Rivista St.Art

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COLLANA DI STUDI SULLE ARTI ANNO I - N° 1 - GENNAIO 2010 KANDINSKIJ CANGIULLO BRETON - BUÑUEL FOTOGRAFIA il suono giallo l’effimero giocoso un dialogo fra linguaggi diversi è una forma d’arte?

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Il Magazine

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KANDINSKIJCANGIULLOBRETON - BUÑUELFOTOGRAFIA

il suono giallo l’effimero giocoso

un dialogo fra linguaggi diversi è una forma d’arte?

Anno I - Gennaio 2010Numero 1

ISBN 978-88-6436-073-7

Direttore ResponsabileNicola Scontrino

Direttore EditorialeMichele Miscia

GraficaMarco Mazzariello

RedazioniCattedra di Storia dell’ArteContemporaneaUniversità degli studi di SalernoProf. Nicola Scontrino

Via delle Rose, 1 - LacedoniaResponsabile - Dr. Michele MisciaCell. 338 [email protected]

Via Firenze, 1 - GrottaminardaResponsabile - Dr. Silvio SallicandroTel. 0825 [email protected]

Centro perl’emersione

e la promozionedell’Arte

Cercando, cercandoqualcosa si trova

L’ effimero giocosoin Francesco Cangiullo

Un dialogo fra linguaggi diversiBreton – Buñuel

Le Note Scolpitedi Antonio Onorato, Valeria Saggese e Patrizio Zona

Gialloil suonodi Vasilij Vasil'Evic Kandinskij

una tracciabreve nota sulla fotografia

di ragionamento

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Nicola Scontrino

e possibilità di indagine e di verifica nel campo dell'arte hanno trovato in questi ultimi tempi Lnotevoli difficoltà nel trovare nuove proposizioni e

di poter affermare nuovi percorsi d'indagine; si è quasi diventati individualisti o meglio la visione complessiva del nostro orizzonte si restringe molto di più anche se l'attenzione è sempre rivolta a tutto quel variegato mondo che l'artista nella sua ampia ricerca ci propone. In effetti è proprio la ricerca di questi nuovi linguaggi che il tracker si sofferma e porge la sua attenzione; uno sguardo penetrante che sviscera le diverse connessioni fra quello che appare e quello che in effetti è la sostanza stessa dell'opera. In realtà quello che una volta la vera critica d'arte riusciva a scoprire e a storicizzare oggi molte cose vengono rimandate ad una rilettura più organica e strutturale con le problematiche che in esse si presentano ma che anche si teorizzano. Ed è proprio su questa ambivalenza che si procede ad una nuova interpretazione logica di quelle che sono le nuove proposte e le nuove realtà nel vasto ed articolato panorama di quello che è diventato un linguaggio di comunicazione; pertanto l'opera si enuncia ormai come sistema di una struttura linguistica oltre che come elemento complesso di un pensiero che cerca di costruire nuovi codici per una diversa concezione dell'estetica dell'arte. Su questo semplice ragionamento va visto tutto il campo della ricerca che deve trovare le giuste connessioni in quel mondo dell'arte dove il concetto di opera ormai si è trasformato ed ha inglobato tutto il fare dell'uomo; un fare dove i segni diventano sempre più complessi ma anche più artificiosi per non dire artificiali. Infatti sulla vera natura di appartenenza dell'opera d'arte ad una contestualizzazione storiografi-ca la concezione dei termini non trovano più quei necessari punti di riferimento sia storiografico che culturale; infatti è proprio in questo smarrirsi che l'artista non riesce più declinare la propria energia ed il proprio spazio. Queste ragioni ci portano indubbiamente a ristabilire nuovi codici e nuovi avvicinamenti al contesto dell'opera d'arte, infatti solo trovando nuovi ruoli e nuove radici si possono identificare la vastità di segnali che si coniugano all'interno del pensiero dell'artista.Certamente questa diventa una trasformazione radicale di tutto il pensiero ma anche dei comportamenti e delle aspettative che l'uomo si pone; un silenzioso ribaltamen-to di tutto il pensiero dove le costruzioni simboliche diventano i nuovi totem della cultura; una nuova radicale struttura che sconvolge i processi di avvicinamento alla fenomenologia artistica dove la cyber-art non diventi

Cercando, cercandoqualcosa si trova

l'unico punto di approdo.Uno sconvolgimento totale dove l'eterno sistema della conoscenza e dove le precise regole in cui viene collocato il pensiero rischiano di diventare semplici nozioni con cui bisogna costruire delle distanze, ma è proprio mentre avviene questa caduta ed il pensiero mostra tutta la sua debolezza che avviene, quasi per incanto, un nuovo ed imponente sistema che stravolge i sistemi della vecchia conoscenza affermando principi e logiche che affronteranno, con rinnovata energia, le nuove logiche e le nuove realtà vitali a cui l'individuo ha affidato il suo stesso essere. Pertanto tutto questo rappresenta un progetto che tende a stravolgere tutti gli ormai vetusti simboli che hanno teso stabilire dei codici rigidi inglobati in contestualizzati sistemi culturali. Infatti è proprio lo stravolgimento delle linee culturali che ci ha portato ad una nuova definizione del concetto stesso di arte ma principalmente a quella di opera d'arte; un mutamento radicale che affonda le sue radici già nel secolo scorso ma che ha trovato la sua completa dissoluzione in questo ultimo decennio. La perdita di una centralità su cui ruotare e far confluire tutte le possibili interpretazioni ormai non trova più nessun riscontro, infatti i legami che tenevano uniti i temi fondanti di quello che veniva definita struttura culturale, o ancestralità culturale, è diventata una forma marginale di una più vasta e articolata proposizione concettuale dove la molteplicità ha sostituito il senso dell'unico. Il vero senso del ragionamento è la perdita in assoluto della phisis, cioè della materia, ed in questo preciso momento storico che è proprio questo recupero che rappresenta la nuova frontiera della conoscenza oltre che di una ritrovata figura della storia e della dimensione analitica della cultura. Allora solo il grande sogno diventa l'unica realtà e la conoscenza diventa la metafora stessa della vita, ma in tutto questo vi è anche un grande ritorno a quella specifica dimensione del fare dell' uomo e della sua creatività ma anche un ritorno alla sua centralità rispetto a quelle forme culturali che invece lo volevano in una marginalità sia del proprio essere che in quello del proprio pensiero. Cercatori d'arte o critici d'arte, nuova frontiera di nuovi operatori che devono ritrovare quella dimensione storica in cui l'artista nel suo essere riesce a costruire e quindi comunicare come suo fare; un compagno di viaggio in quel lungo peregrinare che diventa il processo dello sviluppo non solo dell'artista ma di tutto il senso della storia.

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L’ effimero giocosoin Francesco Cangiullo

el centenario di un movimento eversivo, come il futurismo, non si può certo Ndimenticare di riservare un'attenzione

particolare alla figura, altrettanto eversiva quanto rivoluzionaria, di Francesco Cangiullo. La sua rappresenta una personalità ancora priva di una netta classificazione, a causa soprattutto della vasta poliedricità, che si manifesta a cominciare dal mondo del teatro e della musica, passando attraverso la letteratura e la scultura. Egli pertanto resta, a tutt'oggi, un'artista d'avanguardia sottovalutato, il più delle volte incluso nel gruppo dei cosiddetti “minori”, pur rappresentando, in effetti, il maggiore esponente del futurismo partenopeo. Il suo originale estro, che ha come aspetto primario la componente ludica, quasi sempre portata alle sue estreme manifestazioni, si identifica pienamente con il mondo e con i valori più vivi della Napoli popolare. Di conseguenza anche il valore supremo del programma futurista di Marinetti, cioè il dinamismo, trova il suo corrispetti-vo cangiulliano nella risata, vista come vera ed unica energia liberatrice del peso dell'esistenza quotidiana. Proprio questo atteggiamento giocoso e bizzarro porta alla nascita di una sorta di teoria della burla, del capriccio, della birichinata che i futuristi preferiscono mantenere a distanza, forse perché troppo esasperata e non in linea con la loro modernità. Non va dimenticato come, condizionato forse da questo clima, lo stesso pubblico gli riservava un atteggiamento negativo, definendolo un vero e proprio clown, privo di effettivo talento, come del resto i grandi editori che preferivano non pubblicare le sue opere, il più delle volte distribuite male. Partendo da queste premesse, come unica conseguenza ne deriva che la sua figura viene declassata e tenuta ai margini del grande gruppo d'avanguardia. Ma in effetti non va dimenticata come un'altra frangia della critica si trova invece d'accordo nel considerarlo il vero “sale” del futurismo, per la sua frenetica attività estremamen-te variegata e innovativa, dalle mille risorse. Eppure, nonostante la celebrità e il successo raggiunti attraverso la milizia futurista e il contributo creativo apportato al movimento, a Napoli non riesce a creare intorno a sé un'atmosfera di consenso e quindi di attenzione alla sua opera di scrittore e poeta. Aspetto ancora più mortificante, che mette in luce la poca

Mariantonietta Melambo

considerazione riservata alla sua attività, è il fatto che le iniziative culturali da lui proposte cadessero nell'indifferenza più esacerbata dello stesso movimento futurista. A partire da queste considerazioni generali, cercare di descrivere l'attività incessante di Francesco Cangiullo significa necessariamente puntare l'attenzione sul binomio “anticonformismo-anima partenopea”, che ben trova sviluppo nel suo rendere la parola una vera e propria forma d'arte, attraverso uno stile poetico, letterario e musicale ben preciso, fatto di parole in libertà e di una completa fusione tra antico e moderno. Nella sua visione del movimento egli tenta di definirlo come una porta aperta sul mondo e sulla modernità, contro il vecchiume sentimentale della cultura napoletana. Da parte sua la volontà del movimento era proprio quella di smuovere gli equilibri e le consuetudini esistenti, rigettando tutti i canoni della consuetudine artistica e ricercando l'originalità a tutti i costi. Proprio questa certezza porta Cangiullo a credere che la sua adesione al movimento possa contribuire a innescare un meccanismo di rinascita e di rilancio di una Napoli in piena trasformazione, ma ancora succube degli organismi politici e amministrativi, e di una borghesia autoritaria e reazionaria, incapace di cogliere la portata r i v o l u z i o n a r i a d e l n u o v o m o v i m e n t o d'avanguardia, anzi stroncato e biasimato per i suoi ideali provocatori. Bisogna infatti tener presente che agli inizi del 1900 Napoli si presenta, appunto, come una città in piena trasformazione, che va completamente ridefinendo il suo modo di vivere nonché il suo territorio, attraverso lavori di risanamento, sventramenti e ristrutturazioni urbanistiche. La città assume pertanto le caratteristiche di una moderna città europea, completamente proiettata nella rinascita mondiale già in atto nelle altre nazioni. Per lo stesso Marinetti la “napoletanità” rappresentava non solo, in senso metaforico, tutto il meridione, ma anche una fonte di vitalità primordiale in cui la parola perde del tutto il suo status istituzionale per assumere poi un valore del tutto nuovo che la rende quindi un utile strumento di scandaglio della realtà. Nella volontà di prendere le distanze dall'accademismo, dalla tradizione e da tutto ciò che appartiene al passato gli artisti cercano le loro fonti d'ispirazione nella vita contemporanea e in questo Francesco Cangiullo

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non si fa trovare certo impreparato ma anzi il suo carisma, la sua verve e il suo modo di fare spettacolo diventano il prototipo di una nuova forma d'arte che sempre più spesso passa dal tradizionale all'antitradizionale, capace di dare via libera a reazioni incontrollate e incontrovertibili. Questa caratteristica diviene la sua forza, capace di distinguerlo dagli altri e renderlo originale fino all'inverosimile. In questo panorama artistico, l'irregolare Francesco Cangiullo si identifica quindi come il solo ingegno innovatore di Napoli, che con la sua intensissima attività creativa e promozionale riesce a creare un legame fondamentale tra il Futurismo e gli ambienti artistici e culturali partenopei. Il movimento di avanguardia letteraria e artistica approda in effetti nella città il 14 febbraio 1909, quando la “Tavola Rotonda”, periodico di critica culturale fondato da Ferdinando Bideri nel 1891, pubblica, nel fascicolo n.6, il manifesto di F.T.Marinetti. A questa presentazione ufficiale segue la memorabi-le serata futurista del 20 aprile 1910 al Teatro Mercadante, in cui lo stesso Marinetti, Palazzeschi, Altomare, Boccioni,

Carrà e Russolo si cimentano in una netta presentazione della commistione creatasi tra poetica futurista, cultura napoletana e teatro di varietà. Lo “spettatore” Cangiullo ne esce assolutamente esterrefatto e pronto a creare opere che ben rispecchia-no questa situazione. La prima risposta a questa presa di posizione è rappresentata da un fervido scambio epistolare con Marinetti in cui egli si dice entusiasta del movimento e disposto a far parte del gruppo in maniera attiva e proficua. Quando si ritrova finalmente reclutato tra le file futuriste, egli tenta di dar senso d'avanguardia e coscienza artistica a tutta quella parte di giocosa irriverenza e di feroce humour noir presente in buona parte della cultura napoletana. A questi anni vanno ricondotte opere come “Sfrofette Futuriste Maltusiane” e “La cocotta futurista (Scherzo –parlato e danzato- per Cafè-Chantant)” in cui l'artista si mostra perfettamente in linea con le teorie del movimento. Ma il reale arruolamento è scandito dalla partecipa-zione al “pomeriggio futurista” presso il Teatro Costanzi di Roma (21 febbraio

1913), in cui Marinetti dopo aver letto due poesie dello stesso Cangiullo, “Notturno inzaccherato” e “Il Sifone d'oro”, lo presenta come “primo ed altissimo poeta napoletano e primo umorista italiano”.Nel dare una successiva scansione cronologica e di genere della sua produzio-ne che si richiama alla componente del movimento possiamo definire come prima opera futurista, la significativa e divertente “Piedigrotta” del 1914, a cui segue la stesura tipografica del 1916 (Edizione di Poesia, con copertina a cura del tipografo Antonio Amoroso), che si offre all'occhio del lettore come una vera e propria sceneggia-tura cinematografica, il cui argomento è l'interpretazione “polifonico-rumorista-onomatopeica" della nota festa popolare. È un vero poema parolibero in cui tutto diventa gioia, rumore, libertà e violenza. E non va dimenticata la presenza ossessiva della folla eccitata, riprodotta attraverso i versi declamati secondo diversi livelli di sonorità, a cui si accompagna una vera e propria orgia di sensazioni e odori. Tutto ciò permetta al lettore-spettatore di rivivere in prima persona il giubilo, con tutta la sua

Mariantonietta Melambo

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leggerezza e spontaneità, di sentirsi parte integrante dell'evento, attraverso il completo coinvolgimento dei cinque sensi. Successivo pezzo di bravura cangiullesco è il “poema visivo” dal titolo “Caffè concerto. Alfabeto a sorpresa” del 1918 (Edizioni Futuriste) che sottolinea la necessità ma soprattutto la capacità di utilizzare i segni e le lettere tipografiche in chiave sia poetica che plastica, avendo come prodotto finale l'opera di un pittore-poeta finalizzata più ad essere guardata che letta. Referente è lo spettacolo di varietà con tutti i suoi tipici personaggi, rappresentati ognuno in pagine di colore diverso; il gioco e soprattutto la novità sta nell'elaborare la possibilità di mettere in scena le varie rappresentazioni mediante l'uso delle diverse lettere dell'alfabeto o dei numeri, in vere e proprie sequenza alfanumeriche. Lo spazio della pagina assume inoltre la funzione di palcoscenico su cui si “esibiscono” i vari numeri, fino a creare un vero e proprio spettacolo, in questo caso certaceo. La musica è poi inventata e si trasforma in vere e proprie onomatopee graficamente espresse. Una vera innovazione, che assume un'importanza fondamentale nel campo letterario e che ne vede già un'anticipazione con l'opera “Alfabeto a sorpresa”, 60 tavole a colori in mostra nella Casa d'Arte Bragaglia a Roma, in via Condotti 21 (insieme al fratello Pasqualino) concepite ed eseguite nel 1912, addirittura prima dell'adesione al movimento futurista. L'opera è un sistema di scrittura che, tramite la combinazione di tratti grafici decontestua-lizzati riesce a creare forme di aggregazione per veicolare contenuti dati dalla risultante compositiva. Autentico prodotto di avanguardia è invece “Poesia pentagrammata” (Casella, Napoli, 1923 con copertina a due colori parolibera-

musicale di Enrico Prampolini), in cui l'autore elabora un nuovo modo di fare poesia, un modo che permette di “dare il tempo ai suoni onomatopeici e al rumorismo”, facendo quasi da precursore alla moderna poesia sonora. Utilizza la grafia musicale con la stessa validità di qualsiasi altra scrittura e la trasposizione del segno musicale in segno grafico ha solo la funzione di aiuto per la declama-zione a una o più voci della nuova poesia. Ne viene fuori una perfetta commistione tra codice poetico e codice musicale in cui la scrittura del testo sul pentagramma assume il risultato geniale di creare una poesia che si può intonare ma non suonare con uno strumento, e dove la musica assume il valore di scansione, sostituendosi al ritmo della metrica tradizionale. Attraverso la sua sperimen-tazione costante di nuove forme poetiche riesce a realizzare pienamente la fusione totale delle arti, cosa auspicata dai più e quasi mai raggiunta pienamente. Seppure in linea con la rottura letteraria tanto declamata dai futurista quest'opera così innovativa segna contemporanea-mente l'allontanamento definitivo del poeta dal futurismo, da lui accusato di “Passatismo” e il suo generale supera-mento. Egli aveva aderito con entusiasmo alle linee guida del movimento, senza pe rò sposa rne comp le tamen te l'ideologia; tale adesione era determinata dagli aspetti ludici del movimento stesso, quindi dalla possibilità che offriva il futurismo agli sprazzi improvvisi della fantasia e dell'invenzione del poeta, dello scrittore, del pittore, con la totale estraneità a ogni vincolo o regola accademica imposta da una qualsiasi “scuola”. Cangiullo sentiva la necessità di liberare da ogni costrizione la sua

inventiva, perché solo così era possibile avere un prodotto autentico e innovatore, che gli permetteva di auspicare una effettiva rivoluzione di ogni campo artistico e sociale.Fondamentale, e non meno degna di nota, fu anche la sua attività teatrale, che iniziò nel settembre del 1921, con il debutto al Teatro Mercadante di Napoli con la tournèe della compagnia del Teatro della Sorpresa diretta da Rodolfo De Angelis. Questa tipologia di teatro puntava a mettere in discussione gli eversivi postulati del Teatro di Varietà e del Teatro Sintetico, con uno spirito ottimista di giocoso sberleffo teso a lasciare il pubblico esterrefatto, a bocca aperta per la sorpresa e per lo scetticismo di fronte al venir meno di canoni tradizionali. La sua novità risiedeva nella volontà di dimostrare come fosse possibile dare sostanza scenica a una sola immagine, visualizzando una sola idea e cercando di sorprendere con tutti i mezzi possibili. Il punto di non ritorno che segna la rottura con il teatro futurista è la formazione della “Compagnia futurista del Teatro della Sorpresa”, nata dal connubio di De Angelis con Marinetti e Cangiullo. Tutto viene finalizzato a sbalordire il pubblico: attori presi dagli ambiti più disparati, orchestra sparpagliata tra la platea, stesso biglietto venduto a più spettatori. Sembra quasi una “gang” da circo in cui un ruolo fondamentale è rivestito da Ettore Petrolini, che con il suo lavoro aspira a desacralizzare luoghi comuni e convenzioni. Quest'ultimo con lo stesso Cangiullo scrive “Radioscopia di un duetto”, “rivista in un atto” presentata al Politeama di Napoli, in cui recitarono attori in sala, fra il pubblico, in una sequenza di scene sintetiche in forma di sceneggiata in cui il rapporto tra il teatro e la vita viene svolto in senso romantico.

Fortunato Leo

olto è stato scritto a riguardo dei rapporti intercorsi tra il Movimento surrealista e il cinema Mdi Luis Buñuel, così come molti scritti attestano il

legame che si è venuto ad instaurare tra il cinema (inteso come nuova forma di espressione artistica) e lo stesso Movimento artistico. I surrealisti, infatti, hanno conside-rato il cinema come la forma d'arte potenzialmente più capace di esprimere la tanto ricercata “surrealtà”, una dimensione onirica più reale e certamente più attraente della stessa realtà. Le principali fonti d'attrattiva offerte da questo nuovo mezzo sono da ricercare nella sua capacità di creare suggestione, il suo potere ipnotico, la possibilità di portare lo spettatore, isolato nel buio della sala, in un mondo “altro”, in cui i legami con la realtà quotidiana si allentano per far posto all'immaginazione, al desiderio, alla fantasia, al sogno. Già i dadaisti e i surrealisti avevano concepito un'arte fondata sul frammento, lo choc, la sorpresa, lo spiazzamento: il cinema porta a compimento le loro intuizioni. Se le inquadrature colpiscono lo spettatore con la stessa rapidità di uno choc, ciò ha conseguenze rilevanti sulla struttura psichica. Ogni sguardo gettato sullo schermo diviene simile ad un microtrauma veramente efficace (come ha mostrato Freud) che elude l'intervento della coscienza e si deposita nella latenza dell'inconscio.

Un dialogo fra linguaggi diversiBreton – Buñuel

Tuttavia, analizzando le ricerche atte ad indagare i rapporti tra i surrealisti e il cinema, ci si accorge che quasi sempre sono stati presi in considerazione soltanto gli aspetti più superficiali di queste relazioni, senza indagare le cause profonde e comuni che hanno spinto le stravaganti ricerche degli artisti legati a questo movimento. È così che Buñuel è stato definito surrealista solo in relazione ai suoi primi film, Un cane andaluso e L'età dell'oro, perché molti hanno visto soltanto in questi la perfetta corrispondenza dell'ideale filmico del Surrealismo, presentandosi come esplosioni di immagini analogiche e simboliche, estraniate da un contesto logico-temporale. Ma una visione più attenta di molti dei film che compongono la vasta filmografia del regista ci fa comprendere come in realtà, se è pur vero che la forma e la narrazione dei film successivi assumo-no caratteristiche ben lontane dall'anarchismo surreale di questi film degli esordi, i rimandi a quell'oltre individua-to dai surrealisti continuano, nella individuazione dei personaggi che si vengono a delineare dentro lo schermo e che si trasfondono all'attenzione degli spettatori. Al di là dei molti richiami di natura freudiana (da tenere in grande considerazione ma meritevoli di un tipo di analisi diversa), presenti sia nelle opere letterarie di Andrè Breton che nei film del regista spagnolo, sono

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troppi i punti di incontro/scontro che meritano di essere analizzati all'interno dell'opera di entrambi. Secondo Ado Kyrou, critico cinematografico e regista, tutto il cinema è essenzialmente surreale, poiché nel suo approccio al mondo, si costituisce come produzione di immagini (elaborazio-ne di sentimenti e di passioni) che liberano, come nella scrittura automatica e in un costante flusso metamorfico, il mondo della “surrealtà”; infatti nella sua opera critica “Le

1surrealisme au cinema” riscrive una storia del cinema in cui non parla di cinema surrealista, bensì ricerca gli elementi surrealisti nella storia del cinema, ritrovandoli anche in opere filmiche a prima vista lontanissime da questa corrente artistica. In poche parole, Kyrou non scrive un'opera critica sul surrealismo, ma piuttosto una vera e propria opera surrealista. Quest'approccio facilita certamente un'analisi degli elementi tematici ricorrenti all'interno della produzione filmica di Buñuel, anche laddove questi non siano così chiaramente identificabili come prettamente surreali.Tralasciando i rapporti di collaborazione intercorsi tra i due artisti (Buñuel si lega al gruppo dei surrealisti per poi lasciarlo, dopo aver già interrotto la sua amicizia e collaborazione con Salvador Dalì) che pure potrebbero essere importanti, ma che

occupano lo spazio riservato all'analisi delle tematiche ricorrenti all'interno della loro produzione artistica, nonché ad un processo evolutivo, sia dei significati emblematici che di quelli retorici. Un primo parallelismo forte tra la scrittura e l'immagine filmografica è sicuramente ravvisabile nell'originalità, quasi senza controllo, del modo in cui si articolano gli indirizzi delle loro opere. Infatti sia Nadja che L'amor fou, i due romanzi di Breton che, assieme al testo I vasi comunicanti, saranno qui presi in esame, sembrano allontanarsi dalla logica romanzesca, p r e s e n t a n d o s i p i u t t o s t o c o m e un'esposizione libera di foto di luoghi, persone, oggetti, opere d'arte e documenti, associati a riflessioni e resoconti di fatti accaduti nella vita dell'autore; allo stesso modo, i film di Buñuel rifiutano qualsiasi classificazione di genere e sono costruiti senza obbedire ad alcuna classica regola cinematografi-ca. Buñuel sente la necessità di un cinema autenticamente rivoluzionario, antiborghese, che vuole essere sgradevole e provocatorio. I suoi film sono infarciti di simbolismi, riferimenti letterari, che perdono la loro connotazio-ne per essere posti allo stesso rango di elementi della realtà più bassa. La realtà e il sogno, la denuncia e la poesia, la critica sociale e la fantasia, si

confondono coinvolgendo lo spettatore nei diversi gradi della sua esperienza di vita. Punto di contatto maggiore tra i film di Buñuel e le opere letterarie di Breton è il tema dell'amore che, seppur nelle sue diverse manifestazioni, diviene per i surrealisti il movente delle azioni umane. Per tali ragioni appare davvero utile confrontare, attraverso un'analisi delle loro opere, la modalità con cui viene proposto il tema dell'amore da parte dei due artisti, così tanto vicini, ma anche così tanto distanti tra di loro. Breton nel romanzo “L'amor fou” parla dell'esaltazione per un'età in cui regni la forza dell'amore: “in un tale amore esiste solo in potenza una vera età dell' oro in rottura completa con l'età del fango che attraversa l'Europa e di una ricchezza inesauribile di possibilità future”. La ricerca di un'età dell'oro viene rilanciata da Buñuel nel film che prende appunto il titolo da questa citazione, laddove assume i connotati di una vera e propria rivoluzione nei rapporti amorosi tra l'uomo e la donna, lontana dalla concezione matrimoniale della società borghese.Per Breton è l'amore folle, oggetto di indagine nel suo omonimo romanzo, mostratoci nei suoi tanti personaggi, come accade anche nei film di Luis Buñuel, amore che stravolge la vita degli uomini. Questo amore, unica vera meta delle azioni umane, viene posto dallo scrittore al di

2 A. Kyrou, Le surrealisme au cinema, Parigi, 1963.

Il taglio dell'occhio, scena tra le più suggestive presenti nel film“Un cane andaluso”, può essere identificato come una chiave di lettura dell'intera opera, un invito allo spettatore a cambiare completamente il proprio modo di guardare la realtà e le immagini che seguiranno, senza limitarsi a guardare le apparenze e il facile lirismo, per cercare la visione profonda, quella della “surrealtà”.

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Fortunato Leo

sopra di tutto, in una dimensione puramente spirituale, nella quale la donna diviene l'oggetto verso cui tende una sorta di processo mistico. “Questa parola amore, cui gli spiriti di cattivo gusto si sono ingegnati di far subire tutte le generalizzazioni e tutte le corruzioni possibili (amore filiale, amore divino, amore della patria, ecc), viene da noi qui ricondotta, è inutile dirlo, al suo senso stretto, e minaccioso, di attaccamento totale a un essere umano, fondato sull'imperioso riconoscimento della verità in un'anima e in un corpo che sono l'anima e il

2corpo di quest'essere”. Tuttavia, questa concezione a prima vista idealistica dell'amore, si carica in Breton di ben altre significazioni, laddove quello stesso sentimen-to viene concepito come uno sconvolgimento passiona-le, sensualmente suscitato dalla bellezza, legandosi alla sessualità e al concetto di desiderio; infatti quest'ultimo diviene l'elemento propulsore dell'amore surrealista, così come di tutta la vita dell'uomo. Nel film “Quell'oscuro oggetto del desiderio” (1977), il protagonista si muove alla ricerca del suo oggetto del desiderio, la donna amata, ma questa non gli si concede in quanto secondo lei, se lo facesse, cesserebbe di avere un tale valore per l'uomo. E così, tanto più la ricerca diviene ardua, tanto più il raggiungimento del desiderio acquista un significato maggiore, mentre per Breton un'idea simile sarebbe una follia, perché l'amore non può diminuire nella sua attuazione. Tuttavia, per lo scrittore, la realizzazione dell'incontro con il proprio oggetto del desiderio avviene spesso attraverso una trasformazione di questo in un altro oggetto, apparentemente diverso, che però svolge la stessa funzione ai fini del soddisfacimento del desiderio. È chiaro che questo concetto si riallacci alla teoria

freudiana, per cui nei sogni, attraverso mascheramenti di natura simbolica, necessari per sfuggire all'azione della censura, i nostri desideri inconsci vengono realizzati; in Breton il desiderio è condannato a rinascere sempre, diverso dalla sua realizzazione, e la sua durata presuppone una sua sempre incompleta soddisfazione; di conseguenza ogni tentativo di raggiungimento del proprio oggetto del desiderio deve in qualche modo provocare una delusione, perché mai il desiderio deve spegnersi nella vita dell'uomo.Una simile considerazione, volta però sul versante del desiderio sessuale, viene espressa nel film “Bella di giorno”(1966) dal personaggio di Housson (interpretato da Michel Piccoli) che, di fronte alla possibilità di possedere una donna (Severine, la protagonista del film, interpretata da Catherine Deneuve) che più volte ha cercato di sedurre senza successo, ma che ora trova in una casa dove esercita la professione di prostituta, preferisce rinunciare a lei, motivando la sua decisione con una frase: “Quello che mi attirava di lei era la sua virtù”…Siamo di nuovo di fronte allo stesso problema: il desiderio, una volta realizzato, rimane tale o perde il proprio valore? Quindi, se anche da un lato si fa promotore di una concezione dell'amore di ascendenza romantica, è normale che il Surrealismo non tralasci la componente più strettamente legata alla sessualità, diventando così il precursore nella trattazione di queste tematiche. Allo stesso Sade, assieme a Freud, viene riconosciuto dai surrealisti il merito di aver cercato di eliminare i tabù che impediscono di trattare liberamente argomenti inerenti la sessualità, che invece devono essere presi in considera-

2 Andrè Breton, “Inchiesta sull'amore”,1929.

“Un cane andaluso”: l'uomo, sempre preso da un' esaltazione notevole, comincia a trascinare a fatica un pianoforte, su cui è poggiato un bue squartato e al quale sono legati due giovani seminaristi….

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zione, poiché rivestono un ruolo importante nella vita dell'uomo. È poi normale che l'invasione della sessualità assuma anche i caratteri di lotta contro la morale cattolica, e soprattutto contro il perbenismo ipocrita del mondo borghese (messo in ridicolo perché costruito solo su apparenze e comporta-menti di facciata), tra i principali bersagli dei surrealisti. Questi sono anche i nemici principali di Luis Buñuel (il contatto più forte, che diviene forse addirittura convergenza, tra il regista spagnolo e il movimento si realizza proprio su queste tematiche) che più volte, e in più film, cerca di strappare la falsa maschera indossata dai borghesi. Dietro l'apparente perbenismo di fondo, anche le più importanti persone della società nascondono impulsi violenti, dirompenti, che si manifestano in modi incontrollati, ma trasferiti sempre in quell'aura di elementi sociali che trascen-dono il proprio status, per diventare un modo diverso del sentire, quasi come una dimensione dove la borghesia culturale mette in “vetrina” la violenza che appartie-ne al mondo proletario. Questo accade alla protagonista di “Bella di giorno” che diviene prostituta non per necessità, essendo moglie di un uomo ricco, ma per soddisfare i suoi desideri più profondi ma anche nascosti (che lo faccia soltanto in sogno o

nella realtà non cambia, dal momento che l'appagamento del desiderio si verifica ugualmente). Accade ai protagonisti di un film di Buñuel del 1972, dal titolo “Il fascino discreto della borghesia”, che manifestano le proprie pulsioni e i loro desideri, non solo di natura sessuale, liberamente, senza tener conto della loro posizione sociale (anche qui è difficile dare un'interpre-tazione della natura simbolica o reale del soddisfacimento dei desideri); anche i personaggi del film “L'angelo sterminato-re”(1962), sono esponenti dell'alta borghesia, ma incapaci, in una situazione di pericolo (non riescono, per una sorta di “incantesimo”ad uscire da una villa né tantomeno altre persone possono entrarvi) di mantenere un atteggiamento consono alla loro importante condizione sociale; pertanto, solo attraverso una sorta di “regressione a stadi primitivi”, di fronte alla fame e alle difficoltà, si trasformano, divenendo capaci di uccidersi tra di loro (anche qui l'atto vero e proprio non avviene per il semplice fatto che riescono ad uscire dalla casa, in seguito alla rottura dell'incantesimo) e di compiere azioni degne delle persone più infime.L'opinione di fondo che i surrealisti hanno del cinema è che questo abbia in sé la potenzialità di ricreare e di ricostruire la

dimensione meravigliosa del sogno, di ridurre tutta la vicenda umana ai grandi movimenti della passione, segnando profondamente la coscienza dello spettatore, di diventare creatore di energia, trascinando la folla all'azione, alla rivolta, in nome dei grandi ideali. Inoltre, al sogno si possono collegare gran parte degli stati psico-fisiologici, in cui la coscienza allenta la propria presa sul mondo, e dove la percezione è quasi interamente automatica, e liberando le energie che, nello stato di veglia, hanno una funzione di controllo. La condizione onirica si presenta così costituita da una doppia valenza: da un lato, essa rimanda al sogno come condizione irrazionale, come fuga dalla realtà; dall'altro, può aprire uno spazio di riflessione critica, come uno spazio ermeneutico, dove viene inserito nelle ricerche portate avanti dalla psicoanalisi; infatti tutta la sostanza che il film elabora e manipola non è altro che un luogo immaginario, inteso come un sogno.Da un altro romanzo importante di Breton,

3dal titolo “I vasi comunicanti” (1932), è possibile cogliere in pieno la concezione surrealista dell'attività onirica.La tesi di fondo di questo testo è la ricerca di una conciliazione tra vita onirica e vita reale, tra ciò che è individuale e ciò che è collettivo, tra il soggettivo e l'oggettivo (un

3 Andrè Breton, “I vasi comunicanti”, a cura di Annamaria Laserra, Edizioni Lucarini, Roma 1990.

“L'età dell'oro”: l'amore folle contrasta tutto e, attraverso l'uomo, capace di lanciare dalla finestra una serie di oggetti simbolici (un aratro, un pino, un arcivescovo, una giraffa, un letto), trionfa sulla morale borghese.

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Fortunato Leo

altro tentativo di conciliazione tra questi due aspetti contraddittori Breton lo compie successivamente, nel 1937, con la stesura de “L'Amor fou”). Scopo del testo è quello di dimostrare che non esiste una linea di confine tra realtà e surrealtà, come se si trattasse di un vaso comunicante dove tra contenente e contenuto c'è perfetto equilibrio: “Per quanto bizzarro possa essere, il sogno non riesce mai a staccarsi veramente dal mondo reale, mentre le sue creazioni più sublimi come le più buffe, debbono sempre prendere a prestito la loro materia prima da ciò che il mondo sensibile offre ai nostri occhi o da ciò che in certo modo ha già trovato posto nel

4corso dei nostri pensieri vigili.” Breton mostra, allo stesso tempo, la concretezza dell'immaginario onirico attraverso l'analisi di alcuni propri sogni, e viceversa l'onirismo della realtà attraverso l'analisi di alcuni episodi di vita vissuta. Il sogno rappresenta per i surrealisti (e quindi natural-mente per Breton, che del movimento è il maggior esponente) una sorta di “momento di rivelazione”, luogo in cui si manifestano i veri impulsi dell'uomo e si verifica l'appagamento delle pulsioni inconsce (secondo la teoria freudiana, ripresa da entrambi). In molti film di Buñuel c'è un forte rimando alla natura delle immagini oniriche, la cui manifestazione improvvisa causa turbamenti nella vita dell'uomo; ma per il regista spagnolo il sogno è qualcosa di più, perché si lega al suo stesso modo di concepire la realtà, dove il sogno irrompe nei suoi film, confondendo i suoi personaggi e, nello stesso tempo, confondendo noi spettatori. La linea di demarcazione tra sogno e realtà oscilla continuamente da una parte all'altra, fino a scomparire e a far sorgere in noi una necessaria domanda: “È un sogno o é realtà?”.

In “Il fascino discreto della borghesia”(film del 1972), si verifica uno scambio (o fusione) tra sogno e realtà, dal momento in cui la narrazione procede seguendo una linea che passa di sogno in sogno. È difficile stabilire dove termini il sogno e cominci la realtà, e viceversa. A rendere ancor più complessa la trama è il fatto che questi sogni non sembrano appartenere al solo singolo personaggio che sogna, dal momento che avviene una sorta di comunicazione che mette in contatto più persone all'interno del sogno. In questo modo viene realizzata la compenetrazione tra sogno e realtà, tanto ricercata da Breton. Ma, al di là della stessa struttura legata alla narrazione, c'è un altro momento del film particolarmente significativo per l'analisi della compo-nente onirica, infatti nel momento in cui un soldato, su ordine di un suo superiore, durante una cena improvvi-sata a casa di alcuni borghesi, racconta un suo sogno della notte precedente, sogno (mostrato in una delle scene più belle di tutta la produzione filmica buñueliana) dove incontra, una per volta, tre persone che nella realtà sono morte da molto tempo (due amici e una donna amata da lui in passato) fino a restare da solo, rievocan-do il nome di sua madre. Seguendo la tipologia di analisi dei sogni di tipo freudiana, la scena finale potrebbe essere interpretata come un tentativo di ritorno al grembo materno, realizzato in sogno dal personaggio. Al di là della stupenda atmosfera onirica che si respira in questa scena, e della sua poeticità, c'è il forte richiamo ad un sogno personale, molto simile a questo descritto, fatto da Buñuel dopo la morte della madre. Il tema del sogno che si sviluppa all'interno di un altro sogno, è una chiara ripresa del segmento onirico descritto da Breton all'interno del suo libro “I vasi

3 Andrè Breton, “I vasi comunicanti”, op.cit. pag.39.

“L'età dell'oro”:in dissolvenza, infine, appare in sottotitolo un brano delle “Centoventi giornate di Sodoma” che diviene una sorta di inno a Sade, visto come un nuovo Cristo, col trionfo della violenza eversiva.

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comunicanti”. Lo scrittore riporta un suo sogno nel quale egli, per effetto di allucinazioni dovute all'uso di hascisc, vede nella propria camera due bambine che gli altri non possono vedere. Il sogno richiama quindi un altro sogno, come i vari sogni (o la realtà?) del film di Buñuel, e questi si intersecano tra di loro. Anche nel film “Bella di giorno” viene riproposta la tematica dello scambio tra l'attività onirica e la realtà. Infatti tutto il film può essere considerato, secondo una prospettiva, come un sogno della protagonista oppure, secondo un'altra interpretazione, le vicende corrispondono a fatti reali e solo alcuni inserti sono onirici, creando un'ambiguità di fondo, che non viene risolta nemmeno alla fine. Nell'ultima scena, infatti, compare Severine (la protagonista) che, mentre si prende cura del marito rimasto paralizzato, dice: “Da quando hai avuto l'incidente non sogno più”. Nel momento stesso in cui sembra darci una soluzione interpretativa, Buñuel la sostituisce con un'altra che la contraddice, legata ancora ad un altro sogno della donna. Tutta la storia si dipana tra sogno e realtà, tra il desiderio e la sua realizzazione, tra espiazione e liberazione, tra normalità e anormalità. In quasi tutti i film di Buñuel, la cui solo menzione richiederebbe ben ampi spazi, data la sua vastissima filmografia, la

componente onirica riveste una funzione importantissima che lo colloca, pur mantenendo il regista sempre in una posizione ideologica e artistica originalis-sima, in un campo d'indagine parallelo a quello di Breton e, più in generale, dei surrealisti.

“Bella di giorno”:i sogni di Severine, legati a suoi desideri profondi di natura sadomasochistica, se da un lato turbano la sua esistenza, d'altra parte le permettono di capire i propri traumi e superare i propri problemi

Catherine Deneuve interpreta Severine, la donna protagonista del film “Bella di giorno”

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Michele Miscia

l jazzista “partenopeo”, ormai celebre, Antonio Onorato, detto “Vento nelle mani” per la grande Iperizia con cui suona la chitarra, ha dato vita,

con la danzatrice Valeria Saggese e lo scultore Patrizio Zona, ad una performance, basata sull'improv-visazione, che gli artisti hanno presentato con l'espressione di “sperimentazione fusion”, nella quale il vocabolo inglese “fusion” non è inteso, in senso musicale, come fusione di diversi generi, ma sottintende il vocabolo “art”, arte, addivenendo al significato di fusione di arti.Ho deciso di trattare questo argomento per un eterogeneo ordine di motivi. Innanzitutto perché posso considerare Antonio Onorato alla stregua di un concittadino, oltre che di un caro manico, essendo egli originario del mio paese, per parte di padre: per quanto abbia vissuto l'intera vita a Napoli, pur non manca di tornare ogni anno dalle mie parti ove lo incontro sempre molto volentieri. Indi perché la performance è molto attuale ed è praticamente inedita, non essendo presente in letteratura, fatta eccezione per qualche acritico articolo di giornale che si è limitato a dare notizia dell'evento. Il terzo e più importante motivo risiede nel fatto che, avendo assistito un paio di mesi or sono ad una delle rappresentazioni, proprio nell'arco temporale di maggior impegno negli studi intrapresi da me in materia di sinestesie, ho avuto

la sensazione che un procedimento creativo di carattere sinestetico fosse all'opera. La qual cosa, forse, è scaturita dal fatto che la mia mente, in quel particolare periodo, tentava di sciogliere i nodi relativi alla problematica della quale mi stavo occupando, ragion per la quale, anche involonta-riamente, cercavo con i sensi e con la mente qual si voglia cosa risuonasse, odorasse o sembrasse possedere qualcosa di attinente alle sinestesie. Ad ogni modo, ciò che mi è parso in quella occasione, forse, non è stato completamente frutto di elucubrazioni del mio intelletto o di forzature mentali. Già il titolo dato allo spettacolo, Note Scolpite, contiene un'indicazione di fondo. Lo scultore Patrizio Zona, per il tramite dello scalpello, ha impresso sulla pietra le suggestioni provocate dall'ascolto, dal vivo e senza un preciso progetto, della musica improvvisata da Antonio Onorato. Fatto è che l'ouverture è stata dettata proprio dai colpi di scalpello sul marmo, che hanno impresso un ritmo sul quale Onorato ha cominciato ad innestare accordi e arpeggi, ora più veloci e ritmici ora più lenti e suggestivi, ai quali lo scultore, a sua volta, ha finito per conformare il suo intervento. In tal modo, se il musicista ha utilizzato i suoni promananti dalla scultura in fieri invece delle percussioni, per derivarne l'andamento ritmico da imprimere alla sua musica, lo scultore ha tentato di

Le Note Scolpitedi Antonio Onorato, Valeria Saggese e Patrizio Zona

Fusioncronaca di una performance di Arte

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raffigurare tale andamento, che nelle sue mani aveva trovato il suo punto di partenza. Il suono si è dunque permutato, in breve tempo, in una immagine visiva, la cui plasticità è stata immediatamente mutuata dalla danzatrice Valeria Saggese, che, non appena entrata sulla scena, ha assunto proprio la posizione corporea suggerita dalla pietra in corso di lavorazio-ne. Se, dunque, la scultura ha trovato la sua epifania nella musica, che è movi-mento sonoro, fermandone saldamente l'immagine percepita attraverso l'udito sulla pietra, la danzatrice si è appropriata della staticità lapidea per il tramite della vista, dando inizio ad un processo di trasformazione della staticità plastica in movimento del corpo, influenzando in questa maniera, a sua volta, la chitarra del musicista. In questa sinfonia plurisenso-riale, dunque, il ruolo direttivo è stato assunto dal corpo fisico, quello della ballerina, che il musicista ha finito per ritrarre in modalità uditive seguendone con la chitarra i movimenti, dando vita ad una “immagine” musicale che lo scultore continuava a raffigurare con lo scalpello. In questa maniera il cerchio si è chiuso: la fusione tra immagine e suono si era realizzata, perché l'immagine della ballerina e quella della statua potevano essere “viste” anche solo con l'orecchio, ascoltando la musica, mentre l'andamento sonoro poteva essere “udito” semplice-mente osservando le movenze della ballerina o le forme plastiche della scultura.

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Gialloil suonodi Vasilij Vasil'Evic Kandinskij

Michele Miscia

ueste tre frasi, contenute nel suo celebre proclama del 1910, offrono il senso chiaro Qe netto dell'importanza attribuita da

1Kandinskij alla sinestesia come modalità creativa, da un canto, e come strada di accesso all'arte da parte del fruitore, dall'altro.Probabilmente nessuno come lui, e dopo di lui, riuscì a comprendere in modo così totale le valenze delle quali la modalità percettiva sinestetica dell'uomo - che, come abbiamo visto con Merleau – Ponty, è facoltà naturale – è foriera: anche e soprattutto in questo egli è stato

un maestro il cui insegnamento ancora vive nella concezione d'arte e nell'opera di una grande varietà di artisti contemporanei, specialmente di quelli che producono le cosiddette “installazioni” o danno mluogo alle performance multisensoriali, portando sulla scena in contemporanea la danza, la pittura o la scultura, la musica e la letteratura, entrambe figlie, evidentemente, delle “composi-zioni sceniche” di Kandinskij, intese alla stregua di una sintesi delle arti che egli concepirà con l'opera Il suono giallo e che concretizzerà effettivamente con Il cavaliere azzurro.

“Abbandona il tuo orecchio alla musica, apri i tuoi occhi alla pittura e smetti di pensare! Chiediti soltanto se il pensiero ti ha reso incapace di entrare in un mondo finora sconosciuto. Se la risposta è si, che cosa vuoi di più?”

Kandinskij

riflessioni e ricerche sulle sinestesie

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1 Vasilij Vasil'evič Kandinskij nasce a Mosca il 4 dicembre del 1886. Si dedica alla pittura sin dall'adolescenza, ma la vocazione gli si rivela al tempo della grande esposizione degli impressionisti francesi a Mosca nel 1895, anno nel quale, come testimonia nella sua autobiografia, rimarrà impressionato di fronte a un quadro di Monet: “A proposito di Monet, bisogna dire che prima di allora conoscevo solo la pittura realistica, e quasi esclusivamente quella russa ... Ed ecco, improvvisamente, vidi per la prima volta un quadro. Mi sembrava che senza il catalogo in mano sarebbe stato impossibile capire ciò che doveva rappresentare il dipinto. Mi turbava questo: mi pareva che nessun artista avesse il diritto di dipingere in quel modo. Nello stesso momento notavo con stupore che quel quadro turbava e affascinava, si fissava indelebilmente nella memoria fino al più minuzioso dettaglio. Non riuscivo a capire tutto ciò ... Ma ciò che mi divenne assolutamente chiaro fu l'intensità della tavolozza. La pittura si mostrò davanti a me in tutta la sua fantasia e il suo incanto. Profondamente dentro di me nacque il primo dubbio sull'importanza dell'oggetto come elemento necessario nel quadro... Fu nel Lohengrin che sentii, attraverso la musica, l'incarnazione e l'interpretazione suprema di questa visione... Mi divenne perfettamente chiaro, però, che l'arte possedeva in generale una potenza assai maggiore di quanto pensassi, e che la pittura era capace di esprimere la medesima intensità della musica”.Nel 1896 si trasferisce a Monaco, in Germania e già nel 1910 pubblica il testo fondamentale della sua concezione artistica: Lo spirituale nell'arte. Nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, rientra in Russia. Dopo la rivoluzione del 1917 viene chiamato a ricoprire importanti cariche pubbliche nel campo dell'arte. Crea l'Istituto per la Cultura Pittorica e fonda l'Accademia di Scienze Artistiche. Partecipa al clima avanguardistico russo che in quegli anni conosce importanti fermenti con la nascita del Suprematismo e del Costruttivismo. Tuttavia, avvertita l'imminente deriva assolutista, che avrebbe di fatto tolto spazio alla ricerca delle avanguardie, nel 1921 ritorna in Germania e non farà più ritorno in Russia. Nel 1922 viene chiamato da Walter Gropius ad insegnare al Bauhaus di Weimar. Il periodo trascorso al Bauhaus ha termine nel 1933 quando la scuola viene chiusa dal regime nazista. L'anno successivo Kandinskij si trasferisce in Francia., a Parigi, ove trascorre gli ultimi dieci anni della sua vita. Muore nella residenza di Neuilly-sur-Seine il 13 dicembre 1944.

Nell'idea dell'artista, egli stesso frutto di ibridazione e meticciamento genetico, vista la concorrenza nelle sue vene di sangue russo, ma anche tedesco per parte di madre e cinese per parte di nonna, le composizioni sceniche sono concepite alla stregua di opere artistiche che si differenziano dalla pittura pura e semplice, includendola, in quanto funzionali all'espressione del sentimento allo stato puro per il tramite di strumenti eterogenei, ossia suoni, colori e movimenti, al fine di condurre l'anima dello spettatore a “vibrare”, per vivificarne la fantasia, ovvero per includere lo spettatore stesso nell'opera, chiamandolo a partecipare alla rappresentazione.Egli sostanzialmente vuole che il fruitore esperisca direttamente il farsi creativo dell'opera, che è un farsi sinestetico, nella convinzione che la creatività sia un atto esperienziale, percettivo prima che analitico, ed anzi quasi emendato dalla necessità di un'analisi: in questo il significato della citata espressione, rimasta celebre, “Smetti di pensare!”, a dir che la mente, impegnata nello sforzo di concettualizzazione, potrebbe addirittura impedire l'esperienza creativa.Ma come pervenne, l'artista, alla elaborazione delle sue “composizioni sceniche”?Cruciale fu il suo incontro con due artisti con i quali avrebbe sperimentato ciò che andava, di volta in volta, immaginando: il compositore Thomas von Hartmann e il ballerino Aleksandr Sacharov.Quest'ultimo, in particolare, aveva studiato pittura a Parigi ed aveva finito per distruggere tutti i suoi dipinti dopo che aveva assistito ad una piece teatrale, prenden-do la decisione di applicarsi allo studio di una nuova arte che trovasse nella danza il suo fondamento, ma, visto che il balletto tradizionale non conduceva, a suo parere, sulla strada dell'innovazione che egli auspicava, finì per elaborare egli stesso una vera e propria teoria personale definita, dalla critica coeva, “danza assoluta”, che, negli intenti di Sacharov avrebbe dovuto avere quale scopo precipuo quello di

2“rendere visibile l'invisibile”, secondo le parole usate da Kandinskij.Kandinskij coinvolse presto Sacharov, assieme a von Hartmann, in alcuni interes-santi esperimenti, da egli stesso descritti con cura:

“Il musicista sceglieva da una serie di acquerelli quello che, da un punto di vista musicale, gli sembrava essere il più chiaro. In assenza del ballerino suonava questo acquerello. Poi arrivava il ballerino, gli si faceva ascoltare il brano musicale, ed egli lo

3trasponeva in danza, indovinando poi l'acquerello che aveva ballato”

Coerentemente, intorno al 1908, Kandinskij cominciò a cimentarsi nella composizio-ne di rappresentazioni teatrali, pur molto distanti dalla concezione classica di teatro, basandolo su tre sonorità contraddistinte e convergenti: • il suono musicale, prodotto dalla voce umana o da strumenti musicali;• il suono del corpo e della psiche, derivante dal movimento dei danzatori;• il suono del colore, che trova visibile epifania nelle luci, nei costumi e nelle scene.Tali elementi dovevano interagire secondo un progetto unificante, perché forieri di un valore interiore unico, che trovava nella multisensorialità il terreno più fertile per produrre sensazioni sinestetiche.

2 C. Derouet - J. Boissel, Kandinskij, «Collections du Musée National d'Art Moderne», Parigi 1985, p.69.3 Il passo è contenuto in una conferenza di Kandinskij tenuta a Mosca nel 1921 ed è riportato nella pubblicazione seguente: A. Schönberg - V. Kandinskij, Musica e pittura. Lettere, testi, documenti, a cura di J. Hahl-Koch, Einaudi, Torino, 1988, p. 154

Michele Miscia

4 Lettera di Kandinskij a Hildebrandt, del 24 gennaio 1937, cit. in J. Boissel, Questo tipo di cose ha il suo destino. Kandinskij e il teatro sperimentale, in Vasilij Kandinskij, Catalogo della mostra di Verona, Milano 1993, p. 193

Fu un lavoro ininterrotto protrattosi dal 1908 al 1914 quello che portò al risultato più compiuto in tal tipo di produzione da Kandiskij, Il Suono Giallo, che in origine presentava il titolo, dal sapore meno sinestetico, di Giganti, che attese per ben sei decenni la prima rappresentazione, per quanto, come lo stesso autore scrive al critico Hans Hildebrandt,

“..Sa che per due volte mi fu offerto di rappresentarlo? La prima volta appena prima della guerra: la rappresentazione doveva avere luogo a Monaco alla fine dell'autunno 1914. La seconda volta a Berlino (alla Volksbühne) nel 1922. E questa seconda volta a intralciarmi non fu la guerra, ma il mio compositore Thomas von Hartmann, allora irraggiungibile. Così dovetti rifiutare. Mi ricordo all'improvviso che c'è stata anche una terza volta: Schlemmer voleva presentare il pezzo. Ma ancora una

4volta il progetto andò a monte...”

ma il rapporto suono – colore non si produce soltanto nelle rappresentazioni volutamente multisensoriali, ma è riferibile, per Kandinskij, un carattere intrinseco della pittura, ovvero della mera creatività che si esprime sulla tela: si tratta pur sempre di un'operazione sinestetica, di una ibridazio-ne sensoriale in cui la musica riveste un ruolo di primaria importanza, con i colori in veste di “coreuti” o di musicisti intenti ad intonare nello spazio della tela, sotto la direzione d'orchestra dell'artista, una sinfonia cromatico – segnica.Non a caso, tra le sue frasi più celebri e citate nella letteratura, c'è quella che utilizza la metafora del pianoforte per spiegare che cosa è la pittura:

“Il colore è il tasto, l'occhio il martelletto, l'anima il pianoforte dalle molte corde. L'artista è una mano che toccando questo o

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quel tasto mette in vibrazione l'anima umana.…”

Nei fatti, che tra pittura e musica esistessero delle affinità profonde era convinzione che egli sottolineava continuamente, tanto che, a partire dal 1909, Kandinskij stabilì volontariamente un'analogia con l'arte astratta per eccellenza, la musica, intitolando i tre gruppi di opere, alle quali lavorò a partire da quell'anno, Impressioni, Improvvisazioni e Composizioni, che vanno viste, a parere di grandi storici dell'arte come Argan, alla stregua di gradini di una scala che deve condurre all'astrazione. Per questo era tanto affascinato dalla musica, perché esso è lo strumento privilegiato che consente di pervenire all'astrazione assoluta e quindi alla libertà assoluta.Ma il modus operandi derivato da tale fascinazio-ne non si basava esclusivamente sull'intuizione interiore, essendo anche, di contro, il frutto di una

indagine tesa a ricercare quello che egli stesso definiva “il più ricco ammaestramento” che i pittori possono trarre soltanto dalla musica.Tanto è vero che egli, convinto dell'esistenza di un universo armonico prodotto dalla congiunzione di suoni e di colori, stabilì e formalizzò una connes-sione, evidentemente sinestetica, tra i timbri armonici di diversi strumenti musicali, i colori e le sensazioni prodotte nell'animo umano.Da notare la sostanziale consonanza delle associazioni di Kandinskij con quelle tradizionali, presenti in tutte le culture e oggetto, specialmente negli ultimi decenni, di una ingente mole di studi scientifici, ma anche di credenze, fondate più che altro sulla tradizione filosofica orientale, che hanno attecchito nel terreno fertilissimo della New Age.Se i primi hanno prodotto innovazioni nel campo della cura delle patologie, specialmente quelle di natura psicologica, come la “cromoterapia”, le

Michele Miscia

Giallo

Colore Strumento

Tromba

Violino

uto Fla

Fagotto

Campanetubolati

Contrabbasso

Timbro Significato

Azzurro

Verde

Violetto

Arancio

Blu

SquillanteSplendente,

simbolo di vivacità e gioia di vivere

Freddo e tranquillo

Riposo,equilibrio, tranquillità

Solitudine,abbandono, mistero, magia

Misticismo, festa

Tranquillità,un colore che sprofonda senza fine

Agile, brillante,ma pastoso

Penetrante, vibrante,versatile ed espressivo

Pastoso, ritmico,struggente, penetrante

Basso, profondo,freddo e scuro

Ieratico, solenne

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seconde hanno portato soltanto una grandissima confusione. Se gettiamo uno sguardo tra l'ingente numero di pubblicazioni che concerno-no il “significato dei colori”, o anche tra le infinite pubblicazioni on line, non si potrà fare a meno di notare che tutte, più o meno, si equivalgono, quasi fossero frutto di emulazione, se non di plagio, e quel che più lascia intuire la veridicità di tale ipotesi è il fatto che mai si riportano le fonti. Pertanto è una sorta di interpretazione canonica quella che viene proposta, che, tra l'altro, somiglia moltissimo a quella formulata da Kandinskij.Un interesse, quello per l'aspetto musicale del caleidoscopio cromatico, che si riflette anche nella “dissonanza” possibile degli accostamenti, modalità che egli mutuò, probabilmente, sotto l ' i sp i raz ione de l l a mus ica d i Schönberg, l'inventore della dodecafo-nia, che egli in prima istanza chiamò pantonalità, e che consisteva, secondo la spiegazione datane dallo stesso compositore viennese, in una modalità

di composizione mediante l'uso di dodici suoni non posti in relazione fra loro.Il contatto epistolare tra i due ha inizio all'indomani della rappresentazione di un concerto che Schönberg tenne a Monaco il primo di gennaio del 1911, cui Kandinskij assistette e che gli procurò un entusiasmo tale da indurlo a scrivere al compositore, che egli non conosceva, per manifestargli le sensazioni che aveva provato oltre che delle affinità che gli era parso di individuare tra quella musica e i propri dipinti. Impressione 3, un dipinto creato da Kandinskij poco tempo dopo la performance di Monaco, costituisce, con ogni probabilità la riformulazione pittorica del concerto.L'epistolario tra i due artisti, interrotto nel corso della guerra, si distende fino al 1923 circa, anno nel quale una presunta ostilità del pittore nei confronti del giudaismo, non comprovata e frutto forse d'equivoco, indusse l'ebreo Schönberg ad interrompere i rapporti, fondati più su

una reciproca stima e ammirazione e su un anelito condiviso teso al rinnova-mento dell'arte che non, a parere della maggior parte dei commentatori e degli studiosi, su precise convergenze creative.In sostanza manca, nell 'opera musicale di Schönberg il fondamentale rapporto sinestetico tra suono e colore che è alla base della concezione dell'arte e che è, invece, il cardine della concezione di un altro grande musicista che attrasse Kandinskij, il suo conna-zionale Aleksandr Skrjabin.

Aniello De Luca

Da lungo tempo i confini dell'artistico si sono ampliati a tal punto da concedere cittadinanza a produzioni talmente

eterogenee che soltanto un approccio estetico può giustificare in quanto arte. Da decenni il discrimine che separa ciò che è arte da ciò che arte non è si rende evanescente di fronte a motivazioni di carattere materiale, tecnico, di genere o di disciplina. Le Avanguardie storiche prima (con l'abbattimento della struttura spaziale di origine rinascimentale, la contaminazione sistematica di pratiche, generi, materiali, finanche della realtà artistica con la realtà quotidiana, il graduale disconoscimento del valore della tecnica, intesa quale perizia di mano) e l'insieme di proposte che rientrano nella definizione di arte concettuale che, in seguito, hanno portato a compimento il processo di smaterializzazione

dell'arte (tanto che l'oggetto artistico viene considerato null'altro che un residuo fisico della

1vera attività artistica) , hanno provocato una frattura irreversibile nelle modalità di ideazione, di produzione e di fruizione, anche critica, dell'arte; nessuno oserebbe più tentare di dare una risposta definitiva alla secolare domanda “che cos'è arte” in base a qualità che riguardano l'oggetto, semmai nei termini di azione sul fruitore: dunque, arte quale attività intenzionata alla organizzazione di un dispositivo (che può benissimo essere un pezzo di realtà che l'artista individua, estrapola e pone all'attenzione del pubblico) capace di suscitare tutte insieme o separatamente sensazioni, emozioni, stati d'animo, riflessioni.

Tuttavia, riguardo alla fotografia, di tanto in tanto, in maniera quanto più quanto meno velata,

una tracciabreve nota sulla fotografia

di ragionamento

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riemerge l'antico sospetto se questa, per sua stessa natura, possa rientrare a pieno titolo anche in questa capientissi-ma, quasi omnicomprensiva definizio-ne di arte: se, cioè, la fotografia possa svolgere, accanto alla sua innegabile funzione documentativa, anche una funzione espressiva e, dunque, proporsi davvero come un “modo speciale di pensare” – per dirla con Harold Rosenberg – capace di emozionare e di fare a sua volta pensare. Le fonti del sospetto sono varie, ma quella di maggiore portata ha natura linguistica: quello della fotogra-fia è un codice debole, dal momento che i segni che la compongono non hanno la capacità di strutturarsi in un

linguaggio formalmente compiuto (anche se Filiberto Menna ha evidenziato come la riflessione analitica abbia avuto importanti risultati pure nel campo della

2fotografia) ; ciò è dovuto alla inevitabi-lità di un referente che riempie totalmente lo spazio fotografico da impedire qualsiasi oltrepassamento, e di cui la foto sarebbe inesorabilmen-te un documento, una impronta, una traccia.

La presenza ostinata ed ingom-brante del soggetto: ecco dunque la vera dannazione della fotografia, fin dalle origini. E, proprio a partire da questa traccia, si tenterà di dipanare la trama di un ragionamento.

Al suo apparire la fotografia – è storia ben nota – veniva accolta da proclami entusiastici e da anatemi terribili. Vi era chi, come François Arago, la presentava al mondo come una scoperta meravigliosa, con la sua capacità di riprodurre la realtà visibile fin nei suoi dettagli minimi, e chi, al contrario, proprio per questa capacità, scorgeva in essa un pericolo mortale per la vera arte.

La condanna più decisa ed argomentata – certamente la più famosa – è quella emessa da Baudelaire nella sua cronaca del Salon

3del 1859: intanto la fotografia è un procedimento essenzialmente tecnico, risultato di quel progresso che per lui

rappresenta un graduale impoverimento dell'anima a tutto vantaggio della materia e, pertanto, arte (quale distillato più prezioso dello spirito umano) e progresso non potranno mai trovare un momento di conciliazione («Poesia e progresso sono due esseri ambiziosi che si odiano di un odio istintivo, e, allorché s'incontrano sulla stessa strada, bisogna che l'uno si sottometta all'altro»); l'arte, poi, ha a che fare con l'impalpabile, l'invisibile, il sogno, dunque con una realtà tutta interiore a cui l'artista sa dare forma visibile, e non consiste certo nella riproduzione fedele dei dati di natura, come la fotografia che, anzi, proprio per la sua estrema precisione riproduttiva che non concede spazio al mistero, ottunde la facoltà immaginativa, impedisce di sognare: «Di giorno in giorno l'arte perde il rispetto di se stessa, si prosterna davanti alla realtà esteriore, e il pittore diventa sempre più incline a dipingere non già quello che sogna ma quello che vede […] È lecito pensare che un popolo i cui occhi si abituano ad apprendere gli esiti di una scienza materiale come i prodotti del bello non abbia, nel giro di un certo periodo, diminuito sensibilmente la facoltà di giudicare e di sentire quanto vi è di più etereo e di più immateriale?»

Interessante è constatare come i sostenitori dell'una e dell'altra tesi puntino il dito sull'aspetto puramente chimico della fotografia, la capacità del supporto sensibile di lasciarsi impressionare dal fascio luminoso proveniente dagli oggetti, conservandone una immagine caratterizzata da una fedeltà

all'originale prima mai raggiunta. Il fotografo non c'è; non è neanche presa in considerazione l'ipotesi che questi,

come suggerito del tutto involontariamente da Niepce, 4

possa esprimere un proprio point de vue, una interpre-tazione di quella realtà che sembrerebbe lasciarsi

catturare per intero e passivamente dal suo apparec-chio.Questi atteggiamenti, per fortuna, sono stati da lungo tempo superati, e tuttavia individuano le due

vere maledizioni che ancora oggi gravano sulla fotografia, spesso limitandone fortemente una giusta

comprensione e considerazione, e ciò non soltanto presso un pubblico non addetto ai lavori: l'obbligo della presenza concreta di un qualcosa che rifletta o emetta la luce che va ad agire sulla pellicola o – ciò capita sempre

più di frequente – sul sensore, e l'estrema facilità con la quale una fotocamera, soprattutto quelle di ultima generazione con i loro sofisticatissimi sistemi esposimetrici, permette di registrare una immagine corretta di ciò che viene inquadrato.Sono due evidenze, queste, che attengono ad ambiti diversi: teorico, la prima, pratico, la seconda e, pertanto, rimandano ad ordini di problemi distinti. Tuttavia, a me pare, queste varie e – per altre ricerche – distinte problematiche si incontrano in più punti quando si tratta di tentare di capire quale tipo di immagine sia quella fotografica, in cosa si differenzia (se si differenzia) dalle altre tipologie di immagini e se questa possa condurre un senso (o anche più d'uno) che esorbita dalla mera ostensione del soggetto.

È stato più volte sottolineato il carattere rivoluzionario della fotografia, la cui invenzione ha imposto modalità inedite non solo di pensare e di organizzare l'immagine, ma anche di guardarla. Si è trattato senza dubbio di una democratizzazio-

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ne radicale del sistema di produzione e f ru iz ione del l ' immagine, pr ima appannaggio di una élite, che ha esteso a tutti (o quasi) la possibilità concreta di ottenerla e a tutti (o quasi) la possibilità di possederla, finanche di saperne godere. Ciò ha significato una serissi-ma messa in discussione della concezione aristocratica dell'esperien-za estetica, secondo cui non a tutti è concessa la capacità di godere con proprietà di, ad esempio, uno spettaco-lo naturale, figurarsi di un organismo complesso come l'oggetto d'arte, come non a tutti è dato di possedere quel particolare saper fare necessario a realizzarlo. Naturale conseguenza di un ragionamento così impostato è che, se tutti sono in grado di realizzare una buona foto, questa non può essere in alcun modo considerata il prodotto privilegiato di un autore d'eccezione.

È interessante mettere in evidenza il fatto che tale concezione ha trovato un alleato insperato nella lotta per non abdicare ai propri privilegi proprio nell'industria fotografica. «Premete il pulsante, noi faremo il resto» è lo slogan ideato da George Eastman per pubblicizzare le sue Kodak (le prime fotocamere davvero portatili della storia), ripreso con minimi scarti fino ai nostri giorni dai produttori di materiale fotografico; è da notare che non si accenna all'atto dell'inquadrare che, pur se nella sua forma più immediata o, se si vuole, ingenua indica sempre una scelta, una presa di posizione di chi sta dietro l'apparecchio fotografico. Quando allo scattate nella pubblicità si è preferito l'inquadrate – ma è storia recente – ciò è avvenuto non per riconoscere il ruolo attivo del fotografo, ma per magnificare le meraviglie elettroniche dei nuovi apparecchi (esposimetri dagli algoritmi sempre più complicati e sistemi di messa a fuoco automatica sempre più rapidi e precisi) che sollevano il fotografo dall'antica fatica di impostare la coppia tempo-diaframma, ma, con questa, anche dalla facoltà di scegliere la chiave luminosa dell'immagine, di fermare o assecondare il movimento del sogget-to, di decidere la profondità di campo della scena ritratta: tutti accorgimenti che usati con competenza possono indiziare una interpretazione di ciò che

r ientra nel l 'angolo di campo dell'obiettivo.

Ma, riprendendo il discorso, cosa si intende per buona foto? General-mente si definisce buona una foto tecnicamente riuscita, nel senso che restituisce un soggetto nitido, definito e soprattutto esposto correttamente, cioè né troppo chiaro né troppo scuro: insomma, un soggetto ben leggibile. Come si vede, è un'impresa titanica liberarsi della tirannide del soggetto: se risponde a ciò che di esso sappiamo o a ciò che da esso ci aspettiamo (se, cioè, è conforme all'immagine mentale che di questo ci siamo costruiti in assenza di una sua conoscenza diretta), la foto è buona. Bisogna anche aggiungere che spesso, nell'apprezzamento di una immagine fotografica, la qualificazio-ne buona è adoperata come sinonimo di bella, per cui la buona foto equivale alla bella foto, con la quale si identifica una immagine eseguita correttamen-te di un soggetto che si ritiene bello di per sé: ancora una volta, dunque, ci ritroviamo prigionieri dell'equivalenza per cui la foto è il soggetto.

Tuttavia, se tale equivalenza fosse realmente fondata, si dovrebbe concludere che tutti, a cospetto di un soggetto bello – o interessante, spettacolare, suggestivo, comunque degno di nota – sarebbero in grado di produrre una di quelle fotografie che hanno una loro ragion d'essere anche al di là del mondo affettivo del loro autore. Ma le cose non stanno esattamente in questo modo: è di una evidenza nettissima, apprezzabile spesso anche da uno sguardo non specialistico, la differenza tra il risultato di un fotografo della macchi-na e quello di una macchina del fotografo. Questa dist inzione potrebbe corrispondere alla classica opposizione di lettante-profes-sionista, ma non nel senso consueto. In questo caso il dilettante non è colui che non ha fatto della fotografia il proprio lavoro, ma chi si limita ad utilizzare meccanicamente l'apparec-chio al fine di ottenere una immagine certo leggibile, di mestiere, ma priva di personalità e, dunque, di ogni interesse che superi l'occasione per cui è stata scattata. Professionista,

invece, è chi governa l'apparecchio (ma anche le varie fasi di sviluppo e stampa, o anche tutta quella serie di operazioni che, in piena era digitale, si è soliti definire di post-produzione) in vista di un determinato effetto, da intendersi come l'intenzione stessa dell'autore, di cui la fotografia è la traduzione in immagine. Ecco, dunque, il vero elemento discriminate tra chi fa della fotografia un mestiere e chi la intende come un mezzo di comunicazione: l'intenzione, o, altrimenti detta, il messaggio che l'autore decide di proporre attraverso il suo lavoro.

Naturalmente, le buone intenzioni da sole non bastano per fare di un fotografo un professionista, nel senso che qui si sta tentando di definire; occorre la costruzione di uno stile (un particolare utilizzo degli elementi propri alla messa in immagine tipicamente fotografica) che sia al tempo stesso personale e congruo al messaggio che si intende trasmettere, tale da renderlo fotograficamente significativo.

Tuttavia, anche in presenza di questi due elementi (intenzione e stile) è necessaria una ulteriore precisazione che attiene alla intenzione, alla finalità per cui una immagine viene prodotta e che comporta una differenziazione nel campo del professionismo: da una parte vi è chi assume il soggetto da riprendere come punto di partenza, da trattare stilisticamente in ragione del messaggio da comunicare, per ritornare, infine, al soggetto stesso; dall'altra vi è chi, invece, intende il soggetto come una occasione per dare l'avvio alla strutturazione di un discorso che contempla ragioni che vanno ben al di là del soggetto stesso che, anzi, in molti casi, può venire addirittura dimenticato. Tale diversità non è inevitabilmente legata ai vari generi che nel loro insieme definiscono il mondo della fotografia; eppure è evidente come alcune specializzazioni appar-tengano di necessità al primo gruppo che si è identificato, e ciò per la loro stessa logica.

Un esempio per tutti è la foto pubblicitaria: non vi è dubbio che gli specialisti del settore siano dotati di una tecnica solidissima, di una sapienza – e versatilità – straordinaria nel piegare il mezzo al fine che intendono raggiunge-

re, oltre ad essere spesso caratterizzati da uno stile raffinato e personale, riconoscibile immediatamente come un marchio di fabbrica.. Tutto questo, però, è posto al servizio del soggetto dei loro scatti che, dunque, emerge quale protagonista assoluto della loro opera. Qual è, infatti, la finalità per cui il fotografo pubblicitario impiega tutta la sua maestria se non la messa in evidenza di quelle caratteristi-che che rendono il loro soggetto un oggetto del desiderio? Se, poi, si aggiunge il fatto che il suo lavoro è in gran parte (quando non completamente) determinato da una rigorosa indagine di marketing che detta tutte le coordinate anche delle modalità di pubblicizzazione del prodotto (di come questo deve apparire), risulta ancora più chiaro come la sua sia una ricerca, potremmo dire, a sovranità limitata e che certo non risponde a prioritarie esigenze espressive.

L'altro campo all'interno del territorio più vasto del professionismo è, come si diceva, dominio di quegli autori che non mirano alla restituzione mimetica dei loro soggetti, né alla loro trasformazione (nel senso di una loro presenta-zione particolare) dettata da ragioni esclusivamente utilitaristiche, ma che a partire da ciò che inquadrano danno l'avvio ad un processo di messa in immagine che è al tempo stesso un processo di costruzione di senso e invito ad una costruzione di senso. Questa è un tipo di immagine proble-matica, non codificata (nel senso che non è tutta definita da una serie limitata di letture aprioristicamente determinate per veicolare messaggi anche vari, ma convergenti tutti verso un unico fine, com'è ad esempio il caso preso in esame della foto pubblicitaria), connotata da quella indeterminatezza necessaria per offrirsi ad una molteplicità di significazioni possibili, anche contrastanti, e che attengono a diversi ambiti conoscitivi: estetico, certamente, ma anche – e senza svilimento – politico e sociale e che, dunque, coinvolgono tutto intero l'atteggiamento morale di ognuno.

Il caso del reportage è, paradossalmente, l'esempio più pregnante di tale tipo di immagine fotografica: esso, infatti, dovrebbe costituire il documento per eccellenza, tuttavia la tradizione nobile di tale specializzazione è segnata dall'opera di grandi interpreti che, attraverso i loro scatti, hanno espresso una posizione decisa nei confronti degli eventi a cui hanno assistito, delle loro motivazioni e delle loro conseguenze.

Confrontiamoci con una foto immaginaria, ma terribil-mente verosimile, che mostra dei militari che prestano soccorso a dei bambini feriti durante un'operazione di guerra; procedendo sempre per immaginazione, nulla vieta di figurarmi altri militari dello stesso esercito che, fuori dall'angolo di campo dell'obiettivo, stanno fucilando dei familiari di quegli stessi bambini. Eccesso di immaginazio-ne? Ne saremmo tutti sollevati. Ma, purtroppo, tante volte la storia ci ha documentato episodi simili. Ed allora, perché il

fotografo ha deciso di immortalare la scena salvifica? Con ogni evidenza egli è accreditato presso l'esercito di apparte-nenza dei militari in questione e funzionale alle ragioni di quel conflitto (uno contrario alla guerra – magari soltanto a quella guerra – avrebbe, molto probabilmente, ripreso l'altra scena, come anche un free lance alla ricerca di notorietà e guadagni: si fanno più soldi mostrando la sofferenza senza scampo, irrimediabile) che, in tal modo, ha voluto rendere pubblico non un atto isolato, ma un comportamento generale

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che compendia l'atteggiamento etico complessivo di tutta una società: quei militari particolari diventano, così, tutti i militari di quell'esercito e, procedendo per induzione, la nazione a cui l'esercito appartiene, i suoi valori, i suoi ideali, che vengono postulati come universal-mente validi, tanto sicuri della propria superiorità da essere capaci di resistere a quel ribaltamento della ragione che è una guerra, pur se inevitabile.

Ora, a voler o meno condividere le ragioni dell'immaginario fotografo preso ad esempio, è evidente come anche nel reportage (quello grande, ovviamente), la cui finalità si ritiene debba essere quella di informare oggettivamente (e dunque di presenta-re un documento che soltanto in altre sedi, e con altri strumenti, si ha la facoltà di interpretare) il significato, o se si preferisce il senso, dell'immagine esorbita dal corpo ostentato, essendo quella immagine essa stessa, in realtà, una interpretazione di ciò che accade.

Se, dunque, tale discorso ha validità per il neutro reportage, una forza ancora maggiore avrà per tutte quelle foto, al di là dei generi, dalle quali emerge con più netta evidenza la volontà dell'autore di formalizzare un proprio punto di vista e proporre, al contempo, un invito alla riflessione da parte dei fruitori perché meno vincolate ad un'occasione già di per sé moral-mente o sentimentalmente coinvolgen-te, o dove è addirittura difficile decifrare il soggetto. Che questo sia individuabile o meno non costituisce, infatti, un problema, quanto, piuttosto, stabilire se attraverso una determinata fotografia (o anche una serie) si riconosce o si conosce. Qui è il punto e qui è la distanza tra due tipologie di fotografia che possono anche coincidere nell'aspetto ma non nella logica compositiva e nelle conseguenze sui fruitori.

Non che la fotografia di riconosci-mento non abbia la sua importanza assolvendo a compiti disparati di

innegabile utilità, dalla liturgia del ricordo al fondamentale ausilio nelle attività conoscitive razionalmente fondate. Tuttavia, per svolgere tali funzioni, questa deve essere tanto piena del proprio soggetto, così aderente ad esso che non vi è spazio per altro e, dunque, nessuna possibilità di trascenderlo.

La fotografia di conoscenza ha, invece, nella indeterminatezza – e di conseguenza nell'ambiguità – il suo carattere specifico, ciò che permette al soggetto rappresentato di accoglie-re e suggerire significati non limitati né codificati che non attengono ad esso in senso stretto, ma che mettono in gioco il nostro atteggiamento nei confronti del mondo (che si tratti di quello fenomenico o di quello interiore non comporta alcuna differenza), istigando inedite possibilità di vederlo e, naturalmente, di interpretarlo. Tutto questo, ovviamente, non attraverso le procedure della logica raziocinante, ma per intuizione: questa dinamica ineffabile che, a partire da una occasione, nel nostro caso, visiva intenzionalmente strutturata, coinvol-ge tutte le facoltà nell'individuazione, improvvisa ed imprevista, di un senso o di sensi possibili. A volte, per denotare tale momento critico (perché di crisi, di frattura, senza dubbio si tratta) si è utilizzato il termine illuminazione che, nel caso della fotografia, è doppiamente pertinente, essendo un irradiare, attraverso la luce, nuova luce sul mondo, visibile ed invisibile. Nulla a che vedere, però, con la fascinazione, l'ammaliamento, con quella sorta di inebetimento che comporta non una visione più profonda o eterodossa della realtà, ma soltanto una sua lettura distorta, e neppure con l'estasi, questo uscir fuori da sé dell'individuo per entrare in contatto diretto con una supposta verità trascendente, sempre che sia possibile postulare l'esistenza di una verità una che, d'altra parte, identificata al di là

dell'uomo, sarebbe indicibile. Accade invece che l'opera permette a ciò che oscuramente già si sapeva, a un sentire in gestazione ma non ancora formaliz-zato, di ricevere struttura rendendolo dunque significativo e capace di dar significato alle cose: ciò in maniera assolutamente non mediata. In questo consiste l'andare dell'opera incontro al fruitore, ma anche l'andare del fruitore incontro all'opera, nel senso che questo investe di nuove ipotesi di significazio-ne l'opera stessa.

A questo punto si pone il problema della legittimità delle possibili interpre-tazioni di un'opera: sono tutte indistinta-mente valide o esiste un limite oltrepas-sando il quale si entra nel territorio amorfo del gratuito? Credo che tutte le interpretazioni siano da considerarsi congrue, a patto, però, che tengano conto dell'intenzione dell'artista (che non significa adeguarvisi completa-mente), da cui necessariamente partire sia semplicemente per sostarvici o, più opportunamente, per arricchirla, ampliarla, finanche contestarla, ma mai dimenticarla del tutto: a che si ridurreb-be, allora, l'operazione dell'artista se non all'allestimento di un qualunque dispositivo disponibile al gratuito fantasticare di ognuno? Forse si tratta anche di questo, ma non soltanto di questo.

Ma stiamo parlando di fotografia e, dunque, bisogna chiedersi in che modo l'intenzione dell'operatore può giungere allo spettatore, dal momento che più volte sono stati espressi forti dubbi circa la possibilità di individuare per questa pratica un codice linguistico forte. Eppure la fotografia viene ricevuta, o,

5per dirla con Barthes, avviene, anche al di là della sfera degli affetti personali, a volte con una forza tale da diventare emblema privilegiato di un evento, di un clima culturale, del complesso di quell'intricata rete di relazioni eteroge-nee di che si struttura un'intera società. Sarà anche vero che la fotografia non ha uno statuto linguistico in senso stretto, ma certamente il suo è un

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codice ideologico, valoriale. È su questo terreno, infatti, che può avvenire l'incontro, attraverso l'opera, tra l'autore e il fruitore: i segni mal rappresi di una foto possono essere organizzati in struttura dotata di senso e che permette un processo di attribuzione di senso a partire dal giudizio sul mondo da questa espresso.

Dalla realtà non si scappa. La fotografia vi è immersa irrimediabilmente: essa può diventare allegoria e simbolo (e, dunque, stare per e condurre a qualcos'altro da sé) solo a partire da un concreto accadere, fosse anche un tremulo raggio di luce. Il fotografo non ha scampo: è coinvolto completamente e di necessità nel mondo. Egli non ha alibi, non può volgere il suo sguardo altrove e nemmeno prendere la comoda posizione di chi si ritira dal mondo per osservare dalla sua postazione privilegiata – da essere privilegiato – lo svolgersi degli eventi per distillarne la verità. Gli è negata la possibilità di restare seduto a guardare ciò che accade riparato dal vetro di un caffè, ma deve di necessità farsi coinvolgere dagli eventi: è lui l'uomo delle folle, colui che ne capta i pensieri, i desideri, le aspirazioni, le dinamiche, senza smarrirsi, mettendoli in forma; è lui il flâneur che, come osserva Baudelaire a proposito del suo flâneur ideale ed alter ego Constantin Guys, «sa

6illuminare d'uno sguardo intenso» ciò che

osserva, rinvenendo l'eroico nel prosaico, raccogliendo «la nobiltà ovunque essa sia, anche

7nel fango».

In questo è la portata rivoluzionaria della fotografia, la sua pericolosità: per la prima volta nella storia della cultura figurativa l'intero spettro delle modalità di apparizione del reale è sottopo-sto ad indagine artistica o, se si preferisce, ad un procedimento pienamente legittimo di traduzione in immagine; tutto è ritenuto degno di essere rappresentato, al di là delle aristocratiche categorie di convenienza e di decoro e al di fuori da qualsiasi possibilità di normatizzazione e di censura.

Baudelaire, dunque, non aveva colto nel giusto quando profetizzava la morte dell'arte in caso di successo della fotografia: anche se questa si è imposta come la tecnica più praticata di produzione di immagini nella nostra età, non si è verificato lo svilimento dell'animo umano e, di conseguenza, della sua capacità di stabilire un contatto con l'impalpabile, l'immateriale. È invece avvenuto che, anche grazie ai nuovi mezzi offerti dallo sviluppo della tecnica e della tecnologia ed alle suggestioni da questi esercitate sulle tecniche tradizionali, vi è stato un rivolgimento radicale del modo di intendere l'attività artistica, sempre più difficile da definire e sempre meno costretta entro gli antichi confini disciplinari, con

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1 Cfr. J. Kosuth, L'arte dopo la filosofia. Il significato dell'arte concettuale, ed. Costa & Nolan, Genova 1989, p. 28.2 Cfr. F. Menna, La linea analitica dell'arte moderna. Le figure e le icone, Einaudi, Torino 1983, pp. 59-63.3 Cfr. C. Baudelaire, Scritti sull'arte, Einaudi, Torino 1992, pp. 219-222.4 Points de vue è il nome che Niepce attribuì alle prime immagini che riuscì ad ottenere col suo metodo.5 «La tale fotografia che io distinguo dalle altre e che amo non ha nulla del punto lucente che oscilla davanti agli occhi e che fa dondolare la testa; ciò che essa produce in me è esattamente il contrario dell'ebetudine; essa è piuttosto un'agitazione interiore, una festa, un lavorio se vogliamo, la pressione dell'indicibile che vuole esprimersi. E allora? Chiamarla interesse è poco […] Mi pareva così che la parola più giusta per designare (provvisoriamente) l'attrattiva che certe foto esercitano su di me fosse la parola avventura. La tale foto mi avviene, la talaltra no» (R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 1980, pp. 20-21).6 C. Baudelaire, Scritti sull'arte, cit., p. 286.7 Ivi, p. 311.8 Cit. in W. Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, Einaudi, Torino 2000, p. 21.

l'attuarsi di una dinamica estremamente feconda di contaminazioni reciproche che ha ampliato a dismisura il campo delle possibilità espressive e che non può essere etichettata come eclettismo: non si tratta di scambi esclusivamente formali, si tratta, invece, di utilizzare tutti i mezzi possibili per dare libero corso alla fantasia, alla creatività., per potersi esprimere attraverso linguaggi davvero aderenti al nostro tempo.

Ciò ha comportato anche conseguenze su altri due capisaldi della concezione elitaria dell'arte: l'eternità e l'unicità dell'opera d'arte, che proprio a partire dall'invenzione della fotografia e dai problemi teorici da questa posti (e successivamente dalle altre modalità di produzione tecnologica e seriale di immagini e suoni) hanno subito un processo di revisione non ancora completamente risolto. E dunque, osservando senza pregiudizi lo stato delle cose nel campo dell'arte, è possibile affermare che più di Baudelaire (innegabilmente vate della modernità per più di un aspetto) maggiore forza profetica ha dimostra-to di possedere un altro grande francese, Paul Valery: «Come l'acqua, il gas o la corrente elettrica, entrano grazie a uno sforzo quasi nullo, provenendo da lontano, nelle nostre abitazioni per rispondere ai nostri bisogni, così saremo approvvigionati di immagini e di sequenze di suoni, che si manifestano a un piccolo gesto, quasi un segno,

8e poi subito ci lasciano».

COLLANA DI STUDI SULLE ARTI