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Robert Bresson LE PERIPEZIE DELLA GRAZIA

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Robert BressonLE PERIPEZIE DELLA GRAZIA

LE PERIPEZIE DELLA GRAZIA

Robert Bresson

a cura di Paolo Perrone

Acec(Associazione Cattolica Esercenti Cinema)

Via Nomentana, 251 - 00161 Roma www.saledellacomunita.it

Ancci(Associazione Nazionale Circoli Cinematografici Italiani)

Via Nomentana, 251 - 00161 Roma www.ancci.it

Progetto grafico: Serena Aureli

Robert Bresson

Robert Bresson

ROBERT BRESSON REGISTA

Les affaires publiques (cortometraggio, 1934)

La conversa di Belfort (Les Anges du péché) (1943)

Perfidia (Les dames du Bois de Boulogne) (1945)

Il diario di un curato di campagna (Journal d’un curé de campagne) (1951)

Un condannato a morte è fuggito (Un condamné à mort s’est échappé conosciuto anche come Le vent souffle où il veut) (1956)

Diario di un ladro (Pickpocket) (1959)

Processo a Giovanna d’Arco (Procès de Jeanne d’Arc) (1962)

Au hasard Balthazar (Au hasard Balthazar) (1966)

Mouchette - Tutta la vita in una notte (Mouchette) (1967)

Così bella, così dolce (Une femme douce) (1969)

Quattro notti di un sognatore (Quatre nuits d’un rêveur) (1971)

Lancillotto e Ginevra (Lancelot du Lac) (1974)

Il diavolo probabilmente (Le diable probablement) (1977)

L’Argent (1983)

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Au hasard Balthazar e Mouchette, i due film che Il Cinema Ritrovato al cinema propone nelle nuo-

ve versioni restaurate, sono i titoli cronologicamente centrali dell’opera di Robert Bresson. Escono a metà degli anni Sessanta, epoca concitata per il cinema francese: il riflusso della nouvelle vague, i brevi ardori del cinema politico, l’affrontamento tra riviste vecchie e nuove, la generazione nouvelle d’attori e attrici che s’avvia alla maturità e come può s’installa nel mercato. Ma Bresson è altrove, è una storia a parte, già un’auste-ra leggenda vivente. I critici e futuri registi dei Cahiers anni Cinquanta, sulla scorta di Bazin, ne hanno rispet-tato la distanza e riconosciuto il magistero d’autore. Il rigore radicale dello sguardo, che da subito aveva colpito e forse intimidito (colleghi e pubblico), è ormai un’estetica saldamente definita. Tanto che Au hasard Balthazar (da un soggetto originale) e Mouchette (da Bernanos) possono essere più espliciti nel loro porsi come ‘parabole’ estreme. Hanno per protagonisti un asino docile e maltrattato fino alla morte e un’adole-scente violentata e suicida. Sono film terribilmente concreti eppure straziati dalla metafisica (che è forse l’unica definizione onesta della condizione umana). Si chiudono con la presa d’atto, sospeso ogni giudizio e chiusa ogni via di fuga, che il male è tutto intorno a noi e che alcuni più di altri vi sono predestinati. Bresson saprà essere ancora più inesorabile, in futuro.

Robert Bresson, nato a Bromont-Lamothe, in Alver-nia, nel 1907 e morto a Parigi nel 1999, ha diretto tre-dici film in quarant’anni (più un giovanile mediome-traggio comico del 1934, perduto e ritrovato a metà anni Ottanta). L’esordio vero è negli anni Quaranta, nella Francia in guerra; Bresson ha fatto studi di filo-sofia, è segnato dai mesi di prigionia in un campo te-desco e nutre molteplici passioni letterarie. Ha subito

Robert Bresson:la rifondazionemetafisicadi Paola Cristalli, Cineteca di Bologna

PAOLA CRISTALLI

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chiaro che il cinema è scrittura: “Scrittura con immagi-ni in movimento e suoni”, come scolpisce a lettere ma-iuscole nelle Notes sur le cinématographe, un tesoro di aforismi, idee, allusioni che comincia a comporre nel 1950 (uscirà nel 1975 presso Gallimard). La conversa di Belfort (1943) è la storia dell’incontro e della sfida tra una suora e una peccatrice nel chiuso di un con-vento, con dialoghi di Jean Giraudoux; Perfidia (1944) è un geometrico intrigo di vendetta femminile desti-nato allo scacco, ispirato a Diderot. Pur nella forma depurata, nella concentrazione degli spazi, nel vuoto scavato attorno agli oggetti e al loro significato, que-sti film sono appunto storia e intrigo, sono narrazione coesa; sono ancora cinema, insomma, e a Bresson il cinema non interessa. Il cinema è quello che fanno gli altri, e “la vera originalità consiste nel cercare di fare come gli altri, senza riuscirci mai”. A Bresson non inte-ressa l’innovazione, gli interessa la rifondazione; non lo stile, ma il linguaggio. Non vuole fare cinema ma cinematografo, ovvero cinématographe. Un’ombra di snobismo, un sospetto di sofisma? La parola in fran-cese ha un’eco che rimanda inequivocabile alle origini e a Lumière. “Il cinema attinge a un fondo comune. Il cinematografo è un viaggio d’esplorazione su un pia-neta sconosciuto”.

Bresson si dispone all’esplorazione, con inesau-ribile energia intellettuale e la lucida percezione delle difficoltà pratiche da affrontare: finanziamenti scarsi, produttori diffidenti, affezione/disaffezione del pubblico. (“Il cinematografo, arte militare. Si pre-para un film come una battaglia”). Per cominciare gli è compagno di strada un controverso e molto amato scrittore cattolico, Georges Bernanos, dal cui Diario di un curato di campagna Bresson trae nel 1950 il suo primo capolavoro, tutto sottrazione e passione (più ‘passione’ di quanta ce ne sarà nel successivo Proces-so a Giovanna d’Arco), una giovane tonaca nera nella Francia profonda, solitudine e dubbio, mani che scri-vono esitanti o febbrili, anima e malattia e sangue e, da qualche parte, un anelito di trascendenza che il dolore tormenta ma non spegne. È un anelito, una possibilità, una scommessa, un “vento che soffia dove

ROBERT BRESSON: LA RIFONDAZIONE METAFISICA

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vuole” che Bresson ancora esplora, con il cinemato-grafo, in Un condannato a morte è fuggito, 1956, il suo film resistenziale; e in Pickpocket, 1959, frammenti di vita di uno dei suoi balordi senza causa, frammenti che trascendono il caso e si compongono in destino (“Oh Jeanne, quale strano cammino ho dovuto percor-rere per giungere fino a te”: interpellazione/snodo di tutto il cinema di Bresson, e anche la sua più auda-ce concessione al lirismo, contratta però in qualco-sa che sembra nera ironia: sono parole pronunciate dal parlatorio di un carcere da cui non si uscirà più). Il destino, d’ora in poi, si chiuderà in modo sempre più inappellabile intorno ai personaggi di Bresson. Dopo il suicidio che conclude Mouchette, si apriranno con un suicidio Così bella così dolce (1969, esplorazione retrospettiva d’una dissoluzione coniugale) e Il dia-volo, probabilmente (1977, esplorazione retrospetti-va d’una dissoluzione di famiglia, società e politica); L’argent, 1983, è come si fermasse immobile su una soglia, a contemplare il mondo completamente corro-so dal male che ora prende la forma d’una banconota falsa e della sua distruttiva circolazione. Sembra l’im-magine al nero delle tante peripezie morali, ilari o ci-niche, con cui il cinema ha inseguito biglietti di banca o di lotterie vincenti (Clair, Sturges, Scorsese…). Il ci-nema, appunto. Il cinématographe, giunto al suo esito più radicale, si limita a “mettere in ordine” immagini dove la natura maligna del denaro incrocia la natura maligna del caso. Fine di ogni storia. Fine della Storia. Banconote. Mani che scivolano abili nelle tasche dei borseggiati (Pickpocket). Mani sempre più deboli che reggono una penna (il Diario). Un cucchiaio, una mol-la (Un condannato). Rumori, echi, silenzio (“Il cinema sonoro ha inventato il silenzio”). Nessun realismo, na-turalismo, scansione narrativa, nessuna rappresenta-zione. Il cinema/cinematografo persegue un’altra pos-sibilità. Gli oggetti e il dettaglio sono i suoi strumenti (“un film di oggetti e un film sull’anima, cioè cogliere questa attraverso quelli”; e con un tocco di leggerezza, se così si può dire: “è attraverso gli oggetti, più che attraverso la recitazione degli attori, che un mondo è portato a esistere. Bisognerebbe citarli nei titoli di testa”).

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Balthazar

Il cinema di Bresson è in sé un oggetto enigmatico. È dominato fin dall’inizio da un’urgenza teorica che non deflette mai, che negli anni si affina, si ostina, si fa blocco. Richiede una disposizione intellettuale e an-tisentimentale (cioè, al cinema: innaturale). Non per-mette di accomodarsi nella dolcezza di un’immagine, mai. Ma allo stesso tempo, in mille nervature segrete, è anche capace di produrre una risonanza emotiva che non avevamo previsto, che ci coglie impreparati, e perciò tanto più profondamente scava. Concretezza, trascendenza, crudeltà, condizione umana? “Se solo mia madre mi vedesse”, chiude Un condannato a mor-te è fuggito. Una Note: “Non correre dietro alla poesia. S’infila da sola nelle giunture”. Le mystère Bresson.

Au hasard Balthazar

Balthazar

Regia: Robert Bresson

Origine: Francia (1966)

Durata: 95’

Interpreti: Anne Wiazemsky (Marie), François Lafarge (Gérard), Philippe Asselin (padre di Marie), Nathalie Joyaut (madre di Marie), Walter Green (Jacques), Jean-Claude Guilbert (Arnold), Pierre Klossowsky (mercante di gra-naglie), François Sullerot (fornaio), Marie-Claire Frémont (fornaia), Jean Rémignard (notaio), Jacques Sorbets (capi-tano gendarmeria), Tord Paag (Louis)

Soggetto e Sceneggiatura: Robert Bresson

Fotografia (b/n): Ghislain Cloquet

Musiche: Franz Schubert, Sonata n.20 in la magg. D 959 eseguita da Jean-Noël Barbier, brani jazz e canzoni di Jean Wiener

Suono: Antonie Archimbaut

Scenografia: Pierre Charbonnier

Montaggio: Raymond Lamy

Produzione: Parc film, Argos films, Athos films, Svensk fil-mindustri, Svensk filmistituten

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G ià compagno di giochi, durante le vacanze, di un bim-bo parigino, Jacques, l’asino Balthazar, quando il fan-

ciullo torna a Parigi, diventa proprietà di Maria. Legata a Jacques da un’infantile “patto d’amore”, Maria, ormai ado-lescente, suscita la bramosia di Gèrard, un poco di buono circondato da teppisti suoi pari, che maltratta l’animale, sottoponendolo ad ogni sorta di angheria, per poi cederlo a sua volta ad Arnold, un alcolizzato. Alla morte di que-st’ultimo, Balthazar si ritrova ad esibirsi in un circo, quindi a girare la ruota di un pozzo agli ordini di un imprenditore taccagno. Infine, dopo varie peripezie, l’asino viene ferito dai finanzieri e muore in mezzo a un gregge di pecore...

Spesso all’origine di un capolavoro c’è un’idea in-consueta, qualcosa di mai visto prima. A volte ha i tratti di una “visione folgorante”, come la definisce Bresson: una testa d’asino che riempie lo schermo. Una rivela-zione nella quale il regista ha osato credere, realizzan-do un film il cui protagonista è proprio un asino. Sulle prime l’idea potrebbe sembrare buffa per chi ricordi le commedie anni ‘50 di Francis, il mulo parlante, ma non con Bresson, considerato uno dei registi più rigorosi e austeri della storia.

I titoli di testa, in carattere tutto minuscolo, preludo-no alla totale assenza di enfasi in ciò che stiamo per vedere, e sono accompagnati da un brano di musica classica, l’Andantino della Sonata per pianoforte n. 20 di Schubert, scelta che va anch’essa nel senso di una certa serietà. Mentre le scritte proseguono sullo sfondo di un muro di pietra, che anticipa il contesto montano-cam-pestre del film, la musica viene bruscamente interrot-ta da un raglio fuori campo che colpisce gli spettatori come una frustata. È un’esperienza sonora disturbante sia per la timbrica e il ritmo del raglio, così in contrasto con la pacatezza dell’animale a cui appartiene (sembra un pianto disperato), sia perché ci precipita da un’ar-monia di suoni a un verso bestiale, e poi perché non vediamo la fonte da cui il verso proviene. Bresson in questo modo utilizza la specificità del linguaggio ci-nematografico per tradurre la forte impressione avuta

di Claudio Gotti e Matteo Marino

AU HASARD BALTHAZAR

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CLAUDIO GOTTI - MATTEO MARINO

leggendo L’idiota di Dostoevskij, il cui protagonista, che si trova a Basilea, una sera viene svegliato dalla tene-bra che lo attanagliava per il fatto di sentirsi straniero proprio dal ragliare (che non ha nazionalità) di un asino: “Quell’asino mi colpì enormemente e, chi sa perché, mi piacque in modo straordinario e, nello stesso tempo, a un tratto tutto parve schiarirmisi nel cervello”.

L’asciuttezza dello stileSpesso all’origine di un capolavoro c’è una visione

folgorante, ma a volte può esserci un suono altrettan-to folgorante, e allora la prima mossa è quella di riem-pire lo schermo non con la testa dell’asino (quella arri-verà dopo) ma con il suo verso, prima e programmatica azione di sottrazione da parte del regista, che sceglie di mettere al centro del film l’orecchio, più evocatore dell’occhio, più originale e attivo nell’immaginare e nell’inventare.

In effetti il film dà ampio spazio ai rumori, come già in Un condannato a morte è fuggito e in molte altre opere di Bresson: il reiterato raglio, gli zoccoli, le ruo-te del carretto, le catene, i motori (del trattore, delle moto della banda di Gérard, degli incidenti delle auto che la banda si diverte a mandare fuori strada), le canzoni alla radio, uccellini, grilli, petardi, spari, vetri rotti. Ed è molto poco parlato, i dialoghi sono ridotti all’essenziale quando non addirittura sospesi, le bat-tute brevi. Anche la trama è esigua: storia di un asino dalla nascita alla morte, dalle carezze e dagli abbracci dell’infanzia alle frustrate e ai calci della vita adulta, fino al decadimento della vecchiaia; di riflesso è an-che la storia dei suoi diversi padroni.

Questa asciuttezza trova riscontro in uno stile di recitazione estremamente formale, da molti consi-derato uno scoglio. Agli attori, che Bresson preferiva non professionisti, chiedeva sempre un tono di voce neutro e una gestualità minima: dovevano semplice-mente dire le battute senza sentimenti “recitati”, che avrebbero reso il film falso. La passività ontologica di questi personaggi, invece, doveva tradursi necessaria-mente in una recitazione automatica, dovevano appa-rire impassibili oppure reagire a quello che capitava sulla scena istintivamente, esattamente come l’asino.

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Che, non a caso, assurge a protagonista, portando alle estreme conseguenze questa poetica. L’asino, a que-sto livello di lettura, potrebbe rappresentare l’umanità che non recita, che non ripete giorno dopo giorno un copione prestabilito (come a teatro), ma improvvisa, perché effettivamente ignora cosa ci sia fuori campo o nell’inquadratura successiva, perciò non può far altro che reagire come può agli eventi che non è in grado di prevedere e agli istinti che non riesce a sopprimere, anche quando razionalmente sarebbe meglio compor-tarsi in modo diverso (è il caso di Marie e di suo padre).

Opacità, ellissi, allusioniAnche gli spettatori non possono che reagire al film

senza filtri provando emozioni non predigerite, cin-quant’anni fa come oggi. È la forza della riconosciuta opacità dello stile bressoniano, fatto di molte ellissi, non detto, allusioni: alcuni passaggi non si capiscono del tutto, nascondono più che rivelare. C’è sempre qualcosa che sfugge, che sta oltre l’inquadratura, che va oltre la nostra comprensione, sia esso un’eredità improvvisa o un orgoglio che ci consuma, un’attrazio-ne mal riposta (di Marie verso Gérard), lo stesso fatto di nascere dove siamo nati piuttosto che altrove, in una determinata epoca, famiglia, destino. Noi, come l’asino, non possiamo controllare tutto questo, ma ne portiamo il peso, ci troviamo alle prese con la violenza e la fatica del lavoro e con le prime esperienze della vita, positive e negative, come suggerisce la soggettiva delle prime frustrate che ci mette “al posto” dell’asino. L’esperienza stessa della morte, come quella della na-scita, è paradossalmente una prima esperienza asso-luta, perché unica e irripetibile (non a caso Balthazar nasce e muore nello stesso luogo).

Se siamo portati in più punti a empatizzare con l’asino (e a considerarlo legittimamente una metafo-ra), a ben guardare, diversamente da come Disney ci ha abituato, Balthazar non è mai antropomorfizzato, non interpreta un ruolo, non parla, non è la proiezio-ne di sentimenti umani. Pensiamo a quella misteriosa profondità dello scambio di sguardi tra Balthazar e gli animali del circo da cui noi siamo esclusi. Niente melodramma, emozione, psicologismo, ma tanto pu-

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dore. Niente narrazione, ma contemplazione. Niente sovrapposizione significante. A un certo punto il ge-loso Gérard, mentre spia Marie che sta inghirlandan-do Balthazar come in una sorta di matrimonio mistico, comincia a dire a uno della banda quasi rubandoci le parole di bocca: “Nella mitologia…”. Ma l’altro lo inter-rompe: “Mito che?”. E il dialogo finisce lì. Sembra quasi un invito a non appiccicare al film i pur legittimi signi-ficati metaforici, biblici e filosofici sottesi alla scelta di un asino come protagonista, ma a giustificarli even-tualmente solo dal di dentro del linguaggio filmico.

Un testimone muto e imparzialeForse, più semplicemente, Balthazar è se stesso, resta

un animale e si comporta come tale. C’è un tale rispetto della natura animale dell’animale e il timore di poterla minimamente violare che Bresson non ha voluto che venisse trasportato con un automezzo dalla stalla al set (6 km), ma lo andava a prendere a piedi e lo riportava a fine riprese lui stesso. Quella di Balthazar è anzitutto una presenza, costante ma discreta (spesso se ne vede l’om-bra o le zampe, o ne viene inquadrato lo sguardo men-tre attorno a lui sentiamo parlare o accadono cose), una presenza diversa da quella di tutti gli altri. Sta su un altro livello, è una sorta di spettatore dentro il film stesso. Sa-remmo portati a far valere anche per lui le ultime parole del barbone Arnold rivolte a un cippo stradale prima di morire cadendo dalla groppa dell’asino: “Addio mio caro e fedele amico, condannato a passare qui il resto dei tuoi giorni a veder camminare gli stessi imbecilli”, ma in real-tà l’asino è testimone muto e imparziale, al di là del bene e del male, non esprime giudizi morali, porta docile e dignitoso su di sé tanto i buoni quanto i cattivi.

Che effetto fa avere un asino sempre in scena che assiste agli avvenimenti a cui anche noi assistiamo e “ascolta” i dialoghi che anche noi ascoltiamo? Sicu-ramente modifica l’atmosfera del film e anche il no-stro modo di guardarlo. Se da una parte testimonia il profondo legame tra il mondo della natura e l’umano, dall’altra spinge a interrogarsi sulla realtà dell’umano fin nelle sue radici ultime, più lontane. E tutto grazie a un asino che sembra messo lì “a caso” (l’au hasard del titolo) e invece porta su di sé, come in una sconcer-

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tante sovrapposizione, tutte e tre le nature che arriva a rappresentare: animale, umana e divina (quest’ulti-ma secondo una lettura cristologica del film, ma non in senso allegorico, cioè con corrispondenze perfette tra l’asino e Cristo, bensì come parabola, con elementi che rimandano, invitano, spingono a ulteriori livelli di lettura, e dove più improbabile è la corrispondenza, meglio è, così come improbabile era la rassomiglianza tra un bambino nato in una stalla e Dio onnipotente).

E come non vedere le corrispondenze tra Marie e Balthazar? È con lei nei momenti cruciali della sua vita; inoltre, come Balthazar passa da un padrone all’altro, anche Marie passa da un amante all’altro; soffre lei e soffre lui; infine sparita lei (dopo uno stupro collettivo fuori campo), Balthazar, ormai vecchio, si avvia verso il compimento della sua vita.

La pienezza della compassioneQuesto finale impone un discorso a sé. Una notte

Gérard e la sua banda sottraggono Balthazar per far-gli trasportare merce di contrabbando, e alla frontiera, non appena i doganieri iniziano a sparare, lo abban-donano. Dopo averci esposto alla miseria e solitudine della condizione umana e all’eterna lotta tra bene e male (qui spesso personificato da Gérard, come abbia-mo capito), il film sembra chiudersi pessimisticamente con la vittoria del male e la morte di Balthazar che di questo male ha portato il peso. Ma nella sequenza fi-nale c’è un’apertura, un allargamento di orizzonte, una vittoria di diverso tipo autorizzata dalla specificità del linguaggio filmico: ambientazione, composizione dell’inquadratura, angolazioni, sonoro, fotografia sem-brano far compiere al film un salto dimensionale. Ri-spetto alla scena della nascita (e un po’ a tutto il film) non abbiamo più spazi ristretti, primi piani, la sola te-sta dell’animale, forme scure. Balthazar va a morire su un’altura in un luminoso mattino, un campo lunghissi-mo ci mostra un mare di bianche pecore che accorre verso l’animale ferito a morte e lo circonda, mentre sentiamo un concerto di campanacci e non vediamo più figura umana alcuna. Eppure è in quel momento che un sentimento del tutto (e forse non solo) umano, la compassione, riempie lo schermo.

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L’ASINO DEL MISTERO

di Giulio Osto, teologo, e Marta Marchesi, critica

U n film di Robert Bresson si colloca immediata-mente all’interno di un menù molto particolare

nella programmazione di qualsiasi sala cinematogra-fica. Proporre Au hasard Balthazar significa suggerire un’esperienza insolita di visione e di approccio sia all’arte del cinema che alla stessa realtà. Anche lo spettatore più sprovveduto può intuire che Bresson è un autore che, oltre a continuare la storia del cinema, ha contribuito a sviluppare grammatiche e sintassi sulle quali successivamente si è dovuto apprendere il medesimo mestiere.

Le luci e i suoni del filmL’educazione dello sguardo. Un film di Bresson ri-

sponde alla domanda che accompagna tutta l’esisten-za umana circa la capacità di vedere la realtà. Nietzsche scriveva in Crepuscolo degli idoli (1888): “Imparare a vedere-abituare l’occhio alla pacatezza, alla pazienza, al lasciar-venire-a-sé; rimandare il giudizio, imparare a circoscrivere e abbracciare il caso particolare da tutti i lati. È questa la propedeutica prima alla spiritualità”. È tutto da verificare il fatto che le persone siano in grado di vedere la realtà. Romano Guardini ha dedica-to un intero saggio a L’occhio e la conoscenza religio-sa (1941) e ha speso tutta la vita per accompagnare i suoi uditori e lettori a una visione cattolica del mondo che parte “dallo sguardo di Gesù”.

Un film impegnativo, dunque, per tutti, ma con lo scopo di rispondere personalmente alle domande tanto elementari quanto fondamentali come: “Cosa ci fa vedere del mondo questo film? Come guarda la vita il regista? Che tipo di sguardo ci invita ad assumere l’occhio della macchina da presa guidata dal regista?”. Solamente questa sfida può sostenere un’intera visio-ne e un successivo confronto sul nostro condividere o rifiutare, identificarci o distaccarci dallo sguardo del film sulla realtà.

Gli effetti speciali della realtà. L’approccio alla vita e al mondo oscilla sempre tra un eccesso di idealismo che ci fa immaginare troppo oltre il reale e, all’oppo-

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sto, un eccesso di materialismo che ci fa incontrare solo un po’ del reale. Lo sguardo del film si colloca in-vece in un realismo critico che cerca di vedere le cose come stanno nella loro crudezza, ma allo stesso tempo è sempre uno sguardo che svela qualcosa, che dà un giudizio (krìsis). Il reale è senza fronzoli, senza alcuna farcitura, crudo, servito sul piatto dello schermo senza alcun trattamento oltre al gesto del cameriere che con la cinepresa accompagna gli occhi dello spettatore. Dopo pochi minuti emerge evidente la scelta di evita-re colonne sonore e altri riempimenti musicali lascian-do come sottofondo le sonorità della realtà.

Sono i suoni e i rumori della vita senza alcuna am-plificazione o distorsione a essere scelti dall’orecchio del regista come gli effetti speciali da cogliere e dai quali lasciarsi toccare. Il film è un invito a una docilità dello sguardo e dell’orecchio che dovrebbero essere stimolati da un realismo estremo, da uno stile di ripre-sa scarno, sobrio, secco che può educare allo stupo-re davanti alle cose di sempre, alla sorpresa davanti alla realtà guardata con uno sguardo insolito e alla sospensione dell’immaginazione davanti a una vita senza enfasi e ipertrofie. L’immaginazione che vuole sostenere questo film è costituita più dai vuoti che dai pieni, più da un gesto di sottrazione che di accu-mulo di effetti e filtri. Abbiamo bisogno di una dieta dello sguardo, di un percorso forte di scarnificazione più che di amplificazione. Proporre questo film può essere molto salutare nel mondo oberato di immagi-ni, suoni, emoticons, dove l’accumulo di materiale che cattura la realtà sembra essere la logica imperante dello sguardo.

Gli occhi dei teologiAsinus portans mysteria, questa espressione è un

codice criptato che utilizzavano nei primi secoli i cri-stiani che portavano l’Eucaristia in tempo di perse-cuzione. L’asino che porta il Mistero è in fin dei conti la colonna sonora teologica di tutto il film. La scelta dell’asino come personaggio principale e regista dell’occhio della telecamera sulla realtà è un luogo teologico tutto da esplorare.

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GIULIO OSTO - MARTA MARCHESI

Cristo, l’Asino e l’Idiota. L’associazione di queste tre parole crea immediatamente sia il legame tra di loro in riferimento alla Bibbia e al romanzo di Dostoevskij, sia il senso che associa tre realtà apparentemente così diverse. L’asino è figura di Cristo come lo è l’Idiota nel romanzo. L’asino figura cristologica e, come ben rac-conta la fine del film, anche eucaristica, consideran-do la morte dell’animale in mezzo al suo gregge che potrebbe essere commentata dalle parole: “Questo è il mio corpo…”. Sono in particolare tre i luoghi nei quali troviamo un’essenziale teologia dell’asino nella Bibbia. Innanzitutto c’è un asino profetico che è quel-lo di Balaam (Nm 22,23-35). Per la precisione, l’asina di Balaam addirittura profetizza, parla. Ma per quan-to riguarda l’affinità con Gesù è soprattutto la scena dell’ingresso a Gerusalemme a mettere in campo que-sto animale. Il Messia doveva arrivare cavalcando un asino, o un puledro, e quindi la scelta di Gesù porta a compimento questa attesa. L’asino è quello che porta il Mistero, è l’asino del mistero pasquale che conduce Gesù alla passione, morte e risurrezione.

A partire da questo riferimento si è sviluppato poi il filone dell’asino del Natale che dal testo di Is 1,3, “Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone”, ha portato all’inserimento dell’animale nella scena della natività. Al di là di questi riferimenti da tenere in considerazione, la scelta dell’asino rap-presenta una vera e propria visione teologica. Si trat-ta di un totale capovolgimento dello sguardo. Siamo invitati a guardare la realtà con gli occhi di un asino e a guardare l’asino con gli occhi di tutti i personaggi che lo incontrano. Inoltre con l’asino siamo invitati a fare tante altre cose: venderlo, infliggergli dolore in-nocente, maltrattarlo, curarlo, affezionarsi e così via con il tatto e lo stile diverso dei vari personaggi che si alternano.

L’asino attraversa i luoghi della vita, posti che dico-no dimensioni diverse: il circo, la campagna, il lavoro alla macina, il commercio, il mercato, le successioni ereditarie, la processione liturgica… Il film costruisce una straordinaria teologia del paradosso. “Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi

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invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani… ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debo-lezza di Dio è più forte degli uomini. […] Quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono” (1Cor 1,22-23.27-28), bene com-mentano la scelta dell’asino queste parole di S. Paolo come meditazione sul mistero di Cristo.

Il paradosso è pensare ciò che è impensabile ed è un appello alla libertà. Il paradosso interrompe e di-strugge una rappresentazione e pone una domanda così come una vita vista da un asino lascia certamente pensare. L’asino è figura di un Dio che si incarna e si abbassa come uno schiavo (Fil 2): ecco l’asino del Na-tale, che porta e sopporta l’umanità come porta sulla sua schiena Gesù che entra a Gerusalemme e arriva fino a portare, come un asino, la croce sulle spalle. Au hasard Balthazar, un asino “per caso”, o per scelta divi-na? Siamo disposti a guardare e seguire un Dio che si nasconde nelle pieghe dell’umano e che sostiene con tenacia e robustezza le fatiche dell’esistenza? Quale Dio? Un Dio che si fa uomo, che soffre, che viene uc-ciso… è un Dio capovolto, molto diverso da quello che immaginiamo. Il film ci porta dentro a questo capovol-gimento. Quale fede? Uno sguardo sul mondo che sa cogliere Dio là dove mai lo andremmo a cercare. Quale Chiesa? Una comunità che vive al servizio umile del mondo, come un asino.

Le cabine delle regieAlcuni suggerimenti per valorizzare questo film

possono essere legati sia alla scelta della collocazio-ne sia alla fornitura di alcuni materiali. Una proposta per il tempo di Natale oppure per il periodo finale di Quaresima si pone come una meditazione cinemato-grafica sul paradosso dell’incarnazione da una parte o invece del mistero pasquale dall’altra. La costruzio-ne di una cornice contestuale può aiutare sia l’acco-stamento a un genere impegnativo come quello di Bresson sia a un livello sotteso di riflessione teologica molto alto. Ad esempio l’ideazione di un percorso di

AU HASARD BALTHAZAR

sguardi cinematografici in chiave simbolica (es. asi-no) sulla figura di Gesù, oppure un approfondimento di alcuni simboli del cristianesimo (es. pesce, pellica-no… asino). L’individuazione di un titolo accattivante (es. l’asino del Mistero) è importante per comunicare con il grande pubblico insieme alla risonanza del film con altri materiali come raffigurazioni (Cristo-Asino), la predisposizione e/o lettura di testi come quelli biblici indicati o passi de L’Idiota. Nella scheda per il pubblico dovrebbero poi essere presenti sempre delle doman-de che invitano a essere interpellati nelle dimensioni sopra illustrate, anche con delle citazioni inerenti al tema del paradosso cristiano.

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GIULIO OSTO - MARTA MARCHESI

Mouchette

Mouchette(Tutta la vita in una notte)

Mouchette

Regia: Robert Bresson

Origine: Francia (1967)

Durata: 82’

Interpreti: Nadine Nortier (Mouchette), Jean-Claude Guil-bert (Arsène), Marie Cardinal (madre di Mouchette), Paul Hébert (padre di Mouchette), Jean Vimenet (guardiacac-cia Mathieu), Marie Susini (moglie Mathieu), Suzanne Hu-guenin (la vecchia), Martine Trichet (Louisa), Liliane Prin-cet (la maestra), Raymonde Chabrun (droghiera)

Soggetto: da Nouvelle histoire de Mouchette di Georges Bernanos

Sceneggiatura: Robert Bresson

Fotografia (b/n): Ghislain Cloquet

Musiche: Claudio Monteverdi, Magnificat dal Vespro della Beata Vergine

Suono: Séverin Frankiel e Jacques Carrère

Scenografia: Pierre Guffroy

Montaggio: Raymond Lamy

Produzione: Argos films, Parc film, Ortf

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Un povero paese di campagna della Provenza. Vittima di una squallida realtà familiare, la quattordicenne

Mouchette non trova conforto nell’ambiente ipocrita e represso in cui vive e neanche nei coetanei. Da indo-cile bestiolina risponde alle provocazioni con dispetti infantili. L’incontro con Arsène, un bracconiere epiletti-co, accende in lei una scintilla di speranza. Ma la bru-tale violenza che subisce dall’uomo, un reietto come lei, spegne definitivamente ogni volontà di riscatto. Inca-pace di sopportare le maldicenze della gente, reagisce in maniera aggressiva. Dopo la morte della madre si ritira dalla vita lasciandosi cadere, quasi per gioco, nel fiume...

“Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli” (Mt 5,1-12)

Nel cinema di Robert Bresson l’adattamento di un romanzo non è mai la semplice trasposizione in im-magini di un racconto, bensì la convergenza delle im-magini filmiche con l’essenza intima di quello stesso racconto, la sintonizzazione della meccanica cine-matografica con lo spirito che anima i protagonisti di quelle specifiche opere, permettendo a loro di muo-vere, in modo coerente ma autonomo, dalle pagine del libro al grande schermo.

Anche in Mouchette, girato pochi mesi dopo Au ha-sard Balthazar (pellicola alla quale, per molti versi, il lungometraggio del 1967 è legato) e tratto da La Nou-velle histoire de Mouchette di Georges Bernanos, com-posta nel 1937 (un anno dopo il Journal d’un curé de campagne), il regista francese supera la dimensione letteraria originaria, innestando su una vicenda di de-grado familiare e annullamento individuale i cardini di una poetica che punta in alto, alla piena beatitudine dell’essere umano, ma affonda volutamente lo sguar-do in basso, ad un cammino terreno contrassegnato da inciampi, sofferenze, dolori e morte. Un “cristianesimo

di Paolo Perrone

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ateo”, come sintetizzato da Adelio Ferrero in Robert Bresson (La nuova Italia, 1976), in riferimento all’ap-proccio del regista transalpino alle tematiche religio-se? Oppure, come scrive Auro Bernardi in Lo schermo di Dio (Le Mani, 2011), “attraverso Mouchette e la sua triste vicenda Bresson sembra insomma accettare la scommessa pascaliana sul destino di un’anima proprio perché la fede, in quanto tale, non può avere alcun fondamento razionale”?

I tormenti dello spiritoNon c’è dubbio che nel cinema di Bresson l’ade-

sione al messaggio evangelico appaia problematica e tormentata. Ed è evidente che lo slancio spirituale si traduca, nei fotogrammi dei suoi film, in una ten-sione non appagata verso una fede che pulsa essen-zialmente di graffi, patimenti, distacchi, disperazioni. Come scrive, però, Ezio Alberione nel saggio Quattro parabole di un sognatore, contenuto ne Il cinema delle parabole vol. 2 (Effatà, 2000), “la dimensione spiri-tuale di Bresson non si riferisce solo (o soltanto) alle vicende narrate o alle tematiche che affronta (come tante volte hanno sottolineato gli approcci di parte cristiana, correndo sempre il rischio di farne un au-tore ‘a tesi’). Ma non si riferisce neppure al rigore e all’essenzialità che contraddistinguono una ricerca formale, come da parte laica è stato talvolta ribattuto per potersi ‘riappropriare’ di un autore altrimenti dif-ficile da inquadrare”.

Se, dunque, la storia dell’infelice quattordicenne, corrotta dall’ambiente familiare e sociale nel quale è costretta a vivere, viene estesa nel racconto cinema-tografico ad un arco di alcuni giorni, più ampio della ristretta temporalità (ventiquattr’ore) in cui si svolge La Nouvelle histoire de Mouchette, la descrizione fil-mica della giovane protagonista e la sua collocazione nel sordido milieu di appartenenza si nutrono, in ogni caso, delle coordinate estetiche del tardonaturalismo letterario, seguendo un preciso ordine narrativo che va dalla presentazione del personaggio (con la descri-zione della sua emarginazione a scuola e tra le mura domestiche), alla identificazione di vittima predesti-nata (con la brutale violenza subita dal bracconiere

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MOUCHETTE

Arsène) per concludersi, infine, con l’inevitabile, tra-gico epilogo (con il suicidio gettandosi nelle acque di un fiume).

Come un animale braccatoMouchette ha uno sguardo al contempo fiero e sel-

vatico, porta pesanti calze di lana rattoppate in più punti, ha nei piedi pesanti zoccoli, durante una lezio-ne in classe viene ripresa e umiliata dall’insegnante perché non segue le compagne che cantano in coro una canzone, lei si vendica di loro tirando ripetuta-mente manciate di terra nascondendosi dietro il ci-glio di un fossato. A casa la aspettano un padre e un fratello dediti al contrabbando di alcolici, mentre un secondo fratellino, di pochi mesi, piange disperato e la madre, gravemente malata, è distesa a letto. Come scrive Sergio Arecco in Robert Bresson. L’anima e la forma (Le Mani, 1998), “Mouchette ha tutte le caratte-ristiche (...) di un ‘animale braccato’, con tutta la selva-tichezza di un animale e con tutte le analogie filmiche con le quali Bresson intende farla assomigliare ad un animale, vittima dei lacci del bracconiere Arsène che la prende in trappola come prende in trappola la per-nice all’inizio, vittima designata come la lepre che lei stessa vede bersaglio del fuoco concentrato dei cac-ciatori alla fine”.

L’animo di Mouchette è ferito, ma non piegato: al mattino prepara il caffelatte per tutti, la domenica, dopo la messa, serve al bancone del bar del paese per racimolare qualche soldo da consegnare al padre. Quando Arsène ha un attacco di epilessia e si contor-ce sul pavimento dell’osteria abbandonata dove ha condotto la ragazza, Mouchette lo assiste, cantandogli con dolcezza, non più stonata come a scuola, la can-zone che non voleva intonare. E quando, dopo aver subìto violenza dal bracconiere (da lei erroneamente accusato poco prima dell’uccisione del guardacaccia Mathieu, il suo acerrimo nemico), torna a casa e vede il fratellino in lacrime per la fame e la madre morente, porge il biberon al piccolo, dopo averlo scaldato sul suo petto, e offre alla mamma una bottiglia di grappa, assecondando le sue ultime volontà.

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Ma Mouchette è anche la “bestiolina” cattiva che con addosso l’abito della festa, sul piazzale della chiesa, prima di partecipare alla funzione inzuppa ben bene gli zoccoli nel fango per fare un dispetto al padre, che odia. E alla vecchia signora che, verso il finale del film, la invita in casa per regalarle un pacco di indumenti e per parlarle del culto dei morti, che a suo giudizio darebbe un senso profondo anche alla fine della madre della fanciulla, lei risponde spor-candole il tappeto del salotto con gli stessi zoccoli infangati.

Una personale Via CrucisMouchette, insomma, è l’emblema di una giovane

anima, privata suo malgrado della Grazia, che si in-cammina in una personale Via Crucis, osservata da Bresson con una neutralità di sguardo che, seppure più distesa rispetto all’ermetismo criptico di Au ha-sard Balthazar, non attenua affatto il rigore formale. Lo stile asciutto e minimale, il consueto ricorso ad attori non professionisti, la propensione verso un’esperien-za filmica “primigenia”, interrogativa e niente affatto risolutiva sul senso della presenza dell’essere umano sulla Terra e sul suo destino, costituiscono, anche in Mouchette, i pilastri strutturali di un impianto lingui-stico che Bresson leviga e matura con sempre maggior consapevolezza nella sua carriera.

In questo senso, la sequenza del bosco, nel qua-le la fanciulla si avventura, sorpresa dalla pioggia e costretta a ripararsi sotto un albero, contrassegnata narrativamente dal litigio tra Mathieu e Arsène, in-tento a deporre una tagliola, si configura come uno dei momenti più alti di Mouchette, aprendosi ad una soggettiva eccezionalità all’interno della cornice og-gettiva e referenziale che racchiude tutto il film. Lì, in quella “notte magica” (la cui importanza nevralgica è riassunta anche nel sottotitolo italiano del film), scos-sa dal “vento di tempesta”, la ricognizione di Bresson su un’adolescente asociale e selvaggia, messa ripe-tutamente alla prova dalle turpi bassezze della vita, abbandona i territori del naturalismo per addentrarsi in quelli onirici della percezione e della visione, in una dimensione marcatamente sensoriale. Momen-

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ti di stacco e di scacco, in cui si alternano azioni e reazioni, sentimenti contrapposti, attese gravide di minacce e sfoghi incontrollati: la lotta nel fango tra Arsène e Mathieu, che si chiude con una inaspettata riappacificazione e una bevuta comune; la luce della torcia del bracconiere, puntata sulla ragazza, che si dilata nel fuoco della capanna in cui Mouchette vie-ne condotta e che sembra riscaldarle il cuore; i suc-cessivi colpi di fucile uditi quando Arsène esce per rintracciare uno zoccolo della fanciulla, smarrito nella melma, che riportano lo spettatore ad avvisaglie cupe e sinistre; la perdita di lucidità dell’uomo, avvolto nei fumi dell’alcol, che si affianca alla caduta di Mouchet-te nelle spire di una seduzione del male che, sotto-ponendola alla violenza carnale, la rende, in qualche misura, consenziente.

La dimensione sacrificaleVerosimiglianza e incredulità, realtà e fantasia, cer-

tezze e sospetti, indicibilità ed enigmaticità si somma-no in un crescendo magistrale. E’ vero, dunque, come scrive Ermelinda M. Campani in Cinema e sacro (Le Mani, 2003) che “il cinema di Bresson si rivela come un’arte dotata, analogamente alle Sacre Scritture, di una forte carica poietica. Non si limita ad essere un semplice gioco delle immagini perché trasgredisce li-miti, associa ibride esperienze sensoriali e ambisce a farsi mimesi totale della vita aprendosi al contempo verso un Altrove, che in sé contiene l’idea sia di Altro sia di Oltre”. Ed è altrettanto vero, come afferma Al-berione, che “i personaggi di Bresson non sono mai totalmente spiritualizzati o completamente astratti, se non altro perché devono passare attraverso una co-stante presenza ed esperienza del corpo nelle infinite varianti della debolezza, della malattia, della morte, del desiderio e, in generale, della fisicità”.

La dimensione sacrificale è, in ultima analisi, la cifra sottesa di Mouchette. E i segni di passione e di morte che pervadono tutto il film (che resta comunque un atto di sfiducia nei confronti dell’umanità, misera e degradata), vanno interpretati nella prospettiva di un ritorno alla vita, non di un annullamento definitivo. La

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sequenza finale riassume l’idea di “resurrezione” in maniera esemplare: Mouchette, giunta ai bordi di un torrente, indossa il vestito bianco che le aveva donato nel pacco l’anziana signora, poi si lascia rotolare lungo il pendio che declina nelle acque del fiume. Una prima volta, si rialza, incrocia lo sguardo di un contadino che però si allontana sul suo trattore. Al secondo tentativo, la sua corsa viene fermata dagli arbusti e il suo vestito viene strappato. La terza caduta, invece, la fa scivolare nel fiume. Bresson non mostra il suo corpo che si in-fila nell’acqua, ma solo il “prima” e il “dopo” del tuffo, il rumore dell’impatto con il torrente, poi le note del Magnificat di Monteverdi.

Una purezza intattaIl gesto estremo della quattordicenne Mouchette è

scandito, come ha scritto ancora Alberione, “come se fosse un battesimo, un’iniziazione (il vestito bianco che mette sul suo corpo, l’acqua in cui si immerge”. A quel punto, scrive Arecco, “svuotata di tutto il suo potenziale distruttivo che ha portato finora dentro di sé, può abbandonarsi, libera e leggera, liberata e pu-rificata come si sentono purificati tutti i personaggi bressoniani alla fine delle loro rispettive viae crucis, al gioco infantile delle capriole lungo il pendio del torrente”. In quel momento, aggiunge Auro Bernar-di, “l’abito bianco, lacerato da un rovo, (…) metafora della sua intatta purezza nonostante lo stupro, non è il simbolo della ricompensa ultraterrena, ma la me-tafora della possibilità che il Nulla non sia la parola definitiva”.

La scelta dell’opera di Monteverdi, d’altronde, appa-re estremamente significativa in quel preciso contesto filmico: il Magnificat, posto a conclusione del Vespro della Beata Vergine, per Bernardi “è la più elevata esaltazione della femminilità che si abbia nel Nuovo Testamento (…). Con questa sottile giustapposizione Bresson rimarca il divario fra la sordidezza della vicen-da umana di Mouchette e la purezza del suo sacrifi-cio”. Un sacrificio per il quale ancora Alberione chiama in causa il gesuita e critico cinematografico Luigi Bini: “Il suicidio”, scrive Bini in Registi cinematografici, vol.

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VI, Quaderni di Letture (Centro San Fedele), 1986, ri-chiamandosi sia a Bernanos che a Bresson, “nella pa-gina del romanziere come in quella del cineasta, non è gesto di disperazione ma risposta ad un appello dell’al di là. Solo in Dio c’è una speranza per l’innocenza de-gli infelici e dei piccoli. La terra degli uomini per loro è soltanto atrocità”.

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LE IMPERVIE PERIPEZIE DELLA GRAZIA

Solamente l’anno successivo ad Au hasard Balthazar, caso unico nella sua produzione, Bresson presenta

Mouchette. La vicinanza tra queste due opere all’in-terno delle tredici del regista francese è da conside-rare un elemento importante, anche se la diversità di sguardo è molto accentuata, poiché in Mouchette assistiamo a una visione assai cruda e radicalmente disincantata della realtà rispetto alla geniale visione sub specie asini del film precedente. La storia è tratta da un libro di Bernanos, Nuova storia di Mouchette, al quale Bresson è fedele nel suo procedere.

Le luci e i suoni del filmL’occhio del regista in Mouchette si potrebbe quali-

ficare quasi spietato nel raccontare alcune dimensioni pensanti e molto impegnative dell’esistenza umana. Proviamo a elencarne alcune suggerendo una serie di parole tutte accomunate dal male di vivere, per dirla come Montale.

Isolamento e incomunicabilità. Mouchette appare quasi come una monade che simultaneamente, qua-si prigioniera di un determinismo che sembra avere addirittura un sapore fatale, viene isolata e si isola, sperimenta l’assenza di comunicazione e allo stesso tempo alimenta la rottura di essa. Una voce stonata che continua a cantare, un isolarsi che invece di spin-gere a gettare dei ponti sceglie di gettare fango, anche se può scappare dalle trappole della vita, c’è una forza oscura che porta a infangare nuovamente le scarpe, a incappare in nuovi garbugli relazionali.

Incomprensione e irrilevanza. Chi comprende que-sta adolescente che mai è stata se stessa? Madre di se stessa e della madre e del fratello, moglie del padre, donna di casa, alunna, donna, emarginata, sfruttata e impedita di un’esistenza propria e dignitosa: le viene negata una paga, uno sguardo, una parola. Una vita senza peso, quasi un’ombra figlia di tutte le tenebre del disagio sociale: emarginazione, miseria, alcolismo,

di Giulio Osto, teologo, e Marta Marchesi, critica

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violenza, illegalità, abusi. L’osteria, la foresta, i caccia-tori e la caccia, le trappole, un neonato che piange… e tutto continua senza alcuna comprensione.

Indifferenza e irredenzione. Chi si accorge di Mou-chette? Tutto il mondo sembra totalmente differente dalla sua esistenza che gira in un altro senso, in un verso tragico, quasi una calamita irrefrenabile della dis-grazia. L’adolescente mai stata tale, ma già donna vissuta canta con la voce stonata: “La speranza è mor-ta…”, una colonna sonora voluta? La nota attenzione che Bresson pone nei suoi film a tutto ciò che coinvolge il sonoro lascia intuire che questo sia un elemento si-gnificativo. La rarità dei dialoghi, i lunghi silenzi, alcune scene angoscianti suscitano un senso di smarrimento e quasi disperazione. L’unico momento nel quale sembra esserci uno spiraglio che rompe l’indifferenza è il suo-no del transito che annuncia la morte della madre. Ma è possibile una redenzione, un po’ di grazia, in questa storia così spietata fino all’ultimo scatto?

Gli occhi dei teologiFede, tragico e sacrificio: sono tre dimensioni fatico-

se eppure inevitabili. Lo sguardo sull’umano reso da Mouchette è impressionante. Un umano senza grazia che si dissolve lentamente, quasi una tragedia fino all’ultimo istante. Il film di Bresson pone sul tavolo il confronto tra la fede e il tragico. La misericordia è un alleggerimento del male? La redenzione è un addol-citore del dolore? La fede è un analgesico di ciò che umanamente è insopportabile? Mouchette è vittima e ugualmente responsabile, alimenta e contempo-raneamente sperimenta il piano inclinato della sto-ria che diviene storia di salvezza, ma attraversando i lunghi deserti del buio e della desolazione. Capro espiatorio di una umanità malata oppure figura di una paralisi della libertà? Riproporre questo film a distanza di anni significa riportare davanti agli occhi atmosfere e dibattiti accesi da un lato dimenticati, si pensi alla domanda: “Si può parlare di Dio dopo Au-schwitz?”, dall’altro lato invece la stessa domanda si ripropone sotto altre vesti. Mouchette nel suo disagio è figura di tutti i profughi ed esuli che cercano grazia

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attraversando deserti e mari e finendo incappati in qualche cacciatore e sballottati dalle onde della po-litica e dello sfruttamento. Si può parlare di dignità umana quando il mare nostrum sta diventando il cimi-tero dell’Europa?

Se questa è una donna… Il film può essere una de-nuncia, pacata, disincantata, eppure senza mezze mi-sure, anzi di un’insistenza pungente. Esiste un mondo senza grazia, abitato dalla fatica. Esistono le ombre della civiltà, i sottoscala dell’umano, le discariche, i rifiuti… Bresson racconta con l’arte del cinema queste storie e forse tale scelta dà dignità anche dove sembra mancare totalmente.

Il mistero di Giuda. Quali percorsi teologici stimola un film come Mouchette? Le impervie peripezie della grazia nel rincorrere le dis-grazie tra accoglienza e ri-fiuto, tra necessità e responsabilità, tra libertà e desti-no. La donna sirofenicia che si accontenta delle bricio-le della grazia che cadono dalla tavola degli altri, la vita del cosiddetto “buon ladrone” che solo alla fine trova un tocco di grazia, prima del colpo di grazia. Il mistero di Giuda, un’esistenza che viene avvolta nell’ombra eppure vissuta all’ombra dello stesso Cristo. I malati hanno bisogno del medico… e l’umano malato e fe-rito è ben raccontato dal vagabondare di Mouchette. Ci sono delle espressioni evangeliche dalle tinte assai forti che magari passano inosservate e vengono poco prese di petto. “È l’impero delle tenebre…” (Lc 22,53). Quale Chiesa? Una comunità cristiana che conosce direttamente, ha visto con i suoi occhi l’umano feri-to, senza relegarlo all’overdose delle immagini della cronaca. Una chiesa che conosce bene le periferie e il film è ante litteram un grande viaggio d’autore nelle periferie dell’umano, prima di papa Francesco, ma pur-troppo con un mondo ugualmente in attesa di grazia e speranza.

Un solo piccolo tocco di grazia. Come per il “buon ladrone”, sembra esserci solamente un unico tocco di grazia, quasi al limite dell’assenza di uno spiraglio, di una tenue luce, di una flebile speranza. L’unico gesto di attenzione verso Mouchette è il dono di un vestito nel giorno della morte della madre. Forse un tocco di dignità dopo un’esistenza tra le carrube amare della

GIULIO OSTO - MARTA MARCHESI

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società e il fango dei maiali del mondo come quella veste che il padre dona al figlio minore (Lc 15,22) una volta tornato spogliato di ogni volto dopo i labirinti della perdizione? Eppure un vestito strappato che rotola ugualmente nell’abisso fino a sprofondare la-sciando tutti attoniti. È un grido che rimane: quello di Giobbe, quello di chi è senza voce, senza volto, senza dignità. Il tonfo di Mouchette nell’acqua è un’invoca-zione di speranza, un appello alla responsabilità a es-sere, come scrive Etty Hillesum alla fine del suo diario, un balsamo per molte ferite.

Le cabine delle regieAlcuni suggerimenti per valorizzare questo film

possono essere legati sia alla scelta della collocazio-ne sia alla fornitura di alcuni materiali. Cornici che possono aiutare a cogliere il forte messaggio del film potrebbero essere: l’ottobre missionario, la giornata per i missionari martiri, la giornata per la vita, un ciclo di proposte sul disagio sociale, l’immagine delle peri-ferie esistenziali, la proposta a dei genitori di adole-scenti oppure a educatori. Le situazioni attraversate da Mouchette purtroppo esistono ancora e dunque meritano un’attualizzazione attraverso l’informazio-ne o la testimonianza di chi opera nel disagio come operatori sociali, cooperative o associazioni impe-gnate nell’attenzione verso persone che sperimenta-no l’emarginazione, la violenza, si pensi solamente al fenomeno del bullismo. L’introduzione o il commen-to da parte di un educatore, uno psichiatra o altre persone impegnate nel disagio può essere un ottimo ingrediente. L’attenzione al lato oscuro della vita, al tragico dell’esistenza percorre le pagine della let-teratura (Leopardi, Montale…) e dell’arte, si pensi ai cicli della Passione, o alla tragicità di tanti crocifissi. Una mostra fotografica o addirittura un concorso che stimoli a raccontare il disagio per incontrarlo e cono-scerlo potrebbe essere un’idea stimolante e soprat-tutto responsabilizzante.

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Intervista a Mylène Bressondi Paolo Perrone

Per molti studiosi di cinema, non soltanto per gli ammiratori dei film di Robert Bresson, le Notes sur

le cinématographe, pubblicate dalle Editions Gallimard nel 1975 (e in Italia nel 1985 da Marsilio, che le ha ri-pubblicate nel 2003 e nel 2008), costituiscono la bus-sola con la quale procedere nell’esplorazione di un cinema tanto radicale e misterioso quanto profondo e illuminante, permettendo al lettore/spettatore di av-vicinarsi alla poetica del regista francese e di cogliere i complessi processi di creazione che stanno alla base delle sue opere.

A quella celebre raccolta di aforismi, considerazio-ni, riflessioni stese durante la lavorazione dei film, si è aggiunta nel 2013, a quasi quindici anni dalla scom-parsa di Bresson (morto il 18 dicembre 1999) un’ope-ra complementare, Bresson par Bresson. Entretiens 1943-1983 (Flammarion), che rilancia e prolunga le Notes sur le cinématographe. Un’antologia di intervi-ste. concesse da Bresson in quarant’anni di carriera, curata dalla vedova del cineasta transalpino, Mylène Bresson, assistente alla realizzazione di tutte le pelli-cole del marito a partire da Mouchette (1967), preziosa e instancabile “custode” della sua memoria cinemato-grafica e delle sue fonti ispirative.

È a lei che ci siamo rivolti per poter far riaffiorare, nella sua enigmatica potenza, la poetica di uno dei maestri indiscussi della settima arte. Ed è proprio lì, alle Notes sur le cinématographe che Madame Bres-son immediatamente ci riporta, non appena le chie-diamo di commentare una famosa affermazione del marito, che nel 1965 sottolineava come «chiamiamo cinéma l’insieme dei film di oggi e cinématographe l’arte cinematografica, ossia un’arte dotata di un pro-prio linguaggio e di propri strumenti». Alla domanda su quali fossero, per lui, questo «linguaggio» e que-sti «strumenti», se attenessero ad un’idea di cinema intesa come «necessità interiore», come «musica del silenzio», come una sorta di «esercizio spirituale» a

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INTERVISTA A MYLENE BRESSON

ventiquattro fotogrammi al secondo, la risposta della signora Mylène rinvia sempre e ancora a quel saggio che, dice, «risponde a questi interrogativi molto me-glio di come potrei fare io ora». Dunque, andiamo ol-tre. E partiamo dalla fine, dai film fatti e, prima ancora, da quelli mai realizzati.

Tredici soli lungometraggi in quarant’anni di car-riera, da La conversa di Belfort a L’argent: Bresson rimpiangeva di non averne girati altri? Penso soprat-tutto ai progetti su Ignazio di Loyola, sulla Genesi, su La princesse de Clèves...

È il progetto della Genesi, inseguito e accarezza-to per lungo tempo, che Bresson rimpiangeva di non aver potuto realizzare. Non è stato l’unico, in effetti, a non tradursi in pellicola, ma quello è stato il progetto che egli avrebbe più volentieri voluto portare sullo schermo.

A proposito di Un condannato a morte è fuggito, Bresson sosteneva che «in realtà ciò che cerco è un viaggio nell’ignoto». E ai Cahiers du cinéma, nel 1957, diceva che «in un film, ogni volta, bisogna sperimentare la scoperta dell’uomo, la sua rivelazio-ne profonda». Il cinema è stato per Bresson lo spec-chio attraverso il quale scorgere l’anima dell’essere umano?

Robert Bresson pensava che il cinématographe per-mettesse, per la sua stessa natura, di rivelare qualcosa legato all’interiorità, qualcosa di molto nascosto, vo-lontariamente o involontariamente. Qualcosa, in qual-che modo, di non cosciente, che appartenesse al mi-stero che avvolge ogni essere umano. Così, proprio per questa sua complessità d’intenti, il cinema di Bresson nasceva ben prima delle riprese e non si concludeva certo con l’ultimo giorno sul set. Ha invece sempre ri-chiesto un grosso sforzo, precedente e successivo. A partire dal suo terzo lungometraggio, è rimasto l’uni-co autore dei suoi film, rinunciando a sceneggiatori e dialoghisti. Il primo giorno delle riprese aveva tutto in mente. Certo, sul set spesso regnava il caos, ma tutto tornava più avanti, in sede di montaggio, di missaggio, di lavoro sulla banda sonora...

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La ricerca di un «cinema assoluto» nella poetica di Robert Bresson passa attraverso il rigore formale, la radicalizzazione del linguaggio filmico, il lavo-ro con attori non professionisti... Etica ed estetica: si può parlare di una sorta di «purificazione dello sguardo»?

In realtà non dovremmo dimenticare l’importanza, sempre più marcata, soprattutto a partire dal 1951, dal Diario di un curato di campagna, che Bresson ha dato alla componente sonora dei suoi film. Questa considerazione e questa consapevolezza, nel suo cinema, sono viaggiate di pari passo con una certa «spoliazione» delle immagini, ad una rarefazione del linguaggio filmico. Quanto al lavoro sistematico con attori non professionisti, credo che Bresson da questo punto di vista sia stato un po’ «etichettato» in forme fin troppo riduttive: nei suoi due primi lungometraggi, infatti, ha diretto attori professionisti, poi le sue scelte successive hanno comportato, a ogni nuova pellicola, difficoltà e problemi organizzativi, anche e soprattut-to sul fronte dei finanziamenti. Non era facile trovare produttori che si impegnassero su progetti affidati, sul piano della recitazione, a dei non-attori. La decisione di fare ricorso ai non attori non rispondeva, dunque, ad un capriccio, ma si trattava di qualcosa di molto profondo e meditato.

I film di Bresson spesso sono stati tratti dalla grande «letteratura della coscienza»: Bernanos, Gi-raudoux, Diderot, Chretien de Troyes, Tolstoj, Dosto-evskij... Quale rapporto aveva suo marito con l’opera letteraria?

Bresson amava profondamente la letteratura, ma non apprezzava meno la musica, la pittura o l’archi-tettura. Pensava, con forza e tenacia, che il cinémato-graphe potesse, e soprattutto dovesse, essere diverso dalle arti preesistenti. Sì, per tutta la sua vita, in tutti i film che ha portato sullo schermo, ha cercato di svela-re la vera identità di questa nuova arte.

Nelle note che introducono Bresson par Bresson. Entretiens (1943-1983) si legge che Bresson «parla con passione, semplicità, determinazione e ironia»:

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che ritratto emerge, nei suoi ricordi, dell’uomo Bres-son, prima ancora del regista Bresson?

Egli si è molto rispecchiato nei suoi film, si è mes-so ripetutamente al servizio dei suoi progetti anche come persona, come individuo. Se si desidera cono-scere l’uomo Bresson, allora, non c’è altro da fare che osservare e ascoltare i suoi lungometraggi, rivederli e, ancora, risentirli. In ogni caso, per quanto mi ri-guarda è stata la persona più divertente che abbia mai incontrato. A molti potrà sembrare strano, ma lo possono testimoniare le persone che hanno lavora-to con lui: era apprezzato e stimato anche per il suo umorismo.

Sempre negli Entretiens, Bresson confida a Jean-Luc Godard che il suo film preferito è senza dubbio Au hasard Balthazar, un film «sulla pura perdita di sé». Perché?

Non mi ricordo francamente che Robert Bresson abbia detto a Godard che Au hasard Balthazar fosse il suo film preferito. In ogni caso, dopo quel film ne sono stati girati altri sei, fino a L’argent, nel 1983… Quanto a un film «sulla pura perdita di sé», credo sia più corretto ricordare cosa scrisse André Malraux nella sua prefazione al Diario di un curato di campagna: «C’è una forza terribile nell’umiltà, dice Dostoevskij. Berna-nos direbbe senza dubbio, con più innocenza ma con estrema risolutezza: ‘’L’umiltà è invincibile’’».

Au hasard Balthazar e Mouchette appaiono stret-tamente correlati: lo stesso Bresson parlava di un «dittico». Perché?

Non credo che Robert Bresson abbia parlato di un «dittico» a proposito di queste due pellicole. Sono due film essenzialmente differenti: l’asino, personag-gio principale di Au hasard Balthazar, soffre, una volta divenuto adulto, dei peccati degli uomini e finisce per morirne; in Mouchette, invece, la protagonista è ancora una bambina, che si suicida come per gioco. Non c’è nulla di più drammatico del suicidio di una giovane, ma ciò che interessava a Bresson era ciò che stava attorno a quell’esistenza inquieta, lo strano rapporto che si instaurava tra esseri ribelli e selvaggi. Benché

INTERVISTA A MYLENE BRESSON

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fosse più esplicativo, il testo di partenza permette-va dunque a Bresson di esplorare l’idea del mistero dell’esistenza umana, senza imporre un proprio punto di vista o un giudizio, ma limitandosi a suggerire allo spettatore una serie di fatti. Mio marito aveva comun-que cercato di alleggerire il testo di Bernanos da cui è tratto Mouchette. Per esempio, la scena degli auto-scontri è assolutamente inventata...

A partire da Mouchette lei ha seguito tutte le fasi di lavorazione dei film di Bresson. Cosa ricorda dell’atmosfera di quel set?

I ricordi sono davvero molti. Non mi è facile rac-chiuderli in poche parole, potrei provare a riassumerli con una frase come «la meravigliosa scoperta di un pianeta sconosciuto». Mouchette è un film tragico, Bresson aveva esitato molto prima di girarlo. Ma poi si era convinto, aveva capito di aver trovato personag-gi, non attori, si badi bene, significativi e importanti. Quel che contava per Robert era il suono e l’immagi-ne, le sue scelte si sono orientate in tal senso proprio partendo dalle voci degli interpreti. Alla banda sonora di Mouchette Bresson aveva dedicato lo stesso tempo e le stesse attenzioni del corredo di immagini. Anzi, persino di più. Un film tragico, ripeto, ma nel quale Bresson lasciava l’ultima parola a Monteverdi e al suo meraviglioso Magnificat, che in qualche modo è il co-autore del film...

Come è stato per Bresson lavorare con la giovane Nadine Nortier?

La protagonista di Mouchette è stata fondamentale per la buona riuscita del film. Lei all’epoca aveva già diciotto anni, ma la vicenda riguardava una fanciulla di soli 14 anni. Bresson la scelse più grande perché la prefettura, allora, vietava alle minorenni di prende-re parte ad un film. Ma lei, nonostante avesse quattro anni di più, sembrava a proprio agio nei panni di una quattordicenne, benché non avesse mai preso parte a un corso di recitazione teatrale, né fosse mai stata su un set cinematografico. Aveva totalmente fiducia in Bresson. E con lui si era subito creato un rapporto di piena reciprocità.

PAOLO PERRONE

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Qual era il rapporto di Bresson con il male?In realtà nei suoi film si avverte spesso anche la

presenza del bene, non solo del male. E’ così in Un condannato a morte è fuggito, o nel Processo a Giovan-na d’Arco. In ogni caso, il suo cinema ha permesso allo spettatore di rendersi conto che il male esiste. Ma non era ossessionato da questo aspetto...

E che rapporto aveva invece con la critica? Nelle sue Notes sur le cinématographe ha scritto:

«Quali devastazioni provoca, non solamente sul pub-blico, una critica pigra, ritardataria, che giudica solo con un’ottica di stampo teatrale!». Questi tre difetti, però, in Francia non erano certo attribuibili ad André Bazin o ad Amédée Ayfre. François Truffaut è stato il primo ad apprezzare enormemente Un condanna-to a morte è fuggito, ancora prima della nascita della Nouvelle vague, parliamo del 1955. Scrisse cinque ar-ticoli su quel film. Anche Godard, prima di diventare regista, sui Cahiers du cinéma manifestò tutta la sua ammirazione per Bresson. Penso che Pickpopcket sia stato determinante per la Nouvelle vague: era un film che consentiva ai giovani registi di girare in modo to-talmente diverso da quanto avveniva prima, con un budget molto limitato, le riprese en plein air, fuori dai teatri di posa, senza l’utilizzo di costumi, senza dialo-ghi provenienti da meccaniche stesure di sceneggia-tura. Sì, Bresson era contento che giovani registi po-tessero divenire autori affermati. Quei registi, come appunto Truffaut, Godard, Chabrol, i cui primi film, a mio avviso, erano davvero freschi, pieni di slancio, un soffio d’aria fresca che entrava nel cinema di fine anni Cinquanta.

In conclusione, cosa potrebbe dire a quello spet-tatore che, per la prima volta, si avvicinasse al cine-ma di Robert Bresson?

Che ha una grande fortuna! E poi, a parte le battu-te, che presti attenzione non soltanto alle immagini dei film di Bresson, ma anche, come ho detto, si predi-sponga ad ascoltarli. Di questo, ne sono certa, Robert sarebbe davvero felice.

INTERVISTA A MYLENE BRESSON

Finito di stampare maggio 2016

AU HASARD BALTHAZAR(Francia-Svezia/1966)

di Robert Bresson (95’)

Il calvario di un asino, di padrone in padrone. Il suo sguardo innocente osserva

l’umana miseria e riflette il pessimismo bressoniano. “Bresson si ricordò del motto

dei principi di Baux, in Provenza, ‘Au hasard Balthazar’, un gioco di parole fra Baux e Hasard, a 

cui sottrasse tuttavia l’aspetto guascone per recuperare il senso di spaesamento dell’hasard. Una libera traduzione potrebbe configurarsi come: ‘Alla deriva Balthazar’. Poiché

proprio questo è il senso della vita dell’asinello: la sua purezza e la sua bontà non  hanno spazio in un mondo ormai

privato della Grazia. Volendo, si può anche vedere nella storia di Balthazar la più profonda e suggestiva metafora della

passione di Cristo” (Sandro Toni).Restaurato nel 2015 da Argos Films

MOUCHETTE(Francia/1967) di Robert Bresson (78’)

“Vivere una vita sudicia e misera. Vedersi sola e violentata da adulti spietati. Suicidarsi a quattordici anni lasciandosi cadere in un fiume. Simulare, morendone, un gioco da bambina per dimenticare gli abusi e tornare pura. Mouchette è il personaggio più desolante del cinema di Bresson, nel suo film più terso, più limpido, più tragico” (Roy Menarini). Realizzato dopo Au Hasard Balthazar, di cui riprende il tema dell’innocenza infranta, trae ispirazione, come Il diario di un curato di campagna, da un romanzo di Georges Bernanos. Un capolavoro del realismo poetico bressoniano.Restaurato da Argos Films presso il laboratorio L’Immagine Ritrovata con il sostegno di Centre National du Cinéma et de l’Image Animée (CNC)

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