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Rosalma Salina Borello Se una notte una farfalla sogna di essere Zhuang-zi Incontri di poeti, loso, pittori sulla Via della seta: Montale, Calvino, Lao-tzu, Okakura, Po Chou-i, Yang-ti, Kenk , Nishida, Sasaki, Nietzsche, Jung, Alquié, Artaud, Van Gogh, Gatto, Bigongiari, Breton e altri.

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Rosalma Salina Borello

Se una notte una farfalla sogna di essere Zhuang-zi

Incontri di poeti, filosofi, pittori sulla Via della seta:

Montale, Calvino, Lao-tzu, Okakura, Po Chou-i, Yang-ti, Kenk , Nishida, Sasaki, Nietzsche,

Jung, Alquié, Artaud, Van Gogh, Gatto, Bigongiari, Breton e altri.

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I edizione: aprile 2005

I ristampa aggiornata: settembre 2006

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a mio padre

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NON DOMANDARCI LA FORMULA

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AL LETTORE

La farfalla dalle ali rosse che si libra nell’aria sopra la pesante realtà è emblema di

quella leggerezza che Calvino augurava al nuovo millennio.

Nel dipinto di Lü Shoukun (1919-1975) la resa grafica della materia ci sembra

alludere al lento e faticoso lavoro di decantazione che la “letteratura della leggerezza”

deve compiere, quasi attraversando le varie fasi della trasformazione alchemica (dalla

“nigredo” alla “rubedo”) per conquistare l’aerea levità di tanti personaggi che popo-

lano l’universo poetico di Montale, quello dei surrealisti (dalla prima all’ultima genera-

zione) e le pagine di Calvino.

I saggi raccolti in due volumi, in un certo senso, complementari, Se una notte una

farfalla sogna di essere Zhuang-zi e La maschera e il vuoto, derivano in gran parte

dall’elaborazione di discorsi e interventi negli incontri internazionali, da me organizzati,

all’insegna dell’amicizia e del dialogo tra cittadini del mondo Si ricorderanno quasi

sempre in nota le diverse occasioni, sedi e figure di amiche e amici intervenuti, di volta in

volta, come interlocutori in un dialogo che spesso continua oltre i muri d’ombra e le

distanze, in apparenza, più incolmabili…

Nella pagina precedente: L’essere se stesso del Maestro Zhuang-zi di Lü Shoukun, 1974.

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«Esser vasto e diverso». A proposito di Montale.

Agli studenti

di Regensburg e di Roma, Tor Vergata

Un messaggio in bottiglia

La consonanza di Montale con un “sentire” che potrebbe

avvicinarsi a quello del grande poeta cinese Po Chou-i non è poi tanto sorprendente. Come egli dice nella prefazione all’antologia di Liriche cinesi, pubblicata da Einaudi nel 1952, quella poesia «non è un microcosmo che riveli e illumini perfettamente l’entità macrocosmica che le ha permesso di formarsi – la formicolante, travagliata, civile, ed estenuantissima vita, e vita millenaria, di un popolo sterminato, diversissimo dai nostri». È invece «un insieme di gocce d’acqua che dovrebbero rivelarci un oceano e se ne stanno chiuse nelle loro fiale delicate e sottili; è un lampo di madreperla che illumina una tragedia troppo più che individuale per suggerirci parole di quaggiù»1.

Argomento unico di quella «sterminata efflorescenza» sembra essere la poesia stessa come un messaggio in bottiglia: una «bouteille à la mer trasmessa da iniziato a iniziato». Po Chou-i cantava per tutti, lontano da ogni mandarinismo poetico, eppure pare che solo Yuan Chen possa essere il destinatario dei suoi versi quando li scopre scritti sul muro di una locanda:

1 Cfr. E. Montale, Prefazione a «Liriche cinesi» in Sulla poesia, Milano

Mondadori, 1976, pp. 41-48, passim.

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Il mio goffo poema sul muro della locanda Nessuno finora s’era curato di leggere. Muschio e tracce d’uccelli ne avean cancellato i caratteri. Poi giunse un avventore dal cuore così traboccante, Che, benché fosse Paggio al trono dell’Imperatore, Si degnò con un lembo del suo ricamato mantello Di spazzar via la polvere e leggere2.

Evidentemente l’opera «è giunta a destinazione, ha trovato

finalmente il suo lettore», commenta Montale. Nelle composi-zioni di Po Chou-i e degli altri poeti cinesi «l’uomo e l’arte ten-devano alla natura, erano natura».

Si avverta intanto che non si tratta qui di rifacimenti o pastiches di un artista originale su una materia presa a prestito in quanto suscetti-bile di modernissime variazioni musicali: […] Attraverso secoli di guerre, di flagelli, di carestie e di orrori, questi pochi poeti, questi in realtà numerosissimi poeti che si contano per dinastie (e sono impe-ratori e ministri, generali che corrispondono in versi, mogli ripudiate e funzionari in esilio) si sono trasmessi il fior di giada dell’arte loro, l’hanno elaborata e perfezionata, adorna di sensi e supersensi, di parallelismi concettuali e di acuzie tecniche, hanno compiuto insom-ma prima di noi tutto il ciclo evolutivo e involutivo ai quali ci han reso familiari, in pochi secoli, le maggiori letterature dei nostri paesi. […] Si consideri la relativa traducibilità di coteste perle cinesi, certo più accessibili, portate in un altro linguaggio, di moltissimi frammenti greci. In esse la contraddizione tra fondo e forma, tra significato e stile, che noi riteniamo costitutiva d’ogni poesia, non ha toccato certo il suo vertice. Quel loro impalpabile prestigio formale che si sovrap-pone alla verità e non l’annulla, dovette essere in qualche misura una bellezza di scuola, apprendibile, tramandabile. Una bellezza quale può essere toccata, appunto, anche da duemila poeti nel giro di tre o quattro secoli. E una retorica trasmissibile, s’intende, esiste anche da noi ed è il fondamento di tutto il nostro classicismo. Ma nel mondo occidentale, cristiano, il bello si è fatto più intrinseco, la forma è diventata una forma-fantasma e il dissidio tra la bellezza e il suo

2 Ibid., p. 46.

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significato è ormai dialettico, è sceso nel tempo dell’uomo e nel suo destino3.

Le labili epifanie di un poeta come Montale sono l’emblema,

a tutti familiare, di quelle «forme-fantasma» che popolano la lirica occidentale, ma il «tono di corrispondenza, di confessione, di epistola» che egli rileva nella «vastissima satura4» della poesia cinese (e pervade tutta la tradizione letteraria dell’Estremo-Oriente, compresa, ovviamente, quella giapponese) non manca certo nella sua produzione. Non a caso il suo nome affiora nel discorso di Gian Carlo Calza, quando parla di Kenk , autore di una specie di «elzeviri formato zen», in cui parrebbe di poter ritrovare un’assonanza con la poesia di Montale:

Pare un distillato di saggezza umana, tanto più squisita in quanto è offerta con noncuranza, come se si trattasse della cosa più ovvia e naturale e spesso per il tramite di un fatto di per sé insignificante. Ma questo elemento di banalità viene trasformato nello strumento prezio-so che indica a ciascuno la via per la conquista della propria condi-zione di uomo acquistando così valore esemplare, e facendo assurgere l’aspetto quotidiano della vita alla sfera degli archetipi.

3 Ibid., pp. 42-48 passim. 4 Ibid., p. 44. Montale rileva come nella produzione letteraria dell’antica

Cina tutto sia «come sommerso e livellato da una clima, da un gusto» che permea anche la produzione successiva, dove «mancano le nostre, del resto relative, partizioni di genere; ma per lo più la lirica e la satira sembrano affiancarsi liberamente in questa vastissima satura, l’epopea vi è quasi sconosciuta se non l’epos, e la poesia primitiva, essenzialmente popolare, quella del Libro delle Odi (1753-600 a. C.) è bastata a Confucio per dispanarvi le fila dei suoi precetti morali e delle sue interpretazioni allegoriche». E continua: «Nulla d’implicito in questa lirica di poeti che furono ad un certo punto anche pittori e calligrafi; nessun abisso che divida la poesia colta da quella popolare o rimasta senza attribuzione. […] Di mano sconosciuta è per esempio il Poema di Magnolia, la fanciulla guerriera che solo dopo molti anni di battaglie, di lotte e di vittorie, dimette l’armatura, stringe i capelli in un nodo, si tinge la fronte di giallo ed esce incontro ai suoi commilitoni» (Ibid., pp. 44-45).

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Si diceva che questa «voce» ha per noi italiani una nota di familiarità. Era a Montale che il pensiero correva. E tra le tante analogie che si potrebbero scoprire, la più pregnante è proprio quella dell’atteggia-mento verso la morte. Si pensi, in occasione del discorso per il confe-rimento del premio Nobel a Stoccolma, al riferimento fatto al proprio «coccodrillo», l’elogio funebre delle personalità di rilievo che giace, preconfezionato in vitam negli archivi dei quotidiani5.

Nella voce di Urabe Kaneyoshi, chiamato Kenk , di quel

monaco letterato giapponese del Trecento che sa distillare, con somma eleganza e noncuranza, perle di saggezza da triti fatti, pare effettivamente anche a me di avvertire una sorprendente consonanza con quella di Montale. Gli elementi di banalità, i «triti fatti» vengono trasmutati in entrambi nello strumento pre-zioso che indica a ciascuno una via non dissimile da quella del Wu-Wei proposto dal Tao. Non è certo facile per il mondo occidentale recepire il pensiero taoista che permea di sé la poe-sia, le arti, la cultura dell’Estremo Oriente, come ha sottolineato Jung che, forse più di ogni altro, ne ha compreso il messaggio e lo ha saputo metabolizzare nell’elaborazione delle sue teorie sulla personalità:

È caratteristico dello spirito occidentale non possedere nessun concetto corrispondente a quello del Tao. L’ideogramma cinese è composto dai segni “testa” e “andare” […] La “testa” potrebbe allu-dere alla coscienza, l’“andare” al “percorrere una via” e il concetto significherebbe quindi “andare consapevolmente”, o “ via cosciente”. Con ciò concorda il fatto che come sinonimo di Tao s’ impieghi la “luce del cielo”, che “dimora tra gli occhi” come “cuore celeste”. L’essere e la vita sono contenuti nella luce del cielo. E Liu Hua Yang li considera i segreti più importanti del Tao. Ora la “luce” è l’equivalente simbolico della coscienza, e la natura della coscienza viene espressa da analogie con la luce, Il Hui Ming Ching inizia coi versi:

5 Cfr. G. C. Calza, Stile Giappone, Torino, Einaudi, 2002, p. 35.

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Se vuoi produrre il corpo di diamante, senza dispersioni Con cura devi riscaldare la radice della coscienza e della vita. Illuminare devi il paese beato ch’è sempre vicino, E colà celato, lasciarvi sempre abitare il tuo vero Io.

Questi versi contengono una sorta di istruzione alchemica, un metodo o una via per la produzione del corpo adamantino, di cui si parla anche nel nostro teso. A questo scopo è necessario operare un “riscal-damento”, ovvero un ampliamento della coscienza affinché la dimora dell’essere spirituale ne venga “illuminata”. Non solo la coscienza dev’essere ampliata, ma anche la vita va resa più intensa6

La poesia di Montale, che è stata spesso definita nei termini

di una «microescatologia dell’effimero»7, potrebbe essere ricon-dotta a un minimalismo esistenziale che induce – si potrebbe dire con Lao-tzu – a considerare il piccolo come grande, il poco come molto. Sua è la parola che in Mediterraneo sa rivelare nella fluttuante vastità marina l’«eterno ‘réservoir’ delle forme, che accoglie indifferentemente le vuote larve dell’essere e l’informe vita ancora da configurarsi» (come aveva intuito Solmi in un celebre saggio del ‘26).

Mia vita, a te non chiedo lineamenti fissi, volti plausibili o possessi.8

Forse occorreva il coltello che recide, non l’attenzione al

ribollio della vita fugace. Forse occorrevano altri libri, non l’assi-dua lettura della pagina rombante del mare, ma il poeta ammette di non rimpiangere nulla:

6 Cfr. C.G. Jung, Commento al «Segreto del fiore d’oro» in Studi sull’alchi-

mia, Torino, Boringhieri, 1997, pp. 17-18. 7 Cfr. A. Frattini, P. Tuscano, Eugenio Montale, in Poeti italiani del XX se-

colo, Brescia, La Scuola, 1974, p. 575. 8 Questi versi di un celebre osso, tratti come tutte le altre citazioni dall’edi-

zione critica a cura di Gianfranco Contini e Rosanna Bettarini, si trovano in E. Montale, L’opera in versi, Torino, Einaudi, 1980, p. 31.

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Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale siccome i ciottoli che tu volvi, mangiati dalla salsedine; scheggia fuori del tempo, testimone di una volontà fredda che non passa. Altro fui: uomo intento che riguarda in sé, in altrui, il bollore della vita fugace - uomo che tarda all’atto, che nessuno, poi, distrugge9.

Il cuore che ogni moto tiene a vile, non più squassato da tra-

salimenti, sa che la più vera ragione è di chi tace10. Sa, come sa Arsenio (lo vedremo e, intanto, si noti la rima stolto-volto) che quando si è alle origini ogni decisione è stolta:

Quivi sei alle origini e decidere è stolto: ripartirai più tardi per assumere un volto11

Stolto sarebbe opporsi all’inclinazione naturale delle cose,

alle erratiche forze dei venti che s’ingolfano verso l’oceano: Mia vita è questo secco pendio, mezzo non fine, strada aperta a sbocchi di rigagnoli, lento franamento. È dessa, ancora, questa pianta che nasce dalla devastazione e in faccia ha i colpi del mare ed è sospesa fra erratiche forze di venti12.

Una strada aperta a sbocchi di rigagnoli è la via seguita dal

poeta, che vi si abbandona senza riserve e rimpianti, partecipe

9 Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale (Ossi di seppia, abbr. OS) p. 57 10 So l’ora in cui la faccia più impassibile, (OS) p. 36. 11 Là fuoriesce il Tritone (OS) p. 35. 12 Giunge a volte, repente (OS) p. 55.

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alla legge universale del mutamento. Anche il nostro passato non ci appartiene più:

Cigola la carrucola del pozzo, l’acqua sale alla luce e vi si fonde. Trema un ricordo nel ricolmo secchio, nel puro cerchio un’immagine ride. Accosto il volto a evanescenti labbri: si deforma il passato, si fa vecchio, appartiene ad un altro…13

Su questo celebre osso potrebbe aver agito, come memoria

più o meno involontaria, una poesia di Yuan Chen (779-831 d.C.) di cui nell’antologia einaudiana è riportato un componi-mento intitolato Il secchiello:

In sogno mi trovai sopra un pianoro altissimo E su quel pianoro vidi un pozzo profondo. La mia gola era secca a forza di salire E con tutte le forze desideravo bere. I miei occhi erano avidi di chinarsi a guardare Nella fresca voragine; mi misi a camminare Intorno al pozzo e infine mi chinai e guardai: La mia specchiata immagine nel pozzo contemplai. Un secchiello di coccio calava nel profondo, Ma non c’era una fune per ritirarlo su. Stranamente turbato al pensiero di perderlo Mi misi come un pazzo a correr su e giù; Di villaggio in villaggio, sempre in cerca d’aiuto, Tutto l’alto pianoro invano perlustrai; Erano assenti gli uomini; i cani mi assalivano; Mi rivolsi e piangendo al pozzo ritornai. Fitte, sempre più fitte, cadevano accecanti Le mie lacrime, e infine dal pianger mi svegliai. Dalla candela tremula guizzava un fumo verde; Le lacrime brillavano a lume di candela. E tentai di scrutare in fondo al mio pensiero:

13 Cigola la carrucola del pozzo (OS) p. 45.

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L’altipiano dei sogni miei era il cimitero Di Chang-an: quei cento ettari di terra incoltivata. Il terreno pesante, gli alti mucchi di terra E sotto ai mucchi i morti nelle casse profonde. Profonde son le casse, pure talvolta i morti Trovan la via del Mondo sopra le loro tombe. E l’amor mio stanotte, morto da tanto tempo, M’apparve nella forma del secchiello nel pozzo; Ecco perché le lacrime sgorgaron come fiume, Come fiume improvviso, bagnandomi la veste14.

Forte è la suggestione di questi antichi versi, non solo per la

densità delle immagini, ma per l’interpretazione del mondo oni-rico che assedia la fantasia del poeta, ne popola le notti, ne trafig-ge i giorni con lame affilate dal ricordo.

L’immagine del pozzo-memoria, quella del secchio come tramite per l’emergere del passato, parrebbe aver fatto presa sui versi di Montale che, di riflesso, acquistano una tonalità più lugu-bre e onirica.Yuan Chen che interpreta il suo sogno ci dischiude un ventaglio interpretativo che si può estendere anche a Montale: quell’altro disciolto nel ricolmo secchio non può che appartiene al regno dei revenants, dei trapassati. Nel poemetto Mediterraneo questa consapevolezza si vena di nostalgia, nel rimpianto di un rapporto privilegiato con l’elemento equoreo primordiale vissuto in un passato mitico (quello delle estati della sua infanzia):

La casa delle mie estati lontane t’era accanto, lo sai, là nel paese dove il sole cuoce e annuvolano l’aria le zanzare. Come allora oggi in tua presenza impietro, mare, ma non più degno mi credo del solenne ammonimento

14 La poesia di Yuan Chen, Il secchiello, figura nell’antologia di liriche

cinesi, di cui Montale curò per Einaudi la prefazione. Cfr. Liriche cinesi, op. cit., p. 139.

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del tuo respiro. Tu m’hai detto primo che il piccino fermento del mio cuore non era che un momento del tuo; che mi era in fondo la tua legge rischiosa: esser vasto e diverso e insieme fisso…15

Negli Ossi di seppia l’abbandono al naturale fluire della vita

viene attribuito a un’età mitica, quella dell’infanzia, «dove ogni umano impulso / appare seppellito / in aura millenaria» come ci vien detto in una poesia in cui paiono trasfusi in versi i dettami della pittura zen. Ne citerò qualche stralcio:

Rombando s’ingolfava dentro l’arcuata ripa un mare pulsante, sbarrato da solchi, cresputo e fioccoso di spume. Di contro alla foce d’un torrente che straboccava il flutto ingialliva. Giravano al largo i grovigli dell’alighe e tronchi d’alberi alla deriva16.

Dopo questa marina si apprezzi l’estatico affissarsi nel ricor-

do di un paesaggio montuoso: Poco s’andava oltre i crinali prossimi di quei monti; varcarli pur non osa la memoria stancata. So che strade correvano su fossi incassati, tra garbugli di spini; mettevano a radure, poi tra botri, e ancora dilungavano verso recessi madidi di muffe, d’ombre coperti e di silenzi…

15 Antico, sono ubriacato dalla voce (OS) p. 52. 16 Fine dell’infanzia (OS) p. 65.

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Di quella stupita fanciullezza sopravvive un ricordo di armo-nia (rapido rispondeva / a ogni moto dell’anima un consenso / esterno), l’instabile vicenda di quelle immagini di vita in per-petua fluttuazione ed insieme l’agile ritmo che le governava:

Ma dalle vie del monte si tornava. Riuscivano queste a un’instabile vicenda d’ignoti aspetti ma il ritmo che li governa ci sfuggiva. Ogni attimo bruciava negl’istanti futuri senza tracce. Vivere era ventura troppo nuova ora per ora, e ne batteva il cuore. Norma non v’era, solco fisso, confronto, a sceverare gioia da tristezza.

La ricerca di un «ritmo» si trasfonde nell’attesa di una parola

leggera e duttile nel cogliere l’esistenza nel suo perpetuo fluire. La parola ossimorica di Montale, radicata in una profonda co-scienza filosofica (nonostante le dichiarazioni dell’autore sulla sua scarsa competenza in materia), in una sorta di “a-teologia del relativo”, sa fare questo: cogliere il non-essere come polo cui tende l’essere, il perpetuo fluire delle cose nell’evanescenza delle colori, nello svariare e svanire di tutto ciò che esiste:

Portami il girasole ch’io lo trapianti nel mio terreno bruciato dal salino, e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti del cielo l’ansietà del suo volto giallino. Tendono alla chiarità le cose oscure, si esauriscono i corpi in un fluire di tinte: queste in musiche. Svanire è dunque la ventura delle venture. Portami tu la pianta che conduce dove sorgono bionde trasparenze

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e vapora la vita quale essenza; portami il girasole impazzito di luce17.

Il perpetuo svariare e svanire di forme e colori può richia-

mare alla mente alcune intuizioni di Lao-tzu riprese da Kakuzo Okakura in un prezioso libretto in cui l’autore, discendente da una antichissima famiglia di samurai, riesce a spiegare, at-traverso la cerimonia del tè, i caratteri precipui del pensiero cinese:

Letteralmente, Tao significa Sentiero.[…] Lo stesso Lao-tzu ha detto: «Esiste una cosa che contiene tutto, nata prima che esistessero Cielo e Terra. Com’è silenziosa! Com’è solitaria! Se ne sta sola e non muta. Ruota su se stessa senza pericolo, ed è la Madre dell’Universo. Con riluttanza la chiamo Infinito. Infinito è Fugacità, Fugacità è svanire, Svanire è Ritornare». Il Tao è nel Passaggio, più che nel Sentiero. È lo spirito del Mutamento Cosmico, l’eterno sviluppo che ritorna su se stesso come il drago, simbolo prediletto dei taoisti. Si addensa e si squarcia come fanno le nuvole. Si potrebbe parlare del Tao come della Grande Transizione. Dal punto di vista del soggetto, è il modo di essere dell’Universo. Il suo Assoluto è il Relativo18.

L’a-teologia del relativo consente alla parola montaliana di

cogliere il miracolo: la rivelazione del vuoto, su cui, in un cele-bre e celebratissimo osso, si accampano, per la consueta messa in scena, per l’inganno consueto, le cose:

Forse un mattino andando in un’aria di vetro, arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me, con un terrore di ubriaco19.

17 Portami il girasole ch’io lo trapianti (OS) p. 32. 18 Cfr. K. Okakura, Lo zen e la cerimonia del tè, a c. di L. Gentili, Milano,

Feltrinelli, 1997. pp. 31-32. 19 Forse un mattino andando in un’aria di vetro (OS) p. 40.

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Ecco il timore e l’ebbrezza del nulla, in una navigazione senza più alcun battello o «bateau ivre», in una deriva senza fini né fine. Ma, a differenza del JE-bateau di Rimbaud, troviamo qui un io lirico disciolto in un’esperienza del vuoto non delirante, ma filosofica, che potrebbe essere quella proposta dalle varie scuole di meditazione buddista o zen. Nel secondo verso l’aspetto positivo del vuoto è evidenziato dal fatto che è posto a sinonimo di «miracolo», un miracolo che, a fine strofa, viene ridimen-sionato, secondo un procedimento di relativizzazione dell’assolu-to che ci è ormai familiare, da una quasi-rima, una rima imper-fetta con «ubriaco»: una di quelle rime, fatte «per abbassare il tono, non per alzarlo» – direbbe Calvino – in cui Montale è, al pari di Gozzano, maestro20.

A ben vedere – suggerisce Calvino in un suo famoso saggio – l’aria di vetro «è il vero elemento di questa poesia» e continua:

È la determinatezza del medio che sbocca nel senso del nulla (mentre in Leopardi è l’indeterminatezza che raggiunge lo stesso effetto). O per essere più precisi, c’è un senso di sospensione, dal «Forse un mattino» iniziale, che non è indeterminatezza ma attento equilibrio, «andando in un’aria di vetro», quasi camminando nell’aria, in aria, nel fragile vetro dell’aria, nella luce fredda del mattino, fino a che non ci s’accorge d’essere sospesi nel vuoto21.

Il concetto di vuoto è così fondamentale nel pensiero orientale

(perché la Via è vuota e nonostante l’uso non si riempie mai, secondo il taoismo22) da improntare la tradizione letteraria, filo-

20 Per l’interpretazione montaliana di Gozzano rimando al saggio Guido

Gustavo Gozzano. Un ritorno al futuro inserito alla fine del volume La ma-schera e il vuoto, attualmente in corso di stampa presso la Aracne.

21 Questa citazione è tratta, come tutte le altre, dall’edizione mondadoriana dei Meridiani diretta da Claudio Milanini. Cfr. I. Calvino, Eugenio Montale, Forse un mattino andando, in Saggi, tomo II, Milano, Mondadori, 1995, p. 1181.

22 Lao-tzu sosteneva che solo nel vuoto si trova ciò che è veramente essenziale. La funzione di una stanza, ad esempio, va ricercata nello spazio

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sofica, le arti visive e le intuizioni scientifiche confermate – ne riparleremo – dalle più recenti acquisizioni della fisica moderna. L’esperienza del vuoto porta a un affinamento della percezione, che permette di cogliere l’indistinto e il precategoriale, riattivare quei canali di coscienza e di energia che ci consentono di recepire – parafrasando la celebre frase di Rimbaud – non solo il JE come un Autre, ma l’Autre come un JE. Illuminante a questo proposito il famoso episodio di Zhuang-zi che sogna di essere una farfalla, «una farfalla svolazzante e soddisfatta della sua sorte e ignara di essere Zhuang-zi». Risvegliatosi bruscamente si accorge con stupore di «non sapere se era Zhou che sognava di essere una farfalla, o una farfalla che sognava di essere Zhou».

Bruscamente si risvegliò e si accorse con stupore di essere Zhuang-zi. Non seppe più allora se era Zhou che sognava di essere una far-falla, o una farfalla che sognava di essere Zhou. Tra lui e la farfalla vi era una differenza. Questo è ciò che chiamano la metamorfosi degli esseri23.

In fondo al Graal…

È interessante osservare come il quasi troppo evidente e scontato riferimento al pensiero e alle letterature orientali – la cui conoscenza da parte di Montale è certificata anche dalla sua for-tunata antologia della poesia cinese – venga sottaciuta da Calvino

vuoto delimitato dalle pareti e dal tetto e non nel tetto e nelle pareti che fungono da sostegno. L’utilità di una brocca consiste nel vuoto nel quale l’acqua viene versata, e non nella forma del vaso o nel materiale di cui è fatto: il vuoto è onnipotente perché contiene ogni cosa. Solo nel vuoto il movimento è possibile. Colui che riesce a fare di sé un vuoto in cui gli altri possano entrare e uscire liberamente potrà dominare ogni situazione. Queste idee taoiste hanno eser-citato una profonda influenza su tutta la cultura dell’estremo Oriente, persino sulle arti marziali.

23 Cfr. Zhuang-zi (a cura di Liou Kia-hway), Milano, Adelphi, 1992, p. 32.

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in pagine critiche che si configurano come una riscrittura-tra-vestimento del celebre osso.

Il «vuoto» e il «nulla» sono «alle mie spalle», «dietro di me». Il punto fondamentale del poemetto è questo. Non è una indeterminata sensa-zione di dissoluzione: è la costruzione d’un modello conoscitivo che non è facile da smentire e che può coesistere in noi con altri modelli più o meno empirici. L’ipotesi può essere enunciata in termini molto semplici e rigorosi: data la bipartizione dello spazio che ci circonda in un campo visuale davanti ai nostri occhi e un campo invisibile alle nostre spalle, si definisce il primo come schermo d’inganni e il secondo come un vuoto che è la vera sostanza del mondo24.

Il travestimento dell’osso montaliano operato metodicamente

da Calvino attraverso l’uso di in linguaggio scientifico, da cui trae in realtà suggestioni e metafore (che andranno a popolare le labirintiche involuzioni e circonvoluzioni fantastiche di Palomar) passa innanzitutto attraverso una rivisitazione delle teorie della percezione di Merleau-Ponty:

Merleau-Ponty nella Fenomenologia della percezione ha pagine molto belle sui casi in cui l’esperienza soggettiva dello spazio si separa dall’esperienza del mondo oggettivo (nel buio della notte, nel sogno, sotto l’influsso della droga, nella schizofrenia, ecc.). Questa poesia potrebbe figurare nell’esemplificazione di Merleau-Ponty: lo spazio si disgiunge dal mondo e s’impone in quanto tale, vuoto e senza limiti25.

Con la stessa sofistica minuzia, con quella sua cervellotica

capziosità da «loico viscerale26» cui sono improntate tante pagine memorabili, Calvino continua imperterrito, in questo saggio, ad accumulare quelle che per lui sarebbero prove inconfutabili della presenza nell’osso montaliano di modelli conoscitivi tratti dai più

24 Cfr. I. Calvino, Saggi, op. cit., p. 1184. 25 Ibid., p. 1182. 26 La definizione è tratta da S. Perrella, Calvino, Bari, Laterza, 1999.

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disparati campi scientifici, dalla biologia alla fenomenologia del-

la percezione, dalla medicina agli studi antropologici, a volte con

effetti di una comicità grottesco-surreale:

L’uomo ha sempre sofferto della mancanza di un occhio sulla nuca, e

il suo atteggiamento conoscitivo non può che essere problematico

perché egli non può essere mai sicuro di cosa c’è alle sue spalle, cioè

non può verificare se il mondo continua tra i punti estremi che riesce

a vedere storcendo le pupille in fuori a sinistra e a destra. Se non è

immobilizzato può girare il collo e tutta la persona e avere una

conferma che il mondo c’è anche lì, ma questa sarà anche la conferma

che ciò che egli ha di fronte è sempre il suo campo visuale, il quale si

estende per l’ampiezza di tot gradi e non di più, mentre alle sue spalle

c’è sempre un arco complementare in cui in quel momento il mondo

potrebbe non esserci. Insomma, ruotiamo su noi stessi spingendo

davanti ai nostri occhi il nostro campo visuale e non riusciamo mai a

vedere com’è lo spazio in cui il nostro campo visuale non arriva.

Il protagonista della poesia di Montale riesce, per una combinazione

di fattori oggettivi (aria di vetro, arida) e soggettivi (ricettività a un

miracolo gnoseologico), a voltarsi tanto in fretta da arrivare, diciamo,

a gettare lo sguardo là dove il suo campo visuale non ha ancora

occupato lo spazio: e vede il nulla, il vuoto27

.

Lo spassoso travestimento-travisamento calviniano continua

con la trovata dello specchietto retrovisore «situato in modo da

escludere l’io dalla visione», ma da cui l’uomo motorizzato do-

vrebbe essere garantito «dell’esistenza del mondo dietro di lui»,

in quanto «munito d’un occhio che guarda indietro» che gli con-

sente di «comprendere in un solo sguardo due campi visivi con-

trapposti senza l’ingombro dell’immagine di se stesso, come se

egli fosse solo un occhio sospeso sulla totalità del mondo». Nella

conclusione del suo saggio, in cui avvertiamo già tutto il labirin-

tico arzigogolare di Palomar (che non per nulla si rifarà a

quest’osso montaliano per lanciarsi in una delle sue più avven-

turose elucubrazioni), Calvino sembra voler distruggere il castel-

27

Cfr. I. Calvino, Saggi, op. cit., p. 1185-1186.

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lo di carte costruito con l’aiuto delle più disparate teorie scien-tifiche sulla rivoluzione della tecnica percettiva operata dallo specchietto retrovisore:

Ma, a ben vedere, l’ipotesi di Forse un mattino non viene scalfita da questa rivoluzione della tecnica percettiva. Se l’«inganno consueto» è tutto ciò che abbiamo davanti, questo inganno s’estende a quella porzione del campo anteriore che, per essere incorniciata nello spec-chietto, pretende di rappresentare il campo posteriore. Anche se l’io di Forse un mattino stesse guidando in un’aria di vetro e si voltasse nelle stesse condizioni di ricettività, vedrebbe al di là del vetro posteriore della macchina non il paesaggio che andava allontanandosi nello specchietto, con le strisce bianche sull’asfalto, il tratto di strada appena percorso, le macchine che ha creduto di sorpassare, ma una voragine vuota senza limiti. Del resto, gli specchi di Montale – come Silvio D’Arco Avalle ha dimostrato per Gli orecchini (e per Vasca e altri specchi d’acqua) – le immagini non si riflettono ma affiorano «di giù», vengono incontro all’osservatore28.

Il commento calviniano, dopo aver imbrigliato la poesia in

un groviglio di reti interpretatitive di tipo tecnico-scientifico, riprende quota quando si tratta di mettere a frutto le indubbie competenze scientifiche dell’autore, ad esempio a proposito dello schermo su cui si proiettano nuovamente alberi, case, colli per l’inganno consueto. L’immagine illusoria «che veniva tradizio-nalmente resa da poeti e drammaturghi con metafore teatrali» si esprime attraverso il linguaggio cinematografico:

Questa poesia (databile tra il 1921 e il 1925) appartiene chiaramente all’era del cinema, in cui il mondo corre davanti a noi come ombre d’una pellicola, alberi case colli si stendono su una tela di fondo bidimensionale, la rapidità del loro apparire («di gitto») e l’enume-razione evocano una successione d’immagini in movimento. Che siano immagini proiettate non è detto, il loro «accamparsi» (met-tersi in campo, occupare un campo, ecco il campo visivo chiamato

28 Ibid., p. 1187.

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direttamente in causa) potrebbe anche non rimandare a una fonte o matrice dell’immagine, scaturire direttamente dallo schermo (come abbiamo visto avvenire nello specchio), ma anche l’illusione dello spettatore al cinema è che le immagini vengano dallo schermo29.

In chiusura di articolo, la ricostruzione del mondo prospettata

attraverso una metafora cinematografica, si trova una perfetta consonanza «con l’andatura assorta e sospesa nell’aria del mat-tino» del flaneur montaliano, avvolto nel silenzio «in cui si custo-disce il segreto carpito nel fulmineo moto intuitivo». Un’analogia sostanziale – conclude Calvino, ritrovando il tono leggero e svagato delle pagine iniziali – unisce quell’andar zitto al «vuoto che sappiamo essere origine e fine del tutto» (e, vorrei ag-giungere, il sEgRETO all’aria di vETRO che del vuoto è l’«ap-parenza esteriore meno ingannevole»30).

Il labirintico imbozzolarsi del pensiero di Calvino in un groviglio di riferimenti scientifici pur di esorcizzare l’idea del «vuoto», respingere il disagio di fronte al «miracolo» di quella scoperta è sintomatico di una preclusione tipica della mentalità occidentale, come viene sottolineato da Gian Carlo Calza:

Il concetto di vuoto nella nostra tradizione ha valenza precipuamente negativa, di carenza, il che non avviene in Giappone e Cina dove invece riveste un ruolo positivo e in vari modi viene anche raf-figurato. Per intenderne il valore potrà servire spostare l’attenzione dal concetto di vuoto che può lasciare a disagio, dall’horror vacui, a un concetto a noi più familiare, quello di «silenzio31».

Nell’arte dell’Estremo Oriente, improntata al pensiero taoista

cinese, anche nella sua derivazione Ch’an (o Ch’on, che ne è la rivisitazione in chiave buddhista, fatta propria dallo Zen giappo-nese) fondamentale è la presenza di spazi vuoti, da cui si sprigiona

29 Ibid., p. 1188. 30 Ibid., p. 1189. 31 Cfr. G.C. Calza, Stile Giappone, op cit., pp. 18-19.

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tutta l’energia di ciò che non è definito, non è ancora detto, offren-do allo spettatore la possibilità di completare la rappresentazione e stimolandone quindi la creatività, anziché l’ottundimento e la pas-sività. Se nella pittura occidentale le nubi – osserva ancora Calza – servono a costruire dei pieni, come in Tiepolo per esempio, in Ci-na e Giappone «le nubi sono qualcosa che s’inframmette tra il vi-sibile e l’invisibile», sono un’interruzione della visione che serve a stimolare nell’immaginazione dell’osservatore un’attitudine crea-tiva. Se sovrapponiamo al nostro concetto di vuoto quello del si-lenzio, ecco che il vuoto non è più per noi occidentali un fatto negativo: «pittoricamente il vuoto può essere una nebbia che interrompe la visione di una montagna, ma diventa anche l’allusio-ne a un mondo che c’è e l’osservatore può immaginarsi: ed è cer-cando di immaginarselo che si compie un processo di formazione personale: si fa uno sforzo, si diventa creativi».

Sarà forse il caso di ricordare che il concetto di vuoto in un’accezione simile sta prendendo piede anche nella nostra cul-tura, grazie soprattutto alle nuove acquisizioni in campo scien-tifico. Lo stesso Calvino, ne parla spesso nei suoi saggi, soprat-tutto in quelli inclusi nelle Lezioni americane. Nella prima lezio-ne, dedicata alla leggerezza, ammette di cercare nella scienza (nei quarks, nei neutrini vaganti nello spazio, nei messaggi del DNA ecc.) quel vuoto “concreto” come i corpi solidi che rece-piamo nel De rerum natura di Lucrezio:

Il De rerum natura di Lucrezio è la prima grande opera di poesia in cui la conoscenza del mondo diventa dissoluzione della compattezza del mondo, percezione di ciò che è infinitamente minuto e mobile e leggero. Lucrezio vuole scrivere il poema della materia ma ci avverte subito che la vera realtà di questa materia è fatta di corpuscoli invi-sibili. È il poeta della concretezza fisica, vista nella sua sostanza permanente e immutabile, ma per prima cosa ci dice che il vuoto è altrettanto concreto che i corpi solidi32.

32 Cfr. I. Calvino, Lezioni americane, in Saggi, op. cit., p. 636.

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Vuota è l’armatura che consente ad Agilulfo di assumere il ruolo di cavaliere senza macchia e senza paura ed insieme quello astratto, metafisico e metanarrativo, di manichino (non dissimile da quelli di De Chirico) in funzione di supporto del Geist der Erzählung33 (o pura istanza narrativa) che, a un ceto punto, giunta ad esaurimento, decreta la fine del cavaliere inesistente. Vuote le maschere pseudo-oggetive o pseudo-soggettive indos-sate dai testi con raffinata spregiudicatezza come osserva Claudio Milanini34. Inesistente è il mondo per l’alchimista o dottor Faust

33 L’espressione Geist der Erzählung (spirito della narrazione), tratta dal

romanzo Der Erwählte di Th. Mann, è diventata un topos della narratologia in cui indica un tipo di romanzo-che-si-fa-da-sé «- Chi dunque suona le campane di Roma? - Lo spirito della narrazione. - Può dunque egli essere dappertutto, hic et ubique […] nello stesso tempo in cento luoghi sacri? - Certo, lo può. È aereo, incorporeo, onnipresente, non legato allo spazio, non soggetto alle differenze del Qui e Là. È lui che dice: «Tutte le campane suonano», e di conseguenza è lui che le suona. Così spirituale è questo spirito e così astratto che di lui, grammaticalmente, si può parlare solo nella terza persona e si può dire solo: «Egli è». Ma questo «Egli» può anche raccogliersi in una persona e cioè nella prima, e impersonarsi in qualcuno che in essa parla e dice: «Sono io. Io sono lo spirito della narrazione che, seduto là dove ora mi trovo, e precisamente nella biblioteca del chiostro di S. Gallo, in terra alemanna, dove una volta sedeva Notkero il balbuziente, racconto questa storia per divertimento e straordinaria edificazione e comincio dalla sua fine gloriosamente santa e suono le campane di Roma» Th. Mann, Der Erwählte, Frankfurt a. M., Fischer, 1951 [trad. it. Romanzi brevi, Milano, Mondadori, 1955, pp. 604 s.]. Per una più ampia trattazione di questo e altri aspetti teorici del racconto e in particolare di quelli connessi al punto di vista rimando al mio saggio Literaturwissenschaft e romanzo. Voce narrante e punto di vista in AA. VV. Discorsi sul romanzo (a c. di P. Bagni), Firenze, Alinea, 1982, pp. 101-134), e a R. Salina Borello e C. Lardo, «L’impossibilità di dire:Io» A proposito della voce narrante in Gadda, Roma, Nuova Cultura, 1996.

34 Cfr. C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggi su Italo Calvino, Milano, Garzanti, 1990, p. 170. Claudio Milanini osserva, ad esempio che i protagonisti, dei tre racconti riuniti in Sotto il sole giaguaro sono recettivi e passivi a priori: «entità appiattite in una vita psichica fluida e instabile», il loro «io» è soprat-tutto un luogo, un sub-iectum esposto continuamente agli urti di una realtà esterna che lo destabilizza. In Palomar «soltanto in extremis la voce narrante

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che nella Taverna dei destini incrociati35 lo paragona alle miriadi di combinazioni realizzabili con le settantotto carte del gioco dei tarocchi. Il vuoto è invece, per Perceval-Parzifal-Parsifal, il «nocciolo del mondo», il principio di ogni movimento e trasfor-mazione, di ogni percorso o ricerca. Anziché compiere un pro-cesso di trasmutazione interore, «far diventare la sua anima inal-terabile e pura come l’oro», Faust «inverte la regola dell’alchi-mista, fa dell’anima un oggetto di scambio» In compenso – obbedendo alla stessa legge di oscillazione pendolare tra due estremi – l’eroe-senza-macchia-e-senza-paura trasmuta le regole della Tavola Rotonda, cessa di sottomettere «le sue azioni a una legge morale assoluta e severa». Come per il “Vero Uomo” taoista la ricerca della virtù, la stessa quête del Gral, sarà perse-guire un’inclinazione naturale: «le virtù cavalleresche saranno in lui involontarie, verranno fuori come un dono della natura, come i colori delle ali delle farfalle, e così compiendo le sue imprese con attonita incuranza, forse riuscirà a sottomettere la natura alla sua volontà, a possedere la scienza del mondo come una cosa, a diventare mago e taumaturgo, a far cicatrizzare la piaga del Re Pescatore e a ridare verde linfa alla terra deserta36». E così, mentre nel suo delirio combinatorio Faust vede il mondo risuc-chiato nel buco nero del nulla, per Parsifal dal vuoto si sprigiona il tutto, al massimo delle sue potenzialità, della sua bellezza e della sua armonia:

- Il mondo non esiste, - Faust conclude quando il pendolo raggiunge l’altro estremo, - non c’è un tutto dato tutto in una volta: c’è un nu-mero finito d’elementi le cui combinazioni si moltiplicano a miliardi di miliardi, e di queste solo poche trovano una forma e un senso e

assume e dichiara il proprio «punto di vista» tramite una subitanea e impre-vedibile giravolta stilistica». (Ibid., pp. 170-171).

35 Cfr. I. Calvino, Due storie in cui si cerca e ci si perde, in Il castello dei destini incrociati, in Romanzi e racconti, (a c. di M. Barenghi e B. Falcetto), vol. II, Milano Mondadori, 1992, pp. 582-589).

36 Ibid. p. 585.

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s’impongono in mezzo a un pulviscolo senza senso e senza forma; come le settantotto carte del mazzo dei tarocchi nei cui accostamenti appaiono sequenze di storie che subito si disfano. Mentre questa sarebbe la conclusione (sempre provvisoria) di Parsifal: – Il nocciolo del mondo è vuoto, il principio di ciò che si muove nell’universo è lo spazio del niente, attorno all’assenza si costruisce ciò che c’è, in fondo al gral c’è il tao, – e indica il rettan-golo vuoto circondato dai tarocchi37.

37 Ibid., p. 589.

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