci provava più a ricordarla.Gli appariva solo quando le andava, in sogni, visioni,

lontani déjà vu.Come quando, diretto al lavoro in macchina, vedeva una

ragazza dai capelli rossi all’angolo di una strada e, con la gola stretta, per un attimo era pronto a giurare che fosse lei.

Poi vedeva che i capelli erano più biondi che rossi.E che la ragazza aveva una sigaretta in mano e... una

maglietta dei Sex Pistols.Eleanor odiava i Sex Pistols.Eleanor...In piedi alle sue spalle fi nché lui non si voltava. Distesa

al suo fi anco un attimo prima che lui si svegliasse. Capace di rendere chiunque altra più scialba, insignifi cante e ina-deguata.

Eleanor che rovinava tutto.Eleanor che se n’era andata.Ormai non ci provava più a ricordarla.

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Agosto 1986

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PARK

Gli XTC non andavano bene per coprire il chiasso dei defi cienti seduti in fondo al pulmino.

Park si pigiò le cuffi e sulle orecchie.L’indomani avrebbe portato gli Skinny Puppy o i Misfi ts.

Se non addirittura una cassetta preparata apposta per lo scuolabus, piena il più possibile di urli e di lamenti.

Alla new wave sarebbe tornato a novembre, dopo aver preso la patente. I genitori gli avevano già promesso l’Im-pala della mamma e lui stava mettendo i soldi da parte per una nuova autoradio. Andando a scuola in macchina avreb-be potuto ascoltare tutto quello che voleva oppure niente, e farsi ben venti minuti di sonno in più.

«Non esiste» gridò qualcuno alle sue spalle.«Boia se esiste» berciò Steve per tutta risposta. «La tec-

nica della scimmia ubriaca esiste eccome, bello. Puoi am-mazzarci qualcuno se la usi...»

«Dici tutte stronzate.»«Tu dici tutte stronzate» ribatté Steve. «Park! Ehi,

Park.»Park lo sentì ma non rispose. Certe volte Steve bastava

ignorarlo, perché passasse a qualcun altro. Saperlo ti dava l’ottanta per cento delle probabilità di sopravvivere con

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Steve come vicino di casa. L’altro venti per cento consisteva nel tener giù la testa...

Cosa che Park aveva momentaneamente dimenticato. Gli arrivò una palla di carta in piena nuca.

«Quelli erano i miei appunti di scienze della riproduzio-ne umana, cazzone» disse Tina.

«Scusa, dolcezza» replicò Steve. «Te la insegno io la ri-produzione umana, che cosa vuoi sapere?»

«Perché non le insegni la tecnica della scimmia ubriaca, invece» suggerì qualcuno.

«Park!» urlò Steve.Park si abbassò le cuffi e e si voltò. Steve teneva banco

nel sedile in fondo. Anche da seduto, toccava quasi il tetto con la testa. Sembrava sempre circondato dai mobili di una casa delle bambole. In seconda media aveva già l’aspetto di un uomo fatto, e questo prima che gli crescesse la barba. Pochissimo prima.

Certe volte a Park veniva il dubbio che Steve stesse con Tina perché lei lo faceva sembrare ancora più gigantesco. Quasi tutte le ragazze delle Flats erano piccolette, ma Tina su-perava appena il metro e cinquanta. Cesta di capelli inclusa.

Quando erano ancora alle medie, qualcuno si era az-zardato a prendere per i fondelli Steve dicendogli di stare attento a non metterla incinta, perché altrimenti quei suoi bambini giganti l’avrebbero uccisa. «Le sbucheranno dalla pancia come in Alien» aveva detto il tipo. Steve si era rotto il mignolo dandogli un pugno in faccia.

Quando il padre di Park lo aveva saputo, il suo commen-to era stato: «Bisogna che qualcuno insegni a quel Murphy come stringere il pugno». Park, invece, si augurava che non venisse in mente a nessuno di insegnarglielo. Il tipo pestato da Steve non era riuscito ad aprire gli occhi per una setti-mana.

Park rilanciò a Tina i suoi compiti appallottolati e lei li afferrò al volo.

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«Park,» disse Steve «racconta un po’ a Mikey com’è la tecnica della scimmia ubriaca.»

«Non la conosco» rispose Park scrollando le spalle.«Però esiste, giusto?»«Mi pare di averne sentito parlare, sì.»«Visto?» ribatté Steve. Cercò qualcosa da tirare a Mikey

ma, non trovando nulla, si limitò a puntargli il dito contro. «Te l’avevo detto, stronzo.»

«E che cazzo ne sa Sheridan del kung fu?» protestò Mikey.«Sei ritardato, per caso? Ha la madre cinese» rispose

Steve.Mikey studiò il viso di Park. Lui sorrise e ridusse gli oc-

chi a due fessure. «Sì, può essere, ora che ci penso» conclu-se Mikey. «Ero convinto che fossi messicano.»

«Fanculo, Mikey,» commentò Steve «sei proprio un raz-zista di merda.»

«Non è cinese» intervenne Tina. «È coreana.»«Ma chi?» domandò Steve.«La mamma di Park.»Era dalle elementari che Tina si faceva tagliare i capelli

dalla madre di Park. Avevano la stessa pettinatura, capelli lunghi con permanente a spirale e frangia bombata.

«Cinese o coreana, è bona come il pane, ecco cosa» com-mentò Steve scoppiando a ridere. «Senza offesa, Park.»

Park abbozzò un altro sorriso e si rimise a sedere, con le cuffi e di nuovo sulle orecchie. Anche se aveva alzato il volume e Steve e Mikey erano seduti quattro fi le dietro di lui, li sentiva lo stesso.

«Mi dici qual è il punto, cazzo?» chiese Mikey.«Oh scemo, tu faresti mai a pugni con una scimmia

ubriaca? Sono enormi, cazzo. Hai presente Filo da torcere, bello? Immagina quel bastardo che ti si rivolta contro.»

Park notò la ragazza nuova più o meno nell’attimo in cui la notarono anche gli altri. Era in piedi davanti, vicino al primo sedile disponibile.

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C’era un ragazzo del primo anno, seduto lì da solo. Si piazzò la cartella accanto e voltò la testa dall’altra parte. Da cima a fondo, chiunque avesse il sedile tutto per sé si spostò a lato del corridoio. Park sentì Tina sghignazzare: scene del genere erano il massimo, per lei.

La ragazza nuova prese fi ato e venne avanti. Nessuno la guardava. Anche Park si sforzò di non farlo, ma era come non guardare un’eclissi o un treno che deraglia.

E la ragazza era proprio il tipo di persona che si cacciava in situazioni del genere.

Perché, oltre a essere nuova, era pure grossa e imbra-nata. Con una chioma riccia riccia e color rosso fuoco, per giunta. Senza contare che era vestita come... come una che volesse attirare l’attenzione. O che non si rendesse conto di come fosse conciata. Portava una camicia scozzese, da uomo, cinque o sei collane strane al collo e dei foulard av-volti attorno ai polsi. A Park faceva venire in mente uno spaventapasseri o una di quelle bamboline scacciaguai che sua madre teneva sul comò. Una cosa che in pasto al mon-do non sarebbe sopravvissuta.

Il pullman si fermò di nuovo per far salire un altro grup-po di studenti. A spintoni superarono la ragazza e raggiun-sero ognuno il proprio posto.

Era questo il punto: tutti sull’autobus avevano già un posto. Se l’erano accaparrato il primo giorno di scuola. E chi come Park era abbastanza fortunato da avere a disposi-zione un intero sedile non era certo disposto a rinunciarci adesso. Figuriamoci per una tipa del genere.

Park guardò di nuovo la ragazza. Se ne stava lì, ancora in piedi.

«Ehi, tu» gridò l’autista. «Siediti un po’!»Lei fece per avanzare ancora. Dritta nella tana del lupo.

“Dio” pensò Park. “Fermati, torna indietro.” Più lei si av-vicinava, più sentiva che Steve e Mikey si leccavano i baffi . E di nuovo cercò di non guardare.

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Poi la ragazza vide un sedile vuoto proprio vicino a Park, dall’altra parte del corridoio. E con l’aria sollevata puntò dritta fi n lì.

«Ehi» sbraitò Tina.La ragazza continuò ad avanzare.«Ehi» insistette Tina. «Pagliaccio.»Steve attaccò a ridere. E nel giro di qualche secondo i

suoi amici lo seguirono a ruota.«Lì non puoi sederti» continuò Tina. «È il posto di Mi-

kayla.»La ragazza si fermò e la guardò negli occhi. Poi fi ssò di

nuovo il sedile libero.«Mettiti a sedere» gridò l’autista dal davanti.«Da qualche parte dovrò pur sedermi» disse in tono fer-

mo e deciso la ragazza, rivolta a Tina.«Non è certo un problema mio» replicò sgarbata lei. Il

bus diede uno strattone e la ragazza inclinò il busto all’in-dietro per non cadere. Park provò ad alzare il volume del walkman, ma era già al massimo. Allora guardò di nuovo la ragazza, che sembrava sul punto di piangere.

E ancor prima di aver preso una decisione, si spostò ver-so il fi nestrino.

«Siediti» ordinò, ma lo disse in tono rabbioso. La ragaz-za lo guardò, incerta se considerarlo l’ennesimo stronzo o chissà cos’altro. «Siediti, porco Giuda» sibilò Park, accen-nando con la testa allo spazio accanto a sé.

Lei si sedette. Non disse niente – neanche un “grazie”, per fortuna – e sul sedile lasciò una quindicina di centimetri di spazio tra loro.

Park si voltò verso il fi nestrino di plexiglas aspettandosi un mare di casini.

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ELEANOR

Eleanor valutò le opzioni:

1. Poteva tornare a casa da scuola a piedi. Pro: attività fi sica, guance colorite, tempo per se stessa. Contro: non sapeva ancora il nuovo indirizzo né quale dire-zione imboccare.

2. Poteva telefonare alla madre e farsi venire a prendere. Pro: tanti. Contro: sua madre non aveva il telefono. E nemmeno la macchina.

3. Poteva chiamare il padre. Ah.4. Poteva chiamare la nonna. Giusto per salutarla.

Era seduta sui gradini di cemento di fronte alla scuola e fi ssava la fi la di autobus gialli. Il suo era proprio lì. Il numero 666.

Anche se quel giorno fosse riuscita a risparmiarsi il viag-gio in pulmino, anche se fosse spuntata la sua fata madrina con una zucca tramutata in carrozza, un modo per tornare a scuola l’indomani avrebbe dovuto trovarlo comunque.

Ed era molto improbabile che l’indomani quei ragazzi indemoniati si svegliassero con la luna dritta. Sul serio. Non si sarebbe certo stupita di vederli con la mandibola disar-ticolata. La ragazza in fondo, quella con i capelli biondi e

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il giubbotto di jeans sbiadito, poi! Praticamente le si intra-vedevano le corna, nascoste sotto la frangia. Mentre il suo ragazzo doveva essere un nefi lim.

Quella ragazza, tutti loro, l’avevano odiata ancora prima di posare gli occhi su di lei. Come se in una vita passata qualcuno li avesse assoldati per ucciderla.

Chissà se il ragazzo asiatico che alla fi ne l’aveva lasciata sedere era uno di loro oppure era semplicemente stupido. (Tanto stupido non doveva essere se seguiva due dei corsi avanzati che frequentava anche lei.)

La mamma aveva insistito che la nuova scuola la am-mettesse ai corsi avanzati. Aveva dato in escandescenze ve-dendo quant’erano basse le votazioni di Eleanor rispetto all’anno precedente, il primo di scuola superiore. «La cosa non può certo meravigliarla, signora Douglas» aveva com-mentato la sua referente al nuovo istituto. “Ah” aveva pen-sato Eleanor. “Ormai c’è da meravigliarsi persino di quali siano le cose che meravigliano.”

Pazienza. Eleanor poteva benissimo fi ssare le nuvole an-che dalle classi di livello avanzato, c’erano tante fi nestre pure lì.

Sempre che fosse tornata in quella scuola, chiaro.Sempre che fosse riuscita ad arrivare a casa.E comunque non avrebbe potuto raccontare niente della

storia del pulmino perché, secondo la madre, Eleanor non avrebbe nemmeno avuto bisogno di prenderlo. La sera pri-ma, mentre la aiutava a disfare il bagaglio, le aveva detto: «Richie si è offerto di accompagnarti. Passa di lì per andare al lavoro».

«E dove mi mette, nel cassone del camioncino?»«Sta cercando di far pace, Eleanor. Anche tu avevi pro-

messo di provarci.»«Mi riesce meglio far pace da lontano.»«Gli ho detto che eri pronta a far parte di questa fami-

glia.»

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«Faccio già parte di questa famiglia. Sono una specie di socio fondatore.»

«Ti prego, Eleanor.»«Preferisco andare in autobus» le aveva risposto lei.

«Che problema c’è? Almeno conoscerò qualcuno.»“Ah” pensò adesso Eleanor. Un “ah” bello pieno, tea-

trale.Il bus sarebbe partito di lì a momenti. Qualche altro

pullman si stava già allontanando. Qualcuno le passò ac-canto scendendo i gradini e le urtò per sbaglio la cartella con il piede. Lei la tolse di mezzo e fece per scusarsi... ma era quello stupido dell’asiatico, che la guardò pure male quando vide che era lei. Eleanor fece altrettanto e lui corse avanti.

“Bene bene” pensò Eleanor. “Con me i fi gli dell’inferno non resteranno a bocca asciutta.”

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PARK

Durante il viaggio di ritorno in pullman la ragazza nuova non gli rivolse la parola.

Park aveva passato la giornata a escogitare un modo per evitarla. Gli sarebbe toccato cambiare posto. Non c’erano altre soluzioni. Quale posto, però? Non gli andava di impor-re la propria presenza a qualcun altro. E anche cambiando posto avrebbe comunque attirato l’attenzione di Steve.

Si aspettava di essere preso di mira appena l’avesse fatta sedere, invece Steve si era rimesso a parlare di kung fu. Park, tra l’altro, sapeva un sacco di cose sul kung fu. Per-ché suo padre era fi ssato con le arti marziali, non perché la madre era coreana. Lui e il fratello minore, Josh, andava-no a lezione di taekwondo da quando avevano imparato a camminare.

Cambiare posto, ma come...?Sedersi davanti con quelli del primo anno poteva essere

una soluzione, ma sarebbe stata una chiara manifestazione di debolezza. E poi non gli andava di lasciare la ragazza nuova in fondo tutta sola, strana com’era.

Si disprezzava per il fatto di averlo anche solo pensato.Se il padre avesse saputo che aveva intenzione di cambiare

posto l’avrebbe chiamato femminuccia. E bello forte, anche.

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Dalla nonna si sarebbe beccato una sberla sulla nuca, invece. “Hai dimenticato le buone maniere?” gli avrebbe detto. “È questo il modo di trattare chi è più sfortunato di te?”

Ma Park non aveva né fortuna né prestigio da dividere con quella scimunita di una pelo rosso. Sfruttava quel poco che aveva per tenersi fuori dai guai. E sapeva che non era bello da dire, ma in un certo senso era contento che esistes-sero tipi come lei. Perché esistevano anche tipi come Steve, Mikey e Tina e gente come quella andava alimentata. Se non toccava alla pelo rosso, toccava a qualcun altro. E se non c’era nessun altro, toccava a Park.

Quella mattina Steve aveva lasciato correre, ma la cosa non sarebbe durata in eterno...

Ecco di nuovo la voce della nonna: “Davvero ti tormenti per aver fatto una gentilezza a qualcuno sotto gli occhi di tutti, fi gliolo?”.

Altro che gentilezza, pensò Park. Aveva permesso alla ragazza di sedersi, è vero, ma l’aveva presa a parolacce. Quando quel pomeriggio si era presentata a lezione d’in-glese si era sentito perseguitato, quasi...

«Eleanor. Un nome altisonante. Un nome da regina» aveva commentato il professor Stessman.

«Il nome della scoiattolina cicciottella di Alvin and the Chipmunks, semmai» aveva sussurrato qualcuno alle spalle di Park. Qualcun altro si era messo a ridere.

Il professor Stessman aveva indicato uno dei banchi vuo-ti in prima fi la.

«Oggi leggiamo una poesia, Eleanor» aveva continuato. «La Dickinson. Vuole cominciare lei?»

Le aveva aperto il libro alla pagina giusta e le aveva indi-cato il punto da cui iniziare. «Avanti, forte e chiaro. Le dirò io quando fermarsi.»

La ragazza lo aveva guardato quasi sperando che scher-zasse. E una volta capito che non scherzava – non capitava quasi mai –, aveva attaccato a leggere.

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«Affamata com’ero da anni» aveva letto. Alcuni ragazzi si erano messi a ridere. “Cristo,” aveva pensato Park “solo il professor Stessman poteva far leggere a una ragazza in carne una poesia sul cibo alla sua prima lezione.”

«Continui, Eleanor» l’aveva incitata il professore.Lei aveva ricominciato, cosa che a Park era parsa una

pessima idea.«Affamata com’ero da anni» aveva ripetuto lei, stavolta a

voce ancora più alta.

«Era giunto per me il tempo del desinare,Tremante, trassi il tavolo a meE toccai quel vino curioso.Lo stesso che avevo visto sulle tavole,Quando, girando affamata, sola,Scrutavo le vetrine in cerca dell’abbondanzaChe non potevo sperare di avere.»

Vedendo che il professore non la fermava, aveva letto l’intera poesia con quel tono distaccato, di sfi da. Lo stesso che aveva usato con Tina.

«Meraviglioso!» aveva esclamato il professore a lettura ul-timata. Era raggiante. «Semplicemente meraviglioso. Spero resti con noi, Eleanor, almeno fi n quando leggeremo Medea. Quella è una voce che arriva su un carro trainato dai draghi.»

Quando la ragazza era comparsa al corso di storia, in-vece, il professor Sanderhoff non si era scomposto più di tanto. Aveva solo commentato «Ah. La regina Eleonora di Aquitania» appena lei gli aveva consegnato il compito. Si era seduta qualche fi la davanti a Park e, per quanto aveva potuto notare lui, era rimasta tutto il tempo a fi ssare il sole.

Insomma, sull’autobus Park non lo trovò un modo per to-gliersela di torno. O per togliersi di torno. Così si mise le cuf-fi e prima che la ragazza si sedesse e alzò il volume al massimo.

Fortuna che lei non si azzardò a rivolgergli la parola.

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ELEANOR

Quel pomeriggio Eleanor rincasò prima dei bambini, il che fu un bene perché non se la sentiva ancora di rivederli. Si era trovata di fronte uno spettacolo così assurdo quando era tornata a casa la sera prima...

Aveva passato tanto di quel tempo a immaginare il suo ritorno e a pensare a quanto le mancavano tutti quanti che si era aspettata una vera e propria sfi lata, con tanto di co-riandoli e abbracci a volontà.

Invece, al suo ingresso era stato come se i fratelli non l’avessero riconosciuta.

Ben l’aveva a malapena guardata e Maisie... Maisie era seduta in braccio a Richie. Una scena di fronte alla quale avrebbe vomitato all’istante se non avesse appena promes-so alla mamma di comportarsi bene per il resto della vita.

Solo Mouse si era precipitato ad abbracciarla. In uno slancio di gratitudine, lei lo aveva preso in braccio. Ma or-mai aveva cinque anni ed era pesantuccio.

«Ciao, Mouse» aveva detto. Gli avevano affi bbiato quel soprannome, Topo, fi n da piccolo, Eleanor non ricordava nemmeno perché. In realtà aveva più l’aria di un cucciolo-ne affettuoso, sempre eccitato, sempre pronto a saltarti in braccio.

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«Guarda, papà, c’è Eleanor» aveva esclamato lui balzan-do giù. «La conosci?»

Richie aveva fi nto di non sentire. Maisie era rimasta a guardarla succhiandosi il pollice. Era da tempo che Eleanor non la vedeva con il dito in bocca. Nonostante i suoi otto anni sembrava ancora una poppante, con quel pollice in bocca.

Il piccolo non poteva ricordarsi di Eleanor. Doveva aver compiuto due anni... Era seduto per terra con Ben. Ben ne aveva undici, invece. Fissava la parete dietro il televisore.

La mamma aveva portato la sacca con la roba di Eleanor in una delle stanze che si aprivano sul soggiorno e lei l’ave-va seguita. Era una stanza piccola, che conteneva a stento un comò e un letto a castello. Mouse le aveva seguite di corsa. «Tu prendi il letto di sopra,» le aveva detto «e Ben dorme per terra con me. Si è messo a piangere quando la mamma ce lo ha detto.»

«Non è un problema» aveva commentato la mamma. «Si tratterà solo di adattarsi un po’.»

In uno spazio così ristretto c’era poco da adattarsi. (Un commento che Eleanor aveva deciso di tenere per sé.) Pur di non dover tornare in soggiorno, era andata a letto appe-na possibile.

Quando si era svegliata nel cuore della notte, tutti i suoi fratelli dormivano per terra. Era impossibile alzarsi senza calpestare uno dei tre, ed Eleanor non sapeva nemmeno dove fosse il bagno...

L’aveva trovato subito, però. La casa aveva solo cinque stanze e il bagno si poteva considerare a malapena. Era at-taccato alla cucina; attaccato nel senso letterale del termine, senza nemmeno la porta. Dovevano averla progettata i troll delle caverne, quella casa, aveva pensato Eleanor. Qualcu-no, forse la mamma, aveva appeso un lenzuolo a fi ori tra il frigo e il gabinetto.

Tornata da scuola, Eleanor aprì la porta con la chiave

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nuova. Così spoglia e tetra, la casa aveva un’aria ancora più deprimente alla luce del giorno, ma almeno Eleanor aveva casa e mamma tutte per sé.

Le fece uno strano effetto tornare da scuola e trovare la mamma in piedi in cucina, come... come se fosse tutto nor-male. Preparava la zuppa e affettava le cipolle. A Eleanor venne da piangere.

«Tutto bene a scuola?» le chiese la madre.«Sì, bene» rispose lei.«Com’è andato il primo giorno?»«Normale, solita roba.»«Sei molto indietro con il programma?»«Mi pare di no.»La mamma si asciugò le mani sui jeans e si passò i capelli

dietro le orecchie. Per la millesima volta, Eleanor restò in-cantata dalla sua bellezza.

Da piccola le era sempre sembrata una regina, la prota-gonista di qualche fi aba.

Una regina, non una principessa. Perché le principesse sono belle, mentre sua madre era bellissima: alta, impo-nente, con spalle ampie, un vitino elegante e un’ossatura che sembrava non avere il semplice scopo di sostenerla, ma quello di affermare qualcosa d’importante.

Aveva un naso pronunciato, un mento aguzzo e zigomi alti e prominenti. A guardarla ti dava l’idea di essere stata scolpita per la prua di una nave vichinga, o dipinta sulla fi ancata di un aeroplano...

Eleanor le somigliava molto.Ma non abbastanza.Era sua madre vista attraverso un acquario. Aveva con-

torni più arrotondati, più morbidi. Sfumati. Se la madre era statuaria, Eleanor era robusta. Se la madre sembrava disegnata, Eleanor appariva sbavata.

Dopo cinque fi gli, la madre aveva i seni e i fi anchi del-la classica donna che compariva nelle pubblicità delle si-

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garette. A sedici anni, Eleanor aveva già la corporatura dell’ostessa di una taverna medievale.

Aveva troppo di tutto e troppo poca altezza per masche-rarlo. I seni le cominciavano appena sotto il mento, i fi anchi erano... una parodia. Anche i capelli della madre, lunghi, mossi e ramati, erano una versione più legittima dei ricci rosso fuoco di Eleanor.

A disagio, si portò una mano alla testa.«Ho una cosa da mostrarti,» disse la mamma coprendo

la zuppa «ma non volevo farlo davanti ai bambini. Vieni con me.»

Eleanor la seguì in camera dei fratelli. La mamma aprì l’armadio a muro e tirò fuori una pila di asciugamani e una cesta della biancheria piena di calzini.

«Non ho potuto portare ogni cosa quando ci siamo tra-sferiti» disse. «Come vedi, qui non abbiamo tutto lo spazio che avevamo nella casa vecchia...» Frugò in fondo all’arma-dio e tirò fuori un sacco di plastica nera. «Però ho raccolto più roba possibile.»

Le passò il sacco e aggiunse: «Mi dispiace per il resto».Eleanor pensava che Richie le avesse buttato tutto nel

bidone un anno prima, dieci secondi dopo averla cacciata di casa. Prese il sacco tra le braccia e disse: «Fa niente. Grazie lo stesso».

La mamma le accarezzò la spalla per un attimo. «I bam-bini saranno a casa tra una ventina di minuti,» disse «cenia-mo alle quattro e mezzo. Preferisco che sia tutto sistemato prima che torni Richie.»

Eleanor annuì e, appena la madre uscì dalla stanza, aprì il sacco. Era ansiosa di vedere che cosa le fosse rimasto...

Per prime vide le bamboline di carta. Erano stropicciate e sparse qua e là, alcune scarabocchiate con i pastelli. Non ci giocava da anni, ma rivederle le fece piacere comunque. Le lisciò ben bene e le impilò l’una sull’altra.

Sotto le bambole c’erano i libri, una decina e più, che la

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madre doveva aver agguantato a caso; non poteva sape re quali fossero i suoi preferiti. Fu lieta di trovare Il mondo secondo Garp e La collina dei conigli. Ma era un pecca-to che Oliver’s Story l’avesse scampata e Love Story no. C’era pure Piccoli uomini, ma non Piccole donne e I ra-gazzi di Jo.

Il sacco conteneva anche un mucchio di fogli. Eleanor aveva uno schedario nella sua vecchia stanza, e la mamma doveva aver preso quasi tutte le cartelle. Eleanor fece una pila ordinata di tutto quanto, pagelle, foto di classe e lettere degli amici di penna.

Chissà dov’era fi nito il resto della roba proveniente dalla casa vecchia? Non solo la sua, ma quella di tutti. I mobili, i giocattoli, tutte le piante e i quadri della mamma. I piatti danesi del matrimonio della nonna... il cavallino rosso da sempre appeso sopra il lavabo.

Forse era tutto riposto da qualche parte. Forse la mam-ma sperava che la casa progettata dai troll delle caverne fosse solo temporanea.

Eleanor invece sperava ancora che Richie fosse tempo-raneo.

In fondo al sacco nero c’era una scatola. Sentì un tuf-fetto al cuore appena la vide. Lo zio del Minnesota man-dava sempre alla famiglia un abbonamento al Fruit of The Month Club come regalo di Natale, ed Eleanor e i suoi fra-telli si litigavano sempre le cassette in cui arrivava la frutta. Una cosa stupida da fare, ma erano proprio delle belle cas-sette, solide e con un bel coperchio. Quella era la cassetta dei pompelmi ed era tutta logora sui bordi.

Eleanor la aprì con delicatezza. Dentro non avevano toc-cato niente. C’erano la carta da lettere, le matite colorate e i pennarelli Prismacolor (un altro regalo di Natale del-lo zio). Un mazzetto di cartoline promozionali del centro commerciale, che odoravano ancora di profumi costosi. E il walkman. Senza segni di manomissione. E senza pile, an-

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che, ma l’importante era che ci fosse. Perché dove c’era un walkman, c’era la possibilità di ascoltare della musica.

Eleanor chinò la testa sulla scatola. Profumava di Chanel N° 5 e trucioli di matita. Sospirò.

Una volta passati in rassegna gli oggetti recuperati, non c’era niente che potesse farci. Nel comò non c’era nem-meno posto per i suoi vestiti. Così, messi da parte libri e cassetta, ripose con cura tutto il resto dentro il sacco e lo fi ccò più in fondo che poté sullo scaffale alto dell’armadio, dietro gli asciugamani e un umidifi catore.

Salì sul letto e ci trovò a sonnecchiare un vecchio gatto arruffato. «Sciò» gli fece, scacciandolo. Il gatto balzò giù e uscì dalla stanza.

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