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petrarchesca Rivista internazionale 1 · 2013 PISA · ROMA FABRIZIO SERRA EDITORE MMXIII

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SOMMARIO

Presentazione 9

saggi

Enrico Fenzi, Verso il ‘Secretum’ : ‘Bucolicum Carmen’ i, Parthenias 13Luca Marcozzi, Il Parnaso di Petrarca (lettura della canzone 129 dei ‘Fragmenta’) 55Romana Brovia, « Vacate et videte ». Il modello della “Lectio divina” nel ‘De otio religioso’ 77

note e discussioni

Guido Cappelli, Petrarca (post)moderno. Noterelle informali sulla disperazione di parlare di un classico 95

Teresa Caligiure, « Inextricabile ergastulum ». Il tema del labirinto nelle ‘Epystole’ di Pe-trarca 103

laboratorio petrarchesco

La Consolatio 120Sabrina Stroppa, La consolatoria nelle ‘Familiari’ : per la definizione di un “corpus” 121Daniele Bersano, « Hoc unum stilo meo deerat » : la ‘Fam’. xiii 1 135Francesca Patella, Una consolazione sulla malattia : la ‘Fam.’ xvi 6 a Nicola vescovo di

Viterbo 141Gianfrancesco Iacono, Lo spazio della “virtus” nel “sermo consolatorius” delle ‘Familiari’ 155Noemi Zaltron, Le morti illustri delle ‘Familiares’ : tra “planctus” e progetto culturale 165

Abstracts 175Recapito dei collaboratori del presente fascicolo 179

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VERSO IL ‘SECRETUM’: ‘BUCOLICUM CARMEN’ I, PARTHENIAS

Enrico Fenzi

1.

Al l’inizio del 1347 Petrarca, allora a Valchiusa, fa visita al fratello Gherardo nella certosa di Montrieux :1 nei mesi successivi per quei monaci scrive il De otio religioso, che integrerà di

nuove aggiunte ancora dieci anni dopo ; scrive i Psalmi penitentiales e comincia il Secretum.2 Quasi certamente nel volger di quei mesi egli compone l’egloga Parthenias,3 che manderà al fratello nel 1349, accompagnandola con una lettera, la Fam. x 4,4 che nella prima parte contiene

1 Petrarca appare sempre assai legato al fratello Gherardo, di tre anni più giovane di lui e fattosi monaco certosino nel 1343, dopo la morte della donna amata ; morì, non si sa quando, dopo Francesco che nel proprio testamento l’aveva fatto erede di una somma di denaro, da pagarsi in una sola soluzione oppure in rate annuali. Francesco, per quanto si sa, andò due volte a trovare il fratello presso la certosa di Montrieux, nel 1347 e, prima di partire definitivamente per l’Italia, nel 1353. A Gherardo sono indirizzate le Fam. x 3 (contiene tra l’altro la rievocazione degli anni giovanili trascorsi insieme ad Avignone, dopo la comune frequentazione dell’Università di Bologna), x 4 (vedi avanti), x 5, xvi 2, xvii 1, xviii 5, e la Sen. xv 5, mentre quelle di Gherardo delle quali Francesco parla non ci sono giunte. Vd. ancora il bel libro di Henry Cochin, Le frère de Pétrarque et le livre du Repos des religieux, Paris, Bouillon, 1903, e Arnaldo Foresti, Quando Gherardo si fece monaco, e Il grande penitente, in Id., Aneddoti della vita di Francesco Petrarca. Nuova edizione corretta e ampliata dall’autore, a cura di Antonia Tissoni Benvenuti, con una premessa di Giuseppe Billanovich, Padova, Antenore, 1977 (ia ed., Brescia, Vannini, 1927), pp. 108-119.

2 Le prime due opere saranno citate dalla ‘Edizione del Centenario’ : la prima, F. P., De otio religioso. A cura di Giulio Goletti, Firenze, Le Lettere, 2006 ; la seconda, F. P., Psalmi penitentiales. Orationes. A cura di Donatella Coppini, Firenze, Le Lettere, 2010. Il Secretum è citato dall’ed. a cura di Enrico Fenzi, Milano, Mursia, 1992, avvertendo che si segue la crono-logia saldamente stabilita da Francisco Rico, Vida u obra de Petrarca. i. Lectura del « Secretum », Padova, Antenore, 1974, e ormai universalmente accettata, che prevede una prima redazione dell’opera nel 1347, una redazione intermedia nel 1349, e la definitiva nel 1353, a ridosso della venuta in Italia.

3 Per il testo dell’egloga mi sono servito dell’edizione che è stata a lungo quella di riferimento, Il Bucolicum carmen e i suoi commenti inediti. Edizione curata ed illustrata da A. Avena, Padova, Società Cooperativa Tipografica, 1906, control-lando il testo su quello fornito da Domenico Di Venuto, Il « Bucolicum carmen » di Francesco Petrarca. Edizione diplomatica dell’autografo Vat. Lat. 3358, Pisa, ets, 1990. È anche compresa, con essenziali note, nella scelta curata da Guido Martellotti, in F. P., Rime, trionfi e poesie latine, Milano-Napoli, Ricciardi, 1951, pp. 808-16. Per le note ho anche tenuto conto dell’ed. a cura di Margrith Berghoff-Bürer, Das Bucolicum Carmen des Petrarca. Ein Beitrag zur Wirkungsgeschichte von Vergils Eclogen, Bern-Berlin, Peter Lang, 1991 (contiene le egloghe 1-5, 8 e 11), ma soprattutto di quella diffusamente annotata, P., Bucolicum Carmen. Texte latin, traduction et commentaire par Marcel François et Paul Bachmann. Avec la collaboration de François Roudaut. Préface de Jean Meyers, Paris, Champion, 2001. La traduzione ha tenuto soprattutto conto di quella di Luca Canali, in F. P., Bucolicum carmen, a cura di L. Canali, collaborazione e note di Maria Pellegrini, Lecce, Manni, 2005. Si veda anche Nicholas Mann, A concordance to Petrarch’s Bucolicum Carmen, «qp», ii, 1984, pp. 1-294.

4 È in questa lettera, datata 2 dicembre, da Padova, § 10 sgg., che Petrarca afferma di avere composto l’egloga « tertia retro estas » : contro Carrara, che assegnava la lettera al 1348 e riportava dunque l’egloga al 1346, Foresti ha mostrato come le due lettere a Gherardo, Fam. x 3 e 4 risalgano invece al 1349, il che abbassa appunto la data della lettera all’estate 1347 (come del resto già pensavano il De Sade e poi il Rossetti : vd. Luigi Ruberto, Le egloghe del Petrarca […], Bologna, Tip. Fava e Garagnani, 1879, p. 7, estratto da « Il Propugnatore », vol. xii). Vd. Enrico Carrara, I commenti antichi e la cronologia delle ecloghe petrarchesche, « Giornale storico della letteratura italiana », xxviii, 1896, pp. 123-153 : pp. 140-142 ; A. Foresti, La data della prima egloga, in Id., Aneddoti, cit., pp. 204-208. Foresti ancora mostra qui come dalle Varie 42 e 49 (ora Disperse, rispettivamente 11 e 7 : vd. nota 2 p. 14) si possa ricavare come Petrarca avesse già composto nel 1346 alcune egloghe, tra le quali la seconda, Argus, in memoria di re Roberto. Questa cronologia è stata accettata : vd. soprattutto il fondamentale saggio di N. Mann, The Making of Petrarch’s « Bucolicum carmen » : a Contribution to the History of the Text, « Italia medioe-vale e umanistica », xx, 1977, pp. 127-182 : pp. 131-132. Al proposito De Venuto, ed. cit., p. 8 osserva ragionevolmente che la nostra, Parthenias, seppur composta dopo altre, contrariamente a quello che Petrarca medesimo fa credere in Fam. x 4, 12, è stata concepita in ogni caso come prima : « Parthenias è stata concepita sicuramente per la funzione di prima ; infatti già la struttura dei vv. 1-10, articolata sulla simmetrica ripartizione tra i due collocutores di battute di cinque versi ciascuna, dunque esemplata sull’incipit della prima ecloga virgiliana, rappresenta in modo addirittura ‘visivo’ una calcolata dichia-razione d’intenti. La leggibilità immediata di un titolo come Parthenias e l’altrettanto scoperta rivisitazione del contrasto tra le condizioni di Titiro e quella di Melibeo forniscono ai futuri fruitori la summa delle informazioni preliminari […] se

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enrico fenzi14

un’articolata difesa della poesia, basata sull’idea che il linguaggio poetico è stato sin dalle ori-gini il veicolo privilegiato del sentimento religioso (la teologia stessa potrebbe essere definita la ‘poesia di Dio’) e che da ciò ricava le sue patenti di superiore nobiltà,1 e nella seconda parte s’impegna prima a riassumere e poi a spiegare i contenuti allegorici dell’egloga, altrimenti inac-cessibili al lettore. Il caso è dunque particolarmente interessante perché ci rimanda alla Disp. 7, del gennaio 1347, che offre a Barbato da Sulmona una sommaria chiave per l’interpretazione della seconda egloga del Bucolicum carmen, Argus, e alla Disp. 11, dell’autunno dello stesso anno, nella quale Petrarca svela diffusamente a Cola di Rienzo i sensi riposti dell’egloga quinta, Pietas pastoralis : 2 entriamo meglio, così, nel laboratorio di Petrarca, e possiamo cogliere in atto i suoi procedimenti, e fruire di una sorta di modello in base al quale possiamo capire meglio quale sia per lui il senso e il valore del genere bucolico. Ne ricaviamo una sorta di fecondo ossimoro, che vede riversata, non senza forti frizioni, una verità personale in una forma sovrapersonale. Il co-dice bucolico permette a Petrarca di parlare di sé nel momento medesimo in cui si maschera, e attraverso il linguaggio di quel codice trasforma la sua esperienza in cultura. In questo senso, si può dire che la bucolica petrarchesca è l’invenzione di un universo culturale : un universo classico, naturalmente, che garantisce di quell’esperienza e ne salvaguarda l’esemplarità pro-iettandola sullo schermo di un tempo suo proprio. Così, almeno, sembra intenderla Petrarca. Ma vediamo l’egloga.

2.

Il Parthenias del titolo è il soprannome (‘verginella’) dato dai contemporanei a Virgilio per la purezza dei suo costumi (Donato, Vita 11 : « vita et ore et animo tam probum constat, ut Nea-poli Parthenias vulgo appellatus sit » ; Servio, Vita 7-8 : « adeo autem verecundissimus fuit, ut ex moribus cognomen acciperet ; nam dictus est ‘Parthenias’ »), e ciò appunto ricorda Petrarca al fratello, Fam. x 4, 24 : « Parthenias ipse est Virgilius, non a me modo fictum nomen »,3 mentre così ancora lo chiamerà in Buc. carm. iii 157. Gli interlocutori sono i due fratelli Francesco e Gherardo : Silvius il primo, così detto per il suo amore per la vita campestre e solitaria ; Monicus il secondo, quasi ‘Monocolo’, come il Ciclope, perché, entrando in convento, dei due occhi dei quali ci serviamo ha rinunciato a quello volto alle cose terrene e ha conservato quello volto alle cose celesti :

è vero, com’è ben probabile, che l’egloga fu scritta dopo altre, è pur chiaro che il primo posto le era riservato già in fase progettuale ». Vd. ora anche Elisabetta Tarantino, Francesco Petrarca, Bucolicum Carmen, i (Parthenias), in Filologia e storia letteraria. Studi per Roberto Tissoni, a cura di Carlo Caruso e Walter Spaggiari, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2008, pp. 47-56 : pp. 54-55, la quale ritiene in ogni caso che Parthenias preceda la iii, Amor pastorius. Si dovrebbe anche dire, a questo punto, della vicenda redazionale del Bucolicum carmen, copiato nella sua forma finale nel 1357 nel codice autografo, ora cod. Vat. Lat. 3358, ma ancora rivisto, corretto e integrato negli anni successivi, sino all’ottobre 1366 : tale vicenda non riguarda però che in minima parte la nostra egloga, per la quale si può solo dire che al v. 6 vera (« vera laborum / ipse tibi causa es ») è scritto su rasura, in sostituzione di un precedente prima : vd. N. Mann, The Making of Petrarch’s « Bucolicum carmen », cit., e qui in part. la tavola delle correzioni, p. 167, e le successive conferme nell’altrettanto attenta introduzione di De Venuto : vd. qui l’elenco delle correzioni, p. 71, e p. 73. S’aggiunga infine che Il 27 agosto 1358 Petrarca manda a Barbato l’egloga copiata di suo pugno : vd. Fam. xx 5, 3.

1 Sul tema, che riguarda la prima parte della lettera ma non direttamente l’egloga, vd. Ronald Witt, Coluccio Salutati and the Conception of the Poeta Theologus, « Renaissance Quarterly », xxx, 1977, pp. 538-563 (mentre ora, a proposito del concetto di poeta-teologo in Mussato, vd. dello stesso Witt, Sulle tracce degli antichi. Padova, Firenze e le origini dell’umane-simo, Roma, Donzelli, 2005 [ia ed. 2000], pp. 161-165) ; Claudio Mésoniat, Poetica theologia. La « Lucula Noctis » di Giovanni Dominici e le dispute letterarie tra ‘300 e ‘400, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1984, in part. pp. 17 sgg. ; Marco Ariani, Petrarca, Roma, Salerno editrice, 1999, pp. 70-80 ; Medieval Literary Theory and Criticism c. 1100-c. 1375. The Commentary Tradi-tion. Ed. by Alistair J. Minnis and Alexander B. Scott, with the Assistance of David Wallace, Oxford, Clarendon Press, 2000 (ia ed. 1988), in part. pp. 387 sgg., ma da leggersi in stretta relazione all’ampio, fondamentale quadro complessivo ; Luca Marcozzi, La biblioteca di Febo. Mitologia e allegoria in Petrarca, Firenze, Cesati, 2002, in part. pp. 23-29.

2 Le due lettere in F. P., Lettere disperse. A cura di Alessandro Pancheri, Parma, Fond. Pietro Bembo/Guanda, 1994, rispettivamente pp. 34-38, e 94-102. Sull’egloga v, Pietas pastoralis, vd. E. Fenzi, Per Petrarca politico : Cola di Rienzo e la que-stione romana in Bucolicum carmen v, Pietas pastoralis, « Bollettino di italianistica », n. s. viii, 2011, pp. 49-88.

3 [Donato : si sa che fosse così onesto nella vita, nelle parole e nell’animo che a Napoli fu comunemente chiamato Partenia] ; [Servio : fu talmente pudico che dai suoi costumi ricavò il soprannome : fu infatti chiaamto Partenia] ; [Petrarca : Partenia è lo stesso Virgilio, non un nome inventato da me].

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‘bucolicum carmen’ i, parthenias 15

Pastores colloquentes nos sumus ; ego Silvius, tu Monicus. Nominum ratio hec est : primi quidem tum quod in silvis res acta est, tum propter insitum ab ineunte etate urbis odium amoremque silvarum, propter quem multi ex nostris in omni sermone sepius me Silvanum quam Franciscum vocant ; secundi autem quia cum unum ex Cyclopibus Monicum dicant quasi monoculum, id quodam respectu proprie tibi convenire visum est, qui e duobus oculis, quibus omnes comuniter utimur mortales, quorum altero scilicet celestis altero terrena respicimus, tu terrena cernentem abiecisti oculo meliore contentus.1

Ma alla spiegazione di Petrarca si può e si deve aggiungere l’ovvia sovrapposizione Monicus/monaco, specie alla luce dell’etimologia correntemente invocata di monachus da monos, ‘unico’, ‘singolare’ e dunque ‘che sta per sé’, ‘solitario’ (vd. per es. la citazione di Filippo di Harveng fat-ta alla nota 1 in questa stessa pagina),2 e probabilmente va anche ricordato che Monica è la ma-dre di s. Agostino, che sorregge e guida il figlio alla conversione ... Silvio esordisce lamentando la propria inquietudine e infelicità, tanto più penosa nel confronto con la serenità di cui gode il fratello. Monico controbatte che Silvio stesso si procura da solo la propria infelicità, alla quale nessuno lo obbliga. Costui riconosce che ciò che lo tormenta è l’amore per la poesia, e riper-corre così, vv. 11-45, la propria formazione poetica, segnata prima da Virgilio e poi da Omero, seppur indirettamente conosciuto.3 Soggiogato dalla forza di questi modelli, si confessa ostag-

1 [Fam. x 4, 20 : I pastori che parlano siamo noi due, io Silvio, tu Monico. La spiegazione dei nomi è questa : del primo, perché l’azione si svolge nelle selve e perché è sempre stato insito in me sin dall’infanzia l’odio per la città e l’amore per i boschi, e per questo molti di quelli che ci conoscono sia parlando che scrivendo mi chiamano più spesso Silvano che Francesco ; del secondo, perché, dal momento che uno dei Ciclopi si chiama Monico, quasi ‘monocolo’, mi è sembrato che per qualche aspetto questo stesso nome convenisse a te che dei due occhi che tutti noi comunemente usiamo volgendoci con uno alle realtà celesti e con l’altro alle terrene, hai eliminato quello che guarda alle cose terrene, contento di quello migliore]. Monico (Monychus) per la verità non è un Ciclope, ma uno dei Centauri che assalgono Ceneo in Ovidio, Met. xii 498 sgg., ricordato esplicitamente come Centauro anche in Lucano, Phars. vi 388 (e in Valerio Flacco, Argon. i 146) e, implicitamente, in Giovenale, Sat. i 11. I commentatori trecenteschi pubblicati dall’Avena (vd. la nota che segue), tacciono, mentre ha segnalato questo particolare De Venuto, ed. cit., pp. xxvii-xxviii nota 17, rinviando a Scol. Iuv. i 1, 7-11, ove si legge di un « Monychus […] gigas ». Ma va soprattutto ripresa la stringente e intrigante connessione con un passo di Filippo di Harveng (1100 c.-1183), De institutione clericorum. iv, De continentia cleric., lxxviii, in Patr. lat., 203 col. 770 c-d, : si veda al proposito Dom Jean Leclercq, Études sur le vocabulaire monastique du Moyen Age, Roma, Herder, 1961, p. 22 nota 53, ripreso sia da François e Bachmann, ed. cit., p. 36, che da Jean-Louis Charlet, L’allégorie dans le Bucolicum carmen de Pétrarque, in L’allégorie de l’Antiquité à la Renaissance. Études réunies par Brigitte Pérez-Jean et Patricia Eichek-Lojkine, Paris, Champion, 2004, p. 377 nota 32. Tale passo si direbbe direttamente compendiato da Petrarca : « Monos enim unus sive singularis interpretatur, unde qui a pluralitate populi quietis gratia separatur, recte monachus apellatur, sive ut quidam volunt monachus quasi monoculus dicitur, id est unum tantum oculum habens, qui enim prius quasi gemino oculo utebatur, dum et mundum appetere, et tamen Deum diligere specialiter videbatur, nunc reiectis omnibus quibus temporaliter solebat delectari, sola coelestia indiviso desiderio diligit contemplari. Et quia clausit imo eruit et proiecit oculum quo ea quae mundi sunt avidius appetuntur, eum autem retinuit et mundavit quo coelestia cognoscuntur, recte monachus quasi monoculus meruit appellari, qui bonae caecitatis igno-minia non abhorruit gloriari. Denique apud litteras saeculares, vir quidam Monichus appellatur, qui singularem in fronte oculum habere dicebatur : “Jaculator –inquit- Monichus ornos” » [Monos significa unico o singolare, sì che colui che in cerca di pace si è separato dall’insieme della popolazione è giustamente definito ‘monaco’, tanto più che alcuni vogliono che ‘monaco’ valga quasi per ‘monocolo’, cioè per uno che ha un occhio solo : il monaco infatti, che dapprima usava dei due occhi come colui che desiderava il mondo e contemporaneamente amava singolarmente Iddio, rigettato tutto ciò con cui soleva dilettarsi delle cose temporali, volle contemplare con totalizzante desiderio solo le realtà celesti. E poiché chiuse ed estirpò e cacciò via l’occhio con il quale avidamente si desiderano le cose del mondo, e invece tenne e purificò l’occhio con il quale si conoscono le realtà celesti, a buon diritto meritò di chiamarsi ‘monaco’, quasi ‘monocolo’, vantandosi sernza vergogna della menomazione di una cecità buona. E infine, nella letteratura secolare esiste un tale chiamato Monico che si diceva avesse in fronte un solo occhio, “Monico scagliatore di frassini”, come scrive il poeta [Giovenale, Sat. i 11]]. Certo, se il rapporto regge, come tutto fa credere, si può pensare che Petrarca abbia ricavato proprio di qui l’errata idea che Monico fosse un Ciclope.

2 L’anonimo commentatore del Laurenziano lii 33, si diffonde sulla questione dei due occhi, e conclude : « Et, cum Gherardus talem possideat talem oculum solum, alio derelicto seu terreno, dicitur Monicus quasi ‘monoculus’ ; vel Mo-nicus potest etiam dici quasi ‘monacus’ » [E Gherardo, poiché possiede questo unico occhio, avendo abbandonato l’altro, quello terreno, è chiamato Monico quasi fosse ‘monocolo’ : ma può anche essere chiamato così in quanto ‘monaco’]. Il testo, nell’ed. del Bucolicum carmen a cura di Avena, cit., p. 169 (vd. anche pp. 74-75) ; sul codice vd. la scheda di N. Mann in Codici latini del Petrarca nelle biblioteche fiorentine. Mostra 19 Maggio - 30 Giugno 1991. Catalogo a cura di Michele Feo, Firenze, Le Lettere/Cassa di Risparmio, 1991, n° 42 pp. 81-82. Per monos > monachus, vd. la bibliografia alla quale rimanda Giovanni Pozzi, Petrarca, i Padri e soprattutto la Bibbia, « sp », vi, 1989, pp. 125-69 : p. 153 nota 8. Ma vd. anche il saggio di Romana Brovia in questo stesso numero, Vacate et videte, nota 2 p. 85, per il motivo, centrale in Petrarca, dell’essere ‘uno’ e ‘indiviso’ contro i processi mondani di frammentazione e scissione interiore.

3 Virgilio e Omero fanno coppia fissa, in Petrarca, quali insuperabili modelli che rappresentano il vertice di ogni poe-sia : vd. tra molti casi Fam. vi 4, 12 ; xiii 6, 4 ; xiii 7, 12 ; xv 4, 5 ; xix 17, 12 ; xx 4, 6 ; xxi 15, 15 ; xxiv 12, 18 sgg. (diretta a Omero medesimo) ; Sen. xii 2, 22, ecc.

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gio sia di un ideale di eccellenza poetica che lo rende insoddisfatto e lo sfianca attraverso il continuo passaggio dall’altezza della teoria alle realizzazioni pratiche, sia di un corrispondente desiderio di gloria che sanzioni quell’eccellenza. Dovesse fallire, non gli resta che la morte (vv. 44-45 : « Si fata viam et mens tarda negarit, / stat, germane, mori »). In una serie di battute più rapide il dialogo continua con Monico che prospetta al fratello non solo la scelta del ritiro mo-nacale ma anche, intrinseco a questa stessa scelta, un diverso ideale poetico orientato in senso religioso e ispirato ai Salmi di Davide. Siamo così agli altri due momenti forti dell’egloga. Silvio deprime il valore dei Salmi ed esalta per contro i contenuti mitici, epici e civili della poesia clas-sica (vv. 72-90) ; Monico celebra i Salmi come poesia dal grande respiro cosmico che oltrepassa l’alterna vicenda della vita e della morte e innalza l’uomo dalle miserie della terra (vv. 91-109). La risposta di Silvio è evasiva nei confronti delle esortazioni di Monico (v. 110 : « Experiar, si fata volent... »), ma circonstanziata per quello che riguarda i suoi impegni immediati : l’amore per la poesia lo trascina, e le gesta di Scipione l’Africano ancora non hanno avuto un cantore (vv. 120-121 : « Carmine fama sacro caret hactenus, et sua virtus / premia deposcit »). A questo dunque, e cioè al poema Africa, egli s’affretta, anche se si riconosce timoroso dinanzi alla grandezza del compito, e a Monico non resta che concludere augurandogli buona fortuna.

Il contenuto dell’egloga rispecchia bene il particolare momento della vita di Petrarca nel quale cade anche la sua composizione. In quegli anni egli attraversa una serie di esperienze decisive, che ruotano attorno all’appoggio dato a Cola di Rienzo, nel 1347 (si veda l’egloga v, Pietas pa-storalis), con la conseguente rottura del rapporto di dipendenza dai Colonna e il distacco dagli ambienti della Curia (egloga viii, Divortium), e la ricerca di una nuova sistemazione che sarà poi trovata in Italia. Al proposito, occorre ricordare che egli prese anche un’iniziativa ch’è ben rivelatrice delle tensioni del momento. Il 9 settembre 1347 presentò infatti una supplica a papa Clemente VI, chiedendo di potersi ritirare a vivere presso la certosa di Montrieux (ma questa certosa non è esplicitamente nominata), pur senza diventare monaco e conservando le sue rendite. Il documento, presente nell’Archivio Segreto Vaticano, nel Registro delle suppliche, non ha assolutamente nulla a che spartire con la dimensione letteraria : è in tutto e per tutto un documento di vita.1 E dimostra che le parole di Monico, nell’egloga, rimandano a una situa-zione critica realmente vissuta. Di più e su un piano diverso, anche senza aspettare la grande peste del ’48 e la morte di Laura, che peseranno moltissimo, potremmo dire che in quegli anni, anche se in Petrarca nulla incrina davvero la difesa di una identità culturale fondata sulle opere ‘romane’ sia poetiche che storiche ed erudite (l’Africa, il De viris, i Rerum memorandarum libri), egli comincia a sentire la necessità di riqualificarle con nuovo spirito critico e autocritico. Ed è esattamente a questo punto che Parthenias ci offre la prima testimonianza diretta dell’apertura di una stagione nella quale molte cose entrano in fi brillazione : di qui, infatti, comincia a pren-dere forma consapevole l’impegno per quella che un poco grossolanamente potremmo chia-mare la ‘moralizzazione’ o addirittura ‘cristianizzazione’ dell’Africa, che negli anni successivi ne investirà soprattutto i primi libri, e in parallelo il maturare dell’idea di un De viris universale che andasse oltre i limiti della romanità.2 Entro questo quadro complesso e fortemente dina-

1 Il testo è stato pubblicato da Carlo Cipolla, Note petrarchesche desunte dall’Archivio vaticano, « Memorie dell’Accade-mia delle Scienze di Torino, Scienze morali, storiche e filologiche », s. ii, lix, 1909, pp. 23-25. Vd. l’analisi fatta da Ernest H. Wilkins, Studies in the Life and Works of Petrarch, Cambridge Mass., The Mediaeval Academy of America, 1953, pp. 13-15). Nel saggio citato Per Petrarca politico, p. 59, ho espresso la convinzione che tale richiesta trovasse giustificazione nel clima di rapido peggioramento dei rapporti tra il papato e Cola, e che insomma essa facesse parte di un’accorta strategia di rientro da parte di un Petrarca che si era davvero molto esposto in favore dell’amico. Vedo che della stessa opinione è anche Maria Cecilia Bertolani, Petrarca : vita letteraria e vita contemplativa, in Vie solitaire, vie civile. L’humanisme de Pétrarque à Alberti. Actes […]. Sous la direction de Frank La Brasca et Christian Trottmann, Paris, Champion, 2011, pp. 87-96 : pp. 94-95.

2 Per l’Africa, vd. la nota ai vv. 112-117 dell’egloga. Quanto al De viris in linea di massima ha fatto sin qui testo lo schema fornito da G. Martellotti, Linee di sviluppo dell’umanesimo petrarchesco (1949), ora in Id., Scritti petrarcheschi, a cura di M. Feo e Silvia Rizzo, Padova, Antenore, 1983, pp. 110-149, che a una fase inziale esclusivamente romana, risalente al 1341-1343, vede succedere, un decennio dopo, il progetto mai completato di un De viris ‘universale’. Ma, per le ormai indispensabili correzioni a tale schema, rinvio al saggio di Fera citato nella nota 2 p. 17.

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mico Petrarca allarga dunque i propri orizzonti : ha cominciato a farlo nel 1346 con il De vita solitaria, e poi con il De otio religioso e i Psalmi penitentiales, e soprattutto, per quanto ci riguarda, nell’egloga ha cominciato a riflettere sui propri programmi e sui nodi critici della sua espe-rienza. Per questo Parthenias già anticipa il testo che a partire dallo stesso 1347 e passando per varie fasi sino alla definitiva del 1353 rispecchierà al meglio questa dialettica, cioè il Secretum. In quest’opera Petrarca dilata e arricchisce enormemente l’ancor esile traccia offerta dall’egloga, che in ogni caso, attraverso il dialogo con il fratello monaco certosino, già individua e affronta alcuni dei temi che saranno poi ampiamente dibattuti nel dialogo con Agostino : per esempio, la messa in discussione anche morale del proprio classicismo ; la critica della dimensione mon-dana di questa scelta, fondata in ultima analisi sul mito della gloria poetica ; il fatto che questo mito porta proprio lui, il Silvio amante della solitudine e delle selve, a rincorrere il suo possibile pubblico, sì che è facile a Monico rinfacciargli la sua incoerenza, e infine, in trasparenza, la scelta di un luogo nuovo in cui vivere. Su questo rapporto, che fa di Parthenias una sorta di in-cunabolo del Secretum, come a suo tempo ha segnalato Rico,1 parziale quanto si voglia, si dovrà insistere ancora, ma si può già anticipare che il suo speciale sapore sta nel fatto che essa inau-gura e fa corpo con una fase della vita di Petrarca che può essere sintetizzata da queste parole di Fera ch’è opportuno citare con larghezza perché costituiscono l’implicita ‘proiezione’ dei temi toccati nell’egloga e torneranno a servirci quale generale quadro di riferimento. Quando Agostino, alla fine del Secretum, consiglia a Francesco di abbandonare le res romanae :

l’enfasi della ricerca petrarchesca batte tutta ancora sul mondo romano, nell’orizzonte fattuale c’è solo il vecchio De viris, e Petrarca sta tentando di trovare una via d’uscita. Perché, al di fuori di questo tracciato, sembra palese che l’allargamento del problema storiografico del De viris a misura di orbe terracqueo è conseguente al sostanziale spostamento degli interessi del Petrarca verso la ‘filosofia’ e la speculazione di ambito religioso. Il che determina il suo gravitare sempre più pronunciato ma non meccanico intorno al sistema agostiniano. Una storia dell’umanità nell’alveo di un progetto divino per la salvezza dell’uomo, di cui Roma costituiva tuttavia e sempre la parte poziore. È evidente infatti che la riformulazione del piano non mira a depotenziare le res romanae che resteranno per sempre la parte centrale della sua vita di stu-dio (basti pensare all’incidenza che gli exempla romani avranno nel De remediis, e al fatto che la biografia di Cesare sarebbe diventata il banco di prova più esaltante della sua storiografia negli ultimi decenni di vita), quanto segna piuttosto la loro mise en abîme in un sistema etico-filosofico e teologico che finisce con l’assorbire la storia […]. A un certo momento, e la fase terminale del processo ricade certamente nei primi anni ’50, Petrarca opera un bilancio della propria attività, con una escussione drammatica di ragioni e scelte di cui appunto abbiamo la rappresentazione ideale riflessa nel Secretum ; egli tenta di sistemare nel suo nuovo afflato culturale tutto quello che era ancora in elaborazione. Nessun problema per il De otio e per il De vita solitaria, che rientrano perfettamente nel rinnovato sistema di valori. Ma il poema e l’opera biografica non sono in sintonia con questi presupposti : per salvare il De viris allarga il progetto, cambian-done indirizzi e obiettivi, ed è lecito il sospetto che egli abbia effettuato delle correzioni di tiro pure sulle biografie già scritte (innestando indugi sulla provvidenzialità della storia, riferimenti alla misericordia di Dio, controcanto morale agli eventi, etc., che si spiegano assai bene alla luce delle recenti convinzioni etico-religiose) ; ma è costretto, e in tempi relativamente brevi, a rinunciare all’Africa, per la quale tuttavia pure tenta di avviare una sistemazione, visibile soprattutto nella parte relativa al Somnium Scipionis e nella varia suppellettile cristiana che qua e là si dissemina, perché nel poema la centralità assoluta di Scipione […] nonché l’esasperazione ideologica sul destino dell’Urbe rendevano oltremodo stridente la coesisten-za di vecchio e di nuovo, e la complessiva costruzione si dovette rivelare praticamente immodificabile.2

1 F. Rico, Vida u obra, cit., p. 482 nota 92 : « la figura del hermano en la Cartuja estaba en la mente de Petrarca en el bie-nio de incubación del Secretum », opera che ha uno ‘schema dialogico affine’ a quello dell’egloga (ibid., p. 498 nota 156). Per questo, e per quanto si dirà in seguito, mi sembra vero ma alquanto unilaterale quanto sostiene Domenico Ferraro, In limine temporis. Memoria e scrittura in Petrarca, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2008, pp. 207-210, che legge l’egloga come la rivendicazione orgogliosa e non incrinata da dubbio alcuno che Silvio fa delle proprie scelte. Se si considera che unico rappresentante di Petrarca sia Silvio, è indubbiamente così, e ne va tenuto conto (anche se è ben Silvio che all’inizio pone il tema della propria infelicità). Ma anche Monico è Petrarca, e intimamente petrarchesca è la dialettica che s’instau-ra tra le due voci nelle quali l’autore si sdoppia.

2 Vincenzo Fera, I fragmenta de viris illustribus di Francesco Petrarca, in Caro Vitto. Essays in Memory of Vittore Branca. Ed. by J. Kraye & L. Lepschy, special supplement 2 di « The Italianist », 26, 2007, pp. 101-132 : pp. 106-107. Su questa stessa base sono ora da leggere le pagine dell’Introduzione (specie la prima parte) di Caterina Malta all’edizione maior delle

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Ora, questa proiezione, impensabile per la verità senza il fondamentale cardine costituito dalla datazione del Secretum agli anni 1347-1353 da parte di Francisco Rico, che ha innovato nel profondo gli studi petrarcheschi, 1 e senza vari altri contributi, del resto ben discussi da Fera nel suo saggio : questa proiezione, dico, mostra dove il discorso sull’egloga vada a pa-rare, e à rebours ne esalta il significato. E in effetti l’egloga, nella sua apparente semplicità, rivela a uno sguardo appena più attento una insospettata concentrazione di motivi unita a una accorta strategia argomentativa che, nel quadro sommariamente abbozzato, è impor-tante decifrare.

3.

S’è più volte ricordato il Secretum, e ancora lo si dovrà fare. Al proposito, una considerazione sùbito s’impone : dopo aver osservata in via preliminare la profonda analogia tra i due diversi momenti, quello del dialogo con Monico e quello del dialogo con Agostino, è anche necessario cominciare a vedere che cosa li distingua. Nel Secretum, si sa, il ruolo forte di esaminatore e guida è impersonato da Agostino, rispetto al quale la figura di Francesco è quella dell’uomo in-vischiato nelle miserie dei suoi difetti di carattere, dei suoi veri e propri errori e peccati e infine delle sue squilibrate ambizioni di storico e poeta (per quanto non sia banalmente riducibile a questa esclusiva figura, e sia per contro assai fine l’intreccio delle voci spesso complementari dei due interlocutori). Ebbene, in Parthenias non è ancora così. A guidare il gioco, in posizione forte, è semmai Silvio/Petrarca, e i diversi consigli di Monico valgono oggettivamente, per quello che dicono, senza che costui assuma una posizione di aperta critica e rampogna delle scelte del fratello. Al quale fratello egli all’inizio obietta, è vero, che solo sua è la colpa delle inquietudini e affanni dalle quali è travagliato e di cui si lamenta, ma nel corso dell’egloga si limita a proporrgli senza esplicite punte polemiche alcune opportunità alternative : l’entrata in convento, per recuperare una serena condizione di vita e un superiore equilibrio spirituale, e la conversione da un ideale di gloria poetica ispirato alla poesia di Omero e Virgilio a un opposto ideale volto alle lodi del creato e del Creatore e dunque libero dai miti del successo e per contro appagato e appagante in se stesso. Ma lo fa, appunto, senza entrare nel merito delle diverse scelte del fratello, e dunque senza affrontarle a viso aperto. Si vada invece, per sempli-cità, alla conclusione del Secretum, tanto simile a quella dell’egloga. Agostino esorta Francesco ad abbandonare le sue vecchie e tuttavia incompiute opere, l’Africa soprattutto, e Francesco risponde con una decisione tutto sommato dilatoria : ‘sarà pur vero, ma ora c’è il poema che mi aspetta ...’. Queste parole, di là dalla loro ineliminabile verità esistenziale che altre conclu-soni non permette e che tanto contribuisce al significato del dialogo, suonano come deboli e compromissorie nei confronti delle radicali contestazioni ed esortazioni di Agostino, affidate alle intense pagine contro la schiavitù d’amore e contro il mito della gloria mondana. Così, se è vero che le ultime parole del santo riecheggiano le ultime di Monico : « Sed sic eat, quando

vite pre-romulee : F. P., De viris illustribus. Adam-Hercules, a cura di C. M., Messina, Centro Interdipartimentale di Studi Umanistici, 2008 (vd. avanti, nota 1 p. 24) ; vd. pure quanto ho osservato in Le postille al Livio Parigino e la revisione del De viris, in Reliquiarum servator. Il manoscritto Parigino latino 5690 e la storia di Roma nel Livio dei Colonna e di Francesco Petrarca, a cura di Marcello Ciccuto, Giuliana Crevatin, Enrico Fenzi. Presentazione di Francisco Rico, Pisa, Edizioni della Normale, 2012, pp. 176-202, in part. pp. 190 sgg. Di là da tutto ciò, vorrei tuttavia precisare che a mio parere il ‘nuovo’ De viris, quello universale, è rimasto ben poca cosa, e insomma un tentativo presto abortito, mentre, per contro, spicca piuttosto il fatto che l’opera non si trasforma attraverso quella sua appendice, ma piuttosto attraverso il peso e l’autonomia dell’ultima vita di Scipione e del De gestis Cesaris : queste due vite sono il nuovo De viris …

1 Oltre al volume sul Secretum, da integrare con Precisazioni di cronologia petrarchesca : le “Familiares” viii ii-iv e i rifaci-menti del “Secretum”, « Giornale storico della letteratura italiana », clv, 1978, pp. 481-525, e con “Secretum meum” di Francesco Petrarca, in Letteratura italiana. Le opere. i. Dalle Origini al Cinquecento, Torino, Einaudi, 1992, pp. 351-378, ricorderei dello stesso Rico come altrettanto capitali per una rinnovata visione d’insieme del percorso petrarchesco, e per la centralità in esso degli anni a cavallo tra il ’40 e il ’50, gli studi sul canzoniere, in ispecie “Rime sparse”, “Rerum vulgarium fragmenta”. Para el titulo y el premier soneto del “Canzoniere”, « Medioevo romanzo », iii, 1976, pp. 101-138, e Prólogos al “Canzoniere” (Re-rum vulgarium fragmenta, i-iii), « Atti della Scuola Normale Superiore di Pisa », s. iii, xviii, 1988, pp. 1071-1104.

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aliter esse non potest, supplexque Deum oro ut euntem comitetur gressusque licet vagos in tutum iubeat pervenire »,1 è anche vero che il contesto, il tono e insomma il significato di una siffatta concessione è diverso, arrivando essa dall’alto e inchiodando Francesco alla sua umana debolezza, per questa via ulteriormente e impietosamente evidenziata. In Parthenias non è così : o meglio, lo è solo se il lettore vuole intendere che lo sia. Ma per tutta l’egloga non c’è dubbio che se c’è un ‘prepotente’ che impone la propria voce e la propria volontà giudicante, questi è Silvio, e che Monico non è in grado di concedere nulla che l’altro non si sia già preso da sé : se Agostino concede, Monico accetta.

Questa prima e semplice constatazione immediatamente ci avverte che tra l’egloga e il Se-cretum corre uno spazio nel corso del quale le questioni poste nella prima come dati di fatto nel secondo si sono dilatate nella forma della minuziosa auto-analisi impietosamente affidata alla forza maieutica delle parole di Agostino. E se ora guardiamo le cose più da vicino, si hanno sia conferme che significative differenze, ove anche queste ultime devono essere intese seguendo il filo di una forte dialettica interna.

Distinguiamo Parthenias nei suoi diversi momenti, comodamente isolabili uno dall’altro. Silvio comincia proclamando i suoi affanni e inquietudini e il suo lungo successivo interven-to, vv. 11-45, nel quale ripercorre la propria storia, di fatto dà ragione a Monico, che in prima battuta gli aveva obiettato che proprio lui, Silvio, era la causa vera dei suoi mali. Che racconta infatti Silvio ? Abbiamo visto che, folgorato sin dalla prima giovinezza dallo splendore della poesia di Virgilio e poi di Omero, ha scelto per sé, trascurando ogni altra cosa, il destino di poeta, e ne ha fatto l’obiettivo irrinunciabile della propria vita, al punto da preferire la morte al fallimento. Ed è precisamente l’intima insoddisfazione per ciò ch’è riuscito a fare e il su-perficiale e frustrante successo avuto che gli rodono il cuore e lo costringono a un continuo confronto con quei grandi che lo estenua e lo brucia. Ma il vero punto dolente non è tanto la professione di poeta in sé, quanto lo scopo ultimo e la fonte della sua definitiva legittimazio-ne : la gloria. Di là da tanti altri possibili discorsi, insomma, s’accampa come fondante e insie-me squilibrante il nesso : poesia/gloria, al quale la vita di Silvio è drammaticamente votata, e che per contro Monico suggerisce di risolvere attraverso il ritorno a quella concezione pura e primigenia della poesia come inno di lode a Dio, dalla quale pour cause prenderà le mosse la Fam. x 4. Di nuovo, da queste affermazioni non si può fare a meno di riandare al Secretum, specie là dove, nel terzo libro, l’amore per la gloria è, con l’amore per Laura, l’altra catena di diamante che tiene Francesco imprigionato nel carcere terreno, e dove la gloria altro non è che la sostanza vera della poesia così come Francesco l’intende e la pratica. Il motivo è ben conosciuto, e non sarà dunque il caso di entrare in maggiori particolari : le eloquenti pagine nelle quali Agostino denuncia l’intrinseca futilità e vanità di una gloria siffatta proiettata sullo schermo di un mondo perituro, e il micidiale principio di alienazione personale che in essa si consuma, non hanno bisogno di citazioni.2 Importante è invece tornare all’egloga per osserva-re alcune cose. La prima, del tutto particolare : la gloria della quale Silvio va disperatamente in cerca è qualificata, nella prima parte del suo discorso come ‘inane’ (v. 19, detto di sé : « fame dul-cedine tactus inani »). Ora, nel contesto dell’egloga tale aggettivo affatto topico suona irrelato e addirittura stridente : né qui né oltre è detto perché mai la gloria sia ‘inane’, e la dimensione morale del concetto, per quanto percepibile da ogni lettore di là dall’aggettivo-senhal, non ha sviluppo o ripresa alcuna. Quella che riguadagna, invece, se ne facciamo una sorta di traccia che ci porta al Secretum ove vale almeno la pena di osservare che ‘inane’ è precisamente il pri-mo aggettivo con il quale Agostino, cominciando la sua tirata, qualifica la immortalitas nominis tanto desiderata da Francesco :

1 [Secretum, p. 282 : Vada pure così, visto che non può essere altrimenti. Supplico Iddio che ti segua nel tuo viaggio e che permetta che i tuoi passi anche se incerti ti portino al sicuro].

2 Vd. E. Fenzi, Dall’Africa al Secretum. Il sogno di Scipione e la composizione del poema, in Id., Saggi petrarcheschi, Firenze, Cadmo, 203, pp. 305-365 : pp. 307-309, ma soprattutto la parte finale del Secretum, là dove Agostino pronuncia la sua dura requisitoria contro l’amore per la gloria di Francesco, pp. 256 sgg., con le ampie note di commento.

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Ag. Gloriam hominum et immortalitatem nominis plus debito cupis.Fr. Fateor plane, neque hunc appetitum ullis remediis frenare queo.Ag. At valde metuendum est, ne optata nimium hec inanis immortalitas vere immortalitatis iter obstru-

xerit.1

Si tratta di un particolare minimo, ripeto. Ma anch’esso vincola per la sua parte l’egloga al Secretum, così come la vincolano gli sviluppi diversi del discorso di Agostino. In un passaggio tanto noto quanto decisivo nel mostrare la lucidità persino provocatoria con la quale Petrarca analizza il suo lavoro, Agostino arriva a dire, insistendo sull’inanità di una gloria siffatta :

Itaque tu, qui conscribendis libris, etate ista presertim, tantis te laboribus maceras, pace tua dixerim, procul erras ; oblitus enim tuarum, alienis rebus totus incumbis. Ita sub inani glorie spe brevissimum hoc vite tempus, te non sentiente, dilabitur […] Te ipsum derelinquere mavis, quam libellos tuos. Ego tamen officium meum peragam, quam feliciter tu videris, at certe fideliter. Abice ingentes historiarum sarcinas : satis romane res geste et suapte fama et alienorum ingeniis illustrate sunt. Dimitte Africam eamque possessoribus suis linque : nec Scipioni tuo nec tibi gloriam cumulabis. Ille altius nequit extolli, tu post eum obliquo calle niteris.2

Il passaggio è notissimo, ma non so se sia stato osservato che esso suona come la perfetta ri-sposta che la finale dichiarazione di Silvio, in Parthenias, vv. 112-23, da tempo aspettava : ‘devo andare, perché devo dedicarmi al sacro carme che finalmente celebrerà in modo degno la gloria di Scipione’. Si leggano in sequenza i due passi, e non ci saranno dubbi al proposito. Ma appunto, la risposta non la dà Monico ma Agostino, che distrugge in radice la presunta sacralità del poema. Monico non ribatte a viso aperto, e piuttosto sguscia attorno all’acceso discorso sulla gloria del fratello tornando all’inizio, alle lamentele di costui che di per sé solle-citavano una qualche risposta. Prospetta dunque, senza toni polemici, un’alternativa articolata su due piani diversi ma intimamente connessi : Silvio si ritiri in convento ove troverà la pace, e converta la sua attività poetica in un inno di lode al Creatore, secondo il modello dei Salmi davidici. Otterrà in tal modo di purificarsi dal veleno di un’ambizione tanto devastante, secon-do il messaggio tutto implicito ma chiaro che le sue esortazioni comportano. Ma il Secretum non raccoglie tali spunti : li ignora, invece, e si può forse capire perché. L’ipotesi del ritiro in convento era maturata in un contesto particolare, nel bel mezzo della crisi provocata da Cola e in una condizione di generale incertezza sul proprio futuro, ma era stata, evidentemente, cosa di un momento : nel ’53, quando ormai la scelta a lungo meditata del ritorno in Italia appari-va insieme irreversibile e definitiva, essa semplicemente non aveva più senso. Analogamente, anche la parziale apertura alla poesia davidica, che porta proprio in quel torno di tempo alla composizione dei Psalmi penitentiales, poteva significare qualcosa solo in relazione alla scelta del convento, e l’una e l’altra ipotesi avevano finito ormai per valere come una sorta di spregiu-dicata auto-provocazione capace di disegnare un’estrema linea di fuga alla quale mai e poi mai Petrarca avrebbe voluto arrivare davvero. Com’è del resto, con chiara analogia, nel caso della provocazione di Agostino che esorta Francesco ad abbandonare le sue opere. Ed è anche pos-sibile dire qualcosa di più, e cioè che l’ipotesi del ritiro in convento ha la sua reale e praticabile controparte nella decisione di abbandonare comunque la Curia, la dipendenza dalla famiglia Colonna e Avignone, e di trovare un’efficace soluzione ai propri problemi nella Milano viscon-

1 [Secretum, p. 256 : Ag. Tu desideri più del dovuto la gloria tra gli uomini e l’immortalità della tua fama. – Fr. L’ammetto senz’al-tro, e non riesco a frenare questo desiderio in alcuna maniera. – Ag. Eppure c’è da avere molta paura che questa inane immortalità troppo desiderata non ti sbarri il cammino verso l’immortalità vera].

2 [Secretum, p. 274 : Ag. Perciò tu che specialmente in questo momento ti consumi in tante fatiche per scrivere dei libri –lo dirò con tua pace- sbagli di molto. Hai dimenticato le cose tue, e dedichi tutto te stesso a quelle degli altri. Così, per un’inane speranza di gloria, ti fugge via il brevissimo tempo della vita, e neppure te ne accorgi […] Preferisci abbandonare te stesso piuttosto che i tuoi libercoli. In ogni caso farò tutto il mio dovere, se con successo veditela tu, ma certamente con coerenza. Lascia cadere i grandi pesi della storia : le imprese dei Romani sono state già abbastanza illuminate dalla loro stessa fama e dall’ingegno altrui. Abbandona l’Africa, e lasciala ai suoi possessori : non aggiungerai gloria né al tuo Scipione né a te. Quello non può essere portato più in alto ; tu dietro di lui arranchi per vie traverse].

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tea ; così come l’altra, di volgersi alla poesia davidica, vale solo quale ‘segno’ che contribuisce a liberare la prospettiva di un intervento in senso lato cristianizzante sulle vecchie e impegnative opere entrate in crisi, l’Africa e il De Viris.

4.

Silvio non accoglie le alternative che Monico gli prospetta : meglio, non le prende neppure in considerazione. Ma c’è una differenza : l’ipotesi di entrare in convento gli resta talmente estranea che non le dedica neppure una parola, mentre presta maggior attenzione all’altra, che rifiuta con altrettanta radicalità ma che gli strappa un severo giudizio critico nei confronti della poesia dei Salmi che anima il dialogo con il fratello : costui, infatti, ne trae occasione per un principio di discussione e confutazione al quale Silvio, per la verità, non si mostra affatto interessato. In ogni caso, questa situazione di scontro o quanto meno di alternativa tra cultura classica e cristiana ha alimentato l’idea che qui, nell’egloga, Petrarca metta in scena qualcosa di analogo al famoso ‘sogno di Girolamo’, ch’egli spesso ricorda nella sua opera,1 il che è vero solo assai parzialmente e in via del tutto subordinata. Girolamo, nell’Epist. xxii 30, racconta come, addormentatosi durante un violento attacco di febbre, avesse sognato di essere tratto davanti al tribunale divino, e interrogato chi mai fosse, avesse risposto di essere un cristiano. Ma l’angelo che lo sta interrogando lo interrompe : « Mentiris, ciceronianus es, non cristianus. Ubi enim thesaurus tuus, ibi et cor tuum [Matth. 6, 21] »,2 e gli fa giurare tra le frustate che avrebbe abbandonato per sempre i libri dei pagani. Sull’ampio e ancor vago telaio di questa opposizione Petrarca è però interessato a ricamare una sua personalissima tela.

Cominciamo col dire che il giudizio negativo che Silvio dà della poesia davidica è ancora adombrato nella lettera dell’aprile 1355, Fam. xviiii 3, con al quale Petrarca ringrazia Boccaccio per il dono delle intere Enarrationes in Psalmos di Agostino riunite in un unico spendido volu-me.3 Comincia infatti scrivendo : « Beasti me munere magnifico et insigni ; iam daviticum pela-gus securior navigabo, vitabo scopulos, neque verborum fluctibus neque fractarum sententia-rum collisione terrebor »,4 ed è in ogni caso autorizzato da quanto scrive Girolamo medesimo proprio là dove racconta del suo sogno. Lo mostra un passo dell’ampia parte aggiunta intorno al 1357 alla parte finale del De otio, che suona come una palinodia di quanto l’egloga afferma. Petrarca comincia col mettere le mani avanti e, riecheggiando da presso un’altra lettera di Girolamo, liii 9, mette in guardia rispetto all’apparente sempicità e rozzezza (« quasi vilitas ») delle sacre Scritture, dovuta o a difetto dei traduttori oppure a un’intenzione originaria : quale che sia l’apparenza, e cioè l’aspetto formale e stilistico, non c’è nulla di più dolce e nutriente della polpa, cioè del loro contenuto : « qualiscunque quidem superficies sit, medulla nichil est dulcius, nichil suavius nichilque salubrius » (De otio ii 8, 20-21). Dopo di che Petrarca prosegue :

1 Vd. Fam. ii 9, 9 ; xxi 10, 9 ; xxii 10, 8 ; Sen. i 5, 45 ; xv 11, 4 ; De otio ii 8, 26-7 ; De ign. 168 e 170, p. 282 ed. Fenzi, Mursia, 1999 (vd. qui le note 535 e 539, pp. 497-500). Debbo dire che il tema che incombe su queste righe – letteratura classica vs Sacre scritture – ha tali implicazioni di carattere generale da condizionare le varie interpretazioni che sono state date dell’intera esperienza petrarchesca, dal suo famoso ‘dissidio’ al suo ‘umanesimo’, al punto che riesce difficile dare anche una sommaria bibliografia (non c’è studioso che non citi il sogno di Girolamo …). In queste note mi limito dunque a rinviare a poche voci, dalle quali è in ogni caso agevole risalire a più ampie e articolate rassegne critiche, ricordando in ogni caso gli studi di Francisco Rico che del percorso petrarchesco ‘dalla filologia alla filosofia’ ha fatto la linea portante e innovativa della sua interpretazione, a partire dal gran volume Vida u obra, cit. : vd. dunque i saggi (apparsi anche in altre sedi) Petrarca y las letras cristianas, « Silva », i, 2002, pp. 157-182 ; Pétrarque au partage du midi, en La Postérité répond à Pétrarque. Sept siècles de fortune pétrarquienne en France. Actes du colloque tenu à l’Hôtel de Sade et à l’Université d’Avignon et des Pays de Vaucluse les 22, 23, 24 janvier 2004, ed. Eve Duperray, Bauchesne (Bibliotheque historique et littéraire), París, 2006, pp. 291-308 ; Philologie et philosophie chez Petrarque, en La bibliothèque de Pétrarque. Livres et auteurs autour d’un humaniste. Actes du ii Congrès international […], 27-29 novembre 2003, [a cura di] Maurice Brock, Francesco Furlan, Frank La Brasca, Centre d’Études Superiéures de la Renaissance, Brepols, Turnhout, 2008, pp. 35-60.

2 [Epist. xx 30, 4 : Tu menti : sei ciceroniano, non cristiano : “Dov’è il tuo tesoro, lì è il tuo cuore].3 Si tratta dell’attuale Par. lat. 1989 : vd. in proposito l’ampio studio di G. Billanovich, Petrarca, Boccaccio e le « Enarra-

tiones in Psalmos » di s. Agostino (1960), in Id., Petrarca e il primo umanesimo, Padova, Antenore, 1996, pp. 68-96.4 [Mi hai fatto felice con il tuo magnifico e nobile dono. Navigherò ora più sicuro per il mare davidico, ne eviterò gli scogli mentre

i flutti delle parole e l’urto delle frantumate sentenze smetteranno di terrorizzarmi]

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Et sane quod nunc assero, ante non multos annos forte vel tacitus negassem. Illi gratias qui « michi oculos aperuit » ut aliquando viderem quod cum magno discrimine non videbam, quemque nunc etiam cali-gantes oculos purgaturum spero ad reliqua que damnosa tarditate nondum video ; quam in me hactenus minus miror, cum Ieronimum ipsum de se fatentem audiam, quod sibi in libris gentilium occupato cum se ad sacra vertisset eloquia, ut eius verbo utar « sermo horrebat incultus ». Quod si ei tali viro et in libris sacris ab adolescenti exercitatissimo potuit evenire, quid non potuit michi peccatori literis secularibus non dicam erudito, ne mentiar, sed ab infantia delectato.1

Il passo risente certamente anche dell’analoga testimonianza di Agostino che, reduce fresco dalla lettura dell’Hortensius ciceroniano resta a tutta prima deluso dalle sacre Scritture : « Non enim sicut modo loquor, ita sensi, cum attendi ad illam scripturam, sed visa est mihi indigna quam Tullianae dignitati compararem »,2 ma la citazione delle parole di Girolamo va precisa-mente alle righe che immediatamente precedono il racconto del ‘sogno’, §§ 7-8, ove appunto il santo riconosce di essersi gettato nella lettura di Cicerone e di Plauto, e per contro di aver provato repulsione, per colpa della propria cecità, verso il linguaggio dei testi sacri.

Il motivo polemico della semplicità e volgarità stilistica delle Scritture confrontate con gli altissimi livelli della retorica classica è un tema – e un problema – ben noto all’apologetica cri-stiana, che soprattutto attraverso Agostino ha risposto che non è la verità, ma semmai la men-zogna che ha bisogno di abbellimenti formali, e che Iddio non ha bisogno di artifici retorici per ‘provare’ alcunché, tanto più che la retorica di per sé è neutra, e serve a difendere tanto la verità che la menzogna.3 A questa risposta, che resta quella fondamentale, variamente s’intreccia la

1 De otio ii 8, 24-27 [Di certo ciò che ora affermo, non molti anni fa avrei negato, magari anche senza dirlo. Grazie siano rese a colui che « mi aprì gli occhi », in modo da farmi finalmente vedere quello che con gran rischio non vedevo, e che spero mi purificherà gli occhi anche adesso offuscati, per mostrarmi quanto ancora non riesco a vedere a causa della mia dannosa lentezza ; sin qui dentro di me me ne sono stupito meno, in quanto sento Girolamo stesso dire di sé che, tutto preso dai libri dei pagani, quando si era rivolto ai sacri scritti –per usare la sua espressione – gli « faceva orrore il loro linguaggio trasandato ». Se ciò poté accadere ad un tale uomo, esercitatissimo nei libri sacri fin dall’adolescenza, perché mai non sarebbe potuto accadere a me, peccatore non dirò erudito nelle lettere secolari, per non mentire, ma che se ne era dilettato fin dall’infanzia ?]. Questa ultima parte del De otio offre di più, sulla prefe-renza lentamente e faticosamente accordata ai testi cristiani rispetto ai classici, ma non è facile collocare nel tempo tali affermazioni. Per esempio, sempre in fine ma dopo la grande giunta, ii 7, 175-ii 8, 40 (pp. 230-256) Petrarca scrive : « Accessit oportuna necessitas divinas laudes atque officium quotidianum, quod male distuleram, celebrandi, quam ob causam psalterium ipsum daviticum sepe percurrere sum coactus » [Si è aggiunta l’opportuna necessità di celebrare le lodi divine e l’ufficio quotidiano, cosa che avevo malamente rinviato, per la quale causa ho spesso dovuto ripercorrere lo stesso salterio davidico]. Al proposito Hans Baron, From Petrarch to Leonardo Bruni. Studies in Humanistic and Political Literature, Chicago and London, The University of Chicago Press, 1968, p. 44 (poi ripreso in Id., Petrarch’s Secretum. Its Making and Its Meaning, Cambridge Mass., The Mediaeval Academy of America, 1985, p. 219) pensa che qui ci sia « indubitably a reference to his obbligations as a canon in Parma and Padua between 1348 and 1351 », mentre Rico, Vida u obra, cit., p. 496 nota 151, controbatte che di fatto la « oportuna necessitas » può alludere a molti altri momenti, compreso quello relativamente giovanile del servizio come cappellano presso il cardinale Colonna (in generale, per il canto dei Salmi nella preghiera, in specie quella monastica, vd. il fondamentale saggio di Joseph Dyer citato avanti, ai vv. 55-56 dell’egloga). Sulla composizione del De otio vd. i primi risultati di Giulio Goletti, Restauri al De otio religioso del Petrarca, « Studi medievali e umanistici », 2, 2004, pp. 295-307 : lo studioso, p. 297, non crede all’ipotesi di Rotondi circa l’esistenza di due distinte redazioni, ma ipotizza una serie continua di aggiunte e correzioni non consolidata in una versione definitiva.

2 Agostino, Conf. iii 5, 9 [Quando mi volsi alle Scritture non ne ebbi l’impressione che ne ho adesso, ma mi sembrarono indegne di essere paragonate all’altezza stlistica di Cicerone]. Alle sue difficoltà al primo avvicinarsi alle Scritture accenna anche in Serm. li 5, 6.

3 Vd. Henri-Irénée Marrou, Saint Augustin et la fin de la culture antique, Paris, De Boccard, 1938, pp. 473-477, con rinvii a Lattanzio, Div. inst. iii 1, 11 ; v 1, 15-18 e vi 21, 4-5 ; Arnobio, Adv. nat. i 59. Ma per la posizione di Agostino, che difende con calore la speciale eloquenza del testo biblico e invita a preferire sempre il linguaggio spoglio della verità alle seduzioni della retorica, vd. soprattutto il l. iv del De doctrina christiana (ma anche De chath. rud. 9, 13). Un vivace quadro d’insieme dei problemi posti da una traduzione della Bibbia così rozza « da far inorridire chi era abituato al latino degli autori che si leggevano a scuola » e che « non aveva più niente in comune, né per forma né per contenuto, con i principi dell’educazione retorica quali erano stati propugnati da Cicerone e Quintiliano » è nel saggio di Walter Berschin, Dei dialectus soloe-cismus. Dio e il buon latino, in Gli Umanesimi Medievali. Atti del ii Congresso dell’« Internationales Mittelateinerkomitee » […]. A cura di Claudio Leonardi, Firenze, Sismel-Ed. del Galluzzo, 1998, pp. 9-15, al quale rimando anche per quanto lo studioso osserva circa la permanenza del problema di ‘migliorare’ il latino biblico, avvertito dalla Chiesa anche in tempi recenti (cita al proposito il tentativo rappresentato dallo Psalterium Pianum del cardinale Augustin Bea, del 1945). Vd. qui anche la conclusione, ricalcata su quella di Johann Georg Hamann (1730-88) : se il dialetto di Dio è sgrammaticato, tale ha da essere : « è necessario che la parola di Dio sia rivestita di una forma linguistica bassa, perché Dio stesso ha scelto appunto

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considerazione che la Scrittura gode di una sua peculiare retorica, affatto diversa da quella classica ma non per questo meno bella, mentre Girolamo complica ulteriormente il dibattito chiamando in causa, anche con speciali asprezze polemiche, la cattiva qualità delle traduzioni che hanno sfigurato, spesso in nome di uno scrupolo di fedeltà letterale (che per altro nel caso dei testi sacri Girolamo raccomanda), l’alta qualità poetica ed espressiva dell’originale, non inferiore a quella dei più celebrati poeti pagani.1 Al proposito il testo più famoso è certamente la prefazione alla traduzione del Chronicon di Eusebio, ove si legge quanto sia difficile tradurre la poesia, onde Cicerone traduttore di Platone e di Arato riesce irriconoscibile, e come la pre-cisione dei vocaboli dell’originale spesso non trovi corrispondenza in un’altra lingua, costrin-gendo il traduttore a lunghe inefficaci perifrasi. Insomma, « Si ad verbum interpretor, absurde resonat ; si ob necessitatem aliquid in ordine, in sermone mutavero, ab interpretis videbor officio recessisse ».2 Esempio cruciale di ciò si ha nel caso della traduzione della Bibbia. Quella dei Settanta non riesce a conservare il sapore dell’originale, e ancor peggio fanno le altre, e in ispecie quelle che traducono in latino il testo greco, sia quelle estremamente letterali che quelle preoccupate soprattutto del senso, sì che, in definitiva,

adeo venit, ut Sacrae litterae minus comptae et sonantes videantur, quod diserti homines interpretatas eas de Hebraeo nescientes, dum superficiem, non medullam inspiciunt, ante quasi vestem orationis sor-didam perhorrescant quam pulchrum intrinsecus rerum corpus inveniant.3

Si potrebbe aprire a questo punto un importante discorso sulle qualità tecnicamente poetiche dell’originale ebraico, che Girolamo, ma non solo, vigorosamente rivendica,4 delle quali le traduzioni non conservano che un lontano sapore progressivamente decrescente dal greco al latino (ancora Gerolamo : « Haec cum Grece legimus, aliud quiddam sonant, cum Latine peni-

una forma bassa per farsi uomo, ha scelto di apparire fra gli uomini non come cittadino persiano, greco o romano, ma in mezzo a un popolo sottomesso, diviso, disprezzato, di nascere – e di morire – non da sovrano ma da servo. Per coerenza, dunque, il dialetto di Dio non può essere un linguaggio elevato, artistico, ma una lingua bassa, umile, barbara, solecistica, che avvolge in una veste misera il contenuto divino ».

1 Per tutta questa problematica, rinvio sùbito, anche per la bibliografia relativa, al recentissimo volume di Maurizio Bettini, Vertere. Un’antropologia della traduzione nella cultura antica, Torino, Einaudi, 2012, che dedica un lungo capitolo, Alla ricerca della traduzione perfetta, pp. 189-251, alla traduzione dei testi sacri, e ripercorre in particolare le posizioni in merito di Agostino e Girolamo.

2 [Se interpreto ad verbum, il risultato suona assurdo ; se invece avrò per necessità mutato qualcosa nella sintassi e nel lessico, gli altri interpreti mi accuseranno di essere venuto meno ai doveri del traduttore]. Così Girolamo, Praef. in Eusebius, Werke. vii, Die Chronik des Hieronymus, ed. Rudolf Helm, Berlin, Akademie-Verlag, 1956, p. 2 (un eccellente esame delle teorie della tra-duzione in Cicerone e Gerolamo è in Rita Copeland, Rhetoric, Hermeneutics and Translation in the Middle Ages : academic tradidions and vernacular texts, Cambridge, Cambridge University Press, 1991, pp. 9-62). Ho azzardato la traduzione di ordo con ‘sintassi’ : ma vd. la discussione sul punto in Edoardo Bona, La libertà del traduttore. L’epistola de optimo genere inter-pretandi di Gerolamo, Roma, Bonanno, 2008, pp. 58 sgg. e p. 120 nota 84. In queste mie righe è sempre implicito il rinvio a questo volume, nel quale, dopo un’ampia introduzione, è ristampata, tradotta e ampiamente commentata l’Epistola lvii a Pammachio sulla traduzione, nella quale Girolamo ha ritrascritto parte delle cose già dette nella citata Praefatio, ma le ha arricchite con una lunga serie di esempi tratti dai Vangeli. Quanto alla lettura di Petrarca del Chronicon, vd. soprattutto G. Billanovich, Un nuovo esempio delle scoperte e delle letture del Petrarca. L’Eusebio-Girolamo-Pseudoprospero (1954), in Id., Petrarca e il primo umanesimo, Padova, Antenore, 1996, pp. 187-236 (alle pp. 210-211, Billanovich pubblica le poche postille di Petrarca alla Praefatio di Girolamo). Qualche utilità conserva ancora il volumetto di Giuseppe Maugeri, Il Petrarca e s. Girolamo, Catania, Giannotta, 1920, per l’ampia rassegna di luoghi del santo citati nelle opere di Petrarca ; ora, si veda François Fabre, Pétrarque et saint Jérôme, in La bibliothéque de Pétrarque, cit., pp. 143-60.

3 Girolamo, Praef. cit., p.3 [ne deriva che le sacre Scritture paiano meno accurate ed eloquenti, perché quegli uomini facondi che le hanno interpretate senza sapere nulla dell’ebraico hanno guardato alla superfice, non al midollo, e quasi inorriditi dinanzi alla squallida veste del discorso non riescono a scorgerne l’intima bellezza]. Diversamente da Girolamo, e anzi in polemica con lui, Agostino, che per parte sua usò una serie di testi genericamente riferibili alla Vetus latina, difese sempre la traduzione dei Settanta, che si credeva divinamente ispirata e che in ogni caso doveva restare la base di ogni successiva traduzione in lati-no : vd. De cons. evang. ii 66, 128 ; De civ. Dei xv 14, 2, ma anche il caso più sfumato in De doctr. christ. iv 7, 15, ove finalmente egli usa la traduzione di Girolamo.

4 Per es., vd. Cassiodoro, In Psalterium exp., ii, Exp. In Psalm. liii, pl 70, col 381: « In carminibus, id est in psalmi prae-sentis opere. Carmen quippe est quod metri alicuius pedibus procedens, statutis regulis continetur ; sicut omne Psalterium in Hebraea lingua constat esse formatum » [Nei carmi, cioè nel salmo presente. Carme è infatti ciò che, procedendo con piedi di vario metro, è regolato da regole fisse, così come è formato l’intero Salterio nella lingua ebrea]. Una altissima lode delle qualità anche formali dei Salmi è in Ambrogio, Expl. Psalmorum xii (csel lxiv : Opera, vi), 1, 1-12.

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tus non haerent »),1 ricordando in particolare che le pagine di Girolamo sono state fedelmente riprese anche da Dante nel Convivio, là dove, I 7, 14-15, teorizza come una traduzione poetica non sia a rigore possibile, e come di ciò proprio le sacre Scritture avrebbero sofferto, e i Salmi in ispecie :

E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può della sua loquela in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza ed armonia. E questa è la cagione per che Omero non si mutò di greco in latino, come l’altre scritture che avemo da loro. E questa è la cagione per che i versi del Salterio sono sanza dolcezza di musica e d’armonia : ché essi furono transmutati d’ebreo in greco e di greco in latino, e nella prima transmutazione tutta quella dolcezza venne meno.

L’argomento resta tuttavia estraneo all’egloga, anche se essa di fatto pone la questione che Pe-trarca darà salomonicamente per risolta anni dopo, probabilmente nel 1360, in Fam. xxii 10, 7-8, proprio citando quei vecchi versi e ripetendo da essi (vd. v. 52) l’osservazione auto-giustificativa della vis consuetudinis che divenda una seconda natura :

Iamque oratores mei fuerint Ambrosius Augustinus Ieronimus Gregorius, philosophus meus Paulus, meus poeta David, quem ut nosti multos ante annos prima egloga Bucolici carminis ita cum Homero Virgilioque composui, ut ibi quidem victoria anceps sit ; hic vero, etsi adhuc obstet radicate consuetudi-nis vis antiqua, dubium tamen in re esse non sinit victrix experientia atque oculis se se infundens fulgida veritas. Neque ideo tamen quia hos pretulerim, illos abicio […] ego utrosque simul amare posse videor, modo quos in verborum, quos in rerum consilio preferam non ignorem.2

Silvio, infatti, si limita a prendere atto di ciò che più voci autorevolmente attestavano, cioè il carattere trascurato e rozzo dei Salmi, assolutamente inconfrontabili con la poesia di Ome-ro e Virgilio : di più, attraverso una fine strategia allusiva, non solo non ne incolpa le cattive traduzioni,3 ma addirittura insinua – ed è questo l’elemento di maggior interesse – che quei difetti siano affatto originali, e propriamente connaturati al mondo biblico e alle sue espres-sioni culturali. La Fam. x 4, 17, dice che Monico medesimo parla come un contadino, « more ruralium », e dunque sbaglia quando parla della sorgente dei due fiumi Ior e Dan, che implici-tamente ma chiaramente resta subalterna e quasi parodica rispetto alle fonti sacre della poesia classica, Castalia, Ippocrene e Aganippe (vedi vv. 61-64 e nota) ; Giovanni Battista è un « puer hispidus » (v. 65), e specialmente squallidi sono i campi di cenere attraverso i quali il Giordano scorre (v. 69), e ristretta e provinciale è definita infine l’affliggente poesia dei Salmi, vv. 72-4 : Davide « Cives et menia parve / sepe Jerosolime memorat, nec vertitur inde ; / semper habet lacrimas et pectore raucus anelat ». E questa realtà è definitivamente sanzionata, a ben vede-re, dall’efficace tocco degli apollinei artus di Gesù (v. 66). L’aggettivo, messo com’è in bocca a Silvio, appare del tutto congruente con il suo personaggio, che proietta sulla figura di Cristo

1 Girolamo, Praef. cit., p. 4 [Quando leggiamo i testi sacri in greco, essi suonano in modo diverso, mentre nulla resta se li leggiamo in latino]. Al proposito scrive Petrarca, Fam. x 4, 7-8 : Girolamo nella sua traduzione « sententie inservitum est, et tamen adhuc nescio quid metrice legis inest et Psalmorum particulas ut sunt, sic versus vulgo dicimus. Et de antiquis hactenus. Novi autem Testamenti duces, Ambrosium Augustinum Ieronimum, carminibus ac rithmis usos ostendere non operosus labor est, ut Prudentium Prosperum atque Sedulium et ceteros pretermittam, quorum soluta oratione nichil omnino, metrica vero passim cernuntur opuscula » [ha badato soprattutto al contenuto, e tuttavia resta ancora un non so che delle leggi metriche, onde comunemente chiamiamo ‘versetti’ le singole frasette dei Salmi. Basti degli antichi. Non sarebbe poi gran fatica dimostrare che gli esperti del Nuovo Testamento, Ambrogio, Agostino, Gerolamo, fecero uso di carmi e di ritmi, per tacere di Prudenzio, Prospero, Sedulio e altri, dei quali non abbiamo nulla in prosa ma varie operette in poesia].

2 [D’ora in poi siano miei oratori Ambrogio, Agostino, Girolamo, Gregorio ; il mio filosofo sia Paolo, il mio poeta David che, come sai, molti anni fa nella prima egloga del Bucolicum carmen paragonai con Omero e Virgilio in modo tale da lasciare nell’incertez-za di chi fosse la vittoria. Ora invece, per quanto vi si opponga la forza antica di una radicata abitudine, ha vinto l’esperienza che non permette che sull’argomento ci sia più alcun dubbio, e la luce della verità che mi illumina gli occhi. Non per questo, tuttavia, se preferisco gli uni caccio via gli altri […] Io credo di poter amare insieme entrambi, pur sapendo quali debbo preferire per lo stile e quali per il loro insegnamento]. Con molti altri cita questo passo alla luce di osservazioni equilibrate e condivisibili Brenda Deen Schildgen, Petrarch’s Defense of Secular Letters, the Latin Fathers and Ancient Roman Rhetoric, « Rhetorica », xi, 2, 1993, pp. 119-134.

3 Come invece, sulle orme di Cicerone, farà nel caso delle opere di Aristotele, ‘duro’ e ‘scabro’ per colpa della rozzezza dei traduttori, « interpretum ruditate » : vd. per esempio Rer. mem. ii 31, poi ripreso nel tardo De ign. 15 p. 184 e 141, p. 264 (vd.qui pp. 336-337 nota 40).

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almeno l’alone della bellezza classica, ma – ed è ciò che più conta – una siffatta bellezza, con-trapposta in maniera diretta all’appena precedente puer hispidus, mette i Vangeli al sicuro da ogni critica di tipo estetico mentre sottolinea per contrasto l’incolta e squallida rusticità del vecchio mondo biblico e insomma del Vecchio Testamento.

Ma Silvio/Petrarca non è tuttavia interessato quanto parrebbe a un giudizio meramente stilistico e formale sulla poesia davidica, e invece, con mossa assai abile, gli preme porre di là da essa una questione di contenuto : un contenuto ‘piccolo’ al quale Davide è inchiodato (« nec vertitur inde »), senza riuscire ad andare oltre, ad allargare il proprio sguardo. Così, allo stile ‘rauco’ dei Salmi perfettamente corrisponde la loro materia : misera, squallida, inetta a gene-rare grande poesia.

5.

La seconda metà dell’egloga è costruita – in parte l’abbiamo già visto – su una partitura dialo-gica spartita in tre momenti. Primo è l’intervento di Silvio (vv. 72-90) che dopo aver deprezzato la poesia davidica si lancia in un elogio della grande poesia classica caratterizzata dai suoi alti contenuti epici, dalla potenza con la quale esprime le passioni e infine dalla forza di rappre-sentazione fantastica con la quale dà vita sia all’affascinante e vario mondo della mitologia che alle istituzioni del vivere civile. Segue quello di Monico, di eguale lunghezza (vv. 91-109), che celebra il Dio cristiano attraverso l’opera mirabile della creazione, dal mondo della natura all’uomo incessantemente richiamato al destino immortale della sua anima. Conclude, infi-ne, Silvio (vv. 112-123) che non raccoglie i discorsi del fratello ma prende invece bruscamente congedo da lui perché l’aspetta l’impegno a completare l’Africa, il grande poema dedicato alla gloria di Scipione che sin qui non ha ancora avuto un degno cantore delle sue gesta. In tutto ciò stupisce la singolare circostanza per la quale la difesa che Silvio fa della poesia classica ha colori scuri, cupi, in quella rievocazione degli Inferi che finisce per dare il tono a tutto il passo, mentre l’esaltazione della poesia davidica da parte di Monico, rovesciando il giudizio del fratello che ne denunciava la ‘rauca’ lacrimosità, sostituisce a quegli oscuri fantasmi qualcosa di aperto e libe-ro : quasi una celebrazione della natura contro gli artifici e gli affanni della cultura, e un invito ad abbandonare i falsi e perturbanti miti del successo e le loro gabbie in nome di uno sguardo più alto e limpido sulle ‘alterne sorti della vita e della morte’.

È legittimo sospettare in tutto ciò un qualche disegno petrarchesco ? Di sicuro questa bre-ve ‘sezione’ mitologica è costruita in modo tale da offrire un facile appoggio polemico, per quanto implicito, alla successiva replica di Monico, non solo e non tanto nell’invocare l’unico Dio del cristianesimo contrapposto alla molteplicità degli dei pagani, ma soprattutto nel con-trapporre al buio mondo del sottosuolo infernale il cielo, l’aria, le nubi, le nevi e le piogge, e ancora il corso delle stelle e i semi della terra, e il mare e i monti e infine l’uomo … Per quanto non se ne possa essere del tutto certi, si direbbe che questi mitologici Inferi esaltati da Silvio servano a insinuare la condanna degli aspetti più irricevibili della cultura del paganesimo, che sono appunto quelli che Monico con indubbia efficacia anche se in modo del tutto implicito riesce a capovolgere. E che sono anche quelli ai quali il ‘ciceroniano’ Petrarca, buon lettore del De natura deorum e critico assai duro nei confronti dell’affollato Olimpo pagano, per esem-pio nel De ignorantia, può rinunciare senza troppi problemi. In tal modo il gioco dialettico ne riesce particolarmente mosso perché avremmo sotto gli occhi non già una contrapposizione semplice tra posizioni intellettuali e morali diverse, ma una sorta di climax ascendente che vede via via l’interlocutore di turno superare il precedente. Contro la ‘povera’ realtà dei Salmi Silvio getta Omero e Virgilio e insomma tutta la poesia degli antichi, e contro l’infatuazione mitologica e paganeggiante di Silvio ha buon gioco Monico nell’opporre la superiore sacralità della creazione, e il mistero cristiano della vita e della morte. L’ultimo intervento di Silvio con-ferma lo schema, o più esattamente lo fa esistere come tale. Intanto, Silvio non torna affatto su quanto ha già detto, ma cambia le carte in tavola e imprime un ulteriore salto al discorso. In che modo ? Precedentemente ha esaltato Roma, Troia e le guerre dei re, cioè l’epica virgiliana e

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omerica, dalla quale suona agevole il passaggio alla mitologia pagana. Ora, con tono risolutivo apre il suo discorso con la guerra punica e con Scipione, il ‘giovane divino’ che ancora aspetta il ‘sacro carme’ dovuto alla grandezza delle sue gesta. Così, dopo l’impasto epico-mitologico dei poemi pagani nel quale sono proiettate le grandi elementari passioni umane, e dopo il ri-chiamo di Monico alla potenza creatrice di Dio e al destino ultraterreno dell’uomo esortato a oltrepassare la pura dimensione istintuale dell’amore, del dolore e dell’ira, ci troviamo dinanzi a un elemento nuovo : la storia. Ora, non vorrei sovradeterminare il testo, ma questo parla da sé e di sicuro ci dice che non è la misera vicenda di Gerusalemme e degli Ebrei ad essere una ‘storia sacra’, ma lo è invece quella di Roma, riassunta, nel caso, nella figura di Scipione che ne ha interpretato i valori più alti. Con ciò Silvio/Petrarca risponde davvero alle implicite critiche di Monico. Non ripiega, infatti, ma proclama in maniera altrettanto implicita ma convinta che il suo tornare al poema è il compito più alto e nobile al quale egli possa dedicarsi, perché ‘sacro’ è il carme che, di là dalla riparazione dovuta a Scipione, celebra la grandezza provvidenziale di Roma e ne riconosce il significato universale e fondante per la storia dell’umanità.

Non è il caso di soffermarsi su questo aspetto determinante dell’ideologia petrarchesca, mai smentito ed anzi coerentemente sviluppato sino all’ultimo : sino alla tarda invettiva contro Jean de Hesdin, il Contra eum qui maledixit Italie dei primi mesi del 1373, che ne è una sorta di com-pendio violento sino alla sgradevolezza, tutto costruito attorno all’affermazione che la storia intera altro non è che romana laus.1 Può essere più interessante, invece, volgersi brevemente dall’altra parte, alla storia degli Ebrei, sulla quale è da vedere soprattutto un lungo passo della Fam. vii 2, impossibile da datare ma inserita in una serie di lettere verisimilmente del 1347. Qui, §§ 4 sgg., all’ombra di un discorso generale de vera humilitate Petrarca sviluppa per quasi tutta la lettera il tema accennato nelle quartine del sonetto 4 dei Rvf, come già segnalava il Castelvetro, cioè la scelta di Cristo di nascere dall’umilissima radice di un popolo di contadini e pecorai : « imo vero vel agricultores vel pastores ovium fuerunt. Asellis vilibus insidentes, stipati gregi-bus suis, inter filios et uxores sedes mutabant ; sed in hac humilitate Deum merebantur ducem […] Fiebant illis in figura que superficietenus contemptibilia viderentur, essent autem in ipsa rerum veritate magnifica. Si enim non aliter accepta fuerint quam narrentur, quis non audita despiciat ? ».2 Molto altro si potrebbe citare da questa stessa lettera, per esempio il confronto impietoso sotto il profilo della grandezza storica tra i biblici capi tribù con le loro mogli e le loro pecore, e i grandi duci romani, segnatamente Scipione, Pompeo e Cesare, oppure la con-siderazione che Cristo avrebbe potuto scegliere come suo capostipite non Davide confinato nella sua piccola Giudea, ma Augusto, signore di tutto il mondo : tutto ciò, insieme alle parole sopra citate, finisce per illustrare come meglio non si potrebbe su cosa si regga, nell’egloga, il coté polemico dell’atteggiamento di Silvio. Di più, la frase « Si enim non aliter accepta fuerint quam narrentur, quis non audita despiciat ? » non solo corrisponde perfettamente al giudizio estremamente limitativo che Silvio dà del racconto biblico quando sia letto in chiave pura-mente storica –quale ‘storia degli Ebrei’, appunto- ma attira anche l’attenzione su un aspetto particolare della pratica interpretativa di Petrarca che, nel caso specifico della Bibbia, non fa altro che tenersi stretto ad Agostino, del quale si legga, per esempio, questo passo del Contra

1 F. P., In difesa dell’Italia (Contra eum qui maledixit Italie), a cura di Giuliana Crevatin, Venezia, Marsilio, 20042, p. 94 : « Quid est enim aliud omnis historia, quam romana laus ? » (si legga qui anche la bella introduzione : vd. ora anche l’ed. a cura di Monica Berté, Firenze, Le Lettere, 2005, p. 62, § 163). Al confronto, tutti gli imperi del mondo appaiono come gio-chi di ragazzi (« pueriles ludi ») e vuoti nomi (« inania nomina »), compreso l’unico al quale Petrarca dedichi una speciale quanto polemicissima attenzione, quello di Alessandro Magno.

2 Fam. vii 2, 8-11 [in verità furono contadini e pecorai che in groppa a vili asinelli, in mezzo alle loro greggi, tra figli e mogli, andavano nomadi qua e là : ma proprio in questa loro umiltà meritavano di avere Dio come guida […] Le cose che accadevano alle loro persone apparivano di nessun conto, mentre la loro vera sostanza era magnifica : del resto se non fossero state accolte diversamente da come sono narrate, chi, a sentirle, non le avrebbe disprezzate ?]. Vd. Gen. 4, 2 : « fuit autem Abel pastor ovium et Cain agricola », onde Petrarca postilla, per Abele, « primus pastor », e per Caino « primus agricola » in margine a Giuseppe Flavio, Ant. i 53 : vd. Laura Refe, Le postille del Petrarca a Giuseppe Flavio (codice Parigino Lat. 5054), Firenze, Le Lettere, 2004, p. 93, ni 18-19. Fa il paio con questo passo quanto Petrarca scrive a proposito della legge mosaica alla quale ancora s’attengono gli Ebrei, ma che è stata superata dalla ‘legge di Cristo’ che ha reso vani molti di quei precetti, in Fam. xvii 1, 25-29.

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Faustum man. iv 1, ove, si noti, egli accetta almeno in parte l’accusa di Fausto relativa alla rozza materialità del Vecchio Testamento :

Temporalium quidem rerum promissiones Testamento Veteri contineri, et ideo Vetus Testamentum appellari, nemo nostrum ambigit ; et quod aeternae vitae promissio regnumque coelorum ad Novum pertinet Testamentum : sed in illis temporalibus figuras fuisse futurorum, quae implerentur in nobis, in quos finis saeculorum obvenit, non suspicio mea, sed apostolicus intellectus est, dicente Paulo, cum de tabulis loqueretur : “Haec omnia figurae nostrae fuerunt”, et iterum : “Haec omnia in figura continge-bant illis ; scripta sunt autem propter nos, in quos finis saeculorum obvenit” [1 Cor. 10, 6 e 11]. Non ergo Vetus Testamentum ad consequendas illas promissiones, sed ad intellegendas in eis Novi Testamenti praenuntiationes accipimus : Veteris quidem testificatio, fidem Novo conciliat.1

È ben su questa linea, infatti, che Petrarca legge nel Vecchio Testamento la prefigurazione dei futuri adempimenti nel Nuovo : « ubi quin nostre salutis grande misterium tegeretur nemo dubitat eorum qui de involucro Veteris Testamenti rite scilicet figuras nove legis eliciunt »,2 sì che la storia ebraica finisce per trarre tutto il suo significato dall’essere un insieme di allegorie in factis che troveranno adeguato adempimento nel Nuovo Testamento, ed è solo su questo piano che la si può apprezzare e addirittura esaltare. Per contro, sul piano dell’obiettiva consi-derazione storica essa resta quello che è, una cosa marginale sino all’irrilevanza, sì che la scelta ‘umile’ di Cristo, se da un lato e in chiave tutta particolare la riscatta, dall’altra ne sottolinea

1 [Nessuno di noi dubita che nel Vecchio Testamento siano contenute le promesse relative alle realtà temporali (e che appunto per questo prende il nome di Vecchio Testamento) e che la promessa della vita eterna e il regno dei cieli riguarda il Nuovo. Ma che in quelle realtà temporali vi fossero le immagini degli eventi futuri che si sarebbero realizzate in noi che siamo alla fine dei tempi non è una mia previsione, ma quanto hanno compreso gli apostoli. Ce lo dice Paolo, là dove parla di questi argomenti : “Tutti questi eventi sono figure che riguardano noi”, e ancora : “Tutti questi eventi capitarono loro in forma figurata : furono descritti in riferimento a noi che siamo alla fine dei tempi”. Non abbiamo dunque ricevuto il Vecchio Testamento per ottenere la realizzazione di quelle promesse, ma per comprendere in esse le anticipazioni del Nuovo. La testimonianza del Vecchio nel Nuovo procura la fede].

2 [che in ciò si celi il grande mistero della nostra salvezza non dubita nessuno di quelli che dall’involucro dell’Antico Testamento giustamente traggono l’annuncio figurato della nuova legge]. Così, in De viris ii, 6, Abraham, 13, p. 54, che cito qui e in seguito da F. P., De viris illustribus ii, Adam-Hercules. A cura di Caterina Malta, Firenze, Le Lettere, 2007 : ma a cura della stessa studiosa è sempre da vedere anche l’edizione maior sopra citata (nota 13), per l’ampia introduzione e le ricche note che affrontano tutti i problemi del testo. Con le parole appena citate Petrarca introduce al racconto del sacrificio di Isacco, ove (con Agostino, De civ. Dei xvi 32, 37-43 : ma dello stesso vd. anche De doctr. Christ. i 2, 2, a cui rimanda per il caso presente Gilbert Dahan, L’exégèse chrétienne de la Bible en Occident médiéval. xii-xiv siècle, Paris, Cerf, 1999, p. 302) Abramo sarebbe figura di Dio Padre e Isacco di Cristo, mentre la finale comparsa dell’ariete impigliato tra i rovi, Gen. 22, 13, che compensa il mancato sacrificio di Isacco con il suo, ‘figurava’ pur esso quell’agnello che molti secoli dopo sarebbe stato condotto al supplizio coronato di spine. Vd. ibid., 14-15 : « illicet inter vepres cornibus herens a tergo aries apparuit, ne penuria victi-me impediretur holocaustum ; quod proculdubio maioris cuiusdam sacrificii signum erat agnumque illum figurabat qui multis post seculis pro salute publica coronatus spinis ad supplicium ductus est » [ecco proprio allora apparve alle spalle un ariete impigliato ai rovi con le corna, perché la mancanza della vittima non impedisse il sacrificio : ciò era senza dubbio il segno di un sacrificio più grande, e prefigurava quell’Agnello che molti secoli dopo per la salvezza di tutti sarebbe stato condotto al supplizio coronato di spine]. Ancora, nell’offerta ad Abramo, al suo vittorioso ritorno da una battaglia, del pane e del vino da parte di Melchisedek, re di Salem, è racchiuso ‘in figura’ l’attuale nostro sacrificio, com’è ben noto a tutti quelli che leggono le sacre scritture (ibid. 18, p. 56 : vd. Gen. 14, 18 ; Agostino, De civ. Dei xvi 22 ; Prudenzio, Psych., Praef. 38-40) ; il parallelo Isacco-Cristo è ampiamente ribadito in De viris ii, 7, Ysaac, 4-5, p. 58, mentre nelle circostanze del parto gemellare di Esaù e Giacobbe (Gen. 25, 24-26), sempre con Agostino, De civ. Dei xvi 35, si vede prefigurato il sopravvento del popolo cristiano su quello ebraico; Giuseppe venduto per trenta denari d’argento dai fratelli ai mercanti diretti in Egitto (Gen. 37, 28) è immagine di un uomo ben più grande – Cristo – venduto allo stesso prezzo (De viris ii, 9, Ioseph, 11, p. 68). In questo caso vd. in particolare Ambrogio, De Joseph 3, 14, in Patr. lat. 14, 678, che riferisce diverse versioni del prezzo – venti, venticinque e trenta denari aurei- mentre il testo biblico (e Giuseppe Flavio, Ant. 2, 137) dà venti denari d’argento : sulla questione e sui problemi suscitati dalla scelta petrarchesca in favore dei trenta denari vd. la lunga nota di C. Malta nell’ed. maior, cit., pp. 220-1. L’episodio è citato come esempio di allegoria in factis da Beda, De schematibus et tropis, in Opera, vi/1, ed. Calvin B. Kendall, Turnhout, Brepols (ccsl, 123 a), pp. 164-166 (anche per Beda il prezzo fu di trenta denari d’argento) : vd. Benedetto Clausi, Elementi di ermeneutica monastica nel De schematibus et tropis di Beda, « Orpheus », n. s., 11, 1990, pp. 277-307. In generale, l’argomento è troppo vasto per dirne di più in questa sede : mi limito dunque a rinviare, dandole in qualche modo per scontate, alle fondamentali pagine di Erich Auerbach, Sermo humilis (in Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Milano, Feltrinelli, 19702, pp. 33-67), e Sacrae Scripturae sermo humilis e Figura (in Studi su Dante, Milano, Feltrinelli, 19775, pp. 165-73 e 174-221) ; alla grande opera di H. De Lubac, Exégèse médiévale. Les quatre sens de l’Écriture, Paris, Aubier, 1959-64 ; al volume di Alastair J. Minnis e Alexander B. Scott citato nella nota 1 p. 14 e a quello di G. Dahan appena sopra citato, e infine alle pagine di Friedrich Ohly, Geometria e memoria. Lettera e allegoria nel Medioevo, Bologna, il Mulino, 1985, in particolare pp. 305 sgg.

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impietosamente i limiti. Ciò comporta – e non è cosa da poco – che almeno qui, nell’egloga, Petrarca non accetta la soluzione che diremo per comodità agostiniana, secondo la quale il linguaggio delle Scritture è perfettamente funzionale alla verità del loro contenuto, e in ciò appunto rivela la sua speciale bellezza : piuttosto, se di un rapporto tra contenuto e forma si deve parlare, ebbene, quel linguaggio è quello che è perché rispecchia un mondo miserabile di contadini e pecorai, e che l’unica cosa che lo rende accettabile è il fatto che esso abbia goduto di una postuma e affatto miracolosa attribuzione di significato solo attraverso la venuta di Cristo e la sua sublime scelta di umiltà. Alla fin fine, insomma, anche il buon cristiano – dice Petrarca – dovrà fare i conti con la storia di Roma, non con quella degli Ebrei, e lui, Petrarca, sarà più che legittimato ad occuparsi di Scipione e della guerra punica. E si aggiunga a tutto ciò anche l’abilità dialettica di Silvio nell’abozzare un discorso così riduttivo nei confronti della storia degli Ebrei al quale egli sa bene che Monico, ma anche i suoi confratelli e in definitiva l’intero mondo cristiano certo non può e non vuole ribattere nulla. Al contrario …

6.

L’egloga si ferma a questo punto, e il testo giustifica le conclusioni che ne abbiamo tratto. Ma non ci si può fermare ad esse. Torniamo a un ordine di considerazioni già anticipato nella pri-ma parte di questo saggio, e ripensiamo un attimo alle liriche dei Rerum vulgarium fragmenta, ognuna delle quali è leggibile per sé, nella sua autonomia, mentre nello stesso tempo fa parte di una catena significativa dotata di un preciso orientamento che le conferisce un sovrappiù di senso. Analogamente, si può forse capire meglio come ogni opera di Petrarca valga per quello che è, ma nello stesso tempo rappresenti un momento particolare entro un percorso comples-sivo dotato di fortissime tensioni interne. Nel caso della nostra egloga, Parthenias, questo carat-tere, che è in verità assai complesso ed è senz’altro all’origine di quel vero e proprio assillo che costringe gli studiosi a cercare di ‘datare’ con la maggior precisione possibile le singole opere di Petrarca, è specialmente evidente. In particolare, credo che proprio in forza di tale carattere un’egloga ch’è quasi un centone di motivi tipicamente petrarcheschi rischi di perdere qualcosa in autonomia, e appaia bisognosa, per contro, di un’interpretazione ‘integrante’ che la rimetta nell’alveo del grande corso, il mainstream, di cui è parte.

Poco sopra ho osservato che alcuni passaggi delle contestazioni che Agostino muove a Fran-cesco nel Secretum suonano come una perfetta prosecuzione del dialogo con Monico : ciò com-porta che chi è interessato a ricostruire l’articolazione discorsiva del dibattito deve oltrepassare i limiti dell’egloga e completarne, per dir così, i tre momenti della sua seconda parte (Silvio, Monico, Silvio), con il quarto momento nel quale Monico è ormai tanto cresciuto da essersi trasformato in Agostino. Non è ora il caso di andare troppo avanti su questa strada, che im-porrebbe una lunga sosta sul Secretum, ma è del tutto evidente che quest’opera genialmente sviluppa l’impostazione dialogica e auto-riflessiva dell’egloga. E quella sorta di Monico poten-ziato e super-autorevole di Agostino tra molte altre cose dà ora la propria risposta all’ultimo intervento di Silvio : sì, la storia va bene, e va bene anche Roma, e va bene Scipione, ma già c’è chi ci ha pensato, e tanto ormai ne è stato scritto che non è certo di lì che ricaverai gloria… che ne è, invece, di te stesso ? che ne è della tua felicità ? che ne è della tua individuale, personale salvezza ?1

1 Vd. Secretum iii, p. 260 : « … famam inter posteros concupisti. Ideoque manum ad maiora iam porrigens, librum hi-storiarum a rege Romulo in Titum Cesarem, opus immensum temporisque et laboris capacissimum, aggressus es. Eoque nondum ad exitum perducto (tantis glorie stimulis urgebaris !) ad Africam poetico quodam navigio transivisti ; et nunc in prefatos Africe libros sic diligenter incumbis, ut alios non relinquas. Ita totam vitam his duabus curis, ut intercurrentes alias innumeras sileam, prodigus preciosissime irreparabilisque rei, tribuis, deque aliis scribens, tui ipsisius oblivisceris » [… hai cominciato a volere la fama anche presso i posteri. Così, mettendo mano a cose più grandi, ti sei cimentato con un libro di storie da Romolo a Tito imperatore, opera immensa che esige gran tempo e lavoro. E ancora non l’avevi condotta a termine che con poetica imbarcazione passavi –tanto eri spronato dal desiderio di gloria !-, per dir così, in Africa, e ora a questi libri dell’Africa ti dedichi con tutto l’impegno possibile, pur cercando di non trascurare gli altri. Così, hai dedicato tutta la tua vita a queste due opere (taccio le innumerevoli altre che si inframmettono a queste), prodigando il tuo bene più prezioso e irrecuperabile, e mentre scrivi degli

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Solo ora, finalmente, il filo sotterraneo che guidava le esortazioni di Monico – il destino di Francesco, le sue scelte di vita, il loro possibile progetto intellettuale e morale – viene allo scoperto. E se il tema di fondo è il medesimo, e simile è persino la conclusione pratica – il ri-torno nonostante tutto all’Africa che aspetta d’essere portata a termine –, è anche vero che tale ritorno è presentato in maniera molto diversa da un’opera all’altra : all’inossidabile oltranza di Silvio che i suggerimenti di Monico non riescono a scalfire s’oppone ora la coda di paglia di Francesco, inevitabilmente fatto consapevole delle inquietanti implicazioni etiche della sua scelta e costretto dunque ad accentuarne il carattere dilatorio nei confronti dei richiami di Ago-stino, dinanzi ai quali si confessa disarmato. Così, la stretta solidarietà tra Parthenias e Secretum finisce per mostrare insieme tanto il cordone ombelicale che lega un testo all’altro, quanto e soprattutto l’ampiezza e la novità della riflessione che ormai divide il dialogo con Agostino dal vicino archetipo dell’egloga che pure gli ha dato, con ogni probabilità, l’impulso iniziale (certo, non si può dubitare dell’ordine nel quale stanno i due testi, a ulteriore riprova, ad abundantiam, di quanto sia giusta e, vorrei dire, inevitabile, la datazione del Secretum imposta anni fa con qualche scandalo ma infine con pieno successo da Rico).

Detta la cosa in altri termini, Parthenias è caratterizzata dall’alternanza di due voci che non solo non trovano una sintesi, ma per il momento neppure la cercano. Di là da esse, Petrarca appare semplicemente sdoppiato, o meglio, mostra d’avere la lucidità necessaria per prende-re atto del proprio sdoppiamento e per rappresentarlo con semplice e concentrata efficacia. Come s’è già accennato sotto diversa forma, tutto ciò fa dell’egloga un testo eminentemente provvisorio che pone i termini di una questione che aspetta di essere risolta altrove. Il fatto è che il giovanile e tutto ideologico entusiasmo ‘romano’ si sta rivelando insufficiente a reggere il peso di un poema epico come l’Africa e delle iniziative ad esso correlate, come il De viris, e Petrarca non riesce più a giustificare, prima di tutto ai suoi stessi occhi, le totalizzanti scelte culturali sino a quel momento date per indiscutibili. Per questo, e dunque per evitare il rischio che il poema finisse per essere qualcosa come una Ylias latina proprio nella stagione che già aveva prodotto il De vita solitaria, il De otio e i Psalmi penitentiales, Petrarca sente benissimo che deve metterlo al riparo non solo di una ricerca affatto nuova di verità storica, alla quale è sostanzialmente Livio che deve provvedere i « firmissima veri / fundamenta » (Africa ix 92-3), ma anche di una concezione ordinatrice che insufflasse nelle vicende narrate il respiro di una visione universale della storia che andasse oltre i casi di un uomo e di una guerra ed avesse nella verità cristiana il proprio orizzonte di riferimento. Il passo successivo gli si presenta dunque tanto facile quanto obbligato. Qualcosa del genere, infatti, già esisteva e godeva di riconosciuto prestigio, e riguardava proprio lui, Scipione l’Africano, e offriva la via maestra per la subli-mazione celeste delle sue imprese. Si trattava naturalmente della parte finale del De republica di Cicerone, il celeberrimo Somnium Scipionis, che accompagnato dall’ampio e studiatissimo commento di Macrobio aveva avuto una fortuna propria, indipendente dal resto dell’opera.1 Sì che, una volta che l’avesse assunto e adattato alle nuove esigenze, possiamo immaginare che Petrarca ritenesse di aver risolto buona parte dei suoi problemi.

Non fu così, e addirittura io penso che proprio quella che per un momento era sembrata la soluzione complicasse, alla lunga, la dimensione delle difficoltà che hanno impedito all’autore di portare a termine la sua opera. Un discorso compiuto sul punto è ancora da fare : qui, basti una prima elementare considerazione. Quella che con approssimazione s’è chiamata la ‘cri-stianizzazione’ dell’Africa è affidata in gran parte al ‘sogno di Scipione’, cioè all’ampia riscrit-tura del testo ciceroniano che occupa i primi due libri del poema : ora, Petrarca ha composto quei canti nella loro forma attuale in parallelo con la parte finale del Secretum appoggiandosi

altri ti sei dimenticato di te stesso], ecc. Si noti che anche il fatto che ora Francesco si stia dedicando all’Africa istituisce una forte connessione con il finale dell’egloga.

1 Per la grande fortuna dell’opera nelle età che precedono Petrarca, vd. ora l’ampio quadro offerto da Roberta Cal-dini Montanari, Tradizione medievale ed edizione critica del Somnium Scipionis, Firenze, sismel-Edizioni del Galluzzo, 2002.

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anche ad altre auctoritates (prima fra tutte la pr. 7 del secondo libro della Consolatio di Boezio), ma continuando a ispirarsi soprattutto al somnium ciceroniano.1 E precisamente nel contesto del Secretum coerenza vuole che Agostino arrivi alla famosa esortazione : « Dimitte Africam », ‘Abbandona l’Africa’ … Si vuol dire, insomma, che il ricorso a Cicerone, specie in una versione che agevolmente riportava entro coordinate cristiane quelle considerazioni sulla piccolezza del mondo abitato e sulla vanità della gloria terrena non solo non poteva risolvere le incipienti per-plessità di Petrarca, ma semmai, radicalizzandole, le confermava, come ben dimostra l’estrema provocazione di Agostino nei confronti del poema. Vediamo meglio, anche se brevemente e in sede di conclusione.

In Cicerone, nella parte finale del sesto e ultimo libro del De republica, Scipione Emiliano, colui che ha definitivamente distrutto Cartagine nella terza punica, sogna di incontrare e dia-logare con l’anima del nonno, Scipione l’Africano. Tale sogno permette di concludere l’opera con una sorta di apoteosi celeste di quanto sino a quel punto è stato detto, entro la quale la fede nell’immortalità dell’anima da un lato s’accompagna alla svalutazione delle realtà terrene e in particolare dei miti legati alla gloria, ma dall’altro, e senza contraddizioni, esalta la religio della patria, perché la parentesi della vita terrena è stata concessa dalla divinità affinché l’uomo si prenda cura di ciò che alla divinità stessa è sommamente caro, « concilia coetusque homi-num iure sociati, quae civitates appellantur ; harum rectores et conservatores hinc profecti hunc revertuntur ».2 L’essenziale messaggio del Somnium afferma insomma che il primo dovere dell’uomo è quello di edificare e difendere lo stato e le sue leggi, e solo chi lo fa con piena dedizione ed eroismo merita di tornare al cielo dal quale è disceso per adempiere alla sua subli-me missione. Nel trasferire e adattare ai propri contesti tale nucleo ideale insieme semplice e potente, Petrarca deve ovviamente mutare i personaggi : ora, è Scipione l’Africano che, comin-ciando la fase finale dello scontro con Cartagine, sogna di incontrare in cielo le anime del padre Publio Cornelio Scipione e dello zio Gneo Publio Cornelio Scipione Calvo, entrambi morti combattendo in Spagna in tempi vicini e in circostanze simili. Ma non è questo mutamento il punto delicato. Piuttosto, questo incontro con i suoi lunghi discorsi è posto sùbito all’inizio del poema, del quale occupa, come s’è detto, i primi due canti, e questa circostanza muta sensibilmente le cose. Se in Cicerone il somnium era posto alla fine, e coronava degnamente il lungo discorso sullo stato apponendovi il superiore sigillo della volontà divina e dell’universale missione attribuita all’uomo sulla terra, in Petrarca, posto com’è in apertura, ha una funzione di investitura anticipando, per dire così, l’universo dei valori che l’Africano rappresenta e che meritano di trionfare ben oltre l’occasionale guerra contro la ‘perfidia’ punica. In tal modo, da risultato o coronamento di un discorso filosofico-politico sullo stato, il somnium diventa una sorta di premessa condizionante, in senso lato un accessus e quasi la chiave morale che intro-duce al ‘vero’ significato delle vicende che seguiranno. Così, Petrarca ha finito per chiudersi nella trappola che proprio in Parthenias ha cominciato a costruire e dalla quale non riuscirà più veramente a uscire, per quanto abbia in seguito sviluppato e arricchito il proprio discor-so. Basti osservare che egli non è particolarmente interessato al discorso tutto romano sullo stato, là dove batte il cuore del discorso di Cicerone, ed è semmai preoccupato di spostarne il centro di gravità agendo in due direzioni opposte : una propriamente storica, che comporta, nei due libri dell’Africa, l’aggiunta di lunghe rassegne sulla storia passata e sui futuri destini di Roma, e l’altra che nel Secretum e nell’Africa insieme sviluppa in senso cristiano e dunque asso-lutizza gli spunti ciceroniani che si prestavano a una decisa svalutazione del mondo terreno e dei suoi miti : nel caso, quelli dell’azione e della gloria. A tal fine, e restando al concreto casus belli, cioè all’Africa, Petrarca intreccia più voci. Per non fare che un solo piccolo esempio, nella polemica contro la gloria, il padre dell’Africano sviluppa il motivo della piccolezza del mondo

1 Vd. E. Fenzi, Dall’Africa al Secretum. Nuove ipotesi sul ‘sogno di Scipione’ e sulla composizione del poema, in Il Petrarca ad Arquà. Atti del Convegno di studi nel vi Centenario (1370-1374) […]. A cura di Giuseppe Billanovich e Giuseppe Frasso, Padova, Antenore, 1975, pp. 61-115.

2 De rep. vi 3 [le aggregazioni politiche degli uomini regolate da leggi che si chiamano stati : sono i loro reggitori e conservatori che, partiti da questo cielo, qui ritornano].

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abitato che di per sé riduce la gloria terrena a ben poca cosa, ma insieme presta la sua voce a un concetto diverso che non è nel somnium e non sarà neppure nel Secretum. Egli infatti, con sensibile e significativo spostamento, riduce la gloria alla fama, e cioè a qualcosa che di per sé è moralmente indifferente (la gloria, invece, « est frequens de aliquo fama cum laude », cioè una rinomanza virtuosa, teste Cicerone, De inv. II 166), e che nella sua accezione più volgare premia sia le grandi imprese che i grandi crimini, ancora con Cicerone che denuncia con forza la fama quale mera imitatrice della vera gloria e « temeraria atque inconsiderata et plerumque peccatorum vitiorumque laudatrix » :1

Fama quidem mendax falsa cum lance nefandosEquat iniqua bonis. Facinus dum grande, tremendum,horrendum dictu invenit, canit orba per orbem,nec dirimit causas. Patriam iuvat ille cadentem : laudatur ; multaque alius cum strage cruentas captat opes regnumque sibi iaciturus in auro :hic quoque laudatur. Laudabitur Hanibal atqueScipio : posteritas mirabitur omnis utrumque.2

Che proprio al principio dell’Africa e in relazione alle future imprese di Scipione si accampi questa nozione bassa e negativa della fama non può non risultare singolare e intimamente con-traddittorio rispetto alle ragioni prime del poema, e sarebbe dunque interessante seguire passo passo l’abile opera d’intarsio di Petrarca, e il diverso dosaggio degli ingredienti tra Secretum e Africa. Ma per chiudere bastino questi altri versi, là dove, dopo tante esaltazioni di Roma e delle sue guerre vittoriose, il padre intende dire ‘tutta’ la verità al figlio (ii 340-341 : « Huc aures inten-de pias et pectora veri/ plena refer » [Ascoltami con orecchie pie, e riempi il tuo cuore con la verità]), senza paura di incrinare la già precaria compattezza ideologica del poema :

Omnia nata quidem pereunt et adulta fatiscunt ;nec manet in rebus quicquam mortalibus ; undevir etenim sperare potest populusque quod alma Roma nequit ? Facili labuntur secula passu :tempora diffugiunt ; ad mortem curritis ; umbraumbra estis pulvisque levis vel in ethere fumusexiguus quem ventus agat. Quo sanguine partagloria ? Quod tanti mundo fugiente labores ?Stare quidem vultis, sed enim rapidissima celivos fuga precipitat. Cernis quam parva pudendiimperii pateant circum confinia nostri ?[…] totius sola sit OrbisRoma caput, terris dominetur sola subactis.Quid tamen hic magnum ? Tanto quod nomine dignuminvenis ?3

1 Cicerone, Tusc. iii 3-4 [temeraria, sconsiderata, e spesso esaltatrice di peccati e di vizi]. Isidoro, Diff. i 218, è risoluto : « gloria […] virtutum est, fama vitiorum » [la gloria spetta alle virtù, la fama ai vizi].

2 Africa ii 94-101 [La Fama mendace con la sua falsa bilancia pareggia iniquamente i buoni ai malvagi. Quando trova un crimine enorme, tremendo, orribile a dirsi, lo diffonde stoltamente per tutto il mondo senza riguardo alcuno per i suoi moventi. Quello soccorre la patria in pericolo : lo si loda. Quell’altro facendo strage s’impadronisce di ricchezze sporche di sangue e di un regno pur di nuotare nell’oro : si loda anche lui. Sarà lodato Annibale e lo sarà Scipione : la posterità unanime ammirerà l’uno e l’altro ]. Proprio all’inizio della Vita di Scipione, i 4, Petrarca ha un accenno di polemica verso Livio e Floro che avevano elogiato sia Scipione che Annibale in termini molto simili. Segnala la cosa Pierre Laurens, nella sua ancora parziale ed. dell’Africa, l. i-v, Paris, Les Belles Lettres, 2006, p. 214.

3 Africa ii 342-361 [Tutto ciò ch’è nato muore, e crescendo si corrompe. Nulla dura sulla terra, e uomini e popoli come possono sperare ciò che neppure l’alma Roma ha potuto ? I secoli scivolano via con rapidi passi, le stagioni spariscono una dopo l’altra, e voi correte verso la morte. Siete ombre : ombre e polvere impalpabile e fumo sottile nell’aria che il vento porta via. A che la gloria ottenuta con il sangue ? A che tante fatiche in un mondo che fugge ? Volete durare, ma la vertiginosa fuga del cielo vi trascina con sé. Non vedi i piccoli confini che limitano tutt’attorno il nostro risibile impero ? […] Roma sia pure l’unica dominatrice del mondo : che c’è di grande ? che ci trovi che sia degno di tanta fama ?]

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Non ci importa qui la trama fittissima delle reminiscenze, e l’alta sapienza retorica. Osservia-mo solo che la domanda cruciale : « Quid tamen hic magnum ? », ‘Che c’è di grande ?’, equivale perfettamente all’esortazione di Agostino : « Dimitte Africam », ‘Abbandona l’Africa’, e che per l’incerta salute del poema non basta rendere esplicita la domanda e costruire su questa esplici-tazione una strategia inglobante per esorcizzarla. Il discorso, torno a ripetere, dovrebbe comin-ciare di qui ed essere assai più lungo e minuzioso, ma è forse sufficiente per cogliere la portata anticipatrice dell’egloga – per quello che dice e, ancor più, per quello che fa intendere.

Egloge prime titulus : Parthenias

Collocutores Silvius et Monicus

Silvius Monice, tranquillo solus tibi conditus antro, et gregis et ruris potuisti spernere curas ; ast ego dumosos colles silvasque pererro infelix ! Quis fata neget diversa gemellis ? 5 Una fuit genitrix, at spes non una sepulcri !

Monicus Silvi, quid quereris ? Cunctorum vera laborum ipse tibi causa es. Quis te per devia cogit ? Quis vel inaccessum tanto sudore cacumen montis adire iubet, vel per deserta vagari10 muscososque situ scopulos fontesque sonantes ?

Silvius Hei michi ! Solus amor. Sic me venerata benigne aspiciat, spes nostra, Pales. Dulcissimus olim Parthenias michi, iam puero, cantare solebat hic, ubi Benacus, vitrea pulcherrimus alvo,15 persimilem natum fundit sibi. Venerat etas fortior : audebam nullo duce iam per opacum ire nemus, nec lustra feris habitata timebam, mutatamque novo frangebam carmine vocem, emulus, et fame dulcedine tactus inani.20 Ecce peregrinis generosus pastor ab oris, nescio qua de valle, canens nec murmure nostro, percussit flexitque animum ; mox omnia cepi temnere, mox solis numeris et carmine pasci. Paulatim crescebat amor : quid multa ? Canendo,25 quod prius audieram didici, musisque coactis, quo michi Parthenias biberet de fonte notavi. Nec minus est ideo cultus michi ; magnus uterque, dignus uterque coli, pulcra quoque dignus amica. Hos ego cantantes sequor et divellere memet30 nec scio nec valeo, mirorque quod horrida nondum silva nec aerij ceperunt currere montes. Verum ubi iam videor, collectis viribus, olim posse aliquid, soleo de vertice montis ad imas ferre gradum valles ; ibi fons michi sepe canenti35 plaudit, et arentes respondent undique cautes. Vox mea non ideo grata est michi, carmina quamquam laudibus interdum tollant ad sidera Nimphe. Dum memini quid noster agat, quidve advena pastor, uror et in montes flammata mente revertor.

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Sic eo, sic redeo. Nitar, si forte Camene 40dulce aliquid dictare velint, quod collibus altiset michi complaceat, quod lucidus approbet ether ;non rauce leve murmur aque, nec cura, nec ardordefuerint. Si fata viam et mens tarda negarit,stat, germane, mori. Nostrorum hec summa laborum. 45

MonicusO ! si forte queas durum hoc transcendere limen.Quid refugis ? Turpesque casas et tuta pavescisotia ? Quid frontem obducis ? Nemo antra coactusnostra petit : plures redeunt a limine fustra.

SilviusNon pavor hic animi fuerat ; si forsitan aures 50dulcibus assuetas, inamena silentia tangunt, miraris ? Natura quidem fit longior usus.

MonicusO ! iterum breve si mecum traducere tempuscontingat, sileatque fragor rerumque tumultus,dulcius hic quanto media sub nocte videbis 55psallere pastorem ! Reliquorum oblivia sensimingeret ille tibi : non carmen inane negabis,quod modo sollicitat, quod te suspendit hiantem.

SilviusQuis, queso, aut quonam genitus sub sidere pastorhoc queat ? Audivi pastorum carmina mille, 60mille modos : quenquam nostris equare caveto.

MonicusAudisti quo monte duo fons unicus editflumina ? Sive ubinam geminis ex fontibus unumflumen aquas, sacrumque caput cum nomine sumit ?

SilviusAudivi, ut quondam puer hispidus ille nitentis 65lavit Apollineos ad ripam gurgitis artus.Felices limphe que corpus tangere tantipromeruere dei ! Fluvius, si vera loquuntur,per cinerum campos ultricibus incidit undis.

MonicusHunc igitur, dulci mulcentem sidera cantu, 70illa tulit tellus ; licet experiare, iuvabit.

SilviusO ! ego novi hominem. Cives et menia parvesepe Jerosolime memorat, nec vertitur inde.Semper habet lacrimas et pectore raucus anelat.Hi Romam Troiamque canunt et prelia regum, 75quid dolor et quid amor possit, quidve impetus ire,qui fluctus ventosque regat, qui spiritus astra,necnon et triplicis sortitos numina regniexpingunt totidem, varia sed imagine, fratres ;sceptriferum summumque Iovem facieque serena, 80inde tridentiferum moderatoremque profundi

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ceruleumque comas medium, fuscumque minorem ; torva latus servat coniunx, aterque paludis navita tartaree piceas redit itque per undas, 85 tergeminusque canis latrat ; tum dura severis pensa trahunt manibus, fixa sub lege, sorores ; quinetiam stigias eterna nocte tenebras anguicomasque simul furias templumque forumque. Tum silvas et rura canunt atque arma virosque 90 et totum altisonis illustrant versibus orbem.

Monicus Hic unum canit ore deum, quem turba deorum victa tremit, celum nutu qui temperat almum, ethera qui librat liquidum, qui roris acervos, quique nives spargit gelidas et nube salubri 95 elicit optatos herbis sitientibus imbres ; qui tonat et trepidus rapidis quatit aera flammis, tempora sideribus, qui dat sua semina terris ; qui pelagus fluitare iubet, consistere montes ; qui corpus mentemque dedit, quibus addidit artes100 innumeras, geminum cumulans ab origine munus ; qui vite mortisque vices, queque optima fessos fert super astra, viam docuit repetitque monendo. Hunc meus ille canit, neu raucum dixeris, oro : vox solida est penetransque animos dulcore latenti.105 Jure igitur, patriis primum celebratus in arvis, attigit et vestros saltus, lateque sonorum nomen habet : que rura Padus ; que Tybris et Arnus, que Rhenus Rodanusque secant, queque abluit equor omnia iam resonant pastoris carmina nostri.

Silvius110 Experiar, si fata volent ; nunc ire necesse est.

Monicus Quo precor ? Aut quis te stimulus, que cura perurget ?

Silvius Urget amor Muse ; quoniam modo litore in Afro sidereum iuvenem genitumque a stirpe deorum fama refert magnis implentem pascua factis ;115 te, Polipheme, tuis iam vi stravisse sub antris dicitur et lybicos silvis pepulisse leones, lustraque submissis audax incendere flammis. Hunc simul Italidesque nurus puerique senesque attoniti adverso certatim a litore laudant.120 Carmine fama sacro caret hactenus, et sua virtus premia deposcit. Pavitans ego carmina cepi texere ; tentabo ingenium, vox forte sequetur : Orphea, promeritum modulabor harundine parva.

Monicus I sospes, variosque vie circumspice casus.

[Silvio. Solo e riparato nella tua tranquilla grotta, Monico, hai potuto scansare le preoccupazioni che le greggi e i campi procurano : e io, infelice, vado errando per colli e selve spinose ! Chi potrà negare il diverso destino di noi fratelli ? Abbiamo avuto la medesima madre, ma non la speranza in una medesima sepoltura. Monico. Silvio, di cosa ti lamenti ? Tu stesso sei la causa di tutti i tuoi problemi. Chi ti costringe per strade fuori mano ? Chi ti ordina di

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‘bucolicum carmen’ i, parthenias 35

scalare con tanta fatica l’inaccessibile cima di un monte, o di vagare per luoghi deserti, per rocce coperte di muschio e fragorose sorgenti ? [11] Silvio. Ahimé, solo l’amore ! Mi assista benigna la veneranda Pale, mia sola speranza ! Un tempo, quand’ero ragazzo, il dolcissimo Partenia cantava per me, qui dove il bellissimo Benaco dal seno cristallino genera un figlio che gli è somigliantissimo. Venne poi un’età più robusta. Avevo allora il coraggio di andare senza guida per boschi oscuri, e non mi spaventavano le tane abitate dalle belve : modulavo a gara la mia voce ormai muta-ta in carmi per me nuovi, toccato com’ero dalla vana dolcezza della fama. [20] Ma ecco un generoso pastore arrivato da terre straniere –non so da quale valle- colpì e piegò il mio animo cantando in una lingua diversa dalla nostra. Subito, presi a disprezzare ogni altra cosa e a nutrirmi solo di metri e poesie. L’amore un poco alla volta cresceva. Che più ? Cantando ho imparato quello che prima ascoltavo soltanto, e messe a confronto le due Muse vidi a quale fonte il mio Partenia avesse bevuto. Non per questo lo venerai di meno : entrambi sono grandi ; entrambi sono degni di culto e degni della bella amica. Io li seguo nel canto e non so né sono capace di staccarmi da loro : [30] stupisco, piuttosto, che l’aspra selva e gli alti monti non abbiano già cominciato a seguirli di corsa. Quanto a me, tutte le volte che, raccolte le forze, mi sembra di riuscire a realizzare qualcosa, dalla cima del monte mi avvio verso il fondovalle : qui una fonte applaude al mio canto e tutt’intorno le aride rocce fanno eco. A me, tuttavia, la mia voce non suona altrettanto gradevole, anche se talvolta con le loro lodi le Ninfe innalzano al cielo i miei carmi : quando torno a pen-sare, infatti, di cosa siano capaci sia il nostro pastore che quello straniero, brucio, e con la mente in fiamme torno sui monti. Così vado, così torno. E continuerò a impegnarmi, se le Camene vorranno dettarmi qualcosa di dolce che piaccia sia agli alti colli che a me, e che il cielo splendente possa approvare : né mancherà il lieve e roco mormorio delle acque, né da parte mia la diligenza e la passione. Se invece il destino e il mio tardo ingegno me lo negheranno, non mi resta, fratello, che morire. Ecco la somma di tutti i miei travagli. [46] Monico. Oh, se tu potessi oltrepassare questa dura soglia ! Perché ti ritrai ? perché hai paura di queste misere capanne e dei loro ozi sicuri ? Perché corrughi la fronte ? Nessuno arriva costretto alle nostre grotte e, dopo averne raggiunto inutilmente la soglia, i più tornano indietro. Silvio. Non è stata la paura. Ti meravigli forse che orecchie avezze alle dolcezze dell’armonia restino tur-bate da questi tristi silenzi ? Un’abitudine prolungata si trasforma in natura. Monico. Oh, se tu potessi passare di nuovo un poco di tempo con me, e tacesse il rumore e il tumulto del mondo ! Quanto più dolcemente vedresti allora un pastore cantare nel cuor della notte ! Costui a poco a poco ti inculcherebbe l’oblio di tutto il resto, e tu riconosceresti quanto sia vano il carme che ora ti commuove e ti fa stare con il fiato sospeso. [59] Silvio. Quale pastore, ti prego, e nato sotto quale stella, riuscirebbe a tanto ? Carmi pastorali ne ho sentiti mille, e mille melodie : bada bene di non paragonarli ai nostri ! Monico. Hai mai sentito dire da quale monte una sola fonte faccia scaturire due fiumi ? no … piuttosto, dove un solo fiume riceva l’acqua da due sorgenti, e ne ricavi la sacra origine e il nome ? Silvio. Ho sentito come una volta quell’ispido ragazzo abbia lavato le membra di Apollo sulla riva del limpido fiume. Acque felici, quelle che hanno meritato di toccare il corpo di un dio così grande ! Ma il fiume, se è vero quello che dicono, scorre con acque vendicatrici attraverso campi di cenere. [70] Monico. Sì, quella è la terra che ha generato il pastore che con il suo dolce canto ammalia il cielo : prova ad ascoltarlo, ti piacerà. Silvio. Oh, lo conosco ! Rievoca spesso i cittadini e le mura della piccola Gerusalemme, e di lì non si schioda : piange sempre e tira fuori dal petto faticosi e sordi sospiri. I miei, invece, cantano Roma, Troia e guerre di re : e cosa possa il dolore, l’amore e l’impeto dell’ira, e quale spirito governi i flutti, i venti e le stelle. Raffigurano poi con varietà di immagini i tre fratelli che hanno avuto in sorte i destini di altrettanti regni : [80] Giove, il più alto, con lo scettro e il volto sereno ; quello di mezzo, il re degli abissi marini, con il tridente e i capelli azzurri, e infine il minore, cupo in volto, al fianco del quale sta la torva consorte mentre il lugubre nocchiero va e viene per le nere acque della palude tartarea, il cane a tre teste latra e le tre sorelle traggono con impietose mani il filo crudele governato da immutabili leggi. Ma cantano anche l’eterna notte delle tenebre stigie, e le furie anguicrinite, e la vita religiosa e civile, e infine le selve e i campi, le armi e gli eroi, e insomma celebrano in versi altisonanti il mondo intero. [91] Monico. Questo invece canta un solo dio, dinanzi al quale la turba degli dei trema sconfitta. Un dio che col suo cenno governa l’almo cielo, mantiene in equilibrio l’aria sfuggente, sparge abbondanti rugiade e gelide nevi, e fa scendere dalle salutifere nubi le piogge tanto desiderate dalle erbe assetate. Che tuona e squassa l’aria tremante con fulmini guizzanti, stabilisce il ritmo dei moti stellari e dà semi alla terra. Che comanda al mare di fluttuare e ai monti di stare fermi ; che ci ha dato corpo e mente, ai quali ha aggiunto innumerevoli capacità completando sin dall’origine quel doppio dono. Che ha fissato l’alternanza di vita e morte e ha mostrato agli stanchi mortali la via che meglio di ogni altra conduce alle stelle, e ha poi continuato a ripetere i suoi ammonimenti. Quel mio pastore celebra questo dio : non definirlo rauco, ti prego ! la sua voce è salda e penetra negli animi con segreta dolcezza. [105] Ben a ragione dunque, dopo essere stato celebrato in patria, ha rag-giunto i vostri monti, e il suo nome risuona in lungo e in largo. Le terre attraversate dal Po, dal Tevere e dall’Arno, e quelle attraversate dal Reno e dal Rodano, e tutte quelle lambite dall’oceano, tutte ormai risuonano dei canti del nostro pastore. Silvio. Proverò, se il destino lo vorrà. Ora, devo andare. Monico. Dove, di grazia ? Quale sprone, quale impegno ti assilla ? [110] Silvio. Mi spinge l’amore della Musa, poiché riferisce la Fama che ora sul lido afri-cano un giovane celeste, di stirpe divina, riempie quei pascoli con le sue grandi imprese. Si dice che abbia abbattuto te, Polifemo, nei tuoi stessi antri, e abbia scacciato dalle loro selve i leoni della Libia, e abbia osato appiccare il fuoco

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ai loro covili. Le nuore italiche e i giovani e i vecchi lo esaltano a gara dall’opposto litorale, ma alla sua fama manca sin qui un sacro carme, e la sua virtù esige un premio. Ho cominciato io, con timore, a intessere versi ; metterò alla prova il mio ingegno, la voce forse seguirà : lo canterò con la mia piccola zampogna, lui che avrebbe meritato Orfeo. Monico. Va sano e salvo, e fa attenzione ai vari accidenti del viaggio.]

Note

1-2. Monice ... curas : l’antro è il convento di Montrieux, non lontano da Marsiglia, nel quale Monico/Gherardo conduce vita monastica dall’aprile del 1343 (su di lui, vedi Fam. x 3, e xvi 2), potendosi permettere di fuggire le città e gli uomini (‘il gregge e il campo’). Così Petrarca, Fam. x 4, 21 : « Antrum ubi solitarie degit Monicus, Mons Rivi est, ubi tu nunc monasticam vitam agis inter speluncas et nemora, vel ipsum antrum in quo Maria Magdalena penitentiam egit, quod monasterio tuo vicinum est. Ibi enim in hoc sancto proposito de quo multa mecum prius agitaveras, Deo cor lubricum sublevante, firmatus es » [L’antro nel quale Monico vive in solitudine è Montrieux, dove tu ora conduci vita monastica tra spelonche e boschi, oppure quell’antro stesso nel quale Maria Maddalena fece penitenza, che è vicino al tuo monastero. Qui, infatti, mentre Dio veniva in aiuto del tuo cuore vacillante, hai confermato la tua santa scelta, della quale in precedenza molto hai discusso con me]. Avvertendo come l’antro possa anche essere la spelonca della Sainte-Baune, in un mas-siccio roccioso non lontano dal convento, nella quale la leggenda vuole si fosse ritirata per trenta anni di penitenza Maria Maddalena, Petrarca vuole sottolineare sin da principio che la decifra-zione dell’allegoria pastorale non ha da essere troppo rigida, ammettendo una certa pluralità di referenti lasciati alla sensibilità e alla cultura del lettore (vd. anche avanti, v. 12). Per la clausola, vedi Properzio, iv 4, 3 : « hederoso conditus antro » (ma anche Ovidio, Met. iii 31). Per i nomi degli interlocutori, e per Monico in particolare, vd. la prima parte dell’Introduzione.

2. spernere curas : il silenzio, la pace, la devozione, e insomma tutto ciò che caratterizza la vita monastica di Gherardo e la fa così diversa da quella errante e tumultuosa di Francesco è un motivo che attraversa anche l’intera Fam. x 3, indirizzata a Gherado nel settembre 1349, insie-me alla rievocazione delle comuni esperienze giovanili. Vd., in clausola, Virgilio, Aen. iv 394 : « avertere curas » ; Georg. iv 531 : « deponere curas ».

3. dumosos colles : l’espressione torna altrove (De viris, Romulus 1 ; Fam. xviii 1, 3 : vd Virgilio, Ecl. i 76 : « dumosa […] de rupe » ; Georg. ii 180 : « dumosis […] arvis »), ma qui è da ricordare so-prattutto Africa ix 404-406, ove P. rivendica con orgoglio il valore della difficile impresa poetica costituita dal poema, e volge dunque al positivo l’immagine : « Ipse ego ter centum labentibus ordine lustris / dumosam tentare viam et vestigia rara / viribus imparibus fidens utcumque peregi » [Io stesso dopo trecento lustri fidando nelle mie impari forze ho insistito nel seguire ad ogni costo una via spinosa e sentieri poco battuti]. Vedi anche avanti, vv. 121-123.

4. fata diversa : è un motivo ripetuto nelle lettere a Gherardo, quasi un nervo scoperto. Vd. Fam. x 5, 2-3, particolarmente vicina all’egloga : « Quid nunc dicam ? Gratulor tibi et michi : gratulor tibi talem animum, michi talem esse germanum. Unum inter duas gratulationes est quod do-leam, quod lugeam, quod querar : eoedem parentes, non idem sidus fuisse nascentibus. Nimis dissimiles sumus, frater, nimis impares partus eadem alvus effudit, ut intelligi possit non mor-talium parentum sed Eterni Patris munus esse quod sumus » [Che dire ? Mi congratulo con te e con me : con te perché hai un animo così grande ; con me, perché ho un fratello come te. Ma in questa doppia gratificazione c’è una cosa della quale mi addoloro, e che piango e lamento : abbiamo avuto gli stessi genitori, ma non ci toccò lo stesso destino. Siamo troppo diversi, fratello : lo stesso ventre partorì due creature troppo dissimili, sì che si potesse capire che siamo quello che siamo non per dono dei genitori, ma dell’Eterno Padre]. Ma già nella Fam. x 3, 26-27, il motivo è ampiamente sviluppato, assumendo come propria base il diverso comportamento dei due fratelli dopo la morte della donna amata (la donna amata da Gherardo morì verso la fine del 1340 ; Laura il 6 aprile 1348) : « Michi autem adhuc restat de quo tecum, si pateris, Deus meus, disceptare velim. Quid est enim, responde

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‘bucolicum carmen’ i, parthenias 37

michi, quod cum ego et frater meus gemino laqueo teneremur, utrunque contrivit manus tua, sed non ambo pariter liberati sumus ? Ille quidem evolavit, ego nullo iam laqueo tentus sed visco consuetudinis pessime delinitus, alas explicare nequeo et ubi vinctus fueram, solutus hereo. Quid cause est nisi quod contritis pari conditione laqueis, nequaquam quod sequitur par fuit, “adiutorium nostrum in nomine Domini” ? Cur autem hanc daviticam cantilenam tanto concentu ceptam tam dissona voce complevimus ? Nulla Dei voluntas sine causa est, quippe cum omnes inde dependeant et illa sit omnium fons causarum. Frater ergo rite cecinit erecto ad celum animo, ego terrena cogitans et curvatus in terram ; et forte liberatricem dexteram non agnovi, forte de propriis viribus speravi ; aut hoc aut aliud cause est cur effracto laqueo non sim liber » [Mi resta qualcosa di cui discutere con te, o mio Dio, se tu lo permetti. Perché mai, dimmi, quando io e mio fratello eravamo legati dallo stesso laccio, la tua mano colpì entrambi ma non fummo en-trambi liberati allo stesso modo ? Egli se ne volò via mentre io, non trattenuto da alcun laccio ma ancora ricoperto dalla pece della pessima abitudine, non riesco ad aprire le ali, e pur essendo ora sciolto non mi stacco da ciò a cui ero legato. Quale ne fu la causa, se non che, rotti ugualmente i nostri lacci, non ne se-guì uguale “l’aiuto in nome del Signore” (Psalm. 123, 7-8) ? Perché questa davidica cantilena cominciata con tanta armonia l’abbiamo portata a termine con voci tanto dissonanti ? La volontà di Dio non è mai senza causa, perché tutti ne dipendono ed è lei la fonte di tutte le cause. Mio fratello cantò dunque nel modo giusto, con l’animo rivolto al cielo, mentre io l’ho fatto pensando alle cose terrene e curvato verso terra : forse non ho visto la destra liberatrice ; forse ho contato sulle mie sole forze. Questa o altra è la causa per la quale, rotto il laccio, non sono libero]. Come si vede, molti fili legano questo passo alla nostra egloga : tra essi, non solo il motivo del diverso destino, o meglio delle diverse scelte dei due fratelli, ma anche quello della ‘davidica cantilena’ che solo Gherardo ha saputo intonare, mentre Francesco non ha saputo e voluto seguirlo. Un altro testo celeberrimo che rappresenta e interpreta tale diversità è la lettera che racconta l’ascesa al Ventoux, Fam. iv 1, 9-14, a Dionigi di Borgo Sansapolcro, là dove la salita rapida e diretta di Gherardo è contrapposta a quella lenta e dilatoria di Francesco che cerca inutilmente sentieri meno ripidi e addirittura in discesa, quasi « corporeum aliquid ad alta descendendo perveniat » [un qualche corpo possa arrivare in alto discendendo]. Alla luce di tutto ciò, si veda come Petrarca sottolinei il caso diverso, di intima comunione in vita e in morte, del padre dell’Africano, Publio e di suo fratello Cneo, morti en-trambi in Spagna a pochissima distanza uno dall’altro e in circostanze simili, nella prima parte del ‘sogno’, Africa i 322-6 : « Fuerat concordia vite / mira, vel exiguis nunquam interrupta que-relis : / una domus victusque idem, mens una duobus, / et mors una fuit. Locus idem corpora servat / amborum ac cineres » [Mirabile fu la concordia delle nostre vite, non interrotta neppure dal più piccolo contrasto : una sola fu la nostra casa, medesimo il cibo, uguali i pensieri, e uguale fu la nostra morte. E uno stesso luogo conserva i corpi d’entrambi, e le ceneri].

– gemellis : in verità, Gherardo, nato nel 1307, era più giovane di tre anni di Francesco. Ma che fossero fratelli « non allegoria, sed veritas nuda est » (Fam. x 4, 22). Credo giustamente, François e Bachmann caricano questa apparente inesattezza di un senso particolare, che sottolinea la nascita legittima dei due fratelli da Eletta Canigiani, una genitrix, quando si sa di un figlio ille-gittimo di ser Petracco, il monaco olivetano Giovanni, « Iohanninus ser Petraccoli de Florentia » dei documenti, di qualche anno più giovane di Francesco e morto nel 1384, « de coniugato genitus et soluta », cioè nato da madre nubile e da padre sposato. Vd. G. Billanovich, Un fratello ignoto del Petrarca, in Id., Petrarca e il primo umanesimo, Padova, Antenore, 1996, pp. 542-549 ; Mauro Tagliabue, Antonio Rigon, Fra Giovannino fratello del Petrarca e monaco olivetano, « sp », n.s. vi, 1989, pp. 241-255.

5. spes ... sepulcri : non solo materialmente (il luogo stabilito per la sepoltura di Gherardo essen-do il monastero stesso), ma anche nel senso della dimora finale : il cielo per Monico, e l’inferno, se la misericordia di Dio non l’aiuterà, per Silvio. Vd. Fam. x 4, 22 : « Pro sepulcro ultima sedes intelligitur ; te enim celum, me nisi misericordia subvenerit, Tartarus manet ; vel simpliciter quod verbo sonat intelligi potest : tibi enim iam certa sedes eoque certior spes sepulcri, michi

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autem adhuc vagus error et incerta omnia » [Con il sepolcro s’intende la dimora definitiva : il cielo destinato a te, e l’inferno a me, se la misericordia divina non m’aiuta. Ma si può anche intendere sem-plicemente secondo il senso delle parole : tu hai ormai una dimora certa e perciò una più sicura speranza nel sepolcro, mentre io vago qua e là e tutto è ancora incerto]. E Fam. x 3, 11 : « Orabis, frater, ut me quoque iantandem libertati resituat et uno ventre progressos pari fine felicitet » [Prega Iddio, fratello, affinché renda anche a me la mia libertà, e gratifichi noi, usciti dal medesimo ventre, di una uguale fine].

6-7. Cuntorum ... causa est : è precisamente il motivo : ‘nessuno è infelice contro la sua volontà’, dal quale muove il dibattito tra Agostino e Petrarca, nelle prime pagine del Secretum. Vd. l’ed. a cura di E. Fenzi, Milano, Mursia, 1992, p. 104 : « Aug. […] nunc unum illud indignor, quod fieri quenquam vel esse miserum suspicaris invitum » [Agostino. Per ora questo mi indigna, che tu sia convinto che uno possa essere o diventare infelice contro la sua volontà], e vd. Psalm. penit. i 17 : « Quid michi procuravi, demens ? Cathenam meam ipse contextui et incidi volens in insidias mortis » [Che cosa ho fatto a me stesso, pazzo che sono ? Ho fabbricato io stesso la mia catena e di mia volontà sono caduto nelle trappole della morte]. Il ‘vero’ Agostino sostiene naturalmente la stessa tesi, identificando l’infelicità con la colpa : vd. per es. De vera religione xxiii 44 : « nullum malum est naturae universae, sed sua cuique culpa fit malum » [Non c’è alcun male nell’intera natura, ma esso esiste solo per la personale colpa di ognuno], e in chiave diversa questo è uno dei precetti fondanti della morale stoica (basti Seneca, Ad Lucil., lxx 15 : « nemo nisi vitio suo miser est »), ma in proposito ha fatto testo un’operetta attribuita a Giovanni Crisostomo, nell’anonima traduzione latina (= Patr. Gr., lii 459-480) Nisi a semet ipso neminem ledi posset, che cito dall’ed. di Basilea, Adam Petri, 1509, carte non num., e con il titolo Neminem posse laedi nisi a semetipso, leggibile sul sito francese Gallica. Qui, l’ultimo capitolo, il xviii, conclude a c. 50 ribadendo che « si quis […] laeditur, a semetipso laeditur, nec ab ullo alio etiamsi innumeri sint qui noceant. Et si omnes qui terram et mare habitant conveniant ad laedendum, nocere nequaquam poterunt ei qui a semetipso non laeditur » [se qualcuno subisce un danno, se lo procura da sé e da nessun’altro, fossero anche innumerevoli quelli che vorrebbero nuocergli. E se tutti quelli che abitano la terra e il mare si accordassero per fare del male, non potrebbero in alcun modo danneggiare colui che non si danneggia da sé]. Petrarca l’ha conosciuta e citata : vd. Fam. xvii 4, 13 ; Fam. xvii 10, 4 : « quis est enim homi-num qui non sibi sepe nocuerit, cui non proprie dici possit vetus illud verbum : “Omnia mala hec tibi, o stultissime, procurasti ?” Elegans et plane argutus Iohannis Crisostomi tractatus est, primo forsitan congressu mendacii frontem habens, at si acrius intueare, nichil verius ; est au-tem hic titulus : Nisi a semet ipso neminem ledi posse » [qual è l’uomo che spesso non abbia fatto male a se stesso e al quale non si possa ripetere a ragione quel vecchio detto : “Tutti questi mali, stoltissimo che sei, te li sei procurati da solo ?”. Al proposito c’è un elegante e acuto trattato di Giovanni Crisostomo che forse al primo approccio può apparire menzognero, ma vero quant’altri mai se lo guardi con maggiore attenzione, intitolato Nisi a semet ipso neminem ledi posse] ; De rem., ii 77, 4 : « Disputatum habes a magno quodam viro, parvo quidem sed arguto volumine, neminem ledi posse nisi ledatur a se ipso [Troverai discusso da un grand’uomo in un piccolo ma acuto libretto che nessuno può essere dan-neggiato se non da se stesso]. Il concetto, nelle sue varie declinazioni, pervade le opere di Petrarca quale caposaldo del suo atteggiamento morale : per un’esempio ov’è in intima connessione con il concetto stoico dell’opinio quale causa di tutti i mali, vd. Fam., ii 2, 6. Vd. F. Rico, Vida u obra de Petrarca. i. Lectura del Secretum, Padova, Antenore, 1974, p. 54 nota 39.

– per devia : espressione topica (per es., Ovidio, Met. i 676 ; iii 146 ; iii 370 ; Stazio, Theb. v 248, ecc.), che ricorda gli inutili andirivieni di Petrarca durante la salita al Ventoso (Fam. iv 1). Ma vedi per esempio Secretum iii, p. 180, ove, senza l’assistenza della Verità, « per devia vagaremur » ; De otio, ii 7, 128, in un contesto impregnato della metafora : le vie sbagliate, che portano alla perdizione, « non enim vie sed devia quedam sunt ; non eo ducunt quo intendimus » ; Epyst. iii 8, 8-9 : « Me procul in tenebris per devia longa viarum / errantem vidisse fuit ». E, in chiave di confessione, Psalm. penit., vii 6 : « secutus sum transversas et tortuosas vivendi vias ».

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8-10. Quis vel inaccessum ... sonantes ? : spiega così Petrarca il senso allegorico di questi versi, Fam. x 4, 23 : « Inaccessum cacumen ad quod multo sudore Silvium anhelare Monicus expro-brando obicit, fame rarioris et ad quam pauci perveniunt, altitudo est. Deserta quibus vagari Silvius dicitur, sunt studia ; hec vere deserta hodie et vel lucri cupidine derelicta vel ingeniorum desperata segnitie. Muscosi scopuli sunt potentes ac divites, patrimonio velut musco obsiti ; fontes sonantes literati et eloquentes homines dici possunt, quorum ex ingenii scatebris di-sciplinarum rivuli prodeunt cum sonitu quodam delectabili » [La vetta inaccessibile alla quale Monico rimprovera Silvio di tendere con tanta fatica è l’altezza di una fama eccellente alla quale sono pochi quelli che arrivano. I deserti per i quali si dice che Silvio si aggiri sono gli studi, oggi veramente disertati e abbandonati per amore del lucro e per disperante pigrizia d’ingegno. I sassi muschiosi sono i potenti e i ricchi, coperti dal loro patrimonio come dal muschio ; fonti sonanti possono esere detti i letterati e gli eloquenti dal cui ingegno come da sorgenti scaturiscono con dilettoso suono le correnti del sapere]. Il disvelamento dell’allegoria mostra dunque il contrario di ciò che appare, e denun-cia la contraddizione nella quale Silvio è involto. Egli, infatti, è costretto dal suo desiderio di gloria a frequentare il gran mondo dei ricchi e dei potenti, e non è affatto il solitario eremita che pretende di essere. Qui dunque Monico gioca in sostanza lo stesso ruolo di Agostino, nel Secretum. Vedi Catullo, lxviii 58 : « rivus muscoso prosilit e lapide » (ma anche Virgilio, Ecl. vii 45 : « Muscosi fontes »).

11. Solus amor : amore della poesia, comè esplicito alla fine, v. 112 : « Urget amor Muse » (vedi). In Fam. x 4, 15, Petrarca sottolinea con precisa intenzione : « respondet Silvius errorum causa esse amorem, et amorem muse, non alium » [Silvio risponde che del suo andare errando è causa l’amore, ma l’amore per le Muse, non altro]. Vd. la nota che segue, per la citazione virgiliana. La Taran-tino ha dedicato il suo saggio sull’egloga, Francesco Petrarca, cit., a un confronto tra questo discorso di Silvio e Ovidio, Heroides xviii, Leander Heroni, donde Petrarca avrebbe ripreso « al-cuni lessemi chiave […] ma al fine di dire qualcosa di completamente diverso » (p. 49). Poiché tali riprese non hanno il carattere di calchi evidenti, ma semmai di riecheggiamenti assai fini e diluiti nel contesto, in questa sede mi limito a rinviare ai raffronti istituiti dalla studiosa.

12. Pales : divinità contadina protettrice del bestiame minuto, della quale era importante propi-ziarsi il favore. Vd. la « silvicolam […] Palen » in Ovidio, Fast. iv 746 (e ibid, 775 sgg) : ma anche Virgilio, Georg. iii 1 e soprattutto 291-2944 : « sed me Parnassi deserta per ardua dulcis / raptat amor ; iuvat ire iugis qua nulla priorum / Castaliam molli devertitur orbita clivo. / Nunc, veneranda Pales, magno nunc ore sonandum » [il dolce amore mi trascina per i solitari vertici del Parnaso : è bello salire sui gioghi ove nessuna precedente impronta si volge su per morbidi pendii verso la fonte Castalia. Ora, veneranda Pale, ora si deve cantare con voce solenne], ove s’intrecciano vari motivi – l’andare per luoghi deserti, l’amore per la poesia, l’invocazione a Pale … – che Petrar-ca ridispone in questi versi d’esordio. Anche in questo caso (vd. sopra, nota ai vv. 1-2) Petrarca insinua il significato allegorico come una possibilità, in maniera per nulla rigida : nelle chiose dirette a Gherardo egli scrive infatti che Pale è la dea dei pastori, ma « posset apud nos intelligi Maria ». Il che ci rende in ogni caso avvertiti della pregnanza dell’espressione « spes nostra » che ci richiama al Salve regina (« Salve, regina, mater misericordiae, / vita, dulcedo et spes nostra, salve »), la preghiera che alla metà del ‘200 era stata ufficialmente inserita da Gregorio IX a chiudere le preghiere di compieta.

14-15. hic ubi Benacus ... fundit sibi : sul limpido corso del Mincio, che esce dal lago di Garda (Benaco) e bagna Mantova, patria di Virgilio. Vedi Claudiano, Carm. min. xxv, Epith. Pall. et Celerinae 107-108 : « quas Benacus alit, quas excipit amne quieto / Mincius ». Ma vd. anche Virgi-lio, Aen. x 204-5 ; Plinio, Nat. hist. ix 75 ; Isidoro, xiii 19, 7, e, di Petrarca, la bella descrizione del lago tra le montagne innevate che è in Sen. vii 1, 75-6. Per l’agg. vitrea, vd. Virgilio, Aen. vii 759 : « vitrea […] unda », e Stazio, Ach. v 20 : « vitreo sub gurgite ».

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17. nemus : De Venuto, Bonus pastor, p. 50, ne sottolinea giustamente il valore sacrale e iniziati-co (vedi Buc. carm. iv 13). L’opacum nemus anche in Virgilio, Aen. viii 107-8.

– lustra feris habitata : curiosa la corrispondenza con Stazio, Silvae iii 1, 164 : « lustra habitata feris », ignote a Petrarca.

18. mutatamque ... vocem : sedotto sin da fanciullo dalla poesia di Virgilio, Silvio, fatto più grande e sicuro di sé, osa cominciare a comporre cose proprie senza altra guida oltre il suo inarrivabile modello, e costringe la sua voce adulta a cantare qualcosa di nuovo : di nuovo in senso generale, ma anche specifico se vi si legge un riferimento al poema Africa, con il quale intende colmare la mancanza di una degna celebrazione della grandezza di Scipione, come Silvio stesso spiegherà nel suo ultimo intervento, vv. 112-23. Il verbo frangere non va inteso nell’accezione più consueta che ha quand’è unito a vox (una voce ‘franta’, ‘spezzata’, ecc. : in Virgilio, Aen. iii 556, la fracta vox è il fragore delle onde che si spezzano sulla spiaggia, e in Georg. iv 72 corrisponde ai suoni ‘staccati’ della tromba), ma in quella di ‘modulare’, o meglio ‘domare’, ‘rendere obbediente’ alle leggi ritmiche della poesia.

19. fame dulcedine tactus : vedi Africa ii 482-483 : « si dulcedine fame / tangeris ». In De viris : Scipio x 45, questa citazione da Valerio Massimo, viii 14, 5 : « Nulla est tanta humilitas, que dulcedine glorie non tangatur ».

20-28. ecce peregrinis ... uterque coli : a confermare il giovane Petrarca nell’amore e nella dedizione alla poesia, sopraggiunge l’incontro con Omero, del quale sconosciuta è la patria (‘non so da quale vallata’) e diversa la lingua (‘con voce diversa dalla nostra’) ; questo incontro gli permette di confrontare i due poeti, e di constatare quanto Virgilio debba a Omero, senza che ciò smi-nuisca la sua grandezza. A prendere queste parole alla lettera, si dovrebbe pensare che Petrarca abbia potuto leggere Omero assai per tempo, nell’originale greco o in traduzione latina, il che non è vero. Egli non imparò mai il greco, nonostante avesse ricevuto qualche lezione, nel 1342, in Avignone, dal monaco basiliano Barlaam, e riuscì a leggere Omero nella traduzione latina di Leonzio Pilato solo molto tardi, negli anni 1366-1368. Ma proprio il discorso del confronto ci mette sulla via : quando scrive l’egloga, Petrarca conosce Omero solo indirettamente, attraverso le citazioni che ne fanno i latini, e in particolare ricava l’idea del confronto tra i due poeti dai Saturnalia di Macrobio, che dedica all’argomento buona parte della sua opera. Né sarà inutile aggiungere che Petrarca trascrive sistematicamente lunghi passi di Macrobio sui margini del suo famoso codice di Virgilio, l’ Ambrosiano, specie durante le prime fasi della sua annotazione.

22. percussit … animum : così Terenzio, Andria 125.

28. amica : è la fama, per la quale i poeti cantano così come gli altri cantano per la donna amata. Fam. x 4, 27 : « Amica qua uterque dignus dicitur, fama est, propter quam poete, sicut propter amicas suas amatores, canunt » [L’amica della quale entrambi sono dichiarati degni è la fama, per la quale i poeti cantano così come fanno gli innamorati per le loro donne]. Si ricordi che nella Fam. ii 9, 18-20 Petrarca rivendica la verità del suo amore per Laura, contro Giacomo Colonna, il quale, un po’ sul serio, un po’ scherzando, aveva sostenuto che attraverso tale personificazione affatto fittizia il poeta intendeva l’unica cosa che davvero amasse, la gloria poetica : « Quid ergo ais ? Finxisse me michi speciosum Lauree nomen, ut esset et de qua ego loquerer et propter qua de me multi loquerentur ; re autem vera in animo meo Lauream nichil esse, nisi illam forte poeti-cam, ad quam aspirare me longum et indefessum studium testatur » [Cosa sostieni, dunque ? che io ho inventato il bellissimo nome di Laura perché ci fosse di chi io parlassi e perché a causa sua molti parlassero di me ; ma che in verità nel mio cuore non c’è alcuna Laura, se non, probabilmente, la laurea poetica alla quale io aspiro, come dimostra il mio lungo e indefesso studio].

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30-31. mirorque quod ... montes : Fam. x 4, 27 : « Silva horrida et aerii montes quos miratur Silvius non sequi dulcedinem canentium, vulgus incultum est et principes eminentes » [L’orrida selva e i monti aerei che Silvio si stupisce non seguano il dolce canto dei due pastori stanno per il volgo incolto e i principi potenti]. Ma il senso allegorico passa, naturalmente, attraverso il ricordo dei poteri del canto di Orfeo. Vd. Fam. i 9, 7, ove Orfeo va insieme ad Anfione : « nec fabulam Orphei vel Amphionis interseram, quorum ille beluas immanes, hic arbores ac saxa cantu movisse et quocunque vellet duxisse perhibetur, nonnisi propter excellentem facundiam, qua fretus alter libidinosos ac truces brutorumque animantium moribus simillimos ; alter agrestes et duros in saxi modum atque intractabiles animos, ad mansuetudinem et omnium rerum patientiam creditur animasse » [non aggiungerò la favola di Orfeo o di Anfione, uno dei quali si racconta che con il canto traesse a sé le belve feroci, e l’altro alberi e sassi e li portasse dovunque voleva, esclusivamente in virtù della loro straordinaria eloquenza : mediante la forza di tale eloquenza si crede che il primo in-ducesse alla mansuetudine e alla sopportazione d’ogni cosa animi libidinosi e truci, somigliantissmi ai bruti nel comportamento, e il secondo animi rozzi, duri come sassi e intrattabili].

34. ferre gradum : Cassata allega Silio Italico, Pun., xvii 519, nella stessa posizione : « Iuvat in certamina summa / ferre gradum ». Ma per la questione che un tale rimando innesca, vd. avanti, vv. 120-1 e nota.

32-33. ubi … posse aliquid : non appena, raccolte le forze, si sente in grado di realizzare qualcosa di cui non abbia a vergognarsi dinanzi a quei modelli (ma non è ancora così, come i versi che seguono spiegano). L’espressione collectis viribus è in Claudiano, Carm. maiora viii, De quarto cons. Honorii 79, e xvii. Paneg. Manlii Theodori 92.

33-35. soleo de vertice montis ... undique cautes : Fam. x 4, 27-28 : « Descensus e montis vertice ad imas valles et ab imis vallibus ascensus in montes, quem de se ipso loquens Silvius refert, est ab altitudine theorice ad pratice exercitium et e converso pro varietate affectuum alterna digressio. Fons qui canenti plaudit, est studiosorum chorus ; arentes cautes ydiote, in quibus, quasi echo in cautibus, nude vocis est usus et consonans sine discretione responsio » [La disce-sa dalla cima del monte al fondo delle valli e la salita dal fondo delle valli ai monti, di cui parla Silvio a proposito di se stesso, sono l’alterno passaggio dall’altezza della teoria all’esercizio della pratica secondo gli opposti moti dell’animo. La fonte che applaude colui che canta è il coro degli studiosi ; le aride rocce sono gli idioti, sui quali batte la nuda voce e, come l’eco delle rocce, si riflette indietro senza esser da essi compresa]. In altri termini, scendendo a valle, e cioè componendo e proponendo la propria produzione poetica a un pubblico inevitabilmente misto, fatto di una ristretta e colta élite e di un più largo strato di incompetenti, Silvio ottiene in ogni caso grande successo. Si osservi che mentre univoco è il significato simbolico della fonte (vedi v. 10), non lo è altret-tanto quello delle cime montuose : la fama (vv. 8-9) ; i potenti (v. 31), e infine, qui, l’altezza della teoria e in definitiva, come Apollo in Elicona, Omero e Virgilio. Si osservi ancora come i tratti fondamentali del paesaggio richiamino con forza la Valchiusa di tanti altri versi latini di Petrarca.

36. Vox mea … michi : ottiene grande successo, dunque, ma un successo che lo lascia intimamen-te insoddisfatto. Silvio sa che può e deve fare più e meglio, e che molto ha ancora da imparare, a dispetto del plauso gratificante di chi è in grado di apprezzarlo (vd. la nota seguente).

37. Nimphe : Fam. x 4, 28 : « nimphe, dee fontium, sunt divina studiosorum hominum ingenia » [le ninfe, dee delle fonti, sono i divini ingegni degli studiosi]. Si noti che implicitamente Silvio ha già eliminato la parte incompetente del pubblico, quella che non lo interessa (le arentes cautes del v. 35), e l’ha ristretto alla cerchia degli ‘studiosi’ (sopra, la fons, che corrisponde qui alle Nimphe). Ma anche la loro pur gratificante approvazione non gli basta …

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38-39. Dum memini … revertor : ecco il punto, attorno al quale assai finemente Petrarca costrui-sce il mito della propria esigente moralità letteraria. Nel bel mezzo del successo Silvio non può non ripensare alla grandezza di Omero e Virgilio, i due ‘pastori’ che si è scelto quali modelli e maestri, ed è precisamente l’urto tra il successo pubblico e la consapevolezza di quanto sia ancora grande e quasi incolmabile la distanza che lo divide da quei due a scatenare un senso bruciante –il forte « uror » ad apertura di verso- di vergogna. Per flammata mente vd. Silio Ita-lico, x 426 : « Quae postquam accepit flammata Scipio mente » (riscontro non in Cassata : vedi avanti, vd. 120-121 e nota).

41-43. quod collibus ... ether : Petrarca non dà interpretazioni, ma siamo nell’ordine delle idee esposte sopra, vv. 33-35. In particolare, si dovrà intendere che tutto il suo impegno tende a colmare il divario che egli sente tra il successo e l’intima consapevolezza di non meritarlo, che continuamente lo risospinge dal momento della realizzazione pratica e pubblica che pure lo colma di gratificazioni (quello efficacemente rappresentato dalla discesa nella ‘valle’) alla fase ‘alta’ e solitaria della meditazione e della teoria, alla quale sovrintendono quali modelli sommi Omero e Virgilio : è il confronto con loro, insomma, e potremmo addirittura dire che è il loro giudizio l’unica cosa che veramente conta per Silvio, non il plauso altrui.. Sì che il suo obiettivo ultimo è appunto quello di superare quell’intima insoddisfazione e frustrazione, e di comporre finalmente qualcosa di cui non solo il pubblico ma egli stesso possa essere compiutamente sod-disfatto. Nella parte della lettera dedicata al riassunto letterale, infatti, egli compendia questi versi dicendo che l’obiettivo suo è quello di giungere alla perfezione, ad summum, anche a costo di morire : « propositum sibi esse ad summum niti et vel pervenire vel inter nitendum mori » (Fam. x 4, 15). A quel punto, come questi versi esprimono, tutti i conti dovrebbero tornare, e l’approvazione del pubblico, nelle sue diverse componenti, si salderebbe con quella del poeta vero se stesso e con quella dei grandi del passato, ai quali si può pensare alluda il lucidus ether (corrispondente al lucidus polus di Virgilio, Aen. iii 585-586 : vd. anche Marziano Capella, ii 126, 35 : « lucidam usque ad aethram »). In tal caso – nel caso cioè che l’ether valga per gli spiriti di Omero e Virgilio –, si può anche intendere, forse con eccesso di scrupolo, che si ricomponga la coppia fons/cautes (vv. 34-35) nella presente colles/aque, a designare il pubblico, mentre tra quelli e questo sta, finalmente appagato, il poeta stesso (« et michi complaceat »). Per le rauce aque vd. Ovidio, Her. x 26 e xviii 26 : « raucis […] aquis » (App. Virg., Copa 12 : « est crepitans rauco murmure rivus aquae »).

43-44. non rauce … defuerint : la seconda parte dell’espressione significherà che una volta rea-lizzato il proprio sogno di perfezione, da parte di Silvio non verranno certo meno la strenua applicazione teorica e pratica, e la passione che l’ispira, ben riassunte dalla coppia cura – ardor. Ma nell’insieme resta qualche incertezza circa il rauce leve murmur aque. Avendo presente che nel contesto incombe soprattutto l’epica grandezza di modelli quali Omero e Virgilio ai quali dovrà tendere una poesia come quella dell’Africa, come sarà esplicito nel finale, penso che qui Petrarca voglia finemente alludere anche alla sua poesia d’amore, alla quale ben s’addice l’immagine sonora del roco e lieve mormorio delle acque che scendono da quelle stesse ardue cime che rappresentano il sommo dell’arte poetica. In particolare, il ‘tono’ della poesia d’amo-re è richiamato sia dal leve che dal rauce, riferito appunto al suono del lamento d’amore. (Vd. al proposito i cenni di Martin McLaughlin, Struttura e sonoritas in Petraca (‘Rvf ’ 151-60), in Il Canzoniere. Lettura micro e macrotestuale, a cura di Michelangelo Picone, Ravenna, Longo (Lec-tura Petrarcae Turicensis), 2007, pp. 361-382 : pp. 372-374.

45. summa laborum : la stessa clausola in Ovidio, Ex Ponto ii 7, 29, e in Prudenzio, Psych. 769.

46. durum ... limen : la soglia del convento, che Silvio trova ‘duro’, ‘difficile’ oltrepassare. Il du-rum limen anche in Ovidio, Rem. 677, e Fast. v 339. Al proposito, una forte punta polemica verso

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gli ordini religiosi è nella chiosa di Petrarca, Fam. x 4, 28 : « Limen intra quod Silvium Monicus invitat, Cartusiensium ordo est, quem nemo certe deceptus, ut multos ex aliis ordinibus, nemo intrat invitus » [La soglia attraverso la quale Monico invita Silvio a entrare è quella dell’ordine dei Cer-tosini, nel quale nessuno entra ingannato e nessuno contro voglia, come avviene con gli altri ordini].

47-48. tuta … otia : espressione oraziana, Sat. i 1, 31 : « senes ut in otia tuta recedant » (ma anche Marziale, xii 4, 3).

48. Quid frontem obducis ? è un movimento dialogico particolarmente intenso, sottolineato an-che nel riassunto di Petrarca : Monico lascia a mezzo il suo discorso scorgendo sul volto di Sil-vio segni di turbamento e preconcetto rifiuto (Fam. x 4, 16 : « mox ceptum sermonem inexple-tum linquit, quasi signa turbati animi in ore Silvii agnoscens » [Monico lascia a mezzo il discorso incominciato come se scorgesse segni di turbamento sul volto di Silvio]). Pertinente il rinvio a Psalm. penit. vii 12 : « Scio quid me perdidi : nichil eram et supercilium erexi » [So cosa mi ha perduto : non ero nulla ed ho alzato il ciglio]. In realtà, attraverso questa momentanea incomprensione, Petrar-ca segnala l’effettiva sfasatura che è tra i due personaggi, che corrisponde ai due diversi temi dell’egloga. Silvio è ossessionato da quello della gloria poetica, legato a una certa concezione classica della poesia, e sin qui non pensa ad altro ; Monico insiste sul mutamento di vita che il fratello dovrebbe realizzare. La cosa è sùbito evidente nelle successive parole di Silvio (v. 50 : « Non pavor hic animi fuerat »), che significano : ‘non hai capito, non è affatto il pensiero del convento che mi spaventa...’. Ma i due temi stanno per entrare in diretto rapporto dialettico attraverso il confronto che seguirà tra i diversi contenuti della poesia, ove la divaricazione tra la scelta classica e quella religiosa acquista tanto peso proprio perché ha finito per incarnarsi in una scelta di vita – quella che soprattutto sta a cuore a Monico.

51. inamena silentia : quelli del convento. Aggettivo piuttosto forte : in Ovidio, Met. x 11, gli inamoena regna sono quelli infernali, e così gli inamena antra di Africa Vi 39, mentre ibid. iii 244 e 257, coniuge inamena e poi torva di Plutone è Proserpina (vd. avanti, v. 83). Per l’aggettivo, vd. la nota di Pierre Laurens in Africa iii 244, p. 243, con rinvio a Epyst. ii 7, 43-44 : « unde iter ad Sty-gias inamenaque torvi / sceptra ducis » [dove s’apre la via per lo Stige e gli squallidi dominî del loro torvo re ] (cito da F. P., Epistulae metricae. Briefe in Versen, herausgegeben, übersetzt und erläutert von Otto und Eva Schönberger, Würzburg, Könighausen & Neumann, 2004, p. 152). Com’è più evidente nei versi che seguono, attraverso abili tocchi e allusioni Silvio/Pertrarca crea una polarizzazione tra il triste squallore della vita monacale, che coinvolge un giudizio sulla ‘rauca’ e lamentosa poesia davidica, l’irrilevanza delle storia ebraica e l’evocazione dell’inospitale pae-saggio del Giordano, e la nobiltà e la raffinatezza affatto diverse del mondo classico e pagano. Si può ricordare al proposito che Girolamo, poco avanti esplicitamente rievocato da Petrarca nella Fam. x 4 (vd. avanti, nota 61-64), recatosi in Oriente dopo aver mancato l’elezione al papa-to nel 384, si ritirò in una ‘vasta solitudine’ bruciata dal sole « horridum monachis abitaculum prestantem » [che offriva ai monaci un’orribile dimora]. Così Petrarca, De vita solitaria ii 5, 1-2 (p. 440, ed. Martellotti), citando Girolamo, Epist. 22, Ad Eustochium de virginitate, 7.

52. Natura ... usus : frase proverbiale, che riporta qui un altro dei motivi della prima parte del Secretum (vd. F. Rico, Vida u obra, cit., p. 243 nota 380). Si veda Claudiano, Carm. Maiora xvii, Paneg. Manlio Theodoro 185-186 : « nec me, quid valeat natura fortior usus, / praeterit » ; Ago-stino, Conf. viii 15, 12 : « Lex enim peccati est violentia consuetudinis », e Isidoro, Synon. i 43 : « pravus usus vix aboletur, assidua consuetudo in naturam convertitur, assiduo usu in naturam mutatur vitium ». Di Petrarca vedi, con le ampie note di Santagata, Rvf 7, 4 : « nostra natura vinta dal costume » ; 80, 36 : « m’è duro a lassar l’usata via » ; 81, 2 : « l’usanza ria » ; Epyst. i 14, 51 : « funestisque ligat nodis violentior usus » ; Fam. x 3, 26 ; xx 1, 6 ss. ; Psalm. penit. i 23 : « Nunc consuetudo pessima suum vendicat mancipium et inicit manus frustra reluctanti » [Ora la pes-sima abitudine rivendica il suo schiavo e reclama il possesso di chi invano cerca di resistere], con altri

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rimandi nell’ed. a cura di Roberto Gigliucci, Roma, Salerno editrice, 1997, nota p. 64, ecc. (e Buc. carm. viii 74). Ma si veda in ispecie Fam. xxii 10, 7 (già citata nell’Introduzione, nota 2 p. 24, ma che per comodità è opportuno riferire ancora) : « Iamque oratores mei fuerint Ambrosius Augustinus Ieronimus Gregorius, philosophus meus Paulus, meus poeta David, quem ut nosti multos ante annos prima egloga Bucolici carminis ita cum Homero Virgilioque composui, ut ibi quidem victoria anceps sit ; hic vero, etsi adhuc obstet radicate consuetudinis vis antiqua, dubium tamen in re esse non sinit victrix experientia atque oculis se se infundens fulgida veri-tas » [Ormai i miei oratori saranno Ambrogio, Agostino, Girolamo, Gregorio, il mio filosofo Paolo, il mio poeta David che, come sai, molti anni fa nella prima egloga del Bucolicum carmen paragonai a Omero e Virgilio in maniera tale da lasciare in dubbio di chi fosse la vittoria. Ora, anche se s’oppone l’antica forza di una radicata frequentazione, non mi permette più alcun dubbio la mia vittoriosa esperienza e la fulgida verità che m’illumina lo sguardo]. Come si vede, la consuetudo della quale si parla, cioè l’intima frequentazione degli autori classici, è la stessa, ma il giudizio di valore o quanto meno la disposizione d’animo del più vecchio Petrarca (la lettera, a Francesco Nelli, è probabilmente del 1360) si è fatta più circospetta.

54. sileatque mundus ... tumultus : il Secretum si chiude con le parole : « sileat mundus et fortuna non obstrepat ».

55-56. dulcius hic ... pastorem : rovescia gli inamena silentia di Silvio. Questo terzo pastore, dopo Virgilio e Omero, è Davide « cui proprie convenit verbum psallere propter Psalmos, suum opus ; media autem nocte propter matutinam psalmodiam, que illo presertim tempore in ecclesiis vestris auditur » (Fam. x 4, 28 : al quale conviene il verbo ‘salmeggiare’ per i Salmi, opera sua ; ‘a mezzanotte’ per la salmodia mattutina che soprattutto a quell’ora si ode nelle vostre chiese). In convento i Salmi si cantavano a mezzanotte : Petrarca, cominciando il De otio, dice d’aver udito e ammirato « devotum silentium et angelicam psalmodiam », durante il suo soggiorno al convento di Montrieux (De otio i 1, 7, p. 16). Anche il suo ‘ozioso’, la mattina presto, si leva lieto e canta i salmi : « pulsisque torporibus quietis horis psallere incipiens » (De vita solitaria i 2, 2). Un anonimo inno caroligio per l’ufficio notturno dei monaci comincia così : « Nocte surgentes vigilemus omnes, / semper in psalmis meditemur atque / viribus totis Domino canamus / dulciter hymnos » (‘Alzandoci la notte vegliamo tutti insieme : meditiamo sempre sui salmi e con tutte le nostre forze innalziamo dolci canti a Dio’) : in Liber Hymnarius cum invitatoriis […], Solesmes, Abbaye Saint-Pierre, 1983, p. 224. Ricavo la citazione dal denso saggio, al quale rinvio in toto, di Joseph Dyer, The Psalms in Monastic Prayer, in The Place of the Psalms in the Intellectual Culture of the Middle Ages, ed. by Nancy Van Deusen, New York, State Univ. of New York Press, 1999, pp. 59-89.

61-64. Audisti quo monte ... nomine sumit ? : diffusamente Petrarca medesimo, Fam. x 4, 29 : « Fluvii duo uno de fonte, quorum primo quidem Monicus errore decipitur, sunt Tigris et Eufrates, noti amnes Armenie ; fluvius autem unus gemino de fonte, Iordanis est Iudee, quod multi sunt auctores, inter quos Ieronimus, illarum partium sedulus et diuturnus incola. No-mina fontium Ior et Dan, e quibus Iordanis ut flumen sic ipsum nomen efficitur, qui quidem in mare Sodomorum fertur descendere, ubi cinereos campos propter incendia civitatum esse narratur » [I due fiumi con una sola sorgente intorno ai quali dapprima Monico si sbaglia, sono il Tigri e l’Eufrate, noti fiumi dell’Armenia. Il fiume unico che nasce da una doppia fonte è il Giordano, in Giudea, cosa che molti autori affermano, tra i quali Girolamo che in quei luoghi abitò spesso e a lungo. I nomi delle sorgenti sono Ior e Dan, dalle quali deriva il fiume stesso e il suo nome, e si dice che sfoci nel mare di Sodoma, là dove si narra ci siano ancora i campi di cenere provocati dall’incendio della città]. Per la fonte unica del Tigri e all’Eufrate, vd, con François e Bachmann, Boezio, Cons. v 1, 3 : « Tigris et Euphrate uno se fonte resolvunt » ; Dante, Purg. xxiii 112-4 : « Eufratès e Tigri / veder mi parve uscir d’una fontana, / e, quasi amici, dipartirsi pigri », e Petrarca stesso, Rvf 57, 7-8 : « ond’esce / d’un medesimo fonte Eufrate et Tigre ». Circa le due fonti, Ior e Dan, dalle quali nascono

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due fiumi che si uniscono in uno, che da quelle prende il nome di Giordano, che sfocia nel Mar Morto, il ‘mare di Sodoma’, Petrarca, abbiamo visto, rimanda tra altri a Girolamo : per qualche consonanza di espressione, probabile fonte diretta sembra essere il suo Comm. in Ev. Matth. III 16, 13, in Patr. lat. 26, 115 : il fiume « habet duos fontes, unum nomine Jor et alterum Dan, qui simul mixti Jordanis nomen efficiunt » [ha due sorgenti, una con il nome di Jor e l’altra Dan, che unite insieme danno il nome al Giordano] ; ma tra altri vd. anche Isidoro, xiii 21, 18 : « Iordanis Iudaeae fluvius, a duobus fontibus nominatus, quorum alter vocatur Ior, alter Dan » [Il Giordano, fiume della Giudea, così nominato dalle due fonti delle quali una è chiamata Ior, e l’altra Dan ]. In Buc. carm. x 159-61, seppure in modo assai ellittico, Petrarca torna ad accennare a Davide e ai suoi Salmi : « Denique Graiorum latebras, Asieque vireta, / Hebreosque graves et carmine trita minaci / gramina Iordanis … » [Visitando infine le remote sedi dei Greci e i prati verdi dell’Asia e gli Ebrei solenni, e le zolle del Giordano percorso da un canto minaccioso], e Martellotti, del quale riporto la traduzione, osserva, ad loc. : « L’aggettivo minax, riferito alla poesia di Davide, si può spiegare con l’aspetto che in essa ha Dio, in quanto punitore degli empi » (F. P., Laurea occidens. Bucolicum carmen x. Testo traduzione e commento a cura di G. Martellotti, Roma, Edizioni di storia e let-teratura, 1968, pp. 25 e 60-1). Si può aggiungere come la caratterizzazione della poesia davidica e il suo ‘sfondo’non siano poi molto diversi da quelli che sono nella nostra egloga : vd. avanti, v. 69 e 72-74 (onde qui tradurrei « graves » non con solenni, ma piuttosto con afflitti, dolorosi, se non proprio opprimenti : con i tratti, cioè, della loro poesia secondo Silvio/Petrarca). Resta infine da spiegare il curioso errore di Monico, a proposito del quale giustamente François e Bachmann scrivono che « Il est permis de se demander si ce lapsus ne répond pas en realité à une intention trés précise ». La loro risposta è che « voici qu’avec l’avènement du christianisme un fleuve des plus modestes, totalement inconnu des lettrés, éclipse le prestige des deux autres. Selon nous, Pétrarque aurait eu le sentiment d’une inversion complète des valeurs, analogue à celle qui, dans le cœur de Monicus, substitua David à Virgile » (p. 285). Un’altra spiegazione offre ora la Tarantino, Francesco Petrarca, cit., pp. 53-4, « forse complementare più che sostitutiva », secon-do la quale il Tigri e l’Eufrate sarebbero contrapposti al Giordano in quanto fiumi originati nel Paradiso terrestre (Gen. 2, 10-14) : « In tal senso, essi rappresenterebbero il momento in cui, con il peccato di Adamo, l’umanità ha cominciato a divergere da Dio. Per contro il Giordano, in cui, come si ricorda in questa stessa ecloga, Giovanni aveva battezzato il Dio fatto uomo, simboleggerebbe il momento di felice riconvergenza. Ed è una simile speranza che Petrarca sta esprimendo qui con le sue strategie di costruzione del testo, nei confronti della poesia : che con la sua Africa, alla celebrazione della quale è dedicata l’ultima parte dell’ecloga, si potrà operare la convergenza di amore per la poesia d’ispirazione classica e amore per le cose divine ». La pro-posta è interessante, e merita considerazione, ma non mi pare che il disegno dell’egloga preve-da quella ‘convergenza’ della quale toccherebbe proprio all’Africa di farsi garante. Denuncia il problema, semmai, che ancora il Secretum non risolverà (né l’Africa tutt’intera …) : per ciò non posso che rimandare alla diversa lettura che ho dato dell’egloga. Restando a ciò che il testo può più direttamente suggerire entro il gioco delle diverse posizioni di Silvio e Monico, mi sembra probabile qualcosa di diverso, nel senso che Petrarca non mostra di aderire all’eventuale senso recondito di questa ‘sostituzione’, o quanto meno si limita a prenderne atto, sì che alla fine la confusione di Monico manifesta una certa implicita subalternità parodica nei confronti della mitica e letteraria dignità delle sorgenti poetiche della poesia antica, la Castalia, alle pendici del Parnaso, nella Focide, e le due sgorgate dal colpo di zoccolo di Pegaso, Ippocrene e Aganippe, nell’Elicona, in Beozia. Rispetto a tali nobili fonti si direbbe infatti che il Giordano intrattenga (anticipando) lo stesso rapporto che corre, poco avanti, tra Roma e Troia con le loro ‘guerre di re’, e la ‘piccola Gerusalemme’. E la spiegazione offerta da Petrarca, Fam. x 4, 17, infatti, riporta a questa più generale contrapposizione, che interessa buona parte dell’egloga, e con-nota dunque di rozzezza contadina le parole di Monico : « Monicus quasi pastoria ruditate non nomen reddit [di Davide], sed describit patriam et more ruralium sepe in verbis errantium, duorum fluminum mentionem facit uno fonte nascentium, ac statim velut errore recognito, verba prevertit », ecc. [Monico per una sorta di grossolanità pastorale non fa il nome di Davide, ma

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ne descrive la patria e, come fanno i contadini che spesso sbagliano con le parole, nomina due fiumi che nascono da una sola sorgente, ma sùbito, accortosi dell’errore, capovolge quanto ha detto].

65. puer hispidus : Giovanni Battista (vedi Matth. 3, 4). Diffusamente Fam. x 4, 30 : « Puer enim ille hispidus est Iohannes Baptista : puer, inquam, virgo purus innocens hispidus incultus, hirto tegmine, impexo capillo, facie solibus adusta » [Quel giovane ispido è Giovanni Battista : giovane, ripeto, vergine, puro, innocente, irsuto, incolto, coperto di pelli, con i capelli scarmigliati e la faccia bruciata dal sole]. Le spiegazioni di Petrarca accentuano la polarità già ripetutamente osservata nel testo tra le nobili, elette dimensioni del mondo classico e la povera rusticità di quello biblico.

66. apollineos ... artus : le membra di Cristo, dette ‘apollinee’ perché Apollo è figlio di Giove e dio della sapienza. Fam. x 4, 30 : « Apollo autem, filius Iovis, dicitur ingenii deus ; per quem Iesum Cristum accipio, verum Deum verum Dei filium : deum, inquam, ingenii ac sapien-tie, quoniam ut apud theologos notum est, inter attributa personarum summe et individue Trinitatis sapientia Filio attribuitur et ipse sapientia Patris est » [Apollo, figlio di Giove, è definito dio dell’ingegno ; con lui io intendo Gesù Cristo, Dio vero e vero figlio di Dio : dio, ripeto, dell’ingegno e della sapienza, poiché, com’è noto presso i teologi, tra gli attributi della somma e indivisibile Trinità la sapienza è attribuita al Figlio, ed egli stesso è definito la sapienza del Padre]. Per Cristo / Apol-lo, vedi Buc. carm. vi 9 e 128. Ma si ricordi anche il Signore ‘sole di giustizia’ in Malach. 3, 20 (François-Bachmann), onde Fam. vi 5, 13 : « At tu, Criste, sol iustitie ... » e, ancora secondo la topica metafora solare e appollinea applicata alla venuta di Cristo, De ign. 75, p. 226 : Cicerone non ha potuto conoscere il vero Dio poiché pochi anni prima la venuta di Cristo la morte ha chiuso i suoi occhi « quibus e proximo noctis erratice ac tenebrarum finis et veritatis initium, vereque lucis aurora et iustitie sol instabat » [per i quali stava per finire la notte tenebrosa dell’errore e si avvicinava la nuova verità, l’alba della vera luce e il sole della giustizia]. Vd. Béatrice Charlet-Mesdjian, Apollon dans le Bucolicum Carmen, « Studi Umanistici Piceni », xxv, 2005, pp. 137-146. Ma vd. l’Introduzione, per la forte significativa contrapposizione tra il puer hispidus e gli apollinei artus.

67. Felices limphe … ! : lo stesso ‘attacco’ anche in Sidonio Apollinare, Epist. iv 8, 9.

68. si vera loquuntur : espressione comune (Ovidio, Met. xv 773 ; Fast. v 465 ; Ex Ponto ii 3, 7). In clausola, Plauto, Amph. 843 : « si haec vera loquitur » ; Ovidio, Her. xxi 31 : « si vera loquamur ».

69. per cinerum ... undis : si tratta dell’incendio che distrusse Sodoma e Gomorra (Gen. 19, 24). Vd. Ovidio, Met. iii 190-191 : « spargensque comas ultricibus undis / addidit haec ». Anche il paesaggio qui evocato collabora alla polarizzazione della quale s’è detto (vd. sopra, note ai vv. 51 e 65).

70. sidera cantu : la clausola, in Silio Italico, viii 593. Non è in Cassata : vd. vv. 120-121 e nota.

71. licet experiare : vedi avanti, v. 110 (Virgilio, Aen. xi 387 : « experiare licet »). Oltre l’invito ad ascoltare c’è l’invito a riprodurre quei canti : cosa che Petrarca, Fam. x 3, 56 dice al fratello di aver già fatto qualche tempo prima con i suoi Psalmi penitentiales. La loro data è controversa : in genere li si considera vicini al De vita solitaria e al De otio, e dunque 1346-7, ma per Donatella Coppini, che ne ha recentemente dato l’edizione per il ‘Petrarca del Centenario’, Firenze, Le Lettere, 2010, p. 12, si può risalire più indietro : per una più ampia discussione e per la bibliogra-fia relativa vd., della stessa studiosa, Giuseppe de Luca e l’edizione dei “Salmi penitenziali” di Fran-cesco Petrarca, « Archivio italiano per la storia della pietà », ix, 1996, pp. 31-94 ; Petrarca, i Salmi e il codice Parigino Latino 1994 delle “Enarrationes” di Agostino, in Petrarca e Agostino, a cura di Roberto Cardini e D. Coppini, Roma, Bulzoni, 2004, pp. 19-38.

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72-73. parve … Jerosolime : per questa caratterizzazione di Gerusalemme, che implica una valuta-zione generale del ruolo assai modesto ricoperto dal popolo ebraico in una vicenda storica do-minata dalla grandezza di Roma, vd. le considerazioni fatte nell’Introduzione. Per questi e per i versi che seguono, sino a v. 109, vd. Fam. x 4, 31-32, che sommariamente riassume, anche perché non c’è nulla di propriamente allegorico : « Vox autem rauca David et lacrimarum assiduitas et repetitum sepe nomen Ierosolime obicitur propter asperum prima facie et flebilem stilum et quia revera in Psalmis crebra illius urbis vel historica vel allegorica mentio est. Hoc autem loco summatim inseritur de quibus poete quos Silvius preferre nititur, canant ; quod exponere longum est, sed in eo studio provectis omnia clara et aperta sunt. Monicus contradicit excusans daviticam raucitatem et pari breviloquio percurrens de quibus apud illum agitur » [Quanto alla roca voce di David e alle sue continue lacrime e al nome di Gerusalemme tanto ripetuto, tutto ciò è messo avanti per il suo stile che appare a tutta prima effettivamente aspro e lamentoso, e perché nei Salmi si nomina spesso quella città sia in chiave storica che allegorica. A questo punto si inseriscono gli argomenti cantati dai poeti che Silvio preferisce, materia che sarebbe lungo esporre ma che è chiara e ben conosciuta da tutti coloro che coltivano questi studi. Lo contraddice Monico giustificando l’asprezza davidica e riassumendo altrettanto brevemente quali siano gli argomenti da lui trattati].

74. semper habet ... anelat : Silvio ha già limitato a una piccola realtà gli argomenti di Davide ; ora lo limita anche sul piano dell’espressione, e lo nota di sgradevolezza. Per il canto ‘rauco’ vedi Buc. carm. iii 63 ; viii 95 ; x 173 ; per la somma di raucedine e lacrime, Epyst. i 4, 18 : « turtur morientem raucus amicam / dum gemit » ; Secr. i, p. 126 : « raucum murmur et mesta suspiria [del morente] ». Qui si può anche osservare qualcosa di più sottile, ché la presa di distanza di Silvio/Petrarca dalla poesia davidica gioca su qualcosa che non poteva non trovare d’accor-do Monico/Gherardo, e poteva addirittura riuscire a metterlo in difficoltà. Si tratta, com’è abbastanza ovvio, della sovrapposizione e tendenziale identificazione di quella poesia con la vicenda storica degli Ebrei, gravata da una radicale condanna, com’è esplicito, per esempio, nel vicino De otio, ove il semplice ‘cenno di Dio’, « Dei nutu » (vd. avanti, v. 92 e nota) è invocato per sancire la distruzione di Gerusalemme e la cancellazione del popolo ebraico : da quel cen-no, infatti, del quale Tito fu strumento, « urbs eversa funditus ac deleta gens est » (De otio i 4, 116 : ma si veda qui tutto il passo relativo agli Ebrei e alla distruzione di Gerusalemme). E qui ancora, poco avanti, § 118, si condanna la « cervicosa et obstinata Iudeorum cecitas », che rinvia a una postilla di analogo contenuto al Contra Apionem di Giuseppe Flavio : vd. Laura Refe, Le postille, cit., p. 226 n° 142. Su tutt’altro piano, si ricordi anche la scarsa simpatia di Petrarca verso i poeti cristiani della tarda latinità : vedi per ciò Giuseppe Velli, Petrarca e i poeti cristiani, « Studi petrarcheschi », vi, 1989, pp. 171-178.

75. Hi : Virgilio e Omero, contrapposti a Davide.

76. impetus ire : la clausola, in Claudiano, Depr. Ad Hadrianum (Carm. min. xxii) 1, ma è espres-sione ricorrente in Ovidio : vd. Amores ii 5, 46 ; Ex Ponto iv 7, 30 ; Her. iv 38 e v 64. È chiara l’allusione all’‘ira funesta’ di Achille, proprio nel primo verso dell’Iliade, Mh`nin a[eide qea; PhlhiJavdew ∆Acilh`o~ É oujlomevnhn. Al proposito Petrarca postilla sul suo ms. Par. lat. 7880.1, contenente l’Iliade nella versione latina di Leonzio Pilato, f. 1r : « grecus habet ‘iram collectam’, quod apud nos odium sonat » [il greco porta ‘ira accumulata’, che da noi suona come ‘odio’] : vd. Agostino Pertusi, Leonzio Pilato fra Petrarca e Boccaccio. Le sue versioni omeriche negli autografi di Venezia e la cultura greca del primo Umanesimo, Venezia-Roma, Istituto per la collaborazione cul-turale, 1964, p. 205 ; Il codice parigino latino 7880.1. Iliade di Omero tradotta in latino da Leonzio Pilato con le postille di Francesco Petrarca. A cura di Tiziano Rossi, Milano, Ed. Libreria Malavasi, 2003, f. non num. Tale postilla credo si spieghi solo con i chiarimenti forniti a voce da Leonzio (o già anni prima da Barlaam ?), che deve aver illustrato a Petrarca come il termine mh`ni~ per ‘ira’ in luogo del più comune orghv conservi appunto la sfumatura di significato di ‘ira accumulata nel

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tempo’, come spiegava Crisippo, StF 395, 3-4 : « mh`ni~ de; ojrghv eij~ palaijwsin ajpoteqeimevnh », onde Cicerone in un passo direttamente derivato da questo di Crisippo, Tusc. iv 21, definisce l’odio come « ira inveterata », fornendo dunque l’ultimo tassello alla postilla petrarchesca. In generale, per una bella analisi dell’annotazione petrarchesca a Omero e sull’insufficienza della traduzione di Leonzio, vd. V. Fera, Petrarca lettore dell’Iliade, in Petrarca e il mondo greco, « Qua-derni petrarcheschi », xii-xiii, 2002-2003 [ma 2007], pp. 141-154.

78. triplicis ... regni : il cielo, il mare, gli Inferi (vedi Ovidio, Met. v 368).

80. sceptriferum … serena : vedi Buc. carm. xi 24. Si osservi la culta esibizione di composti messa in atto da Silvio, quasi contrapponendosi in re alla povertà della poesia davidica : sceptriferum, e poi tridentiferum, tergeminus, anguicomas. Per il primo, vedi Ovidio, Fast. vi 480 ; Seneca, Medea 59 ; Stazio, Theb. x 51, ecc.

81. tridentiferum : Nettuno, il dio del mare, regno ‘di mezzo’, medium. L’ovidiano tridentiferum, di Met. viii 596, è un apax tanto in Ovidio (che ha tridentigero in xi 202), che in Petrarca. È anche in Sidonio Apollinare, Carm. xxii 158.

82. fuscumque minorem : Plutone, il dio ‘fosco’ del regno più basso, quello degli Inferi. La com-pressa descrizione dell’oltretomba classico che qui comincia e s’estende sino alla metà del v. 88 pone qualche problema, dal momento che i suoi colori cupi finiscono per condizionare l’intera rappresentazione dell’Olimpo pagano, sovrastando anche per numero di versi quanto si dice di Giove e Nettuno. Al proposito, vd. quanto se ne dice nell’Introduzione. Questa concentrata descrizione rimanda alla più ampia ma del tutto affine che è in Africa iii 242-62.

83. torva ... coniunx : Proserpina, coniuge torva anche in Africa iii 257 (vd. sopra, v. 51).

83-88. aterque paludis ...simul Furias : le stesse divinità infernali nel passo appena citato dell’Afri-ca, 255-262, del quale questo è una variante. Il nocchiero è Caronte ; il cane è Cerbero ; le sorelle sono le Parche (vd. Africa i 177-8). L’aggettivo tergeminus è in Virgilio, Aen. iv 509 (Ecate) e viii 201 (Gerione). Vd. anche Properzio, iv 7, 52 ; Ovidio, Ars iii 322 ; Tristia iv 7, 16.

88. anguicomas : nella mitologia, è la Gorgone che ha serpenti per capelli. Vd. Ovidio, Met. iv 697 ; Tristia iv 7, 11-12 ; Stazio, Theb. i 539 ; vi 496 ; xii 639 (ma pure Gautier de Châtillon, Alex. v 238).

– templumque forumque : il passaggio, brusco, a questo altro genere di argomenti è sottolineato dal simul. François e Bachmann, p. 287, osservano : « Après la descente aux enfers, la fin du v. 88 nous ramène, semble-t-il, sur la terre, et cette transition un peu artificielle permet la réfe-rence au monde poétique virgilien, qui est en quelque sorte la cittadelle de Silvius » (vd. la nota che segue).

89. tum silvas ... arma virosque : canonica classificazione delle opere di Virgilio : Egloghe (« silvas ») ; Georgiche (« rura ») ; Eneide (« arma virosque »). Si ricordi che l’Eneide comincia : « Arma virumque cano ... ». Vedi, oltre la famosa miniatura di Simone Martini nel Virgilio Ambrosiano, Buc. carm. iii 157, e De viris ii, 3, Nembroth, 5, p. 38. Per Giovenale, xi 181, altisonus è, direttamente, Virgilio.

91. Hic : Davide.

– turba deorum : in clausola in Tibullo, iii 10, 25 ; Giovenale, xiii 46, e nell’App. Virg., Aetna 62.

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92. celum nutu... almum : anche altrove, in Petrarca. Vedi Rvf 363, 13 : il Signore « che pur col ciglio il ciel governa et folce » ; Tr. Et. 55 : « Quel che ‘l mondo governa pur col ciglio » ; Fam. x 3, 51 : « qui nutu celum terrasque et maria guberno » (è Iddio che parla) ; Fam. xxiii 11, 5 : « frons illa sanctis-sima, cuius nutu celi volvuntur, venti silent, maria conquiescunt ». Il motivo è biblico : Job 26, 11, onde Agostino, De Trin. iii 2 e 5 ; Paolino da Nola, Carm. xvii 129, ecc., ma è anche classico : vd. Virgilio, Aen. ix 106 e x 115 (vd. anche Orazio, Carm. iii 1, 6-8), e deriva da Iliade i 528-530, che nella traduzione di Leonzio, ed. Rossi, cit., f. 8v, suona, sulle orme di Virgilio : « Dixit, et nigris supercilijs annuit Cronides / ambrosie certe come vibrate sunt regis / a potentia immor-tali magnum tremefecit Olimpum »). Nel Virgilio ambrosiano, ii pp. 929-30, a Aen. x 115 Petrarca cita con approvazione, pur omettendo la trascrizione dei versi greci, Macrobio, Saturn. v 13, 23, ove costui, attraverso un bell’aneddoto su Fidia, giudica scadente l’imitazione virgiliana : « Est tamen hoco loco impar translatio Virgili. Homerus enim altius et lucidius absolvit, adeo ut de hoc loquens Macrobius dicat : “Phydias cum Iovem olimpium fingeret, interrogatus de quo exemplo divinam mutuaretur effigiem, respondit archetypum Iovis in his se tribus Ho-meri versibus invenisse. Nam de superciliis et crinibus totum se Iovis vultum collegisse. Quod utrunque videtis a Virgilio pretermissum. Sane concussum Olimpum nutus maiestate non tacuit, ius iurandum vero ex alio Homeri loco sumpsit, ut translationis sterilitas hac adiectione compensaretur”. Macrobius » (F. P., Le postille del Virgilio Ambrosiano, a cura di Marco Baglio, Antonietta Nebuloni Testa e Marco Petoletti, Roma-Padova, Antenore, 2006, pp. 929-930) [In questo passo la traduzione di Virgilio non è all’altezza. Omero, infatti, risuona più nobile e splendente, sì che Macrobio sul punto racconta : “Mentre stava scolpendo la staua di Giove olimpico, fu chiesto a Fidia da quale modello avesse ricavato l’immagine divina, ed egli rispose di averne trovato l’archetipo in quei tre versi di Omero, e di aver ricomposto l’intero volto di Giove dalle ciglia e dai capelli. Ora, voi vedete che questi elementi sono stati omessi da Virgilio il quale, se non tacque dell’Olimpo squassato dalla maestà del cenno di Giove, ricavò il motivo del giuramento da un altro luogo di Omero per compen-sare mediante questa aggiunta la pochezza della traduzione”. Così Macrobio]). Si possono ricordare alcune belle pagine del Foscolo, che passa in rassegna una lunga serie di traduzioni di questi versi omerici, da Virgilio ad Alessandro Verri : Su la traduzione del cenno di Giove. Considerazioni di U. F., in Id., Esperimenti di traduzione dell’Iliade. Parte prima. Ed. critica a cura di Gennaro Bar-barisi, Firenze, Le Monnier, 1961, pp. 59-69. Per i versi che seguono, vd. Virgilio, Ecl. vi 31 ss : « Namque canebat uti magnum per inane coacta / semina terrarumque animaeque marisque fuissent / et liquidi simul ignis ... », ecc., e il passo dei Psalmi penit. citato nella nota che segue. Ma soprattutto l’innologia cristiana, ove l’anafora del qui (qui temperat, … librat … spargit … elicit …, ecc.) è strumento dell’esaltazione della divinità : vedi in particolare Draconzio, De laud. Dei i 704 ss. ; Ennodio, Carm. i 17 ss. ; Eugenio Toletano, Hexaem. 588 ss.

93. Ethera … liquidum : vedi sopra, vv. 41-42. Per l’origine di questi e dei versi che seguono, che oppongono al buio del sottosuolo infernale appena evocato dalle parole di Silvio l’‘emersione’ all’aperta varietà delle bellzze del cosmo, offre un buon riscontro quanto Petrarca scrive nel 1344 circa in Rerum memorandarum iii 74, 6, parafrasando Cicerone, De natura deorum ii 95, ove si immaginano uomini nati e cresciuti in un palazzo sotterraneo : « Hiis ipsis denique sic institu-tis, alioquin humanarum rerum prorsus ignaris, post multum temporis subito in hec loca que incolimus contingat emergere. Dubium non erit quin cernentes celum, terra et maria, nubes quoque celo vagas et ventos et pluvias, ad hec et solem, divine lucis auctorem, dum redit au-roram terris invehere et tempus laborantibus aptum mortalibus, rursus abeuntem quiete nocti silentique cedere, illam vero sidereo ornatu et crescentis semper aut decrescentis lune varietate distinctam, atque hunc mirabilem totius orbis ordinem et hec omnia non fortuito sed certis et immotis legibus agi summa cum ratione, statim sine ulla dubitatione fateantur Deum esse […] » [A costoro così educati e del tutto ignari delle realtà umane tocchi dopo tanto tempo di emergere improvvisamente nei luoghi che abitiamo. Non c’è dubbio che scorgendo il cielo, la terra i mari, le nubi vaganti nel cielo, i venti, le piogge, e ancora il sole, fonte divina di luce, che alla terra riporta l’aurora

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e ai mortali il tempo del lavoro, e poi di nuovo se ne va lasciando il posto alla quiete e al silenzio della notte, e la notte stessa ornata di stelle e costantemente illuminata dalla luna nelle sue fasi crescenti e decrescenti, e l’ordine miracoloso dell’orbe intero, e tutto ciò non governato dal caso ma da leggi certe e stabili secondo una perfetta razionalità : ebbene, non c’è dubbio che costoro dovranno riconoscere che esiste Dio]. A testimoniare la continua presenza del motivo, con il suo forte climax ascendente, vd. in particolre Psalm. penit. iv 3 sgg. : « Tu michi celum et stella (quid enim horum indigebas ?), tu michi vicissitudines temporum creasti. / Tu solem et lunam, tu dies noctesque, tu lucem ac tenebras discrevisti. / Aer opus est digitorum tuorum, serenitatem et nubes tu fecisti et ventos et pluvias. / Terra aquis involvisti, fecisti montes et maria, valles ac planiciem, fontes, lacus et flumina. / Hec intus variis seminibus fecundasti, circum quoque multiplici specie decorasti », ecc. [Tu hai creato per me il cielo e le stelle (che bisogno ne avevi tu ?), tu per me hai creato la successione delle stagioni. / Tu ha separato il sole e la luna, i giorni e le notti e la luce e le tenebre. / L’aria è opera delle tue dita : tu hai creato il sereno e le nubi, il vento e le piogge. / Hai circondato la terra di acque, hai creato monti e mari, valli e pianure, fonti, laghi e fiumi. / Tutte queste cose hai fecondato di semi diversi, e tutt’intorno le hai ornate di varia bellezza …]. Più o meno vent’anni dopo la stesura dell’egloga, Petrarca lo ripeterà ancora una volta dilatandolo ulteriormente nel De ignorantia, 86, p. 232 ed. Fenzi.

94. nives … gelidas : Ovidio, Fast. i 680 ; Claudiano, De raptu Pros. ii, praef. 20.

95. herbis … imbres : la stessa clausola in Carm. laud. Domini 103 : « campis sitientibus imbres » (vedi pure Avieno, Arat. 499).

96. rapidis … flammis : Ovidio, Ex Ponto iv 8, 29 ; Ibis 475. Cassata allega Silio Italico, Pun. i 357 : « trepidum rapidis quatit aera flammis » [scuote l’aria tremante con guizzanti fiamme], e xiv 209 : « hinnitibus aera flammat » [infiamma di nitriti l’aria]. Ma per ciò vd. vv. 120-1 e nota.

97. qui dat sua semina terris : Psalm. penit. iv 7 : « Hec intus variis seminibus fecundasti ».

99-100. addidit artes innumeras : Psalm. penit. iv 16 : « addidisti artes innumeras quibus vita hec foret ornatior » [Hai aggiunto innumerevoli arti per rendere più bella questa vita].

100. geminum ... munus : quello del corpo e della mente.

101. vite mortisque vices : Seneca, Medea 307 : « inter vitae mortisque vices » (Curzio Rufo, Hist. Alex. iv 14, 19 : « breves et mutabiles vices »).

– que rura ... carmina nostri : essenziale compendio dell’Europa cristiana.

104. solida : Seneca rhet., Contr. iii praef. 3 : « vox et dulcis sit et solida ».

110. Experiar : vedi sopra, v. 71.

112. Urget amor Muse : vedi sopra, note al v. 11 e al 12, e Buc. carm. iii 85-86. Il motivo deriva dal già citato luogo di Virgilio, Georg. iii 291-292 : « sed me Parnasi deserta per ardua dulcis / raptat amor » (ma per l’espressione vedi pure Georg. iv 177 ; Ovidio, Medic. 35, ecc.) : e proprio attorno a questi versi Petrarca ha costruito la Collatio laureationis, cioè l’orazione tenuta nell’occasione dell’incoronazione romana, nel 1341.

112-117. quoniam modo litore ... incendere flammis : in pochi versi è delineato l’argomento dell’Afri-ca, il poema al quale Silvio si mostra ansioso di tornare, ed è dunque riproposta la spinosa questione dei tempi di composizione del poema, protratta per lungo tempo e mai conclusa.

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Sommariamente, si può dire che Petrarca l’abbia cominciata a Valchiusa, com’egli stesso rac-conta, intorno al 1338, e che un grosso salto in avanti sia stato fatto sùbito dopo l’incoronazione capitolina, e dunque a partire dalla primavera del 1341, a Selvapiana e Parma : a metà del de-cennio l’opera, che all’autore appare ormai vicina ad exitum, resta però bloccata in uno stato di incompiutezza che non sarà più risolto. I versi dell’egloga rimandano a una terza fase che sembra ormai abbastanza ben individuabile, da porsi appunto a cavallo tra gli anni ’40 e ’50, a ridosso e probabilmente in parte coincidente con la stesura del Secretum. È questa una fase che parte da una evidente crisi del poema ed è guidata da uno scrupolo nuovo di moralizza-zione, per non dire di ‘cristianizzazione’ (che sarebbe forse troppo), di cui è frutto soprattutto la riscrittura dei primi due libri, con il lungo ‘sogno di Scipione’, e le cui ragioni cominciano a emergere nell’egloga e saranno di lì a poco ampiamente discusse nel dialogo con Agostino. Ma la vicenda compositiva non si fermò qui, e in maniera saltuaria proseguì per tutti gli anni ’50, secondo una scansione molto frantumata e difficilmente determinabile. Per la questione e le sue complesse implicazioni, vd. E. Fenzi, Introduzione al Secretum, ed. cit., pp. 23-39 ; Id., Dall’Africa al Secretum. Il sogno di Scipione e la composizione del poema, in Id., Saggi petrarcheschi, Firenze, Cadmo, 2003, pp. 305-364, e le pagine riassuntive di Vinicio Pacca, Petrarca, Roma-Bari, Laterza, 1998, pp. 45-55.

113. sidereum … deorum : Il ‘giovane sidereo’ è Scipione l’Africano (sidereum iuvenem anche in Africa i 115). Quanto all’agg. ‘sidereo’, cioè ‘stellare’ e per estensione ‘divino’ e qui ‘di origine celeste’, normalmente è attributo del cielo (coelum, globus, orbis, motus, ecc.), oppure qualifica lo ‘splendore’, il ‘fulgore’, ecc, ma è anche attributo di Dio (Celio Sedulio, Paschale opus iv 6 : « conditor ille sidereus »). Claudiano l’attribuisce al console Mallio Teodoro (Carm. Maiora xvii, Paneg. Manlio Theodoro 266). Vd. Fam. x 4, 33 : « Et hic quidem iuvenis sidereus dicitur sive prop-ter heroycam virtutem qua maxime viguit, que “ardens” a Virgilio, a Lucano “ignea” virtus dicitur, sive propter opinionem celestis originis, que admiratione viri illius tunc apud Romanos erat » [E questo giovane è detto di origine celeste sia per quell’eroica virtù ch’egli ebbe in massimo grado, virtù che Virgilio definisce ardente e Lucano di fuoco, sia per l’opinione ch’egli fosse di stirpe divina, allora diffusa tra i Romani per l’ammirazione verso un tanto uomo] : le citt., da Virgilio, Aen. vi 130 e Lucano, ix 7, sono anche in Fam. xii 15, 2 e xv 5, 8, mentre per la fama dell’origine divina di Scipione vd. pure Fam. ii 9 6, e ix 11, 5, e in particolare Africa iv 100-26 e vii 78 sgg. Qui è det-to in modo particolarmente pregnante, perché da un lato l’aggettivo richiama quell’alone di divinità della quale Scipione aveva abilmente saputo circondare la sua figura con una serie di comportamenti che avevano favorito la credenza ch’egli fosse effettivamente di stirpe divina (al proposito si veda soprattutto il disincantato ritratto che ne fa Livio, xxvi 19, ripreso dappresso da Petrarca nei primi paragrafi della sua Vita di Scipione), e dall’altro richiama la natura provvi-denziale della sua azione che rende moralmente dovuto e addirittura ‘sacro’ il carme – l’Africa – a lui dedicato, com’è detto poco avanti.

115. Polipheme : Fam. x 4, 32 : Scipione « in litore afro Poliphemum stravit, hoc est Hanibalem Penorum ducem ; sicut enim Poliphemus, sic et Hanibal monoculus fuit post oculum in Italia amissum » [Scipione sui lidi africani sconfisse Polifemo, cioè Annibale, il capo dei Cartaginesi : come Polifemo, infatti, Annibale aveva un occhio solo avendo perduto l’altro nella campagna d’Italia]. An-nibale, infatti, per malattia aveva perduto un occhio in Italia, durante la prima fase della sua spedizione : vd. Livio, xxii 2, 10-11 ; Giovenale, x 159, e Petrarca, De viris xvii, Hanibal 26 ; Africa ii 32 ; De remediis i 60, 4, che per tale menomazione accosta altrove Annibale a Filippo II di Macedonia : Africa viii 337-341 ; Secretum iii, p. 248 ; Tr. Fame ia 121-129. Vedi Giovanni Cipria-ni, Petrarca, Annibale e il simbolismo dell’occhio, « qp », iv, 1987, pp. 167-184, e la nota di V. Pacca ai versi citati del Tr. Fame.

116. lybicos …leones : Fam. x 4, 32 : « Lybici leones, quibus abundare Africam constat, reliqui Car-thaginiensium duces sunt, quos idem victor ad imperio deiecit. Lustra incensa sunt combuste

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naves, in quibus omnis Carthaginiensium spes fuerat, e quibus quingentas sub oculis eorum combussisse illum romana narrat historia » [I leoni libici, che, come si sa, in Africa sono numerosi, sono gli altri generali Cartaginesi che lo stesso Scipione abbattè dal comando. Le tane incendiate sono le navi messe a fuoco nelle quali era riposta tutta la speranza dei Cartaginesi, cinquecento delle quali egli bruciò sotto i loro occhi, come racconta la storia romana] Per le navi bruciate, vedi Livio, xxx 43, 12 ; per i generali cartaginesi come ‘leoni’, vd. Valerio Massimo, ix 3, ext. 2 : « Quam vehemens deinde adversus populum Romanum Hamilcaris odium ! Quattuor enim puerilis aetatis filios intuens eiusdem numeri catulos leoninos in perniciem imperii nostri alere se praedicabat » [Quanto violento fu l’odio di Amilcare verso il popolo Romano ! Guardando i suoi quattro figli ancora ragazzini, diceva di nutrire altrettanti cuccioli di leone per la rovina del nostro impero], donde i quatuor truces leones, cioè i quattro figli di Amilcare : Annibale, Asdrubale, Magone, Gisgone, in Africa, vi 134 (François e Bachmann, ad loc.). Ma vd. pure i Poenos leones in Virgilio, Buc. v 27.

118. Italides … nurus : vd. Africa i 184 : « Heu nuribus trux terra Ytalis ! » [Ah, terra crudele alle spose italiane !].

119. adverso ... a litore : cioè, dai lidi d’Italia, opposti a quelli africani. Fam. x 4, 33 : « Hunc Itali laudant de litore adverso ; est enim africano litori adversum litus italicum non animorum modo discordia sed terrarum situ : directe autem opponitur Roma Carthagini » [Lo lodano gli Italiani dal lido opposto, poiché il lido italico non è opposto a quello africano solo per la reciproca inimicizia ma anche per la posizione geografica : Roma infatti è direttamente opposta a Cartagine]. Ma vd. anche la dilatazione del motivo in Africa i 103-4 : « Natura locavit / se procul adverso spectantes litore gentes, / adversosque animos, adversas moribus urbes, / adversosque deos » [La natura ha col-locato due popoli faccia a faccia, a guardarsi da lontano su opposti lidi, e ne ha fatto opposti gli animi, e opposti i costumi delle loro città, e opposti gli dei].

120-121. Carmine fama ... premia deposcit : Silvio si sente in dovere di celebrare Scipione anche perché non gli risulta di qualcuno che l’avesse già fatto degnamente. Fam. x 4, 34 : « Sed de hoc tam laudato iuvene nemo canit ; quod ideo dictum est quoniam etsi omnis historia laudibus et rebus eius plena sit, et Ennium de eo multa scripsisse non sit dubium “rudi et impolito” ut Valerius ait “stilo”, cultior tamen de illius rebus liber metricus non apparet. De hoc igitur utcunque canere institui, quia scilicet de eo liber meus est qui inscribitur Africa, utinam tam felici exitu claudendus seni quam magno animo ceptus est iuveni » [Ma di questo lodato giovane nessuno canta, e ciò ho voluto dire perché, anche se ogni storia è piena di elogi per le sue imprese, e anche se Ennio di lui scrisse certamente molto “in uno stile rozzo e grossolano”, come dice Valerio Massimo, non esiste tuttavia su di lui un componimento poetico sufficientemente degno. Mi sono dunque proposto di celebrarlo io, per quanto potessi, e proprio di lui tratta infatti la mia opera intitolata Africa, che vorrei felicemente concludere da vecchio con quello stesso entusiasmo con il quale l’ho cominciata da giovane]. Petrarca, come si vede, cita a conferma la testimonianza di Valerio Massimo, viii 14, 1, secon-do la quale Scipione, « rudi et impolito praeconio dignior », avrebbe meritato un poeta meno rozzo, meno inelegante di Ennio (lo stesso giudizio è anche in Ovidio, Am. i 15, 19, e Trist. ii 423). Di qui Rvf 186, 12 : « Ennio di quel [di Scipione] cantò ruvido carme » ; Africa ii 445-446, e iv 38 : « rusticus [...] Ennius » ; Epyst. ii 9, 70 ; Buc. carm. iii 155 : « rudis ille senex » ; Buc. carm. x 182-183 : « ingenio agricolam nulla tamen arte colentem / plana virum video » [vedo quell’agricoltore che coltiva il piano per forza d’ingegno, ma senza arte alcuna], e la nota ad loc. di Martellotti, nell’ed. citata (vedi V. Fera, I sonetti clxxxvi e clxxxvii, « Lectura Petrarce », vii, 1987, pp. 219-243 ; Pa-olo Melandri, Lo “Scipio” di Ennio, Petrarca e i “Nuovi Annales”, « spct », 61, 2000, pp. 5-27). La questione si è fatta tuttavia più complicata, perché è stata insidiata la certezza che Petrarca non conoscesse i Punica di Silio Italico (G. Martellotti, Petrarca e Silio Italico. Un confronto impos-sibile [1981], negli Scritti, pp. 562-578), prima da Carlo Santini, Nuovi accertamenti sull’ipotesi di raffronto tra Silio Italico e Petrarca, nel vol. collettivo Preveggenze umanistiche di Petrarca, Pisa, ets, 1993, pp. 111-139, e poi da Letterio Cassata, Silio Italico in Petrarca, « Filologia antica e mo-

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derna », xv, 1998, pp. 55-97, che ha prodotto una lunga e univoca serie di riscontri tra i Punica e l’Africa, soprattutto, ma anche tra i Punica e il Bucolicum carmen (vd. sopra, vv. 34 ; 38-9 ; 70 e 96) e le Epystolae. La questione attende dunque d’essere risolta, tenendo conto del fatto che non sarebbe cosa da poco, nel caso, il negare la buona fede di Petrarca.

121. pavitans … cepi : l’Africa, condotta a termine ma mai perfettamente terminata, era stata infatti cominciata nel 1338-1339, a Valchiusa. Vd. sopra, vv. 112-7. – pavitans : Virgilio, Aen. ii 107 : « prosequitur pavitans » (è Sinone, che prosegue il suo discorso fingendo una paurosa esitazio-ne). Il verbo non insinua alcun spunto autocritico, ma semmai esprime un reverente timore nei confronti di un argomento così alto.

122. texere : Ausonio, Epigr. 27, 1 : « Licia qui texunt et carmina » [Quelli che intessono stoffe e versi] (vd. Cicerone, ad fam. ix 21, 1 : « epistulas […] texere »).

– tentabo ingenium : la stessa espressione allo stesso proposito, nel proemio dell’Africa, i 60 : « Ingenium temptare libet ».

123. modulabor … parva : Ovidio, Rem. 181 : « pastor inaequali modulatur harundine carmen » [il pastore modula il suo canto con le diseguali canne della zampogna]. Vd. Virgilio, Ecl. 6, 8 e 10, 48.

124. variosque …casus : Ovidio, Tristia i 1, 47, in clausola : « et tot circumspice casus » (i varios casus in Virgilio, Aen. i 204 e x 352).

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composto in car attere dante monotype dalla

fabriz io serr a editore, p i sa · roma.

stampato e r ilegato nella

tipogr afia di agnano, agnano p i sano (p i sa) .

*Gennaio 2013

(cz 2 · fg 13)

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