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13 13 I SENTIERI DELLA RICERCA rivista di storia contemporanea Del Boca Labanca Magnani Scardigli Abbonizio Aguzzi Bassi Fekini Tambone Gandolfo Calchi Novati settembre 2011 EDIZIONI CENTRO STUDI “PIERO GINOCCHI” CRODO P i e r o G i n o cc h i C ro d o C e n tr o S t u d i

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I SENTIERI DELLA RICERCArivista di storia contemporanea

EDIZIONI CENTRO STUDI “PIERO GINOCCHI” CRODO

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I Sentieri della Ricercaè una pubblicazione del Centro Studi Piero Ginocchi, Crodo.

DirettoreAngelo Del Boca

CondirettoriGiorgio Rochat, Nicola Labanca

RedattriceSeverina Fontana

Comitato scientificoMarina Addis Saba, Aldo Agosti, Mauro Begozzi, Shiferaw Bekele, Gian Mario Bravo, Marco Buttino, Giampaolo Calchi Novati, Vanni Clodomiro, Jacques Delarue, Mirco Dondi, Angelo d’Orsi, Nuruddin Farah, Edgardo Ferrari, Mimmo Franzinelli, Sandro Gerbi, Francesco Germinario, Claudio Gorlier, Mario Isnenghi, Lutz Klinkhammer, Nicola Labanca, Marco Lenci, Aram Mattioli, Gilbert Meynier, Pierre Milza, Renato Monteleone, Marco Mozzati, Richard Pankhurst, Giorgio Rochat, Massimo Romandini, Alain Rouaud, Gerhard Schreiber, Francesco Surdich, Nicola Tranfaglia, Jean Luc Vellut, Bahru Zewde

La rivista esce in fascicoli semestrali

Direttore Angelo Del Boca

Editrice: Centro Studi Piero GinocchiVia Pellanda, 15 - 28862 Crodo (VB)

Stampa: Tipolitografia Saccardo Carlo & FigliVia Jenghi, 10 - 28877 Ornavasso (VB)www.saccardotipografia.net

N. 13 - 1° Sem. 2011Numero di registrazione presso il Tribunale di Verbania: 8, in data 9 giugno 2005

Poste italiane spaSped. in a.p. D.L. 353/2003 (Conv. in L. 27/02/2004 n. 46) Art. 1

Prezzo di copertina � 20,00Abbonamento annuale � 30,00Abbonamento sostenitore � 100,00

C.C.P. n. 14099287 intestato al Centro Studi Piero Ginocchivia Pellanda, 15 - 28862 Crodo (VB)causale abbonamento: ISDR

Provincia delVerbano Cusio Ossola Comune di Crodo

Questo volume esce grazie anche al contributo dell’avvocato Anwar Fekini, che con Angelo Del Boca ha fondato in Crodo il Centro di documentazione Arabo-Africano presso il Centro Studi Piero Ginocchi.

Sommario

7 Cento anni in Libia di Angelo Del Boca 19 La guerra di Libia nelle pubblicazioni e negli studi italiani degli ultimi venticinque anni di Nicola Labanca 55 I primi voli di guerra fra letteratura e ideologia di Alberto Magnani 63 Gli ascari operanti in Libia nei materiali dell’archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito di Marco Scardigli 93 Bestie, e umani. Un documento per la storia dei campi di concentramento in Cirenaica di Nicola Labanca

105 Ideologia, cultura, identità: politica culturale e istituzioni artistico-musicali coloniali in Libia di Isabella Abbonizio 131 Il quotidiano italiano di Bengasi al tempo della riconquista di Matteo Aguzzi 161 «L’Avvenire di Tripoli» e la risposta alla crisi del 1929 di Gabriele Bassi

191 La Libye avant le renouveau actuel di Anwar Fekini

205 I Buddenbrook d’Oltremare di Nicolò Tambone

243 Il tesoro archeologico della Libia di Francesca Gandolfo

295 Le visite di Gheddafi in Italia di Giampaolo Calchi Novati

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Cento anni in Libia

di Angelo Del Boca

1. Alle 15.30 del 3 ottobre 1911 le venti navi al comando del vice-ammiraglio Luigi Faravelli aprivano il fuoco sui forti di Tripoli metten-doli rapidamente a tacere. Due giorni dopo, alle 3 del pomeriggio, 1.732 marinai, comandati dal capitano di vascello Umberto Cagni, prendevano terra e occupavano la città, abbandonata dai turchi e dai soldati arabi. Nel proclama ai libici, subito diffuso dal governatore provvisorio, contrammi-raglio Raffaele Borea Ricci, si leggevano le prime paterne bugie: «Voi siete ormai nostri figli. Avete come noi gli stessi diritti di tutti gli Italiani dai quali non è lecito distinguervi. Gridate dunque con tutti i nostri fratelli d’Italia: viva il Re, viva l’Italia».

La guerra contro la Turchia, voluta dai nazionalisti e avallata dal presi-dente del Consiglio Giovanni Giolitti, era cominciata. Sarebbe durata qua-si due anni, con alterne fortune. Ma il bombardamento delle fortificazioni dei Dardanelli e la successiva occupazione del Dodecaneso, insidiando la Turchia più da vicino, la costringevano a firmare la pace di Ouchy, che assegnava all’Italia la sovranità sulle tre regioni della Libia: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. Quest’ultima immensa regione, di difficile accesso, non veniva occupata che nel 1914, in seguito alla spericolata spedizione del tenente-colonnello Antonio Miani, il quale si spingeva all’interno del territorio desertico con pochi uomini e scarsi mezzi.

Lo scoppio della prima guerra mondiale ribaltava la situazione ridando fiducia ai turchi e consentendo agli arabi, sotto la guida del Gran Senusso, di promuovere una grande rivolta. Nel giro di pochi mesi Miani era co-stretto ad abbandonare il Fezzan mentre venivano sgomberati tumultuosa-mente quasi tutti i presidi della Tripolitania. Secondo i calcoli di Vincenzo Giovanni Di Meo, «la tragedia si materializzava in 5.600 morti, in qualche migliaio di feriti, in circa 2.000 prigionieri». Anche le perdite in materiale bellico erano ingenti: 37 cannoni, 20 mitragliatrici, 9.048 fucili, 28.021

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colpi di cannone, 6.185.000 cartucce, 37 autocarri, 14 stazioni radio. Si trattava di un arsenale in grado di armare almeno dieci mehalle. Il disastro libico pareggiava o superava quello di Adua. Ma le sue conseguenze erano di gran lunga peggiori: in effetti l’Italia conservava in Tripolitania soltanto le città di Tripoli e di Homs, assediate da 20 mila ribelli.

2. Nonostante l’abilità e il coraggio di generali come Ameglio, Latini e Cassinis, l’assedio agli avamposti italiani durava per anni, grazie ai continui attacchi sferrati dai più autorevoli capi tripolini, come Suleiman el-Baruni, Mohamed Fekini, Chalifa ben Ascar e Mahdi es-Sunni. È soltanto con la fine della prima guerra mondiale e con l’arrivo a Tripoli di ingenti rinforzi (3 divisioni, 200 cannoni, 40 aeroplani, 700 autocarri), che la situazione cambiava ancora una volta. Ma se era relativamente facile rispedire a casa il contingente turco, ben più difficile era trovare un accordo con gli arabi, che ora pretendevano addirittura di stabilire in Tripolitania la Giamhuriyya et-Trabulsia, ossia la Repubblica di Tripolitania.

Per evitare altri massacri, il governatore Vincenzo Garioni rinviava il già predisposto attacco alle posizioni arabe e accettava di incontrare i delegati tripolini a Khallet ez-Zeitun, dove con essi firmava la pace e uno schema di Statuto, il quale, pur non essendo integralmente democratico, avrebbe potuto ridare la voce ad un popolo a lungo represso e fargli guadagnare qualche decennio nel difficile cammino verso la maturità politica. Purtrop-po gli istituti promessi, a cominciare dal Parlamento locale, non sarebbero mai entrati in funzione in Tripolitania. Lungaggini ed insolvenze avrebbero ben presto mandato in soffitta lo Statuto ed ogni forma di collaborazione.

A metà del 1921, lo Statuto libico si poteva ormai considerare defini-tivamente sepolto. Ancora prima che arrivasse il fascismo, a spazzar via in Libia ogni speranza di libertà e di cooperazione fra le razze, le correnti più tradizionaliste in seno alla liberaldemocrazia tornavano a prevalere e im-ponevano il loro programma di pura e semplice sottomissione degli arabi. Appena giunto in colonia, il nuovo governatore Giuseppe Volpi decideva di occupare Misurata Marina per chiarire ai libici che la «stagione delle chiacchiere sotto la tenda» era finita e che l’Italia tornava ad esercitare in Tripolitania i suoi diritti di potenza occupante.

Con l’avvento del fascismo si assisteva alla graduale rioccupazione del territorio libico. A guidare le operazioni militari erano personaggi di primo piano del regime e dell’esercito, come il quadrumviro Emilio De Bono e

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il capo di stato maggiore generale Maresciallo Pietro Badoglio. Sul ter-reno agiva, fra gli altri generali, Rodolfo Graziani, abile manovratore di reparti eritrei, la cui fama, crescente, associava la reputazione di soldato imbattibile a quella di «macellaio di arabi». Nel 1928 veniva rioccupata integralmente la Tripolitania; nel 1930 il Fezzan. Più ardua la penetrazio-ne nella Cirenaica, dove un genio della guerriglia, il vicario del Senusso, Omar al-Mukhtàr, dava con poche centinaia di uomini filo da torcere ad interi eserciti.

In una famosa e tragica lettera a Graziani, il governatore Badoglio pre-cisava i motivi del fallimento della controguerriglia tradizionale e indicava i nuovi metodi da adottare, anche se severissimi e addirittura catastrofici per i libici: «Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso tra formazioni ribelli e popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione cosidetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla sino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica».

Pianificata da Badoglio e da Graziani, la deportazione di oltre 100 mila abitanti della Cirenaica veniva realizzata tra il luglio del 1930 e il maggio dell’anno successivo. Alcune popolazioni, come quelle della Marmarica, furono costrette e percorrere 1.100 chilometri nella stagione più inclemen-te. «Chi indugiava – recita un documento dell’epoca – veniva immediata-mente passato per le armi. Un provvedimento così draconiano fu preso per necessità di cose, restie come erano le popolazioni ad abbandonare le loro terre e i loro beni».

I deportati venivano infine rinchiusi in quindici campi di concentra-mento nel Sud-Bengasino e, peggio ancora, nel deserto della Sirtica, do-ve la denutrizione, le malattie epidemiche e i tentativi di fuga causavano ingenti perdite. Secondo le stime del commissario regionale di Bengasi, Egidi, in poco più di un anno i reclusi nel lager di Soluch scendevano da 20.123 a 15.830, e quelli di Sidi Ahmed el-Megrun da 13.050 a 10.197. In tre anni, la massima durata dei campi, la popolazione carceraria di-minuiva da 100 mila a 60 mila. Raccontava un recluso nel campo di el Abgheila: «Ogni giorno uscivano dal campo cinquanta cadaveri. Venivano sepolti in fosse comuni. Cinquanta cadaveri al giorno, tutti i giorni. Li contavamo sempre. Gente che veniva uccisa. Gente impiccata o fucilata. O persone che morivano di fame o di malattia».

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Come Badoglio aveva previsto, la deportazione delle popolazioni della Cirenaica causava un fortissimo indebolimento della guerriglia di Omar al Mukhtàr. L’11 settembre 1931 veniva lui stesso fatto prigioniero all’uadi Bu Taga, subito trasferito a Bengasi, sottoposto ad una farsa di processo e immediatamente impiccato nel lager di Soluch, dinanzi a ventimila reclusi. Stroncata la ribellione, liquidati nel 1933 i campi di concentramento, l’an-no successivo Badoglio rientrava in patria e Mussolini nominava come suo successore il ministro dell’Aeronautica e celebre trasvolatore Italo Balbo.

3. Per la prima volta, dopo la finta elargizione degli Statuti libici, un governatore italiano tornava a parlare agli arabi di collaborazione e, a mo-do suo, cercava di realizzarla, mettendo in atto un sostanzioso programma educativo, creando una Scuola superiore di cultura islamica, istituendo una forma di cittadinanza favorevole agli arabi, agevolando infine l’annua-le pellegrinaggio dei libici alla Mecca. Nell’ottobre del 1938, a quattro an-ni dal suo arrivo in Libia, Balbo tracciava questo bilancio: «La coesistenza delle due collettività ha già raggiunto uno stato di armonia e di equilibrio, quale può esserci invidiato da quelle potenze colonizzatrici che ben prima di noi hanno fatto le loro prove nel Nord Africa […]. Noi avremo in Libia non dominatori e dominati, ma italiani cattolici e italiani musulmani, gli uni e gli altri uniti nella sorte invidiabile di essere elementi cosruttori di un grande potente organismo, l’Impero Fascista».

Ma Balbo non intendeva soltanto distinguersi dai suoi predecessori, invitando al dialogo gli abitanti della Libia e cercando di strapparli alla loro arretratezza. Aveva anche fretta di costruire, di lasciare traccia peritura del suo passaggio, con opere, come la litoranea Balbia, che collegava con i suoi 1.822 chilometri il confine con la Tunisia con quello dell’Egitto. Ma non tutte le realizzazioni di Balbo avranno il pregio di essere bene accolte dai libici.

I risultati della colonizzazione demografica, tanto esaltati dal regime, non potevano essere apprezzati dai contadini arabi, i quali si vedevano relegati sui terreni meno produttivi. In realtà, tutta la terra migliore ve-niva sottratta ai libici e passata ai 30 mila coloni italiani giunti in Libia nel 1938-39 e sistemati in decine di villaggi costruiti a spese dello Stato. «I beduini sono convinti che Balbo intenda distruggerli con la frode, così come Graziani ha cercato di distruggerli con le mitragliatrici e le bombe», commentava il celebre antropologo inglese Evans Pritchard.

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In effetti, se è vero che con Balbo gli arabi cominciavano a ricevere qualche assistenza nei campi sociale, sanitario e scolastico, ed erano inco-raggiati a rendere meno arcaica la loro agricoltura, era anche vero che di terre agli arabi ne distribuì poche, e quelle poche più per rispondere alle critiche e per motivi di propaganda che non per un piano ben determi-nato. In pratica, venivano riservati alla colonizzazione araba 1.393 ettari, pari ad una trecentesima parte della terra assegnata agli italiani. Lo scoppio della seconda guerra mondiale avrebbe impedito anche questa modesta as-segnazione e mandato in rovina anche l’intera colonizzazione demografica. Il deserto si sarebbe riappropriato dei bianchi villaggi agricoli e dei sogni dei suoi innocenti abitanti.

4. Con la guerra se ne sarebbe andato per primo Italo Balbo, abbattuto

dalla nostra stessa antiaerea. Poi sarebbe stato clamorosamente sconfitto Rodolfo Graziani ed infine lo stesso genio della guerra Erwin Rommel sarebbe stato battuto ad El Alamein, provocando una disastrosa ritirata che si sarebbe conclusa soltanto in Tunisia. Con la Libia, l’Italia avrebbe perso nel febbraio del 1943 l’ultima sua colonia, che passava, per otto anni, sotto l’amministrazione britannica. Il 24 dicembre 1951, infine, nasceva il Regno Unito di Libia sotto la guida di re Mohammed Idris el-Mahdi es-Senussi, il quale accettava l’incarico non per ambizione, ma per dovere e per le pressioni esercitate su di lui dalla Gran Bretagna.

Per la comunità italiana di Libia, il regno di Mohammed Idris aveva inizio nell’incertezza e nell’inquietudine. Estromessa totalmente dalla gui-da del paese, esclusa per sempre dalla vita politica, essa viveva per alcuni anni in una sorta di limbo, in attesa che un accordo italo-libico ne definisse la sorte. In questo clima di indecisione, molti coloni abbandonavano le lo-ro proprietà e rientravano in Italia. I primi villaggi a spopolarsi erano quelli di Marconi e Tazzoli. Poco dopo la sabbia del deserto, non più trattenuta dalle siepi, cominciava a ricoprire i campi, invadeva le aie, penetrava nelle case coloniche, e nel cielo le pale degli aeromotori giravano a vuoto, con un cigolio sinistro.

L’accordo italo-libico giungeva in ritardo, nel 1957, quando ormai la comunità italiana, che all’inizio degli anni cinquanta contava ancora 45 mila unità, si era ridotta a 27 mila. L’accordo prevedeva che l’Italia avrebbe versato alla Libia la somma di 2.750.000 lire libiche (pari 4.812.500.000 lire italiane). I libici avrebbero voluto che questa somma fosse stata erogata

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per compensare i danni di guerra e quelli causati dalla lunga dominazione coloniale. Causale che gli italiani si rifiutavano di riconoscere. Essi ver-savano invece la somma «quale contributo alla ricostruzione economica della Libia». Con questo gretto artificio l’Italia repubblicana e democratica decideva pertanto di coprire gli errori e le responsabilità dell’Italia fascista.

Alla metà degli anni sessanta la comunità italiana, dopo aver goduto un periodo abbastanza soddisfacente, tornava a piombare nell’inquietudine. In Libia la tensione raggiungeva il livello di guardia. Lo stesso re Idris si rendeva conto che non poteva continuare a praticare la sua politica di aper-ture progressiste e di brusche virate conservatrici. Scontenti del regime non erano più soltanto gli studenti, i sindacalisti e gli aderenti ai nuovi elementi panarabi, ma molti fra gli stessi ufficiali dell’esercito, specie di grado infe-riore. A rendere ancora più turbolenta la situazione era il precipitare della crisi arabo-israeliana in un nuovo e aperto conflitto armato. Il 2 giugno 1967 nelle moschee libiche gli ulema cominciavano a proclamare la guerra santa. Tre giorni dopo, quando la radio annunciava che l’esercito israeliano aveva aperto le ostilità, la popolazione di Tripoli scendeva in piazza. An-davano in fiamme un centinaio di negozi di italiani e 17 ebrei restavano uccisi. Veniva saccheggiato e poi bruciato anche il Circolo Italia. I tempi, in Libia, erano ormai maturi per un cambiamento radicale.

5. Ad approfittare dello scontento e dell’incertezza erano gli Ufficiali

Liberi, che alle 2.30 del 1° settembre 1969 mettevano a punto l’«Opera-zione Gerusalemme», che consentiva loro, senza spargere sangue, di assu-mere in poche ore il potere. E subito dopo un oscuro capitano Muammar Gheddafi leggeva alla radio di Bengasi un proclama che diceva, fra l’altro: «Le tue forze armate hanno distrutto il regime reazionario, retrogrado e decadente. D’ora in avanti la Libia sarà considerata una libera repubblica sovrana, porterà il nome di Repubblica Araba Libica, e con l’aiuto di Dio ascenderà alle più alte sfere».

Il giovanissimo capitano (27 anni) era esattamente l’opposto del vec-chio sovrano. Sapeva ciò che voleva e lo voleva intensamente, senza un attimo di indecisione. Nel giro di un anno dava il benservito ad inglesi e americani sloggiandoli dalle loro basi militari di Wheelus Field, di Tobruk ed Elem Aden. Come seconda mossa, otteneva dalle compagnie petrolifere che agivano da anni sul territorio libico una percentuale più equa sugli introiti del petrolio. Vinta la battaglia delle basi militari e quella contro i

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petrolieri, Gheddafi preparava quella contro la comunità italiana, la quale, per quanto ridotta, era ancora troppo attiva e ingombrante per non ricor-dare gli anni oscuri del colonialismo.

Il 21 luglio 1970 Tripoli promulgava tre leggi di importanza capitale, che prevedevano la confisca di tutti i beni degli italiani e degli ebrei e l’immediata espulsione di tutti i membri delle due comunità. La sanzione comportava la cacciata di circa 20 mila italiani e l’incameramento totale dei loro beni, valutati in 200 miliardi di lire. Era così radicale l’atteggia-mento dei libici, che il governo italiano era costretto a provvedere al reim-barco anche delle salme di 20.492 soldati caduti in Libia, compresa quella di Italo Balbo.

Nonostante l’aspetto violento della cacciata e l’entità dei beni «recu-perati», Gheddafi non riteneva affatto chiuso il contenzioso con Roma. Giudicando l’indennizzo versato a re Idris assolutamente risibile, obbligava la Farnesina ad aprire con Tripoli nuovi negoziati, che si sarebbero protratti per più di trent’anni senza esito alcuno. Ma il colonnello non si scompo-neva, sapeva aspettare. Non si indignava quando ascoltava la ormai logora battuta «abbiamo già dato» e neppure quando gli offrivano modesti risarci-menti, come la costruzione di un ospedale o la bonifica dei campi di mine. E non chiedeva soltanto beni materiali, ma una precisa parola di condanna per gli orrori della notte coloniale. Con pazienza e metodo, ogni anno, in ottobre, nei giorni dello sbarco giolittiano a Tripoli, Muammar Gheddafi ripescava l’argomento dei risarcimenti e ricordava all’Italia il suo debito.

Con Gheddafi abbiamo vissuto quarant’anni facendo eccellenti affari, comprando un terzo del petrolio necessario, ma sfiorando però anche la guerra. Merito e colpa di Gheddafi: un personaggio estremamente com-plesso, oggi promotore di una terza teoria internazionale e domani terro-rista a livello planetario; ora costruttore di alleanze di stampo continentale ed ora delicato narratore di favole moderne. Uomo di pace, ma più spesso di guerra. Vanitoso sino al ridicolo, ma dalla memoria inesausta. Sincero sino al punto di confessarmi, nel corso di una intervista concessami a Tri-poli nel 1996, che il suo Libro Verde, stampato in milioni di copie, non era stato apprezzato dai libici: «Sono certamente deluso. I princìpi contenuti nel Libro Verde sono ovviamente dei princìpi utopistici. Se però la mia gente li avesse adottati, oggi vivremmo in un mondo più felice, più verde. Ma è difficile, con la gente di oggi, conseguire tali risultati. Di conseguenza il nostro mondo è ancora, purtroppo, di colore nero. Veda i quotidiani

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scempi della natura, le quotidiane tragedie».Difficile andare d’accordo con un personaggio di questo livello. Per

alcuni decenni i politici italiani lo hanno sottostimato, criticato, a volte deriso. Soprattutto non hanno pronunciato quella parola di condanna del colonialismo che Gheddafi voleva ascoltare. È soltanto alla fine degli anni novanta dello scorso millennio che uomini di governo come Lamberto Dini e Massimo D’Alema compiono il passo tanto atteso, che prelude a trattative serie, che andranno finalmente in porto nel nuovo millennio.

Il 30 agosto 2008, a Bengasi, viene firmato un trattato di amicizia, par-tenariato e cooperazione fra Roma e Tripoli, che porta le firme di Muam-mar Gheddafi e di Silvio Berlusconi. Costituito da 23 articoli, il trattato prevede il versamento, in venti annualità, da parte dell’Italia, di 5 miliardi di dollari, con i quali verrà realizzata una nuova e più ampia via Balbia, da Ras Ideir ad Assoloum. Il 2 marzo 2009 il trattato viene ratificato dinanzi al Congresso Generale del Popolo libico riunito a Sirte. Nel corso della ce-rimonia il presidente del Consiglio Berlusconi dichiara: «Ancora una volta e formalmente accuso il nostro passato di prevaricazione sul vostro popolo e vi chiedo perdono». Replica Gheddafi: «Accettiamo le scuse dell’Italia per l’occupazione colonialista, e prego tutti i libici di vincere i risentimenti e tendere la mano ai loro amici italiani in un rapporto paritario, di rispetto reciproco».

Si chiude così, dopo un secolo, la nostra sciagurata avventura in Libia. Abbiamo pagato, molto salato, il prezzo dei nostri errori, che non sono pochi. Basta fare due calcoli e ci accorgiamo che abbiamo ucciso, «sulla quarta sponda», più di 100 mila libici, vale a dire un ottavo dell’intera popolazione. Che Gheddafi ci abbia tenuto, per così lungo tempo, una implacabile ostilità, è più che ragionevole. Oggi, però, è stato ampiamente ripagato sia dal punto di vista materiale che morale, e il colonnello lo ha ammesso in più occasioni. Ma quanto vale una vita umana? Quanto valgo-no 100 mila cittadini libici? C’è un prezzo?

Tutto finito, allora? Nessun conto in sospeso? Fra Roma e Tripoli l’inte-sa è totale? Non si direbbe. Il trattato è stato dalle due parti ratificato, i pa-gamenti seguono un normale corso, e persino l’afflusso degli africani sulle rive di Lampedusa è notevolmente diminuito. Ma qualcosa non funziona al vertice della Giamahirrya, perchè la Libia non è una democrazia. Per quanti sforzi faccia uno dei figli di Gheddafi, il plurilaureato Seif el-Islam, per dare al suo paese una Costituzione liberale ed avviarlo tra le nazioni

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progressiste, la Libia di oggi è un paese autocratico, che non rispetta i di-ritti umani, riempie le carceri di oppositori politici e gestisce in maniera feudale le immense ricchezze del petrolio. Nel trattato di Bengasi non c’è (non poteva esserci) una richiesta formale di democrazia. Anche perchè il nostro Paese, in questo preciso momento, non ne abbonda.

6. Poi, all’improvviso, a porre in discussione la stabilità del regime au-toritario di Gheddafi, non era il figlio liberale Seif el-Islam e tantomeno la fragile democrazia italiana, ma l’imprevista rivolta dei giovani arabi che mettevano a soqquadro Tunisia, Egitto, Algeria, Siria, Yemen, provocando la caduta dei governi di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto. Per un effetto domino anche la Libia subiva le conseguenze di questa rivolta, an-che se i risultati erano molto diversi e non provocavano l’immediata caduta della dittatura di Gheddafi.

In Libia le prime manifestazioni di violenza si verificavano princi-palmente in Cirenaica, fra Bengasi e Tobruk, e nel giro di una settima-na l’intera regione riusciva ad eliminare ogni presenza delle forze lealiste e a costituire un Consiglio nazionale libico di transizione. Del resto la Cirenaica, dove è ancora forte l’influenza della Senussia, la confraternita politico-religiosa che ha espresso re Idris, deposto da Gheddafi, è sempre stata una spina nel fianco del rais e non è nuova a movimenti di ribellione.

Sacche di rivolta si manifestavano però anche in Tripolitania, soprattut-to nelle città di Zavia e Misurata, brutalmente represse dalle forze di Ghed-dafi, che disponevano di un forte numero di carri armati, di artiglieria pe-sante, di missili e di cacciabombardieri. L’entità del conflitto e la presunta necessità di proteggere i civili autorizzavano il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a promulgare la risoluzione n. 1973 che accordava ad una coalizione internazionale, capeggiata da Stati Uniti, Francia e Gran Breta-gna, di intervenire militarmente in Libia, con operazioni di no-fly zone. Ma dopo due mesi di massicci bombardamenti aerei e di lancio di missili da parte delle navi, risultava distrutto soltanto il 30 per cento del dispositivo bellico di Gheddafi, e si cominciava a pensare di risolvere radicalmente la questione impiegando anche forze di terra.

Dinanzi a ciò che accadeva in Nord-Africa, e soprattutto in Libia, a partire dal 17 febbraio 2011, l’atteggiamento del governo italiano era un misto di stupore e di sconcerto. Colto di sorpresa, il premier Berlusco-ni giudicava inopportuno disturbare il colonnello Gheddafi e lasciava al

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ministro degli Esteri Frattini e a quello della Difesa La Russa il compito di superare il primo disorientamento. In effetti la posizione dell’Italia era particolarmente difficile, tenuto conto che il trattato bilaterale firmato a Bengasi nell’agosto 2008 comprendeva fra l’altro una clausola di non ag-gressione e una di non ingerenza.

La prima mossa italiana fu quella di dichiarare congelato il trattato di amicizia e cooperazione con Tripoli, confidando con questo atto di rimuo-vere un grave ostacolo e, di conseguenza, di poter agire liberamente nei confronti di Gheddafi. Ma il blocco del trattato era di nessuna validità in quanto unilaterale e non deciso dalle due parti. Dopo questo iniziale in-fortunio, la condotta del governo italiano si caratterizzava per una costan-te incertezza, tanto da essere giudicata ondivaga. Se da un lato sembrava allinearsi con i sedici paesi della coalizione decisamente ostili al regime di Gheddafi offrendo l’utilizzo di sette basi e partecipando alle ostilità con un forte numero di cacciabombardieri, dall’altro rivelava una singolare prudenza poichè ai nostri Tornado era vietato sganciare ordigni contro le posizioni libiche.

Meglio sarebbe stato, per l’Italia, se si fosse defilata come aveva fat-to la Germania della Merkel. I suoi antichi e stretti legami con la Libia avrebbero giustificato questa decisione, certamente meno criticabile del vago, incerto, equivoco coinvolgimento in Odyssey Dawn. Poichè adesso ci troviamo in una pessima situazione, quella di ripetere, a cento anni di distanza, l’aggressione ad un paese sovrano. Anche se la guerra contro il regime di Gheddafi è contrabbandata come un’operazione «umanitaria» e trova dei difensori del livello del filosofo Bernard-Henri Lèvy, in realtà si tratta di un intervento dalle precise connotazioni neo-colonialiste. Va anche detto che da questo confronto l’Italia è destinata a ricavare soltanto degli svantaggi, come si è già visto quando si è trovata sola ad affrontare il problema degli sbarchi dei profughi dalla sponda africana.

Un’ultima osservazione. Il colonnello Gheddafi ha immense respon-sabilità, soprattutto nei riguardi del suo popolo, al quale ha negato per decenni il rispetto dei diritti umani ed una giusta ridistribuzione degli in-troiti del petrolio, ma quando, in un discorso pronunciato nel suo ridotto di Bab el Azizia si è scagliato contro l’Italia tacciandola di tradimento, è difficile dargli torto. Poiché il capo di Stato che è stato accolto in Italia per ben quattro volte e con tutti gli onori, è lo stesso capo di Stato che oggi l’Odyssey Dawn ha bloccato nella sua fortezza, lo ha ripetutamente bom-

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bardato, con la precisa intenzione di eliminarlo. Ad alcuni mesi dall’inizio delle operazioni militari in Libia è sempre

più chiara la sensazione che ci troviamo di fronte ad una guerra inutile e sbagliata. E visto che l’opzione militare ha rivelato tutti i suoi limiti, si par-la ormai chiaramente di adottare una soluzione politica, giudicata anche nella dichiarazione finale del convegno di Doha come «il solo mezzo per portare una pace durevole in Libia». Scrive, dal canto suo, Lucio Caraccio-lo: «La guerra in Libia merita di essere studiata come esempio di collasso dell’informazione. Abbiamo iniziato una campagna militare sulla base di notizie spesso manipolate se non del tutto false. Ora non sappiamo come uscirne. L’unica certezza è che le prime vittime della “guerra umanitaria” costruita dalla disinformazione sono i libici che pensavamo di salvare dalla morsa di Gheddafi».

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La guerra di Libia nelle pubblicazioni e negli studi italiani degli ultimi venticinque anni

di Nicola Labanca

Una traduzione che ha atteso novant’anni

Nel 1913 Pierre Loti vide la Turchia agonizzante e, nella sua passio-ne orientalista, decise di combattere letterariamente l’occupazione italiana della Libia e le guerre nazionali balcaniche1. Qualcuno osservò che, da ex-ufficiale di marina francese, la sua critica a quella che in Italia si chiamava ancora la guerra italo-turca e che poi divenne la guerra di Libia era scon-tata: la Francia non vedeva di buon occhio il rafforzamento mediterraneo dell’Italia. Inoltre egli sembrava sposare la causa della Turchia quale egli si immaginava, non della Turchia quale essa era effettivamente. Ma se qui ricordiamo il libro di Loti non è per parlare della Turchia o della Francia, ma per riflettere sul fatto che esso è stato tradotto in italiano solo nel 2000. Questo spiega quanto a lungo è durata in Italia una visione nazionale della guerra italo-turca di Libia.

La vicenda della traduzione italiana del libro di Loti farebbe pesare che solo a distanza di quasi novant’anni, solo quando fra Italia e Libia le relazioni sono migliorate (nonostante l’embargo imposto alla Giamhiriya fra 1988 e 1999-2003), è stato possibile superare il vecchio nazionalismo. Ma vi è proprio coincidenza fra i tempi della politica e i tempi della ricerca storica? Che i primi influenzino i secondi potrebbe sembrare se solo do-po la grande decolonizzazione, e piuttosto curiosamente solo dopo che in Libia si è affermato un regime fortemente nazionalistico e che ha fatto un forte uso politico della storia, in Italia è stato possibile scrivere una nuova storia della guerra. Più in particolare, è solo negli ultimi venticinque anni, quando i rapporti italo-libici sono sostanzialmente migliorati, che gli studi italiani si sono infittiti e rinnovati.

La relazione fra i tempi della politica e i tempi della scrittura storica non è mai meccanica e diretta. Ma è certo che solo oggi l’Italia non guarda

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più con imbarazzo alle critiche di Loti.Non mancano riflessioni generali sul percorso e sullo stato odierno del-

la storiografia italiana sulla Libia2. Esse ci ricordano che, a schematizzare molto, il secolo di studi storici italiani sulla guerra di Libia è trascorso in cinquant’anni di immagini coloniali (1911-1961), venticinque anni di demolizione e di decolonizzazione di quelle immagini (1961-1986), e altri venticinque anni (gli ultimi, 1986-2011) di rinnovamento degli studi e di parziale costruzione di nuove immagini. Di quest’ultimo venticinquennio e in specifico degli studi sulla guerra di Libia manca invece un bilancio sto-riografico, in particolare a partire da quando – alla metà degli anni ottanta – nuove storie generali del colonialismo e della presenza italiana in Libia erano state scritte3. Per le ragioni sopra esposte, fra storia coloniale e storia nazionale, fra storia d’Italia e storia internazionale, un bilancio pare quindi opportuno anche perché permette di cogliere continuità e cambiamenti in questa area degli studi storici italiani.

Nomi e date

Intanto, di cosa stiamo parlando? E per quale periodo? Non di rado le definizioni e le cronologie trascinano con sè un’interpretazione.

Dall’altra parte, dalla parte libica, negli ultimi anni la definizione ha oscillato fra ‘al-harb al-itali’, la guerra italiana, cioè contro gli italiani, e ‘al-jihad’, la guerra di resistenza. La prima locuzione sembra più denotativa o semplicemente descrittiva, la seconda più connotativa e valutativa. Altri arabisti potranno e dovranno specificare meglio.

Da parte italiana, invece, si è oscillato a lungo fra ‘guerra italo-turca’, ‘impresa di Tripoli’, ‘campagna di Libia’ e appunto ‘guerra di Libia’. Sem-brano sinonimi, e possiamo per semplicità utilizzarli come tali, ma rac-chiudono sfumature diverse.

La ‘guerra italo-turca’ rinvia in effetti allo stato di guerra fra Roma e Costantinopoli, al momento legittima proprietaria delle due province afri-cane della Tripolitania e della Cirenaica. Sembrerebbe diplomaticamente e formalmente più adatta, per lo meno sino alla pace di Ouchy dell’ottobre 1912, se non fosse che finisce per ignorare che lo scontro per il controllo della ‘Libia’ andò molto al di là del 1912 e soprattutto che, a parte qual-che centinaio di ufficiali turchi, l’avversario italiano più consistente fu la resistenza popolare libica. Per certi versi, relativamente al 1911-12, appare

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anche più esatto visto che le ostilità non furono solo in Africa ma anche, ad esempio, nel Dodecaneso negli Stretti. ‘Campagna di Libia’ era invece un termine più militare, meno diplomatico, più esatto circa l’avversario da piegare per controllare il territorio, una volta che le ostilità con la Turchia erano cessate: il suo carattere militare era annidato nel fatto di non voler parlare di una vera e propria guerra, ma appunto solo di una ‘campagna’, di una serie di operazioni militarie più circoscritte, come si addiceva non ad una guerra vera e propria ma ad una spedizione coloniale, ad una cam-pagna appunto. (È da notare poi una qualche distinzione definitoria operò anche fra militari e fra forze armate: al 1913 sia la marina sia l’esercito si riferivano allo stesso conflitto nei termini di ‘guerra italo-turca’; già ne-gli anni venti però emergevano i distinguo, con la marina che insisteva sulla ‘guerra italo-turca’ mentre l’esercito parlava ormai ufficialmente di ‘campagna di Libia’: una distinzione che forse oggi sembra essere abban-donata4.) ‘Impresa di Tripoli’, il titolo ad esempio di un importante volu-me di Gioacchino Volpe, ebbe una fortuna minore. Aveva però un che di eroico, come d’intrapresa difficile, e si ricollegava ad altre precedenti come l’‘impresa di Massaua’, sinonimico dell’intera prima fase dell’espansione coloniale in Eritrea, e al tempo poteva sembrare anche più precisa, perché – nell’ignoranza generale degli affari africani – molti avrebbero considera-to la Tripolitania il vero obiettivo della guerra, ritenendo (erroneamente, come avrebbero dovuto ammettere) che Bengasi e la Cirenaica sarebbero cadute da sé una volta preso appunto Tripoli.

Su tutte queste definizioni si affermò invece in Italia quella di ‘guerra di Libia’. Si affermò presto anche presso gli oppositori (Come siamo andati in Libia5, recitava un titolo importante in quegli anni) sia perché sembrava richiamare il passato romano (con la sua Libya e i suoi Libyes) sia perché indicava senza infingimenti qual era l’obiettivo italiano: non tanto battere la Turchia, non solo prendere Tripoli, ma appunto perché alla Libia tutta si voleva arrivare. È, quello di chiamare una battaglia o una guerra non con il nome dell’avversario o del luogo dove essa sia stata effettivamente com-battuta, un’antica abitudine nazionalistica (ad esempio, nella storia italiana di quei decenni, per il 1895-1896 si affermò la dizione né di ‘guerra italo-etiopica’ né di ‘battaglia di Abba Garima’ ma di ‘battaglia di Adua’, dal nome della città santa etiopica Baratieri voleva arrivare ma mai arrivò – se non addirittura esagerando ‘guerra d’Africa’) e spiega bene la fortuna della denominazione. Certo, va adottata con consapevolezza, per evitare quel

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tanto di nazionalismo che le è legato.Oltre al nome si dovrebbe questionare anche la cronologia. Il procedi-

mento di decostruzione sarebbe analogo e collegato a quanto già detto per la denominazione, ma imporrebbe più spazio. Basterà qui osservare che le date 1911-12 vanno bene al massimo per la ‘guerra italo-turca’ e forse per l’‘impresa di Tripoli’. Ma per la ‘campagna di Libia’ e ancor più per la ‘guerra di Libia’ si dovrebbe andare ben più avanti, sino al 1931.

Tutto ciò detto, useremo nelle pagine seguenti la definizione e la cro-nologia entrate nell’uso comune rispettivamente di ‘guerra di Libia’ e di ‘1911-12’ perché praticamente nessuno degli autori (a parte Salvatore Bo-no, su una cui proposta definitoria torneremo in chiusura) e dei testi esa-minati in questa rassegna si sofferma in queste considerazioni preliminari. Il che però segnala già la continuità e i limiti della produzione storiografica recente.

Grandi narrazioni

Partiamo dal dato sopra accennato per cui, nel corso del secolo ormai trascorso dal primo sbarco italiano in Libia, si sono succedute grossomodo tre grandi narrazioni: e l’ultimo venticinquennio ha messo le basi per una quarta.

La prima grande narrazione, ovviamente, fu quella coeva alla conqui-sta, negli anni dieci. Già la prima occupazione del 1911-12 aveva infatti stimolato ricostruzioni, quasi instant books, che la legittimavano. In quei primissimi anni vennero forgiati i principali miti e codificate le principali impostazioni poi ripetuti nei decenni successivi6.

La seconda grande narrazione fu quella più compiutamente coloniale, e fascista. Negli anni venti si cominciò a raccogliere, ordinare e pubblicare la documentazione relativa alla conquista7. Negli anni trenta, sino a quando nel 1943 l’Italia mussoliniana perse la guerra e tutte le sue colonie, la storia della conquista della Libia (e poi della sua riconquista negli anni 1921-31) fu integrata nei manuali di storia coloniale nazionale. Fra le pubblicazioni significative di questa fase coloniale potremmo ricordare i capitoli relativi alla conquista della Libia nelle storie coloniali generali di Mondaini del 1928 o di Ciasca nel 1938-408. Ma la perdita delle colonie non comportò immediatamente la fine della narrazione coloniale, visto che nelle universi-tà continuavano ad insegnare i docenti di storia coloniale formatisi sotto il

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fascismo, o i loro allievi. Peraltro sino al 1960 l’Italia formalmente rimase detentrice di un’amministrazione fiduciaria della Somalia. Con riferimen-to specifico alla Libia l’ultima riformulazione dei miti del fascismo fu il volume di Gioacchino Volpe del 19439, mentre narrazioni d’impostazione coloniale furono ancora la storia della colonizzazione italiana del Norda-frica di Enrico De Leone del 1955 e la serie dell’Opera dell’Italia in Africa degli anni cinquanta-sessanta10.

Una terza grande narrazione fu quella del tempo della decolonizzazio-ne, quando l’Italia era ormai una democrazia. Questa nuova narrazione si affermò in Italia non senza resistenze e spesso furono necessari uomini e storici coraggiosi, disposti ad infrangere miti accettati da molti, perché si affermasse. L’Italia democratica non aveva colonie proprie, e nonostante quindi che la Repubblica postfascista nascesse già decolonizzata, grosso modo sino al 1960, cioè all’anno delle indipendenze e alla grande deco-lonizzazione internazionale, molti miti coloniali erano ancora circolanti. Fu così che storie della guerra di Libia ormai lontane dalle impostazioni più coloniali furono quelle di Francesco Malgeri del 1969, del giornalista Paolo Maltese del 1970 e dell’ambasciatore Sergio Romano del 197711. Più importante, perché organicamente inserito in una ricostruzione gene-rale dell’opera degli Italiani in Africa, orientale e settentrionale, fu però il volume di Angelo Del Boca Tripoli bel suol d’amore. Dall’Unità al 1922, del 1986 (sarebbe stato seguito due anni più tardi da un altro volume, Dal fascismo a Gheddafi)12. Ma per giungere a questo, era dovuto passare un venticinquennio da quando, abbandonata la Somalia, la Repubblica era stata istituzionalmente e compiutamente decolonizzata.

Elementi comuni

In tanto variare di contesti e di congiunture esterne (spesso condizio-nanti), dalla conquista al periodo coloniale all’età della decolonizzazione, c’era qualcosa che accomunava gli studi storici?13

In primo luogo sta la convinzione che la guerra di Libia rappresen-ti, nella storia d’Italia, una data periodizzante. Lo è di certo nella storia dell’espansione coloniale, visto che dopo anni di attenta preparazione di-plomatica, l’Italia liberale superava le ritrosie e le paure che l’avevano ca-ratterizzata e si sentiva pronta ad osare, lanciando la guerra nel mezzo del Mediterraneo. Ma il 1911 veniva considerato anche una data periodizzan-

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te in molti altri contesti: dalla storia politica alla storia sindacale, da quella culturale a quella economica. Gli esempi potrebbero essere molti14.

In secondo luogo, e in genere, indipendentemente dal variare del loro orientamento, si potrebbe affermare che gli studi sulla guerra di Libia, e più in generale sulla presenza italiana in Libia o addirittura sul colonialismo italiano, erano stati studi prevalentemente interessati al livello politico-diplomatico-militare. I ministri, gli ambasciatori e i massimi comandanti erano stati oggetto della narrazione. Alle classi lavoratrici e in genere al popolo non andava una grande attenzione. Ancor meno studiati erano i sudditi coloniali libici. La scelta delle fonti documentarie era influenzata da questa impostazione: gli studiosi lavoravano negli archivi diplomatici e politici, qualche volta in quelli militari, con un largo ricorso alla stampa politica e agli atti parlamentari. Da tale impostazione non si discostarono molti fra gli stessi pochi studi dell’età della decolonizzazione. Rispetto ad essi, si differenziavano di nuovo i libri di Del Boca, già nel titolo dedicati all’opera degli italiani (e dell’Italia) in Libia, che molto utilizzavano diari e memorie di singoli coloni.

In terzo luogo erano studi che inquadravano fermamente la campagna di Libia nella storia nazionale, nella storia d’Italia. Certo una guerra ab-bisogna di almeno due attori, e quella italo-turca ne ebbe almeno tre (gli italiani, i turchi, i libici) per non dire degli attori internazionali (le grandi potenze europee, le loro opinioni pubbliche). Ma in genere gli studi di queste prime tre fasi erano quasi completamente attirati dalle mosse degli attori italiani: ora per elogiarli, al tempo della conquista e del dominio coloniale, ora per discuterli e criticarli anche aspramente, al tempo della decolonizzazione. Le ragioni e le mosse degli attori quanto meno libici e turchi rimanevano sullo sfondo delle ricostruzioni degli storici, ora perché nazionalisticamente disinteressati, al tempo della conquista e del dominio coloniale, ora perché (almeno) linguisticamente impreparati, al tempo del-la decolonizzazione. Alla lunga erano meno distanti di quanto si pensava.

In quarto luogo, infine, la guerra di Libia era vista astratta dal suo con-testo europeo. Cosa avevano pensato le altre potenze del Vecchio continen-te, e le loro opinioni pubbliche, scivolava in secondo piano. (Era per que-sto che Pierre Loti poteva aspettare.) E quali erano state le conseguenze, dirette o indirette, dell’azione italiana interessava poco. Ad esempio l’in-teresse storico verso le guerre balcaniche era assai limitato. Anche le con-nessioni fra guerra di Libia, indebolimento dell’Impero ottomano, stimolo

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all’azione austriaca e quindi scatenamento della prima guerra mondiale ricevevano scarsa attenzione nelle pubblicazioni italiane. In alcuni studi dell’età della decolonizzazione tali temi erano presenti, ma ancora appena accennati: la decolonizzazione degli studi aveva altre priorità.

In quinto luogo, non ultimo per importanza, gli studi italiani appari-vano scarsamente interessati alle vicende degli attori locali, libici. Che la reazione all’invasione italiana fosse stata differenziata nella società libica, segmentata lungo linee claniche di qabile, era noto sia all’indomani della conquista, sia al momento del dominio coloniale, sia soprattutto nell’età della decolonizzazione, con un gradiente di attenzione dalla prima all’ulti-ma. Ma nel complesso, ora per disinteresse ora per impreparazione lingui-stica, lo studio dei vari attori libici rimaneva assai scarso. In verità nell’età della decolonizzazione, cioè dell’affermarsi di poteri antagonisti a quelli coloniali e italiani, la sensibilità nei confronti delle popolazioni conqui-state era massima da parte degli studiosi italiani. Ma di fatto finirono per funzionare da disincentivo a guardare alle differenze fra gruppi locali sia l’ideologia antimperialista occidentale sia la stessa ideologia nazionalista affermatasi negli Stati di nuova indipendenza.

A voler trarre le conseguenze da questi minimi comun denominatori fra studi fra loro peraltro molto diversi e sviluppati in contesti storici assai lon-tani, dalla conquista alla dominio alla decolonizzazione, si ha che la guerra di Libia ha finito per essere vista alla stregua di un episodio della storia principalmente italiana, importante ma ristretto nelle sue conseguenze in-ternazionali, di fatto condannato a piccole narrazioni, poco sollecito della storia dei colonizzati. Succedeva così in tutti i Paesi ex-colonie. Tutto ciò pero, nello specifico, rendeva la storia della guerra del 1911-12 impara-gonabile con quella storia delle due guerre mondiali ma anche con quella della guerra d’aggressione all’Etiopia: la guerra del 1911-12 rimaneva una piccola guerra coloniale, di cui – a differenza delle campagne italiane nel Corno d’Africa dei decenni precedenti, da Massaua ad Adua – si sottoli-neava il raggiunto più vasto consenso. Di questa visione sarebbe stata per qualche modo paradigmatica la produzione di Salvatore Bono, lo studioso italiano che più di tutti ha portato attenzione a questo tema, dedicandovi decine e decine di minuti, eruditi ed interessanti contributi, ma che non avrebbe mai scritto (sino ad oggi) una vera storia della guerra.

La presenza di caratteri o impostazioni comuni fra studi dell’età co-loniale e della decolonizzazione non significa ovviamente ritenere che le

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interpretazioni non fossero divergenti. Non solo il giudizio morale ma la stessa lettura di singoli episodi differiva, anche radicalmente. Ciò non to-glie che alcuni caratteri comuni persistevano.

Al tempo postcoloniale: ricerche senza sintesi

Cosa dire quindi dell’ultimo venticinquennio, che dalla metà degli anni ottanta conduce sino ad oggi, un periodo che potremmo definire postcoloniale? Gli studi di questo periodo si sono completamente allon-tanati dagli studi precedenti? Quanta discontinuità, o all’opposto quanta continuità, v’è stata negli studi italiani della fase ormai postcoloniale del-le relazioni italo-libiche rispetto agli studi precedenti e ai loro caratteri comuni (nonostante la grande divergenza di giudizio) fra età coloniale e decolonizzazione?

Grazie alla decolonizzazione della memoria possibile grazie alle pubbli-cazioni degli anni precedenti, da Malgeri a Del Boca, è stato possibile avvia-re nell’ultimo venticinquennio una gran quantità di ricerche. Aspetti prima appena accennati sono ora meglio conosciuti. Per quanto concerne la guer-ra del 1911-12 molte aree del quadro prima lasciate in oscurità sono adesso meglio illuminate. Molto del materiale per una nuova grande narrazione, non più del tempo della conquista o del dominio coloniale o del tempo della decolonizzazione, è pronto. Ne vedremo fra poco i caratteri salienti.

Anticipiamo semmai che tutte queste conoscenze non si sono anco-ra rapprese in una singola opera d’assieme compiutamente postcoloniale. Perché è mancata ancora un’opera di sintesi? Prima di passare ad esaminare nel dettaglio quali aspetti della guerra di Libia sono stati studiati da gli storici italiani nell’ultimo venticinquennio, può essere utile cercare di ri-spondere a questa domanda.

Una risposta ovvia, ma banale, potrebbe essere che gli studiosi della fase più compiutamente postcoloniale considerino ancora valide le storie generali della fase precedente, che estensivamente abbiamo chiamato della decolonizzazione. Poiché però, come vedremo, molte delle ricerche più recenti hanno spinto a riconsiderare le acquisizioni della fase precedente, la spiegazione non soddisfa del tutto.

Due spiegazioni appaiono, a nostro avviso, decisive: la separazione e la scarsezza delle energie dedicatesi a questi temi.

A parte forse proprio questi ultimissimi anni, gli studi sull’espansione

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coloniale italiana, e in particolare quelli sulla guerra di Libia hanno inte-ressato studiosi provenienti da discipline diverse ma fra loro separate che hanno raramente trovato punti di raccordo. Storici dell’espansione colo-niale e storici dell’Africa, occidentalisti e orientalisti, esperti di turcologia e d’islamistica, storici militari e storici della società o della cultura, soprat-tutto storici italiani e libici e turchi molto episodicamente hanno lavorato assieme. Lontano ormai il collante di una comune fede coloniale, sentita non più vincolante una comune impostazione di critica alla politica colo-niale e di simpatia per gli oppositori anticoloniali tipica del periodo della decolonizzazione, gli storici dell’età postcoloniale si sono trovati dispersi, esposti all’afro-pessimismo, quando non separati tra loro al tempo stesso dalla specializzazione delle disciplina e da un dilagante relativismo post-modernista.

Ma ancor prima di questa balcanizzazione delle competenze, la ragione forse decisiva sta nel fatto che, pur incontrando un crescente interesse, questi temi sono stati coltivati da un numero assai ristretto di studiosi. Né la Repubblica si è mai seriamente impegnata nei loro confronti, nemmeno in questa fase ormai postcoloniale, in un sostegno o in una sollecitazione seri. In non pochi casi gli studi storici sono stati addirittura percepiti co-me scomodi da quegli stessi istituti e ministeri, da quello dell’Università a quello degli Esteri, che pure avrebbero potuto e dovuto sostenerli. È diffi-cile pensare che ciò non sia in qualche relazione con il fatto che nell’ultimo venticinquennio il numero degli studiosi sia rimasto basso, che aumenti l’internazionalizzazione degli studi, o più esattamente la concorrenza di altri studiosi provenienti da altri Paesi, che il numero dei pubblicisti e dei giornalisti che si occupano di questi temi sia ancora significativo rispetto a quello degli studiosi accademici: tutto ciò ha fatto in modo che in questi ultimi venticinque anni sulla guerra di Libia abbiamo avuto molti articoli e pochi libri ma in ogni caso non un nuova storia generale complessiva.

Per tutto questo la quarta e più recente grande narrazione, quella post-coloniale, per quanto riguarda la Libia e la sua conquista italiana, rimane insomma ancora in potenza.

Qualunque sia la ragione dell’assenza nell’ultimo venticinquennio di una (o più) grandi opere sulla storia del colonialismo italiano in Libia e in particolare della guerra che l’assicurò all’Italia, è ora il momento di esaminare più nel dettaglio gli studi di quest’età postcoloniale. È possibile delineare sei aree di ricerca.

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La storia diplomatica

Una prima area di ricerca ben coltivata in quest’ultimo quarto di secolo è quella degli studi sulla politica estera italiana e sulle reazioni internazio-nali all’azione di Roma15.

Qualche pagina è stata scritta, o meglio riscritta, sull’interazione fra guida politica e orientamento diplomatico, cioè fra Giolitti e San Giu-liano16. Ma l’attenzione è andata sopratutto all’azione di altri attori della politica internazionale, e della loro interazione con Roma. Si è esaminato quindi il punto di vista del Belgio, della Russia e della Germania ecc.17. Si tratta, com’è evidente, di osservatori interessanti; ma che non furono propriamente centrali nello scontro diplomatico del tempo, e che non furono completamente in opposizione all’azione italiana. Manca ancora uno studio della politica francese e inglese, ambedue diversamente irri-tate dall’azione italiana verso Tripoli, e soprattutto manca uno studio (in lingua italiana ma su documenti originali) sull’azione della Turchia. Sulla posizione di Costantinopoli abbiamo ancora solo la visione che ne ebbero gli addetti militari italiani18: lo studio rimane meritorio, visto soprattutto che risale ormai ad alcuni decenni fa, ma non può sostituire l’esame delle fonti originali turche.

Sulle conseguenze dell’azione italiana nei Balcani e alle proteste dell’o-pinione pubblica internazionale – sia a partire di organi d’informazione generale sia nei suoi versanti più dichiaratamente pacifisti e antimilitaristi – sono disponibili in Italia solo accenni o primissimi contributi.

Nel complesso, quindi, non stupisce che la lettura italiana corrente dell’azione diplomatica di Roma nel 1911-12 non sia stata sostanzialmen-te modificata da questi studi settoriali su aspetti non centrali del conflitto.

La storia politica

Un’altra inevitabile area di ricerca è stata quella sulla politica italiana. Nell’ultimo quarto di secolo non sono apparsi studi nuovi sulle maggiori figure dei protagonisti della politica italiana del 1911-12. Ma un’attenzio-ne nuova è stata portata ad alcuni gruppi politici.

Dei nazionalisti, in primo luogo, è stata esaminata la retorica e la pro-paganda, anche in alcune realtà apparentemente periferiche – la Sicilia – ma centrali nella costruzione di un consenso alla guerra19.

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Alcune ricerche sono state condotte sull’azione di gruppi politici d’op-posizione. I repubblicani e i socialisti sono stati studiati nei loro cedimenti alla campagna propagandistica dei liberali e dei nazionalisti, più che nella loro protesta anticoloniale20.

Per quanto riguarda i cattolici, l’interesse degli storici si è allontanato da quello di alcuni decenni fa. Allora si era visto nella penetrazione econo-mica del Banco di Roma in Libia una delle ragioni del loro avvicinamento ai liberali. Negli ultimi decenni, al tempo della guerra di civiltà, non stupi-sce che si sia invece sottolineato il punto della partecipazione dei cattolici alla guerra di Giolitti in termini di ‘crociata’ antimusulmana21.

Tutti questi studi mirano a documentare quanto consenso suscitò in Italia la guerra. (Qualche pagina è stata scritta sulle proteste degli antimi-litaristi22, ma molto si deve scavare ancora attorno al dissenso.) Il consenso del 1911-12 non fu un sentimento paragonabile a quanto avvenne in oc-casione della prima guerra mondiale o della guerra all’Etiopia: la minaccia era diversa rispetto al 1914-15, e il sistema politico liberale non era tota-litario come quello fascista del 1935-36. È certo però che non ci furono manifestazioni popolari paragonabili al ‘Viva Menelik’ del 1895-96, anche perché la classe dirigente era meno divisa.

Grazie ai nuovi studi comprendiamo insomma meglio la forza con cui la classe dirigente liberale italiana affrontò il conflitto, almeno nei primi mesi. Si è trattato di norma di studi di storia politica in senso stretto23: solo in pochi casi si è andati a cercare se e, se sì, quali interessi economi-ci stavano dietro la politica bellicista-colonialista del governo (l’elemento dell’interesse economico è risultato evidente nei sostenitori della politica navalista24). Pur entro tali limiti, l’immagine che emerge dagli studi è di un’Italia liberale ampiamente disposta e orientata ad accogliere la carta della guerra.

La storia religiosa

Fra gli elementi di forza di Giolitti, e di consenso alla sua politica di prendere la Libia con la guerra, va annoverato l’atteggiamento della reli-gione e in particolare della Chiesa cattolica. Il suo studio ha rappresentato una terza area di ricerca.

Era già noto che l’appoggio cattolico ai liberali di Giolitti in occasione della guerra configurò una differenza importante rispetto alle campagne

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coloniali degli anni novanta, quando Crispi aveva affrontato il conflitto in Eritrea nell’indifferenza o addirittura nell’ostilità della Chiesa cattolica (alla vigilia di Adua la «Civiltà cattolica», organo dei gesuiti, ebbe posizio-ni non meno dure di quelle dei socialisti). Nell’ultimo venticinquennio sono stati condotti però vari studi che documentano meglio e rafforzano quest’interpretazione.

Sono stati esaminati non solo l’atteggiamento di alcuni vescovi, di cui era già conosciuto l’atteggiamento conciliante verso l’Italia liberale e favo-revole alla guerra, ma anche personaggi e ambienti di minor rilievo gerar-chico25, o organi della stampa cattolica periferica26.

È interessante osservare che, parallelamente, sono state studiate anche comunità religiose quantitativamente meno rilevanti in Italia, come quella evangelica o quella israelitica-sionista27. Anche in questi casi, è stato riscon-trato un ampio favore verso la guerra.

Qual è l’interesse metodologico di questi studi rispetto a quelli già ri-cordati sulla classe politica liberale? Esso consiste nell’essere una sorta di anteprima, di preparazione, ad una storia della società italiana durante la guerra. Passando dalla storia della politica vaticana alla storia della religio-sità diffusa, studiando non più solo l’atteggiamento del Papa, della Curia romana e dei vescovi ma anche le idee circolanti nei giornali cattolici di provincia o l’operato dei preti di campagna o di città e le loro omelie ci si avvicina al sentimento delle classi popolari italiane del tempo. Anche non facendo l’errore, in verità piuttosto frequente in questi studi, di con-fondere le idee del prete (o del pastore, o del rabbino) con quelle del suo pubblico contadino o cittadino, è evidente che studi di questo tipo – come gli altri, purtroppo drasticamente diminuiti in questi anni, sulle organizza-zioni locali del movimento operaio e socialista – permettono di avvicinarsi maggiormente ai sentimenti degli italiani del tempo.

La storia culturale

Una quarta area di ricerca, forse la più affollata, è stata quella dello studio delle reazioni dell’opinione pubblica, soprattutto attraverso l’esame dei suoi giornali e in generale della stampa28. Come nel caso dello studio sui movimenti politici d’opposizione o sull’atteggiamento verso la guerra da parte delle religioni, è evidente che anche qui lo scopo è allargare l’oriz-zonte dalle prime ricostruzioni di storia politica inevitabilmente centrate

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sui governi, sui ministri e sul parlamento (e sui comandanti militari) verso una più ampia storia sociale.

In quest’ultimo venticinquennio è stato quindi esaminato come alcuni giornali avevano raccontato ai propri lettori la guerra di Libia, come aveva-no descritto i soldati italiani e come avevano rappresentato i loro nemici, i turchi e i libici. I giornali dell’Italia delle ‘cento città’ sono stati visti, più che come attori e commentatori della lotta politica, come forgiatori d’im-magini29. Rispetto a studi precedenti, c’è stata meno storia politica e più storia culturale.

L’indirizzo di ricerca è stato rafforzato da una nuova attenzione all’o-perato dei grandi intellettuali. Sono stati studiati poesie, romanzi, articoli di giornale non solo di Giovanni Pascoli, a partire dal suo famoso discorso sulla ‘Grande proletaria’, ma anche di altre figure di intellettuali, di rilievo nazionale o provinciale. Il loro coinvolgimento e il loro consenso nella guerra ne sono usciti documentati30.

A moderare un poco quello che altrimenti sembrerebbe un panora-ma classico di studi culturali, tutti attenti a decostruire testi, immagini e miti, va osservato che alcuni studiosi meritoriamente si sono interessati alle strutture profonde, istituzionali, del dibattito culturale e delle idee. Non poco importante, ad esempio, ci è parso uno studio sulla censura che l’Italia liberale attivò in occasione della guerra di Libia sui giornali e sulla posta privata31. Il ricorso alla censura era già stato previsto nel Regno Unito al tempo della guerra sudafricana (o angloboera), e sarebbe poi dilagato in tutta Europa durante la prima guerra mondiale. E non è un caso che lo studio di cui parliamo vede la censura del 1911-12 come una prova di quella del 1914-18.

In realtà forse si potrebbe uscire da questa prospettiva teleologica, e vedere la censura del 1911-12, sia pur parziale, come un fatto storico di prima importanza in sé. La sua adozione fa infatti intuire che non tutto il consenso di cui sin qui si è parlato – classe politica, ambienti religiosi, stampa e intellettuali – era così libero, spontaneo e totale quanto allora si diceva. Comunque sia rimane che la dimensione di un Paese non diviso ma schierato per la guerra emerge anche dallo studio dell’opinione pubblica.

La storia militare

Ma come conoscere davvero l’opinione degli italiani del 1911-12? A

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quel tempo non esistevano ovviamente sondaggi di opinione, e anche i risultati delle elezioni politiche non sono un buon metro, poiché sino alla riforma elettorale del 1913 in Italia avevano il diritto di voto l’8 per cento della popolazione (e solo la metà lo esercitava: gli aventi diritto sarebbero passati al 23 per cento nel 1913 e al 27 nel 1919). Un’approssimazione, per la prima volta sondata dagli studiosi in quest’ultimo venticinquennio, è stata offerta piuttosto imprevedibilmente da ricerche di storia militare, la quinta delle aree di ricerca32.

Trattandosi di una guerra, che al 1911-12 fossero interessati gli storici militari appariva abbastanza scontato. Non sorprende allora che negli ulti-mi anni siano intervenuti sul tema (con volumi importanti) gli Uffici stori-ci dell’esercito e della marina, i massimi rappresentanti della storia militare ufficiale33. Si è trattato di libri meritori sulle scelte dei massimi comandanti italiani della guerra, documentati sugli archivi degli stati maggiori.

Forse anche più interessante è stata una serie di pubblicazioni minori dedicate a singole figure di ufficiali inferiori o anche solo soldati, basate sulle lettere, sui diari o sulle memorie da questi scritti durante o dopo la guerra. C’erano stati già importanti indicazioni della fertilità di ricerche in tal senso34, ma è stato soprattutto negli ultimi anni che queste fonti sono state di nuovo sollecitate e ricercate in particolare per gli anni 1911-1235 (e per quelli immediatamente successivi36). D’altro canto l’impegno militare dei governi di Giolitti era stato massiccio per l’epoca: tranne la guerra an-globoera, un conflitto peraltro assai particolare, e tranne alcune fasi della conquista francese dell’Algeria, solo l’Italia liberale aveva portato in Africa un esercito di più di centomila soldati ‘bianchi’ per così tanto tempo. Tutto ciò spiega perché anche nel caso degli studi su questa guerra si sia assistito ad un passaggio di attenzione degli studiosi dai massimi comandanti ai soldati e ai combattenti, con uno spostamento degli interessi dall’alto al basso della gerarchia. L’interesse di queste pubblicazioni dedicate ad uf-ficiali inferiori o a soldati, e alle fonti – epistolari o memorialistiche – da essi lasciate, sta nel permettere di cominciare a verificare se e quanto del-la propaganda diffusa a livello centrale da governi, giornali e intellettuali davvero penetrava nelle classi lavoratrici, e fra i soldati di un esercito come quello italiano basato sulla coscrizione obbligatoria. Così, nella ‘scrittura popolare’ di questi attori di più basso livello della storia, troviamo indub-biamente l’eco della propaganda dei nazionalisti, della crociata cattolica contro i mussulmani, e un certo razzismo. Leggiamo però anche, talvolta,

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la compassione umana verso il popolo arabo e la critica di una guerra che la moderna Italia liberale non riesce a vincere nonostante tutta la sua tec-nologia contro un piccolo numero di ufficiali turchi, contro ristrette bande di ‘ribelli’ armati e soprattutto contro una popolazione chiusa e diffidente, quando non ostile come a Sciara Sciat.

Se la cifra della ricerca storica italiana di quest’ultimo quarto di secolo sulla guerra di Libia rimane quindi la ricerca di una visione più ampia di quella delle fasi precedenti, sia coloniale sia della decolonizzazione, con una forte propensione ad una storia sociale e culturale e non solo politico-parlamentare-diplomatica della guerra, proprio la storia militare – una nuova storia militare dal basso – ha finito per dare un aiuto importante e insostituibile37.

La storia (intralciata) della repressione coloniale

Pur cercando una via per la storia sociale ampliando i propri orizzonti ed operando in un’età postcoloniale, gli studi storici italiani sulla guerra di Libia dell’ultimo venticinquennio hanno mantenuto purtroppo una carat-teristica degli studi dell’età coloniale: il ridotto interesse concreto verso la storia delle popolazioni libiche. In genere, rispetto ai decenni della con-quista e del dominio, questi studi recenti non hanno più l’atteggiamento sprezzante e razzista di una volta: anzi, guardano con comprensione alle popolazioni che sentono ‘vittime’ dell’espansione e dell’occupazione ita-liana, liberale e fascista. Ma questo sentimento di vicinanza raramente si è trasformato in uno studio diretto.

Le ragioni sono molte, specifiche e generali. Nello specifico, lo scarso numero degli studiosi italiani dedicatisi alla storia dell’espansione colonia-le e soprattutto la barriera linguistica sono le ragioni più importanti. In generale, pochi sono gli storici italiani che si applicano ad una storia in-ternazionale che richiede, oltre alle competenze linguistiche, risorse di cui sempre meno pare disporre il sistema della ricerca in Italia. In particolare soprattutto ha pesato lo scarso numero di studiosi di storia dell’Africa che si sono applicati alla storia della Libia. Vi è anche una scarsa abitudine al confronto internazionale fra studiosi italiani e libici: le eccezioni sono state davvero poche.

Ma tutto ciò non va imputato solo agli accademici: forse una respon-sabilità ancora maggiore la portano lo Stato, il ministero degli Esteri, gli

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istituti deputati a organizzare gli studi orientalistici e africanistici in Italia che non hanno mostrato alcun serio interesse concreto nell’incoraggiare e sostenere con risorse proprie gruppi di studiosi che conducessero ricerche nel senso sopra indicato. Dalla fine della Guerra fredda e in conseguenza della percezione di essere di fronte ad uno scontro di civiltà (in particolare dopo l’11 settembre 2001 e l’avvio statunitense di una ‘guerra al terro-re’), tutti i Paesi occidentali più attenti hanno enormemente sviluppato gli studi orientalistici e africanistici, sostenendo concretamente lo studio delle lingue e la promozione di progetti di ricerca su questi temi, compresi quelli a carattere storico. Da questa tendenza, che pure ha aspetti con ogni evidenza interessati e ideologici, la Repubblica italiana sembra essersi te-nuta lontano, in un quadro di generale decadenza degli studi accademici. In questa prospettiva, si comprende bene perché molti studi sulla Libia coloniale – e in particolare quelli condotti su fonti libiche riguardanti la società libica – sono stati condotti da ricercatori di altre nazionalità o più spesso sono stati trascurati. (Una bibliografia sulla Libia coloniale e quindi anche sul 1911-12 che abbia tenuto conto delle pubblicazioni non solo occidentali ma anche libiche è comunque stata pubblicata, senza alcun sostegno ministeriale38.)

Un episodio, apparentemente in controtendenza, merita di essere ricor-dato. Pensiamo allo studio dei deportati libici del 1911-15, menzionato già nel Comunicato congiunto italolibico del 1998 e poi re-inserito nel Trattato di amicizia italo-libico del 30 agosto 2008. È però, come si vedrà, un’eccezione solo parziale, che indica bene i limiti degli studi italiani sulla Libia, e non solo sulla guerra del 1911-12.

Com’è noto, le truppe italiane sbarcate a Tripoli il 5 ottobre 1911, già nelle giornate del 23-24 subivano a Sciara Sciatt un pesante scacco. La reazione fu brutale, decisa anche a Roma da Giolitti, e portò, oltre ad un numero imprecisato ma assai alto di fucilazioni sommarie, alla deporta-zione di alcune migliaia di tripolini verso le isole carcerarie e di confino italiane. La deportazione coinvolse più di quattromila persone (si noti che Tripoli aveva allora circa trentamila abitanti) di cui forse un quarto non tornò. La vicenda non ebbe conseguenze tragiche paragonabili all’operato dei campi di concentramento della Cirenaica del 1931-33, o alla repres-sione della resistenza anticoloniale fra 1921 e 1931. Ma colpisce perché avvenne praticamente allo stesso momento della conquista, svelandone la funzione colonizzatrice e assai poco civilizzatrice.

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Tutto quanto sin qui detto era necessario per spiegare le basi della sin-golarità degli studi recenti sulla deportazione libica del 1911-15. Infatti, essendo lo stato degli studi su questa vicenda stato menzionato nei docu-menti diplomatici del 1998 e del 2008, per evidente richiesta e interesse della parte libica, non è stato possibile scansarlo, com’era avvenuto in età coloniale e anche della decolonizzazione, se si eccettuano alcune pagine del volume di Del Boca e qualche breve articolo successivo da parte di altri studiosi39. Dopo il 1998, così, il ministero degli Esteri italiani ha lau-tamente cofinanziato la ricerca e la letteratura sul tema si è moltiplicata40. Avrebbe potuto essere, sarebbe stato legittimo pensare, la migliore delle occasioni per (far) studiare la società coloniale e le popolazioni libiche al momento della guerra di Libia.

In realtà, appena avviato, lo studio è stato di fatto intralciato. Il coordi-namento della parte italiana non è stato affidato ad un’università o ad un comitato di studiosi universitari specialisti del tema bensì ad un Istituto, controllato dal ministero, che si occupa in generale di studi orientalistici e africanistici, l’Isiao (la parte libica aveva invece già designato un istituto specializzato, il Libyan studies center). Non sempre i fondi italiani sono andati a sostenere specificamente la ricerca sui deportati, tramutandosi in gran parte in investimenti a fondo perduto a favore della parte libica e del Lsc. Una parte, pur minoritaria, dei finanziamenti ha comunque portato allo svolgimento di ricerche – assai controllate da parte italiana – e all’or-ganizzazione di seminari congiunti italo-libici, ma ancora una volta assai controllati e senza procedure aperte di ‘call for paper’. In una parola la diplomazia italiana ha all’inizio subito l’interesse della parte libica, cer-cando poi in ogni modo di contenerlo. Ad esempio, sfruttando il legit-timo interesse della parte libica di conoscere i luoghi della deportazione, la diplomazia italiana supportata da alcuni storici è stata pervicacemente contraria ad organizzare convegni importanti nella capitale, che avrebbero potuto attrarre l’attenzione dell’opinione pubblica italiana e pregiudicare in senso sfavorevole a Roma la riapertura del capitolo italo-libico del con-tenzioso postcoloniale. I seminari italolibici si sono quindi svolti nelle isole di confino, con gli studiosi confinati alla periferia non diversamente dai deportati di un tempo, mentre gli atti risultanti da quei convegni sono stati autoprodotti presso una tipografia e resi difficilmente circolanti, evitando di affidarli ad una qualsiasi importante casa editrice di rilevanza nazionale.

Ciò detto, l’occasione offerta dallo studio della deportazione libica del

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1911-15 non può dirsi esser stata persa del tutto. Alcuni volumi di atti, per quanto assai ineguali, e soprattutto un volume di documentazione ri-mangono. La vicenda quanto meno segnala che, quando la storia della guerra di Libia esce dal solo perimetro italiano, si fa assai interessante e importante.

Qualche studioso, isolatamente, ha poi studiato altri capitoli di repres-sione e sfruttamento41 (o, al converso, qualche istituzione coloniale più civilizzatrice42) o la stessa resistenza anticoloniale dei libici43.

Ma certo molto di più sarebbe stato possibile fare.

150° e 100°

Se non stimolati o aiutati dall’esterno, non sembra che gli studi italiani abbiano avuto molta propensione ad esaminare la parte libica della guerra italo-turca. Il 2011 ha contribuito, ad oggi, solo parziamente ad emendare la situazione sin qui descritta. La memoria italiana della guerra non è in-fatti imbarazzata solo a livello di storia coloniale44.

Per l’Italia il 2011 oltre che 100° anniversario della guerra è soprattutto il 150° dell’unificazione del Paese. Quest’ultimo e più importante anniver-sario ha rappresentato un campo di battaglia dove si è combattuto piutto-sto aspramente, in Italia. In esso si sono affrontati, assieme ai non pochi indifferenti, sostanzialmente quattro tendenze. 1. i pochi risorgimentalisti integrali, quelli per cui il valore dell’unificazione e della soluzione liberale del Risorgimento italiano non è mai stato messo in discussione; 2. i (più numerosi e più recenti) oppositori dell’Unità nazionale, che vogliono so-stituirla con un sistema federale molto allentato, se non con la secessione. Essi negli ultimi due decenni sono stati a lungo (e sono oggi) al governo del Paese ed esprimono una critica agli ideali e ai processi di unificazione nazionale che si incontra con altri movimenti e circoli nostalgici degli stati regionali pre-unitari, dai residui filo-borbonici agli ultimi monarchici; 3. quelli che potremmo chiamare i neo-patriottici anti-secessionisti, forte-mente contrari con varie ragioni ai denigratori dell’Unità nazionale. A tal fine essi talora – per una sia pur nobile e condivisibile causa – si astengono dal formulare critiche all’assetto storico prodotto e all’esito concreto as-sunto dal processo di unificazione nazionale; e infine 4. i critici più aspri, talora preconcetti, di tutta la storia nazionale, come quelli che non vedo-no differenze sostanziali nei pur diversi nazionalismi italiani, da Mazzini

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a Mussolini ai più recenti presidenti della Repubblica. Lo scontro fra i quattro diversi orientamenti è stato abbastanza aspro, se sino ad un mese prima del 17 marzo 2011 (la data prescelta per le celebrazioni) il governo ancora non aveva deciso se esso sarebbe stato un giorno di astensione dal lavoro o meno.

Per tutti gli orientamenti però la memoria della guerra del 1911-12 è stato motivo di imbarazzo: per i risorgimentalisti liberali, appare difficile conciliare gli ideali di libertà di Mazzini e di Garibaldi con quelli della guerra d’aggressione alla Turchia e di dominio razziale sulla Libia; per gli oppositori dell’Unità nazionale è imbarazzante riconoscere che solo uno Stato nazionale è (stato) in grado di scelte impegnative in politica estera, come una guerra, e di contare politicamente a livello internazionale; per i neopatriottici è forse imbarazzante dover ammettere che molti dei valori passati dello Stato nazionale al tempo dell’età dell’imperialismo non pos-sono essere oggi accettati (molti, non tutti: perché nell’anticolonialismo di un tempo sta una delle radici dell’internazionalismo e del cosmopolitismo di oggi); per i critici più estremi, perché non ne hanno colto la diversità da altri conflitti, finendo per smarrirne il senso storico periodizzante. Per tutte queste complesse ragioni, tutte italiane e molto politiche, nelle cele-brazioni del 150° lo spazio dato alla memoria della guerra di Libia (in sé difficile da ‘celebrare’ per il suo carico di morti) è sinora stato assai scarso. Le recenti operazioni militari, che avrebbero dovuto essere di salvaguardia delle popolazioni civili e che invece rischiano di ridursi ad un ennesimo tentativo di cambiamento di regime politico attraverso l’iniziativa militare, difficilmente possono aiutare una memoria disinteressata.

L’approssimarsi del centenario ha stimolato alcune raccolte di studi, che qui solo menzioniamo perché in corso di stampa. La Fondazione di studi Ugo La Malfa ha meritoriamente proposto un volume collettaneo sul tema che, in piccolo, ripete le sei aree di interesse sin qui ricordate. Questa rivista «I sentieri della ricerca», diretta da Angelo Del Boca, fa lo stesso. Un convegno di storia militare è previsto per la fine del 2011. In nessun caso però è prevista la collaborazione di studiosi libici e di studi sulla società libica (un’eccezione parziale nella rivista di Del Boca).

Il disinteresse per gli aspetti e per le conseguenze internazionali della guerra di Libia, insomma, continua.

Come giudicare gli studi recenti italiani? Quanto nuovi essi sono ri-

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spetto a quelli precedenti? Configurano una nuova interpretazione della guerra di Libia?

In assoluto si tratta di una storia che non molto frequentata, né con-figuratosi come un luogo di particolare innovazione: più semplicemente, esso ha riflesso l’evoluzione degli studi coloniali italiani in genere. Quanto abbiamo potuto costatare nell’evoluzione negli ultimi anni degli studi sul 1911-12 ripete quindi i caratteri generali della storiografia italiana del pe-riodo: la prevalenza della storia politica e diplomatica, una certa crescita degli studi di storia culturale, il rinnovamento della storia militare, l’as-sai modesta apertura allo studio delle altre parti coinvolte (libica, e ancor più turca e balcanica: eppure, ad esempio, era già note alla storiografia la rilevanza degli appetiti balcanici dell’Italia in tutta la prima metà del Novecento45). Da questa prospettiva si potrebbe dedurre che – pur nell’al-largamento quantitativo delle conoscenze – la continuità potrebbe aver prevalso sul cambiamento. Il fatto che manchi una nuova storia generale potrebbe significare che le precedenti, quelle del tempo della decolonizza-zione, stanno ancora in piedi e che non si avverte la necessità di sostituirle ma al massimo di aggiornarle e completarle. Ed è indubbio che questa conclusione non sia infondata.

Novità

D’altro canto essa non soddisfa del tutto. Gli ultimi venticinque anni di studi hanno fatto emergere, talora esplicitamente ma più spesso im-plicitamente, alcuni elementi che tendono a modificare l’interpretazione precedente. È giunto adesso il momento di esplicitarli ai loro diversi livelli.

A lungo si è guardato al consenso di cui indubbiamente la classe di-rigente liberale godé al momento della guerra di Libia, almeno in alcuni strati della società italiana, come ad una mobilitazione dall’alto, guidata dal governo e ispirata dai nazionalisti. Gli studi più recenti sembrano in-vece comporre un quadro in cui molti dei soggetti in campo – giornali provinciali, movimenti politici anche d’opposizione, gerarchie ecclesiasti-che di base ecc. – sono già convinti o sono pronti ad essere facilmente convinti dell’opportunità della guerra. In una parola gli studi recenti fanno intravedere non una società riluttante a seguire il governo e l’avanguardia marciante nazionalista, ma abbastanza diffusamente già colonialista. Alla mobilitazione dall’alto si sarebbe affiancata quindi una automobilitazione

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dal basso.Inoltre, per molti anni, nella spiegazione storica dell’invasione della

Libia ha giocato un ruolo importante, sia pur senza essere prevalente, la considerazione economica. Gli studi sulla penetrazione economica del Banco di Roma ne erano il miglior esempio46. Gli studi più recenti invece sembrano indirizzarsi sul livello più culturale della spiegazione. Più che l’e-conomia, avrebbe potuto la cultura: l’esotismo diffuso, l’attitudine razzista a ritenere la presenza militare turca un avversario da battere, il pregiudizio di non considerare la popolazione libica un possibile attore politico auto-nomo.

Quanto questo attenga alla prospettiva degli storici più che alla realtà degli eventi, alla storiografia più che alla storia, sarebbe oggetto di discus-sione: è però un dato di fatto che il termine imperialismo sembra scom-parso dagli studi per far campo a quelli di orientalismo, razzismo o di pregiudizio razziale.

Intanto, a prendere sul serio e a coordinare quanto emerge dai nuovi studi, verrebbe quindi del tutto reimpostata la questione fondamentale sul perché e come l’Italia andò in Libia.

Continuità

I segnali di cambiamento non dovrebbero quindi essere sottovalutati. Ma la discontinuità non prevale dovunque. Il rinnovamento degli studi italiani dell’età postcoloniale, rispetto a quelli della conquista, del dominio e della decolonizzazione, è tutt’altro che totale. La continuità è ancora forte.

Manca quasi del tutto una seria presa in considerazione della parte tur-ca e delle conseguenze balcaniche della guerra italo-turca47. La prospettiva è quindi ancora assai nazionale e provinciale.

Manca una seria considerazione delle reazioni della popolazione libi-ca48. Uno studio serio che distingua fra le varie posizioni della società libica è assente49. Lo scacco di Sciara Sciatt rimane ancora non ben spiegato negli studi italiani, che peraltro si segnalano ancora per la non presa in conto delle pubblicazioni libiche che – sia pur in un’ottica nazionalistica – con questi temi si sono confrontati50. La stessa vicenda dei deportati del 1911-15 non è stata al fondo integrata nella narrazione italiana, rimanendo un’eccezione. Manca una seria riflessione sulle differenze fra città e campa-

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gna, fra Tripolitania e Cirenaica. La prospettiva, da questo punto, sembra rimanere davvero ancora quella coloniale51. Né gli studi italiani hanno for-nito un contributo rilevante al dibattito scientifico forse più importante ai fini della comprensione della storia libica, da quella pre-coloniale a quella post-coloniale: il dibattito cioè sulla nascita (o meno) di un nazionalismo moderno libico durante il periodo coloniale e poi nell’immediata decolo-nizzazione52.

Mentre sul fronte interno, italiano, della storia della guerra italo-turca gli studi sono progrediti anche affacciando nuove possibili interpretazioni, sul fronte esterno – turco, balcanico, libico – la continuità sembra prevalere.

Politica e storia

Abbiamo già elencato alcune delle ragioni di queste continuità: barriere linguistiche, permanenze coloniali o quanto meno eurocentriche, naziona-lismo (il ritardo nella traduzione di Loti…).

Potremmo aggiungere ora la resistenza a rinunciare del tutto alle rassi-curanti difese del vecchio mito degli ‘italiani brava gente’53. La riluttanza diffusa a ricordare (o, per gli studiosi, a studiare) gli aspetti più urticanti della vicenda coloniale ha una lunga storia, per certi periodi è sembrata rappresentare una sorta di carattere nazionale e in alcuni anni ha funzio-nato persino come ideologia ufficiale della Repubblica nei confronti del passato coloniale. Per quanto tardivamente, proprio a partire dagli anni ottanta-novanta v’erano stati però segnali per cui una parte importante del Paese voleva sbarazzarsi di quest’ideologia e fare seriamente i conti con il passato coloniale. Negli stessi anni, lo stesso era chiesto da alcuni gover-ni di ex-colonie, nel quadro del movimento generale per una richiesta di compensazioni che i Paesi di nuova indipendenza andavano esigendo dai Paesi ex-colonizzatori. Da parte della Libia di Gheddafi, ad esempio, è venuto facendosi un uso strumentale del passato, in cui ampie concessioni economiche e politiche all’Italia dell’oggi si alternavano, quando faceva comodo a Tripoli, a vibranti richieste di ammissione di responsabilità per il passato, e di relative compensazioni.

A questo punto diventano più chiare le responsabilità extra-accademi-che, e più precisamente politiche-istituzionali, nel non voler ricordare/stu-diare da parte italiana alcuni temi. Questo non era più tanto una questione antropologica legata ad un presunto carattere nazionale degli italiani ma

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una posizione politico-diplomatica, con concrete ricadute economiche, nel contenzioso interstatuale Italia-Libia. Così inquadrata, è ora possibile capire meglio ad esempio tutta la questione se ricordare in piccolo o in grande la vicenda dei deportati del 1911-15: la resistenza ad ammettere la rilevanza della questione, la decisione di decentrare i luoghi d’incontro fra gli studiosi italiani e libici e la scelta di non pubblicare con grandi casi editrici i risultati dei loro studi, mettendoli facilmente a disposizione dei lettori ed aprendo un grande dibattito nell’opinione pubblica, sono state altrettante scelte politico-diplomatiche, non solo culturali né tanto meno antropologiche. Nel senso della continuità con il passato coloniale e della riluttanza ad ammettere le responsabilità italiane non erano quindi solo il carattere nazionale o gli studiosi ma soprattutto il ministero degli Esteri.

Merita di essere osservato che, di questo gioco politico-diplomatico, le responsabilità non stanno solo dalla parte degli ex-colonizzatori, ma anche da quella degli ex-colonizzati. L’assenza di uno studio critico della società libica finisce infatti per agevolare non solo la ex-madrepatria, i cui funzio-nari degli Esteri possono sentirsi a maggior riparo dalle richieste di com-pensazioni, ma anche la ex-colonia. Un regime fortemente nazionalistico, espressione di una società segmentata in qabile, è infatti meno insidiato nella propria legittimità se nessuno questiona come e perché questa o quel-la qabila ha ottenuto storicamente una posizione di rilievo: protetto dietro lo scudo ideologico delle responsabilità storiche dell’ex-colonizzatore es-so non è costretto a riflettere pubblicamente né sui meccanismi storici di collaborazione di una parte dei colonizzatori con i loro colonizzatori, né sulle modalità storiche della lotta senza quartiere – tutta dentro la socie-tà colonizzata – per la conquista del potere anticoloniale e postcoloniale. Tutto ciò è ben esemplificato dalla pressante richiesta libica di studiare la deportazione del 1911-15, ma non – ad esempio – i campi di concentra-mento della Cirenaica del 1930-33 od anche la vicenda degli ascari libici, che coinvolsero porzioni ben più ampie della società libica del tempo. In una parola, la ricerca storica può essere scomoda per tutti quando è critica e libera.

Che forti siano state le pressioni perché la ricerca storica si facesse stru-mento della politica e si riducesse, più o meno volontariamente, a stru-mento di un giuoco politico-internazionale, è evidente anche dalla lettura dei due più importanti documenti diplomatici che hanno regolato le re-lazioni diplomatiche fra i due Paesi negli ultimi decenni, il Comunicato

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congiunto del 1998 e il Trattato di amicizia del 200854. Mentre il primo conteneva ampie ammissioni circa le responsabilità storiche dell’Italia e apriva la strada ad una sincera politica di compensazioni, il secondo di fat-to intendeva chiudere frettolosamente questo capitolo, non parlava di faci-litare la ricerca storica (se non, ancora una volta, sui deportati del 1911-15) e, in un colpo solo, poteva lasciar pensare di mettere in sicurezza sia l’Italia di Silvio Berlusconi, che si trovava a non essere messa in questione circa le sue responsabilità storiche, sia la Libia di Muammar Gheddafi, al riparo da liberi studi sul ruolo delle qabile nella resistenza anticoloniale. Questa po-litica di uso della storia diventava evidente nelle diverse ma reciprocamente tollerate scelte di Berlusconi di non formulare ampie, sentite e circostan-ziate richieste di scusa al leader libico e al suo popolo, e dall’altra parte di Gheddafi di visitare l’Italia con appuntata sul petto (come una medaglia) la fotografia del leader militare della resistenza anticoloniale impiccato dagli italiani nel 1931. Due scelte, se si pensa bene, ambedue estreme che dal punto di vista della logica formale si direbbero opposte e incompatibili (o non ci sono state colpe coloniali o ci sono state, o sono stati inferti oltraggi ai diritti umani dei colonizzati o non ci sono stati) ma che invece marciava-no assieme sul tappeto rosso del riconoscimento reciproco nello sfilamento dei picchetti militari e che scorrevano liquide come il petrolio negli oleo-dotti della protezione dei reciproci interessi. Quello che era stato presen-tato come il più impegnativo, se non il primo, dei trattati internazionali di ammissione da parte europea di colpe relative al passato coloniale, in realtà funzionava – al livello culturale (che pure era il minore dei suoi sco-pi) – da reciproca copertura dei due leader davanti alle rispettive opinioni pubbliche. Era, insomma, dal punto di vista storico-culturale, un trattato insincero. La ricerca storica non poteva non risentire dell’atmosfera di cui esso era espressione.

È anche per questa ragione, al fondo, che, come nel passato, gli studi coloniali italiani sulla guerra di Libia non hanno ricercato a fondo (né so-no stati incoraggiati a ricercare) attorno alle vicende della parte libica, per non dire poi turca e balcanica. Gli interessi della diplomazia non hanno facilitato la ricerca storica, né questa – salvo poche eccezioni – li ha sino in fondo contraddetti.

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La storia è in movimento

Non è detto che così debba essere per sempre.Abbiamo già rilevato come una nuova generazione di giovani studiosi,

in diverse aree di ricerca, ha messo in discussione le precedenti interpre-tazioni, quella coloniale e quella della decolonizzazione. La stessa realtà politico-diplomatica sta rapidamente trasformandosi, a seguito della ‘pri-mavera araba’ del 2011 e purtroppo dell’intervento militare di una coali-zione di volenterosi e della Nato. Se cambierà in meglio o in peggio, ad oggi, non è dato sapere.

Per adesso può essere osservato che l’ultimo venticinquennio, quello integralmente postcoloniale, ha dato luogo ad una certa quantità di stu-di sulla guerra del 1911-12 che tendono a mettere in discussione alcuni assunti delle grandi narrazioni precedenti, quelle del periodo coloniale e della decolonizzazione, pur non avendo ancora prodotto una grande narra-zione nuova che possa sostituirle. Per molti aspetti però questi studi, anche innovativi, rimangono ancora nel quadro degli studi precedenti. Qualche anno fa, ottimisticamente, uno studioso che tanto aveva contribuito alla ricerca attorno al 1911-12 aveva suggerito che gli storici italiani fossero passati finalmente dalla guerra italo-turca alla guerra italo-libica55, come a dire che si era passati da una prospettiva diplomatico-militare ancora forte-mente coloniale ad una ricerca postcoloniale che tenesse conto anche delle vittime della storia. A moderare un poco il suo entusiasmo costatiamo che gli storici italiani ancora si limitano allo studio della parte italiana della guerra: né la parte libica né la parte turca né quella balcanica sono ancora entrate stabilmente nel loro orizzonte. Sarebbe ingeneroso scrivere che gli storici italiani di oggi ripetono le mosse dei governi di Roma del 1911-12, che sottovalutarono molto quanto avveniva sulle altre sponde del Mediter-raneo. Ma è certo che persino i cautissimi processi postbipolari di ricon-ciliazione italo-libica non hanno favorito l’ampliamento degli orizzonti e degli interessi della ricerca storica italiana in quest’ultimo quarto di secolo.

Studiare la guerra di Libia, e in generale le relazioni italo-libiche, al tempo del nazionalismo libico di Gheddafi e del contenzioso postcoloniale ha creato nella diplomazia italiana e per certi versi anche fra gli storici italiani imbarazzo e reticenze, oscillanti fra sentimento di colpa e spinta alla rimozione. La simpatia anticoloniale e la reazione ad un vecchio na-zionalismo non è riuscito ad andare di pari passo con il riconoscimento

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delle responsabilità nazionali e il superamento di antichi complessi. Igno-ranza, disinteresse e interessi anche politici si sono mescolati. Non si è più nel mezzo secolo coloniale delle relazioni italo-libiche (1911-1961), e si è superato il venticinquennio della decolonizzazione (1961-1986), quando gli studi erano davvero pochi. Nell’ultimo venticinquennio, ormai post-coloniale (1986-2011) un certo corpus di studi è disponibile, ma in esso continuità e cambiamento si mescolano ancora, senza che il secondo abbia ancora prevalso nettamente sulla prima.

Note al testo

1 Pierre Loti, L’agonia dell’impero turco. La guerra italo-turca e la guerra dei Balcani, prefazione di Chetro De Carolis, Muzzio, Padova 2000.Sul testo cfr. Osman Okyar, Une correspondance entre Pierre Loti et Fethi Okyar lors de la guerre de Tripolitaine (1911-1912), in L’Empire Ottoman, la République de Turquie et la France, a cura di Hamit Batu, Jean-Louis Bacqué-Grammont, Association pour le développement des études turques – Institut français d’études anatoliennes d’Istanbul, Paris-Istanbul 1986; e Salvatore Bono, Pierre Loti et la guerre italo-turque (1911-1912), in Les Méditerranées de Pierre Loti. Colloque organisé à La Rochelle, a cura di Bruno Vercier, Alain Quella-Villéger, Gaby Scaon, Jean-Pierre Melot, Aubéron, Bordeaux 2000, pp. 49-58.

2 A partire da S. Bono, Storiografia e fonti occidentali sulla Libia (1510-1911), «L’Erma» di Bretschneider, Roma 1982 (Quaderni dell’Istituto italiano di cultura di Tripoli, nuova serie, 2); Assunta Trova, Appunti sulla storiografia dell’imperialismo in italia fino alla guerra libica, in «Risorgimento: Rivista di Storia del Risorgimento e di Storia Contemporanea», a. XXXIII (1981) n. 1, pp. 23-46; Nicola Labanca, Gli studi italiani sul colonialismo italiano in Libia, in Un colonialismo, due sponde del Mediterraneo. Atti del seminario di studi storici italo-libici, a cura di N. Labanca, Pierluigi Venuta, CRT, Pistoia 2000, pp. 15-28; Modern and contemporary Libya. Sources and historiographies, a cura di Anna Baldinetti, Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente, Roma 2003; N. Labanca, Un ponte fra gli studi, in N. Labanca, P. Venuta, Biblio-grafia della Libia coloniale, Olschki, Firenze 2004, pp.V–LIV; Federico Cresti, Il Maghreb contemporaneo nella storiografia italiana dal 1985 a oggi, in Il mondo visto dall’Italia, a cura di Agostino Giovagnoli, Giorgio Del Zanna, Guerini, Milano 2004; e N. Labanca, Fasi e tenden-ze negli studi italiani sulla Libia coloniale, in La Libia tra Mediterraneo e mondo islamico. Atti del convegno di Catania, 1-2 dicembre 2000. Aggiornamenti e approfondimenti, a cura di Federico Cresti, Giuffrè, Milano 2006, pp. 3-18.Un’utile indicazione relativa alle fonti sta in Anna Baldinetti, R.L. De Palma, Le carte del periodo coloniale nell’archivio storico di Tripoli. Notizie della missione del 27 maggio-6 giugno 2000, in «Africa», a. LVII (2002) n. 4, pp. 625-635.

3 Consideriamo un punto di svolta l’opera in due volumi di Angelo Del Boca Gli italiani in Libia, Laterza, Roma-Bari 1986-88 (specificamente vol. I, Tripoli bel suol d’amore, e vol. II, Dal fascismo a Gheddafi), che veniva dopo Id., Gli italiani in Africa Orientale, Laterza, Roma-Bari 1976-84, 4 voll.

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4 Torneremo più avanti su questi testi. Ci riferiamo però sin d’ora a Comando del Corpo di Stato Maggiore, Ufficio coloniale, L’azione dell’esercito italiano nella guerra italo-turca 1911-1912, Lab. tip. del Comando del Corpo di Stato Maggiore, Roma 1913; e La marina nella guerra italo-turca (1911-12). Esposizione sommaria delle operazioni compiute durante la guerra, Ministero della Marina, Roma 1912; Ministero della Marina, Ufficio storico di Stato Maggio-re, Guerra italo-turca (1911-1912). Cronistoria delle operazioni navali, Hoepli, Milano 1918-1926: Ministero della Guerra, Stato maggiore del regio esercito, Ufficio storico, Campagna di Libia, Roma 1922-1927; Mariano Gabriele, La marina nella guerra italo-turca. Il potere marittimo strumento militare e politico, 1911-1912, Ufficio storico della marina militare, Roma 1998; e Antonio Rosati, La guerra italo-turca, 1911-1912, SME-Ufficio storico, Roma 2000.

5 Come siamo andati in Libia, Libreria della Voce, Firenze 1914 (Gaetano Salvemini, Come siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900 al 1915, a cura di Augusto Torre, Feltrinelli, Milano 1963).

6 A livello militare: Comando del Corpo di Stato Maggiore, Ufficio coloniale, L’azione dell’eser-cito italiano nella guerra italo-turca 1911-1912 cit.; e La marina nella guerra italo-turca (1911-12). Esposizione sommaria delle operazioni compiute durante la guerra cit.A livello politico: Pro e contro la guerra di Tripoli. Discussioni nel campo rivoluzionario, Società editrice partenopea, Napoli 1912; Come siamo andati in Libia cit.

7 Ad esempio Guerra italo-turca (1911-1912). Cronistoria delle operazioni navali, vol. I, Dalle origini al decreto di sovranità su la Libia, Hoepli, Milano 1918 (Ministero della Marina. Pubbli-cazioni dell’Ufficio storico di Stato Maggiore: Roma, Tip. dello Stato Maggiore della Marina); Ministero della Marina, Ufficio del capo di Stato Maggiore, Ufficio storico, Guerra italo-turca (1911-1912). Cronistoria delle operazioni navali, vol., II, Dal decreto di sovranità sulla Libia alla conclusione della pace, Stab. Poligr. Edit. Romano, Roma 1926; Ministero della Guerra, Stato maggiore del regio esercito, Ufficio storico, Campagna di Libia, vol. I, Parte generale: operazioni in Tripolitania dall’inizio della campagna alla occupazione di Punta Tagiura (ottobre-dicembre 1911), Stabilimento poligrafico per l’amministrazione della Guerra, Roma 1922; Ministero della Guerra, Stato maggiore del regio esercito, Ufficio storico, Campagna di Libia, vol. II, Operazioni in Tripolitania dal dicembre 1911 (dopo l’occupazione di Punta Tagiura) alla fine dell’agosto 1912, Stabilimento poligrafico per l’amministrazione della Guerra, Roma 1923; Ministero della Guerra, Stato maggiore del regio esercito, Ufficio storico, Campagna di Libia, vol. III, Le operazioni a Homs, al confine tunisino e a Misurata (periodo ottobre 1911-agosto 1912), Libreria dello Stato, Roma 1924; Ministero della Guerra, Stato maggiore del regio esercito, Ufficio storico, Campagna di Libia, vol. IV, Le operazioni in Cirenaica (periodo ottobre 1911-agosto 1912), Libreria dello Stato, Roma 1925; Ministero della Guerra, Stato maggiore del regio esercito, Ufficio storico, Campagna di Libia, vol. V, Appendice, Provveditorato gene-rale dello Stato, Libreria, Roma 1927.Si veda anche Alberto Cavaciocchi, Libia ed Algeria, Tip. Schioppo, Torino 1924.

8 Gennaro Mondaini, Manuale di storia e legislazione coloniale del Regno d’Italia. Parte I. Storia coloniale, Sampaolesi, Roma 1927; Raffaele Ciasca, Storia coloniale dell’Italia contemporanea. Da Assab all’impero, Hoepli, Milano1938.

9 Gioacchino Volpe, L’impresa di Tripoli 1911-12, Edizioni Leonardo, Roma 1946.Si veda prima Willy Kalbskopf, Die Auszenpolitik der Mittelmachte im Tripoliskrieg und die letzte Dreibunderneuerung, 1911-1912. Eine Studie zur Bundnispolitik der europaischen Groszmachte vor dem Weltkrieg. Inaugural-dissertation, K. Dores, Erlangen 1932; William C. Askew, Europe and Italy’s acquisition of Libya 1911-1912, North Carolina, Duke University press, Durham 1942.

10 Enrico De Leone, La colonizzazione dell’Africa del Nord, vol. II, La Libia, Cedam, Padova 1960.

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11 Il volume più importante rimane Francesco Malgeri, La guerra libica 1911-12, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1970. Si vedano anche Paolo Maltese, La terra promessa. La guerra italo-turca e la conquista della Libia 1911-1912, Sugar Stampa, Milano 1968; e Sergio Romano, La quarta sponda. La guerra di Libia , 1911-1912, SugarCo, Milano 1977 (poi ried. TEA, Milano 2007). In quegli stessi anni Z. P. Jahimovic, Italo-tureckaja vojna 1911-1912 gg., Nauka, Moskva 1967 (202 pp., Moskovskij gosudarstvennyj pedagogiceskij institut im. V. I. Lenina).In Italia, poi, Massimo S. Ganci, La guerra di Libia (1911-1912), con 19 manifesti in facsi-mile e una scheda storica (Le fonti della storia, 14), La Nuova Italia, Firenze 1969; Giorgio Rochat, Le guerre italiane in Libia e in Etiopia dal 1896 al 1939, Gaspari, Udine 2009; e Claudio Segre, Gli italiani in Libia. Dall’età giolittiana a Gheddafi, Feltrinelli, Milano 1978.

12 A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Laterza, Roma-Bari 1976-84 e Gli italiani in Libia cit.Intanto in Francia Juliette Bessis, La Libia contemporanea (1986), Rubbettino, Soveria Man-nelli 1991.

13 N. Labanca, Fasi e tendenze negli studi italiani sulla Libia coloniale cit.14 Solo per qualche esempio Luigi Albertini, Dalla guerra di Libia alla Grande Guerra, Mila-

no, Mondadori, 1968; Adolfo Pepe, Storia della CGdL dalla fondazione alla guerra di Libia, 1905-1911, Laterza, Bari1972; Luigi Cortesi, Le origini del Partito Comunista Italiano. Il PSI dalla guerra di Libia alla scissione di Livorno, Laterza, Roma 1973; Giovanni Amendola, La crisi dello stato liberale. Scritti politici dalla guerra di Libia all’opposizione al fascismo, a cura di Elio D’Auria, presentazione di Renzo De Felice, Newton Compton, Roma 1974; Maurizio Degl’Innocenti, Il socialismo italiano e la guerra di Libia, Editori Riuniti, Roma 1976; ma la lista potrebbe continuare.

15 Il volume più importante è Timothy W. Childs, Italo-Turkish Diplomacy and the War over Libya 1911-1912, E. J. Brill, Leiden 1990, su cui si veda la severa lettura di S. Bono, Un nuovo libro poco nuovo sulla guerra italo-turca (1911-1912), in «Studi piacentini», a. XIV (1993) n. 2, pp. 239-247. Di recente Mahmoud-Hamdane Larfaoui, L’occupation italienne de la Libye. Les preliminaires 1882-1911, L’Harmattan, Paris 2010 (su cui una scheda di Nicola Labanca in «Il mestiere dello storico», a. 2011 n. 1).Interessanti considerazioni in Enrico Serra, I diplomatici italiani, la guerra di Libia e l’im-perialismo, in Italia e Inghilterra nell’età dell’imperialismo, a cura di Enrico Serra, Cristopher Seton-Watson, Angeli, Milano 1990, pp. 146-164.Sullo sfondo, il grande affresco (una prosecuzione del lavoro di Chabod?) di Daniel J. Gran-ge, L’Italie et la Méditerranée (1896-1911). Les fondements d’une politique étrangère, École Française de Rome, Roma 1994.

16 S. Bono, Sebastiano Zaccaria, medico a Tripoli, e un progetto casus belli per la guerra di Libia, in «Storia contemporanea», a. 1985 n. 5/6, pp. 955-969; Gian Paolo Ferraioli, Giolitti e San Giuliano di fronte alla questione della chiusura dell’impresa di Libia. Annessione o protettorato?, in «Africa», a. LVI (2001), pp. 325-363; Id., Politica e diplomazia in Italia tra il XIX e XX secolo. Vita di Antonino di San Giuliano (1852-1914), Rubbettino, Soveria Mannelli 2007.

17 Sull’Inghilterra: Barbara Gregori, La posizione inglese durante il conflitto italo-turco (1911-12). La campagna di stampa sul «Times», in «I sentieri della ricerca», a. 2008 n. 7/8, pp.17-40; Saho Matsumoto-Best, British and Italian Imperial Rivalry in the Mediterranean, 1912-14: The Case of Egypt, in «Diplomacy & Statecraft», a. XVIII (2007) n. 2, pp. 297-314. Sulla Francia Jean-Claude Allain, Les débuts du conflit italo-turc: octobre 1911 - janvier 1912 (d’après les archives françaises), in « Revue d’Histoire Moderne & Contemporaine », a. XVIII (1971) n. 1, pp. 106-115 ; S. Bono, Archives du Ministère des affaires etrangères a Parigi. Do-cumentazione sulla guerra libica, in Le fonti per la storia militare italiana in età moderna e con-

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temporanea. Atti del 3° seminario, Roma, 16-17 dicembre 1988, Ministero per i beni culturali e ambientali, Ufficio centrale per i beni archivistici, Roma1993, pp. 183-199; Paolo Soave, Fezzan: il deserto conteso (1842-1921), Giuffrè, Milano 2001; Id., Una regione «strategica»: il Fezzan, in «Africa», a. LVII (2002) n. 1, pp. 55-85; e soprattutto André Martel, La Libye, 1835-1990. Essai de géopolitique historique, Presses universitaires de France, Paris 1991.Sulla Germania Jens Petersen, La guerra italo-turca e i rapporti tra Italia e Germania nel giudizio di Rudolf Borchardt, in «Studi piacentini», a. 2000 n. 27, pp. 71-92; W. David Wri-gley, Germany and the Turco-Italian war, 1911-1912, in «International Journal of Middle East Studies», a. XI (1980) n. 3, pp. 313-338; Peter Sebald, Italy’s Colonial Conquest of Libya 1911-12 in the Light of Eye-Wittness Reports, by the German Africa Expert Gottlob Adolf Krause, in The Arab World and Asia between Development and Change. Dedicated to the XXXIst Inter-national Congress of Human Sciences in Africa and North Africa, a cura di Günther Barthel, Lothar Rathmann, Akademie-Verlag, Berlin 1983, pp. 74-86; Günther Barthel, Der italie-nische Kolonialkrieg 1911/12 in Libyen und der nationale Widerstand der Volksmassen gegen die Eroberer im Spiegel deutscher Konsular-und Presseberichte, in «Wissenschaftliche Zeitschrift der Karl-Marx-Universität Leipzig. Gesellschaftswissenschaftliche Reihe», a. XXXVIII (1989) n. 6, pp. 620-633.Sulla Russia Federica Onelli, La Russia e la guerra di Libia: 26 agosto-5 novembre 1911, in «Africa», a. LV (2000) n. 3, pp. 385-397.Su altri paesi minori S. Bono, Documentazione sulla Libia nell’archivio del ministero degli esteri a Bruxelles (1850-1950), in «Africa», a. XXXVIII (1983) n. 3, pp. 415-422; Id., Les Pays-Bas et la guerre de Libye (1911-1912), in «Al-Magallat al-tarihiyyat al-Majribiyyat: Revue d’histoire maghrébine», a. 1995 n. 77-78, pp. 127-134; Michel Dumoulin, Quelques documents belges sur la guerre italo-turque (1911-1912), in «Rassegna Storica del Risorgimento», a. LXIII (1976) n. 1, pp. 48-59; Daniela Fabrizio, Il protettorato religioso sui cattolici in Oriente: la questione delle relazioni diplomatiche dirette tra Santa Sede e Impero ottomano (1901-1918), in «Nuova rivista storica», a. 1988 n. 3.Sull’Impero ottomano Marco Lenci, La campagna italiana nel Mar Rosso durante la guerra di Libia e la rivolta antiturca di al-Idrisi nell’Asir, in «Storia contemporanea», a. 1985 n. 5/6, pp. 971-1000; Id., Eritrea e Yemen. Tensioni italo-turche nel mar Rosso (1855-1911), Franco Angeli, Milano 1990; Ercument Kuran, L’invasion italienne de Tripoli d’apres le quotidien Tanin, or-gane semi-officiel du gouvernemnt ottoman (septembre 1911-octubre 1912), in «Revue d’Histoire Maghrebine», a. XVII (1990) n. 59/60, pp. 101-105; Evdokia Olympitou, Transgressions des frontieres maritimes. Le cas des ilots du Dodecanese, in « La Revue Historique »,a. V (2008), pp. 181-192.Sull’Egitto: Anna Baldinetti, `Aziz `Ali al-Misri: un ufficiale egiziano al fronte libico (1911-13), in «Africa», a. XLVII (1992) n. 2, pp. 268-275; Ead., La Mezzaluna rossa d’Egitto e la guerra italo-turca, in «Africa», a. XLVI (1991) n. 4, pp. 565-572; Ead., Orientalismo e colonia-lismo. La ricerca di consenso in Egitto per l’impresa di Libia, Istituto per l’Oriente, Roma 1997.Una certa attenzione è andata al Dodecaneso: Rosita Orlandi, L’occupazione italiana di Rodi e del Dodecaneso, in «Storia e Politica», a. XXI (1982) n. 1, pp. 1-30; Richard Bosworth, Bri-tain and Italy’s acquisition of the Dodecanese, 1912-1915, in «Historical Journal», a. XIII (1970) n. 4, pp. 683-705; P. J. Carabott, The temporary Italian occupation of the Dodecanese: a prelude to permanency, in «Diplomacy & Statecraft», a. IV (1993) n. 2, pp. 285-312.Due brevi interventi molto generali Sergio Romano, Il contesto internazionale della guerra libica, in «Affari Esteri», a. IX (1977) n. 34, pp. 340-350; Id., La guerre de Libye: les italiens et l’Afrique, in «L’Histoire», a. 1978 n. 2, pp. 42-49.

18 Antonello F.M. Biagini, La rivoluzione dei giovani turchi nel carteggio degli addetti militari italiani, in «Rassegna storica del risorgimento», a. LXI (1974), n. 4.

19 Raffaele Molinelli, Il nazionalismo italiano e l’impresa di Libia, in «Rassegna storica del

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risorgimento», a. LIII (1966) n. 2, pp. 285-318; Maurizio Scaglione, Appunti sulle origini del movimento nazionalista in Sicilia. La rivista Tripoli italiana (1912), in «Rassegna storica del risorgimento», a. LXX (1983) n. 3, pp. 301-320.

20 Per i repubblicani cfr. Gian Biagio Furiozzi, I repubblicani di Perugia e la guerra di Libia, in «Umbria contemporanea», a. II (2004) n. 2, pp. 105-121.Per i socialisti l’interesse è più lontano: a parte Luigi Scognamiglio, Nota sul contributo della stampa italiana alla conoscenza della Confraternita Senussita: l’«Avanti!» (1911-1912), Luciano, Napoli 1994, cfr. infatti Brunello Vigezzi, Giolitti, il Partito socialista, la guerra di Libia nelle lettere di Filippo Turati a Anna Kuliscioff (1912), Quaderni di Mondo operaio, Roma 1973; Id., Un problema di storia del socialismo: Filippo Turati tra la guerra di Libia e la prima guerra mondiale, in «Rassegna storica toscana», a. XXI (1975) n. 1, pp. 63-90; Leonardo Saviano, Il Partito socialista italiano e la guerra di Libia (1911-1912), in «Aevum», 1974. Un lavoro clas-sico era stato George Haupt, L’Internazionale socialista e la conquista libica, in «Movimento Operaio e Socialista», a. XIII (1967) n. 1, pp. 3-24.

21 Cesira Filesi, La guerra di Libia e la stampa d’ispirazione cristiana, in «Annali della facoltà di Scienze politiche dell’Università di Cagliari», a. VIII (1981-1982).

22 La partenza rimane Romain H. Rainero, Paolo Valera e l’opposizione democratica all’impresa di Tripoli, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 1983 (Quaderni dell’Istituto Italiano di Cultura di Tripoli, N. S., 3). Ma cfr. ora Esperia Ghezzi Ganazzoli, Le agitazioni antimilitariste in Sicilia e i socialisti. Dal-la guerra di Libia alla settimana rossa, prefazione di Romano Ugolini, Italo-latino-americana palma, Palermo 1981; Ezio Bartalini, Eugenio Guarino, Tripoli terra incantata. Fatti e misfatti della guerra di Libia (1911-1912), a cura di Tiziano Arrigoni, La Bancarella editrice, Piombino 2007; Alberto Castelli, Between Patriotism and Pacifism. Ernesto Teodoro Mone-ta and the Italian conquest of Libya, in «History of European Ideas», a. XXXVI (2010) n. 3, pp. 324-329; Peter Sebald, Die italienische Kolonialeroberung von Tripolis, gesehen mit den Augen eines deutschen Antikolonialisten, Gottlob Adolf Krause (1850-1938), in Libyen im 20. Jahrhundert: zwischen Fremdherrschaft und nationaler Selbstbestimmung, a cura di Sabine Frank, Martina Kamp, Deutsches Orient-Institut, Hamburg 1995 (Mitteilungen, Deutsches Orient-Institut, 52), pp. 33-65; Laurie R. Cohen, Across a Feminist-Pacifist Divide. Baroness Bertha von Suttner’s Tour of the United States in 1912, in «Homme: Zeitschrift für Feministische Ge-schichtswissenschaft», a. XX (2009) n. 2, pp. 85-104 (Bertha von Suttner, Jane Addams, Aletta H. Jacobs, Rosika Schwimmer, Frida Perlen, Chrystal Macmillan).

23 Su un aspetto cfr. Angelo Iacovella, Il triangolo e la mezzaluna. I giovani turchi e la massone-ria italiana, Istituto italiano di cultura di Istanbul, Istanbul 1997; Id., La Massoneria italiana in Turchia: la loggia Italia risorta di Costantinopoli (1867/1923), in «Studi emigrazione», a. XXXIII (1996) n. 123, pp. 393-416.

24 Giancarlo Monina, La propaganda navalista dalla Guerra in Libia al conflitto mondiale, Unicopli, Milano 2007.

25 Giovanni Cavagnini, Il mito dell’eroe crociato: padre Reginaldo Giuliani «soldato di Cristo e della Patria», in «I sentieri della ricerca», a. 2010 n. 11, e Id., Nazione e provvidenza : padre Reginaldo Giuliani tra Fiume ed Etiopia (1919-36), in «Passato e presente», a. 2010 n. 81.

26 F. Sabbadin, La chiesa in Libia dal XVII secolo ai giorni nostri, pp. 140-152 in La Chiesa nell’A-frica del Nord, a cura di H. Teissier, Ed. Paoline, Milano 1991; Id., I Frati Minori lombardi in Libia. La missione di Tripoli 1908-1991, Ed. Biblioteca Francescana, Milano 1991; Daniela Fabrizio, Politica e missione. Tripoli e Bengasi, Misurata e Derna (1904-1945), in «Nuova rivista storica», a. LXXXVII (2004), n. 2, p. 425-504; La guerra di Libia vista da Don Dolci parroco di Adrara; Cronaca di Adrara, 1912, Gruppo ricerca storica, Adrara san Martino 1999.

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27 Ferruccio Jalla, Corrado Jalla, ministro di culto evangelico nella guerra italo-turca (1911-1912), in «Studi piacentini», a. XXI (1997) n. 1, pp. 191-231; Stefano Gagliano, Gli evan-gelici italiani di fronte alla guerra di Libia, in «Storia e problemi contemporanei», a. XIX (2006) n. 42, pp. 11-35; Laura Brazzo, Angelo Sullam e il Sionismo in Italia tra la crisi di fine secolo e la guerra di Libia, p. I, in «Nuova rivista storica», a. XC (2006) n. 3, pp. 703-762, e p. II, ivi, a. XCI (2007) n. 2, pp. 361- 422.

28 Il testo più significativo è Tripoli bel suol d’amore. Testimonianze sulla guerra italo-libica, a cura di S. Bono, Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente, Roma 2005.

29 Ottavio Barié, La «politica nazionale» del «Corriere della sera» dalla guerra di Libia alla grande guerra, in «Risorgimento: Rivista di Storia del Risorgimento e di Storia Contemporanea», a. XX (1968) n. 3, pp. 172-199; Marcella Pincherle, La preparazione dell’opinione pubblica all’impresa di Libia, in «Rassegna storica del risorgimento», a. LXVI (1969) n. 3, pp. 450-482; Aristide Ricci, Stampa ed opinione pubblica alla vigilia della guerra di Libia, in Annuario Serao 1982, L.E.R., Napoli-Roma 1982; Marina Tesoro, Stampa e opinione pubblica in Italia al tempo della guerra con l’impero ottomano, in «Il Politico: Rivista Italiana di Scienze Politiche», a. 1990, n. 4, pp. 713-732; Marina Tesoro, Stampa e opinione pubblica in Italia al tempo della guerra con l’impero ottomano, in Italia-Turchia. Due punti di vista a confronto. Convegno internazionale, Università di Pavia, 26-27 aprile 1990, Giuffré, Milano 1992 (212 p. e 1 fasci-colo contenente 9 p. di testo non stampato nel volume per un disguido, Quaderni della rivista Il politico, n. 35), pp. 81-89; Rosalia Franco, Colonialismo per ragazzi: la rappresentazione dell’Africa ne «La domenica dei fanciulli» (1900-1920), in «Studi Storici», a. XXXV (1994) n. 1, pp. 129-151; Fabio Fattore, I corrispondenti di guerra e l’impresa di Libia, in «Nuova storia contemporanea», a. XIV (2010) n. 5, pp. 49-68; La grande illusione. Opinione pubblica e mass media al tempo della guerra di Libia, a cura di Isabella Nardi, Sandro Gentili, Morlacchi, Perugia 2009.Interessante a dimostrazione dell’eco: Federica Bertagna, Muestras de nacionalismo entre los italianos de argentina: «La patria degli italiani» y la guerra de Libia (1911-1912), in «Estudios Migratorios Latinoamericanos», a. XXI (2007) n. 64, pp. 435-456.

30 Già Francesco Gabrieli, L’arabistica italiana e la Libia, in «Annali della Facoltà di Scienze Politiche» dell’Università degli Studi di Cagliari, IX (1983), pp. 395-401; e Giulio Cianfe-rotti, Giuristi e mondo accademico di fronte all’impresa di Tripoli, Giuffrè, Milano 1984.Ma ora cfr. Stefan Altekamp, Rückkehr nach Afrika. Italienische Kolonialarchäologie in Libyen 1911-1943, Böhlau, Köln-Weimar-Wien 2000; La guerra lirica. Il dibattito dei letterati italiani sull’impresa di Libia (1911-1912), a cura di Antonio Schiavulli, Pozzi, Ravenna 2009; Massi-miliano Munzi, La decolonizzazione del passato. Archeologia e politica in Libia dall’amministra-zione alleata al regno di Idris, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2004.

31 Antonio Fiori, La censura durante la guerra di Libia, in «Clio», a. XXVI (1990) n. 3, pp. 483-511.

32 Una rilettura in N. Labanca, Una nuova Italia? La guerra di Libia, in Le «Tre Italie»: dalla presa di Roma alla Settimana Rossa (1870-1914), a cura di Mario Isnenghi, Simon Levis Sullam, vol. II di Gli Italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai nostri giorni, a cura di Mario Isnenghi, Utet, Torino 2009, pp. 631-661.Una recente ricostruzione generale, su materiale edito, è quella di Fabio Gramellini, Storia della guerra italo-turca 1911/1912, Carta canta, Forlì 2010; mentre una rassegna fotografica sta in Antonio Rosati, La guerra italo-turca, 1911-1912 cit.

33 Luigi Tuccari, I governi militari della Libia (1911-1920), Stato maggiore dell’esercito. Uffi-cio storico, Roma 1994; M. Gabriele, La marina nella guerra italo-turca. Il potere marittimo strumento militare e politico, 1911-1912 cit.; e Ferdinando Pedriali, Libia 1911-1936. Dallo sbarco a Tripoli al governatorato Balbo, Aeronautica Militare-Ufficio Storico, Roma 2008.

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Per alcuni approfondimenti cfr. Guido Valabrega, Il servizio trasporti e tappe nella guerra libi-ca (1911-1912), in «Africa», a. XXXIX (1984) n. 3, pp. 435-452; e Marco Scardigli, Esercito italiano e guerra di Libia nelle pagine della «Rivista militare» (1907-1916), in «Africa», a. XLIII (1988), n. 1; Tullio Marcon, Augusta base passeggera nella guerra italo-turca, in «Bollettino d’archivio dell’Ufficio storico della Marina Militare», VI (1992), 1, pp. 235-253; Andrea Ungari, The Italian Air Force from the Eve of the Libyan Conflict to the First World War, in «War in History», a. XVII (2010) n. 4, pp. 403-434.Non mancano i testi singolari: Militari dell’arma dei carabinieri decorati al valor militare nella guerra italo-turca 1911-1912, a cura di Edoardo Simoni, [s.n.t.], Ravenna 1995; Id., Fiamme d’argento in terra di Libia, 1911-1943. Albo d’onore dei reali carabinieri decorati al valor militare (Argento, Bronzo, Croce di Guerra, Encomio Solenne), [s.l., s.n.t.], 1998; Bruno Ghigi, Le due guerre dell’Italia in Libia: contro i turchi 1911-1926, 1940-43 contro gli inglesi in Egitto, presen-tazione di Giancarlo e Marco Renzi, Ghigi, Rimini 2010.L’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito italiano, pare per intercessione di Ciro Pao-letti, ha incaricato non uno studioso italiano, accademico o meno, ma un ufficiale statunitense di scrivere To the fourth shore: Italy’s war for Libya (1911-1912), di prossima pubblicazione. Si tratta del col. prof. Bruce C. Vandervort, del Virginia Military Institute, Vandervort è autore fra l’altro di Wars of Imperial Conquest in Africa, 1830-1914 (1998) e Indian Wars of Mexico, Canada and the United States, 1812-1900 (2006).

34 Francesco Malgeri, Spirito pubblico dei combattenti durante la guerra di Libia, in «Rassegna di politica e storia», a. 1969, pp. 174-184; e S. Bono, Morire per questi deserti. Lettere di soldati italiani dal fronte libico 1911-1912, Abramo, Catanzaro 1992.

35 Paride De Bella, Dalla guerra di Libia alla marcia su Roma, Quaderni di Ricerche, Roma 1972; Paride Sirocchi, Amore e guerra: memorie di un soldato automobilista nelle guerre di Libia1911-13 e nella prima mondiale 1915-18, L. Battei, Parma 1976; Gian Luigi Bruzzo-ne, Aspetti della guerra italo-turca (1911-12) nelle lettere del maggiore Sebastiano Mezzano, in «Rassegna storica del risorgimento», a. LXXIX (1992) n. 4, pp. 483-502; Clemente Sbisà, Viaggiatore di guerra. Africa 1912. Lettere ai familiari, a cura di Ugo Sbisà, Schena, Fasano 1994; S. Bono, Diario libico del ten. Mario Fiore (1911-1913), in «Storia contemporanea», a. XXVI (1995) n. 1, pp. 47-55; Alberto Angrisani, Immagini dalla guerra di Libia: album africano, a cura di N. Labanca e Luigi Tomassini, con una nota biografica sull’autore delle fo-tografie di Francesco De Martino, Lacaita, Mandria 1997; Dalla Libia all’Isonzo. Diari e lettere dei caduti di Calino e Cazzago. Ricerca scolastica Scuola media G. Bevilacqua, Cazzago S.M., a cura di Gianpietro Belotti e Giovanni Santi, Fondazione civiltà bresciana, Brescia 1998; Fa-brizio Anceschi, Guerra di Libia del 1911 e l’inedito diario del soldato reggiano Bruno Corgini, in «Reggiostoria», a. 1998 n. 80, p. 16-26; Mauro Della Valle, La chiamata alle armi per la guerra di Libia (1911-1912) dai ruoli matricolari del Distretto Militare di Frosinone, in Fonti e problemi della politica coloniale italiana. Atti del convegno (Taormina-Messina, 1989), Roma 1996; Gioachino Mario Rigamonti, Comaschi in Libia e India 1911-1998, in «Broletto», a. 1997 n. 52, a. 1998 n. 53-56, a. 1999 n. 57 (contiene: Dalla Libia con onore. Lettere inedite di Giusto Perretta; Dal diario libico di Giusto Perretta e di Argeo Belluschi; Continua l’odissea del prigioniero Giusto Perretta; Il diario di prigionia in India del Tenente Belluschi); Lettere di soldati veneti nella guerra di Libia: 1911-12, a cura di Ido Da Ros, Grafiche De Bastiani, Godega di S. Urbano 2001; Felice Fossati, Diario di guerra: dalla Libia all’Isonzo 1913-1919, Nordpress, Chiari (BS) 2003; Elio Lodolini, Foto della Libia 1913-1914, in «Bollettino dell’Archivio dell’Ufficio Storico», a. III (2003), n. 5, p. 243-248; Antonio Ceccotti, In Libia e sul Carso. Memorie di guerra di un mezzadro cascianese, introduzione e note di Francesco Biasci, nota linguistica di Filippo Motta, Tagete, Pontedera 2004; Paolo Merla, Il generale De Chaurand e la dignità della memoria 1910-1916. Il Novecento italiano in 6 anni di storia, Grafica & arte, Bergamo 2009; Antonio Granelli, Quaderni di guerra. Memorie di un operaio-soldato 1902-

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1919, a cura di A. Gandolfi, Unicopli, Milano 2010; Graziano Mamone, Orizzonti di un ber-sagliere ventimigliese alla guerra di Libia 1911-1912, in «Intemelion», a. 2010 n. 16, p. 41-56.

36 A. Del Boca, La disfatta di Gasr bu Hadi. 1915, il colonnello Miani e il più grande disa-stro dell’Italia coloniale, Mondadori, Milano 2004; Scene di battaglia. Dal «Diario» di Edoardo Lampis, sottotenente medico prigioniero in Libia, 1915-1916, a cura di Massimo Borgogni, in «Contemporanea», a. IV (2001) n. 1, pp. 69-92.

37 N. Labanca, L’occupazione italiana della Libia. Violenza e colonialismo (1911-1943), [nota critica su mostra], in «Il mestiere di storico», a. 2010 n. 1, pp. 61-62.

38 N. Labanca, P. Venuta, Bibliografia della Libia coloniale cit.39 Difficile identificare chi per primo ha parlato della vicenda: oltre a tutte le torie generali della

guerra di Libia, un accenno è in Eric Salerno, Genocidio in Libia. Le atrocità nascoste dell’av-ventura coloniale italiana, 1911-1931, ried. Roma, Manifestolibri, 2005; ma forse si dovrebbe risalire a Romain Rainero, al-Jawanib al-majhula `an al-muqawama `l-Libiyya: al-libiyyun al-murahhalun ila Italya, Unknown aspects of the Libyan resistance: the Libyans transported to Italy, in «Majallat al-Buhuth al-Tarikhiya», a. VII (1985) n.2, pp. 97-109.Da allora cfr. Mario Missori, Una ricerca sui deportati libici nelle carte dell’Archivio centrale dello Stato», in Fonti e problemi della politica coloniale italiana. Atti del convegno (Taormina-Mes-sina, 1989) cit., vol. I; Mario Genco, L’agonia dei deportati libici nella colonia penale di Ustica, in «Studi piacentini», a. 1989 n. 1, pp. 89-113; Claudio Moffa, I deportati libici della guerra 1911-12, in «Rivista di storia contemporanea», a. XIX (1990) n. 1, pp. 32- 56; E. Calandra, Prigionieri arabi a Ustica: un episodio della guerra italo-turca attraverso le fonti archivistiche, in Fonti e problemi della politica coloniale italiana. Atti del convegno (Taormina-Messina, 1989) cit., vol. II, pp. 1150-1168; Lino Del Fra, Sciara Sciat. Genocidio nell’oasi. L’esercito italiano a Tripoli, Datanews, Roma 1995.Cerca di inquadrare l’episodio in un quadro più generale Simone Bernini, Documenti sulla repressione italiana in Libia agli inizi della colonizzazione (1911-1918), in Un nodo. Immagini e documenti sulla repressione coloniale italiana in Libia, a cura di N. Labanca, Lacaita, Manduria 2002, pp. 117-202.

40 Il testo più importante è Gli esiliati libici nel periodo coloniale, 1911-1916. Raccolta documen-taria, a cura di Salaheddin Hasan Sury, Giampaolo Malgeri, Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente, Roma 2005.A distanza seguono gli atti dei seminari congiunti italo-libici: Primo Convegno su Gli esiliati libici nel periodo coloniale. 28-29 ottobre 2000, Isole Tremiti, a cura di Francesco Sulpizi, Sa-laheddin Hasan Sury, IsIAO-Centro libico per gli studi storici, Roma-Tripoli 2002; Secondo convegno su Gli esiliati libici nel periodo coloniale. 3-4 novembre 2001, Isole Egadi, Favignana, a cura di Francesco Sulpizi, Salaheddin Hasan Sury, IsIAO-Centro libico per gli studi storici, Roma-Tripoli 2003; Terzo Convegno su Gli esiliati libici nel periodo coloniale. 30-31 ottobre 2002, Isola di Ponza, a cura di Carla Ghezzi, Salaheddin Hasan Sury, Istituto italiano per l’A-frica e l’Oriente, Roma 2004 (stampa 2005).

41 Aveva aperto il campo di ricerca Giorgio Rochat, La repressione della resistenza araba in Cirenaica nel 1930-31, in «Il movimento di liberazione in Italia», a. 1973 n. 110, poi confluito come Id., La repressione della resistenza in Cirenaica (1927-31), in Omar al-Mukhtar e la ricon-quista fascista della Libia, Marzorati, Milano 1981.In seguito ha attirato attenzione una vicenda degli anni della Grande guerra: Piero Nicola Di Girolamo, Dalla colonia alla fabbrica. La manodopera libica a Milano durante la prima guerra mondiale, in «Studi piacentini», a. 1995 n. 1, pp. 115- 156; Marco Mozzati, La vicenda degli operai libici militarizzati durante la Prima Guerra Mondiale: ipotesi per una ricerca, in «The Journal of Libyan studies», a. II (2001) n. 1, pp. 80- 94; Francesca Di Pasquale, Libici per la patria Italia. Esperienze di lavoro e di vita nelle lettere degli operai coloniali durante la prima

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guerra mondiale, in «Zapruder. StorieInMovimento», a. VII (2009), n. 18, p. 51-63.Sulle questioni giurisprudenziali si veda Luciano Martone, «A rullo di tamburo o a suon di tromba». Uno sguardo su alcune sentenze dei tribunali straordinari di guerra in Libia negli anni 1914-15, in «Studi piacentini», a. XXXIV (2003) n. 2, pp. 179-220; Id., Dominio coloniale e proprietà fondiaria: la formazione del demanio italiano in Libia (1911-1923), in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», a. XXXIII-XXXIV (2004/05) n. 2, pp. 985-1037.Un tema interessante in Ercolana Turriani, La riconquista fascista della Cirenaica e i fuorusciti libici in Egitto, in «Contemporanea», a. X (2007) n. 2, pp. 251-274.

42 Federico Cresti, La formation pour les musulmans de Libye a l’époque coloniale, ou les supposes dangers de la modernité, in « Revue du Monde Musulman et de la Méditerrannée », a. 2003, n. 101/102, pp. 269-304 ; e soprattutto Francesca Di Pasquale, La Scuola di arti e mestieri di Tripoli in epoca coloniale (1911-1938), in «Africa», a. LXII (2007) n. 3, pp. 399-428.

43 Qui il merito è davvero di S. Bono, Testimonianze sulla resistenza anticoloniale in Libia (1911-1912), in «Alifba», n. 8-9, gennaio-dicembre, pp. 9-24; Id., Solidarietà islamica per la resi-stenza anticoloniale in Libia (1911-1912), in «Islàm. Storia e Civiltà», a. VII, pp. 53-61; Id., La resistenza anticoloniale in Libia (1911-1912), in Secondo convegno su Gli esiliati libici nel periodo coloniale. 3-4 novembre 2001, Isole Egadi, Favignana, cit.; Id., L’historiographie sur la résistance anticoloniale en Libye (1911-1912), in Modern and Contemporary Libya: Sources and Historiographies cit., pp. 17-36; S. Bono, Solidarietà islamica per la resistenza anticoloniale in Libia (1911-1912), in Terzo Convegno su Gli esiliati libici nel periodo coloniale. 30-31 ottobre 2002, Isola di Ponza, cit.

44 N. Labanca, The Embarrassment of Libya. History, Memory, and Politics in Contempora-ry Italy, in «California Italian Studies Journal», a. I (2010) n. 1, http://escholarship.org/uc/item/9z63v86n .

45 Richard A. Webster, L’imperialismo industriale italiano 1908-1915. Studio sul prefascismo, Einaudi, Torino 1974; James Burgwyn, Il revisionismo fascista. La sfida di Mussolini alle grandi potenze nei Balcani e sul Danubio 1925-1933, Feltrinelli, Milano 1979, e Id., L’impero sull’A-driatico. Mussolini e la conquista della Jugoslavia, 1941-1943, LEG, Gorizia 2006; Davide Ro-dogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista (1940-1943), Bollati Boringhieri, Torino 2002; e soprattutto Enzo Collotti, Fascismo e politica di potenza. Politica estera 1922-1939, con la collaborazione di N. Labanca e Teodoro Sala, La Nuova Italia, Firenze 2000.

46 Ad esempio Alessandro D’Alessandro, Il Banco di Roma e la guerra di Libia, in «Storia e Politica», a. VII (1968) n. 3, pp. 491-509. Poi solo Paolo Giannotti, La guerra di Libia e la finanza pubblica (1911-12), in «Studi urbinati di storia, filosofia e letteratura», LXV (1992), pp. 9-32; Paolo Ferrari, La guerra italo-turca. Riflessi sull’economia italiana della spedizione del 1911, in «Studi piacentini», a. XVI (1994) n. 2, pp. 159-174; Eleonora Belloni, Nazio-nalismo e cultura economica tra guerra di Libia e fascismo 1911-1922, Nuova immagine, Siena 2006; Massimiliano Munzi, Circolazione monetaria a Khoms (Tripolitania-Libia) al tempo della guerra italo-turca, in «Quaderni di archeologia della Libya», a. XX (2009), p. 179-190.

47 Per la traduzione di un testo classico (Enver Pascha, Um Tripolis, die Ubertragung dieser Berichte aus der Sprache des Originals besorgte Friedrich Perzynski, Bruckmann, München 1918) cfr. Enver Pascià, Diario della guerra libica, a cura di S. Bono, Cappelli, Bologna 1986; su cui S. Bono, La participation d’Enver pacha à la guerre de Libye (1911-1912), in «Tarih Bölümü»/«Tarih arastirmalari derisi», a. XV (1991) n. 26, pp. 261-267.Per l’attenzione degli studiosi italiano all’Impero ottomano all’altezza della guerra di Libia cfr. Angelo Tamborra, Mondo turco-balcanico e Italia nell’età giolittiana (1900-1914), in «Rasse-gna storica del Risorgimento», a. LXXXIX (2002), p. 323-354; Marco Dogo, «Tenere insieme

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l’impero». Declino ottomano e province di frontiera nei Balcani, in «Rivista storica italiana», a. CLV (2003) n. 2, pp. 516-542; Antonello F. M. Biagini, Simeon Radev, le nazione balcaniche e la guerra italo-turca (1911-1912), in «Rassegna Storica del Risorgimento», a. LXIV (1977) n. 2, pp. 203-214; Calogero Piazza, Testimonianze ottomane sulla guerra libica, in Italia-Turchia. Due punti di vista a confronto. Convegno internazionale, Università di Pavia, 26-27 aprile 1990, Giuffré, Milano 1992 (212 p. e un fascicolo contenente 9 p. di testo non stampato nel volume per un disguido, Quaderni della rivista Il politico, n. 35), pp. 205-209.Più in generale cfr. Mare nostrum. Percezione ottomana e mito mediterraneo in Italia all’alba del ’900, a cura di Stefano Trinchese, Guerini, Milano 2005.Ma tutto questo dovrebbe essere letto da una prospettiva storica molto più lunga: cfr. ad esem-pio Giovanni Ricci, Ossessione turca. In una retrovia cristiana dell’Europa moderna, Il Mulino, Bologna 2002.Relativamente, maggiore attenzione è andata agli italiani in Turchia: cfr. ad esempio Gli italiani di Istanbul. Figure, comunità e istituzioni dalle riforme alla Repubblica 1839-1923, a cura di Attilio De Gasperis e Roberta Ferrazza, Istituto Italiano di Cultura di Istanbul, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 2007; Livio Missir di Lusignano, Due secoli di relazioni italo-turche attraverso le vicende di una famiglia di italiani di Smirne: i Missir di Lusignano, in «Storia con-temporanea», a. 1992 n. 4, pp. 613-623; Id., Les anciennes familles italiennes de Turquie, Les éditions Isis, Istanbul 2004.

48 Un’eccezione, basata sul fortunato ritrovamento di una fonte fuori dall’ordinario, è A. Del Boca, A un passo dalla forca. Atrocità e infamie dell’occupazione italiana della Libia nelle memo-rie del patriota Mohamed Fekini, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2007; ma cfr. anche Carlo Greppi, Un’altra storia. Le Memorie di Mohamed Fekini, patriota libico, in «I sentieri della ricerca», a. 2009 n. 9/10, pp. 207-271.Cfr. anche La guerra italo-tripolina nelle «Memorie» di Suleiman al-Baruni, in «Studi piacentini, a. 1992 n. 2, pp. 153-171.

49 Non ha proseguito quello che prometteva nel titolo Anna Baldinetti, Italian studies on Tripolitania tribes (1911-1915), in «Maghreb Review», a. XXII (1997) n. 1/2, pp. 162-166.

50 Ma cfr. N. Labanca, P. Venuta, Bibliografia della Libia coloniale cit.51 Un’interessante fuoriuscita è quella proposta da Claudia Gazzini, «Saranno rispettati come

per il passato» la politica coloniale italiana e le fondazioni pie in Libia, in «Quaderni storici», a. XLIV (2009) n. 3, pp. 653- 685; anche se il lavoro più organico in questo senso pare François Dumasy, Ordonner et batir. Construction de l’espace urbain et ordre colonial a Tripoli pendant la colonisation italienne, 1911-1940, thèse pour obtenir le grade de docteur de l’université d’Aix Marseille I, sous la direction de Robert Ilbert, 2006 (da cui Id., Le fascisme est-il un «article d’ex-portation»? Idéologie et enjeux sociaux du parti national fasciste en Libye pendant la colonisation italienne, in «Revue d’Histoire Moderne & Contemporaine», a. LV (2008) n. 3, pp. 85-115).

52 A partire ovviamente da Lisa Anderson, The state and social transformation in Tunisia and Libya, 1830-1980, Princeton Univ. Press, Princeton (NJ) 1986 ; e Ead., The Development of Nationalist Sentiment in Libya, 1908-1922, in Rashid Khalidi, Lisa Anderson, Muhammad Muslim, Reeva S. Simon, The Origins of Arab Nationalism, Columbia University Press, New York 1991; da cui si discosta Ali Abdullatif Ahmida, The Making of Modern Libya. State For-mation, Colonization, and Resistance, 1830-1932, State University of New York Press, Albany, N. Y. 1994 (Boulder, Colo., netLibrary, Incorporated 1997).Tra gli studiosi italiani cfr. Simone Bernini, Nazionalismo e collaborazionismo in Libia: i collo-qui di Tripoli (novembre 1912), in «The Journal of Libyan Studies», a. I (2000) n. 2, pp. 54-67; Id., Il risveglio politico della Libia (1908-1911), in «Studi piacentini», a. XXIX (2001) n. 1, pp. 39-56; Id., Il risveglio politico della Libia, in «Studi piacentini», a. 2001 n. 29, pp. 39-56; Id., Studi sulle origini del nazionalismo arabo in Libia, in «The Journal of Libyan Studies», a. II

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(2001) n. 1, pp. 95-107; e Anna Baldinetti, The origins of the Libyan nation. Colonial legacy, exile and the emergence of a new nation-state, London; Routledge, New York 2010, in cui sono rifluiti diversi precedenti lavori come Ead., The Libyan Refugees, Egyptian Nationalism and The Shaping of the Idea of a Libyan Nation, in Individual, Ideologies and Society. Tracing the Mosaic of Mediterranean History, a cura di K. Virtanen, in TAPRI Research Report, n. 89, Tampere 2001; Ead., Note sul nazionalismo libico: l’attività dell’associazione ‘Umar al-Mukhtar, in «The Journal of Libyan Studies», a. II (2001) n. 1, pp. 61-68; Ead., Libya’s Refugees, their Places of Exiles and the Shaping of their National Idea, in Nation, Society and Culture in North Africa, a cura di J. McDougall, in «The Journal of North African Studies», a. VIII (2003) n. 1, pp. 72-86.

53 A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza, Vicenza 2005; Id., Faschismus und koloniali-smus: der mythos von den «anständigen italienern», in «Jahrbuch zur Geschichte und Wirkung des Holocaust», a. 2004, gennaio, pp. 193-202. Alcune considerazioni sul tema in N. Labanca, Strade o stragi? Memorie e oblii coloniali della Repubblica, in «Annali del dipartimento di storia» (Università degli studi di Roma – Tor Verga-ta. Facoltà di Lettere e filosofia), fasc. spec. Politiche della memoria, a cura di Anna Rossi-Doria e Gianluca Fiocco, pp. 11-36.

54 Per il testo cfr. Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra la repubblica italiana e la grande Giamahiria araba libica popolare socialista, in «Rivista della cooperazione giuridica internazionale», a. XI (2009) n. 33, pp. 169-174. (Per il precedente accordo cfr. Giuseppe Vedovato, La ratifica dell’accordo italo-libico (1957). Un cinquantenario di grande rilievo, in «Rivista di studi politici internazionali», a. LXXIV (2007) n. 4, pp. 561- 584.)Alcune considerazioni critiche relative al profilo culturale del trattato del 2008 in N. Labanca, Compensazioni, passato coloniale, crimini italiani. Il generale e il particolare, in «Italia contempo-ranea», a. 2008, n. 251, pp. 227-250, poi Id., Compensazioni, passato coloniale, crimini italiani. Il generale e il particolare, in Memoria e rimozione. I crimini di guerra del Giappone e dell’Italia, a cura di Giovanni Contini, Filippo Focardi, Marta Petricioli, Viella, Roma 2010, pp. 127-162 (versione aggiornata).

55 Salvatore Bono, Dalla guerra italo-turca alla guerra italo-libica (1911-1912). Considerazioni sulla storiografia, in Italia-Turchia. Due punti di vista a confronto. Atti del convegno all’Università di Pavia, 26-27 aprile 1990, Giuffré, Milano 1992, pp. 195-209.

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I primi voli di guerra fra letteratura e ideologia

di Alberto Magnani

Enrico Corradini, a pochi mesi dall’inizio della guerra libica, proclamò che la morale dell’uomo soldato aveva sconfitto la morale dell’uomo socia-lista1. Lo scrittore nazionalista, in effetti, coglieva una delle conseguenze del conflitto: l’aggregazione di diverse correnti intellettuali intorno a una comune piattaforma bellicista e la loro conquista di una posizione egemo-nica, grazie anche al sostegno di tutti i mezzi di comunicazione e propa-ganda allora disponibili2.

Nel quadro di tale operazione, che creò un armamentario ideologico in gran parte ereditato dal fascismo, un ruolo non trascurabile fu svolto dall’esaltazione dei primi voli di guerra. L’aeroplano – e, in particolare, il bombardamento aereo – dimostrò di poter esercitare un forte impatto me-diatico, di produrre, come nota Paolo Giovannetti, «entusiasmo e passioni condivise dai più, da un pubblico ormai di massa»; e, dunque, di rivelarsi «una vera macchina di consenso»3.

Per la prima volta al mondo

Il primo volo di guerra della storia avviene il 23 ottobre 1911. È un volo di ricognizione: lo compie il capitano Carlo Piazza, quarant’anni, in possesso da pochi mesi del brevetto da pilota. Piazza comanda la piccola pattuglia di aeroplani aggregata al corpo di spedizione in Libia: nove ap-parecchi4 e undici piloti, dei quali cinque effettivi5 e sei che non hanno ancora completato la preparazione per conseguire il brevetto. In pratica, si tratta di quasi tutta la sezione aviazione del Battaglione specialisti auto-nomo del Genio6. Il suo trasferimento in Libia è avvenuto a metà ottobre, non senza incertezze e perplessità da parte dei vertici militari.

Gli aeroplani – come, del resto, gli aerostati e i dirigibili in forza nel-lo stesso Battaglione specialisti – hanno la funzione di osservare dall’alto

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i movimenti del nemico. Tuttavia, nel clima di nervosismo seguito alla sorpresa di Sciara Sciat, il 1° novembre avviene il primo bombardamento aereo della storia. Giulio Gavotti, un ingegnere di ventinove anni, che sta compiendo il servizio militare come ufficiale di complemento, getta quat-tro granate da fanteria su alcuni accampamenti arabi. «Per la prima volta al mondo un aeroplano da guerra ha attaccato il nemico», scrive Luigi Barzini7.

Con quali risultati, non si sa: Gavotti è riuscito a seguire solo per qual-che istante la caduta delle granate e ha intravisto una «fuga di gente». Né si riusciranno a verificare gli effetti di un bombardamento aereo prima di alcuni mesi, ma la fantasia si è messa in moto e vi sono giornali che attri-buiscono a Gavotti descrizioni dell’impresa tanto dettagliate quanto – è il caso di dirlo – campate in aria8.

Giornalisti e letterati si impadroniscono subito dell’impresa di Gavotti. All’indomani di Sciara Sciat, quando la guerra si preannuncia più lunga e più complessa del previsto, l’opinione pubblica ha bisogno di eroi. Gli eroi del cielo sono quanto di meglio si possa immaginare. In quello stesso mese di novembre, gli entusiasmi che circondano l’arma aerea portano alla costituzione di una Flottiglia aviatori volontari, su iniziativa promossa, a Torino, dal direttore del giornale «Stampa Sportiva» Gustavo Verona e dall’Aeroclub Italia. Vi si arruolano alcuni civili in possesso del brevetto di pilota, tra i quali l’ex corridore automobilistico Umberto Cagno. Il loro comando è assunto dall’onorevole Carlo Montù, deputato della maggio-ranza liberale, che proviene dall’esercito, ma è ben noto e attivo negli am-bienti sportivi, per il suo impegno in favore del cannottaggio9.

Tale intromissione della società civile nella guerra, in realtà, ai militari non piace. Lo Stato Maggiore, incalzato dalla situazione, si affretta a com-pletare la preparazione di nuovi piloti militari, in modo da poter fare a meno dei volontari. Gli uomini della Flottiglia, intanto, si imbarcano per la Libia e vi sbarcano il 25 novembre. In quei giorni, i due più famosi poeti dell’epoca, D’Annunzio e Pascoli, uniscono la loro voce alla celebrazione dei voli di guerra: rispettivamente, il 23 e il 26 novembre.

Aquile e avvoltoi

Che poeti e letterati siano suggestionati dall’invenzione dell’aeroplano è del tutto naturale. Le imprese aviatorie che si succedono dal 1903 trova-

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no puntuale riscontro nella produzione letteraria italiana: esaminandola, si nota però come i primi voli si carichino subito di implicazioni e allegorie che, in un modo o nell’altro, richiamano la guerra10. La morale dell’uomo soldato cara a Corradini – in questo caso dell’uomo pilota militare – si sta formando prima ancora delle missioni di Piazza o Gavotti. La morale dell’uomo socialista è in grado di proporre un approccio diverso: Luigi Montemartini, per esempio, deputato vicino a Turati e scienziato di for-mazione positivista, vede nell’aeroplano uno strumento di pace, in quanto, attraverso il volo, i confini tra gli stati cesseranno di essere una barriera e dovranno scomparire11. Ma sono interpretazioni isolate.

Fra il 23 ottobre e il 1° novembre 1911, le allegorie diventano realtà. D’Annunzio, che è fra quanti hanno contribuito a caricare l’aereo di valen-ze distruttive, pubblica la Canzone della Diana, quinta delle sue Canzoni delle gesta d’Oltremare, il 23 novembre, sul «Corriere della Sera»12. D’An-nunzio ha iniziato a cantare la guerra ispirandosi alla vocazione navale dell’Italia e rievocando le antiche repubbliche marinare. La Canzone della Diana, invece, è un’iliade in cui trovano posto i protagonisti dei più recenti bollettini di guerra, tra i quali i piloti: c’è il capitano Piazza «immune su la grandine che spazza / l’Oasi atroce», c’è il capitano Riccardo Moizo, ma c’è, soprattutto, «pallido avvoltoio», Giulio Gavotti: «anche la morte or ha le sue sementi / di su l’ala tu scagli la tua bomba / alla sùbita strage; e par che t’arda / il cuor vivo nel filo della romba».

Il 26 novembre è la volta di Giovanni Pascoli. Il poeta di passeri, pet-tirossi e assiuoli conclude il suo discorso di Barga con un richiamo agli aerei («Guardate in alto: ci sono le aquile!»), assimilati al rapace più torvo e aggressivo13, nonché simbolo del potere imperiale. A quanto pare, Pascoli è stato colpito dai voli di guerra, tanto da alludervi anche in un verso della poesia dedicata ai soldati che trascorrono il Natale al fronte. «A me risuona sempre quel verso», testimonia la sorella Maria, «ch’egli ogni tanto ripe-teva sfiorandolo appena con la voce, e dandogli una velocità come d’ale: l’Italia! L’Italia che vola!». Un Pascoli contagiato dalla velocità tanto cara ai futuristi? Forse il poeta avrebbe sviluppato tali motivi nel «trionfale inno ch’egli meditava e che gli eroici combattenti attendevano sicuri da lui!». Ma la malattia lo condurrà a morte pochi mesi dopo, per cui l’inno «non verrà, l’ha portato via con sé, insieme a tante altre cose destinate alla sua Italia diletta»14.

Dove non arriva Pascoli arriva però un altro letterato, che si colloca

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sulla sua stessa lunghezza d’onda: Giovanni Bertacchi. Poeta di formazio-ne carducciana, influenzato dallo stile pascoliano, Bertacchi professa idee prossime al socialismo umanitario, il che non gli impedirà di celebrare il battesimo del fuoco dell’aviazione: «Italia è prima alla volante prova», canta e, echeggiando il verso pascoliano, «Italia è in alto». E prosegue: «La storia è in alto: è il rombo dei motori/confuso alle mitraglie,/occhio delle battaglie, aviatori!»15.

Né può mancare Filippo Tommaso Marinetti: secondo Laurence Gold-stein16, il padre del futurismo è uno dei letterati che, a livello mondiale, più hanno identificato l’aereo con la guerra. Nell’ottobre del 1911, Marinetti è in Libia, in veste di giornalista, ma, con il ristagnare delle operazioni, incomincia ad annoiarsi e riparte. Nelle settimane successive elabora ciò che egli chiama «poema vissuto», pubblicandolo in dicembre, in francese, sul giornale «Intransigeant»17. Il pubblico italiano dovrà attendere il 1912 per leggerne la traduzione in italiano18.

L’opera, composta in stile futurista, cioè in una «prosa nervosa e de-lirante»19, descrive, attraverso un susseguirsi di episodi, gli scontri presso Tripoli, cui Marinetti ha assistito. La narrazione culmina con il volo del capitano Piazza (Piazza volava cantando), «faccia ardita, affilata dal ven-to sul suo grande Blériot dominatore taglia brutalmente, con le due falci lucenti delle sue ali orizzontali, i grandi raggi perpendicolari dell’aureola solare». Di lì a poco, Marinetti pubblica il Manifesto tecnico della letteratura futurista, basato sulle «parole in libertà», che immagina gli venga ispirato dall’elica di un aereo. L’aeroplano è ormai un idolo dei futuristi, che gli concederanno ampio spazio nelle loro opere20, «ove non mancava mai il ticchettìo della mitragliatrice»21.

Intanto si cimentano anche verseggiatori più popolareschi, anche dia-lettali, capaci, cioè, di raggiungere un pubblico più vasto, quali il canta-storie Pietro Capanna, celebre nelle piazze e strade di Roma come er sor Capanna, che dagli aerei prende spunto per doppi sensi sboccati; o come Giulio Cesare Santini22. Quest’ultimo immagina un soldato turco terroriz-zato dalle granate di Gavotti: «Lui sente er botto orribile che scrocchia / pensa che l’arme sue so’ vecchie e ranche / – Italia granne! – strilla e s’ingi-nocchia». Versi che rispecchiano un atteggiamento mentale tipico dell’Oc-cidente industrializzato: la convinzione che, in un conflitto con uno Stato tecnologicamente arretrato, la superiorità tecnologica basti, da sola, a chiu-dere la partita. Quando, invece, l’esperienza del XX secolo (e degli inizi del

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XXI) dimostra che gli eserciti africani e asiatici combattono con i mezzi di cui dispongono finché è loro possibile, e poi passano alla guerriglia.

Turchi e arabi, infatti, non s’inginocchiano terrorizzati. Sin dall’appa-rizione in cielo dei primi aerei, inventano tecniche di segnalazione per avvisare del pericolo e sparano con i loro vecchi fucili, imparano a concen-trare i tiri, costringono i piloti a mantenersi in quota. E a volte centrano il bersaglio. Il 31 gennaio 1912, l’onorevole Montù è l’aviatore che, per la prima volta al mondo, rimane ferito in un volo di guerra.

Date ali alla Patria

La realtà, del resto, è diversa dalla sua trasfigurazione letteraria23. Come abbiamo detto, non vi sono prove che le granate di Gavotti abbiano pro-vocato una «subita strage»; anzi, in seguito ci si renderà conto che, cadendo nella sabbia, gli ordigni non sempre esplodono. La tecnologia dell’epoca non è ancora in grado di fronteggiare le emergenze imposte dallo scenario africano: i motori modello Gnome hanno problemi di raffreddamento; i venti primaverili impediscono il decollo ad apparecchi, la cui struttura di tela e legno è troppo leggera; in estate il caldo è eccessivo. Non mancano poi gli incidenti, frequenti anche in tempo di pace. Qualche aereo cade in mare: il sottotenente Piero Mancini è il primo pilota morto in guerra. Riccardo Moizo, invece, compie un atterraggio di fortuna dietro le linee turche: ed è il primo a cadere in mano al nemico.

L’aeronautica offre buona prova soprattutto nelle missioni di ricogni-zione e nel dirigere i tiri di artiglieria. Il suo peso sull’andamento delle operazioni, comunque, è marginale. C’è da credere che, considerando i dubbi che serpeggiano nello Stato Maggiore, se potessero attenersi solo ai risultati strettamente militari, i vecchi generali savoiardi procederebbero con cautela nel potenziamento dell’arma aerea.

Ma l’importanza dell’aeronautica deriva da altri fattori. Nel marzo del 1912, quando i volontari civili sono appena rientrati, viene lanciata la campagna Date ali alla Patria, per la quale si prodiga un pioniere del volo, il cui nome sembra uscito dalle pagine di D’Annunzio: il barone Leonino Da Zara. Si tratta di una sottoscrizione popolare per raccogliere fondi da destinare al potenziamento dell’arma aerea. A un Comitato na-zionale, presieduto dall’onorevole Luigi Facta, fanno capo sottocomitati attivi nelle città grandi e piccole, che promuovono pubbliche conferenze,

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cui intervengono piloti reduci dal fronte, e altre iniziative di propaganda. La stampa approva il progetto: questi impulsi che provengono dalla socie-tà, scrive il «Corriere», sono «impulsi preziosi, perché segnano al governo la via da battere, lo incoraggiano ai sacrifici necessari e l’assicurano del consentimento generale; preziosi anche perché circondano la nuova arma aerea di una viva aureola di popolarità, le danno un prestigio e un contenu-to morale straordinario, di cui essa più che ogni altra arma ha bisogno»24.

La sottoscrizione raccoglierà tre milioni e mezzo di lire.In questo modo viene a formarsi un asse tra militari favorevoli allo

sviluppo della nuova arma, industriali del nascente settore aeronautico e settori del mondo politico, che possono appoggiarsi all’ondata di consenso riscosso presso l’opinione pubblica25 tale da prevalere sulle incertezze dello Stato Maggiore. Nel luglio del 1912, la forza aerea è, rispetto a un anno prima, decuplicata, contando ben 91 apparecchi, tra i quali cominciano a comparire i primi di fabbricazione italiana26. E già si programma la costru-zione di altri 150 apparecchi, con l’addestramento dei relativi piloti27(negli anni successivi, il progetto verrà però ridimensionato).

La figura del pilota gode, ormai, di vasta popolarità e molti giovani, for-matisi in questo clima, si orientano verso l’arma aerea. La Grande Guerra vede l’affermazione di nuove figure di eroi, che dispongono di apparecchi in grado di fornire prestazioni migliori e, soprattutto, di avversari ugual-mente alati, con i quali misurarsi in duelli dal sapore cavalleresco. La fama degli assi oscura rapidamente il ricordo degli aviatori di Libia – con l’ec-cezione, pare, almeno in ambiente aeronautico, di Giulio Gavotti28 –, su tutti si impone però D’Annunzio, che, fattosi pilota, diventa protagonista di imprese avventurose, innestando così la dimensione letteraria sulla real-tà vissuta della guerra. A lui guarda una generazione di aviatori, animati da «gusto per l’avventura guerresca per vivere fuori o ai margini della legge, in nome di un individualismo e di un superomismo spesso solo orecchiato»29.

Figura emblematica in tal senso è quella di Guido Keller, famoso per aver sorvolato il Parlamento e avervi lasciato cadere un vaso da notte. At-torno a Keller si crea una vera e propria leggenda, alimentata dai contem-poranei, che gli attribuiscono le più bizzarre prodezze. Se, nel poema di Marinetti, Piazza volava cantando, di Keller si dice che voli, a venti metri d’altezza, declamando l’Ariosto30.

La mentalità che va diffondendosi negli ambienti aeronautici, e che ne costituirà a lungo un tratto distintivo, propizia la convergenza con il mo-

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vimento fascista. Da parte sua, quest’ultimo si rispecchia sin dalle origini nella nuova arma, nella sua cultura, nelle possibilità di consenso che essa garantisce31. Il volo che porta l’aeronautica italiana a diventare «l’arma più espressiva della potenza fascista» inizia, dunque, nei cieli di Libia.

Note al testo

1 Enrico Corradini, La morale della guerra libica, «Rassegna Italiana», 10 gennaio 1912. Cfr. la valutazione di Nino Valeri, Dalla «belle époque» al fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1975, p. 20: «All’età giolittiana stava succedendo, anche nel campo politico, l’età dannunziana».

2 La grande illusione: opinione pubblica e mass-media al tempo della guerra di Libia, a cura di Isabella Nardi e Sandro Gentili, Morlacchi, Perugia. Angelo Del Boca, Gli italiani in Libia. Tripoli bel suol d’amore, Laterza, Roma-Bari 1986, pp. 144 ss.

3 Paolo Giovannetti, Il «militante sogno» dei primi voli. Aeroplani e letteratura 1905-1915, in L’aeronautica italiana. Una storia del Novecento, a cura di Paolo Ferrari, Franco Angeli, Milano 2004, p. 160. A ottant’anni di distanza, la suggestione esercitata dalle immagini televisive di Bagdad bombardata, diffuse dalla CNN durante la Guerra del Golfo, confermano l’impatto emotivo dei bombardamenti aerei.

4 Tutti gli apparecchi erano di fabbricazione straniera: 2 Blériot XI, 3 Nieuport, 2 Farman e 2 Etrich Taube.

5 I cinque piloti effettivi erano i capitani Carlo Piazza e Riccardo Moizo, il tenente Leopoldo De Rada, il sottotenente di vascello Ugo Rossi e il sottotenente di complemento Giulio Gavotti.

6 L’aeronautica militare non era ancora arma autonoma, né lo sarà prima del 1923. Il Battaglione specialisti era stato istituito nel 1910 e derivava da una Brigata specialisti, costituita nel 1894, le cui origini risalgono al 1884.

7 «Il Corriere della Sera», 2 novembre 1911.8 «Il fragore degli scoppi e l’eco confusa di grida feroci giunsero fino a me […]. Ritornai altre tre

volte sull’oasi e lanciai un’altra granata che gittò maggiore scompiglio nel campo ottomano. Vidi fuggire altre torme di soldati per ogni direzione, come impazziti fuggivano specialmente verso la grande cava di pietre come a cercar rifugio dall’improvviso bombardamento celeste. Gettai le altre due granate contro uno stormo di fuggiaschi. Anche gli armenti si sbandarono dal recinto ove erano stati rinchiusi». Così La dinamite dal cielo sul campo turco, «Il Giornale d’Italia», 2 novembre 1911.

9 Giovanni Depaoli, Aspetti della presenza militare nella vita torinese, in Torino città viva da capi-tale a metropoli 1880-1980, Centro studi piemontesi, Torino 1980, pp. 949-50. Giovannetti, nel pezzo sopra citato Il «militante sogno» dei primi voli, a p. 151, nota i forti legami tra ambien-ti sportivi ed aviatorii, rilevando che «la congiunzione sport-guerra-aviazione, con la perfetta complementarità e reversibilità dei termini in gioco, è un’acquisizione tipicamente futurista».

10 P. Giovannetti, Il «militante sogno» dei primi voli cit., p. 151.11 Luigi Montemartini, I confini scellerati, «La Plebe», 6 giugno 1909.

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12 In precedenza, D’Annunzio aveva pubblicato le sue Canzoni l’8 e il 22 ottobre, il 2 e il 12 novembre.

13 Solo pochi mesi prima, nell’ode Chavez, pubblicata sul «Secolo XX», 1/gennaio 1911, Pascoli aveva immaginato le aquile – aquile in questo caso molto più pascoliane, placide e perplesse – assistere con stupore al volo sulle Alpi dell’aviatore Geo Chavez: in tale componimento, le aquile e l’aereo appartenevano a mondi diversi.

14 Maria Pascoli, Prefazione a Giovanni Pascoli, Poesie varie, Zanichelli, Bologna 1912. 15 Giovanni Bertacchi, Aviatori, «Almanacco dello Sport», 1914.16 Laurence Goldstein, The flying machine and modern literature, Indiana university press,

Bloomington 1986, p. 8.17 L’opera uscì a puntate dal 25 al 31 dicembre 1911.18 Traduzione eseguita, pare, da Decio Cinti e pubblicata a Milano dalle Edizioni di Poesia.19 A. Del Boca, Gli italiani in Libia cit., p. 118.20 Sull’argomento: Claudia Salaris, Aero…Futurismo e mito del volo, Le Parole Gelate, Roma

1985.21 E[manuele] Farina, L’aeronautica e la letteratura, «Aeronautica», giugno 1930.22 Su «Il Rugantino», novembre 1911.23 Per una valutazione tecnica della prima esperienza di guerra dell’aviazione: Ferdinando Pe-

driali, L’aeronautica italiana nelle guerre coloniali. Libia 1911-1936. Dallo sbarco a Tripoli al governatorato Balbo, Ufficio Storico dell’Aeronautica Militare, Roma 2009.

24 La sottoscrizione nazionale per offrire aeroplani all’esercito, «Corriere della Sera», 6 aprile 1912.25 Alessandro Massignani, La Grande Guerra: un bilancio complessivo, in L’aeronautica italiana

cit., p. 270. 26 Andrea Curami, La nascita dell’industria aeronautica, in L’aeronautica italiana cit., p. 26.27 A. Massignani, La Grande Guerra cit., p. 270.28 Giulio Gavotti, concluso il servizio di leva, continuò a lavorare come ingegnere negli ambienti

dell’aeronautica militare, nella quale rientrò dopo la sua costituzione ad arma autonoma. Si imparentò con la famiglia del gerarca Cesare De Vecchi. La sua figura è stata recentemente rievocata da una rivista aeronautica on line (aerostoria.blogspot.com), cui sono giunti messaggi di piloti militari che testimonierebbero un perdurante culto del personaggio. Il 9 novembre 2009 un ex pilota di Tornado, per esempio, ha raccontato che in un hangar era da tempo affissa una foto di Gavotti: «era una specie di icona sacra, ricordo che i piloti dopo aver terminato i controlli pre-volo si avvicinavano con il guanto, sfioravano la foto e poi si accendeva».

29 Luigi Urettini, Guido Keller «aviatore di ventura», in L’aeronautica italiana cit., p. 183.30 E che pratichi il naturismo aggirandosi nudo sul campo d’aviazione, che legga Nietzsche stan-

do (sempre nudo) in cima a un albero, che appartenga a confraternite islamiche, eccetera. Emarginato dall’aeronautica, Keller muore in povertà a trentacinque anni nel 1929: la sua figura avrebbe ispirato il noto film di propaganda Luciano Serra pilota, del 1938.

31 Marco Di Giovanni, L’aviazione e i miti del fascismo, in L’aeronautica italiana cit., p. 207. Giorgio Rochat, Italo Balbo aviatore e ministro dell’aeronautica 1926-1933, Bovolenta, Fer-rara 1979, pp. 18 ss.

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Gli ascari operanti in Libia nei materiali dell’archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito

di Marco Scardigli

Questo lavoro è il resoconto un’esplorazione eseguita alcuni anni fa presso l’AUSSME (Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito) del materiale giacente riguardante gli ascari eritrei che com-batterono in Libia per rilevare la possibilità e la praticabilità di utilizzare il materiale sulle truppe coloniali per ricerche più complete e approfondite. Soprattutto interessava l’aspetto di interdisciplinarietà (termine improprio, ma non trovo di meglio) di questi militari: erano eritrei o comunque pro-venivano dall’Africa orientale, operavano in Libia combattendo contro i libici, erano inquadrati dagli italiani e il materiale che ci hanno lasciato è sostanzialmente in italiano. Rappresentano quindi una sorta di riassunto del colonialismo italiano – e un riassunto particolarmente qualificato – e per gli storici, un’occasione imperdibile di far interagire conoscenze, cultu-re e tradizioni, lavorando su un unico soggetto.

Lo scopo dichiarato di questo lavoro è di invogliare qualche studente o studioso a riprendere in mano tale materiale, approfondirlo e ricostruire quindi la storia di tali truppe e, di conseguenza, le vicende belliche dell’I-talia in Libia.

I diari di guerra

Il primo problema è stato individuare nella massa di documenti ri-guardanti gli ascari in Libia, quelli che permettevano in maggior misura e con migliori probabilità di successo un lavoro interdisciplinare, come lo abbiamo definito più sopra.

Ovviamente non potevano essere le produzioni della burocrazia mili-tare italiana in cui l’africanità degli ascari si perde negli iter militari. Non potevano essere nemmeno le carte strategiche, i manuali tattici, i criteri operativi o le dottrine di impiego (sebbene tutto questo rivesta un certo in-

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teresse per il quadro d’insieme), in quanto ancora una volta spiccatamente italiani per lingua, obbiettivi, cultura e finalità.

Ho invece individuato, come primo campo di ricerca, i diari storici dei battaglioni – o diari storico-militari o diari di battaglione – come possibile fonte utilizzabile per la nostra ricerca. Questi sono una sorta di riassunto annuale delle operazioni eseguite da un reparto in cui in particolar modo vengono segnalati spostamenti, assegnazioni alle operazioni, cambi di uffi-ciali e i combattimenti sostenuti.

I diari storici erano redatti da un ufficiale e, comunque, firmati e bolla-ti dal comandante dell’unità: erano quindi documenti ufficiali sotto ogni aspetto. Le informazioni contenute sono molto varie e dipendevano in-nanzitutto dalla volontà e dalla sensibilità del comandante e dell’ufficiale estensore. Si va da documenti estremamente stringati, che non superano le due pagine scritte in maniera evidentemente svogliata, ai veri e propri volumi ricchi di informazioni e dettagli.

Ad esempio, il diario storico del I battaglione1 che copre il periodo 7 luglio-12 novembre 1912 riporta addirittura lo specchietto dei colpi spa-rati nei diversi combattimenti e, molto interessante, una tabella su quanti fra gli ascari presenti in Libia avessero già combattuto sotto gli italiani. Si scopre così che parecchi di essi avevano partecipato a scontri della prima guerra d’Africa, Adua e Agordat compresi, e quindi avevano alle spalle almeno 17 anni di servizio.

Lo stesso diario riporta le condizioni sanitarie degli ascari, così come il diario dello stesso battaglione per il 19262, quello del III 8 febbraio-12 ottobre 19143; quello del X battaglione (giugno 1913-aprile 1914)4 che contiene anche uno specchietto con le regioni di provenienza degli ascari5. Stesse informazioni si ritrovano per lo stesso battaglione nel 19276, del XVIII per lo stesso anno7, per il XIX del 19228 (qui sono riportati, fra gli altri, 11 morti per tubercolosi), per il XX nel 1921 (si trovano ben 28 morti e 109 ricoverati per malattie su 823 uomini).

Ancora: in alcuni diari si trovano cartine o specchietti sia di movimenti, sia di combattimenti; nel diario del VIII battaglione (5 dicembre1912-18 giugno1913) sono riportate giorno per giorno le condizioni meteorologi-che (cielo, temperatura, pressione). In altri diari, all’opposto, vengono a malapena riferite le basi di partenza, il luogo di qualche combattimento e il nome degli ufficiali in servizio.

Ritorneremo più avanti a indagare in dettaglio sulla qualità dei conte-

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nuti dei diari: per ora accontentiamoci di acquisire l’estrema diversificazio-ne di questi contenuti.

Da notare che a partire dal 1914 (per quanto riguarda quello che io ho rilevato, ma non ho trovato alcun documento che confermasse la da-ta) la gran parte dei diari sembra seguire una traccia comune, come se ci fosse una sorta di questionario precostituito con domande a cui l’ufficiale estensore doveva rispondere. Questo sistema invece appare di sicuro dopo il 1921 quando molti diari riportano 17 punti di cui l’estensore eventual-mente sbarra quelli a cui non corrisponde una compilazione.

Fra queste voci da compilare e di cui però non abbiamo copia, ce n’e-rano sicuramente alcune sui luoghi di stanza del battaglione e dei distac-camenti, una sui combattimenti sostenuti, una sulle medaglie, menzioni o encomi ricevuti, uno sugli avvicendamenti di ufficiali e una, infine, sulle ispezioni ricevute. Questa strutturazione, che potrebbe rappresentare un grosso aiuto per il nostro lavoro, in realtà è però di scarsa utilità perché raramente seguita con puntiglio.

La copertura degli avvenimenti

Altro parametro interessante per comprendere l’eventuale utilità di questi diari come basi per ulteriori lavori è la copertura temporale e geo-grafica rispetto alla presenza italiana in Libia.

Abbiamo sintetizzato l’elenco dei diari nella Tabella 1, dove si possono trovare, anno per anno, il numero del battaglione presente in Libia, la qualità del diario (* - sintetico, ** - medio, *** - dettagliato) e il luogo di principale stanza del battaglione.

Ovviamente sono informazioni parziali: vengono citati anche i diari che coprono solo parti dell’anno, la valutazione sulla qualità del diario è soggettiva, i luoghi solo indicativi, se si considera che alcuni battaglioni arrivarono a percorrere 3.800 chilometri in dieci mesi9.

Tenendo presente queste considerazioni, la Tabella 1 ci mostra una di-screta copertura temporale: solo gli anni 1917 e 1928 sono privi di diari. Questo, sia ben chiaro, non vuole dire che non ci siano stati reparti di ascari in Libia in quegli anni, così come non è detto che ci siano stati solo i battaglioni citati nella tabella. Questa indica solamente i diari presenti all’AUSSME e ancor più limitatamente, quelli presenti nelle due buste (L8, 92 e L8, 93) destinate nell’inventario a questo tipo di documenti.

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Non possiamo escludere – anzi, dobbiamo tener presente come molto probabile – che ci siano stati altri diari oggi andati perduti, oppure smarriti in altre buste e non citati in inventario.

Ritornando alla tabella 1, si vede che sono ben coperti gli anni della guerra italo-turca e subito successivi (1912, 1913, 1914) con 5, 6 e 4 diari rispettivamente. Poi una presenza notevole si registra nell’epoca della ri-conquista a partire dal 1921 (6 diari). Nel 1922 se ne trovano 8, nel 1923 ancora 6. C’è quindi una pausa e poi le presenze subiscono un’impennata: 11 diari nel 1926 e 13 nel 1927 dopo di che il numero va scemando vi-stosamente.

Queste presenze corrispondono sostanzialmente alle fasi di massimo impegno bellico italiano. Vale sicuramente per il periodo 1912-14 in cui l’occupazione dell’interno libico, condotta al di fuori della guerra dichiara-ta, richiese un gran numero di presenze di ascari.

Meno coerente invece è il periodo 1921-31 dove le grandi presenze o le assenze di diari di battaglione non corrispondono pienamente con l’impie-go di questi reparti. In questo periodo però si registra la massima presenza di diari storici per anno, negli anni 1926 e 1927.

Questo per quanto riguarda i diari in quanto tali, cioè basandosi sola-mente sull’esistenza del diario stesso.

Ho però detto che la qualità dei contenuti è sostanzialmente diversa da diario a diario e documenti assolutamente sintetici (quelli segnati nella Ta-bella 1 con *) oppure appena appena dettagliati, ma confinati nel linguag-gio e negli interessi della burocrazia (segnalati con **) sono parzialmente utili per un ricercatore.

Così ho realizzato la Tabella 2, che riporta solo quei diari valutati in se-de di esplorazione come molto dettagliati. Sono quei documenti più ricchi di notizie, commenti e informazioni: veri e propri volumi sulle operazioni degli ascari con molte informazioni anche sulla loro vita militare, sul loro comportamento e su cosa facessero in Libia.

Si tratta di 24 diari suddivisibili in tre grandi fasi di operazioni: 9 ri-feriti al periodo 1912-16, 6 al periodo 1921-23 e 7 per gli anni 1926-27.

Riguardo a questa copertura, bisogna fare un ulteriore suddivisione, tenendo conto la presenza di battaglioni storici e battaglioni di nuova for-mazione.

L’Eritrea aveva un gettito di battaglioni di ascari oscillante fra i 6 e gli 8 e questa variabilità era dovuta essenzialmente o alla situazione politica e

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ai rischi di guerra della colonia orientale, o ai problemi di bilancio. Questi battaglioni, numerati sostanzialmente da I a VIII, avevano ufficiali esperti e militari indigeni di addestramento e tradizioni decennali. Gli altri bat-taglioni (numerati dal IX al XXVI) vennero assemblati appositamente per essere inviati in Libia e venivano smantellati al ritorno in Eritrea. Questi erano quindi inquadrati in maniera differente e soprattutto reclutavano i loro ascari fra tutte le popolazioni dell’Africa Orientale, dalla Somalia all’Etiopia.

La qualità delle informazioni

L’oggetto di questa ricerca era una esplorazione sui diari storico militari dei battaglioni indigeni operanti in Libia e non c’era una parte di appro-fondimento dei contenuti che avrebbe ovviamente richiesto tempi di gran lunga superiori a quelli previsti. Però, inventariando i diari, era ovvio che qualche volta mi soffermassi a leggere i contenuti. Quella che segue non è quindi una parte esaustiva, ma semplicemente una serie di impressioni e di appunti disordinati e disorganici.

Di norma i diari dei battaglioni riportano questioni operazionali (presi-di, distaccamenti, ricognizioni, combattimenti, scorte, lavori) e burocrati-che (ufficiali presenti, cambi, ispezioni ecc.). I diari più sintetici riportano questo tipo di informazioni limitandosi grossomodo a una paginetta. I diari definiti medi si limitano a una risposta burocratica a questo tipo di esigenza. I diari invece più ampi e dettagliati riportano invece – lo ab-biamo già accennato – informazioni varie e spesso anche sorprendenti. Ad esempio, il diario del III battaglione del 1914 contiene cartine dei movimenti, delle strade percorse e dei combattimenti sostenuti. Un altro riporta la provenienza degli ascari10, altri le condizioni sanitarie e le morti per malattia11 e uno – già riferito – le condizioni meteorologiche. Il diario del II battaglione del 1912 e altri contengono cartine e mappe anche di notevole qualità.

Per quanto riguarda invece i contenuti che possono interessare mag-giormente uno storico è ovvio che la parte del leone la fanno le informa-zioni operazionali e burocratiche. Però alcuni estensori dimostrano un’at-tenzione e una sensibilità che vanno ben oltre alla semplice soddisfazione di un dovere.

Proviamo a vederne alcuni, cioè quelli che più hanno solleticato la mia

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curiosità. Ad esempio, nel diario del 1914 del III battaglione troviamo le relazioni di parecchi combattimenti e degli spostamenti con la colonna Latini. Ad esempio lo scontro riferito come Zavia Ommi Scikaneb (Del Boca la cita come Umm esc-Schecàneb12) viene riportato come «distruzio-ne piccolo campo beduini e fucilazione pochi beduini ivi trovati». Dopo la distruzione di Gedabia viene riportata la raccomandazione passata alla truppa di «non agire contro le tribù sottomesse e contro gli indigeni di-sarmati». Dopo una serie di nuove razzie, distruzioni e incendi, l’estensore si sente in dovere di ripetere che alle truppe viene raccomandato che «si rispettino donne, bambini, inermi». Si noti che il diario esistente del X battaglione grossomodo per lo stesso periodo e che partecipa alle stesse operazioni, è egualmente dettagliato, ma non porta nessun giudizio e nes-suna misura delle azioni contro i civili: qui il nemico viene chiamato stra-namente «regolare» e il resoconto viene «congelato» come una lunga serie di combattimenti.

Nel diario del XIII battaglione riguardante il 1922 si arriva a una anno-tazione che, visti i tempi e il comandante delle operazioni, l’allora colon-nello Graziani, è al limite dell’insubordinazione, soprattutto se si considera che viene inserita in un documento ufficiale: «24 aprile – Marsa Dilo – Ra-strelliamo le oasi incendiando case, capanne, raccolti, razziando bestiame e passando per le armi tutti i validi alle armi. Molto sangue viene fatto ver-sare nel compimento di sì duro dovere». Un altro spiraglio sulla realtà della guerra in Libia ce lo offre il diario del XV battaglione per il 1927 quando descrive la cattura di carovane di beduini e il comportamento feroce degli ascari che agiscono spinti dal «miraggio della preda».

In conclusione, facendo riferimento agli appunti veloci presi durante lo spoglio dei diari, le informazioni che se ne traggono sono sostanzialmente di ordine burocratico e operazionale. Al fianco di queste si può realizzare un mosaico di altre informazioni frammentarie che però potrebbero essere utili a ricostruire una quotidianità del conflitto in Libia: le marce durissi-me torturate dalla sete e dalle insolazioni, le razzie contro le popolazioni sospettate di appoggiare i cosiddetti ribelli oppure le controrazzie eseguite per sorprendere i ribelli che depredavano le tribù sottomesse all’Italia.

Si possono trovare informazioni interessanti sulla vita da assediati, so-prattutto nei diari che riguardano Derna e Misurata oppure sulla quoti-dianità di vita in territorio ostile, con il rosario delle missioni di scorta alle colonne dei rifornimenti o alle «autopostali», di controllo e protezione

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delle linee telegrafiche, dei lavori di miglioramento delle strade e dei pozzi e di presidio e protezione delle greggi delle tribù sottomesse.

Comunque, per far comprendere pienamente le possibilità legate all’u-tilizzo dei diari di battaglione e anche i loro limiti, di seguito riportiamo la trascrizione di uno di questi. Si tratta del diario già citato del XIII batta-glione eritreo riguardante le operazioni in Tripolitania del 1922 comanda-to dal magg. Maletti13. È uno dei diari che ho classificato come dettagliato: non è stato scelto però per qualche sua caratteristica peculiare, ma per con-siderazioni prettamente pratiche. Non ultimo il fatto che è uno dei pochi dattilografati e quindi facilmente leggibile e fotocopiabile.

Comunque dovrebbe essere sufficiente per comprendere potenzialità e limiti di questo tipo di fonti: dettaglio della quotidianità, ricostruzione meticolosa, informazioni fresche e non elaborate, resa ottimale dell’am-biente e del «sapore» del periodo, ragionamenti, speranze, credenze del co-mandante. Per contro: soggettività, deformazione burocratica degli avveni-menti, tendenza all’elogio del battaglione e del suo comandante, parzialità.

Altre possibili risorse

Oltre all’esplorazione sui diari storico-militari dei battaglioni indigeni, ho riservato una piccola parte della permanenza in archivio ad altre fonti che potessero eventualmente essere paragonabili ed alternative ai diari.

Fra queste si possono segnalare le Relazioni mensili del Governo della Tripolitania e del Governo della Cirenaica sulle Operazioni e sui servizi nelle due Colonie14. Queste riguardano il periodo 1918-20 e trattano i problemi politico-militari delle due colonie. Sono ricche di notizie e di riferimenti e hanno collateralmente le raccolte dei carteggi col Ministero delle Colonie.

Più dettagliate e ricche sono invece le Relazioni trimestrali dei Coman-di Truppe della Tripolitania o della Cirenaica15: riguardano le operazioni condotte, l’amministrazione delle truppe e tutti i problemi socio-militari delle colonie. A differenza dei diari, dalle relazioni trimestrali non si dedu-ce la quotidianità delle operazioni in Libia, ma si ha un affresco generale dei problemi delle campagne militari e anche parecchie informazioni sul nemico combattuto.

Per completezza d’informazione ho richiesto e letto una di queste rela-zioni del comando delle Regio Corpo di Truppe Coloniali per la Tripoli-tania del primo trimestre del 192716. Vi si trova una parte sulla citazione

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per incapacità di due ufficiali italiani, il magg. Montalvo e il cap. D’Anna per l’eccidio del 30 giugno 1926 alla Ridotta Siena (sul quale non abbiamo trovato, con una prima rapida ricerca, nulla). Altro problema che vi si tro-va accennato è la scarsità di ufficiali che accettano di andare a combattere in Libia.

Nella relazione del II trimestre17 si trova un elenco dei ribelli della zona detta Mogarba e delle loro posizioni e i dati di tre razzie compiute contro le popolazioni considerate ribelli e che portano ai seguenti risultati: col. Teruzzi annuncia abbattimento di 500 cammelli; Ministero Colonie an-nuncia 4.000 cammelli e 4-500 ovini abbattuti; De Bono, infine annuncia cattura di 20.000 ovini e di 3.000 cammelli e l’abbattimento di altri 5.000 cammelli, oltre alla requisizione di 500 fucili e 300 tende.

Nella tabella 3 ho riassunto i periodi coperti dalle relazioni: oltre ad esse, però, nei raccoglitori ci sono abbondanti altri materiali, come le re-lazioni sulle situazioni politico-militari, i carteggi con il Ministero delle Colonie, le raccolte dei dati statistici e i notiziari di informazione.

Il diario storico militare del XIII battaglione per il 192218

Gli avvenimenti descritti in questo diario si collocano nella fase della colonia tripolitana subito successiva al momento in cui il governatore Vol-pi ordinò, il 26 gennaio 1922, la riconquista di Misurata, persa durante la controffensiva araba negli anni della Grande Guerra. Questo ordine, preso in maniera abbastanza improvvisa e senza (o con poche) consultazioni con Roma, fece crollare il debole edificio di convivenza che resisteva dalla con-cessione degli Statuti e riaprì a tutti gli effetti la guerra con gli arabi e quella fase che fu chiamata Riconquista della Libia.

In queste operazioni, che cominciano con la grave situazione in cui si trovavano le truppe inviate a Misurata assediate dalle popolazioni arabe che contrastavano questa rioccupazione, vede anche il nascere della stella del col. Graziani, alla sua prima importante missione in terra africana. Rappresentano anche l’esordio in Libia di un nuovo modo di condurre la guerra, nato e sviluppato dalla pratica e dagli orrori della Grande Guerra.

In Italia la situazione politica invece era estremamente tesa: il fascismo si stava dimostrando una forza difficilmente arginabile e in ottobre avverrà la Marcia su Roma. Si noti che il governatore Volpi utilizzerà la riconqui-sta di Misurata e le operazioni qui descritte come proprie benemerenze di

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attivismo coloniale nei confronti del futuro duce.Di questi fatti Del Boca parla in Gli italiani in Libia19 e ne parla anche

la biografia del generale Graziani20 quando definisce il periodo seguente alla concessione degli Statuti «il periodo dell’avvilimento» e definisce inve-ce le operazioni che partirono dal 1922 in questo modo: «[…] La parola fu data alle armi. Santa parola sempre, quando si vuole imporre la propria volontà ad un avversario recalcitrante, ma cento volte più santa quando si tratta di politica indigena, e cioè svolta a contatto con mentalità barbare, per cui il dominio della forza è il solo e vero argomento persuasivo».

Questo brevemente è il contesto storico degli avvenimenti raccontati dal diario che segue: un buon lavoro imporrebbe che si approfondisse la ricerca bibliografica e che si cercassero fonti sia da parte libica, sia cercando fra le documentazioni dei battaglioni eritrei. Si potrebbe poi ricercare sul campo la realtà attuale dei luoghi e degli avvenimenti minuziosamente descritti nel diario. Inoltre, se consultiamo la Tabella 1, vediamo che ci sono grossomodo altri sette diari relativi a questo anno, di cui (Tab. 2) quattro di livello sufficientemente dettagliato, che potrebbero portare altre informazioni da incrociare e che siano completamento di quelle contenute nel presente documento.

19 febbr. Marsa Susa domenicaIl comando del XIII21 Eritreo riceve ordine alle 10 di tenersi pronto ad imbarcare per ignota destinazione il 20, sulla nave S. Giusto, lasciando le salmerie in Marsa Susa e imbarcando solo i muletti di proprietà degli Ufficiali.In conseguenza ordino:- che gli uomini impiegati in servizio fuori Corpo rientrino;- che si formi, al comando del Ten. Sig. Corazza Orlando, un distaccamento even-tuale al quale passeranno aggregati uomini e quadrupedi non in grado di seguire il Battaglione- che sia sospeso il congedamento22 dei militari che abbiano compiuto la ferma, che rimanga alla sede solo un conducente per ogni due muli, e dispongo dei prele-vamenti, la costituzione delle dotazioni ecc.Tempo bello, brezza di N.O. mare mosso.

20 febbr. M. Susa lunedìAlle 8 si inizia l’imbarco dei materiali e degli uomini sulla S. Giusto che ha calato le ancore nella rada di Marsa Susa alle, ma alle 13 un fortunale improvviso fa per-dere un’ancora alla nave, manda a picco due lance23 e per poco non ne sommerge altre tre, cariche di ascari, colte di sorpresa dall’improvviso maltempo a circa un miglio dalla costa.

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Assisto con terribile angoscia all’approdo di quelle tre lance che portano più di 150 uomini e riescono, dopo sforzi inauditi, a prender miracolosamente terra.Operazioni imbarco sospese.Tempo bello al mattino, tempestoso a mezzodì. Vento e pioggia24.

21 febbr. M. Susa martedìSi riprende l’imbarco alle 7 coll’aiuto di un rimorchiatore giunto da Derna e lo si compie alle 13.Forza partente: Ufficiali 12, Sottufficiali 2, soldati 1, Graduati e ascari eritrei 602: totale 617.Quadrupedi da sella 14, fucili 605, mitragliatrici Fiat 2.Alle 18 il S. Giusto leva le ancore superstiti e volge la prua verso occidente.Cielo coperto, vento debole, mare mosso

22 febbr. mercoledì In navig.Un radiotelegramma alle 18 nel Golfo delle Sirti reca il saluto e l’augurio del Sig. Generale De Vita. Rispondo ringraziando l’amato generale.Cielo coperto, brezza lieve.

23 febbr. giovedì TripoliAlle 7 il S. Giusto entra nel porto di Tripoli. Per la bassa marea non può attraccare. Il XIII battaglione sbarca su maone25. Sono ad attenderlo schierati i battaglioni VIII e XX Eritreo, la musica Presidiaria e molti Ufficiali. Si sfila in Azizia davanti a S.E. il Governatore Conte VOLPI e al Sig. Generale TARANTO Comandante delle Truppe. Molti battimani e molti evviva al Battaglione da parte della folla cui è noto assai favorevolmente il XIII Eritreo. Il Battaglione accantona a Bu-Meliana, nel campo del XVIII Eritreo che trovasi a Misurata.Tempo bello. Temperatura elevata.

24 febbr. venerdì TripoliIl battaglione prende in consegna 45 muli italiani, 90 muletti abissini e cinque carrette. Quadrupedi e materiali in cattive condizioni.Vento violento.

25 febbr. sabato TripoliSeparazione dei quadrupedi scabbiosi dai sani, ferratura dei muli italiani, medica-zione di quelli fiaccati.Vento impetuoso.

26 febbr. domenica TripoliNulla. Tempo coperto, vento leggero.

27 febbr. lunedì Tripoli

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Si completano i prelevamenti di corredo, armi, selle, bardature a salma, casse da acqua, medicinali, ecc. e si fa istruzione nell’interno del campo.Cielo sereno, vento caldo.

28 febbr. martedì TripoliIl battaglione lascia Bu-Meliana e si trasferisce a Fesclum nel campo lasciato libero dall’VIII Eritreo imbarcatosi ieri sera per l’Eritrea.Tempo bello.

1° marzo mercoledì TripoliDalle 12 in poi il Battaglione deve tenersi pronto a muovere entro mezz’ora dall’or-dine ricevuto. Sono chiamato al Comando Truppe e ricevuto dal Sig. Generale TA-RANTO26 che, in presenza del solo Capo di Stato Maggiore (Tenente Colonnello NASI) mi espone la situazione. «Qualche capo si è levato contro di noi pigliando a pretesto lo sbarco nostro a Mi-surata. Azizia è bloccata e nella ridotta v’è il X Eritreo; il Presidio di Raslahamar27 composto di due compagnie del XVII Eritreo, comandate dal Tenente Colonnello Mariotti, è bloccato anch’esso. Interrotte le comunicazioni ferroviarie con Azizia e Zavia. La prima, rifornita per via aerea può attendere, mentre Zavia rifornita per via mare può non poter più attendere se i ribelli, come pare vogliano fare, taglie-ranno le comunicazioni fra l’approdo di Marsa Dila e Raslahamar. Se il nemico attuerà questo piano, bisognerà tentare di liberare subito il Presidio di Raslahamar. Si conta su di me, pratico del terreno e risoluto, per l’impresa che si svolgerà secon-do il piano seguente: «una colonna composta del XIII e XX Eritrei, una batteria mont. e due squadroni di cavalleria usciranno improvvisamente da Tripoli. Il XX Eritreo e la batteria si fermeranno al Bivio Gheran, gli squadroni sosteranno alla fermata ferroviaria Sajad a custodia del treno blindato che porterà il XIII Eritreo. Il XIII giunto in treno da Tripoli alla fermata Sajad scenderà e punterà velocissimo su Raslahamar (25 km da Sajad) raccoglierà quel Presidio e rapidamente si porterà sotto la protezione del forte Sidi Bilal. Una nave da guerra, dal mare, appoggerà in caso di bisogno il XIII Eritreo. Le informazioni sul nemico sono: 7-800 armati nelle Oasi di Tina, Tuebia e Gargusa; 1.000-1.200 armati a Zavia».Nulla ho da obbiettare; serbo il segreto, preparo minuziosamente il Battaglione all’impresa. Il materiale è caricato sul treno e custodito da guardie che di 24 ore in 24 ore si danno il cambio. Ufficiali e truppa sono consegnati nel campo.Tempo bello, ventoso.

2 marzo giovedì TripoliNulla. Tempo piovigginoso.

3 marzo venerdì TripoliEsercitazione tattica, fuori porta Fonduk ben Gascir, col Battaglione al completo.Tempo bello.

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4 marzo sabato TripoliCessa l’ordine di restare consegnati nel campo. Tempo bello.

5 marzo domenica TripoliÈ pattuito un armistizio tra Governo locale28 e ribelli.Cielo coperto.

6 marzo lunedì TripoliHo finalmente ottenuto di poter sostituire i muli meno idonei con altri validi dell’VIII Eritreo, che scelgo personalmente io stesso.Tempo bello.

7 marzo martedì TripoliIn seguito al completamento della salmeria il XIII ha: 116 quadrupedi prelevati dal XVIII Eritreo19 ” ” dal Deposito Quadrupedi14 ” portati da Marsa Susa149 quadrupedi in totale, dei quali 39 italiani.Tempo bello.

8 marzo mercoledì TripoliSmobilitazione del treno blindato in seguito ad ordine del Comando Truppe.Tempo bello, temperatura elevata.

9 marzo giovedì TripoliS.E. il Governatore si reca a Roma in forma ufficiale.Cielo sereno, giornata assai calda.

10 marzo venerdì TripoliCelebrazione cinquantenario morte di Mazzini. Orario festivo.Cielo sereno. Ghibli.

11 marzo sabato TripoliIl Battaglione è comandato a concorrere al servizio delle guardie del Presidio con 78 uomini al giorno.Cielo sereno. Ghibli.

12 marzo domenica TripoliNulla. Bel tempo.

13 marzo lunedì TripoliNulla. Cielo sereno, brezza leggera.

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14 marzo martedì TripoliNulla. Cielo sereno, vento fresco.

15 marzo mercoledì TripoliNulla. Cielo sereno, brezza.

16 marzo giovedì TripoliIl Comando Truppe con foglio 1396 R. S. ordina che il Battaglione a partire dalle 18 di domani sera si tenga pronto a muovere entro un’ora se di giorno, entro due se di notte. Si riallestisce il treno blindato e si ristabiliscono i carichi e le guardie ai medesimi come prima dell’armistizio. Sono invitato a conferire col Sig. Generale TARANTO per domani alle 10.Tempo coperto. Freddo.

17 marzo venerdì TripoliSono ricevuto dal Sig. Generale assieme al Ten. Colonnello Belly, Comandante del V libico. Egli espone il piano per la liberazione di Raslahamar, piano che differisce da quello esposto il 1 corrente in questo: «Il XIII va in ferrovia fino a Sajad e ivi sbarca; prosegue per Sajad fino a Greib col V libico che rimarrà in questa località (oriente oasi El Maja). Il XIII con una batteria e tre o quattro squadroni punterà su Raslahamar, libererà quel Presidio e ritornerà a Sajad. Il XX Eritreo rimarrà in potenza al bivio Gheran ove sarà pure il Sig. Generale».Esco dal colloquio raggiante e pieno di fede nel risultato dell’azione, fiero che al battaglione sia sempre conservata la parte principale. Il colloquio è durato un’ora e un quarto.Tempo bello. Notte umida e fredda.

18 marzo sabato TripoliScade l’armistizio.Vengono dati i muletti a sella e le bardature ai Buluc-Basci29. Sono febbricitante ma posso tuttavia lavorare con ardore.Cielo sereno. Forte vento.

19 marzo domenica TripoliDelusione! Il Governo locale conchiude un nuovo armistizio da oggi sino al 10 aprile. Si torna a smobilitare il treno blindato.Tempo bello.

20 marzo lunedì TripoliSi scaricano i materiali dal treno. I ribelli hanno catturato un alto funzionario civile di Tripoli ch’era uscito a caccia nei pressi di Ain-Zara. Fucilate tra ribelli e V libico.Ghibli.

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21 marzo martedì TripoliTorna da Roma S.E. il Conte VOLPI accolto con grande entusiasmo dalla folla. Mi reco a riceverlo assieme a tutti gli ufficiali superiori del Presidio. Egli ha una cortese parola per tutti.Cielo coperto. Ghibli violento.

22 marzo mercoledì TripoliÈ sbarcato il colonnello Cav. COUTURE Amedeo che formerà una colonna mobile.Ghibli.

23 marzo giovedì TripoliSbarca il I Eritreo proveniente da Massaua e sbarcano 500 complementi destinati a rinforzare i Battaglioni Eritrei Misti. Dò30 i Tenenti Sig. Milanese e Salamone pel provvisorio inquadramento di tali complementi.Ghibli.

24 marzo venerdì TripoliNulla. Cielo coperto, brezza.

25 marzo sabato TripoliNulla. Cielo sereno, vento forte.

26 marzo domenica TripoliSi forma la colonna mobile al comando del Sig. Colonnello Cav. COUTURE. Ne fanno parte il XIII e il I Eritrei, il VI libico, una batteria mont. Libica, tre squa-droni Savari e i servizi relativi.Cielo coperto, vento leggero.

27 marzo lunedì TripoliNulla. Tempo bello.

28 marzo martedì TripoliNulla. Tempo piovoso.

29 marzo mercoledì TripoliProveniente da Misurata sbarca la 4ª compagnia del XVII Eritreo comandata dal Capitano Sig. BARBARA e viene messa alle dipendenze disciplinari e tattiche del XIII, quale sua 4ª Compagnia. Essa è composta di tre ufficiali e 217 militari eritrei. Prende alloggio a Fesclum col XIII Eritreo.Tempo bello. Caldo.

30 marzo giovedì TripoliNulla. Cielo sereno.

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31 marzo venerdì TripoliLa 4ª Compagnia del XVII preleva dodici muletti abissini e venti muli italiani presso il Deposito quadrupedi per costituirsi la propria salmeria.Cielo sereno, giornata calda.

1° aprile sabato TripoliNulla. Cielo sereno, giornata assai calda.

2 aprile domenica TripoliCon foglio 10 R. S. urgentissimo il Comando della Colonna Couture ordina che il XIII si tenga pronto a muovere entro un’ora se di giorno e entro due se di notte. Ufficiali e truppa sono consegnati nel campo. Si mobilita in fretta il treno per la terza volta.Cielo coperto, vento forte.

3 aprile lunedì TripoliSi smobilita il treno, si da libera uscita alla truppa e libertà agli Ufficiali essendo stato revocato l’ordine di tenersi pronti ecc. di cui al citato foglio 10 R. S.Tempo bello.

4 aprile martedì TripoliNulla tempo bello.

5 aprile mercoledì TripoliAlle 19 un preavviso telefonico ordina di tenere pronto il Battaglione a partire per Sidi Bilal al primo cenno. Il fonogramma 1862 del Comando Truppe conferma ta-le preavviso. Alle 22 tengo gran rapporto a Fesclum per dare le ultime disposizioni.Tempo bello, caldo.

6 aprile giovedì TripoliIl Battaglione lascia il campo di Fesclum alle 6 del mattino forte di:Ufficiali 15Mil. Bianchi 3Mil. Abissini 752Totale 770

Muletti da sella per Uff. 16 “ “ “ “ truppa 49Muletti abissini da basto 52Muli italiani da basto 57Totale 174

Ogni ascaro ha 200 cartucce con sé, 40 nei cofani. Tre litri d’acqua someggiato per

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uomo di truppa, 10 per ogni ufficiale; 2 giornate di viveri di riserva per uomini e quadrupedi, larga dotazione di medicinali.Il Battaglione giunge a Sidi Bilal nella mattinata e accampa sulla duna «Ascari» a ponente del forte ma dentro la cinta dei reticolati. Tempo caldo, foriero di ghibli.

7 aprile venerdì Sidi BilalSistemazione del campo. Muli al pascolo.Leggero ghibli.

8 aprile sabato Sidi BilalGiungono a Sidi Bilal il I Eritreo e il VI Libico, la Iª Batteria montagna Libica (Chiarini) e il Comando della Colonna.Cielo sereno, temperatura elevata.

9 aprile domenica Sidi BilalRicognizione a Sud dell’Oasi di Sajad da parte del Battaglione che dispone un servizio d’avamposti.Leggero ghibli.

10 aprile lunedì Sidi BilalNulla. Tempo bello.

11 aprile martedì Sidi BilalTiro collettivo, riviste, organizzazione per la prossima avanzata.Tempo bello.

12 aprile mercoledì Sidi BilalD’ordine del Sig. Colonnello COUTURE tengo una breve conferenza illustrando il terreno sul quale si dovrà operare.Ghibli impetuosissimo e soffocante.

13 aprile giovedì Sidi BilalGiunge il XX Eritreo.Ghibli

14 aprile venerdì Sidi BilalNulla. Cielo semicoperto, vento impetuoso.

15 aprile sabato Sidi BilalRicevo a Tripoli l’ordine d’operazioni per la colonna COUTURE e parto in auto-carro per Sidi Bilal alle 14. Uno squadrone di Zaptiè copre la marcia del veicolo. Giungo a Sidi Bilal alle 21 dopo parecchie peripezie di viaggio. Impensieriti per il

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ritardo, da Sidi Bilal mi viene mandato incontro un drappello di ascari montati su muletto, comandato dal Tenente sig. CORBELLI del Battaglione.Alle 22,30 il Comando Colonna dirama l’ordine d’operazione. Alle 23, a gran rapporto, impartisco gli ordini e subito dopo li confermo per iscritto.Tempo bello, fresco.

16 aprile Pasqua Zavia Q. 5131

Alle 2 del mattino il Battaglione s’apre un varco nel reticolato, esce dalla cinta del forte Sidi Bilal e raggiunge il suo punto d’incolonnamento. Alle 3,15 ha inizio la marcia. Il XIII è in retroguardia. Alle 5 si imbocca la stretta formata dalla carova-niera dell’Oasi di El Maja, e si odono le prime fucilate. Alle 6 il fuoco di fucileria si fa violento; è la cavalleria e il XX Eritreo che si sono impegnati a Q. 50. I colpi vengono anche su di noi e l’aria è piena di sibili. L’Aiutante Maggiore del XX Eritreo viene a chiedere rinforzi ma il Sig. Colonnello COUTURE non aderisce e accelera la marcia sfilando fra i reparti che si battono e la costa, verso Zavia.La Iª Compagnia del XIII è inviata a occupare le QQ. 42 e 43. In vista dell’Oasi di Geddaim anche la 4ª Compagnia del XIII Eritreo viene staccata dal Battaglione (che la perde per sempre) e inviata a Marsa Dila. Alle 8 il comando del XIII colle Compagnie 2ª e 3ª, la Sezione Mitragliatrici e le salmerie si dispone in fermata protetta a S.W. dell’Oasi di Geddaim. In quella si ode la fucileria del I Eritreo impegnato verso Zavia, e mi reco subito al Comando Colonna situato a Q. 48 per ricevere ordini e sapere qual’è il compito (…).

- Il Sig. Colonnello COUTURE mi ordina di portarmi a Q. 51, occuparla, svincolare il XX, ritirare la mia Iª Compagnia dalle QQ. 42 e 43, rafforzarmi sulle posizioni di Q. 51. Mi dà una Sezione mont. (Tenente FADDA) a de-formazione. Occupo alle 15 la Q. 51 e vi faccio rafforzare la posizione mentre il XX Eritreo si raccoglie verso Geddaim. Rintuzzo coi pezzi da montagna la petulanza di nuclei nemici apparsi nell’Oasi di Tuebla e a Q. 50. Quest’ultima, verso le 17, è spazzata dal tiro della R. Nave «Campania» che vi ha scorto nu-merosi drappelli di cavalleria avversaria.

Cielo sereno, giornata afosa, notte assai fredda.

17 aprile lunedì QQ. 42-43Durante la notte ricevo ordine del Comando Colonna di occupare Quota 51 sino a prendere contatto con la Compagnia PALUMBO del 6° Libico situata sul mare a Q. 33 e di portarmi col Comando di Battaglione a QQ. 42 e 43.L’amplissima fronte non è tenibile con linea continua e quindi la faccio organizzare a capisaldi.Cielo sereno, giorno caldo e notte umida e fredda.

18 aprile martedì QQ. 42-43Durante la notte fummo disturbati da nuclei di ribelli. La Iª Compagnia attaccata vivacemente risponde con violenza. L’attacco si sposta e tenta il fronte della 2ª e

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poi della 3ª Compagnia ma senza successo. Il terreno insidiosissimo, la notte oscu-ra, l’ampiezza della fronte, la destra un po’ in aria perché non ben saldata al XX Eritreo (Compagnia del Capitano Sig. FEOLI del XX) mi cagionarono qualche preoccupazione. Molti ordini non giunsero a destino32 perché i portaordini a piedi e a cavallo, libici ed eritrei smarrirono spesso la via.Assumo il comando del Settore Est che va da Q. 33 (sulla costa) a Q. 42-43 in-cluse. Ho alla mia dipendenza la 4ª Compagnia del VI Libico e la Iª Sezione della Iª Batteria mont.Dispongo di 20 Savari per il collegamento.Faccio meglio rafforzare le posizioni e faccio riconoscere il terreno agli ufficiali tutti del Settore Est. Perdite: 1 ferito grave all’addome.Giornata calda e ventosa, notte fredda.

19 aprile mercoledì QQ. 42-43Alle 21 si pronunzia un attacco contro un buluc della Iª Compagnia posto sulla fascia d’osservazione, il quale riesce a sottrarsi all’accerchiamento e a portarsi sulla linea di combattimento occupata dalla Compagnia. Un ascaro del buluc si sperde e non rientra che all’alba. I tentativi nemici d’infiltrazione durano sino alle 2,30 sul fronte del mio settore e del Settore Sud (Maggiore TAURINO).Vento [illeggibile].

MANCA PAGINA 10 (giorni 21-24 aprile33)

25 aprile martedì Marsa DilaRastrellamento nell’Oasi di Zavia, incendio e distruzione dell’abitato. Il XIII Eri-treo rinforzato dalla IV Compagnia del XVII Eritreo opera nel settore Est di Zavia. Si ripetono gli atti repressivi e punitivi compiuti nell’oasi di Matreti e di Harscià. Alle 14 il Battaglione rientra a Marsa Dila.Cielo sereno, temperatura elevata, notte fredda.

26 aprile mercoledì Sidi BilalLa Colonna COUTURE rientra a Sidi Bilal. Il battaglione è d’avanguardia a sud della carovaniera litoranea. Nulla di notevole durante la marcia.Dopo 11 giorni di dure fatiche, 11 notti freddissime passate all’addiaccio, Ufficiali e truppa ritrovano a Sidi Bilal tende e coperte e possono ristorarsi con un po’ di riposo.Tempo bello, notte freddissima.

27 aprile giovedì Sidi BilalPasso in rivista il Battaglione. Un senso di depressione è negli Ufficiali che hanno particolarmente sofferto il duro disagio delle precedenti giornate, privi di bianche-ria, spesso anche di viveri che il mare impediva di sbarcare a Marsa Dila. Anche gli ascari hanno un po’ sofferto sia per le marce, sia pel mutare continuo di posizione

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che li obbligava a riscavare trincee di continuo con mezzi limitatissimi e primitivi.Parecchi muli sono fiaccati. La salmeria è composta in parte d’ascari d’altri Bat-taglioni passati al XIII quali conducenti, senza attitudine e con scarsa volontà. Infliggo punizioni esemplari ai trascurati, esemplari premi in denaro ai premurosi del quadrupede, ottenendo risultati ottimi.Ghibli.

28 aprile venerdì Sidi BilalPreparativi per un’avanzata su Suani ben Adem34 che risulta occupato da ingenti forze nemiche.Cielo semicoperto, giornata afosa.

29 aprile sabato Suami ben AdemAlle 3 il Battaglione si incolonna, alle 5 è a fermata Msciasta. Da questa località «la colonna» avanza verso Suani ben Adem colla sinistra alla ferrovia nella seguente formazione:(esplorazione vicina di cavalleria) 3 squadroni Savari e un gruppo Spahis. Avan-guardia 6° Libico – XIII e XX Eritrei la Batteria mont (Vignola) e le impedimenta formano il grosso.Alle 5,50 si hanno le prime fucilate e alle 7 si urta contro la resistenza principale sulle dune mobili immediatamente a Sud di Suani ben Adem. Ricevo ordine di so-stenere l’avanguardia sloggiando il nemico dalle dune. Ordino alla 2ª Compagnia (capitano Sig. DAINESE) di [avanzare].A ovest della ferrovia sulla quale nuclei nemici nascosti dietro grossi cespugli spara-no su di noi e l’ordine viene eseguito con slancio e a fondo. Dopo mezz’ora dacché la 2ª Compagnia si è impadronita del margine dunoso, vedendo che la resistenza nemica non cede ancora, lancio in linea sulla sinistra della 2ª Compagnia la 3ª (Capitano Sig. DE MARI)All’apparire di questa compagnia la resistenza si affievolisce e il fuoco di fucileria langue e pian piano cessa quasi del tutto. Il XX Eritreo appare in questa fase sulla ferrovia alla nostra sinistra, mentre a destra non ci è dato di prendere collegamento coi reparti del 6° Libico che a vista e per breve tempo, poiché quel Battaglione si raccoglie più indietro.Il ghibli è terribile, il tormento della sete e della sabbia turbinata dal vento mette a dura prova la resistenza di tutti. È quasi impossibile tenere gli occhi aperti: abbia-mo il vento in faccia e siamo senza occhiali (magazzini sprovvisti).[…] Mando per istruzioni al Comando Colonna, ma i portaordini tornano senza risposta. Alle 13 si ode un cannoneggiamento e fucileria verso sud-W a 3 o 4 km da noi. Mando avviso al Comando Colonna COUTURE e chiedo permesso di puntare in quella direzione, dovendosi trattare della Colonna GRAZIANI che si è impegnata. Tardando la risposta mi reco io stesso con l’Aiutante Maggiore in 2ª (Tenente Sig. Cantone) al Comando ove mi viene detto di restare sulle po-sizioni occupate, in attesa di ordini, e ne riporto l’impressione che, per oggi, l’a-

Marco Scardigli

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zione debba considerarsi finita. Il signor Colonnello COUTURE mi avverte che il Battaglione cessa di far parte della sua colonna per passare questa sera stessa al Gruppo GRAZIANI. Alle 16 ricevo ordine di accampare a est della ferrovia. Alle 19 lo spostamento e l’accampamento del Battaglione è effettuato. Gli ascari che da ben 17 ore sono in moto e i quadrupedi digiuni, sembra che possano finalmente ristorarsi, ma non è così.Un nuovo ordine chiama il Battaglione in altra località distante solo 3 km. Si toglie il campo e ci si rimette in marcia sotto il tiro di pattuglie nemiche che obbligano a precauzioni. Alle 22 il nuovo spostamento è compiuto. Affranti di stanchezza gli ascari e gli Ufficiali si adagiano al suolo e si addormentano.Io sono chiamato a rapporto dal Sig. Colonnello GRAZIANI che mi dà gli ordini per la marcia del domani su Azizia. Alle 23 mi corico accanto al mio A.M. avvolto nella coperta sottosella. Passano sul campo le pallottole dei disturbatori.Ghibli.

30 aprile domenica Azizia Fonduk es Scerif DlàmAll’una del mattino sono chiamato a rapporto nuovamente. All’1,30 sveglia pel gruppo. Alle 2 partenza. Notte scurissima. Solo alle 3 l’incolonnamento è compiu-to nel difficile terreno e la colonna marcia un po’ a caso perché neppure le guide del luogo riconoscono la strada e si limitano a mantenere la direzione approssima-tiva sino all’alba. Colle prime luci la marcia si fa più spedita ma si leva un ghibli così furioso, così caldo che tutti ne soffrono terribilmente. Incendiamo campi, biche d’orzo e di frumento, grossi cespugli spinosi e in breve la pianura è coperta d’una caligine di fumo che il vento infocato schiaccia contro il suolo.Qualche raro colpo di fucile qua e là. Alle 11 arriviamo ad Azizia senz’incontrare resistenza. Si rileva il 10° Eritreo. Si lascia in Azizia il I° Eritreo che lo sostituisce e puntiamo su Fonduk es Scerif. Sono le 12,45; il caldo è insopportabile, il ghibli violentissimo, la marcia penosa. A due ore da Azizia v’è uno scontro della nostra cavalleria con 200 armati che obbliga la «Colonna» a sostare per circa tre quarti d’ora. Si riprende la marcia ma il 10° Eritreo, non allenato e colpito da diversi casi d’insolazione, deve rinunciare al servizio d’avanguardia. È scavalcato e sostituito dal 13° Eritreo. Verso le 15,30 cade il ghibli. Una brezza fresca ristora le forze e gli animi. Un aeroplano SVA ci raggiunge, getta un messaggio che segnala 500 armati tra il Mogenin e Fonduk es Scerif. Il V e il XIII Eritrei si schierano in formazione di combattimento e così avanzano, lasciando addietro il X Eritreo che non è più in grado di seguire la nostra andatura. Qualche fucilata ci viene tirata, isolata, ma si arriva a Fonduk es Scerif senza incontrare resistenza, senza trovare nessuno, rile-vano i segni di un esodo recente e precipitoso in qualche località. Il sole tramonta. Gli Spahis in ricognizione sono scambiati per ribelli dal X Eritreo e ne nasce uno scambio di fucilate. I colpi lunghi vengono su di noi. Abbiamo un ascaro ferito e un mulo ucciso. Si chiarisce l’equivoco e si prosegue la marcia velocemente. Alle 22 si arriva al luogo di sosta presso un pozzo. Da 21 ore il Battaglione è in moto e non ha lasciato indietro né un uomo né un quadrupede.

Gli ascari operanti in Libia

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Scene indescrivibili all’unico pozzo preso d’assalto dagli ascari e dai quadrupedi assetati di due Battaglioni, in piena oscurità. Le salmerie sono abbeverate grazie all’energia e alla calma del Tenente Sig. MINEO, a tarda ora. Addiaccio. Ghibli d’inaudita violenza.

1° maggio martedì35 DlàmIl Gruppo GRAZIANI si rimette in marcia alle 5,30. Il Battaglione è d’avanguar-dia. Esso ha stupito tutti per l’ordine, il silenzio, la rapidità e la precisione con le quali si è messo in riga dopo le due giornate del 29 e 30 Aprile, come se uscisse allora dagli accampamenti di Tripoli. Alle 8,30 si arriva a Dlàm e al XIII viene [riga illeggibile, NdA] Sull’imbrunire le vedette segnalano razzi invocanti soccorso in direzione di Fonduk es Scerif ove deve trovarsi la Colonna COUTURE. Alle 24 il V Eritreo muove su Fonduk ben Gascir e il XIII invia la I Compagnia a guardia del Comando Gruppo GRAZIANI e della 2ª Batteria mont. (Vignola)Cielo sereno. Temperatura Elevata.

2 maggio martedì DlàmNulla. Cielo sereno, temperatura elevata di giorno, fredda di notte.

3 maggio mercoledì Fonduk el ScerifAlle 6 il Battaglione lascia Dlam e colla 2ª Batteria libica si porta a Fonduk es Scerif passando per Fonduk ben Gascir. Giunge alla meta alle ore 10 e trova già sul posto il X e il XIX Eritrei. Sosta colle misure di sicurezza, all’addiaccio, collegata a destra col XIX Eritreo. Si predispone per un’avanzata su Sidi es Saiah ove è stata respinta la colonna COUTURE il 1° corrente.

4 maggio giovedì Sidi es SaiahSveglia ore 2. Incolonnamento sulla carovaniera Funduk es Scerif – Bir Abaza. Par-tenza ore 3,30. Formazione di marcia: Gruppo sphais (Pescosolido) esplorazione di cavalleria. XIX Eritreo, avanguardia. Batteria e impedimenta al centro fra i due Battaglioni V a destra e XIII a sinistra della carovaniera direttrice di marcia. Tre squadroni Savari di retroguardia.In vista di Bir Abaza qualche fucilata; a Bir Abaza numerose fucilate; oltre questa località ha inizio il combattimento grosso. Si passa il Uadi Mogenin sotto il fuo-co nemico di fucileria e di artiglieria, e si continua a marciare in formazione di combattimento verso Sidi es Saiah per oltre un’ora e mezza, col fuoco di fronte, di fianco e alle spalle. Si sente l’avanguardia fortemente impegnata, si distinguono i colpi delle mitragliatrici nemiche, e numerosi Shrapnels e granate cadono tra le nostre file che avanzano celermente. L’aria è piena di sibili di pallottole e di pro-iettili d’artiglieria, il fuoco di fucileria si fà36 violento e l’azione prende l’aspetto di vera e propria battaglia.Verso le 8,30 siamo a 2000 metri da Sidi es Saiah. Si vede il marabutto e il villag-gio di capanne, si distinguono nemici a piedi e a cavallo muoversi nella conca. Il

Marco Scardigli

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Sig. Colonnello GRAZIANI mi chiama a sé, mi fa vedere il marabutto di Sidi es Saiah e mi ordina d’attaccare la posizione subito dopo che la Batteria l’avrà bat-tuta. Prego il Sig. Colonnello di lasciarmi attaccare la posizione all’istante senza aspettare il tiro dell’artiglieria e, ottenuto il consenso, chiamo i Sigg. Comandanti in sottordine, indico a ciascuno l’obiettivo da occupare e poi mi lancio a muletto verso il marabutto, seguito

[manca nel testo]quell’assalto impetuoso, scorgendo quell’ondata di gente nera che si precipita ur-lando giù per le dune, sparano pochi colpi e poi cercano scampo nella fuga. Sulle dune prospicienti l’artiglieria e la fanteria nemica sospendono il fuoco e ripiegano atterrite.Frattanto le Compagnie raggiungono gli obiettivi che loro avevo assegnato e inse-guono col fuoco il nemico fuggente.A guardarmi il fianco destro avevo un plotone di cavalleria Savari (Tenente Sig. ESCLAPON).Poco dopo l’arrivo delle compagnie sul rispettivo obiettivo, Sidi es Saiah è in fiamme.Il nemico ripiega verso S.E. Gli lancio alle spalle il plotone Savari del Tenente Sig. ESCLAPON e chiedo io stesso d’inseguirlo, ma non mi è concesso dal Sig. Comandante del Gruppo. Questi incontrandomi poche ore dopo presso il mara-butto, mi viene incontro, mi getta le braccia al collo e mi bacia congratulandosi pel modo come il Battaglione s’era lanciato all’assalto. Atto cordiale questo e scena commovente, che per i miei Ufficiali e per mè37 sarà sempre uno dei più cari ri-cordi di guerra.Giornata molto calda.

5 maggio venerdì Sidi es SaiahIl pozzo di Sidi es Saiah è profondo una cinquantina di metri, l’estrazione dell’ac-qua è lunga e faticosa e il pozzo ben presto si esaurisce. Uomini e specialmente i quadrupedi soffrono la sete. Il Comando Truppe autorizza il ritorno a Fonduk es Scerif. La partenza fissata per le 23 non può effettuarsi essendo apparsi nuclei nemici innanzi alle piccole guardie. Tutto il distruggibile è stato in Sidi es Saiah distrutto.Cielo sereno, giornata assai calda.

6 maggio sabato Suami beni AdemAlle 4,30 la «Colonna» GRAZIANI lascia Sidi es Saiah e alle 8,30 arriva a Fonduk es Scerif. Il XIII è di retroguardia. A Fonduk es Scerif si apprende che la Colonna GRAZIANI va ad Azizia e perde il 13° Eritreo che passa al Gruppo PIZZARI e il 19° che passa al Gruppo BELLY.Il Sig. Colonnello GRAZIANI rivolge parole di lode e di ringraziamento al Batta-glione che si mette in marcia per Suani beni Adem dopo aver distribuito 30 ghirbe d’acqua e la razione viveri agli ascari, e dopo aver ripreso le salmerie ordinarie che la mattina del 4 maggio erano rimaste a Fonduk es Scerif col Tenente Sig. MAUCERI.

Gli ascari operanti in Libia

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Tra Fonduk ben Gascir e Dlam il Btg. è raggiunto e sorpassato dall’automobile del Sig. Generale TARANTO, comandante delle Truppe, che ha parole di lode per l’ordine col quale il 13° marcia sotto quel sole cocente. Grand’alt a Dlam e finalmente abbeverata abbondante ai quadrupedi che da quasi tre giorni soffrono la sete. Il Battaglione arriva a Suani beni Adem verso le 16 e ac-campa presso la stazione ferroviaria. Do 24 ore di permesso per Tripoli al Capitano Sig DAINESE e ai Tenenti Sigg. NANNI, SALAMONE, MINEO, MILANESE, ANGELICO che partono col treno la sera stessa. Alle 18 ricevo ordine di raggiun-gere col Battaglione Sidi Bilal all’indomani.Tempo bello, giornata assai calda.

7 maggio domenica, 15 per Sidi Bilal, vi arrivo alle 11; e faccio ridare agli ascari le tende, rioccupando il posto tenuto in precedenza. Il Tenente Aiutante Maggiore ha 24 ore di permesso per Tripoli.Cielo coperto, vento fresco di ponente.

8 maggio lunedì ZaviaIl Battaglione si trasferisce a Zavia alle 14 e vi giunge alle 19 accampandosi a S.E. della stazione ferroviaria.Cielo coperto, vento di ponente.

9 maggio martedì, ZaviaAlle 6 il Battaglione che fa parte della Colonna PIZZARI esegue una spedizione punitiva su Sorman. Operazione faticosa che il 13° compie in luogo del XX Eritreo che non è in condizioni di poter operare; che dura sino alle 19 e si svolge in gran parte sotto pioggia gelata e dirotta.Bestiame razziato e consumato dagli ascari.Vento impetuoso e gelido, pioggia ghiacciata.

10 maggio mercoledì ZaviaSosta di riordinamento. Arrivano L.L.E.E. il Generale d’Esercito BADOGLIO e il Governatore Conte VOLPI. La 2ª Compagnia è schierata alla stazione a rendere gli onori all’arrivo e alla partenza che ha luogo alle 14. Concedo 24 ore di permesso a Tripoli ai Tenenti Sigg. MINEO NANNI e CORBELLI.Cielo sereno, giornata fresca e senza vento.

11 maggio giovedì ZaviaRicevo 15 muli dal 17° Eritreo. Domani alle 7 si partirà per Suani ben Hamer (Sud di Sorman).Bella giornata, notte fredda.

12 maggio venerdì Bir TerrinaAl punto d’incolonnamento apprendo che devo avviarmi a Bir Terrina. Chiedo

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una guida ma non può essermi data. In questo paese privo di abitanti (son fug-giti tutti) con carte incomplete e senza punti di riferimento mi svio e arrivo alle 16,30 a Bir Uaara credendomi a Bir Terrina che è più a nord. Invio pattuglie a cercare il collegamento e il Buluc-Basci Tesfaimariam della 3ª Compagnia lo trova 8 km circa più a nord. Il Battaglione si rimette in marcia e giunge Bir Terrina alle 22. Rientrano l capitano Sig. BOGLIETTI e i Tenenti Sigg. NANNI, MINEO e CORBELLI. Alle 23 sono chiamato a rapporto dal Sig. Colonnello PIZZARI che mi ordina di essere pronto a muovere l’indomani alle 3.Giornata caldissima e serata foriera di ghibli.

13 maggio sabato Mdachem SW di El MaamuraSveglia alle 2. Adunata alle 3. Partenza alle 3,30. Il Battaglione è di retroguardia. Scarsa resistenza da parte nemica, si catturano e si passano per le armi alcuni arabi, si razzia molto bestiame. Il bestiame che non può essere preso o non può seguire perché stanco, viene abbattuto. Ghibli opprimente. I riparti giunti a Madachem in parte si sbandano in cerca d’acqua. Solo il 13° Eritreo, mirabile esempio di disciplina, stà38

serrato al suo posto. Ordino che sia dato agli ascari un litro d’acqua preso dalle casse di riserva. L’operazione delicata si compie dopo tante fatiche, dopo tanta sete sofferta, sotto quel sole ardente, con un ordine e una precisione meritevoli di piena incondizionata ammirazione. A sera i quadrupedi possono essere abbeverati ad un pozzo lontano, con acqua fangosa. Le fatiche e le privazioni hanno segnato il volto di tutti; i quadrupedi denotano nell’incedere l’esaurirsi delle forze.Gli ascari si satollano con le pecore razziate trasformando l’addiaccio in una vasta rosticceria. Alle 20 ricevo l’ordine di movimento. Si inizierà la marcia domani alle 2.Ghibli implacabile.

14 maggio domenica Bir GhnemAlle 24 il Gruppo è già tutto sveglio. Gli ascari assetati, arsi ancor più per l’ab-bondante pasto di carne della sera prima, sono impazienti di partire nella speranza di trovare acqua più innanzi. Secondo gli ordini si fa alle 2 l’adunata, alle 2,30 si raggiunge il punto d’incolonnamento ma solo alle 3,30 si può iniziare la marcia. Nell’attesa molti muli stramazzano sotto il carico che non reggono più. A Bir el Chsgeb si lascia la carovaniera e si piglia pei monti a nord della carovaniera Bir Chsgeb - Bir Ghnem. Marcia faticosissima anche pel ghibli che nella sua terza giornata è violentissimo.Alle 10 il Sig. Colonnello PIZZARI mi cede il comando del Gruppo e mi ordina di raggiungere Bir Sciammer. Dopo aver zigzagato dietro alla guida della Batteria CHIARINI (un indigeno del sito) sino alle 13, si arriva a Bir Sciammer e lo si trova asciutto! Impossibile continuare la marcia. Gli ascari cadono a decine colpiti da insolazione e i muli stramazzano quasi tutti. Ordino l’alt e mando pattuglie a Bir Ghnem per istruzioni sul sito da raggiungere. Le ricevo verso le 15 e solo allora rimetto in marcia la «Colonna». Alle 16 il Battaglione raggiunge il sito as-

Gli ascari operanti in Libia

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segnatogli. È assai stanco ma molto ordinato. Mi occupo col medico degli ascari più gravemente colpiti da insolazione. Scene indescrivibili si svolgono intorno al pozzo di Bir Ghnem già quasi esaurito, nel quale precipita un mulo assetato e nel quale molti ascari si lasciano cadere. Con sforzi di sovrumana energia gli Ufficiali riescono a ristabilire un ordine relativo nella presa dell’Acqua. Anche in questa circostanza il 13° ha dato prova di ferrea disciplina e d’obbedienza assoluta ai suoi Ufficiali. Non un uomo, non un mulo è rimasto indietro! Solo 7 casi d’insolazione si debbono lamentare, e non gravissimi, grazie alla disciplina nella distribuzione dell’acqua.Al tramonto il Battaglione mette gli avamposti a due km dal pozzo, verso N. E.Ghibli implacabile.

15 maggio lunedì Bir GhnemAll’alba si ha qualche molestia da parte del nemico. Il Battaglione, seguito ad or-dine del Sig. Colonnello PIZZARI arretra sino a 5-600 metri dal pozzo allo scopo di restringere la fronte. Faccio disinterrare il pozzo Sciammer dal Ten. Sig. MAU-CERI e questi con abnegazione e non senza pericolo riesce dopo ben 9 ore di inin-terrotto lavoro ad abbeverare i quadrupedi del Battaglione. I ribelli dalle pendici dei monti sparano su Bir Ghnem. La colonna GRAZIANI lascia Bir Ghnem alle 18 e si trasferisce ad Azizia.Ghibli meno violento dei giorni precedenti.

16 maggio martedì Bir GhnemLa partenza del Gruppo GRAZIANI ha migliorato la disponibilità d’acqua di Bir Ghnem. Gli ascari tra lavori di trincea, avamposti, guardia al bestiame, fatiche per attingere acqua, abbeverare i muli, cercare foraggi e legna percorrendo molta strada non hanno modo di riposare.Sono chiamato a rapporto. Si partirà alle 22 per Maamura. All’ora stabilita si fa ammassamento nell’oscurità più profonda, ma il nemico sembra comprendere ciò che avviene e spara su di noi che non rispondiamo. Si inizia la marcia. Il 13° è in avanguardia.Cielo sereno, giornata calda, notte quasi illune.

17 maggio mercoledì Bir GammudiSi marcia tutta la notte e buona parte del mattino. Verso le 9,30 si arriva in vista di Maamura occupata dal V Eritreo. Dopo breve sosta il Battaglione deve marciare un’altra ora e mezza per arrivare a Bir Gammudi che gli è stato assegnato per la presa d’acqua. Il pozzo non si esaurisce, fortunatamente, e il 13° può finalmente dissetarsi. Alle 16, chiamato a rapporto, ricevo l’ordine di movimento per domani su Azizia.Cielo sereno, giornata caldissima.

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Le giornate dal 18 maggio al 26 non contengono altre informazioni utili. Il Battaglione giunge ad Azizia, poi in treno arriva a Tripoli dove viene imbarcato sulla R. Nave Operosità. Sfilata il 18 davanti al Governatore e colazione del Maggiore Maletti con le autorità tripoline il giorno dopo (Volpi, Badoglio, Taranto, ecc.). Il 20 e il 21 maggio vengono trascorsi preparandosi per l’imbarco che avviene il 21. Il 22 la nave parte: il 24 fa scalo a Bengasi dove gli Ufficiali possono festeggiare la ricorrenza del 24 maggio (anniversario dell’inizio della Grande Guerra) con una cena e dan-ze al Circolo Roma. Il 25 il battaglione riparte e il 26 ritorna a Marsa Susa.

Note al testo

1 L8, 92, Diario Storico del I battaglione indigeno.2 Ibidem.3 L8, 92, Diario Storico del III battaglione indigeno.4 L8, 92, Diario Storico del X battaglione indigeno.5 Ibidem. Le regioni/popolazioni di maggior provenienza sono Amhara (185 uomini), Tigrai

(48), Somalia (26) e Galla (22).6 L8, 93, Diario Storico del X battaglione indigeno.7 L8, 93, Diario Storico del XVIII battaglione indigeno.8 L8, 93, Diario Storico del XIX battaglione indigeno.9 L8, 92, Diario Storico del III battaglione indigeno, 8 febbraio-12 ottobre 1914.10 L8, 92, Diario Storico del X battaglione indigeno, giugno 1913-aprile 1914.11 L8, 92, Diario Storico del X battaglione indigeno, 1922. Citate due morti per broncopolmonite

durante il viaggio e 4 per febbre tifoidea in Libia. Ivi, Diario Storico del XVIII battaglione indi-geno, 1927 vengono riportati 11 morti per malattia, nel diario storico del XIX (1922) vengono riportati 28 morti per malattia di cui 11 per tubercolosi. Il XX battaglione nel 1921 ebbe 28 morti per malattia e 109 ricoveri su 823 uomini.

12 Angelo del Boca, Gli italiani in Libia. Tripoli bel suol d’amore 1860-1922, Laterza, Roma-Bari 1988, p. 237.

13 L8, 93. I riferimenti sono alla carta al 1:100.000 per la zona costiera e la carta al 400.000 per quella interna.

14 Le Relazioni mensili presenti nell’archivio sono tutte inventariate in L8, 171.15 Le Relazioni trimestrali si trovano sempre in L8 ai raccoglitori 172, 173, 174, 175.16 L8, 174, Relazioni trimestrali del Regio Corpo Truppe Coloniali della Tripolitania (gennaio-di-

cembre 1927).17 Ibidem.

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18 L8, 93. Comando del XIII battaglione eritreo (misto).Stralcio riassuntivo del Diario Storico Mi-litare delle operazioni di guerra in Tripolitania del 1922, Marsa Susa (Cirenaica), 31 dicembre 1922.

19 A. Del Boca, Gli italiani in Libia cit., pp. 402 ss.20 Sandro Sandri, Il generale Rodolfo Graziani, Arti Grafiche Bertarelli, Milano-Roma 1935-

XIV, pp. 76 ss.21 Così nel testo.22 Così nel testo.23 Così nel testo.24 Ogni resoconto giornaliero finisce con la seguente dicitura: «IL MAGGIORE Fto P. Maletti»

che omettiamo in quanto assolutamente ripetitiva.25 Galleggiante usato per il carico e lo scarico dei bastimenti nei porti.26 I nomi dei personaggi più importanti vengono riportati tutti in maiuscolo per rispetto.27 Nell’opera citata di Del Boca, a p.402, è scritto Ras Lamhar.28 Si noti come il comandante del battaglione eritreo si senta diverso ed estraneo rispetto all’am-

ministrazione coloniale tripolina.29 Grado degli ascari: comandante di un plotone (buluc).30 Così nel testo.31 Indica «Quota 51».32 Così nel testo.33 Sono i giorni in cui, nel diario del battaglione si trova l’annotazione che abbiamo già riportato

nel testo: «24 aprile – Marsa Dila – Rastrelliamo le oasi incendiando case, capanne, raccolti, razziando bestiame e passando per le armi tutti i validi alle armi. Molto sangue viene fatto versare nel compimento di sì duro dovere».

34 In Ambrogio Bollati, (Enciclopedia dei nostri combattimenti coloniali fino al 2 ottobre 1935, Einaudi, Torino 1936, pp. 217-218) il nome della località è riportato come Suani Beni Adem. Vi si riferisce che questa era stata base dei turco-arabi fino al 1912, occupata dagli italiani il 16 novembre1912 e abbandonata nell’estate 1915. Nel 1917 ci fu un tentativo di riconquista fallito da parte della colonna Cassinis. Le operazioni riportate qui di seguito, che porteranno alla riconquista di questa località e di Fondugh Ben Gascir furono condotte dalle colonne Cou-ture, Belly, Graziani, Pizarri e Gallina. Si trovano cenni nello stesso volume di Bollati a p. 176.

35 In realtà, lunedì.36 Così nel testo.37 Così nel testo.38 Così nel testo

Marco Scardigli

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anno batt. luogo di stanza batt. luogo di

stanza batt. luogo di stanza batt. luogo di

stanza batt. luogo batt. luogo batt. luogo

1912 I *** Derna III*** Tripoli > II*** Tripoli IV** > Bengasi VIII** Derna >

1913 III*** Tripoli, Orfella IX solo

allegati >X

***Cirene

colonna Latini >

II***+** Tripoli IV** Bengasi VIII

** Derna

1914 III *** Bengasi e interno IX solo

allegatiX

***Cirene

colonna Latini

V*** Brak

1915 IX***Derna,

Bengasi, Cirene

VIII***Sidi

Mesri, Tagiura >

1916 VIII***Sidi

Mesri, Tagiura

IX** Bengasi

19171918 XI* ? >

1919 I* Misurata XI* ? III***

Tripoli, Homs

1920 I*

1921 XIV* Colonna Azzoni XV** ? XVI* ? XVII* ? XVIII* Misurata XX

*** Tripoli

1922 XIV* XIII***Marsa Susa, Tripoli

XV* ? XVII* Misurata XVIII*** Misurata XIX

*** Tagiura XX**+***

Tripoli + Zanzur

1923 II* Agedabia, Tarhuma VIII** Misurata XVIII

** Misurata XVIII**+*

Beni Ulid +

MisurataXIX* Tarhuna XX

*** Tagiura

1924 VII* ? >1925 VII* ?

1926 I**Zliten,

Siracusa, Derna

IV* Cirene XIV* Gebel > XVI*** ? XVII** Tarhuna XVIII

** Misurata XIX* Tripoli, Gadames

1927 IX* ? X** Bengasi XIV* Gebel XV*** ? XVI* ? XVII rovinato XVIII

***Tripoli, Mizda

19281929 XVII*** Hon XX* Hon XXV Beni Ulid1930 XIX* Hom XX* Hon

1931 XVII* Hon XIX** Jefren, Geriat

1932 XVII** Hon XIX** Mida1933 XVII* Hon XIX* Mizda

* = sintetico; ** medio; *** dettagliato > = il diario prosegue nell’anno successivo + = diari diversi per lo stesso anno

Tabella 1 - Tabella cronologica e collocazione geografica dei diari storico militari dei battaglioni

Gli ascari operanti in Libia

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anno batt. luogo di stanza batt. luogo di

stanza batt. luogo di stanza batt. luogodi

stanza

1912 I *** Derna III*** Tripoli > II*** Tripoli

1913 III*** Tripoli, Orfella X*** Cirene colon-

na Latini > II*** Tripoli

1914 III *** Bengasi e interno X*** Cirene colon-

na Latini V*** Brak

1915 IX*** Derna, Ben-gasi, Cirene VIII*** Sidi Mesri,

Tagiura >

1916 VIII*** Sidi Mesri, Tagiura

1917

1918

1919 III*** Tripoli, Homs

1920

1921 XX*** Tripoli

1922 XIII*** Marsa Susa, Tripoli XVIII*** Misurata XIX*** Tagiura XX*** Zanzur

1923 XX*** Tagiura

1924

1925

1926 XVI*** ? XX*** Bir Gheddabia XXI*** Bengasi XXVI*** Tripoli

1927 XV*** ? XVIII*** Tripoli, Mizda XX*** El Hesna ?

1928

1929 XVII*** Hon

> = il diario prosegue nell’anno successivo

Tabella 2 - Tabella cronologica e collocazione geografica dei diari maggiormente dettagliati

Marco Scardigli

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Anno Tripolitania Cirenaica

1921 gen/dic apr/sett

1922 lug/dic gen/sett

1923 apr/giu

1924 lug/dic

1925 gen/mar

1926 gen-mar-ott-dic

1927 gen/dic apr/set

1928 gen/dic gen/mar

1929 ott/dic

1930 gen/mar

Tabella 3 - Tabella cronologica delle relazioni trimestrali del comando RCTC

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Bestie, e umani.Un documento per la storia dei campi di concentramento in Cirenaica

di Nicola Labanca

La storia militare

La storia della rete di più di una dozzina di campi di concentramento, fra grandi e piccoli, che il regime fascista decise di istituire in Cirenaica per ‘pacificarla’, dal 1930 al 1933 non è facile da scrivere. Il primo problema è dato dai documenti, che scarseggiano o sono difficili da trovare. Il secondo è dato dalla distrazione della storiografia, italiana e internazionale, che non li cercano. Il terzo problema è dato dalla politica degli Stati, in primo luo-go italiano, ma anche libico, che non incoraggia questi studi.

Le conseguenze di questo triplice ordine di problemi e difficoltà sono anch’esse quanto meno a tre livelli. La comprensione di cosa fu il fascismo in colonia, e cosa fu il colonialismo del fascismo rispetto al colonialismo delle altre potenze europee del tempo1, ne esce amputata. La compren-sione della storia della Libia risulta indebolita da una lacuna su un tema così importante, soprattutto per la Cirenaica2. Il passaggio dai silenzi e dai miti del tempo coloniale ad un’età compiutamente postcoloniale3 (e non solo decolonizzata) è tardata, in Italia, in Libia, nel Mediterraneo. Questo anche perché non mancano tendenze a far dimenticare o a ridimensionare l’episodio.

Qualunque contributo documentario che aiuti a superare queste diffi-coltà e a dissipare le nebbie dell’incertezze che ancora avvolgono la vicen-da, anche una sola busta, anche un solo fascicolo, persino anche una sola carta dovrebbe essere considerata benvenuto.

I campi

Non stupisce quindi se molte nebbie ancora ostacolano una conoscenza storica adeguata alla rilevanza dell’evento. Della vicenda dei campi di con-

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centramento in Cirenaica sappiamo ormai per certo alcune cose, ma molte sono ancora incerte.

Nell’essenza, la vicenda è nota4. Lo spostamento coatto degli accam-pamenti della popolazione del Gebel cirenaico e la creazione di campi di concentramento rappresentò un punto decisivo della politica di ‘riconqui-sta’ armata della Libia lanciata dai governi liberali nel 1921, una volta che si era abbandonata la politica di reciproco riconoscimento e di accettazione varata nel 1917. La decisione di istituire i campi di concentramento era stata presa congiuntamente – ai diversi gradi di responsabilità – da Benito Mussolini, del ministro delle Colonie Emilio De Bono, del governatore della Libia generale Pietro Badoglio e del vicegovernatore della Cirenaica colonnello Rodolfo Graziani. Nei campi doveva essere internata i semino-madi della Cirenaica, accusati (a ragione) di sostenere la guerriglia antico-loniale guidata a distanza dall’emiro senusso Sayyid Ahmad al-Sharif ibn Sayyid Muhammad al-Sharif al-Sanusi (e poi da Sidi Muhammad Idris al-Mahdi al-Senussi, dal 1951 Idris I) e condotta sul campo dal suo luo-gotenente Omar al-Mukhtar. La popolazione fu obbligata a muoversi a partire dal gennaio 1930 mentre i campi furono resi stabili nell’estate dello stesso anno. Sottraendo l’‘acqua’ della popolazione al ‘pesce’ della resisten-za, sarebbe stato più facile prendere quest’ultimo. In effetti così fu. Omar al-Mukhtar fu preso e impiccato (non fucilato, con grande sdegno della popolazione musulmana) nel settembre 1931. I campi non furono però sciolti subito: gli italiani volevano essere sicuri che, dopo Omar, ogni altro focolaio di rivolta fosse spento. Solo nel 1933, non senza dover vince-re qualche resistenza nell’amministrazione coloniale favorevole a renderli un’istituzione permanente, i campi furono sciolti. Dopo anni di detenzio-ne la popolazione cirenaica non sempre poté tornare ad utilizzare i territori che da secoli aveva abitato: nei migliori terreni si erano ormai insediati i coloni italiani.

Attorno a quest’essenza, ormai accettata in tutte le storie della Libia e non più negata o taciuta come nei vecchi manuali italiani di storia colonia-le, troppe però sono ancora le nebbie. Le poche conoscenze documentate si mescolano a punti non chiariti o ancora non sufficientemente documenta-ti. Quanti furono gli internati? Quanti morirono nei (o a causa dei) campi? Quanti tornarono ai propri luoghi di insediamento? A queste domande non vi sono ancora risposte precise. Oltre a questi principali, permangono anche questioni di contorno, sia pure importanti. Chi costruì i campi?

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Chi vi fece guardia? Come erano organizzati al loro interno. Per ognuna di queste domande abbiamo risposte ancora da precisare. Sappiamo per cer-to, ad esempio, che la loro definizione di campi, accampamenti, campi di concentramento fu interscambiabile per gli stessi organizzatori. Sappiamo che l’organizzazione dei campi era fatta per linee etniche. Sappiamo che l’esercito e i carabinieri ebbero un ruolo rilevante. Sappiamo che poche altre potenze coloniali ebbero la forza di organizzare in quegli anni simili politiche di resettlement, o politiche di popolazione: non a caso sin dall’i-nizio i campi in Cirenaica furono avversati a Londra e a Parigi, e con gran forza dalla nascente opinione pubblica araba transnazionale, fra Africa e Asia. Sappiamo che alcune decine di migliaia di cirenaici sparirono dalle ri-levazioni dei censimenti coloniali: forse tre decine di migliaia si spostarono (erano seminomadi) in Egitto, nel Ciad, in Algeria, in Tunisia; ma quanti altri ‘sparirono’ nei e a causa dei campi? Sappiamo che lo spostamento delle popolazioni verso i campi costituì in moti casi vere e proprie ‘marce della morte’ e che, una volta internate, all’interno dei campi la mortalità fu alta: ma quanti morirono?

Peraltro rispondere a queste domande permette di scegliere le parole giuste per definire la vicenda. Al tempo si parlò di sterminio, a partire dagli anni settanta-ottanta si è parlato di genocidio. Documentate risposte aiu-tano a scegliere le categorie giuste, a non sottovalutare la tragedia denun-ciata dalle fonti libiche, a capire qual è stata la ferita inferta dai quei campi alla storia demografica, politica ed economica della Cirenaica.

Studi sui campi

Le risposte e le cifre mancano ovviamente perché le ricerche e le pub-blicazioni sui campi di concentramento in Cirenaica sono troppo poco numerose.

Rodolfo Graziani se n’era gloriato nei suoi libri, ma era stato avaro di cifre5. I manuali di storia coloniale erano stati elusivi6. Più franco, ma sem-pre vago, era stato qualche funzionario coloniale, persino a regime fascista caduto7. L’antropologo britannico Evans Pritchard vi aveva fatto cenno, nel suo canto alla libertà dei beduini coartata dall’Italia e dal fascismo, fornendo le prime cifre serie8. Nella storia ufficiale della colonizzazione italiana edita dal ministero degli Affari esteri della repubblica, fra anni cin-quanta e settanta, la questione dei campi di concentramento fu ignorata9,

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e singolarmente persino uno studioso serio come lo statunitense Claudio G. Segrè, nel suo studio sulla colonizzazione del 1974, eluse il tema10. La prima vera ricerca, e ad oggi ancora l’unica, è quindi stata quella di Giorgio Rochat che, fra il 1973 e il 1979, ha studiato le carte Graziani11. A Rochat si sono rifatti, in genere riconoscendo i debiti, sia Eric Salerno nel 197912, che ha fatto in tempo ad intervistare qualche protagonista, sia Angelo Del Boca nel 198613. Di tutte le ricostruzioni, quella più organica e diffusa rimane ad oggi quella di Del Boca. In seguito una bella fonte è stata quella usata da Ali Abdullatif Ahmida che, per descrivere le condizioni di vita nei campi, ha fatto parlare la poesia popolare locale14. Di recente Federico Cre-sti ha ricostruito questo percorso, nel suo studio sulla presenza italiana in Cirenaica a partire dalle carte dell’Ente per la colonizzazione della Cirenai-ca, non tace come Segrè ma non può apportare nuove cifre sul tema perché l’Ecl arrivò dopo i campi di concentramento15. Purtroppo tutti questi studi occidentali hanno fatto a meno di utilizzare, per ragioni linguistiche la co-spicua raccolta di fonti orali accumulata a Tripoli dagli studiosi del Libyan studies center, e parzialmente persino edita a stampa (in lingua araba: un primo elenco è però disponibile anche in una bibliografia edita in Italia dieci anni fa16).

In conclusione, il disinteresse di una parte dei cultori italiani verso i meccanismi della repressione coloniale sta alla base del ritardo degli studi. Ma una parte di responsabilità è stata anche nella scelta politica dello Stato italiano che non ha mai seriamente incoraggiato questo genere di studi. Eppure la politica dei campi provocò, direttamente e indirettamente, un colpo non solo alla demografia della Cirenaica ma anche alla sua economia.

La rilevanza delle conseguenze economiche dei campi di concentra-mento è stata più volte accennata dagli studiosi, Questi, da Pritchard a Rochat a Del Boca, hanno menzionato il crollo di quell’allevamento su cui le popolazioni seminomadi dell’interno della Cirenaica basavano la pro-pria vita. Purtroppo, la storiografia italiana sul colonialismo è stata in ge-nere assai poco attenta alla storia economica dell’Oltremare: quindi anche quest’aspetto è non è stato studiato come avrebbe meritato.

Quanto accadde al bestiame avrebbe potuto invece essere una spia indi-retta di quanto nel frattempo stava avvenendo agli umani.

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Bestiame, e popolazioni

Il documento che qui si presenta, estratto dalle collezioni del Centro di Documentazione inedita dell’Istituto agronomico dell’Oltremare di Firen-ze, un archivio della cui rilevanza già si è scritto17, ha quindi un’importanza primaria, pur gettando luce sul problema da una prospettiva apparente-mente laterale. Ovviamente, trattandosi di un solo foglio, non esaurisce affatto il problema, ma ne conferma l’entità e ne segnala l’importanza. In una parola, funziona da pro memoria e sollecita altri studi.

Le popolazioni internate nei campi di concentramento erano semi-nomadi e dedite all’allevamento del bestiame. Transumavano dal monte (el-Jebel el-Akhdar) al piano (le oasi verso il mare). La quantità del be-stiame era anche una misura indiretta della loro dimensione e della loro ricchezza. Il potere coloniale lo sapeva da tempo, e cercava di censire con un certa attenzione quel bestiame, anche a fini di prelievo fiscale. I servizi agricoli in colonia ne stilavano periodicamente delle liste. Gli specialisti dell’agricoltura coloniale, nella madrepatria, e fra questi i tecnici dell’Isti-tuto Agricolo Coloniale Italiano (fondato nel 1904 a Firenze, poi Istituto agricolo fascista, poi Istituto agronomico per l’Africa Italiana, infine – ma solo dopo il 1953 – Istituto agronomico per l’Oltremare) tenevano d’oc-chio l’importante questione. Sulla rivista dell’istituto si era notato che – ad esempio proprio a livello zootecnico – «tutto l’equilibrio […] è venuto a mancare» 18, che dopo il 1933 «il patrimonio zootecnico va sempre più aumentando»19 dal misero livello cui era caduto anche se «è ancora lontano da quello massimo che può sopportare la colonia»20: insomma, l’intrecciar-si di operazioni militari per la riconquista, anni di siccità e campi di con-centramento, la Cirenaica aveva assistito ad un eccezionale «deperimento del patrimonio zootecnico»21.

Nel dopoguerra, quando fra 1947 e 1949 cercò di riottenere qualcuna delle colonie fasciste, l’Italia di De Gasperi dovette controbattere le richie-ste libiche miranti all’indipendenza. In quel contesto, fra marzo ed apri-le 1948 arrivò all’Istituto di Firenze, diretto allora dallo stesso Armando Maugini che lo aveva guidato dal 1924, una richiesta. (Forse proveniva da Roma, dal ministero dell’Africa italiana – un dicastero in via di smantella-mento che supportava il governo per un impero che non c’era più – o forse dalla Libia, da quello che rimaneva dell’Ente colonizzazione della Libia, anch’esso un ente-stralcio ormai, visto che il dominio italiano era finito

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ormai da un quinquennio). Si voleva sapere, evidentemente con lo sfondo i libici che richiedevano l’indipendenza, che cosa avesse fatto di buono l’Italia in Cirenaica. La pratica finì sulla scrivania di Enrico Bartolozzi, un tecnico agrario di vaglia che si era occupato da tempo della questione. Bartolozzi raccolse varie statistiche e scrisse a Roma.

Le statistiche messe assieme da Bartolozzi occupano, nel documento originale, poco più di una pagina22. Ma sono preziose perché riflettono, da una prospettiva apparentemente ‘tecnica’ e ‘neutra’, la ferita inferta dai campi di concentramento. Il crollo del numero e della composizione de bestiame cirenaica, estratto da Bartolozzi da più fonti, è indubitabile e mette a mal partito – dalla prospettiva delle bestie prima ancora che da quella degli umani – ogni tentativo di relativizzare la severità della vita nei campi di concentramento in quella Cirenaica fra 1930 e 1933. I campi non possono essere ridimensionati.

Le cifre di Bartolozzi dicono però anche qualcosa di più, che può avere a che fare con il mito libico nazionalista col tempo creatosi attorno a quei campi, visti come supremo oltraggio alla dignità umana dei colonizzati. Le ricostruzioni libiche più critiche accusano unilateralmente il colonialismo fascista di Graziani e Badoglio. Per la verità, i dati di Bartolozzi precisano che un declino nel numero del bestiame allevato e commercializzato dai seminomadi della Cirenaica era evidente non solo già da prima dei campi, ma anche da prima della crisi del 1929, che com’è noto colpì duramente le economie coloniali, e in particolari quelle mediterranee. Anche se la crisi era precedente, con radici endogene o almeno legate all’andamento del mercato internazionale coloniale, le cifre però rivelano che la ferita inferta dai campi di concentramento fu netta e brutale. Da tecnico, Bar-tolozzi non si premura di celare questa realtà. Come non cela che i dati di cui dispone non sono concordanti, frutto di una conoscenza coloniale della realtà largamente meno precisa di quanto ogni potere ‘bianco’ voleva affermare. I dati sono concentrici nell’indicare, per gli anni dei campi di concentramento, una crisi radicale dell’allevamento da parte delle popola-

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zioni seminomadi della Cirenaica.Infatti, se i campi non c’erano stati (come avrebbe voluto la politica del

segreto del regime fascista) come spiegare quel crollo? E, ugualmente, se erano i campi esistiti ma erano stati finalizzati al benessere delle popolazio-ni da salvaguardare dall’asprezza della lotta alla ribellione, perché l’alleva-mento era crollato? Non era forse quel crollo una conferma che i campi c’e-rano stati e che le condizioni di vita in essi erano state pesantissime? I dati della seconda metà degli anni trenta parlavano chiaro. (A fronte di questo va segnalato che invece il personale dello stesso Istituto, chiamato a scrive-re la storia ufficiale della colonizzazione negli anni sessanta dal ministero degli Affari esteri, dal quale adesso dipendevano, avrebbe taciuto la realtà, alludendovi sotto ellittiche affermazioni per le quali «vari anni […] [furo-no] turbati da eventi politici poco propizi all’esercizio dell’agricoltura»…).

La storia economica della Libia coloniale è ancora da scrivere. Ma i dati raccolti nel 1948 dal personale di quello che era ancora l’Istituto agrono-mico per l’Africa italiana (di una Repubblica ormai senza colonie), non parlano solo del bestiame. Essi documentano indirettamente quanto pro-fonda era stata la ferita inferta dal colonialismo fascista e dai suoi campi di concentramento.

Era stata una ferita inferta non soltanto al bestiame ma soprattutto alla popolazione della Cirenaica e alla storia della Libia.

Note al testo

1 Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Laterza, Roma-Bari 1976-84, e Gli italiani in Libia, ivi, 1986-88; e Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna 2002 (ried. 2007).

2 N. Labanca, Gli studi italiani sul colonialismo italiano in Libia, in Un colonialismo, due sponde del Mediterraneo. Atti del seminario di studi storici italo-libici, a cura di N. Labanca, Pierluigi Venuta, CRT, Pistoia 2000.

3 N. Labanca, Compensazioni, passato coloniale, crimini italiani. Il generale e il particolare, in Memoria e rimozione. I crimini di guerra del Giappone e dell’Italia, a cura di Giovanni Contini, Filippo Focardi, Marta Petricioli, Viella, Roma 2010.

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4 Giorgio Rochat, La repressione della resistenza araba in Cirenaica nel 1930-31, in «Il movi-mento di liberazione in Italia», a. 1973 n. 110, poi Id., La repressione della resistenza in Cirenai-ca (1927-31), in Omar al-Mukhtar e la riconquista fascista della Libia, Marzorati, Milano 1981 (ora in Id., Guerre italiane in Libia e in Etiopia. Studi militari 1921-1939, Pagus, Paese 1991).

5 Rodolfo Graziani, Cirenaica pacificata, Mondadori, Milano 1932. Su cui cfr. Alessandro Cova, Graziani un generale per il regime: la prima biografia documentata di uno dei personaggi piu violenti e controversi della nostra storia, che ha incarnato miti, ferocie e contraddizioni del periodo fascista, Newton Compton, Roma 1987; Giuseppe Mayda, Graziani l’Africano. Da Neghelli a Salò, La Nuova Italia, Firenze 1991; Romano Canosa, Graziani: il maresciallo d’I-talia, dalla guerra d’Etiopia alla Repubblica di Salò, Mondadori, Milano 2004; N. Labanca, Un generale del fascismo: Rodolfo Graziani, in Il Ventennio fascista. Dall’impresa di Fiume alla Seconda guerra mondiale (1919-1940), a cura di Mario Isnenghi, Giulia Albanese, vol. IV, t. I, di Gli Italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai nostri giorni, a cura di Mario Isnenghi, Utet, Torino 2009, pp. 503-511.

6 Ministero degli affari esteri, Comitato per la documentazione delle attività italiane in Africa, L’Italia in Africa. Serie economico-agraria, L’avvaloramento e la colonizzazione, t. I, Armando Maugini, L’opera di avvaloramento agricolo e zootecnico, MAE-OIA, Roma 1969.

7 Corrado Zoli, Espansione coloniale italiana (1922-1937), L’arnia, Roma 1949.8 Edward E. Evans-Pritchard, The Sanusi of Cyrenaica, Clarendon, Oxford 1949, trad. it.

Colonialismo e resistenza religiosa nell’Africa settentrionale: i Senussi di Cirenaica, introduzione di Vittorio Lanternari, Edizioni del Prisma, Catania 1979.

9 A. Maugini, L’opera di avvaloramento agricolo e zootecnico, cit., e L’avvaloramento e la coloniz-zazione, t. III, P. Ballico e G. Palloni, L’opera di avvaloramento agricolo e zootecnico della Tripolitania e della Cirenaica, MAE-OIA, Roma 1971.

10 Claudio G. Segrè, Gli italiani in Libia. Dall’età giolittiana a Gheddafi, Feltrinelli, Milano 1978.

11 G. Rochat, La repressione della resistenza in Cirenaica (1927-31) cit.12 Eric Salerno, Genocidio in Libia, SugarCo, Milano 1979, poi ried. come Id., Genocidio

in Libia. Le atrocità nascoste dell’avventura coloniale italiana, 1911-1931, ried. Manifestolibri, Roma 2005.

13 A. Del Boca, Gli italiani in Libia. Dal fascismo a Gheddafi cit. Cfr. anche Ercolana Turria-ni, La riconquista fascista della Cirenaica e i fuoriusciti libici in Egitto, in «Contemporanea», a. X (2007) n.2, pp. 251-271.

14 Ali Abdullatif Ahmida, The Making of Modern Libya. State Formation, Colonization, and Resistance, 1830-1932, State University of New York Press, Albany, N. Y. 1994 (poi Boulder, Colo., netLibrary, Incorporated, 1997); e Id., Forgotten Voices: Power and Agency in Colonial and Postcolonial Libya, Routledge, New York 2005.

15 Federico Cresti, Non desiderare la terra d’altri. La colonizzazione italiana della Libia, Carocci, Roma 2011 (ma cfr. già Id., Oasi di italianità. La Libia della colonizzazione agraria tra fascismo, guerra e indipendenza, 1935-56, Società Editrice Internazionale, Torino 1996).

16 N. Labanca, P. Venuta, Bibliografia della Libia coloniale, Olschki, Firenze 2004.17 N. Labanca, An extraordinary field to plough. The unpublished documentation centre of the

Istituto agronomico per l’oltremare of Florence and its wealth, in «Journal of agriculture and envi-ronment for international development» (già «Rivista di agricoltura subtropicale e tropicale»), vol. 101 (2007), n. 3-4, pp. 195-218. Riedito come Id., Uno straordinario campo da coltivare. Il Centro di documentazione inedita dell’Istituto agronomico per l’Oltremare di Firenze e le sue

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ricchezze, in «I sentieri della ricerca», a. 2009 n. 9-10, pp. 113-132.18 «L’agricoltura coloniale», a. XXXIII (1939), p. 639 (dicembre).19 Ivi, a. XXVI (1934), p. 438 (giugno).20 Ivi, a. XXVI (1934), p. 554 (agosto).21 Ivi, a. XXIX (1935), p. 273 (marzo).22 Istituto agronomico per l’Oltremare, Centro di documentazione inedita, fasc. 824, 1948, Enrico

Bartolozzi, Dati statistici sulla consistenza del bestiame e sua ripartizione in Cirenaica. 1 p. datt. a lapis ‘Dati inviati al dott. Gioivia’ (?), 26 aprile 1948. Dott. Bartolozzi. Dati risalenti al 1911, 1925-35, 1934, 1937, 1940. Ringrazio il dr. Riccardo De Robertis per l’aiuto prestato: non-ché, ovviamente, la Direzione dell’Istituto e la responsabile della Fototeca, Biblioteca e Centro di documentazione inedita per la loro consueta disponibilità e simpatia.

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Appendice

Enrico Bartolozzi, Dati statistici sulla consistenza del bestiame e sua ri-partizione in Cirenaica (1948)

bovini cavalli asini muli ovini caprini cammelli suini

1925 10.400 2.200 11.870 420 658.500 61.440 27.175

1925 10.400 2.200 11.870 420 658.500 61.440 27.175

1926 10.630 4.000 9.360 650 800.000 69.400 75.000

1927 11.500 3.750 10.070 390 615.000 49.000 63.000

1928 8.934 2.484 10.631 72 715.099 37.781

1929 9.850 2.330 8.600 165 485.000 36.000 39.550

1930 6.600 1.340 8.000 265 175.000 32.000 26.000

1931 4.800 1.100 1.800 395 85.000 7.000 17.400

1933 8.360 945 5.180 295 * * 2.600

1934 9.493 199.000 60.000 8.900

1935 14.500 2.330 5.200 480 410.000 75.000 16.500

1940 25.000 1.000 5.500 500.000 300.000 9.000

* = 125.000 fra ovini e caprini

1940 = valutazione

Giuliani

1934, ripartizione per

zone

Bengasi 3.001 82.543 12.377 1.675

Barce 2.563 27.910 3.413 291

Cirene 1.995 9.853 11.411 460

Derna 1.370 13.883 5.814 339

Tobruk 411 13.476 9.661 2.097

Agedabia 153 51.528 17.614 4.038

Totale 9.493 199.193 60.289 8.900

1937, aziende agrarie italiane

Prov.Bengasi 3.903 369 197 55 57.994 7.278 189 327

Prov.Derna 1.432 567 19 64 4.616 743 23 386

Totale 5.335 936 216 119 62.610 8.021 212 713

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Ideologia, cultura, identità: politica culturale e istituzioni artistico-musicali coloniali in Libia

di Isabella Abbonizio

Introduzione

La vita sociale e culturale delle colonie è stata oggetto di particolare attenzione da parte degli studiosi negli ultimi decenni. Indagini multi-disciplinari nel campo della memorialistica, dell’etnografia, del cinema e dell’architettura hanno aperto nuove prospettive di analisi sull’argomento, fornendo spunti originali per una più approfondita comprensione del con-testo coloniale, della relazione tra le colonie e la madrepatria e di quella dei dominatori con la popolazione locale. La Libia, per la particolare posizione rivestita nel progetto espansionista italiano, è stata al centro dell’interesse. Ad oggi numerosi aspetti sono tornati alla luce ma altrettanti attendono di essere studiati. Al fine di fornire un ulteriore tassello nella ricostruzione della vicenda della colonia nordafricana, nel presente articolo sottopor-remo ad analisi la politica culturale adottata in Libia con specifico riferi-mento all’ambito musicale e al periodo fascista. Attraverso un’analisi delle principali istituzioni e attività musicali realizzate dagli italiani in Libia ci prefiggiamo di porre in evidenza il ruolo della musica d’arte nel processo di costruzione dell’identità nazionale all’estero, i termini in cui l’ideolo-gia agisce sulle scelte programmatiche, le modalità attraverso le quali la cultura musicale nazionale viene importata, coltivata, diffusa e recepita nella colonia. Ci prefiggiamo inoltre di rilevare l’atteggiamento dei domi-natori italiani nei confronti della cultura musicale araba – nella duplice manifestazione tradizionale e d’arte – le modalità e i luoghi di diffusione di quest’ultima, nonché l’influenza delle direttive politico amministrative sulla politica culturale coloniale.

La cultura riveste un ruolo centrale per il funzionamento del sistema epistemologico su cui si regge il colonialismo in età moderna. All’interno del contesto coloniale essa è al contempo strumento di conquista, strategia

Isabella Abbonizio

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di affermazione politica e mezzo di consolidamento del potere. Nel caso italiano e con maggiore enfasi durante il periodo fascista, l’oc-

cupazione di territori extra-nazionali si fonda sulla pretesa superiorità cul-turale dei dominatori e sulla loro presunta capacità di guidare i dominati verso il superamento dello stato di arretratezza. La cosiddetta ‘missione civilizzatrice’ diviene infatti uno dei luoghi comuni del discorso coloniale nazionale. Da un altro punto di vista, l’immaginaria estensione territoria-le al di là del Mediterraneo enfatizzata dalla propaganda coloniale porta con sé la necessità di ricreare un ambiente familiare per i coloni. Il fine demografico del colonialismo italiano influisce considerevolmente nella definizione del profilo delle città coloniali. Queste ultime, infatti, vengono modellate nel tempo in maniera da assumere un’apparenza sempre più conforme a quelle della madrepatria, importando numerosi elementi sia della cultura materiale sia di quella spirituale. La colonia nordafricana, per di più, è concepita quale vera e propria ‘vetrina’ del dominio italiano in Africa: l’apposizione di inequivocabili segni distintivi di possesso e l’or-ganizzazione di eventi culturali di prestigio diviene strategica per un’azio-ne di propaganda diffusa a livello internazionale. In Libia quest’ultima si coniuga anche con le esigenze di un’economia del turismo in espansione, la quale ha avuto un ruolo non secondario nel progetto di sviluppo del-la colonia. Nel territorio mediterraneo, inoltre, la cultura, in questo caso quella del dominato, diviene anche un utile strumento di mediazione con la popolazione locale. Quando durante gli anni del governo di Italo Balbo l’atteggiamento nei confronti degli indigeni muta verso una prospettiva as-similazionista e di collaborazione, numerose sono le iniziative di diffusione e preservazione delle tradizioni libiche promosse dal governo coloniale1.

Sulla base di quanto delineato si evince che le principali direttive al-la base della politica culturale coloniale in Libia ricalcano le linee-guida dell’organizzazione economico-sociale del territorio dominato: coloniali-smo demografico, organizzazione del turismo e politica indigena.

Tra gli elementi culturali che gli italiani importano nei territori conqui-stati, all’arte e alla musica viene riservato uno spazio significativo. Le crona-che coloniali delle capitali libiche abbondano di notizie che testimoniano la presenza di una vita artistica vivace e dinamica. Teatri e sale da concerto offrono occasioni di ritrovo per i residenti in colonia e luoghi di prestigio da presentare a turisti e visitatori. Artisti e compagnie nazionali e stranieri si alternano sul palco dei teatri principali offrendo spettacoli di opera, ope-

Ideologia, cultura, identità: politica culturale e istituzioni artistico-musicali coloniali in Libia

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retta e di musica da camera in parallelo con analoghe istituzioni italiane. Il processo di rimozione che ha seguito la caduta del fascismo e la per-

dita delle colonie nel dopoguerra ha impedito per lungo tempo un’analisi oggettiva dell’argomento. La difficoltà nel reperimento delle fonti, inoltre, ha con ogni probabilità allontanato ogni tentativo d’indagine sul tema. La musicologia nazionale non si è addentrata nell’analisi della relazione tra musica e colonialismo, limitandosi a rilevare soltanto segni evidenti del coinvolgimento dell’ambiente musicale nazionale nel progetto coloniale2. Recenti ricerche da parte dell’autrice riportano alla luce inedite testimo-nianze di una partecipazione diffusa al progetto coloniale nazionale anche da parte dell’ambito musicale colto, su vari fronti, dalla propaganda, alla partecipazione diretta alla vita artistica delle colonie, all’interesse etnogra-fico nei confronti delle tradizioni locali3.

Come vedremo, la musica d’arte in colonia assume un ruolo di primo piano nel processo di affermazione e promozione dell’identità nazionale. Il teatro, sconosciuto nella sua forma occidentale alla cultura indigena nor-dafricana, diviene uno dei simboli culturali del dominio territoriale italia-no. All’opera in musica viene riservato uno spazio privilegiato nel processo di consolidamento del potere coloniale, quale massima espressione di una cultura complessa ed evoluta, di una tradizione culturale che ha radici nel passato, simbolo del primato italiano in ambito artistico. In contrasto, al folklore musicale indigeno è rimandato il compito di rappresentare la cul-tura del dominato come involuta, statica, impietrita nel passato4.

Sin dalla primissima fase di espansione in Nordafrica nei primi anni del XX secolo, manifestazioni artistiche di cultura italiana affiancano le ope-razioni di penetrazione pacifica attivate dagli istituti finanziari5. Secondo le fonti, risalgono a questo periodo le prime rappresentazioni, in forma ridotta, di opere italiane di repertorio. La costruzione dei primi edifici con finalità artistiche risale all’inizio degli anni venti, quando i primi emigranti trovano nei teatri un luogo di ritrovo e di svago. Progressivamente, con lo sviluppo del sistema turistico e al fine di soddisfare le esigenze di un pubblico maggiormente elitario attratto in colonia attraverso le crociere internazionali, vedono la luce operazioni di restauro e di riconversione di vecchi edifici e nuove costruzioni destinate all’intrattenimento.

Il ‘periodo d’oro’ della colonia dal punto di vista culturale e artistico coincide con gli anni del Governo Balbo (1934-1940). Nel tentativo di conferire prestigio alla Quarta Sponda, durante gli anni di guida del terri-

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torio nordafricano, il Maresciallo dell’aria persegue un vasto programma di modernizzazione, sviluppo economico, controllo sociale e promozione culturale mai realizzato prima. In particolare, Balbo si adopera per assegna-re a Tripoli «i segni distintivi della capitale»6. In questo frangente la Libia conosce numerosi e ambiziosi progetti anche dal punto di vista musicale.

Istituzioni artistico-musicali in Tripolitania e Cirenaica

Soffermandoci sui due principali centri economici e commerciali della Libia, capoluoghi delle due regioni che si affacciano sul Mediterraneo, Tri-politania e Cirenaica, le istituzioni artistiche di maggior prestigio sono: a Tripoli il Teatro Miramare e il Teatro Uaddan, a Bengasi il Teatro Berenice. Per la costruzione di questi edifici il governo coloniale richiede le compe-tenze dei maggiori architetti italiani del tempo, i quali realizzano strutture all’avanguardia e in linea con le mutevoli concezioni architettoniche in terra d’Oltremare. La storia delle istituzioni artistiche coloniali, ricostruita attraverso una meticolosa indagine sui quotidiani e le riviste storiche, è strettamente connessa alle dinamiche della politica estera del regime. Nel corso di questa trattazione analizzeremo nello specifico la vicenda e l’atti-vità di queste organizzazioni culturali all’interno del contesto coloniale, rilevandone punti comuni e specificità.

Sulla base delle nostre analisi, sebbene nella peculiarità delle singole istituzioni, si evincono alcuni tratti specifici che accomunano i teatri co-loniali nazionali: se da un lato essi ricalcano le tendenze prevalenti delle strutture italiane, dall’altro si distinguono per la presenza dell’elemento esotico nella programmazione. I teatri coloniali, come quelli italiani, sono spazi polifunzionali (chiamati politeama) attivi anche come sale cinemato-grafiche; solitamente ospitano artisti e compagnie di bandiera provenienti dalla madrepatria ma sovente richiedono la partecipazione di complessi residenti nei territori limitrofi politicamente allineati con l’Italia.

In linea con le finalità prettamente turistiche dei teatri coloniali, i car-telloni prevedono un elemento di originalità rispetto alle istituzioni italia-ne: gli spettacoli di musica e danza araba, un momento di attrazione che riscuote grande favore da parte del pubblico. Si tratta, tuttavia, di perfor-mance di colore locale in cui l’esperienza dell’esotico è comunque filtrata attraverso l’arte e la cultura europee.

Bisognerà attendere la seconda metà degli anni trenta per trovare un’at-

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tenzione inedita nei confronti del folclore arabo autentico, non mediato, anche se prevalentemente strumentale al mantenimento dell’ordine sociale e al contenimento della protesta dei libici. Come vedremo più avavnti, lo spazio riservato alle tradizioni libiche, tuttavia, è sapientemente filtrato attraverso le tecnologie più aggiornate importate dagli italiani in colonia, nel caso specifico la radio, rafforzandone in tal modo la posizione di supre-mazia e predominio.

Cirenaica

Nella capitale della Cirenaica, Bengasi, il progetto per un grande teatro, ideato a partire dal 1925, viene realizzato soltanto in seguito alla pacifica-zione militare della regione che giunge sette anni più tardi rispetto alla Tri-politania, all’inizio degli anni trenta7. La struttura artistica più importante della città è il Teatro Berenice, dall’antico nome della città nordafricana, ubicato in posizione centrale prominente, nella piazza del Re. Il teatro è in grado di ospitare un pubblico di circa millequattrocento persone, presen-tandosi come il secondo teatro più grande della Libia, dopo il Miramare di Tripoli. Costruito in stile novecentista all’inizio degli anni trenta da due architetti esperti in materia di architettura teatrale, Marcello Piacentini e Luigi Piccinato8, l’edificio adotta le più moderne conquiste della teoria costruttiva nel campo dell’acustica e dell’organizzazione degli spazi9. Come è testimoniato dalle cronache locali, il teatro ospita le tournée delle com-pagnie di opera, operetta e prosa italiane, solitamente di passaggio dopo le rappresentazioni al Miramare. L’istituzione è gestita dalla Società teatrale anonima per la gestione di spettacoli pubblici e delle sue propietà immobi-liari, guidata dall’ebreo Halfalla Nahum, attivo da più di un decennio nella vita culturale della città libica10. L’esiguità delle fonti su questo teatro non ci permette una trattazione più approfondita.

Tripolitania

Nel territorio occidentale della Libia, con capitale Tripoli, le operazioni di pacificazione seguite alla riconquista militare all’inizio degli anni venti si concludono più velocemente rispetto alla Cirenaica. Anche per questa ra-gione, la città principale può vantare una vita culturale più intensa rispetto alla zona costiera orientale. Tra il 1927 e il 1939, inoltre, un grande even-

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to commerciale con cadenza annuale richiama in colonia visitatori dalla madrepatria e dall’estero: la Fiera di Tripoli. Intorno alla manifestazione, momento di massima affluenza di stranieri nel dominio mediterraneo, si modella il calendario turistico coloniale e con esso il cartellone dei teatri. La Fiera si svolge tra aprile e maggio di ogni anno, contestualmente alla quale la vita culturale tripolina conosce un particolare fervore con la rea-lizzazione della stagione di punta dei massimi teatri. Con la salita di Italo Balbo al governo della colonia (1934-1940), il turismo riceve un significa-tivo investimento e la stagione turistica si estende per un periodo di otto mesi (marzo-ottobre).

Il primo teatro coloniale tripolino, il Teatro Politeama o Politeama Nazionale, risale, con ogni probabilità, alle fasi iniziali di dominazione italiana. L’edificio è infatti ubicato nel quartiere arabo di Suk el Turk, den-tro le mura della città vecchia (Al-Madina Al-Qadima), dove risiedono i primi nuclei di italiani emigrati in colonia. L’esiguità di testimonianze su questo teatro non ci permette una trattazione esauriente delle attività che vi si svolgevano. Sappiamo soltanto che nel 1928 funziona come teatro di operetta, rivista e di quei generi ibridi in voga al tempo11. Deve essere stata proprio la particolare dislocazione di questo edificio a determinarne il quasi totale abbandono dell’attività alla fine degli anni venti, sostituito dal Real Teatro Miramare, un ampio edificio situato sul lungomare destinato a divenire il massimo teatro coloniale nazionale, valido testimone di un ventennio di dominazioni italiana in Libia. Tuttavia, il Politeama conosce una nuova stagione di vitalità nella seconda metà degli anni trenta, quan-do il forte impulso dato all’organizzazione turistica dal Governo Balbo determina il ripristino del vecchio teatro ed una temporanea riconversione in Teatro Orientale, destinato agli spettacoli di compagnie nordafricane12.

In epoca imperialista, sotto il Governo Balbo e contestualmente allo sviluppo del turismo, vede la luce il Teatro Uaddan, inserito in un nuovo complesso polifunzionale con annesso casinò, elitario, esclusivo, riservato alle alte gerarchie e ai turisti più facoltosi ed esigenti. All’Uaddan si esibi-scono alcuni tra i migliori artisti italiani, i quali trovano la possibilità di rendere servizio al potere esportando la propria arte nel territorio coloniale.

In linea con il tentativo di creare una colonia simbolo del potere espan-sionista nazionale, degne di rilievo sono le manifestazioni organizzate nei siti archeologici restaurati, in particolare a Sabratha, sede di un magnifico ed imponente teatro romano, «se non il più vasto certo il più sontuoso»13.

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La presenza di testimonianze del passato imperiale sul suolo libico rappre-senta per l’Italia un forte sostegno al progetto coloniale e il regime investe copiose risorse nella valorizzazione di questi luoghi rendendoli fruibili a fini turistici. Dal 1937 a Sabratha il regime sovvenziona gli spettacoli di te-atro antico sul modello di quelli realizzati a Siracusa, coinvolgendo, come accade nella madrepatria, nomi di rilievo nel panorama teatrale e musica-le italiano14. Nel resto della regione della Tripolitania le attività artistiche si limitano al livello amatoriale, prevalentemente con l’organizzazione di compagnie filodrammatiche, attive anche nelle rappresentazioni di operet-te15. Numerosi sono gli altri luoghi d’incontro attivi principalmente con funzione di cinematografo (svolta del resto, come abbiamo visto, da tutte le istituzioni artistiche in colonia) i quali si moltiplicano nel corso degli anni con un forte incremento dalla metà degli anni trenta16.

Tripoli e il Real Teatro Miramare

Durante il periodo espansionista italiano, Tripoli svolge un ruolo di primo piano nella rappresentazione del potere coloniale nella «quarta sponda». Città portuale ubicata in posizione strategica, prossima alle coste italiane, Tripoli è sede di sbarchi commerciali e turistici; essa costituisce, inoltre, un importante ponte di comunicazione dell’Italia col Nord Africa ed un essenziale punto di controllo sul Mediterraneo.

Il Teatro Miramare, il più grande teatro coloniale italiano per capienza di pubblico, rappresenta uno dei principali simboli della cultura italia-na in Libia. Sede di stagioni d’opera e operetta, spettacoli di varietà, tea-tro di prosa e proiezioni cinematografiche, il teatro svolge un’importante funzione per la legittimazione del potere coloniale nell’Oltremare. La sua ubicazione lungo la passeggiata del Lungomare Volpi, accanto al Castello, ben visibile dal porto, lo rende elemento di spicco nel panorama cittadino osservato dal mare. Costruito successivamente al Politeama Nazionale, è in realtà anch’esso concepito come un politeama: nel corso degli anni ospi-ta anche spettacoli circensi, competizioni sportive, spettacoli di magia e quant’altro potesse attirare i gusti del pubblico. È inoltre il primo ad aprirsi agli spettacoli di musica e danza orientale, che hanno luogo nella struttura dal 1932, rispondendo al gusto per l’esotico che attrae i turisti in colonia. Nel corso degli anni il teatro ospita cerimonie ufficiali con la partecipazio-ne di alti gerarchi del regime.

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L’edificio e la gestione

L’edificio del Teatro Miramare conosce tre diverse fasi di costruzione e rifacimento (1921, 1928, 1938) che ricalcano da vicino la storia politico-economica della colonia e le mutevoli concezione architettoniche succe-dutesi. Nella seconda metà degli anni trenta, la gestione del Miramare passa da privata a pubblica, rientrando nelle competenze dell’Etal, l’Ente turistico alberghiero della Libia17.

1921: nasce il Teatro Miramare, «un luogo di ritrovo» per la città

Il primo nucleo dell’edificio risale all’inizio degli anni venti, durante la guida del possedimento d’Oltremare da parte di Giuseppe Volpi (1921-1925). Promotore ed artefice della «Rinascita della Tripolitania», il Conte di Misurata si impegna nella costruzione di un’immagine appropriata alla manifestazione della presenza italiana e inaugura un iniziale progetto di sviluppo del sistema turistico18. Il teatro è situato al nord dell’albergo Sa-voia, appartenente ai medesimi proprietari, Ditta Rodino e Salinos, attivi nell’ambito dell’edilizia tripolina e, più tardi, anche nell’organizzazione turistica della città19.

In questa fase, il Miramare «più che un teatro puro e semplice» è con-cepito più che altro come «un luogo di ritrovo»20.

1928: il primo rifacimento per «un vero teatro coloniale»

Con la raggiunta pacificazione della regione e l’incremento delle atti-vità economiche sotto le direttive del nuovo governatore, il quadrumviro Emilio De Bono (1925-1934), si fa sempre più urgente la necessità di fornire l’«Africa romana» di un «vero teatro coloniale»:

[…] un teatro che sarà all’altezza dei più importanti spettacoli, che darà lustro e decoro alla Capitale coloniale in questo periodo di rinnovazione edilizia, di effervescenza di vita nuova di preparazione a nuovi slanci sulla base sempre più solida e più vasta della sua valorizzazione agraria21.

Tale esigenza si concretizza nella costruzione ex-novo del Miramare, dalle macerie del nucleo precedente, raso al suolo. L’operazione si rivela re-toricamente funzionale alla celebrazione di una «nuova era» del processo di

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colonizzazione. L’edificio, nella sua rinnovata fattura, sostituisce il vecchio Politeama ed inaugura una nuova stagione della vita artistica della città22.

L’edificio è costruito e gestito dalla Società per alberghi, ristoranti e teatri (Spart), diretta dal cav. Giuseppe Abela Salinos – probabilmente lo stesso proprietario dell’albergo Savoia e del teatro, citato prima23. È la stessa società ad occuparsi dell’organizzazione e realizzazione del cartellone del teatro, comprese le stagioni liriche. Si tratta, con ogni probabilità, di una prima esperienza di gestione delle strutture turistiche, più tardi estesa e ufficializzata con la fondazione dell’Ente turistico alberghiero della Libia (Etal) nel 1935, un’organizzazione sponsorizzata dalle autorità fasciste, chiamata a guidare l’industria del turismo in Libia24.

Il Miramare si staglia nella passeggiata del Lungomare Volpi con una gaia facciata in stile neo-moresco, intonandosi per sfarzo e luminosità ad altre importanti costruzioni italiane a Tripoli di nuova realizzazione, come la Banca d’Italia e il palazzo del Governatore25. A progettare e realizzare il nuovo teatro coloniale, due professionisti residenti a Tripoli, Aldo Bruschi e Angelo Piccardi. Le soluzioni architettoniche adottate rivelano la ten-denza, in voga in quegli anni, a fondere il vernacolo locale con elementi

Teatro Miramare, facciata esterna. Fonte: «L’Italia coloniale», luglio 1928, p. 149.

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stilistici nostrani in un’accezione di mediterraneità alquanto sfumata26. La scelta di uno stile orientale consente, allo stesso tempo, di non «distaccarci eccessivamente dalla bellezza esotica e viva dell’ambiente»27 e di garantire alla colonia un aspetto caratteristico, affascinante per i turisti. Una solu-zione in futuro criticata dagli architetti razionalisti che provvederanno ad adattare l’estetica del teatro al rinnovamento del gusto.

La struttura del nuovo edificio presenta caratteristiche tali da farne uno dei luoghi più prestigiosi della colonia. Gli interni mostrano una volontà di ostentazione con lo sfoggio di elementi di lusso, luci, colori, ornamenti, pitture e stucchi decorativi che contrastano violentemente con il contesto esterno. Il palco è costituito da scene fisse ad opera di Antonio Rovescal-li28, scenografo del Teatro alla Scala29. Complessivamente il Miramare è in grado di ospitare un ampio pubblico di circa milleottocento spettatori30.

L’omaggio di De Bono alla città costiera porta indelebile il suo nome, impresso sulla parte frontale dell’arco strutturale che sovrasta il palcosce-nico, preceduto dall’anno di costruzione espresso secondo il calendario fascista: «Anno VI Consule De Bono».

A rinforzare la già forte paternità italiana e l’orgoglio nazionalista per le realizzazioni coloniali, è un’allegoria dipinta sul sipario, opera del pittore catanese Alessandro Abate31, dal titolo L’Italia moderna nel suo sviluppo, illuminata dalla visione di Roma Imperiale32. L’immagine si staglia orgoglio-samente sullo sfondo di ogni celebrazione ufficiale ospitata dal teatro, con la bandiera italiana e il simbolo reale ben visibili sul lato superiore.

Il Miramare è dotato di due ampi foyers e di un lussuoso bar in stile arabo33. A partire dal 1932, con la valorizzazione dell’elemento di colore locale quale mezzo di attrazione per i turisti, una delle sale accessorie in stile orientale34, rinominata «salone moresco», ospita anche compagnie di spettacoli orientali. Nei mesi estivi, la vasta terrazza sovrastante il teatro rappresenta un ulteriore spazio di attività, dedicata all’intrattenimento mondano35.

1938: secondo rifacimento, il rinnovamento razionalista

Dieci anni più tardi, in linea con le mutate concezioni stilistico-archi-tettoniche, la sala principale del Teatro Miramare viene completamente trasformata. Il mutamento del gusto si esprime con pesanti giudizi estetici sulla precedente realizzazione:

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1954, vol. 8, p. 1999.73 Gustavo Gallo (Nardò 1904 - Firenze 1982). 74 «L’Avvenire di Tripoli», 14 marzo 1935.75 Bruno Monticone - Ito Ruscigni et al., La cultura attorno al Casinò di Sanremo in Sanremo

cent’anni di casinò, De Ferrari Editore, Genova 2005, pp. 45-168.76 B. McLaren, Architecture and Tourism in Italian Colonial Libya cit., p. 71-77.77 Cfr. «L’Avvenire di Tripoli» 19-20 maggio 1936. La direttiva, inopportuna sotto molteplici

punti di vista, scatena presto una diatriba con i gestori del Teatro Miramare Per gli stessi artisti, lo spostamento in colonia sarebbe stato di gran lunga più conveniente prevedendo più mani-festazioni nella stessa città. La scelta, tuttavia, garantisce al Teatro l’esclusiva per gli spettacoli e assicura all’organizzazione un nutrito pubblico.

78 Corradina Mola, clavicembalista. Svolge atività concertistica in Italia e nelle pricipali capitali europee.

79 Vito Carnevali (1888-1960), pianista e compositore. Si esibisce nei maggiori centri d’Europa e dell’America del Nord.

80 Carlo Zecchi (Roma 1903 - Salisburgo 1984), pianista e direttore d’orchestra. Per maggiori informazioni biografiche cfr. Daniele Lombardi, Carlo Zecchi. La linea della musica, Nardini, Firenze 2005.

81 F. Nicolodi, Musica e musicisti nel ventennio fascista cit., pp. 26-31.82 Corradina Mola chiude il programma dell’ultimo concerto all’Uaddan del 22 gennaio 1939

con due brani di «musica araba», dal titolo Marcia e Canzona. L’iniziativa è particolarmente apprezzata dal pubblico e dall’organizzazione: all’artista viene infatti richiesta un’esecuzione dei brani di musica orientale alla nuova radio coloniale. Cfr. «L’Avvenire di Tripoli» 22 gennaio 1939. Purtroppo non sono state trovate testimonianze a riguardo.

83 La compagine si esibisce presso il Palazzo del Governo, il Teatro della Casa Littoria, il Mi-ramare e l’Uaddan, riservando per quest’ultimo un programma di musiche antiche italiane (Paisiello, Cherubini), di grandi compositori del passato (Mozart, Wagner) e di Ravel. Cfr. I concerti a Tripoli dell’Orchestra da camera del R. Conservatorio, «S. Pietro a Majella. Bollettino del R. Conservatorio di Musica - Napoli», III, n. 3-4, giugno 1940, pp. 30-32.

84 A. Del Boca, Gli italiani in Libia cit., pp. 237-242. 85 «L’Avvenire di Tripoli» 4 febbraio 1938.86 «L’Avvenire di Tripoli» 12 gennaio 1935.

Teatro Miramare. Il cartellone della prima stagione lirica Fonte: «L’Avvenire di Tripoli», 1º aprile1928.

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Stasera, dopo svariati mesi di chiusura, si riapre il Teatro Miramare. Il pubblico, però, avrà una sorpresa: troverà la sala completamente rinnovata. E diciamo rinnovata e non restaurata o rimaneggiata, perché l’architetto Di Segni36, al quale si deve tutto il progetto dei lavori eseguiti, ha completamente rifatto tutto il complesso del vecchio ambiente, che, senza tema di smentite, era brutto ma brutto assai37.

L’impatto estetico viene notevolmente alleggerito, le tinte schiarite e i disegni resi uniformi, secondo i criteri di gusto razionalista che guidano le nuove architetture della madrepatria e dell’Impero38.

Sostituito ormai da quattro anni il governatore De Bono, prima da Pie-tro Badoglio, poi da Italo Balbo, viene cancellata, con l’eliminazione delle decorazioni e il cambiamento dei colori, anche l’iscrizione a suo nome.

Le ragioni dell’ammodernamento non si limitano allo stile. Seguendo l’esempio del nuovo Teatro di Bengasi il rifacimento punta ad un adegua-mento alle nuove concezioni di architettura teatrale, finalizzate ad una mi-gliore visibilità del palcoscenico da ogni ordine di posti, maggiore como-dità e miglioramento dell’acustica39. Inoltre, la crescita della popolazione e del movimento turistico40 e soprattutto la scelta di una programmazione esclusivamente destinata a soddisfare i gusti del pubblico comportano un necessario incremento del numero di posti, che raggiunge duemila unità41.

Tuttavia, per stare al passo con i tempi, il restauro del solo interno non è sufficiente a soddisfare l’esigenza di un rinnovato gusto estetico e la stam-pa annuncia un’operazione ben più efficace:

[...] Quanto prima verrà dato principio ai lavori per il rifacimento anche della facciata del nostro maggior teatro cittadino42.

Non abbiamo purtroppo notizie circa la realizzazione del progetto.Com’è evidente, in un’epoca di totalitarismo autarchico gli elementi

di colore locale lasciano sempre più il posto a chiare manifestazioni di identità nazionale moderna. Se il Miramare si trasforma, infatti, un nuovo teatro per la capitale nasce e si afferma a metà anni trenta nel prestigioso complesso turistico Uaddan.

In ogni caso, il Miramare rinnovato non vive a lungo e il processo di damnatio memoriae della vicenda coloniale nazionale nel secondo dopo-guerra contribuisce a cancellarne ogni traccia. Una violenta conflagrazio-ne durante il terrible bombardamento aeronavale di Tripoli del 21 Aprile 1941 rade al suolo l’edificio e il forte legame con la dittatura ne nega ogni diritto di memoria43.

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La programmazione musicale

La stretta connessione dell’attività del Teatro Miramare con l’organizza-zione turistica ci orienta nella comprensione delle scelte programmatiche dell’istituzione tripolina. Spettacoli di opera, operetta e, dai primi anni trenta, di musica e danza orientale rappresentano i cardini della program-mazione, proposti in concomitanza con la massima affluenza del movi-mento turistico durante la Fiera di Tripoli. Durante il resto dell’anno, il teatro funziona prevalentemente come cinematografo, con brevi stagioni di operetta e varietà e saltuari incontri sportivi, attività che si intensifica-no nell’ultimo periodo di vita dell’istituzione. Gli alti costi delle stagioni liriche, resi ancora più alti dal ristretto numero di orchestrali e cantanti residenti in colonia e dalla scarsa affluenza di pubblico, non consentono l’organizzazione regolare negli anni di spettacoli operistici nè la definizione di una compagnia stabile. A calcare il palco del Miramare per le stagioni liriche troviamo imprese italiane attive nella madrepatria o in residenza presso i principali teatri dell’area mediterranea44, quali la compagnia del Teatro Reale dell’Opera di Malta e quella del Teatro Reale del Cairo45.

Da quanto si evince dalle cronache, soltanto cinque sono le stagioni liriche organizzate al Teatro Miramare a partire dal rifacimento del 192846. Dopo due iniziali stagioni con cadenza annuale, gli spettacoli operistici tornano sul palco del Teatro soltanto nel 1934, in concomitanza con la salita di Italo Balbo alla direzione del governo coloniale. Da quell’anno le attività liriche rientrano nelle competenze del Commissariato per il turi-smo libico47, coordinato dal neonato Istituto fascista di cultura presieduto dallo stesso governatore48. Sono questi gli anni di più intensa attività della colonia dal punto di vista culturale in linea con l’estensione della stagione turistica dall’autunno alla primavera. Dopo l’ultima stagione del 1935, l’opera lirica abbandona definitivamente il palcoscenico del teatro, rien-trandovi esclusivamente attraverso le proiezioni cinematografiche e negli intermezzi delle operette.

Il contesto specifico, il pubblico e le finalità alle quali la programmazio-ne dell’istituzione tripolina è chiamata legittimano la scelta di un cartellone improntato ad un repertorio di tradizione e quasi esclusivamente italiano.

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Le stagioni liriche

La stagione lirica inaugurale dell’elegante teatro coloniale di Tripoli, concertata con la II edizione della Fiera e con la visita ufficiale della colonia da parte di Vittorio Emanuele III e famiglia, ha luogo dal 7 aprile al 2 mag-gio del 1928. La compagnia proviene dalla madrepatria, sotto la direzione artistica di Manlio Pasotto49 e musicale di Luigi Cantoni50. È composta da giovani cantanti attivi nella scena lirica italiana, ma non presenta nomi di particolare rilievo. Tra i più noti, il soprano Ottavia Giordano agli esordi della sua carriera. La maggior parte di essi, compreso il direttore artistico, risulta attiva negli stessi anni sulle scene del Regio di Parma (Irma Zappata, Attilio Barbieri, Giuseppe Bentonelli, Alessio Kanscin, Enrico Percuoco) o del Teatro Reinach o Paganini, della stessa città (Ottavia Giordano, Attilio Barbieri)51. Il cartellone prevede sette opere, più una fuori programma; le scelte ricalcano la politica dei teatri della madrepatria. Ad aprire la stagione è un’opera di grandi proporzioni nello stile del grand-opéra italiano: La Gioconda di Ponchielli. Buona parte del cartellone si mantiene tendenzial-mente sullo stesso orientamento di gusto, sebbene la limitatezza dei mezzi, coro e orchestra, non deve aver giocato a favore per la realizzazione di una rappresentazione efficace dal punto di vista scenografico. Le note arie di rinomati compositori italiani come Puccini, Verdi e Boito riportano turi-sti, alti ufficiali e coloni alla grandezza della tradizione nazionale52. Per la visita dei Sovrani del Regno d’Italia in colonia, a coronamento del disegno propagandistico imperialista, viene allestita l’Aida, inaugurata la sera del 18 aprile 192853.

Il forte valore simbolico e il legame che il capolavoro verdiano detiene con i territori d’Oltremare e con i progetti imperialisti, ne motiva la ri-proposizione come titolo d’apertura per il cartellone dell’anno successivo, realizzato proprio dalla compagnia del Teatro Reale del Cairo, con l’alle-stimento delle scene originali. Tra le prime parti troviamo questa volta in-terpreti di fama internazionale, tra cui il soprano Maria Zamboni54, attiva alla Scala e nei pricipali teatri italiani55, e il tenore Aroldo Lindi, noto come uno dei più rinomati e applauditi Radames di quegli anni56.

Nonostante la fama della compagnia e la cura negli allestimenti, dalle cronache emergono le prime lamentele sulla scarsa affluenza del pubbli-co popolare alle rappresentazioni57. Il problema viene momentaneamente risolto con l’adozione di una politica dei prezzi agevolati dei biglietti a

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partire da metà stagione. Nei quattro anni successivi, la stagione di punta al Miramare è domina-

ta dall’operetta. Non ci sono note, attraverso le fonti, le ragioni reali di un così lungo silenzio degli spettacoli lirici ma, oltre alle motivazioni legate al bilancio, si può supporre che la situazione politica internazionale e interna abbia influito sulle scelte dell’istituzione.

Durante questi anni di assenza dell’opera dal palcoscenico del Mira-mare, il teatro continua a mantere il ruolo di punto di riferimento per la vita culturale tripolina. L’istituzione propone infatti una programmazio-ne poliedrica ed eclettica, aperta alle più recenti innovazioni tecnologiche nell’ambito dell’intrattenimento e al contempo attenta a soddisfare la esi-genze dei turisti e il loro gusto per l’esotico. È al cinematografo del Mira-mare che il pubblico tripolino assiste al primo film «parlante», il 9 agosto 193058. Nel 1932, inoltre, viene inaugurato il «Salone moresco», una sala accessoria destinata alle manifestazioni di musica e danza orientale, occa-sioni di intrattenimento dal sapore esotico già diffuse in altri luoghi della città59.

Come abbiamo già anticipato, con l’insediamento del Maresciallo dell’Aria nella capitale nordafricana, nel gennaio 1934, l’organizzazione del turismo conosce un rinnovato impulso per lo sviluppo.

In occasione dell’VIII Fiera internazionale coloniale, infatti, la «Pri-mavera Tripolina» torna ad «una delle [sue] più brillanti e fastose mani-festazioni» con la stagione lirica60. Dopo cinque anni di silenzio, dunque, l’opera riappare sul palco del Teatro Miramare, questa volta con la com-pagnia del Teatro Reale dell’Opera di Malta61. Reduce da una lunga serie di rappresentazioni nel teatro di provenienza62, la compagnia, preceduta da un’ottima fama, propone un programma già collaudato con un’unica novità in cartellone, La Baronessa di Carini di Giuseppe Mulè, un lavoro d’ispirazione verista di un compositore allineato col regime63. Il direttore d’orchestra è Mario Cordone, attivo in Italia e a Parigi, nei massimi tea-tri64. Tra le parti principali della compagnia, figurano artisti di una certa fama in quegli anni, come Attilia Archi, nota per aver interpretato il ruolo principale nella Lucia di Lammermoor accanto a Beniamino Gigli al Pe-truzzelli di Bari65.

Nel dicembre 1934, con il prolungamento della stagione turistica e l’incremento dell’offerta di eventi e manifestazioni in tutta la Libia il teatro ospita per la prima volta una stagione d’opera invernale in concomitanza

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con le festività natalizie e del capodanno. Mentre l’acclamata troupe mal-tese torna nella primavera del 1935, per questa atipica stagione invernale, organizzata per celebrare l’insediamento di Balbo alla guida della colonia, la compagnia proviene dall’Italia. In scena undici titoli, quasi tutti senza repliche. Nella duplice veste di direttore artistico e d’orchestra, Ernesto Sebastiani66 si alterna sul podio con Gino Sottile ed Ermanno Eberspacher. Tra le parti principali, il tenore Giovanni Malipiero67, applauditissimo nel-la sua rappresentazione al Miramare.

In occasione della ricorrenza del centenario belliniano, che cadeva nello stesso anno, a riprova di una volontà di totale assimilazione del territo-rio coloniale alla madrepatria, la compagnia Sebastiani mette in scena la Norma. Il regime conferisce alle manifestazioni celebrative un significato particolare, al fine di rafforzare il «filo continuativo con la tradizione»68, a sostegno di un prestigio culturale dalle solide radici nel passato. Un altro lavoro del compositore siciliano, la Sonnambula, sarà allestito in primavera dalla compagnia di Malta. Chiusa la stagione al Miramare, la compagine italiana prosegue la tournée coloniale in Cirenaica, riproponendo lo stesso cartellone nel nuovo e moderno Teatro Berenice di Bengasi69.

L’ultima «Grande Primavera tripolina» conosce una nuova fortunata stagione lirica con il ritorno della compagnia maltese, che giunge questa volta nella capitale coloniale dopo una brillante stagione al teatro Muni-cipale di Tunisi70. La compagine è quasi completamente rinnovata, arric-chendosi di nuovi talenti scaligeri, ma mantenendo alcune tra le migliori prime parti già presenti nell’edizione precedente. In quest’ultima appa-rizione al Miramare, la compagnia di Malta realizza la migliore stagione d’opera nella storia della colonia. Nel cast degli interpreti principali, non soltanto nomi di prestigio, artisti già rinomati in Italia e in America tra le due guerre ma anche giovani promesse del belcanto, destinate ad una luminosa carriera sui palcoscenici del vecchio e del nuovo continente (tra cui Licia Albanese71, Giulietta Simionato72 e Gustavo Gallo73). L’orchestra è diretta da Mario Cordone al quale si alterna in questa edizione Riccardo Santarelli, noto direttore dell’orchestra dell’Eiar, attivo anche alla Scala74. Anche questa volta il cartellone, sempre fermo al repertorio tradizionale, presenta una novità, già affermata nei teatri madrepatria, Il carillon magico di Pick Mangiagalli.

L’anno successivo, nel 1936, mentre il Miramare inizia il suo declino nella vita culturale della città, vede la luce a Tripoli un nuovo teatro, che

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sottrae al precedente il primato: il Teatro Uaddan.

Il teatro Uaddan

Durante gli anni della campagna imperialista, la presenza italiana nei territori coloniali si rafforza attraverso segni meno equivoci, per mezzo di più esplicite manifestazioni della cultura dominante. Segnale evidente di questo mutamento sono le nuove concezioni architettoniche teorizzate in quegli anni da professionisti italiani incaricati dal governo coloniale. In questo periodo le contaminazioni orientali lasciano il posto alle nascenti correnti razionalista e novecentista e le città coloniali vengono progettate ricalcando le idee estetiche delle città di nuova fondazione italiane. Tali mutamenti non lasciano intatti neppure i luoghi deputati alla vita cul-turale, la cui funzione è strettamente legata all’economia del turismo in

Complesso Uaddan visto dal Lungomare. Il teatro è con molta probabilità l’elemento architettonico indicato dalla freccia. Si ringrazia Brian McLaren per l’informazione. Fonte: Architecture and Tourism in Italian Colonial Libya: An ambivalent Modernism, University of Washington Press, Seattle-London 2006, p. 195, Fig. 6.14.

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colonia. Come è stato rilevato precedentemente, a partire dalla metà degli anni trenta, anche l’apparenza neo-moresca del teatro Miramare inizia ad essere guardata con sospetto e, negli anni successivi, gli ornamenti e gli elementi d’ispirazione orientale cedono alle più rigorose superfici lineari razionaliste.

Nel frattempo, con lo sviluppo delle infrastrutture turistiche, vede la luce un nuovo teatro all’interno del lussuoso complesso Uaddan, realiz-zato dal noto architetto Florestano di Fausto, in collaborazione con Ste-fano Gatti-Casazza. Il possente edificio, costruito tra il 1934 e il 1935, è anch’esso ubicato sul lungomare Volpi, e presenta una struttura composita con albergo, teatro, casinò, bagni romani. Il modello metropolitano è con ogni probabilità quello ligure del Casinò di Sanremo - con il teatro e il ristorante a fare da complemento alla casa da gioco - ai tempi polo di attra-zione turistica anche per mezzo di prestigiose manifestazioni culturali, tra cui il Premio Sanremo di letteratura e arte75. Il nuovo teatro tripolino, ge-stito dalla Società teatrale dell’Etal76, viene inaugurato il 3 maggio 1936, pochi giorni prima della proclamazione dell’Impero. La nuova istituzione è destinata ad un’élite nazionale e straniera e concepita come un luogo di intrattenimento e di ritrovo mondano.

Come per il corrispettivo italiano, la capienza è piuttosto ridotta, di circa cinquecento posti. La destinazione «di nicchia» è confermata anche attraverso la programmazione, per la quale gli organizzatori chiedono l’e-sclusiva con veto di ripetizione degli spettacoli negli altri teatri cittadini77.

Il cartellone del teatro presenta i più rinomati interpreti e le più prestigiose compagnie della madrepatria con una programmazione eterogenea che va dal teatro di prosa, ai concerti di musica da camera, alle proiezioni cinema-tografiche, non di rado proposte in lingua originale.

Il teatro di prosa è una delle attività di maggiore richiamo di pubblico con le celebri rappresentazioni delle compagnie di Paola Borboni, Ruggero Ruggieri e Irma Gramatica. Anche l’operetta trova spazio nella program-mazione del nuovo teatro, con spettacoli di artisti rigorosamente italiani.

Tra una stagione e l’altra, vengono programmati i concerti di musica da camera che richiamano in colonia alcuni tra i più rappresentativi interpreti o ensemble strumentali della madrepatria. A calcare il palco del Teatro Uad-dan tra l’ottobre 1936 e l’aprile 1939 troviamo: Alfredo Casella con il suo trio, Corradina Mola78, Nerio Brunelli, Vito Carnevali79, Carlo Zecchi80, tutti attivi ambasciatori della musica italiana all’estero.

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Il numero di concerti è limitato a un paio di audizioni per ogni inter-prete o ensemble, con una frequenza media di due volte l’anno. In alcuni casi gli artisti eseguono lavori di recente composizione, o musiche di autori italiani o stranieri, attinendosi in questo caso alle direttive della madrepa-tria81. Al di là di casi isolati, l’ambientazione coloniale non sembra ispirare particolari scelte di programma82.

A causa delle difficoltà di consultazione delle fonti, non ci è noto quan-do il teatro Uaddan interrompe la sua attività artistica. L’ultimo concerto documentato, del quale abbiamo notizia, è quello dell’orchestra da camera del conservatorio San Pietro a Majella di Napoli, diretta da Adriano Lual-di, nel maggio 194083. La breve vita del Teatro Uaddan rappresenta un’ul-teriore dimostrazione di un mancato consolidamento dell’organizzazione di una vita culturale coloniale a causa del ristretto periodo di dominazione italiana in Libia.

L’impostazione delle attività artistiche all’Uaddan, il suo profilo ar-chitettonico e il richiamo al modello sanremese rappresentano una valida testimonianza della Tripoli imperiale negli anni di Balbo. Nel disegno di Balbo, la città coloniale ambiva a divenire una capitale prestigiosa, meta di un turismo d’élite, simbolo del dominio territoriale italiano.

Effetti culturali della politica indigena di Italo Balbo: Radio Tripoli

Al fine di fornire un quadro il più possibile completo della vita cultu-rale della colonia, merita un rapido accenno anche un’inedita ed originale iniziativa legata al tentativo di preservazione e assimilazione della cultura libica promossa da Balbo durante gli anni del suo governo. In linea con le nuove direttive di politica indigena adottate dal governatore ferrarese84, nel dicembre 1938 vede la luce Radio Tripoli, un’emittente locale dell’E-iar, con trasmissioni quotidiane in lingua araba. Nel palinsesto giornaliero della Radio spicca un programma di musica tradizionale nordafricana ese-guita dal vivo. Nel corso delle prime settimane di vita, Radio Tripoli ospita tre gruppi di strumentisti nordafricani guidati da musicisti riconosciuti quali unici custodi delle tradizioni musicali indigene. Nel giro di qualche mese, da questa iniziativa nasce «l’orchestra araba dell’Eiar», diretta da di-retta da Ismail Gaber Mohammed Alì e composta con ogni probabilità da una prevalenza di elementi tripolini85. L’iniziativa viene accolta con grande favore di pubblico e in breve tempo la durata delle tramissioni si estende,

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la programmazione viene raddoppiata e, attraverso altoparlanti posizionati in punti strategici di grande affluenza della capitale libica, le trasmissioni raggiungono ampi margini di cittadinanza tripolina. Attraverso questo ge-sto Balbo riesce abilmente a guadagnarsi la stima della popolazione indige-na dando prova degli aspetti positivi della dominazione italiana portatrice della modernità in colonia. Con lo scoppio della guerra, com’è ovvio, le trasmissioni di Radio Tripoli verranno dedicate al servizio di cronaca.

Conclusioni

L’organizzazione culturale ed artistica della Libia riflette, come abbia-mo visto, la vicenda della dominazione italiana e ne ricalca le linee poli-tiche. L’importazione di manifestazioni musicali di cifra nazionale contri-buisce in maniera decisiva alla costruzione di un’immagine di predominio culturale funzionale al conseguimento di un consenso diffuso. Il limitato periodo della presenza italiana sul territorio libico e le difficili condizioni di governo non hanno favorito la realizzazione di progetti culturali di lun-ga durata, in grado di inaugurare una vera e propria tradizione artistica coloniale. La politica culturale della colonia, inoltre, non dedica alcuna attenzione all’ambito educativo, non investe ad esempio sulla formazione di musicisti da poter impiegare nei teatri e di conseguenza le attività artisti-che rappresentano un capitolo di spesa che grava sul bilancio della colonia. La cronaca lamenta ripetutamente la mancanza di un contesto formativo, che avrebbe permesso, ad esempio, un contenimento delle spese per la realizzazione degli spettacoli lirici86. Il regime piuttosto preferisce impor-tare artisti dalla madrepatria al fine di testimoniare una volontà di totale assimilazione del territorio coloniale, come dimostra anche la realizzazione di manifestazioni celebrative in onore di autorevoli rappresentanti della tradizione nazionale. Le preoccupazioni del governo si riversano di certo su più urgenti questioni legate al dominio di un territorio straniero e ostile. Uno dei problemi che il regime si trova ad affrontare è quello della relazio-ne con una popolazione indigena che rivendica una propria identità e dei diritti civili e politici, strenuamente difesi attraverso i capi locali. Dopo le criminose azioni dei governatori precedenti, Balbo intraprende una linea che è stata definita assimilazionista nei confronti dei libici. Come abbia-mo visto, il folclore libico riceve un’attenzione non superficiale e anche le tradizioni musicali indigene conoscono un’operazione di valorizzazione e

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diffusione attraverso l’etere. Quale fenomeno di ampio raggio, il coloniali-smo è in grado dunque di coinvolgere ogni aspetto della società, compresa la musica.

La presenza di fonti lacunose ha lasciato ancora aperti numerosi inter-rogativi, tuttavia è stato possibile ritrarre uno spaccato del territorio me-diterraneo dal punto di vista culturale ad oggi sconosciuto che apre nuovi orizzonti di indagine ad oggi inesplorati.

Note al testo

1 Angelo Del Boca, Gli italiani in Libia. Dal fascismo a Gheddafi, vol. II, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 237-246.

2 Cfr. F. Nicolodi, Musica e musicisti nel ventennio fascista, Discanto, Fiesole 1984. 3 Cfr. I. Abbonizio Musica e colonialismo nell’Italia fascista (1922-1943), tesi di dottorato di Sto-

ria, Scienze e Tecniche della Musica, Università di Roma Tor Vergata, a.a. 2009/2010, relatore prof. R. Pozzi.

4 Steer in Claudio Segre, Italo Balbo: governatore generale e creatore della quarta sponda, «Storia contemporanea», XVI, nn. 5-6, dicembre 1985, p. 1060.

5 Luigi Goglia - Fabio Grassi, Il colonialismo italiano da Adua all’Impero, Laterza, Bari 1981, p. 40.

6 A. Del Boca, Gli italiani in Libia cit., p. 236.7 Precedentemente sono attive due piccole, modeste sale, il Teatro Nazionale e il Teatro Risor-

gimento, edificate subito dopo l’occupazione della regione, di una capienza di sole trecento persone. Cfr. Luigi Piccinato, Il teatro di Bengasi in Dante Maria Tuninetti, Cirenaica d’oggi. Guida turistica illustrata della Cirenaica, Pinciana, Roma 1933, pp. 381.

8 A Marcello Piacentini si deve il rifacimento del Teatro Costanzi (1928) e del Teatro Argentina di Roma.

9 L. Piccinato, Il teatro di Bengasi cit., pp. 381-386. 10 Ivi, p. 380. La Società Teatrale anonima per la gestione di spettacoli pubblici e delle sue propietà

immobiliari, è impegnata anche nell’amministrazione dell’attività del Cinema Teatro Nazio-nale, del Cinematografo Sala Italia e del Teatro Risorgimento. Cfr. «Illustrazione Coloniale», giugno 1932, p. 80.

11 «L’Avvenire di Tripoli», 9-23 marzo 1928.12 «L’Avvenire di Tripoli», 21 aprile 193413 Pio Gardenghi, Il risorto teatro romano di Sabratha in «Libia», marzo 1937, p. 17.14 Nel marzo 1937, per l’inaugurazione del teatro di Sabratha restaurato viene messo in scena

l’Edipo re di Sofocle con i cori composti da Andrea Gabrieli nel 1585 per il teatro Olimpico di Vicenza, revisionati ed adattati da Ferdinando Liuzzi (1884-1940). Per l’anno successivo

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viene invece allestita l’Ifigenia in Tauride di Euripide con musiche di Giorgio Federico Ghedini (1892-1965). Per approfondimenti si veda P. Gardenghi, La prima rappresentazione classica al Teatro romano di Sabratha, «Libia», marzo 1937, pp. 40-42; Fernando Liuzzi, Dopo 350 anni riecheggiano a Sabratha le mirabili melodie del grande musicista cinquecentesco Andrea Gabrieli, «Libia», marzo 1937, pp. 19-21; «L’Avvenire di Tripoli», 27 maggio 1938.

15 Tra tutte, quella della provincia di Derna sembra riscuotere un certo successo, esibendosi anche a Tripoli.

16 Tra questi, i principali sono il Supercinema Alhambra, di cui abbiamo notizia dalla fine degli anni venti, il Cinema delle Palme, e quelli estivi, come il Cinema Lido e l’Arena di Sciara Sciat. Diversi sono i circoli culturali, come il Circolo Italia, che ospita diverse occasioni performative. Vi sono anche i vari caffè che organizzano spettacoli di musica, prevalentemente orchestrine che eseguono motivi da arie d’opera e operetta e rifacimenti canzoni in voga nella madrepatria, come il Caffè delle Poste e il Caffè Savoia; e quelli arabi come il Caffè di Suk el Muscir e il Caffè Sahariano animati da musiche e danze orientali, diffusi nella seconda metà degli anni trenta.

17 Brian MacLaren, Architecture and Tourism in Italian Colonial Libya: An ambivalent Moderni-sm, University of Washington Press, Seattle-London 2006, p. 63.

18 Ivi, p. 49.19 E. O. Fenzi, rubrica Corriere Tripolino «Tribuna coloniale», 23 aprile 1921, p. 3.20 Ibidem.21 C. Ricci, Il nuovo «Real Teatro Miramare» in «L’Avvenire di Tripoli», 5 aprile 1928.22 Nicola Placido, Le opere pubbliche a Tripoli: un vero teatro coloniale in «Italia coloniale»,

luglio 1928, p. 149.23 Ibidem.24 B. MacLaren, Architecture and Tourism in Italian Colonial Libya cit., pp. 58-77.25 Mia Fuller, Moderns Abroad. Architecture, Cities and Italian Imperialism, Routledge, London

2007, p. 154-155.26 Ivi, p. 158.27 N. Placido, Le opere pubbliche a Tripoli cit..28 Antonio Rovescalli (1864 - 1936), illustre scenografo del Teatro alla Scala di Milano dal 1911

al 1936.29 N. Placido, Le opere pubbliche a Tripoli cit..30 C. Ricci, Il nuovo «Real Teatro Miramare» cit..31 Alessandro Abate (Catania 1867 - 1953), pittore e decoratore. 32 C. Ricci, Il nuovo «Real Teatro Miramare» cit. 33 N. Placido, Le opere pubbliche a Tripoli cit.34 Dalle descrizioni non è ben chiaro quale fosse, ma è possibile che sia il bar o uno dei due foyers.35 C. Ricci, Il nuovo «Real Teatro Miramare» cit.36 Umberto Di Segni (Tripoli, 1894 – Natania (Israele), 1958).37 «L’Avvenire di Tripoli», 23 dicembre 1938.38 Ibidem.39 L. Piccinato, Il teatro di Bengasi cit., pp. 381-386.

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40 Il numero annuo di turisti in Libia cresce da 28.000 nel 1933 a 44.000 nel 1938. Cfr. B. Mac- Laren, Architecture and Tourism in Italian Colonial Libya cit., p. 239, nota 94.

41 «L’Avvenire di Tripoli», 23 dicembre 1938.42 «L’Avvenire di Tripoli», 23 dicembre 1938.43 Con il passaggio alla British Military Administration, il teatro viene ricostruito e risorge a

nuova vita con una fiorente attività artistica. La storia e le vicende dell’istituzione legate a que-sta nuova fase politica della Libia sono oggi oggetto di studio attraverso il progetto Cento anni di Arti in Libia, promosso da diverse istituzioni culturali della capitale nordafricana, tra cui il Libyan Study Centre di Tripoli. Ringraziamo Addullah Elpoussery, docente di Drammaturgia teatrale presso l’Università di Tripoli e sostenitore del progetto e la figlia Rihma, per queste informazioni.

44 Tali organizzazioni testimoniano la circolazione della musica e degli artisti italiani nei territori del Mediterraneo soggetti all’influenza europea.

45 Ben nota è l’attività lirica italiana al Teatro Reale del Cairo, legata allo storico evento della commissione e prima rappresentazione dell’Aida di Verdi nel 1871 per volere del Kedive Ismail in occasione dell’apertura del Canale di Suez.

46 La fonte principale per la ricostruzione delle attività artistiche al Miramare è rappresentata dal quotidiano locale «L’Avvenire di Tripoli», il cui primo numero risale al marzo 1928. Non sono state trovate ulteriori fonti documentarie riguardanti il periodo precedente della vita del teatro.

47 Per una trattazione più approfondita delle organizzazioni turistiche governative si rimanda a B. MacLaren, Architecture and Tourism in Italian Colonial Libya cit., pp. 58 ss.

48 «L’Avvenire di Tripoli», 8 marzo 1934.49 Manlio Pasotto, è attivo nel 1931 alla direzione del Teatro Reinach di Parma.50 Luigi Cantoni, direttore d’orchestra, è attivo al Teatro dell’Opera di Malta dall’inizio degli an-

ni venti, trasferendosi sull’isola nel dopoguerra [Samut-Tagliaferro 1966, p. 6]. Nel 1946 dirige Bohème e Lucia di Lammermoor al Teatro Regio di Parma nella Stagione Lirica Straordinaria di Natale [http://www.lacasadellamusica.it/cronologia/index.htm].

51 Gaspare Nello Vetro, voce Gustavo Pesenti in Dizionario della musica e dei musicisti dei territori del Ducato di Parma e Piacenza dalle origini al 1950, http://www.lacasadellamusica.it/vetro/, (consultazione aprile 2009).

52 I nomi della maggior parte di questi compositori sono impressi nella toponomastica cittadina [Bertarelli 1929, carta topografica di Tripoli].

53 La replica viene organizzata in occasione del viaggio a Tripoli dei rappresentanti della colonia italiana di Tunisi per la Fiera Campionaria.

54 Maria Zamboni (Peschiera 1895 - Verona 1976). 55 John Barry Steane voce Maria Zamboni, in Grove Music Online, www.grovemusic.com,

(consultazione aprile 2009)56 Aroldo Lindi (nato Harald Lindau, Tuna (Svezia) 1888 - 1944). Secondo la testimonianza di

Richard Lindau, il Lindi, nato Gustav Harald Lindau, ha vestito i panni dell’eroe verdiano ben settecento volte fino al 1935. Nel 1929, dopo aver girato con successo i pricipali teatri d’Eu-ropa e d’America, è scritturato al Cairo dove viene premiato con il vestito originale indossato da Radames nel I atto, confezionato per il battesimo dell’Aida. La sua tournée, dopo il Cairo, tocca Alessandria, Tripoli, Zurigo e Barcellona [Lindau 2002].

57 «L’Avvenire di Tripoli», 17 e 19 aprile 1929.

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58 «L’Avvenire di Tripoli», 8 agosto 1930.59 Tra i più prestigiosi, coordinati dall’Ente turistico della Tripolitania (ETT): il Caffè Arabo di

Zenghet Bey Bengasi, Teatro Orientale (ex-Politeama).60 «L’Avvenire di Tripoli», 6 marzo 1934.61 Per un approfondimento sulle relazioni culturali tra Malta e l’Italia si veda A. Mercieca, Atti-

vità culturali italiane in Malta (1931-1936), «Melita Historica», vol. 5, n. 1, 1968, pp. 61-66.62 Il Teatro Reale dell’Opera di Malta, nel periodo tra le due guerre, promuove annualmente una

stagione lirica competitiva a livello europeo della durata di quattro mesi. Il Teatro diviene un punto di attrazione per i turisti e realizza nutriti cartelloni che prevedono anche lavori di re-cente composizione, eseguiti sotto la direzione degli stessi compositori. Per maggiori notizie si veda A. Miceli Farrugia, Behind the curtains of an impresario in The Theater in Malta, a cura di C. Xuereb, Fondazzjoni Patrimonju Malti Valletta, Malta 1997, pp. 81-85.

63 Giuseppe Mulè (Termini Imerese, Palermo 1885 - Roma 1951) fu segretario nazionale del Sindacato fascista musicisti, deputato al Parlamento dal 1929, membro del Consiglio nazionale delle Corporazioni e presidente della IV sezione del Consiglio superiore per le antichità e belle arti (Ministero dell’educazione nazionale).

64 Mario Cordone ha diretto nei principali teatri italiani e europei. Nel 1932 ha diretto L’Alba di Don Giovanni di Franco Casavola al Festival Internazionale di musica di Venezia. Cfr. «L’Avve-nire di Tripoli» 14 marzo 1935.

65 «L’Avvenire di Tripoli», 6, 9 e 21 marzo 1934.66 Sul direttore Ernesto Sebastiani si sono riscontrati soltanto dati sporadici. Sappiamo che è

stato attivo a Tunisi in qualità di docente di pianoforte. Cfr. S. Ben Abderrazak Med, Mu-sica e comunità italiana a Tunisi, trad. it a cura di Laurence Van Goethem, 2009 in http://funduqactes.skynetblogs.be/post/5813102/ben-abderrazak-med-saifallah-musique-et-commu (consultazione maggio 2009).

67 Giovanni Malipiero (Padova 1906 - 1970). Debutta a Cremona nel ruolo del Duca nel Rigo-letto e nel 1937 si esibisce per la prima volta alla Scala; nel dopoguerra partecipa allo spettacolo d’inaugurazione dell’istituzione milanese sotto la bacchetta di Toscanini. Cfr. J. B. Steane, vo-ce Giovanni Malipiero, Grove Music Online, www.grovemusic.com, (consultazione aprile 2009)

68 F. Nicolodi, Musica e musicisti nel ventennio fascista cit., p. 24.69 «L’Azione coloniale», 10 gennaio 1935 e «L’Avvenire di Tripoli», 3 e 18 gennaio 1935.70 «L’Avvenire di Tripoli», 9 marzo 1935.71 Licia Albanese (Bari 1913), soprano, debutta a Milano nel 1934. Apprezzata in Italia soprattu-

to quale interprete delle eroine pucciniane, tra tutte Madama Butterfly, prosegue la carriera in America, esibendosi regolarmente al Royal Opera House di New York. Nel 1995 viene premia-ta con la National Medal of Honor for the Arts dal Presidente Clinton e nel 2000 riceve il pre-stigioso Handel Medallion dalla Città di New York [http://www.liciaalbanesepuccinifnd.org/].

72 Giulietta Simionato (Forlì 1910 - Roma 2010), mezzo-soprano, rinomata per le sue numerose interpretazioni alla Scala e al Maggio Fiorentino fin dalla metà degli anni trenta. Ha cantanto al fianco di Maria Callas e di altri rinomati interpreti vocali, in Europa, America e Giappone. Cfr. R. Celletti, voce Giulietta Simionato, Enciclopedia dello Spettacolo, Le Maschere, Firenze 1954, vol. 8, p. 1999.

73 Gustavo Gallo (Nardò 1904 - Firenze 1982). 74 «L’Avvenire di Tripoli», 14 marzo 1935.

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75 Bruno Monticone - Ito Ruscigni et al., La cultura attorno al Casinò di Sanremo in Sanremo cent’anni di casinò, De Ferrari Editore, Genova 2005, pp. 45-168.

76 B. McLaren, Architecture and Tourism in Italian Colonial Libya cit., p. 71-77.77 Cfr. «L’Avvenire di Tripoli» 19-20 maggio 1936. La direttiva, inopportuna sotto molteplici

punti di vista, scatena presto una diatriba con i gestori del Teatro Miramare Per gli stessi artisti, lo spostamento in colonia sarebbe stato di gran lunga più conveniente prevedendo più mani-festazioni nella stessa città. La scelta, tuttavia, garantisce al Teatro l’esclusiva per gli spettacoli e assicura all’organizzazione un nutrito pubblico.

78 Corradina Mola, clavicembalista. Svolge atività concertistica in Italia e nelle pricipali capitali europee.

79 Vito Carnevali (1888-1960), pianista e compositore. Si esibisce nei maggiori centri d’Europa e dell’America del Nord.

80 Carlo Zecchi (Roma 1903 - Salisburgo 1984), pianista e direttore d’orchestra. Per maggiori informazioni biografiche cfr. Daniele Lombardi, Carlo Zecchi. La linea della musica, Nardini, Firenze 2005.

81 F. Nicolodi, Musica e musicisti nel ventennio fascista cit., pp. 26-31.82 Corradina Mola chiude il programma dell’ultimo concerto all’Uaddan del 22 gennaio 1939

con due brani di «musica araba», dal titolo Marcia e Canzona. L’iniziativa è particolarmente apprezzata dal pubblico e dall’organizzazione: all’artista viene infatti richiesta un’esecuzione dei brani di musica orientale alla nuova radio coloniale. Cfr. «L’Avvenire di Tripoli» 22 gennaio 1939. Purtroppo non sono state trovate testimonianze a riguardo.

83 La compagine si esibisce presso il Palazzo del Governo, il Teatro della Casa Littoria, il Mi-ramare e l’Uaddan, riservando per quest’ultimo un programma di musiche antiche italiane (Paisiello, Cherubini), di grandi compositori del passato (Mozart, Wagner) e di Ravel. Cfr. I concerti a Tripoli dell’Orchestra da camera del R. Conservatorio, «S. Pietro a Majella. Bollettino del R. Conservatorio di Musica - Napoli», III, n. 3-4, giugno 1940, pp. 30-32.

84 A. Del Boca, Gli italiani in Libia cit., pp. 237-242. 85 «L’Avvenire di Tripoli», 4 febbraio 1938.86 «L’Avvenire di Tripoli», 12 gennaio 1935.

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Il quotidiano italiano di Bengasi al tempo della riconquista*

di Matteo Aguzzi

Introduzione

Sebbene siano numerosi gli studi sulla stampa durante il fascismo, pochissime sono le pagine dedicate dalla storiografia ai giornali del Pnf1 pubblicati in colonia. Eppure quella all’Oltremare fu un’esperienza fonda-mentale per la stampa di partito perché fu chiamata a surrogare la stampa nazionale, misurandosi con coloro che vissero in prima persona l’avven-tura coloniale: uomini e donne che si scontrarono quotidianamente con le opportunità reali e i limiti dell’impero fascista. Alla frontiera coloniale, la stampa targata Pnf fu chiamata a fare da cerniera tra gli italiani e il re-gime, tentando di innestare sull’esperienza dei metropolitani on the spot le emozioni vicarie prodotte dalla «fabbrica del consenso», in un difficile equilibrio tra funzione informativa ed esigenze propagandistiche.

L’assenza di attenzione storiografica va ricondotta a due cause: lo stato di conservazione di questa fonte, gravato da pesanti lacune; un doppio pregiudizio diffuso tra gli studiosi: nel contesto generale di una stampa fascista per anni ritenuta, a priori, non degna d’indagine – poiché priva di quel requisito di oggettività tradizionalmente attribuito al «quarto potere»2 – quella edita in colonia ha pagato (paga?) lo scotto di un’ulteriore patente di inattendibilità derivante dal carattere posticcio dell’imperialismo fasci-sta. Come dire, cartastraccia in un impero di cartapesta.

Nei classici sulla storia della stampa nel periodo fascista ci si limita all’elenco delle testate quotidiane fondate dal regime nelle colonie3. Inve-ce, delle altre pubblicazioni periodiche edite nell’oltremare italiano manca un censimento completo. Insomma, la storia dei giornali in colonia deve ancora essere scritta. Lo studio cerca di andare in questa direzione, aggiun-gendo all’edificio della conoscenza storiografica un mattone riguardante il caso della Cirenaica.

Matteo Aguzzi

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Le pagine che seguono si occupano del quotidiano di Bengasi tra il 1926 e il 1933, ovvero gli anni della «riconquista» della colonia4.

Nel 1911-1912, con l’invasione della Tripolitania (regione occidentale della Libia) e della Cirenaica (regione orientale), l’Italia si era assicurata il controllo della linea costiera libica. L’occupazione militare fu portata avanti fino all’estate del 1914, regredendo poi rapidamente e ricacciando gli italiani sulla costa. Solo con il fascismo al potere la situazione si sareb-be modificata in modo sostanziale. La forte resistenza locale e le esigenze poste dalla guerra europea richiesero il varo di una nuova politica: l’Italia liberale stipulò accordi con le cabile tripoline e con la Senussia, organizza-zione religiosa-politico-militare radicata in Cirenaica. Il 1° giugno 1919 fu promulgato lo statuto libico, primo di una serie di patti volti alla cogestio-ne della colonia e contenenti ampie concessioni. Sorsero così istituzioni e rappresentanze dotate di una relativa autonomia – quale per esempio il parlamento della Cirenaica (1921-23) – e al gran senusso Mohamed Idris venne riconosciuto il titolo di al-Amir al-Sanusi. Sottoscritti dai notabili della Cirenaica, i patti furono rigettati dai capi locali della Tripolitania, dove invece fu proclamata la rivolta. Il superamento della fase di impasse iniziò nel 1922, quando il ministro delle colonie Giovanni Amendola det-te avvio alla cosiddetta riconquista della Libia. Vennero allora annullati gli accordi sottoscritti precedentemente con le autorità libiche e si procedette all’ampliamento e al consolidamento dell’occupazione in Tripolitania. Poi, con il fascismo al governo, sarebbe arrivata anche la rottura definitiva dei rapporti con la Senussia e la ripresa della operazioni militari in Cirenaica. Ci vollero però dieci anni affinché l’Italia fascista potesse proclamare la rioccupazione integrale della colonia (gennaio 1932).

In questa cornice storica si dipanano le vicende del quotidiano italia-no stampato a Bengasi. Il giornale inizia le pubblicazioni nel 1920 con il titolo «La verità. Corriere della Cirenaica» – poi ridotto a «Corriere della Cirenaica» a partire dal 21 giugno 1921 (a. 2, n. 147) – e continua ad uscire con regolarità per tutti gli anni trenta, subendo però vari passaggi di proprietà e notevoli trasformazioni sul piano editoriale, tecnico e giornali-stico. All’interno di questa parabola ventennale la nostra analisi si focaliz-za sull’avvicendamento tra il «Corriere della Cirenaica» e il foglio fascista «Cirenaica Nuova» (fondato il 2 dicembre 1926), e sulla trasformazione di quest’ultimo in «La Cirenaica: organo della federazione fascista» (10 ottobre 1929).

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Nella bibliografia scientifica sull’Italia in Libia i primi, limitati, rife-rimenti a questa fonte edita si trovano nel volume collettaneo su Omar Al-Mukhtar e la riconquista fascista della Libia e in quelli di storia coloniale generale di Angelo Del Boca5. Dopo un silenzio lungo anni, alcune ricer-che su aspetti specifici del colonialismo fascista nella «quarta sponda» sono tornati a menzionare il giornale di Bengasi, non senza inesattezze6. Delu-denti le poche righe riservate al quotidiano cirenaico da Monica Venturini in un volume fresco di stampa che tenta una mappatura della scrittura coloniale e postcoloniale italiana7.

In un recente seminario di studi italo-libici Nicola Labanca ha parla-to della stampa edita in colonia come di una «nuova fonte» in grado di dettagliare la vicenda dell’espansione coloniale italiana, anche per quanto riguarda i suoi capitoli più tragici8. È quello a cui punta il seguente saggio, dove tracceremo la genealogia e lo sviluppo giornalistico del quotidiano di Bengasi, intersecando la sua storia con quella della federazione fascista del-la Cirenaica, e fornendo qualche assaggio del modo in cui la fonte descrisse la riconquista e la macchina della repressione italiana.

Dal «Corriere della Cirenaica» a «Cirenaica Nuova»

Dopo la marcia su Roma i fascisti bengasini impiegarono quattro anni per dare vita ad un giornale tutto loro. Si creò qualcosa di nuovo, riutiliz-zando, all’occorrenza, uomini e mezzi della vecchia colonia. La questione del giornale pubblicato a Bengasi, dunque, permette di articolare il di-scorso sulla discontinuità del colonialismo italiano nel passaggio fra Italia liberale e fascismo9.

Il primo quotidiano della colonia «La verità: corriere della Cirenaica» era stato fondato nel 1920 su iniziativa del funzionario coloniale Gian Luigi Olmi10. Siamo nella fase della «politica degli Statuti», preludio alla creazione del Parlamento cirenaico (aprile 1921). Olmi, pur essendo stato eletto deputato al parlamento locale, è tra coloro che si oppongono a que-sto avanzato esperimento istituzionale di indirect rule11. Spalleggiato da fa-scisti facinorosi, ostacola il lavoro delle istituzioni e, dalle pagine dell’unico giornale di Bengasi, attacca la politica di pace verso la Senussia12. Il «Cor-riere della Cirenaica» prese avvio, quindi, per mano di un funzionario che incarnava perfettamente «la riottosità della macchina coloniale alla politica degli Statuti»13. Oltre che al disturbo della politica coloniale amendoliana,

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gli sforzi di Olmi si orientano verso la modernizzazione della stampa loca-le: a lui infatti veniva riconosciuto il merito di aver portato in Cirenaica la linotype in dotazione al quotidiano di Bengasi14.

Il mutare del contesto politico – sia in Libia che in Italia – ebbe pesanti ricadute sulla vicenda del giornale bengasino. «Sabotata da parte italiana e rifiutata da parte araba», la strategia degli accordi naufraga e la palla torna ai militari: gli ultimi governi liberali rilanciano lo strumento della repres-sione militare contro la resistenza libica15. Il primo governo Mussolini ere-dita così un programma di riconquista che viene portato avanti in modo ancora più ampio e determinato, prima in Tripolitania (ottobre 1922 - di-cembre 1923) poi in Cirenaica. Qui però la resistenza libica è tenace: an-cora alla metà del 1926 la Senussia domina, quasi incontrastata, sul Gebel. Il fascismo ha bisogno di successi militari significativi e ideologicamente connotati, per questo motivo, rimosso Mombelli, il governo della colonia viene affidato al generale Attilio Teruzzi (22 novembre 1926). Quelli sono anche i mesi delle «leggi fascistissime» e del passaggio definitivo al regime dittatoriale. È questo il contesto nel quale avviene la chiusura del «Corriere della Cirenaica». I metropolitani presenti in Cirenaica – anche se pochi (diecimila, militari esclusi) – sono comunque italiani il cui consenso al regime va organizzato attraverso lo strumento principe: la stampa. I col-legamenti con l’Italia però sono scarsi e i giornali nazionali giungono a Bengasi con il contagocce: una volta alla settimana con il postale, quando va bene. Ragioni politiche e di prestigio impongono quindi la creazione di un quotidiano locale che esalti l’impronta fascista della politica coloniale mussoliniana, e che, al tempo stesso, sia gestito da uomini di «sicura fede». In una parola, alla Cirenaica di Teruzzi serve un giornale fascista, e non semplicemente fascistizzato.

La soluzione più ovvia sarebbe stata lasciare che la federazione provin-ciale dei fasci fondasse un nuovo giornale oppure che rilevasse la testata locale per farne il proprio organo ufficiale16. A quel tempo, però, una fe-derazione dei fasci della Cirenaica ancora non esiste; lì, come nelle altre colonie italiane, i fasci locali rientrano ancora nella «fattispecie» dei fasci italiani all’estero17. A Bengasi allora si tenta un’altra strada: la proprietà del nuovo foglio rimane nella cerchia imprenditoriale mentre gli uomini del partito occupano i posti di responsabilità nella redazione18. Così, il 2 dicembre 1926, si giunge all’uscita di «Cirenaica Nuova». La redazione afferma subito il taglio netto con il passato:

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Il Consiglio d’Amministrazione comunica che non ha nulla in comune con la «Società Editoriale Cirenaica» né col «Corriere della Cirenaica»19.

Una rottura ribadita anche nell’editoriale inaugurale firmato da Guido Battaglini, delegato del Pnf per il fascio di Bengasi, a cui è stata affidata la direzione del giornale20:

Perché il quotidiano […] si è chiamato «Cirenaica Nuova»? Nuova perché giornali-sticamente ha un substrato morale e materiale che nulla ha a che fare con il passato; un gruppo finanziario nuovo, una volontà […], un metodo […] tutto nuovo […]. A «Cirenaica Nuova» risponde un nuova era per la Cirenaica, quella che inizia oggi […] con il Governatore fascista on. ATTILIO TERUZZI.21.

Che cos’è dunque «Cirenaica Nuova»? La risposta ce la fornisce il me-desimo articolo:

Non è un organo del Partito Fascista […]. Sarà uno di quei giornali che pur non essen-do rivolto esclusivamente ai fascisti, è, o pretenderà di credersi fascista. Naturalmente esso avrà degli articoli e non degli ordini, ma intenderà ugualmente, per via diversa, a fare del Fascismo22.

L’insistenza con cui si afferma l’avvento del nuovo forse rivela l’ansia di nascondere più di un collegamento con il vecchio: del resto i mezzi ti-pografici sono quelli del «Corriere della Cirenaica» e non è da escludere che i finanziatori fossero uomini d’affari con alle spalle un passato colo-niale consolidato. Insomma è difficile credere che, al momento della sua fondazione, «Cirenaica Nuova» potesse prescindere completamente dalla precedente esperienza editoriale di Olmi e dai capitali installati a Bengasi già nella fase degli Statuti23. Inoltre, a pochi mesi dalla fondazione – lo vedremo meglio più avanti – il regime gestirà un avvicendamento alla di-rezione del foglio andando addirittura a pescare nel bel mondo delle classi superiori di inizio secolo.

Un quadro tanto sintetico sulle origini del foglio fascista cirenaico non consente giudizi netti sul rapporto di continuità/discontinuità fra il colo-nialismo liberale e quello fascista nell’ambito della stampa edita in colonia: tuttavia – pur facendo la tara all’enfasi retorica di Battaglini sulla «novità» del suo giornale e pur tenendo conto della progressività dei cambiamenti – il vero inizio dell’era fascista in Cirenaica segnò una rottura profonda anche nel settore dell’informazione bengasina.

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Da «Cirenaica Nuova» a «La Cirenaica»

Il nuovo giornale fascista muove i primi passi in un clima di ostilità dif-fusa. La linea editoriale di Battaglini, infatti, non sembra ottenere consensi né presso il governo né presso i lettori. Il direttore vuole dare a «Cirenaica Nuova» una chiara «impronta locale» in grado di restituire la «fisionomia propria di questa Colonia e non costringerla a fare della politica generale forzata per riempire le sue colonne»24. Inoltre vuole fare del giornale uno spazio di discussione, ovviamente all’interno di quel «sistema chiuso» della stampa teorizzato da Bottai proprio in quei mesi25. Insomma, «Cirenaica Nuova» vuole essere un giornale fascista che parli soprattutto della colo-nia (anche in termini «critici») e non un giornale coloniale che parli ge-nericamente della rivoluzione fascista. Obbiettivi raggiungibili – afferma Battaglini – solo tramite l’attiva «collaborazione» degli organi statali e dei metropolitani26. Ma la collaborazione non arriva27. Anzi, non sono pochi coloro che sperano in una rapida chiusura del giornale, o almeno questo è quanto afferma il direttore:

Si dice che «Cirenaica Nuova» non avrà vita neppure un mese. Sappiamo che questo è il desiderio di molti, ed è naturale. A questi signori molto puliti o sporchi, amici o nemici, facciamo sapere che il Direttore di «Cirenaica Nuova» ha la «coccia» dura, […] e perciò consigliamo loro di non cullarsi vanamente in siffatta speranza28.

Perché tutta questa ostilità? Le risposte vanno cercate nella forma del foglio bengasino e nella personalità di Battaglini. Innanzitutto il giornale appare scombinato, la suddivisione interna degli argomenti non è stabile, le rubriche sono irregolari. La grafica antiquata accentua la modestia dei contenuti: «Cirenaica Nuova» è un quotidiano per una qualifica di perio-dicità e non di merito. Difficilmente, con simili caratteristiche, si poteva pensare di scalzare i giornali nazionali nei gusti del pubblico29. L’uso «per-sonalistico» del giornale e la tendenza di Battaglini alla polemica comple-tano il quadro. Non passa giorno senza che il giornale incensi l’attività del delegato del Pnf – oscurando così la figura di Teruzzi – o senza un attacco a qualche settore della società metropolitana (le «personalità» indifferenti al contesto coloniale; i commercianti «ingordi»; le associazioni locali irrigidi-te su posizioni di «apoliticità», ovvero a-fasciste)30. Non mancano infine le polemiche, interne al fascio, contro chi scredita l’«autorità del Delegato del

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Partito con maligne insinuazioni, nell’ambiente fascista e non-fascista»31. Insomma, la linea editoriale di Battaglini ripropone lo «spirito squadristi-co» che contraddistingue l’ideologia dei fasci all’estero targati Bastianini32. Ma proprio alla fine del 1926 i tempi stanno cambiando. Nel contesto del «partito-chiesa» di Augusto Turati le parole d’ordine diventano centra-lizzazione del Pnf e disciplinamento della stampa di partito33. Il carattere avventuristico del foglio, il protagonismo di Battaglini, la sua tendenza ad alimentare il «beghismo» locale, la riproposizione ormai anacronistica di pose squadristiche, erano tutti elementi che mal si addicevano al nuovo cli-ma politico e al modello di stampa «disciplinata» auspicato dal duce34. Da qui, forse, la decisione dei vertici del regime di rimuovere Battaglini dalla carica di direttore (mar. 1927). Mossa che coincide con la riorganizzazione del fascio di Bengasi secondo «le nuove norme emanate dalla Direzione del Partito»: la carica di delegato del Pnf passa nelle mani di Teruzzi35.

Ad appena tre mesi dalla fondazione, dunque, il giornale è oggetto di un rilancio. Alla carica di direttore viene nominato Tom Antongini, già segretario personale di D’Annunzio36. Vengono subito apportate alcune migliorie a «Cirenaica Nuova»: introduzione di qualche foto, una più pre-cisa suddivisione degli argomenti e delle rubriche, maggiore spazio per le notizie sportive. La struttura sembra ricalcare quella de «Il Tevere», di cui Antongini è stato collaboratore e redattore fin dalla fondazione37. Del quotidiano di Interlandi, però, si copiano, più che il piglio polemico e le idee, le rubriche dedicate alla letteratura e alla vita mondana38. Una rior-ganizzazione dei contenuti interpretabile alla luce del dato biografico ri-guardante Antongini. Il nuovo direttore, pur avendo aderito al fascismo39, risente del suo passato da «filibustiere» dannunziano. Nel 1927 Antongini ha già cinquant’anni e metà della sua esistenza l’ha passata accanto al Vate, partecipando a quel vivere inimitabile fatto di esperienze letterarie e legio-narie, frequentazioni intellettuali e altolocate, atteggiamenti eccentrici ed estetizzanti, attenzione per la femminilità e la seduzione. Da chi ha vissuto tutto questo, e a questo, forse, è legato prima ancora che all’Idea fascista, non ci si può attendere il fervore politico di un Interlandi appunto, di un Mario Carli o di un qualsiasi altro giovane direttore «di nuovo tipo»�. Cer-to, quando il regime chiama, Antongini risponde in maniera formalmente ineccepibile, come dimostra lo zelo con cui la testata sostiene la campagna per il prestito del Littorio. Ma i segni distintivi della direzione di Antongi-ni sono altri: trasognati articoli sull’aria «spensierata», da riservato «circolo

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coloniale» che si respira a Bengasi41; ricerca di prestigio culturale e atten-zione dedicata al pubblico femminile. Il tentativo di alzare il livello cultu-rale della testata finisce infatti per riverberarsi soprattutto sulle lettrici. È a loro che si chiede di centellinare la prosa d’arte di cui il giornale viene infarcito. Oltre alla rubrica aperiodica Varietà femminili, all’interno della settimanale Pagina della Domenica si trova ora uno spazio fisso dedicato a La moda. Una volta al mese poi, la seconda pagina accoglie un racconto breve che ha sempre per protagonista una giovane ragazza italiana42. E an-cora: spazio alla riflessione sul ruolo della donna fascista43.

Se, alla fine del 1927, «Cirenaica Nuova» mostra una struttura più di-namica e contenuti meno modesti lo deve anche ad una redazione meglio organizzata, dove, accanto al direttore, troviamo: il redattore-capo Carlo Ferrario, originario di Introbio (LC)44; Giuseppe Muttoni, classe 1889, valsassinese come Ferrario, maestro elementare, ricopre contemporanea-mente i ruoli di vice redattore-capo, critico teatrale e artistico, addetto alla pubblicità; Nicolò Mura, milanese, giornalista e scrittore, si occupa delle novelle e delle rubriche indirizzate al gentil sesso, in quanto «è maestro del-lo stuzzicar la curiosità femminile»; Enrico Azzopardi, «redattore in secon-da e croniqueur»; infine Carlo Santi, «robusto figlio delle ubertose pianure lombarde», è l’addetto allo sport45. L’elemento che salta subito agli occhi è la prevalenza di milanesi/lombardi all’interno della redazione. Caratteri-stica che riflette i forti legami tra il fascio di Bengasi e il fascismo lombar-do. Al vertice della delegazione cirenaica del Pnf troviamo infatti Teruzzi (milanese)46, il console della Milizia nonché vice-delegato Pietro Arcari (cremonese) e il segretario amministrativo Antonio Zamboni (milanese)47. Proprio a quest’ultimo, promosso commissario federale, viene affidata la guida della federazione, istituita ufficialmente nel febbraio 192848.

Nel frattempo si è consumato un nuovo avvicendamento alla direzione del quotidiano. Il 6 gennaio Antongini lascia il giornale e due mesi dopo (il 4 marzo) parte da Bengasi49. A sostituirlo viene chiamato Carlo Ferrario, ma è una soluzione temporanea, in attesa del nuovo direttore. La scelta del regime cade su Sandro Sandri, il quale prende il timone di «Cirenaica Nuova» il 29 marzo 1928. Nato a Codroipo (UD) il 16 dicembre 1895, combattente, ferito e decorato al valore, dopo la guerra Sandri era stato squadrista e collaboratore dei primissimi fogli fascisti. «Durante il periodo quartarellista – scrive la redazione – è stato redattore de “L’Impero”», frase equivalente ad un attestato di provata fede e ferrea disciplina 50. Nel 1926

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Turati lo chiama a dirigere «Il Corriere di Catania», organo del fascio dal 192751. Quando sbarca a Bengasi, Sandri è un giornalista di successo gio-vane, bello, audace, che gode di entrature nel partito, e che, in Africa, cerca la sua piena realizzazione52.

L’arrivo del nuovo direttore coincide con alcuni aggiustamenti nella proprietà del giornale. Il 1° aprile 1928, «cessa la gestione della Società Anonima “Cirenaica Nuova” in liquidazione, e la stessa viene assunta dalla Società Anonima Editrice “Cirenaica Nuova” di recente costituzione». Il quotidiano non specifica chi siano i proprietari, ma rimane il fatto che – se prendiamo per buono il comunicato redazionale – la testata continua ad essere in mano ad una società di capitali caratterizzata da una tale fram-mentazione del pacchetto sociale da risultare di fatto anonima, ovvero non riconducibile ad una proprietà unica e stabile. La Federazione dei fasci della Cirenaica, il cui Ufficio stampa viene affidato proprio a Sandri53, ha aumentato e razionalizzato l’azione del Pnf sulla testata, ma «Cirenaica Nuova» non è ancora un organo del fascio e la sua gestione amministrativa non sembra ancora dipendere in toto dal partito.

Sandri annuncia alcuni miglioramenti editoriali54, ma in sostanza la struttura e l’aspetto di «Cirenaica Nuova» rimangono quelli della gestio-ne Antongini. Le trasformazioni riguardano semmai la presentazione delle notizie e i temi su cui si focalizza il giornale. Innanzitutto «smobilitazione» della cronaca nera, presentata come un non-tema55 – sotto i precedenti direttori, invece, la cronaca giudiziaria aveva un suo spazio regolare, dal quale emergeva un’immagine della colonia tutt’altro che idealizzata56. An-che a Bengasi dunque si iniziano ad applicare le direttive di Mussolini volte a censurare sulla stampa quotidiana i cosiddetti fatti della vita57. Il cambiamento più importante si registra però nel modo in cui il quotidiano racconta la guerra di riconquista. Fino ad allora il quotidiano si era affidato ai bollettini ufficiali del governo o ai dispacci dell’agenzia Stefani, a cui la redazione aveva aggiunto, di volta in volta, dei corsivi di commento, dai quali peraltro era già emerso il carattere violento e truce delle operazioni militari e della guerriglia ribelle. Il giornale però non aveva un proprio in-viato «al fronte», qualcuno capace di generare nei lettori una mobilitazione psicologica e morale contro le ragioni della resistenza senussita e a sostegno della «politica di potenza» del regime. Sandri viene a colmare questa lacuna con le sue corrispondenze dal Gebel, articoli in cui giornalismo di guerra e giornalismo di viaggio sfumano l’uno nell’altro, restituendo – sia pur in

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modo sottodimensionato rispetto alla realtà della vicenda, ma comunque ai limiti della buona coscienza e della censura dell’epoca – la concretezza della riconquista: uomini che danno la caccia ad altri uomini, una guerra orribile e vittime di tutti i tipi58.

Sempre nel contesto della racconto della riconquista, Sandri ci rive-la una notizia fin’ora sconosciuta che, se confermata da altre fonti, risul-terebbe sorprendente nella sua eccezionalità: la partecipazione attiva alle operazioni militari da parte di Giuliana Civinini (1899-1928), giovane giornalista alle prime armi, figlia di Guelfo Civinini (1873-1954), scrit-tore e nota firma del giornalismo italiano. La rivelazione avviene secondo la modalità, tipica del giornalismo di regime, della «cronaca dilazionata e postuma»�, quando ormai sono trascorsi alcuni mesi dai fatti. L’occasione la fornisce l’arrivo a Bengasi della notizia della morte di Giuliana, avvenuta il 14 luglio 1928. Sandri scrive allora un articolo in memoriam, pensato anche come gesto di condoglianza per il collega e amico Guelfo, in cui – oltre a lasciar intendere che Giuliana si è suicidata a causa, diremmo oggi, di uno stato depressivo – presenta la singolare figura di questa don-na, neanche trentenne, che aveva ostinatamente scelto la vita dell’inviata di guerra – forse anche preda della fascinazione per la figura del soldato coloniale. Sandri l’aveva conosciuta quando era una bambina e «le ombre della tristezza, opache e pesanti, non ingombravano ancora il suo spirito»:

Per me Giuliana è rimasta fanciulla; e – quando la rivedo col pensiero – ecco che mi appare avvolta in un irreale alone di poesia, poiché il tormento che la uccise è quello stesso che travaglia tutta la mia generazione eroica, che attraverso la guerra, il Fiuma-nesimo e il Fascismo ha scoperto in se stessa luci soprannaturali e sproporzionate alla vita che gli uomini devono vivere nella esasperante monotonia di ogni giorno. Oggi che non è più […] di Lei non ci rimane che il ricordo della sua irrequietudine convul-sa […], Giuliana sognò di poter integrare tutte le esuberanze tormentose dell’animo umano vivendo la vita del pericolo […], dell’eroismo. […] La rivolta di spiriti che è in atto attraverso quest’inizio di secolo risente straordinariamente di questi stati d’animo rivoluzionari che sono esplosi dalla guerra e dalla rivoluzione creando singolari tipi di uomini. Ma noi […] che cosa vediamo oggi in questa creatura che aveva nella sua ani-ma, nel suo cervello, nel suo cuore i nostri sogni e la nostra passione e che era donna? Io l’ho compreso or non è molto, dove Giuliana aveva vissuto e combattuto come un uomo al fianco degli ascari del 13° Battaglione Eritreo. Lassù nel vasto silenzio delle vallate cupe si è maturata in Lei, certamente, la silenziosa tragedia. La guerra Italo Austriaca aveva già sconvolto la sua anima; essere donna e dover assistere da lontano all’epica bellezza dei combattimenti, mentre si sarebbe sentita capace di vivere nelle

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trincee la vita del fante, deve aver costruito per Lei una sofferenza tormentosa. Ras-segnarsi era morire. Seguendo suo padre durante le note spedizioni africane il fascino strano di questa terra solatia aveva certamente acuito il suo tormento. A poco a poco il concetto di una vita normale le era sfuggito allontanandosi dal suo spirito60.

Ad ogni ritorno in Italia – prosegue Sandri – il trantran della vita quotidiana assumeva sempre di più la fisionomia di un gabbia asfissiante. Giuliana «voleva la liberazione» rappresentata «dall’irreale vita che col suo cervello si era costruita»61:

Qui [in Cirenaica], vivendo fra i soldati sotto la tenda, marciando con loro attraverso l’Altipiano del Gebel o sulle sabbie della Sirtica si era sentita felice. In combattimento aveva meravigliato i più audaci con il sublime sprezzo del pericolo e gli eritrei del 13° Battaglione gli avevano dato i galloni da caporale sul campo. Ma poi? Era donna e, non avendo potuto essere madre, era rimasta bimba dall’anima generosa ed eroica. Il Gebel Cirenaico rappresentò per Giuliana Civinini l’Ascensione per quella luce che oggi la illumina […], io penso al suo silenzioso dolore il giorno in cui abbandonò per sempre questa terra d’Africa62.

Quando Sandri non scrive della riconquista, si occupa delle vicende relative alla locale federazione del Pnf. Tra la fine del 1928 e l’inizio del 1929 l’attenzione si concentra sull’opera di «integrale epurazione delle fila dei Fasci della Cirenaica di quegli elementi inidonei, e di dubbia fede che erano riusciti ad avere una tessera»63. L’impressione però è che «la lenta selezione» di coloro che in Cirenaica, «non hanno mai meritato il Fasci-smo» si basi, più che sull’esame dell’attività politica e morale delle singole camicie nere, sulla regolarità con cui esse pagano la quota d’iscrizione al Pnf64. Un’operazione che comunque ci fornisce dati abbastanza precisi sul numero dei tesserati alla fine del 1929. A quella data – esclusi i 1.550 militi della II Legione libica – i metropolitani iscritti al Pnf nel Fascio di Bengasi sono 58165.

Le strigliate ai tesserati si tradussero – stando al giornale – in una lo-ro partecipazione più convinta all’apparato ritualistico del regime, alle commemorazioni, insomma le liturgie collettive del fascismo66. Il disci-plinamento degli iscritti e l’istituzionalizzazione, anche a Bengasi, dei ri-ti della rivoluzione, rappresentano sicuramente la parte più ‘spettacolare’ dell’azione di Zamboni, ma il consolidamento del fascismo bengasino, e soprattutto del suo nucleo dirigente milanese, passa anche per vie meno

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roboanti. Promosso segretario federare alla partenza di Teruzzi (12 gen-naio 1929), nel giugno Zamboni assume la carica di direttore della lo-cale Cassa di Risparmio, mettendo così le mani sul principale rubinetto del credito bengasino67. Sempre nel senso di un rafforzamento del gruppo ‘meneghino’ va poi letto l’arrivo in colonia di Mario Carità (luglio 1929). Zamboni, che lo vuole «al suo fianco alla Segreteria Federale, [gli] ha af-fidato le sorti dell’Opera Nazionale Balilla in Cirenaica»68. Mentre Carità scende in colonia, il segretario federale compie il percorso inverso e si reca in Italia per una serie di incontri al vertice69, prima a Roma per colloqui con Turati e il duce, poi a Milano dove l’agenda degli appuntamenti regi-stra: riunione con il federale Luigi Franco Cottini70; ricevimento presso il gruppo rionale fascista ‘Oberdan’ di Corso Buenos Aires; partecipazione ai lavori della Commissione della Colonia Libica di Tocra, in cui si discute l’ampliamento dell’opera di valorizzazione dei terreni dati in concessione dal governo di Bengasi71; infine visita ad Arnaldo Mussolini. Le notizie che rimbalzano tra Milano e Bengasi contribuiscono a delineare un intreccio (intrigo?) politico-finanziario che lega la federazione milanese a quella ci-renaica e questa alla Colonia Libica di Tocra, diretta da Alfredo Banfi. Se i particolari della vicenda sono incerti, non lo è il quadro generale: con Teruzzi governatore la società agricola milanese ottiene i terreni a prezzi di favore, poi, con i soldi del governo e della Cassa di risparmio, li dissoda e vi costruisce le infrastrutture essenziali (strade, pozzi, magazzini ecc.), incrementandone così il valore e, insieme a quello, il prezzo delle proprie azioni72. Intanto Banfi scala le posizioni del direttorio federale di Bengasi (arriva alla carica di vice-segretario)73 e viene chiamato a gestire la trasfor-mazione del giornale in organo ufficiale della federazione dei fasci della Cirenaica: «Cirenaica Nuova» cambia titolo in «La Cirenaica» (10 ottobre 1929). Il passaggio avviene in concomitanza alla partenza di Sandri per la Tripolitania, dove seguirà – in veste di ‘inviato aviatore’ de «Il Regime Fascista» – la conquista del Fezzan ad opera del generale Rodolfo Graziani. Sandri promette di tornare una volta conclusasi la campagna militare, ma nel frattempo la direzione ad interim passa proprio a Banfi, il quale è anche presidente della «Cooperativa Tipografica Fascista» proprietaria del giorna-le. Quanti siano in totale i soci, chi siano e quale sia, tra di loro, l’effettiva distribuzione delle quote del capitale sociale la redazione non lo rivela. L’impressione, però, è che il ruolo della «Cooperativa Tipografica Fascista» non fosse meramente formale. Tra la federazione e il giornale esisteva sì un

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legame molto stretto, come dimostra l’accumulo di cariche di Banfi, ma permaneva ancora – sia pur lieve – un certo grado di separazione74.

La trasformazione del quotidiano in organo del Pnf sanciva definitiva-mente alcuni cambiamenti editoriali iniziati già nel dicembre 1928, quan-do «Cirenaica Nuova» era diventata un foglio d’ordini75. A partire poi dal luglio del 1929, circa ogni due settimane, compare La Pagina del Balilla e dell’Avanguardista. La redazione vorrebbe farne un vero e proprio inserto, ma non è possibile poiché «mancano i mezzi finanziari»76. Rimanendo in-variato il numero delle pagine (quattro), l’aumento dello spazio dedicato alla nazionalizzazione delle masse bengasine implica che altri contenuti vengano sacrificati: a subire i tagli maggiori sono gli articoli di intratteni-mento e di costume. L’arrivo di Banfi alla direzione segna l’aumento dello spazio concesso alla colonizzazione agraria: le Note utili per i coloni, già introdotte da Sandri, vengono trasformate nella rubrica intitolata La colo-nizzazione e la produzione della Cirenaica77. Con il passare delle settimane però il discorso generico sull’agricoltura coloniale «capitalistica» (sovven-zionata dal regime)78 si trasforma nel discorso specifico sull’opera della Co-lonia Libica di Tocra79, palesando il chiaro conflitto di interessi di Banfi, il quale, pur in modo più sottile di Battaglini, finisce per riproporre un uso privatistico del quotidiano. Che ci sia l’intenzione di rafforzare uno spazio di potere personale, magari ai danni di Sandri? L’ipotesi forse non è troppo peregrina se, a quanto detto sul rapporto Zamboni-Banfi, aggiungiamo ciò che scrive – a dieci anni di distanza dai fatti – il giornalista Mario Bassi:

Quando Sandri era tornato dalla campagna di guerra della Fasania [Fezzan], tra feb-braio e marzo, appunto, di quel ’30, aveva trovato mutamenti nel suo giornale operati a sua insaputa, e non ch’egli potesse accettarli: la sua autorità di direttore scavallata, il suo stesso posto insidiato e compromesso80.

Il 15 aprile 1930 si esaurisce l’interim di Banfi e Sandri rientra alla gui-da del quotidiano. Sulle pagine del giornale, ça va sans dire, tutto accade come se niente fosse, ma probabilmente l’avvicendamento tra i due non fu così naturale come si vuole far credere.

«La Cirenaica» al tempo dei campi di concentramento

Il 13 marzo 1930 era arrivato a Bengasi il nuovo vice-governatore, il generale Rodolfo Graziani: stava maturando una nuova svolta nella fede-

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razione cirenaica. Il 18 aprile 1930 Zamboni viene rimosso dalla carica di segretario federale81. È l’inizio della fine per il nucleo dirigente milanese all’interno della federazione, che viene smantellato nel giro di qualche me-se. Insieme a Zamboni rientra definitivamente in Italia anche Mario Cari-tà82. Più lenta è invece l’estromissione di Banfi: a fine giugno cede la carica di vice-segretario a Sandri, ma rimane a capo della cooperativa che detiene la proprietà del giornale. La spinta definitiva a quella che sembra una po-sizione ormai traballante arriva con il commissariamento della federazione (24 luglio 1930), affidato all’«avvocato farinacciano» Dante Maria Tuni-netti83. Il 24 settembre la Cooperativa Tipografica Fascista viene sciolta e la gestione finanziaria de «La Cirenaica» passa al segretario amministrativo della federazione, Arnaldo Sbressa Agneni: il Pnf si accolla integralmente la proprietà del giornale84. L’allontanamento dei capi milanesi del fasci-smo cirenaico è compiuto. Forse incise l’arrivo di Graziani, forse a Roma non gradivano che i gerarchi locali si impegnassero più nella cura dei loro «affari» personali che nell’assorbimento della comunità metropolitana nel-le organizzazioni del partito. Probabilmente fattori periferici e nazionali si combinarono rendendo evidente la difficoltà di Turati a reperire validi gruppi dirigenti locali85.

A novembre Tuninetti procede alla nomina dei nuovi funzionari di par-tito attraverso un’operazione che somma i tratti dell’epurazione a quelli del rinnovamento86. Ricomposto il direttorio federale, riorganizzati i fasci esterni, anche in Cirenaica il Pnf sceglie, con più decisione, di «andare al popolo»87: nuovo impulso alle organizzazioni di partito88, creazione dei fasci femminili, riunione di tutte le attività filantropiche e di assistenza sotto la sezione locale dell’Ente Opere Assistenziali89. La riapertura delle iscrizioni al Pnf (ottobre 1932) rese evidente che in Cirenaica, al pari del resto d’Italia, «si imboccò risolutamente la strada del partito di massa»90.

Il lavoro di riorganizzazione e potenziamento della federazione cirenai-ca e di tutte le organizzazioni fiancheggiatrici va di pari passo con l’opera di modernizzazione del quotidiano locale. Sandri continuerà a ricoprire la carica di direttore responsabile, ma sarà Tuninetti, nei successivi tre anni, a occuparsi de facto dell’evoluzione tecnica, editoriale e giornalistica de «La Cirenaica»91. Il commissario federale non è soddisfatto, la trova «povera di contenuto, tecnicamente non molto felice, sotto molti aspetti imperfetta e incompleta e ricca di dolorose lacune»92. I punti su cui intervenire sono: rinnovamento della veste tipografica, dell’impaginazione e della struttura

Il quotidiano italiano di Bengasi al tempo della riconquista

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complessiva; incremento del notiziario; maggiore attenzione alle questio-ni commerciali; ulteriore sviluppo della trattazione sportiva; ampliamento dello spazio dedicato ai problemi di interessere regionale, cioè relativi alle varie località della colonia. Il tutto senza trascurare la bella prosa degli elzeviristi.

Non tutto sarà effettivamente realizzato, per esempio la copertura gior-nalistica dei centri minori rimarrà sporadica e limitata alla cronaca delle liturgie di regime, ma nel complesso la modernizzazione è evidente e im-mediata. Il 3 maggio 1931 la redazione parla già di Promesse mantenute: il testo degli articoli è passato dal corpo dieci al corpo otto; il servizio telegrafico con Roma e il collegamento con le agenzie di stampa sono stati migliorati; c’è stato il passaggio definitivo da quattro a sei pagine una volta alla settimana; sul foglio aggiuntivo si alternano – con cadenza quindicina-le – le due pagine dedicate alle organizzazioni giovanili fasciste, quella del dopolavoro e, infine, quella di ‘intrattenimento’, contenente novelle, diari di viaggio e notizie cinematografiche. A novembre i numeri settimanali a sei pagine diventano due, ciò consente di dedicare, una volta alla settima-na, un’intera pagina alle notizie sportive italiane e bengasine93.

Questo per quanto riguarda la forma. E i contenuti? Tra i molti temi trattati nel periodo 1930-1933 ci soffermiamo su quelli che maggiormente premevano al regime: la stretta decisiva sui ribelli e i campi di concentra-mento della Sirtica e del sud-bengasino94.

La «politica di rigore» di Graziani ha fatto sprofondare la colonia in un clima truce che si riflette nel modo in cui il giornale racconta la fase finale della riconquista. A mo’ di esempio scegliamo un brano dove si esalta la spietatezza della macchina repressiva italiana impegnata ad alimentare la frenesia sanguinaria fra la popolazione autoctona. A parlare è Sandro Sandri:

Alcuni giorni or sono a quelli che stavano a Tocra, si presentò dinanzi agli occhi un singolare spettacolo: un gruppo di indigeni scendeva dal Gebel verso la piana e il mare e, in testa a tutti, uno recava un palo nel quale era infissa, ancora sanguinante, una testa umana. Il gruppo attraversò l’abitato di Tocra e si disperse tra le tende degli accampamenti dei nomadi; la testa ghignante, che aveva servito da trofeo macabro ai beduini fu gettata agli sciacalli. Questo l’episodio, brevemente. Ed esso non è il solo, non è isolato; anche altrove ne sono avvenuti di consimili; altre teste furono mozzate, e infilzate ancora calde su una picca, orride, truci, sanguinolente, furono portate in pro-cessione fra le tende, prima, e lasciate esposte poi al ludibrio della gente, ormai stanca

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della ribellione che così si difende dai razziatori del suo bestiame, e così risponde al continuo prepotere dei dissidenti. Le nostre Autorità di Governo assistono e aiutano queste iniziative dei sottomessi e poiché l’indigeno che si rende colpevole di conni-venza coi ribelli viene denunciato e punito con la morte, così a chi porta la testa di un ribelle, e il suo fucile, viene corrisposto un premio in denaro contante95.

Un voyerismo crudele e macabro, quello di Sandri, che osserva con compiacimento lo stato di disgregazione raggiunto dalla società libica. Gli uomini di Omar al-Mukhtar però continuano a resistere strenuamente. Si procede allora alla deportazione dell’intera popolazione libica del Gebel che viene internata nei campi di concentramento costruiti lungo la costa. L’operazione, che interessa circa centomila beduini seminomadi, si risolve nello sterminio di alcune decine di migliaia di libici e nel dissesto demo-grafico ed ecologico di un’intera regione96. Data l’enormità della vicenda, si levano rapide le proteste prima della stampa araba poi quelle dell’opi-nione pubblica occidentale. In Italia però quasi non se ne parla, il regime ha deciso che la riconquista non è un tema di propaganda nazionale97. Al massimo si può trovare qualche giornalista che, dopo avere visitato i cam-pi, sintetizza il tutto mascherandolo dietro una metafora medica, con la «spietata diagnosi di Graziani» sui ribelli e l’operazione «d’alta chirurgia» coloniale messa in atto per sconfiggerli98. Il discorso cambia se scendiamo dal livello della stampa nazionale a quello della stampa locale. Gli italiani che vivono in Cirenaica sanno dei campi di concentramento perché – lo dice pubblicamente Graziani – «sono vicini e tutti possono recarsi a ve-derli: è uno spettacolo di triste, pietoso abbrutimento»99. Il giornale locale non può ignorare la situazione, pena la totale perdita di credibilità. «La Cirenaica» si mobilita dunque per rispondere colpo su colpo alle accuse di atrocità che giungono dall’estero e per giustificare i lager. Tra il maggio del 1930 e il dicembre 1933 possiamo contare circa 40 articoli in cui è presente almeno un riferimento ai campi di concentramento e/o allo spo-stamento coatto della popolazione beduina (quasi uno al mese di media). Scegliamo un passo dove Tuninetti combina la replica alle critiche prove-nienti dagli ambienti coloniali francesi ad un’immagine dei campi come strumento tattico necessario a separare i ribelli in armi dalle popolazioni civili che li sostengono materialmente e moralmente:

Ora un certo B. D. […] su la «Dèpêche Coloniale» invoca l’intervento della Socie-tà delle Nazioni in favore dei poveri beduini oppressi dalla crudele politica pratica-

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ta dall’Italia in Cirenaica […]. Ma dove l’umanità salta fuori – quella teorica, ben s’intende […] – è la dove si dice che il provvedimento attuato è contrario al diritto delle genti, è odioso e riprovevole e viene messo in parallelo con gli ultimi campi di concentramento dell’ultima guerra europea, a quelli creati dalla Spagna all’epoca della ribellione di Cuba e a quelli stabiliti dagli inglesi nel corso della guerra anglo-boera […]. Beata ingenuità […]. Stabiliamo anzitutto che i concentrati durante la guerra erano uomini, bianchi, civili, abituati ad un determinato tenore di vita, abitanti in una casa, soggetti a leggi morali e a leggi giuridiche. Nel caso nostro si tratta invece di beduini, predoni per istinto, nomadi per abitudine, anarchici per temperamento, senza casa né legge, neppure sottoposti alle disposizioni ed alle autorità sciaraitiche che sono poi le più primordiali e patriarcali […]. Un certo numero di popolazioni, abitan-do le regioni battute dai ribelli, vengono a subire direttamente od indirettamente, le conseguenze negative e dannose della ribellione stessa, o restando vittime delle razzie e delle depredazioni, o pagando di persona solidalmente […] le spese penali derivanti dalle condizioni anormali della loro vita, condizioni realizzabili anche soltanto per la coesistenza, peggio ancora per la connivenza, di sottomessi e ribelli nello stesso terri-torio. Allontanandoli, quindi, si serve la causa dell’umanità molto più e molto meglio che non lasciandoli dove si trovano100.

Catturato e giustiziato Omar al-Mukhtar (settembre 1931), sconfitta la resistenza (gennaio 1932), ci si aspetterebbe uno smantellamento dei campi, che invece restano per timore di una recrudescenza della ribellione anti-italiana101. Non potendo più ricorrere alla scusa delle esigenze militari, «La Cirenaica» risponde al coro di proteste internazionali prima tirando in ballo i progetti di ingegneria sociale del fascismo, tesi a fare dei nomadi una schiera di coloni sedentari; poi – quando i vertici stessi del regime ammettono a mezza bocca il bluff del «beduino della montagna che si è tra-sformato in un agricoltore»102 – si torna ad una lettura delle deportazioni improntata alla Realpolitik: i nomadi, «nemici e distruttori dell’agricoltu-ra», sono stati sgombrati dal Gebel per far spazio a «migliaia e migliaia di braccia italiche» (sono nell’aria i progetti fascisti di colonizzazione demo-grafica della Libia)103. L’immagine del «laboratorio sociale» non scompare dal giornale, viene solo trasferita dai lager ai «campi ragazzi», dove i giovani orfani – soprattutto figli dei caduti al servizio di Omar al-Mukhtar – ven-gono preparati per la futura leva nei battaglioni libici104.

Con la «normalizzazione etnica» della colonia cambia anche il volto de «La Cirenaica». All’inizio del 1932, il processo di modernizzazione del giornale rallenta. Se nel 1931 Tuninetti ha puntato sull’incremento e l’ar-ricchimento delle pagine, a partire dall’anno successivo si assiste invece a

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un progressivo svuotamento del quotidiano sul piano dei contenuti. Molti argomenti vengono dirottati sui nuovi periodici fondati e diretti dal fede-rale. L’approfondimento delle questioni coloniali, gli articoli di taglio sto-rico sulla Cirenaica e l’intrattenimento letterario diventano l’asse portante del quindicinale «La Cirenaica Illustrata» (a. 1, n. 1 marzo 1932)105. Nel gennaio del 1933 scompare dal quotidiano l’inserto sportivo, sostituito dal settimanale «Cirenaica Sportiva»106. A luglio è la volta delle notizie econo-miche, trasferite su «Cirenaica economica», bollettino ufficiale della came-ra di commercio, industria e agricoltura di Bengasi. L’«esternalizzazione» dei contenuti più dinamici e caratteristici verso le nuove riviste arricchi-sce il panorama editoriale di Bengasi, ma impoverisce «La Cirenaica», in cui emergono i segni dell’incipiente omologazione al grigiore delle tante «Vedette fasciste» italiane107. Intanto è cambiato anche il direttore: partito Sandri (marzo 1933) arriva Carlo Milanese108. Ma le decisioni che con-tano continua a prenderle Tuninetti. Appare infatti abbastanza chiara la scelta del federale di puntare sulle riviste per penetrare nei gusti del lettori bengasini. Del resto – come afferma Tuninetti – non è più «La Cirenaica», bensì «La Cirenaica Illustrata» a possedere un «carattere squisitamente co-loniale sotto l’aspetto etnico, culturale, economico»109. E se il quotidiano tira avanti «tra sforzi e difficoltà non lievi», la rivista invece «va sempre più affermandosi tra la popolazione metropolitana della colonia»110. Bandite le polemiche, bandite le immagini, ridotta all’osso la cronaca nera, scompar-se – con la conclusione della riconquista – le poche notizie emozionanti o delicate: non è difficile credere che il quotidiano faticasse a suscitare l’inte-resse del grosso pubblico.

Se il processo di appiattimento editoriale del giornale non deve stupire più di tanto, date le coeve richieste di Mussolini ai gerarchi per un disci-plinamento dello stampa e un suo ulteriore accentramento direttivo111, la stessa cosa non si può dire dell’incapacità della testata a realizzare quel salto tecnico che le permettesse una copertura giornalistica capillare delle varie località della Cirenaica, sia in termini di corrispondenti sia di distribuzio-ne. Nonostante l’apertura delle vie di comunicazione interne, conseguente alla fine dello stato di ribellione, il giornale giunge con regolarità solo nelle località toccate dalla ferrovia (Barce e Soluch)112.

Siamo alla fine del 1933, una stagione si chiude (quella della conquista militare) e se ne apre una nuova, legata al nome di Balbo e al tentativo di messa in valore della colonia. Anche nel settore della stampa bengasina ini-

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ziò una nuova fase?113 Chi furono i protagonisti? Con quale progressione il quotidiano passò dal «regno della noia» al «tempo del delirio»114? E ancora, quale ruolo svolsero le iniziative editoriali lanciate da Tuninetti tra il 1932 e il 1933? Sono solo alcuni degli interrogativi che lo studio della stampa pubblicata in Libia negli anni di Balbo è chiamato a sciogliere, contestua-lizzandoli nel quadro più generale del problema storiografico riguardante la modernizzazione della colonia dopo il 1933.

Prime conclusioni

In questa sede ci siamo limitati ad un quadro sintetico della storia e del-le caratteristiche del quotidiano italiano stampato a Bengasi tra il 1926 e il 1933. Serviranno molti altri approfondimenti e confronti. Anche in sede di conclusioni ci soffermeremo solo su alcuni punti, miranti a sottolineare, su più livelli storiografici, le potenzialità della stampa edita in colonia.

1. La stampa italiana nel Ventennio. La storia dei giornali pubblicati nelle colonie consente innanzitutto di precisare e articolare il discorso sul processo di fascistizzazione della stampa italiana e su quello di centralizza-zione della stampa di partito.

2. La politica coloniale del regime fascista. La strada per colmare la lacuna sulle fonti edite riguardanti la «riconquista» della Libia passa proprio dai quotidiani locali, che non poterono far a meno di dedicare all’argomento la necessaria attenzione. Si può così sottolineare il carattere militare del co-lonialismo fascista (nonché il carattere fascista di quella guerra coloniale), mantenendo al tempo stesso una prospettiva internazionale, globale dell’e-vento, che – già presente nei protagonisti dell’epoca, come dimostrano le reazioni del giornale alle critiche provenienti dalla stampa straniera – non può essere ignorata a favore di una lettura delle operazioni militari solo come episodio locale, di storia italiana e libica.

3. Il fascismo in colonia. Lo studio del giornale di Bengasi conferma che la storia della Cirenaica fascista è la storia del fascismo negli anni venti e trenta, e fornisce numerose informazioni – spesso di propaganda, ma non trascurabili – sul progetto di trasformazione totalitaria dell’oltremare ita-liano: di cui è possibile individuare le fasi progressive, con la vicenda dei fasci libici quale «laboratorio» di un tentativo di assalto del Pnf alla società coloniale; tentativo poi radicalizzatosi nell’Impero.

4. L’internamento coloniale italiano. In questo ambito – ormai supe-

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rata la fase del disvelamento di verità storiche taciute e della critica alle amnesie autoassolutorie degli italiani ‘brava gente’ – la vera sfida è rappre-sentata dall’analisi delle modalità attraverso cui la politica concentrazio-naria coloniale italiana contribuì a sedimentare prassi, modelli discorsivi e comportamenti nel campo del controllo sociale all’interno di un regime tendenzialmente totalitario, quale fu quello fascista. In tale ottica il quoti-diano di Bengasi presenta una duplice utilità: in primo luogo affronta una pagina coloniale che a livello di discorso pubblico nazionale fu oscurata dal fascismo, mostrando quindi che non ci fu un silenzio assoluto intorno all’internamento coloniale italiano in Libia; in secondo luogo dalle pagine del giornale emerge un discorso propagandistico moderno, che si dimostra altamente produttivo in quanto riarticola continuamente la narrazione sui campi di concentramento della Cirenaica, giustificandoli non più (o me-glio non solo) attraverso immagini tradizionali (il campo come prigione dei nemici) bensì associando i lager all’idea di un progetto – tanto violento quanto radicale – di profonda trasformazione sociale e culturale dei sudditi coloniali libici.

5. Microstoria. Tutto questo senza dimenticare l’utilità della nostra fon-te in una prospettiva di storia locale, tesa a far emergere le figure di sfondo nel grande affresco della riconquista fascista della Libia. Parafrasando un celebre romanzo possiamo dire che al centro dell’affresco troviamo Mus-solini, Badoglio, Graziani, i colonnelli e i gerarchi fascisti. Ai margini, le figure meno visibili, che fanno capolino dietro il palco delle autorità, ma che in realtà reggono l’intera geometria del quadro, lo riempiono, e in modo discreto, quasi invisibile, consentono a quelle autorità di occuparne il centro. È con tale immagine in mente che bisogna procedere allo spoglio minuzioso dei giornali pubblicati in colonia, per recuperare alla storia i dettagli riguardanti le vicende di individui rimasti finora nell’ombra, come nel caso di Giuliana Civinini.

I documenti d’archivio e la memorialistica rimangono le fonti princi-pali per la ricostruzione del colonialismo italiano durante il fascismo, ma nessuno studio potrà dirsi completo se non terrà in debito conto la stampa edita in colonia.

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Note al testo

* Il presente saggio è un primo prodotto della mia tesi di Laurea Magistrale in Documentazione e ricerca storica, intitolata «Vivere e morire in colonia. Politica e società nelle pagine del quotidiano italiano di Bengasi (1927-1933)», relatore Nicola Labanca, Università degli studi di Siena, Facol-tà di Lettere e Filosofia, a. a. 2009-2010.

1 Si intendono i quotidiani e le altre pubblicazioni periodiche appartenenti a ras, pubblicisti fascisti o messe in piedi dalle federazioni provinciali del Pnf: insomma la stampa di partito, da distinguersi dalla stampa di regime. Per una ricognizione bibliografica rimandiamo a Mauro Forno, La stampa del Ventennio. Strutture e trasformazioni nello stato totalitario, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, p. X, n. 6; Id., Aspetti dell’esperienza totalitaria fascista. Limiti e contrad-dizioni nella gestione del «Quarto potere», in «Studi storici», n. 3, XLVII (2006), pp. 781-782, nn. 1-2.

2 Mario Isnenghi, L’Italia del fascio, Giunti, Firenze1996, pp. 138-139. 3 Ci riferiamo allo studio di Paolo Murialdi [La stampa quotidiana del regime fascista, in La

stampa italiana nell’età fascista, a cura di Nicola Tranfaglia, Paolo Murialdi, Massimo Legnani, Laterza, Roma-Bari 1980; poi in La stampa del regime fascista, Laterza, Roma-Bari 1986] e ai saggi di M. Isnenghi pubblicati tra il 1979 e il 1987, ora raccolti in L’Italia del fascio cit.

4 I lavori fondamentali sulla Libia italiana sono: Enzo Santarelli et al., Omar Al-Mukhtar e la riconquista fascista della Libia, Marzorati, Milano 1981; Angelo Del Boca, Gli italiani in Libia, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 1986-1988; Le guerre coloniali del fascismo, a cura di A. Del Boca, Laterza, Roma-Bari 1991; Nicola Labanca, Oltremare, il Mulino, Bologna 2002; per la Cirenaica nello specifico si veda anche Edward Evans-Pritchard, The Sanusi of Cyrenaica, Claredon Press, Oxford 1949 [trad. it. Colonialismo e resistenza religiosa nell’Africa settentrio-nale. I Senussi di Cirenaica, Edizioni del Prisma, Catania1979]; per una bibliografia recente sulla Libia rimando a N. Labanca - Pierluigi Venuta, Bibliografia della Libia coloniale. 1911-2000, Olschki, Firenze 2004.

5 Vedi supra.6 Prendiamo Federico Cresti, Il professore e il generale. La polemica tra Carlo Alfonso Nallino e

Rodolfo Graziani sulla Senussia e su altre questioni libiche, in «Studi storici», n. 4, XLV (2004), p. 1127: qui Cresti fa riferimento ad una lettera pubblicata sul giornale bengasino il 14 no-vembre 1930, e afferma che è tratta da «La Cirenaica Nuova», storpiando il titolo della testata. Il secondo caso riguarda Luigi Goglia, Sulle organizzazione fasciste indigene nelle colonie afri-cane d’Italia, in Fascismo e franchismo. Relazioni, immagini, rappresentazioni, a cura di G. De Febo - R. Moro Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 173-212. Affrontando la questione dell’esclusione della gioventù libica dall’Onb, Goglia cita il seguente articolo de «La Cirenaica» Il Fascio Giovanile di combattimento curerà l’educazione fisica dei giovani libici, 12 marzo 1931. Mussolini bocciò sia l’iniziativa che l’articolo e impose al giornale il silenzio su questo argo-mento. Diktat che – secondo Goglia – sarebbe stato tempestivamente recepito dal quotidiano. In realtà il foglio bengasino ritornò sulla questione in altre due occasioni: L’Assemblea del Fascio Giovanile di Combattimento, «La Cirenaica», 9 aprile 1931; Ali Nuruddin el Anesi, I giovani libici, «La Cirenaica», 28 maggio 1931.

7 M. Venturini, Controcànone. Per una cartografia della scrittura coloniale e postcoloniale italiana, Roma, Aracne, 2010. A p. 19 si parla di Sandro Sandri «direttore de “La Cirenaica” – rivista che nasce a Bengasi nel 1929 e di cui Sandri sarà direttore fino al 1° aprile del 1933 [corsivo no-stro]»: sbagliando sia la qualifica del giornale che il riferimento cronologico ad quem. Il volume nasce nel contesto del Progetto di Ricerca Prin, Colonialismo italiano: letteratura e giornalismo, finalizzato a reperire, catalogare e inquadrare gli scritti giornalistici e i libri dedicati alle vicende

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della politica coloniale italiana dal 1870 fino alla fase postcoloniale (www.italiacoloniale.it). È paradossale che in sede di selezione delle fonti non sia stato scelto nemmeno uno dei quotidiani o dei periodici italiani editi in colonia.

8 N. Labanca, New Sources on Fascist Colonial Camps in Cyrenaica 1930-1933, paper inedito presentato al workshop «Colonial Camps in the History of Concentration Camps», Siena, 20-21 ottobre 2008.

9 N. Labanca, Politica e amministrazione coloniali dal 1922 al 1934, in E. Collotti Fascismo e politica di potenza. Politica estera 1922-1939, (con la collaborazione di N. Labanca e Teodoro Sala, La Nuova Italia, Firenze 2000, pp. 94-102.

10 Nato a Bobbio (PC) nel 1888, già corrispondente dalla Libia nel 1911 per il «Secolo» di Mi-lano, nell’agosto del 1918 lo troviamo a Derna come tenente dell’esercito. Sandro Sandri, La morte di Gian Luigi Olmi, «La Cirenaica», 25 settembre 1930; A. Del Boca, Gli italiani in Libia, I, cit., p. 412.

11 «Fu deputato al Parlamento Cirenaico, al quale non credeva, e nel quale tenne alto il nome dell’Italia dominatrice tra quella policromia di indigeni in barracano ai quali, per una singolare ironia, era allora concesso niente meno che legiferare». S. Sandri, La morte di Gian Luigi Olmi cit.

12 Di Olmi sappiamo che collaborò «con una serie di giornali fascisti in Italia». A. Del Boca, Gli italiani in Libia, I, cit., p. 439.

13 N. Labanca, Oltremare cit. p. 140.14 S. Sandri, La morte di Gian Luigi Olmi cit.15 N. Labanca, Politica e amministrazione coloniali dal 1922 al 1934 cit., p. 121.16 P. Murialdi, La stampa del regime cit., p. 24; M. Forno, La stampa del Ventennio cit., p. 35.17 E. Collotti, Fascismo e politica di potenza cit., p. 145. La vicenda dei fasci coloniali trova un

primo inquadramento in N. Labanca, I Fasci nelle colonie italiane, in Il fascismo e gli emigrati, a cura di E. Franzina-M.Sanfilippo, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 85-100.

18 «[…] il giornale tardava ad uscire per ragioni varie»: Guido Battaglini, Cirenaica Nuova, in «Cirenaica Nuova», 2 dicembre 1926. Il foglio viene fondato dalla «Società Anonima Cirenaica Nuova» (150 mila lire di capitale). Gino Pacchiani, presidente del fascio di Bengasi, è a capo del consiglio di amministrazione. Tra i consiglieri figurano i nomi di alcuni imprenditori locali con interessi nell’industria edile, nel commercio e nell’editoria: Andrea Fontana, Giuseppe Martelli, Gaetano Iannacci, Arturo Pavone. Comunicato, «Cirenaica Nuova», 2 dicembre 1926.

19 Comunicato cit.20 Di lui sappiamo solo che era di origini abruzzesi, «tratto della Majella». Spigolature, «Cirenaica

Nuova»,17 dicembre 1926. Nel 1935 troviamo un ten. col. Guido Battaglini in Eritrea impe-gnato nelle operazioni preparatorie all’invasione dell’Etiopia (Guido Battaglini, Con S. E. De Bono nel turbinio di una preparazione, A. Airoldi, 1938).

21 G. Battaglini, Cirenaica Nuova cit.22 Ibid.23 Alla morte di Olmi (settembre 1930) si menzionerà «il primo giornale della Colonia, quel

battagliero “Corriere della Cirenaica” che tutti ricordano», definendo il suo direttore «degno esponente di quel giornalismo italiano da cui erano emersi Luigi Federzoni, Corrado Zoli, Lui- gi Barzini e Guelfo Civinini». S. Sandri, La morte di Gian Luigi Olmi cit. Uno degli azionisti di «Cirenaica Nuova», Andrea Fontana, era l’industriale edile locale più importante e aveva

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fondato la sua ditta di costruzioni nel 1919. L’impresa Ing. A. Fontana e C. solennizza il decen-nale della sua costituzione, «Cirenaica Nuova», 15 giugno 1929.

24 Collaborazione, «Cirenaica Nuova», 10 dicembre1926.25 «Alletterò, alimenterò la critica onesta, costruttiva, viva, feconda ma […] non la cosiddetta

critica sterile, negatoria, distruttrice. Ed in questo ordine di cose “Cirenaica Nuova” diventerà ortodosso per eccellenza più fascista dei giornali fascisti e farà si che il Fascismo eserciti la critica sul suo stesso corpo nei momenti più tempestosi, anzi soprattutto in questi». G. Battaglini, Cirenaica Nuova cit. Sulla posizione di Bottai in merito al ruolo della stampa nel regime, P. Murialdi, La stampa del regime cit., p. 33.

26 Collaborazione cit.27 «Non abbiamo altro da fare che chiedere nuovamente agli organi statali, parastatali al privato,

a tutti insomma, di collaborare con noi»: [Comunicato redazionale], «Cirenaica Nuova», 18 dicembre 1926.

28 Spigolature cit. Pochi giorni dopo la redazione denuncia un presunto tentativo di sabotaggio ai danni della linotype, operato da ignoti. Ci si dice pronti «a tirar fuori le buone maniere e i vec-chi attrezzi», con evidente richiamo al manganello e all’olio di ricino. Sabotaggio?, «Cirenaica Nuova», 21 dicembre 1926.

29 Quanti fossero i lettori è difficile dirlo con certezza. Da calcoli approssimativi, basati sul dato degli abbonati, otteniamo circa 500 copie al giorno vendute, corrispondenti a quella fascia di pubblico rappresentata dai fascisti e da altri «obbligati locali». I nostri abbonati, «Cirenaica Nuova», 4 dicembre 1926; I nostri abbonati, «Cirenaica Nuova», 5 dicembre 1926; I nostri abbonati, «Cirenaica Nuova», 8 dicembre 1926. Per un confronto con la tiratura e le carat-teristiche delle testate fasciste di provincia, M. Isnenghi, L’Italia del fascio cit., pp. 266-268.

30 Motivi. Quali e quante associazioni esistono a Bengasi, «Cirenaica Nuova», 7 dicembre 1926; Commissione annonaria, «Cirenaica Nuova», 10 dicembre 1926; G. Battaglini, In giro per la Colonia, «Cirenaica Nuova», 30 gennaio 1927.

31 La vicenda si conclude con l’espulsione di quattro fascisti dal partito. Provvedimenti disciplina-ri, «Cirenaica Nuova», 11 gennaio 1927.

32 E. Collotti, Fascismo e politica di potenza cit., pp. 144, 149. Altre ricerche diranno se è esatta l’impressione di un Battaglini intento a costruirsi uno spazio, se non proprio di potere locale, quantomeno di «autonoma visibilità politica», secondo modalità simili a quelle del rassismo metropolitano. S. Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Donzelli, Roma 2000, pp. 263-272.

33 S. Lupo, Il fascismo cit., pp. 3, 242-252; P. Murialdi, La stampa del regime cit., pp. 24-31.34 P. Murialdi, La stampa del regime cit., p. 61.35 La ricostruzione del Direttorio del Fascio di Bengasi, «Cirenaica Nuova», 3 febbraio 1927. Bat-

taglini viene pro forma promosso direttore del Laboratorio Chimico, e nella sostanza rimosso, scomparendo dalla scena politica locale. Lascerà la colonia dopo pochi mesi. I risultati delle ispezioni alle farmacie, «Cirenaica Nuova», 7 agosto 1927; La partenza del Dottor Battaglini, «Cirenaica Nuova», 3 settembre 1927.

36 Nato a Premeno (VB) nel 1877 da una famiglia di ricchi imprenditori tessili, milanese di adozione, avvocato, giornalista, campione nazionale di tennis, scrittore. Durante il periodo da factotum del Vate (1902-1922) Antongini frequenta l’alta società della Belle Époque e gioca all’editore. Volontario di guerra dal luglio del 1916, poi legionario di Fiume, approda a Bengasi in una fase di raffreddamento del suo sodalizio con D’Annunzio (1922-1927). Recentemente, le frammentarie informazioni su Antongini sono state raccolte in un volume a carattere divul-

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gativo: F. Ruga, L’ultimo dei filibustieri. Tom Antongini e il Lago Maggiore, Compagnia della Rocca, Oleggio Castello (NO) 2007. Va rilevata un’elusività di fondo sul periodo trascorso da Antongini in Cirenaica, nonché sul suo passato fascista. Lui stesso, tracciando il proprio cur-riculum vitae ne I codicilli di mio zio Gustavo (Mondadori, 1954), si limita a dire che fu «alto funzionario coloniale per due anni».

37 F. Ruga, L’ultimo dei filibustieri cit., p. 17.38 P. Murialdi, La stampa del regime cit., p. 29.39 All’epoca è Seniore della MVSN e fa parte, in qualità di giudice, del Tribunale speciale della

Cirenaica (istituito nel 1926 sul modello nazionale del Tribunale speciale per la difesa dello sta-to). La prima udienza del Tribunale Speciale in Cirenaica, «Cirenaica Nuova», 5 ottobre 1927. L’essere stato ingranaggio della principale macchina repressiva costruita dal regime fascista è un dato taciuto dallo stesso Antongini, che già sul finire degli anni cinquanta ridimensionava il suo passato in camicia nera, autorappresentandosi come uomo mai interessatosi alla politica, e che aveva rigettato il fascismo al momento della dichiarazione di guerra alla Francia (quindi erano state accettabili l’aggressione all’Etiopia, le leggi razziali e la guerra di Spagna?). Cfr. F. Ruga, L’ultimo dei filibustieri cit., pp. 46-47.

40 M. Isnenghi, L’Italia del fascio cit., p. 270.41 L’inaugurazione dei Campi di Tennis dell’ex «Circolo Sportivo», «Cirenaica Nuova», 20 settembre

1927; Domeniche bengasine, «Cirenaica Nuova», 25 settembre 1927; La via dei baci, «Cirenaica Nuova», 9 ottobre 1927; Il Carnevale a Bengasi, in «Cirenaica Nuova», 21 febbraio 1928.

42 Malombra, «Cirenaica Nuova», 5 giugno 1927; Femmina dagli occhi verdi, «Cirenaica Nuova», 3 luglio 1927; Il delitto di Bianca, «Cirenaica Nuova», 18 settembre 1927; Lucietta, «Cirenaica Nuova», 13 novembre 1927.

43 Wanda Bruschi, La donna fascista, «Cirenaica Nuova», 6 aprile 1927; Ead., Il problema fem-minile, «Cirenaica Nuova», 24 agosto 1927. Su Wanda Bruschi, giornalista de «La Gazzetta di Puglia» e alta dirigente dei fasci femminili, Victoria De Grazia, Le donne nel regime fascista, Marsilio, Venezia 1997 [1992], pp. 262, 269, 344, 352; Perry R. Wilson, Peasant Women and Politics in Fascist Italy. The Massaie Rurali section of the PNF, Routledge, London 2002, p. 201.

44 Nato il 6 settembre 1903, impiegato, iscritto ai Fasci dal 30 aprile 1921, squadrista, prende parte alla marcia su Roma. Nell’ottobre 1928 lascia Bengasi per ricoprire «importanti incari-chi» alla federazione di Como, di cui sarà capo tra il 31 marzo 1940 e il 22 settembre 1941. La Colonia Alpina Balilla della Cirenaica, «Cirenaica Nuova», 5 luglio 1928; Il collega Carlo Ferrario lascia la Cirenaica, «Cirenaica Nuova», 21 ottobre 1928; Mario Missori, Gerarchi e statuti del P.N.F. Gran Consiglio, Direttorio nazionale, federazioni provinciali: quadri e biografie, Bonacci, Roma 1986, p. 206.

45 La redazione si presenta come «un gruppetto di stanze, comunicanti fra loro, arredate mode-stamente – alcuni tavoli ricoperti di tappeti blu e verdi, poche sedie, due o tre scaffali, le pareti tappezzate di carte geografiche e di golose immagini di gole d’oro, dive dello schermo, divette del charleston, principesse straniere (colli di cigno, spalle ignude […], bocche rosse come lo spasimo) – […] in ognuna di queste stanze ci sono, naturalmente, i ferri del mestiere». Giu-seppe Muttoni, Il covo di via Zaura, «Cirenaica Nuova», 4 dicembre 1927; Annuario della stampa italiana ed europea (1927-28), a cura del Sindacato Nazionale Fascista Dei Giornalisti Milano, 1928.

46 Evidenti i contatti di Teruzzi con l’area lecchese: Il vibrante discorso di S. E. Teruzzi a Lecco in occasione della Giornata Coloniale, «Cirenaica Nuova», 9 giugno 1928; Le entusiastiche acco-glienze della Valsassina a S. E. Teruzzi, «Cirenaica Nuova», 25 settembre 1928.

47 Atti della Delegazione del P.N.F. in Cirenaica, «Cirenaica Nuova», 11 ottobre 1927. Tra febbraio

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e marzo del 1928 scendono a Bengasi anche i fascisti milanesi della colonia agricola di Tocra. Il gruppo è guidato da «autentici “squadristi” delle vecchie, sante, sanguinose battaglie milanesi», come Gianni Brambillaschi (volontario di guerra, ex ardito e legionario fiumano) e Alfredo Banfi (ex combattente, fascista dal 1919, membro fondatore del fascio di Milano). Fascisti Milanesi a Bengasi, «Cirenaica Nuova», 17 marzo 1928.

48 Nato a Milano il 3 settembre 1892, ex combattente volontario, iscritto ai Fasci l’8 aprile 1921, «[…] “camicia nera” della più aspra vigilia, […] il Comm. Zamboni è Consigliere dell’Istituto di Credito delle Cooperative di Milano e vice Presidente di un’importante Società Milanese e fu Amministratore delegato di diverse società Industriali e Commerciali della Lombardia. Già consigliere dell’Unione Cooperativa di Milano fu il fondatore, o meglio, il creatore e l’animatore del movimento cooperativo Fascista, al fianco dell’On. Postiglione e del Comm. Civelli, movimento che diresse sino al 1926». S.S., Il nuovo Presidente alla Cassa di Risparmio, «Cirenaica Nuova», 2 giugno 1929; M. Missori, Gerarchi e statuti del P. N. F. cit., p. 290.

49 «È stato dal Duce scelto come direttore della ‘Patria degli Italiani’, il più grande quotidiano in lingua italiana del Sud America». La partenza del Comm. Antongini, «Cirenaica Nuova», 4 marzo 1928. Il 21 luglio è di nuovo in Italia, per l’esattezza al Vittoriale. Il rapporto con D’An-nunzio è stato ricucito, e il vecchio amico – intercedendo presso Mussolini – lo aiuta a trovare una sistemazione all’Istituto Internazionale di cinematografia educativa, fondato a Roma il 5 novembre 1928. F. Ruga, L’ultimo dei filibustieri cit., pp. 28-29.

50 Cfr. Il nuovo direttore di «Cirenaica Nuova», «Cirenaica Nuova», 29 marzo 1928; M. Isnenghi, L’Italia del fascio cit., p. 275; P. Murialdi, La stampa del regime cit., pp. 28-29.

51 Cfr. Il nuovo direttore di «Cirenaica Nuova» cit.; P. Murialdi, La stampa del regime cit., p. 43.52 Così lo ricorda nelle sue memorie la figlia, Anita Sandri. N. Labanca, Posti al sole. Diari e

memorie di vita e di lavoro delle colonie d’Africa, Museo Storico Italiano della Guerra, Rovereto (TN) 2001, p. 235. Altre notizie biografiche, ma inserite in un contesto apologetico in Mario Bassi, Vivere pericolosamente. Sandro Sandri: uomo e gesta, Garzanti, Milano 1940.

53 Federazione dei Fasci della Cirenaica, «Cirenaica Nuova», 7 giugno 1928.54 [Comunicato redazionale], «Cirenaica Nuova», 1 aprile 1928.55 S. Sandri, Motivi di cronaca, «Cirenaica Nuova», 8 settembre 1928.56 Due esempi: 1) L’arresto di un libico per possesso e vendita di sostanza stupefacente (hashish).

2) L’abbandono, sulla spiaggia di Bengasi, di «un feto di sesso maschile di razza europeo in stato di putrefazione», caso rubricato alla voce «infanticidio» ad opera di ignoti. Vendeva stupefacente, «Cirenaica Nuova», 31 dic. 1926; Infanticidio, «Cirenaica Nuova», 9 ottobre 1927.

57 Sulla cronaca nera come «chiodo fisso» delle disposizioni del duce alla stampa, P. Murialdi, La stampa del regime cit., pp. 53-57, 104-109; Philip. V. Cannistraro, La fabbrica del con-senso. Fascismo e mass media, Laterza, Roma-Bari 1986, pp. 86-88; M. Forno, La stampa del Ventennio cit., p. 125-128.

58 Riportiamo un brano relativo al periodo luglio-agosto 1928. La scena descritta è successiva all’assalto notturno compiuto dai mugiahidin ai danni di una ridotta dove Sandri stava per-nottando: «L’alba sorgente illuminò i cadaveri dei ribelli uccisi a pochi passi dalle feritoie del ridotto, dentro la cerchia dei reticolati divelti. Lo scrivente fotografò i cinque cadaveri insan-guinati, e un sesto ribelle moribondo fu trovato impigliato nei reticolati e spirò dopo qualche ora. Morì mentre lo si interrogava. Ricorderò a lungo quel moribondo insanguinato da una vasta ferita all’addome che si contorceva negli spasimi dell’agonia mentre miriadi di mosche gli sciamavano attorno nel sole». S. Sandri, Le operazioni contro i ribelli fra Sira e Maraua, «Ci-renaica Nuova», 21 agosto 1928. Sul «trattamento dei nemici morti» nel contesto delle guerre coloniali del Novecento si veda Giovanni De Luna, Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte

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nella guerra contemporanea, Einaudi, Torino 2006, pp. 83-100.59 M. Isnenghi, Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi 1848-1954, il Mulino, Bologna

2005 [1989], p. 198.60 S. Sandri, In memoria di Giuliana Civinini, «Cirenaica Nuova», 7 agosto 1928.61 Ibid.62 Ibid. Finora sapevamo soltanto che Giuliana Civinini, «anch’essa giornalista in Africa, morì

tragicamente ancor giovane» e che le fu intitolato un premio letterario per le migliori opere in prosa o in versi di argomento coloniale. http://www.finearts-blog.com/guelfo_civinini/bio-grafia.html; N. Labanca, Oltremare cit., p. 245. Giuliana era scesa in Cirenaica nel maggio 1927 insieme al padre, inviato della «Tribuna» e del «Giornale di Genova». Guelfo Civinini, I nostri ascari alla caccia dei predoni del Cuf, «Cirenaica Nuova», 18 maggio 1927. Il termine a quo del suo rientro in Italia è collocabile tra maggio e giugno del 1928. Sandri pur conoscendo le modalità del suicidio, realizzato con il ricorso ad un fucile militare, mantiene un velato riserbo su questo punto e chiude il suo articolo con un’istantanea di Giuliana, colta un attimo prima dell’estremo gesto: «[…] poi quando sapemmo tutto [i dettagli della notizia], vedemmo le sue mani brancolare sul suo moschetto del Gebel. Forse lo avrà baciato prima di morire». S. Sandri, In memoria cit.

63 I provvedimenti del Consiglio di Disciplina, «Cirenaica Nuova», 9 dicembre 1928.64 S., Il tesseramento del 1929, «Cirenaica Nuova», 22 gennaio 1929; Tutti i fascisti morosi espulsi

dal Partito, «Cirenaica Nuova», 27 febbraio 1929.65 A questi vanno aggiunti i 185 iscritti nei fasci esterni. In totale quindi i metropolitani residenti

in Cirenaica tesserati al Pnf erano 784. Gli Elenchi di coloro che hanno l’onore di appartenere al P. N. F. in: «Cirenaica Nuova», 5 giugno 1929, 7 giugno 1929, 12 giugno 1929, 14 giugno 1929, 19 giugno 1929, 6 luglio 1929, 3 agosto 1929; «Cirenaica Nuova», 30 ottobre 1929.

66 Bengasi Fascista ha celebrato con manifestazioni vibranti il Natale di Roma, «Cirenaica Nuova», 23 aprile 1929.

67 Antonio Zamboni, «Cirenaica Nuova», 12 gennaio 1929; Atti della Federazione, «Cirenaica Nuova»,15 gennaio 1929; S.S., Il nuovo Presidente alla Cassa di Risparmio cit.

68 S., Mario Carità, «Cirenaica Nuova», 16 luglio 1929.69 Il Segretario Federale parte per Roma, «Cirenaica Nuova», 22 giugno 1929; Il Segretario Federale

di Bengasi dal Capo del Governo, «Cirenaica Nuova», 7 luglio 1929; Il Comm. Antonio Zamboni ha portato ai camerati di Milano il saluto della Camicie Nere della Cirenaica, «Cirenaica Nuova», 11 luglio 1929.

70 La federazione milanese era appena uscita dal commissariamento gestito da Achille Stara-ce, spartiacque tra gli «affarismi» del federale Giampaoli e i richiami allo squadrismo del suo successore Cottini. Ivano Granata, Il Partito nazionale fascista a Milano tra «dissidentismo» e «normalizzazione» (1923-1933), in Il fascismo in Lombardia, a cura di Maria Luisa Betri, Al-berto De Bernardi, Ivano Granata, Nanda Torcellan, Franco Angeli, Milano 1989, pp. 11-50.

71 La Società Anonima «Colonia Libica di Tocra» era stata fondata nel febbraio 1928 con un investimento iniziale di 75 mila lire e aveva come presidente onorario Arnaldo Mussolini. «Il Governo della Cirenaica – si legge sul giornale – concede in sfruttamento agli agricoltori metropolitani, […] vaste plaghe di terreno, quasi gratuitamente, alla condizione che siano valorizzate entro un dato periodo che il Governo fissa volta per volta». In questo caso il terreno è esteso 1.500 ettari. Il governo locale aiuta la società agricola milanese concedendo rimborsi, compresi tra il 30 e il 70 per cento, sulle spese per i lavori edili. Il giornale prevede che i terreni della Colonia Libica di Tocra (partendo da un valore pari a zero) arriveranno rapidamente a va-

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lere da 18 a 20 mila franchi l’ettaro. Nel luglio 1929 il capitale della società è già salito a 3 mi-lioni di lire. La colonia agricola del Fascio milanese a Tocra, «Cirenaica Nuova», 21 luglio 1929.

72 Con Zamboni a capo della Cassa di Risparmio il credito agricolo segna un + 220% rispetto al 1928 (da lire 386.428 a lire 1.237.625). S.S., L’attività della Cassa di Risparmio della Cirenaica, «Cirenaica Nuova», 23 settembre 1930.

73 Atti della Federazione, «Cirenaica Nuova», 15 gennaio 1929; B., Antonio Zamboni riconfermato Segretario Federale per la Cirenaica, «Cirenaica Nuova»,15 gennaio 1930.

74 Banfi detiene azioni per un valore di 100 lire, mentre il prof. Mario Maglioni (docente presso le locali scuole medie superiori e membro del direttorio federale) è l’amministratore delegato. Presentazione. La Cirenaica, «Cirenaica Nuova», 10 ottobre 1929; D. M. Tuninetti, Nella famiglia del giornale, «Cirenaica Nuova», 24 settembre 1930; Id., Atti della Federazione Fascista, «Cirenaica Nuova», 24 settembre 1930.

75 Tutte le comunicazioni riportate nella rubrica Atti della Federazione Fascista – scrive la redazio-ne – «debbono essere considerate come fatte direttamente agli interessati». I provvedimenti del Consiglio di Disciplina, «Cirenaica Nuova», 9 dicembre 1928.

76 La Pagina del Balilla e dell’Avanguardista, «Cirenaica Nuova», 26 luglio 1929.77 Si veda «Cirenaica Nuova», 12 ottobre 1929.78 N. Labanca, Oltremare cit., p. 321.79 Bissi, La Colonia Libica del Fascio Milanese premiata nel VI Concorso della vittoria del Grano,

«Cirenaica Nuova», 23 ottobre 1929; La Colonia Libica del Fascio Milanese dopo 16 mesi di attività, «Cirenaica Nuova», 22 marzo 1930.

80 Mario Bassi, Vivere pericolosamente cit., p. 132.81 S. E. Graziani assume la Segreteria Federale dei Fasci della Cirenaica, «Cirenaica Nuova», 19

aprile 1930.82 Ibid.83 Tuninetti rimase al vertice della federazione di Bengasi fino al 31 gennaio 1937. Cfr. S., S.E.

Graziani ha insediato il Commissario Straordinario della Federazione Comm. Dante M. Tuninetti, «Cirenaica Nuova», 25 luglio 1930; M. Missori, Gerarchi e statuti del P.N.F. cit., pp. 148-151, 284; S. Lupo, Il fascismo cit., pp. 204, 306.

84 L’operazione si è resa necessaria – scrive Tuninetti – «al fine di stabilire sul quotidiano locale un diretto controllo disciplinare, politico ed amministrativo, sistemandone la parte tecnica e conferendogli un assetto stabile». Banfi, una volta ricevuta la liquidazione per la sua quota di azioni, scomparve dalla scena politica di Bengasi. D. M. Tuninetti, Nella famiglia del giornale cit.; Id., Atti della Federazione Fascista cit.

85 S. Lupo, Il fascismo cit., pp. 308-309.86 Segnaliamo il dato della «burocratizzazione» della federazione, i cui funzionari crebbero da 26

(gennaio 1930) a 38. D. M. Tuninetti, Atti della Federazione Fascista, «Cirenaica Nuova», 20 novembre 1930.

87 V. De Grazia, Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista. L’organizzazione del dopolavoro, Laterza, Roma-Bari 1981, pp. 60-67.

88 Gli inscritti all’Onb in Cirenaica passano da 860 (1° gennaio 1931) a 2.032 (27 gennaio 1932). Il magnifico incremento dell’attività svolta nell’anno IX dall’O.N.B. in Cirenaica, «Cire-naica Nuova», 2 settembre 1931; L’Opera Nazionale Balilla in Cirenaica, «Cirenaica Nuova», 27 gennaio 1932.

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89 Atti della Federazione Fascista. In via di costituzione il Fascio Femminile, «Cirenaica Nuova», 24 ottobre 1930; Le funzioni filantropiche devolute all’Ente Opere Assistenziali, «Cirenaica Nuova», 26 novembre 1931.

90 Gianpasquale Santomassimo, Iscrizione al partito in Dizionario del Fascismo I. A-K, a cura di V. De Grazia e Sergio Luzzatto, Einaudi, Torino 2003 [2002], p. 680. Il numero dei tesserati salì dell’87 per cento nel giro di soli sei mesi: nel Fascio di Bengasi si passò dai 907 iscritti dell’ottobre 1932 ai 1.700 di fine 1933. Federazione dei Fasci di Combattimento della Cirenaica, «Cirenaica Nuova», 8 novembre 1932; Il rapporto annuale dei fascisti al Teatro Berenice, «Cire-naica Nuova», 5 dicembre 1933.

91 Rispetto al 1926 gli abbonamenti privati sono quasi raddoppiati (da 40 a 75), mentre quelli della macrocategoria nella quale possiamo comprendere gli esercizi commerciali, gli enti pub-blici, le associazioni, gli istituti e gli uffici della pubblica amministrazione – cioè quei luoghi in cui il giornale inviava più di una copia – sono quasi triplicati (da 10 a 25). In mancanza di dati precisi sulla vendita al minuto (edicole e altri spacci) possiamo solo ipotizzare che all’inizio del 1930 la tiratura giornaliera fosse di 8/900 copie. Primo elenco degli abbonati al nostro giornale, «Cirenaica Nuova», 30 gennaio 1930; Secondo elenco degli abbonati al nostro giornale, «Cirenai-ca Nuova», 6 febbraio 1930.

92 Dante Maria Tuninetti, Colloquio coi lettori, «Cirenaica Nuova», 17 ottobre 1930.93 Il quotidiano avvia anche un Concorso pronostici a premi basato sui risultati del campionato di

calcio di serie A. L’impressione è che si provi a scimmiottare la «Gazzetta del Popolo», giornale torinese la cui «esperienza avrebbe condizionato la spinta al rinnovamento di molti altri gior-nali fascisti». M. Forno, La stampa del Ventennio cit., p. 132.

94 Sui campi di concentramento in Libia si vedano i seguenti lavori: Eric Salerno, Genocidio in Libia. Le atrocità nascoste dell’avventura coloniale (1911-1931), SugarCo, Milano 1979; Gusta-vo Ottolenghi, Gli italiani e il colonialismo. I campi di detenzione italiani in Africa, SugarCo, Milano 1997; N. Labanca, L’internamento coloniale italiano, in I campi di concentramento in Italia. Dall’internamento alla deportazione, 1940-1945, a cura di Costantino Di Sante, Franco Angeli, Milano 2001.

95 S., Nemico preso, nemico morto, «Cirenaica Nuova», 17 maggio 1930.96 La cifra dei civili libici morti per le condizioni create dalla repressione italiana e dalla de-

portazione nei lager oscilla intorno a quarantamila individui. G. Rochat, La repressione della resistenza in Cirenaica, in E. Santarelli et al., Omar Al-Mukhtar e la riconquista fascista della Libia cit., p. 158-159; A. Del Boca, Gli italiani in Libia, II, cit., p. 189; N. Labanca, Oltre-mare cit. p. 175.

97 G. Rochat, Le guerre coloniali in Libia e in Etiopia. Studi militari 1921-1939, Pagus, Paese (TV) 1991, p. 14.

98 Os. Felici, La «Colonia nuova», «Cirenaica Nuova», 26 giugno 1932 (ripreso dal «Giornale d’Italia»).

99 Rodolfo Graziani, Istituto Fascista di Cultura. La conferenza di S. E. il Vicegovernatore sulla situazione attuale della Cirenaica, «Cirenaica Nuova», 26 novembre 1930.

100 D. M. Tuninetti, Campo di Concentramento e S. D. N., «Cirenaica Nuova», 5 febbraio 1931.101 La liberazione di altri 129 confinati politici, «Cirenaica Nuova», 24 luglio 1932.102 Cfr. L’agonia della ribellione cirenaica, «Cirenaica Nuova»,16 dicembre 1931; Rodolfo Gra-

ziani, Il nomadismo, «Cirenaica Nuova», 10 luglio 1932.103 Rodolfo Graziani, Il nomadismo cit. Sul ricorso del pensiero totalitario a sillogismi che si

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dimostrano a vicenda per creare «sistemi immaginari» altamente coerenti, in grado di «addo-mesticare» la realtà a scopo propagandistico, si veda Simona Forti, Il totalitarismo, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 88.

104 P. Sparano, Il campo di concentramento dei fanciulli indigeni a Sidi Hamed el Magrun, «Cire-naica Nuova», 22 giugno 1933.

105 La rivista «Cirenaica Illustrata», «Cirenaica Nuova», 10 marzo 1932.106 «La Cirenaica», «Cirenaica Nuova», 29 dicembre 1932.107 M. Isnenghi, L’Italia del fascio cit., p. 281.108 Tuninetti lo presenta come una camicia nera che gli fu a fianco nel periodo delle «lotte per

l’affermazione dell’idea fascista in Piemonte». S.Sandri, Commiato, «Cirenaica Nuova», 16 marzo 1933; D.M. Tuninetti, [senza titolo], «Cirenaica Nuova», 17 maggio 1933.

109 Il rapporto annuale dei fascisti al Teatro Berenice cit.110 Ibid.111 P. Murialdi, La stampa del ventennio cit., p. 108.112 «C’è una difficoltà che noi tutti conosciamo: far giungere quotidianamente il giornale dap-

pertutto»: Le nostre corrispondenze dai centri della Colonia, «Cirenaica Nuova», 18 giugno 1933.113 Nel 1935 «La Cirenaica» cambia nome in «Scolte d’Affrica: quotidiano fascista di Libia orien-

tale».114 P. Spriano, L’informazione nell’Italia unita, in Storia d’Italia. I documenti, vol. V, a cura di

Ruggiero Romano e Corrado Vivanti, Einaudi, Torino1973, p. 1853; P. Murialdi, La stampa del regime cit., pp. 56-57, 109-111.

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«L’Avvenire di Tripoli» e la risposta alla crisi del 1929

di Gabriele Bassi

Origini e storia del giornale1

«L’Avvenire di Tripoli» nasce il 7 marzo 1928 in conseguenza alla vo-lontà di dotare la capitale della maggiore colonia italiana di un organo di informazione e di comunicazione per la cittadinanza metropolitana che risiede in Tripolitania2. L’essere l’unico quotidiano distribuito in colonia3 rappresenta assai spesso motivo di vanto per lo stesso foglio, in molteplici occasioni al suo interno si tiene a precisare l’unicità della pubblicazione. Stampata presso la Tipografia Arti e Mestieri, la testata ha sede inizialmen-te presso la Casa del Fascio e, dal luglio 1930, al primo piano dell’immo-bile della Società Anonima Fondiaria, all’interno della Galleria De Bono. Fondato dalla Società editrice fascista della Tripolitania (Seft), è sin dalle origini l’organo ufficiale della Federazione fascista della colonia. La società anonima possiede nel 1928 un capitale di 100mila lire, suddivise in azioni delle quali i tre quarti sono possedute dalla Federazione stessa. La rimanen-te quarta parte appartiene a privati iscritti al Partito fascista. Nel maggio 1929 la Federazione riscatta anche il quarto di azioni in precedenza di proprietà degli azionisti privati, diventando pertanto unica proprietaria della testata: «per l’ottima amministrazione che il giornale ha avuto è stato possibile rimborsare ai volenterosi sottoscrittori di azioni il capitale versa-to»4. Tuttavia l’acquisto di azioni da parte di privati si rileva essere stato a carattere sostanzialmente formale, in quanto avevano a suo tempo rinun-ciato alle loro quote di utili a favore della Federazione Fascista, «in modo che essi per primi avevano concorso al consolidamento della situazione patrimoniale del giornale con sacrificio delle loro spettanze».

A distanza di circa un anno, nel luglio 1930, il consiglio di ammini-strazione della Seft reputerà che non abbia significato la permanenza di una gestione «che non rappresenta [più] l’entità patrimoniale e morale del

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giornale». I precedenti membri, riunitisi in assemblea, deliberano quindi di essere dimissionari affinché venga nominato quale nuovo consiglio am-ministrativo il direttorio federale e quale presidente il segretario federale.

In questa situazione il solo azionista del giornale è la Federazione Fascista e, in sua rappresentanza, il Segretario Federale. Logicamente ne deriva che se l’unico ad avere potere direttivo, sia nell’indirizzo amministrativo che in quello politico, è il Segretario Federale, il Direttorio Federale, il quale è immediato collaboratore del Segretario Poli-tico ed esecutore ed interprete delle sue decisioni, costituisce, per il giornale federale, il Consiglio di Amministrazione.

Poiché anche in precedenza il quotidiano era controllato completa-mente dalla Federazione, dal momento della trasformazione non si nota alcun cambiamento nella composizione degli articoli e nei loro contenuti. «L’Avvenire di Tripoli» spiega però come in base alla nuova forma gestio-nale si verifichi una maggiore chiarezza di rapporti tra la Federazione ed il giornale e si elimini ogni, sia pur lieve, separazione. Un unico aspetto sembra emergere in conseguenza dell’insediamento del nuovo consiglio. Le direttive imposte dal regime vengono diffuse dal quotidiano con toni più severi ed imperativi: «ciò gioverà anche in confronto a coloro che di-menticano che il giornale è del Partito»5.

In città il giornale viene venduto presso l’Agenzia Filacchioni, all’e-dicola di fronte al Castello ed attigua alla farmacia municipale, presso la tabaccheria di Sciaria el Machina e attraverso venditori ambulanti, oltre che naturalmente alla sede della redazione. Non si accenna mai alla pre-senza di altre forme di distribuzione al di fuori dell’ambito cittadino, ad eccezione della spedizione regolare a Bengasi, dove viene venduto presso la cartoleria Fadlum. Il quotidiano non fornisce informazioni circa la tiratura ed il numero di cittadini che abitualmente acquistano e leggono il giorna-le. Ci si considera comunque piuttosto soddisfatti delle vendite sebbene un loro incremento costituisca una finalità che la redazione si propone costantemente. In alcune occasioni quest’ultima interviene direttamente indirizzando un appello ai lettori affinché non si passino le copie tra loro ma che ognuno di essi ne acquisti una propria. Oltre alla diffusione attra-verso strilloni e luoghi fissi di vendita si registrano anche degli abbonati. Negli ultimi mesi di ogni anno si insiste molto sull’opportunità da parte dei lettori abituali di contrarre l’abbonamento con il quotidiano.

«Della Tripolitania l’Avvenire di Tripoli intende essere – si dice nella

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testata stessa – lo specchio fedele attraverso la documentazione costante dei progressi della Colonia sotto tutti i punti di vista; politico, econo-mico, agricolo, turistico»6. Il quotidiano cerca di farsi carico di illustrare ogni evento di rilievo della vita cittadina e coloniale, occupandosi della trattazione di una gamma di argomenti ritenuta la più ampia possibile. Oltre all’informazione dei residenti a Tripoli e negli altri centri tripolitani, il quotidiano esprime in più occasioni la propria intenzione di proporsi co-me testimonianza dell’azione fascista svolta in colonia anche al di fuori di essa, in primo luogo in Italia. «Nelle sue pagine – si scrive sul giornale – è il quadro quotidiano dello sviluppo della Tripolitania, sviluppo progressivo e incessante. Per questo motivo «L’Avvenire di Tripoli» sarà presto ancor più conosciuto e letto in Italia e nei paesi stranieri7.

Ciò è reso possibile solo parzialmente in quanto ciò che viene pubbli-cato da «L’Avvenire di Tripoli» non conosce una sufficiente diffusione nella madrepatria. Attraverso le sue pagine il giornale esprime implicitamente un’insoddisfazione per questa presunta mancanza di eco nella penisola che mortificherebbe la sua aspirazione di essere un organo di informazione della colonia e non soltanto per la colonia. Poiché in Italia il quotidiano è venduto in due sole edicole a Roma8 e a Catania9, le uniche occasioni in cui notizie e considerazioni dei suoi giornalisti ottengono la considerazio-ne del pubblico della madrepatria sono offerte dalla citazione da parte della stampa italiana di brani tratti dal foglio tripolino. Quando ciò avviene se ne dà notizia con toni di soddisfazione e di orgoglio. La redazione è infatti convinta che il proprio giornale, «pur senza avere la pretesa di competere con le grandi aziende di stampa quotidiana, [possa] sicuramente reggere il confronto con la migliore stampa di provincia del Regno».

In quanto proprietà ed organo di informazione della Federazione fa-scista, «L’Avvenire di Tripoli» non può che dimostrare caratteri di perfetta adesione alle volontà e agli indirizzi imposti dal Partito:

L’Avvenire di Tripoli è un giornale schiettamente fascista; ed è, forse, sia detto senza retorica e senza esagerazioni, uno fra i più tipici giornali del fascismo. La ragione è evidente: l’Avvenire di Tripoli è il quotidiano più importante della più grande e della più importante delle colonie italiane, della colonia anche più vicina all’Italia.

Ogni iniziativa del governo coloniale o del locale Pnf viene proposta dal giornale con parole di forte retorica ed aggettivi finalizzati all’esalta-

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zione della positività e dell’opportunità del provvedimento. In alcuni casi, spesso inerenti decisioni interferenti con la vita degli indigeni, si mettono in atto elaborazioni atte a trasformare ogni iniziativa in una magnanima provvidenza del governo coloniale. Nella maggior parte delle occasioni la correttezza e la benevolenza del governatore è descritta come talmente evi-dente e comprensibile a tutti che non si renderebbero necessarie ulteriori delucidazioni da parte del giornale.

«L’Avvenire di Tripoli», oltre alle funzioni di informare e di illustrare la politica coloniale del fascismo, si propone infatti, quale foglio di partito, anche quella dell’amplificazione e dell’esaltazione dell’operato del Regime, sia in colonia che nella madrepatria: «il giornale è e deve essere, nella vo-lontà precisa del Duce, una bandiera e uno squillo di battaglia, espressione di vita del fascismo»10. Già nel gennaio 1929 il quotidiano dimostra la sua totale adesione alle direttive fasciste inerenti la stampa, concordando con la necessità di un controllo da parte del governo sugli articoli che i giornali intendono pubblicare.

Il Governo rammenta ai Sigg. Corrispondenti e collaboratori di periodici del Regno, che tutti gli scritti di carattere politico o militare vanno sottoposti, prima della spedi-zione, al «visto» del Gabinetto di S.E. il Governatore e tutti gli articoli di propaganda e scritti tecnici vanno presentati, per il nulla osta, all’Ufficio Studi e Propaganda.

Attraverso riferimenti ad alcuni episodi di scorrettezza o incoerenza da parte di giornalisti che non si curano delle norme imposte loro circa l’invio delle corrispondenze, «L’Avvenire di Tripoli» commenta il provve-dimento ritenendolo di indubbia necessità. «Il richiamo del Governo è più che opportuno – cerca di precisare -. Sarebbe ora, veramente, che i sordi volontari venissero messi a posto, una buona volta e per sempre, con un provvedimento ad hoc. […] Un po’ di serietà non guasterebbe. Sarebbe tempo!». Si cerca di accreditare l’immagine secondo cui il provvedimento non abbia niente a che fare con pretese di censura o restrizioni della libertà giornalistica: «dunque, funzione di controllo, per esclusivo amore di esat-tezza, vuole essere quella del Governo, non di limitazione. I corrispondenti possono scrivere quanto vogliono e come vogliono, purché si attengano alla verità, e lascino da parte la fantasia».

È soprattutto l’invenzione di particolari più o meno rilevanti che si sostiene deteriori la qualità delle notizie rendendole poco affidabili o ad-

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dirittura viziate da gravi imprecisioni. Il quotidiano riporta un esempio calzante di quanto nella madrepatria si descrivano talvolta episodi coloniali completamente distorti:

[La fantasia] non può partorire se non gagliofferie tipo quelle esilarantissime amman-nite al mondo, in questi giorni, da un giornale di Trieste che, in un’occasionale corri-spondenza tripolina, asseriva che è stata costruita da Tripoli a Gadames una stupen-da…Autostrada, la quale pur servendo a scopi…strategici (?!!) consentiva un rapido e abbondante fluire di primizie da Gadames alla costa, tra cui uva succulenta nel mese di luglio!11

«L’Avvenire di Tripoli», oltre ad aderire completamente al provvedi-mento del governo fascista, sostiene di ravvedervi anche un’opportunità per ottenere maggiore chiarezza all’interno dell’informazione coloniale.

Per incrementare le proprie vendite il giornale non si limita alle sole esortazioni nei confronti dei lettori ed alla propaganda ma dichiara di im-pegnarsi per offrire loro un servizio sempre migliore. Dal 1929 assume una impostazione tipografica ritenuta moderna e all’avanguardia per le tecni-che tipografiche e di impaginazione utilizzate. «I caratteri di testo da noi usati – si specifica sul quotidiano – sono quelli stessi che adoperano i più importanti quotidiani del mondo, dagli americani, ai francesi ai tedeschi e da poco li utilizzano anche pochi giornali italiani»12. Per mantenersi al passo con i tempi e fornire un aspetto grafico piacevole e pratico, la Fe-derazione elargisce i fondi necessari all’acquisto di macchinari di ultima generazione per la stampa e l’impaginazione del proprio quotidiano. Nel 1929, ad un solo anno dalla nascita, il giornale possiede già una forma del tutto rinnovata: «un moderno reparto di zincografia è stato acquistato in Italia ed è pronto per essere utilizzato» precisa la redazione. «La stampa sarà migliorata mediante una rotativa a nastro, sistema del quale si servono i grandi quotidiani, che ne migliorerà la veste grafica»13. Alla base dell’ac-quisto della rotativa si descrive vi sia la volontà di non stancare la vista del lettore ed al tempo stesso conferire al foglio caratteristiche di eleganza e distinzione.

Dal 1932 si dà impulso ai servizi telegrafici e radiotelegrafici che quo-tidianamente provengono da Roma, che recano al giornale dalle «notizie della giornata e i commenti della grande stampa agli atti più notevoli del Governo»14. Parallelamente all’intensificazione delle comunicazioni con l’Italia si sostiene di avere numerosi nuovi corrispondenti nelle maggiori

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città africane: Il Cairo, Alessandria, Tunisi, Algeri, Casablanca e Città del Capo. Si pone inoltre in funzione una fitta rete di contatti con località costiere e dell’interno della Tripolitania. Corrispondenti della testata si re-gistrano presso Zuara, Sabratha, Zavia, Homs, Misurata, Sirte e Gadames.

In tal modo l’Avvenire di Tripoli, validamente sorretto dalle gerarchie del governo e del partito, ha potuto e può essere l’eco dell’operosità silenziosa dei coloni e degli uffi-ciali e dei soldati che nelle località più lontane custodiscono e avvalorano il territorio tenendo alto il simbolo della patria fascista15.

Il giornale non rimane tuttavia un organo di sola influenza e di pro-paganda delle direttive fasciste. Una serie molto ampia di informazioni, resoconti, annunci economici e rubriche di vario tipo lo rendono anche uno strumento di pratica ed effettiva utilità per lo storico dei nostri giorni.

La struttura e i contenuti

La pubblicazione si compone normalmente di quattro pagine. Le edi-zioni domenicali, per le rubriche più numerose che vi sono contenute, ne richiedono due ulteriori. La prima è generalmente dedicata a notizie nazio-nali ed internazionali con argomenti inerenti la politica e la celebrazione di anniversari e ricorrenze fasciste. Raramente vi ottengono spazio notizie di cronaca italiana, vi appaiono soltanto quando ritenute di particolare gravità o di notevole risonanza. Frequentemente un articolo del direttore o di uno dei suoi più stretti collaboratori completa la normale composi-zione della prima pagina del giornale. Avvenimenti riguardanti Tripoli o la colonia vi trovano posto solo se ritenuti di grande eco o di eccezionale importanza. Essi si collocano altrimenti in seconda pagina, raccolti nella sezione Cronaca di Tripoli e, dal 1931, Cronaca di vita tripolina. È questo lo spazio dal quale il cittadino può apprendere, oltre ai principali accadimenti della giornata, informazioni pratiche utili per la vita in città. Vi compare, ad esempio, una selezionata serie di annunci economici che il quotidiano pubblica dietro relativo pagamento. Alcune ditte metropolitane che si ap-poggiano ad agenti di commercio locali, sono solite pubblicare le proprie pubblicità in questa sezione, con la finalità di ampliare il loro mercato tra la popolazione italiana tripolina, attraverso la frapposizione degli annunci alle notizie di cronaca cittadina. I comunicati degli enti e delle organiz-

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zazioni di Tripoli trovano ancora spazio in questa sezione del giornale16. Complessivamente emerge un quadro della vita associativa di Tripoli piut-tosto nitido, dal quale si apprende la vivace presenza di attività militari, ri-creative, ed informative. La costante pubblicazione e l’attenzione dedicata dal quotidiano ad annunci ed aggiornamenti di questo tipo sembra indi-care un cospicuo numero di aderenze, nella popolazione metropolitana, ad organizzazioni ed associazioni di diversa natura.

La terza pagina de «L’Avvenire di Tripoli» è solitamente dedicata ad ar-ticoli di argomenti occasionali e a rubriche fisse che completano il quadro delle attività tripoline, sia commerciali e professionali che ricreative e di in-trattenimento. I movimenti del porto sono descritti attraverso dati molto precisi che registrano gli arrivi e le partenze di piroscafi sia per il trasporto di passeggeri che per quello di merci di tutti i generi. I nominativi delle personalità di spicco che giungono a Tripoli, così come di quelle che la-sciano la città, vengono puntualmente annotati. Si riportano invece il nu-mero e la nazionalità per tutti gli altri passeggeri che transitano dallo scalo marittimo tripolino. Di ciascuna nave si riportano il nome, la destinazione o la provenienza, il numero dei passeggeri o l’entità e la qualità del carico trasportato. Frequentemente si aggiungono gli scali fatti precedentemente l’arrivo a Tripoli o quelli previsti in futuro per i piroscafi in partenza. Dalla rubrica emerge un notevole movimento sia di passeggeri che di merci dal porto tripolitano. Collegamenti regolari si hanno con i principali porti italiani, soprattutto del Tirreno e della Sicilia (Genova, Livorno, Napoli, Catania, Siracusa, Palermo, Messina), ma anche con Malta ed altre città della colonia (Misurata, Sirte, Bengasi). Oltre alle rotte nazionali si aggiun-gono le tratte per scali stranieri sia europei che africani: il Tolemaide offre il servizio Tunisi-Tripoli per passeggeri, altri piroscafi si alternano nei col-legamenti con Sfax, Gerba e Spalato. Bastimenti per il trasporto di merci di numerose nazionalità prelevano e scaricano i propri materiali nel porto tripolino provenienti da Amburgo, Marsiglia, Malta, Port Said. Trasporti non regolari sono effettuati anche da navi provenienti da Shangai e dal Giappone, che effettuano solitamente scali in Egitto prima di giungere a Tripoli. Dal 1931, probabilmente in conseguenza alla politica di promo-zione turistica avviata nella colonia, la rubrica presta maggiore attenzione al movimento dei visitatori, mettendone in evidenza la progressiva crescita. Nella descrizione di arrivi e partenze si sottolineano i numeri e le prove-nienze di stranieri e di italiani che hanno soggiornato in Tripolitania per

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motivi turistici. Nella seconda e nella terza pagina del giornale trovano poi posto numerose altre tipologie di informazioni di pubblico interesse o curiosità, tipiche di un foglio di provincia. Si dà notizia di matrimoni di personaggi noti della colonia, principalmente metropolitani ma anche israeliti e notabili indigeni. Famiglie dei defunti ringraziano per tramite del quotidiano chi ha preso parte alla cerimonia funebre. Ampie descrizioni sono dedicate agli spettacoli teatrali ed alle proiezioni cinematografiche. Il Real Teatro Miramare, il Politeama, il Cinema Alhambra pubblicizzano i loro programmi accompagnando i titoli con riassunti delle trame. Le co-municazioni circa i futuri spettacoli fatte con largo anticipo suggeriscono la volontà di creare a Tripoli una fremente attesa per l’arrivo di pellicole o attori prestigiosi. L’elenco dei concerti viene abitualmente pubblicato dal Gran Caffè Miramare, che offre repertori per lo più di musica classica, occasionalmente anche di altri generi musicali. Ma il fulcro del diverti-mento e dello svago metropolitano di alto livello è certamente il lussuoso Grand Hotel che si riserva sempre un notevole spazio sul giornale per la pubblicazione dei propri programmi di intrattenimento pomeridiani e se-rali. Spesso si citano la signorilità e la serietà dell’ambiente, tanto da far comprendere come esso si ponga al centro della vita mondana tripolina. L’ingresso non è aperto al pubblico, gli inviti si debbono richiedere presso la direzione ed alle personalità di spicco di Tripoli vengono recapitati a domicilio. Il Grand Hotel ospita complessi musicali di grande fama, or-ganizza tè pomeridiani, indice gare di ballo con cotillon al sabato, grandi feste durante il carnevale e cene di gala per le festività. Tutta una serie di periodici trattenimenti che «nei giorni di festa permettono di occupare nel miglior modo desiderabile le ore libere dalle ordinarie occupazioni»17.

Ancora per mezzo del foglio, la Federazione fascista elenca la manodo-pera disponibile presso l’ufficio di collocamento della Federazione stessa, indicando quali siano i requisiti necessari per essere idonei alla professione cui si è interessati.

Come ogni foglio locale che si rispetti, «L’Avvenire di Tripoli» informa poi i propri lettori sui turni rispettati dalle farmacie della città, indicando gli orari di apertura e l’esatta ubicazione di ogni esercizio. Le estrazioni del Regio Lotto vengono puntualmente riportate sul giornale, così come i dati relativi al bestiame macellato presso gli appositi stabilimenti cittadini ed il listino dei prezzi calmierati, costantemente aggiornato e corretto.

Nella sezione Ultime notizie e informazioni sono frequentemente con-

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tenuti brevi resoconti di avvenimenti esteri, sia politici che di cronaca, e talvolta ragguagli a notizie riportate in passato. All’interno di questo spa-zio, oltre al bollettino meteorologico, si trovano molteplici sottosezioni che mettono al corrente sui principali avvenimenti del giorno precedente: contravvenzioni, arresti, incidenti, oggetti smarriti e rinvenuti18, andamen-to dei titoli di stato e dei cambi, orari ferroviari e autotramviari. Ma anche manifesti funebri, tasse di bollo sui titoli esteri, valori del mercato del pe-sce, ecc. Per quanto riguarda gli arresti, incidenti e le contravvenzioni si specificano, oltre al nome, il luogo di provenienza dell’individuo e se que-sto sia metropolitano, musulmano o israelita. Difficilmente tuttavia si ri-scontrano casi nei quali sia coinvolto un cittadino italiano, la maggioranza delle circostanze vede protagonisti indigeni e, a seguire, gli ebrei. Nella de-scrizione degli episodi che hanno sancito la contravvenzione ai responsabili indigeni si usano toni talvolta derisori, talaltra più seccati e severi. Ciò che si avverte attraverso la lettura delle numerosissime tipologie di infrazione19, è la convinzione che sia stata la scarsa intelligenza dell’indigeno ad averlo fatto scoprire dalla sorveglianza. Inoltre si dimostra soddisfazione quando si multano individui che si ostinano a non rispettare le leggi vigenti prose-guendo ad agire illegalmente e secondo le proprie abitudini.

Parti della terza e della quarta pagina sono dedicate poi alla pubblicità. Numerose ditte italiane o internazionali forniscono l’indirizzo delle loro sedi in Tripoli ed i nominativi dei loro rappresentanti ed agenti. Molte sono anche le inserzioni di negozi privati e compagnie di servizi, dal cui lungo elenco si può apprendere la vasta tipologia merceologica offerta nella città. Alcune ditte e società commerciali20 offrono poi servizi di impor-tazione di varie categorie di prodotti. Compaiono sulle pagine del quo-tidiano tripolino annunci pubblicitari di pasticcerie, gioiellerie, librerie, agenzie d’affari, salumerie, parrucchieri, gelaterie, caffè, ristoranti ecc. I medici tripolini riuniscono l’offerta delle loro prestazioni in una lista di annunci separata che testimonia la presenza a Tripoli di specialisti italiani di molteplici competenze21.

Lo sport infine risulta essere ampliamente trattato da «L’Avvenire di Tripoli» che dedica a tutte le attività sportive cittadine uno spazio sempre maggiore. Piccoli trafiletti riportano anche le notizie ritenute di particola-re rilievo provenienti dalla madrepatria. Tuttavia è lo sport coloniale che sembra suscitare maggiore interesse nei lettori del quotidiano, a giudicare dalla dovizia di particolari e dall’estensione degli articoli sempre crescente.

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Dapprima collocati in terza pagina assieme a notizie di altri generi, gli avvenimenti sportivi ottengono, dal 1932, una propria ampia sezione in quarta pagina, denominata Corriere sportivo. Il calcio risulta essere lo sport più apprezzato, benché non vi sia una squadra rappresentante della città. A scontrarsi a Tripoli sono le numerose associazioni ed organizzazioni del Regime, prime fra tutte quelle dopolavoristiche e militari. Di frequente giungono in città squadre calcistiche italiane od europee. Queste, durante un soggiorno solitamente breve in Tripolitania, hanno modo di sfidare al-cune delle squadre locali. La realizzazione dello Stadio del Littorio apporta un significativo impulso alla pratica del calcio, come anche di moltepli-ci altri sport. Annualmente si svolge il campionato tripolino, disputato principalmente da squadre di militari. «L’Avvenire di Tripoli» lo segue con attenzione e riporta spesso comunicati da parte della sezione sportiva della Federazione Fascista. Questa infatti deve più volte ammonire comporta-menti troppo accesi dei tifosi che in alcuni episodi si sono rivolti contro gli arbitri provocando la sospensione degli incontri. Ciò dimostra un’attiva partecipazione da parte del pubblico tripolino, non solo in prima persona, ma come spettatore, ai maggiori eventi calcistici che hanno luogo nella capitale tripolitana.

Aggiornamenti e descrizioni di numerosi altri sport testimoniano tut-tavia un interesse più ampio e generale. I tornei tennistici sono preannun-ciati con largo anticipo, «L’Avvenire di Tripoli» parla della trepidante attesa della città per i campioni nazionali ed internazionali che giungono in co-lonia. Oltre alle competizioni agonistiche, il tennis risulta essere praticato anche da tripolini semplici appassionati, seppur non in misura paragona-bile al calcio o al ciclismo. La scherma conosce alcuni sviluppi nei primi anni Trenta attraverso l’istituzione di alcuni corsi di insegnamento, molti dei quali rivolti ai dopolavoristi ed ai Balilla. Si svolgono tornei regionali che richiamano l’attenzione dei praticanti ma anche di tanti spettatori. Il podismo ed il ciclismo offrono, oltre alla pratica di un’attività fisica rite-nuta tra le più benefiche, la possibilità di conoscere i dintorni di Tripoli e gli aspetti naturalistici dell’oasi circostante. Numerose sono le corse ed i giri ciclistici organizzati dalla sezione sportiva della Federazione fascista. I partecipanti, nelle opinioni del giornale, crescono costantemente e dimo-strano grande soddisfazione per gli esiti positivi raggiunti dalle iniziative sportive di questo genere. All’ippodromo si organizzano corse di caval-li che, seppur non vedano tripolini al galoppo, richiamano sicuramente

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la presenza sulle tribune di molti appassionati. Il quotidiano parla poi di una «ripresa pugilistica» sul finire del 1929, alludendo ad un precedente sviluppo della boxe e ad una recente perdita di entusiasmo. Con il 1930, attraverso l’istituzione di alcuni corsi e la programmazione di incontri, il pugilato sembra aumentare l’attrazione nei propri confronti da parte di giovani tripolini, sebbene non raggiunga i numeri di altri sport sia fra i praticanti che fra gli spettatori. «L’Avvenire di Tripoli» illustra come il nuoto rappresenti un’attività piacevole ed interessante per gran parte della popolazione cittadina, sebbene molti lo praticano per il solo piacere di farsi un bagno nelle giornate estive. Al livello competitivo si organizzano perio-diche gare individuali, la più attesa e stravagante delle quali è la «traversata del porto» che si svolge ogni agosto nella rada tripolina. Vi prende parte, oltre a metropolitani, una rappresentanza indigena descritta puntualmente come cospicua ed entusiasta.

Alla domenica, come si è anticipato, il quotidiano pubblica un’edi-zione più ampia, composta da sei pagine. Oltre alle consuete rubriche e suddivisone delle notizie, vi trovano spazio alcune particolari sezioni. La maggiore attenzione è dedicata all’andamento agricolo della colonia, ana-lizzato attraverso articoli tematici sulle pratiche colturali più diffuse. La Pagina Agricola comprende notizie circa l’importazione e l’esportazione di prodotti ortofrutticoli, sui fertilizzanti impiegati, si forniscono consigli sui periodi di semina e di raccolta nonché sulla protezione delle colture dai parassiti e dagli agenti atmosferici. Saltuariamente anche nozioni di allevamento compaiono sul giornale, con particolari circa l’alimentazione e la riproduzione degli animali. Si pubblicano suggerimenti per la cura e la prevenzione di malattie del bestiame, riportando poi i valori della pro-duzione di latte, formaggi, carne, lana ecc. Parallelamente all’incremento conferito alla politica di colonizzazione intrapresa dal governo coloniale, dal 1931 nella sezione Pagina Agricola si introducono con sempre maggio-re frequenza argomentazioni ritenute utili per i nuovi coloni. Intitolato adesso Pagina Agricola e della Colonizzazione, lo spazio dedicato al feno-meno da «L’Avvenire di Tripoli» ha inoltre la finalità di esporre a tutta la colonia ed al di fuori di essa, il processo che il governo sta promuovendo per una sempre più rapida ed intensa colonizzazione.

La domenica vede il giornale tripolino riportare il Vangelo del giorno, pubblicato senza alcun commento all’interno della Rubrica Religiosa. Nel-la Vita Allegra si propongono delle barzellette e battute umoristiche, ma

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dal 1930 si decide tuttavia di sospenderne la pubblicazione. Dall’ottobre dello stesso anno tutte le notizie riguardanti l’attività dell’Ond coloniale vengono riunite nella Rassegna del Dopolavoro, che compare all’interno del quotidiano ogni prima domenica di ogni mese. Al regolare aggiornamento sugli eventi che hanno visto o vedranno protagonisti i dopolavoristi tripo-lini, si aggiunge una propaganda sempre crescente per l’adesione all’Opera da parte dei lavoratori non ancora iscritti.

Il 1932 apporta alcune ulteriori trasformazioni alla composizione del giornale, che riunisce ancora in nuove sezioni argomenti che in precedenza non avevano collocazione fissa. Si è già accennato alla nascita del Corriere sportivo, al quale si viene ad aggiungere la rubrica Gli Spettacoli, che accor-pa tutti gli annunci inerenti i concerti, le proiezioni cinematografiche e la rappresentazioni teatrali. Nelle Notizie Economiche e Commerciali vengono inserite le liste dei prezzi di mercato, dei beni calmierati, i tassi di cambio, i valori dei titoli, il volume delle merci che transitano dal porto di Tripoli ecc. I prezzi all’ingrosso hanno invece una propria sottosezione all’interno della quale vengono riportate tutte le relative tariffe.

Le rubriche, gli approfondimenti, le cronache e i dati commerciali co-stantemente pubblicati dal foglio tripolino consentono di ricostruire i trat-ti fondamentali della vita metropolitana in colonia. Come per le attività associative, per le iniziative del regime e per gli aspetti legati alla quotidia-nità, è quindi possibile risalire anche ai principali provvedimenti intrapresi in risposta alla crisi economica dei primi anni trenta.

«L’Avvenire di Tripoli» per la ricostruzione della vita in colonia: l’esempio delle opere assistenziali come risposta alla crisi del 1929

Dall’attenzione che «L’Avvenire di Tripoli» dedica al complesso delle at-tività assistenziali nella prima metà degli anni trenta, si deduce la cospicua presenza di popolazione con difficoltà economiche nella stessa Tripoli ed al di fuori di essa. Il tipo di emigrazione che dall’Italia si sposta sulla quarta sponda trascina con sé la povertà che già affliggeva coloro che decidono di cercare fortuna in Africa. Ciò è inoltre conseguenza di scarse occasioni di impiego incontrate dagli italiani una volta giunti in colonia. Si verifica pertanto il versare di una vasta parte della popolazione metropolitana tri-politana in condizioni di più o meno grave indigenza, tale comunque da rendere necessaria una forte coordinazione e promozione di tutte le attività

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collegate alla beneficenza e al sussidio dei bisognosi. Soprattutto il quinquennio 1929-33 è di particolare difficoltà, per le

forti ripercussioni della crisi economica anche in Tripolitania. Il gover-no coloniale è costretto ad intraprendere allora misure per combattere la povertà diffusa conducendo in prima persona le opere assistenziali e coor-dinando tutte le attività che di consueto già si svolgevano a Tripoli. Prov-vedimenti speciali si affiancano a pratiche consolidate nella ricerca di un sussidio che si vuole sia più cospicuo possibile.

In colonia le opere assistenziali seguono parzialmente le modalità che si riscontrano nella madrepatria, un esempio su tutti la presenza dell’Ente pro Opere Assistenziali, nonché si svolgono attività di iniziativa del gover-no locale o di istituti ed organizzazioni che, sia pure sotto la supervisione governativa, godono di parziale autonomia. All’interno di questa organiz-zazione «L’Avvenire di Tripoli» si pone come mezzo di propaganda e di divulgazione per le iniziative intraprese dagli enti e dalle società preposte alla beneficenza e all’assistenza. Sulle sue pagine trovano ampio spazio gli appelli dell’Ente pro Opere Assistenziali, così come i moniti del Pnf in-dirizzati alla popolazione benestante, costantemente invitata ad elargire i propri oboli in favore dei meno abbienti.

Il maggiore organismo intento a promuovere tutte le attività del genere in colonia è l’Ente pro opere assistenziali, presieduto dal console Melchio-ri, ritenuto da «L’Avvenire di Tripoli» una delle migliori forme di sostegno ai bisognosi mai realizzate in tutto il mondo.

Nessun Paese, nessun Regime si è attrezzato come l’Italia Fascista per la lotta contro la miseria, e per l’assistenza ai diseredati, ai sofferenti, ai tapini, organizzando la frater-nità sociale su così vasta scala e con tanta volontarietà di prestazioni ed esaltazione di solidarietà nazionale22.

Melchiori interpreta fedelmente le direttive del regime conferendo all’assistenza che egli in prima persona coordina e promuove, un aspetto di missione da compiere ad ogni costo. Provvedere all’organizzazione e alla distribuzione della beneficenza non è considerato soltanto un gesto ma-teriale finalizzato a consegnare al povero ciò di cui abbisogna. Il compito dell’Ente sarebbe anche quello di diffondere la nuova ideologia assistenzia-le e far comprendere a chi ne viene beneficiato i valori sostenuti dal fasci-smo. Ecco quindi come Melchiori si fa portavoce della finalità dell’Eoa che egli stesso è chiamato a dirigere.

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Personalmente […] io sono persuaso che la vera beneficenza non consista nel dare sussidi in denaro, cioè nel fare la cosiddetta elemosina, ma nell’ispirare all’uomo delle classi inferiori il rispetto di se stesso, il sentimento della dignità umana; consiste nell’i-spirargli, e più che con le parole, coll’esempio, all’amor del lavoro, il culto del vero, il gusto del bello, l’abito del risparmio, cose tutte che lo innalzeranno moralmente e materialmente e lo renderanno indipendente e fiero23.

Il compito che ci si prefigge assieme all’adempimento delle più imme-diate necessità dei poveri è quindi più ampio, si intende intervenire non solo materialmente ma anche moralmente al fine di sollevare spiritualmen-te la popolazione che vive in condizioni di difficoltà. Ma nei casi più gravi di indigenza risulta assai difficoltoso pretendere che le persone si impegni-no nella comprensione dell’ideologia che il fascismo intende diffondere.

L’Ente, grazie ai contributi ottenuti dal governo coloniale, dal partito e dalla popolazione intende dunque agire su più livelli, instaurando quasi una scala delle priorità nell’assistenza che offre. Ai fabbisogni alimentari, primari, seguono le cure mediche, l’abbigliamento ecc. Si rende quindi necessario conferire grande eco alle iniziative promosse. «L’Avvenire di Tripoli» è sempre molto attento a calibrare l’importanza dell’intervento compatto della cittadinanza e l’illustrare come sia il governo, per tramite dell’Eoa, a coordinare e gestire le opere assistenziali.

La propaganda di cui l’Ente Opere Assistenziali gode anche sul giornale di Tripoli è finalizzata ad incrementare il numero di coloro che partecipano al suo sostegno. Se ne descrivono costantemente le attività ed i risultati conseguiti dando così vita ad uno stimolo sempre attivo tra i cittadini. Grazie ai frequenti aggiornamenti che «L’Avvenire di Tripoli» si impegna a pubblicare, in città non vi sarebbe nessuno che non sia al corrente del significato «incommensurabilmente provvidenziale»24 dell’Eoa.

Nel maggio 1929 si crea in colonia la Società Generale per la Pubblica Beneficenza, nel tentativo di dar vita ad un organismo che procede alle funzioni di coordinamento e promozione cui si è accennato. «L’Avvenire di Tripoli» considera la nuova istituzione come la più adatta per presiedere alle varie iniziative già presenti in città e per la distribuzione dei proven-ti dalle donazioni del governo coloniale e del municipio di Tripoli. Gli istituti di beneficenza che già esistono a questa data proseguono la loro attività autonomamente ma vengono sottoposti alle direttive della Società. Il provvedimento adempie alle aspettative del regime per quanto concer-ne l’organizzazione dell’assistenza in ambito coloniale, addivenendo ad un

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unico organo centrale che impartisce una linea ben precisa da seguire nello svolgimento delle attività benefiche. L’Ente opere assistenziali non perde per questo i suoi poteri di coordinamento e di organizzazione, rientrando la Società per la pubblica beneficenza sotto il suo controllo. Con l’istitu-zione del 1929 scompare a Tripoli la Società italiana di beneficenza, che vi aveva operato sino a questa data. La sua soppressione «appare giustificata considerando che essa, per le pochissime rendite di cui disponeva, riusciva ormai insufficientemente a provvedere agli aumentati bisogni della bene-ficenza coloniale»25.

Successivamente all’istituzione della Società generale rimangono indi-pendenti e completamente autonomi nella loro attività la sezione colo-niale della Croce rossa italiana e la Società tripolina di mutuo soccorso. Quest’ultima, presente in città sin dal 1920, oltre a promuovere iniziative assistenziali tra i propri soci, occorrerebbe a cementare tra loro vincoli di fratellanza e cameratismo. Si fa saltuariamente carico dell’organizzazione di feste danzanti in occasione di lotterie di beneficenza, i cui proventi ven-gono poi ridistribuiti tra i membri con maggiori difficoltà economiche. La Società tripolina ha sede presso una sala interna al Castello, la sua funzione sembra essere particolarmente apprezzata in città, nonostante le iniziative di cui si fa promotrice non siano tra le più pubblicizzate e spesso si svolga-no senza particolare eco. «In silenzio, con pazienza e con fede,- si legge sul foglio tripolino - persegue gli scopi di mutualità che si prefigge e che, con poca spesa mensile, mette in condizioni i meno abbienti di fruire di larghi benefici e aiuti26.

Sebbene la Croce rossa sia generalmente considerata nota per l’attività svolta in ambito bellico, a Tripoli si ritiene la sezione coloniale uno dei più moderni ed efficienti organismi assistenziali. Nonostante si incontrino alcuni riferimenti alle potenzialità della Cri in caso di eventuali mobili-tazioni di guerra, le attenzioni de «L’Avvenire di Tripoli» si concentrano sull’attività che essa svolge quotidianamente in colonia in molteplici campi dell’assistenza. Poiché il giornale rileva come anche a Tripoli l’azione svolta dalla Cri in ambito assistenziale sia poco nota, si intraprende un’intensa propaganda per descrivere al pubblico le numerose iniziative di cui l’isti-tuzione si fa carico. Oltre agli interventi di pronto soccorso e alla prepara-zione degli infermieri, il quotidiano tripolino illustra come la Croce rossa si impegni in colonia nella lotta contro la malaria, la tubercolosi, nella pro-tezione dell’infanzia e nell’assistenza ai lavoratori. Attraverso cartelli mura-

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ri, cartoline e filmati svolge un’attiva propaganda igienico-sanitaria per le popolazioni indigene nell’intento di combattere le abitudini che possono comportare la diffusione di malattie. Per la prevenzione della tubercolosi agisce in collaborazione con altri enti assistenziali cercando di scoprire in tempo l’insorgere della malattie negli individui e provvedere in seguito alle cure necessarie. Nel campo dell’assistenza all’infanzia la Cri si addos-sa le spese di fornitura di preventori per lattanti e divezzi nati da madri tubercolose, di dispensari antitracomatosi, organizza colonie temporanee estive al mare e in montagna, scuole all’aperto, offre la sorveglianza medica scolastica.

Per lungo tempo le attività di coordinamento dell’assistenza da parte dell’Ente opere assistenziali e della Società pubblica di beneficenza parzial-mente di sovrappongono e ciò porta ad alcune difficoltà di organizzazione nella distribuzione delle competenze. Sfogliando «L’Avvenire di Tripoli» è possibile individuare il disagio: la testata si trova in più occasioni a trattare alcuni provvedimenti attribuendoli una volta all’uno, una volta all’altro organismo. Soltanto verso la fine del 1932 si fa chiarezza sull’argomento attraverso un intervento di Badoglio che definisce nuovamente i compiti delle due istituzioni. Il Governatore decide di accentrare nell’Ente pro ope-re assistenziali tutte le forme di assistenza cittadina, lasciando di compe-tenza della Società generale della pubblica beneficenza la sola gestione de-gli istituti di carità a carattere permanente. «L’Avvenire di Tripoli» sostiene che con la nuova suddivisione delle mansioni si elimini «qualunque caso di duplicazione di provvedimenti che il sistema precedente poteva origi-nare»27. Alla dichiarazione non corrisponde tuttavia una migliore chiarezza nell’attribuzione delle varie iniziative sulle pagine del giornale.

Nel 1928 nasce in Italia la manifestazione nazionale della Befana fa-scista, una particolare interpretazione del regime della tradizione popolare celebrata il 6 gennaio. Il fascismo si appropria di tale tradizione trasfor-mandola ed inserendola nel contesto delle opere assistenziali. La trasposi-zione interessa la precedente usanza attribuita alla befana di non far con-segnare doni ai bambini «cattivi», dietro la quale in realtà si sarebbe celata l’impossibilità dei genitori di acquistare doni a causa della loro indigenza. «Chi non ha mai visto – si chiede il giornale - le lacrime del fanciullo che non era stato cattivo, che aveva dormito tutta la notte e che pure era stato deluso nelle sue speranze, tradito nel suo diritto?»28. La povertà quindi avrebbe impedito che tutti i fanciulli godessero in ugual misura del passag-

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gio della «vecchia, curva, bitorzoluta e rattoppata, dispensatrice di doni ai bambini»29. Sostituendosi alla figura grottesca della precedente tradizione, il fascismo si pone come più razionale e giusto nella distribuzione dei do-ni, liquidando le vecchie abitudini e facendo della giornata del 6 gennaio una manifestazione di carattere nazionale per l’assistenza all’infanzia. La befana, da figura di anziana e brutta vecchietta, passa ad assumere l’aspetto simile ad una fata, dalle caratteristiche più vivaci e rassicuranti. Come ad indicare un’analogia con la trasformazione politica che l’avvento del fasci-smo ha provocato.

Questa vecchina è stanca, | va mandata in pensione! Disse il fascismo. | Chiamate la Befana fascista a sostituirla. | Questa venne, e […] disse: «Tutti Balilla | e Piccole Italia-ne son d’Italia i fanciulli | e tutti abbiano il dono di vesti e trastulli»30.

Dell’Epifania si intende però conservare la tradizione religiosa, ovvero l’arrivo dei re magi in visita a Gesù, e la rappresentazione dell’episodio attraverso la consuetudine dell’allestimento del presepe. Questa distinzio-ne tra le tradizioni popolari, legate appunto alla Befana, e quella religiosa dell’Epifania viene attentamente illustrata da «L’Avvenire di Tripoli». Ciò che subisce una radicale trasformazione è il solo rito popolare dell’offrire doni all’interno di una calza il giorno 6 di gennaio.

Dalle pagine del foglio tripolino risulta che la prima celebrazione del nuovo rituale compaia in colonia nel 1932. Sin dal dicembre dell’anno precedente se ne dà larga comunicazione e se ne spiegano le finalità. A con-ferma di ciò è da notarsi che è proprio nel dicembre 1931 che ci si sofferma a definirne il significato con articoli e digressioni sulla tradizione popolare, sintomo della precedente mancanza dell’usanza oltremare. Durante le ceri-monie i bambini danno spesso saggio delle loro abilità ginniche, propon-gono recite, si eseguono proiezioni cinematografiche ed intervengono per-sonalità illustri civili e militari. Durante la giornata del 6 gennaio a Tripoli e in tutte le località anche minori della colonia si procede alla consegna dei pacchi-dono ai bambini inseriti nella lista dei bisognosi. Si tratta per lo più di capi di abbigliamento e di alimentari nonché di oggettistica collegata alla figura di Mussolini e del fascismo.

«L’Avvenire di Tripoli» si fa portavoce, nei giorni precedenti la cele-brazione, della richiesta di aiuti alla popolazione da parte dell’Ente opere assistenziali, non in grado, da solo, di fronteggiare l’intero importo delle

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spese affrontate per la realizzazione della Befana fascista. «Tutti devono contribuire validamente con offerte in denaro o con merce e commestibili. Tutti devono non rimanere sordi alle necessità dei disoccupati che soffrono con le loro creature le più strenue privazioni» ammonisce la testata tripo-lina31. Le cronache dei giorni successivi cercano invece di dare risalto alla riuscita della giornata attribuendo i meriti alla nuova ideologia assistenzia-le fascista. Ciò che maggiormente si intende sottolineare, oltre ai benefici direttamente ottenuti dai bambini, è la finalità più alta della celebrazione: «l’intimità del dono, dell’ambiente in cui viene offerto, avvicina il popolo, che è un grande fanciullo, all’Uomo di genio che ha saputo comprenderlo e che lo ama veramente: quindi lo avvicina al regime, quindi all’intera Nazione»32. Il quotidiano di Tripoli offre la possibilità di seguire atten-tamente le fasi dell’introduzione della nuova manifestazione in colonia. L’intera manifestazione della Befana fascista sembra assumere un aspetto che va al di là di quello più evidentemente benefico. Funge da mezzo pro-pagandistico del regime e ne celebra la magnanimità e la premurosità con cui esso assisterebbe tutti i cittadini. Il fascismo inoltre si propone come un elemento di coesione dell’intero popolo italiano. Frequentemente poi si raffigura Mussolini come il «padre generoso» che distribuisce per mano della nuova befana i doni per l’infanzia, considerato quale «supremo evo-catore delle elargizioni, premuroso e attento alla sorte del popolo»33. L’Ente opere assistenziali fungerebbe in colonia quasi come un prolungamento della mano generosa del duce intervenendo, con la manifestazione della Befana fascista, in aiuto dell’infanzia, soprattutto in un periodo che, in conseguenza della crisi del 1929, è sentito di grande difficoltà.

Nei primissimi giorni del 1932 si svolge presso il palazzo governatoriale una riunione alla quale prendono parte oltre duecento signore di Tripoli e dintorni. Si costituisce il nuovo comitato femminile di beneficenza che raggiunge quest’anno un numero molto maggiore di adesioni. I compiti che esso si fa carico di portare a termine, nel tentativo di opporsi alle con-seguenze della crisi economica generale, sono più difficili ed impegnativi: «il perdurare della crisi mondiale rende più numerosa la schiera di coloro che dall’opera delle donne del comitato trarranno sollievo dalle loro mi-serie»34. A guida delle attività che ci si prefiggono per il 1932 si pone la marchesa Badoglio, il cui impegno sarebbe di stimolo per tutte le aderenti al comitato. È suo l’esempio dato all’intera cittadinanza dell’offerta di capi di abbigliamento manufatti per i bambini bisognosi della città. «L’Avvenire

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di Tripoli» conferisce molta importanza al gesto della Badoglio, utilizzando la notizia come strumento di forte propaganda rivolta a tutte le donne di Tripoli. Si intende cioè rendere consuetudine la confezione di indumenti, da parte delle appartenenti al comitato, ma anche al di fuori di esso, per essere poi distribuiti presso la Casa del Fascio a tutti i bambini che ne di-mostrino la necessità.

Il giornale si spinge persino a consigliare i periodi ed i momenti della giornata in cui tale pratica potrebbe essere svolta senza recare intralci alla normale conduzione delle attività quotidiane. Le donne di Tripoli dispor-rebbero del tempo necessario alla realizzazione di qualche indumento, e si cerca di far sentire loro la confezione dei vestiti come un dovere.

Il tempo non fa difetto: basta occuparsene e volere. I lunghi pomeriggi di questo scor-cio d’inverno, quelli dell’imminente primavera, tanto favorevoli alle sieste nei giardini e sulle terrazze, possono offrire innumerevoli occasioni per lavorare a sollievo dei pove-ri, senza alcuna rinunzia alle visite, ai conversari e alle care compagnie35.

Il 1933 è l’anno in cui la crisi economica apporta i maggiori disagi in Tripolitania.

La fecondità è forse il solo, il più grande privilegio che l’Italia ha sulle altre nazioni; guai se gli stenti, le privazioni, la miseria materiale e morale ridurranno o faranno scomparire questo nostro indiscutibile privilegio datoci dalla sanità della Razza!

L’appello di Melchiori viene amplificato da «L’Avvenire di Tripoli» che in più occasioni ribadisce la necessità di una partecipazione veramente grande per far fronte alle difficoltà, ritenute ancora maggiori, che si pro-spettano per il 1933. Si sostiene che nella penisola la popolazione abbia re-agito compattamente alla crisi ottenendo un grandissimo contributo per la beneficenza. Il giornale invita dunque la cittadinanza tripolina, non senza i consueti accenni alle caratteristiche della razza, a seguire l’esempio della madrepatria e a partecipare largamente alle attività previste per il nuovo anno. Tanto più che la città avrebbe già dato prova in passate occasioni della sua particolare generosità. «Tripoli – si afferma sul giornale – ha una tradizione benefica che quest’anno non vorrà certo smentire. L’esempio mirabile di tutta Italia che generosamente viene incontro ai bisognosi sarà, ne siamo sicuri, largamente seguito in colonia da ogni ceto perché la nobile tradizione nostra, che fa parte della virtù della nostra razza, sia altamente

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mantenuta». Dal susseguirsi di appelli e di inviti alla popolazione sembra che il 1933 porti a Tripoli un incremento della povertà. Per una parte con-sistente della popolazione la situazione sarebbe veramente difficile. Tutti coloro che si classificano in stato di indigenza si trovano inoltre realmen-te in difficoltà, non vi sarebbero più dei parassiti come in precedenza. Si fanno frequenti considerazioni circa l’involontarietà e l’incolpevolezza di queste persone di trovarsi in una simile posizione.

Le iniziative che avranno svolgimento a decorrere dal 1933 si dimostra-no più numerose e più attentamente organizzate, al fine di fronteggiare al meglio le ripercussioni della crisi economica che si avvertono con sempre maggiore intensità in colonia. Tutte le istituzioni con propositi assistenziali e di beneficenza collaborano sotto il coordinamento dell’Eoa per compila-re un calendario ricco di eventi e di manifestazioni. «L’Avvenire di Tripoli» invita ripetutamente i tripolini a partecipare alle lotterie indette dall’ Eoa, ritenendo che la sua iniziativa debba «essere confortata con l’appoggio ge-neroso di tutti i cittadini e questa lotteria [sia] un’occasione, per chi può, di fare del bene, di dimostrare ancora una volta che la fraterna assistenza del popolo nostro non è venuta né verrà mai meno»36. Si stabilisce poi che i doni per la pesca di beneficenza debbano essere ottenuti attraverso la cessione da parte dei cittadini. A tal uopo si divide Tripoli in dieci diverse zone in modo che ogni gruppo addetto al prelevamento dei doni abbia una propria area di competenza. Si evita così che «più signore passino per lo stesso negozio a chiedere dei doni»37.

In collaborazione con «L’Avvenire di Tripoli» l’Ente opere assistenziali indice infine una sottoscrizione fra enti privati in favore dell’Eoa stesso. Nell’arco di vari periodi dell’anno si prevedono inoltre vari tè di benefi-cenza. Numerosi impiegati della città rinnovano la donazione dell’equiva-lente in denaro di un’ora di lavoro mensile. È interessante notare come il giornale tripolino rilevi che una significativa parte della cittadinanza più agiata non contribuisca ancora alla beneficenza e la inviti a provvedere al più presto ad intervenire: «Noi attendiamo l’offerta di quella parte della cittadinanza che può dare di più. Ci sono tanti nomi che siamo in attesa di registrare; sappiamo che li vedremo certamente nella nota benefica; ma preferiremmo leggerli tutti insieme». Ritorna inoltre il confronto con la madrepatria: «la colonia deve dimostrare che il dovere assistenziale è sen-tito con la stessa sensibilità che in Italia. Noi attendiamo quindi che lo slancio filantropico di Tripoli si manifesti pienamente senza titubanze»38.

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Il comitato femminile di beneficenza, puntualmente ricostituito ogni anno, contribuisce con un intenso programma a dare impulso alle ma-nifestazioni di beneficenza. Le donne che lo compongono sono invitate dalla Federazione Fascista a proseguire nella confezione di indumenti per bambini, mettendo per gli anni successivi, quest’anno a loro disposizione i locali del castello e le attrezzature necessarie39.

Con rinnovata solennità si celebra ogni giugno la giornata della Cro-ce rossa. Nel 1933 il Governatore Badoglio indirizza all’istituzione i suoi complimenti personali avendo constatato l’efficace impegno profuso in ambito assistenziale e benefico. Nel giorno dedicato alla Croce Rossa «L’Avvenire di Tripoli» pubblica un numero speciale che viene venduto al pubblico al prezzo maggiorato di mezza lira ed i cui proventi vengono devoluti all’istituzione. Nonostante il costo più che raddoppiato, la testata ha una tiratura eccezionale e dichiara di aver contribuito sensibilmente con la sua offerta alle entrate della Cri. In piazza delle Poste si allestiscono stands dove si pongono in vendita oggetti di propaganda consistenti in scatolette per la medicazione, «crocette Angelo Custode», distintivi per i soci, saponi disinfettanti, ventagli celluloide, «crocette con cuore, guidoni Croce Rossa, medagliette del Duce»40. Il poeta Siciliani espone inoltre le sue due pubblicazioni Al Re e Canto per le madri offrendo il ricavato alla Cri. In tutta la città si affiggono manifesti di propaganda della giornata firmati da Melchiori:

Non passi questa giornata senza che ognuno di voi piccolo o grande, possa dire: «Ho concorso anch’io oggi a dare alla più grande, alla più vasta delle associazioni benefi-che d’Italia». Fatevi soci, comprate qualche oggettino! Vi benedicono anticipatamente quelli che saranno, domani, i vostri beneficiati41.

«L’Avvenire di Tripoli» nota che la straordinaria affluenza di pubblico sia dovuta, oltre che alla generosità della cittadinanza, all’intensa propaganda che è stata rivolta loro. Oltre ai manifesti dal Comitato centrale italiano, si affiggono nella città anche modelli stampati dal Comitato locale e rivolti agli arabi. Grande rilievo viene infatti conferito sul foglio tripolino anche alle notizie riguardanti provvedimenti in favore della popolazione indige-na. Nel campo assistenziale, risale ancora al 1933 il formarsi a Tripoli di un Ente assistenziale per fanciulli musulmani, un provvedimento ritenuto di notevole rilevanza nella politica indigena di Badoglio. L’eco conferita

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all’istituzione del nuovo ente dimostra il significato propagandistico che viene attribuito all’evento, di cui «L’Avvenire di Tripoli» si fa attento divul-gatore. Posto sotto la gestione della Federazione fascista della Tripolitania, l’ente ha lo scopo di provvedere all’assistenza igienica e morale dei fanciulli di religione islamica di età non inferiore ai sei e non superiore ai sedici anni. È presieduto dal segretario federale e diretto da un consiglio formato dal direttore degli Affari Civili e Politici del governo della colonia, da un membro del direttorio federale e dal consigliere delegato. L’amministrazio-ne è tenuta dal segretario federale amministrativo. L’affidare la gestione del nuovo ente a figure di questo genere è un elemento significativo nella com-prensione di quanta importanza assuma in colonia l’assistenza morale degli indigeni e, soprattutto, dei giovanissimi. Se Badoglio attende che all’adulto «cada la benda dagli occhi», un’attenta e studiata educazione dei giovani musulmani occorrerebbe per far sì che essi crescano nella convinzione della benevolenza del governo italiano nei loro confronti. Si intende raggiun-gere gli scopi di assistenza igienica attraverso le colonie marine, le cure mediche, l’educazione fisica, lo sport, gli esercizi militari mentre gli scopi di assistenza morale attraverso gare e concorsi di lingua italiana, cori, inse-gnamento dei principi fascisti, disciplina militare. I propositi di Badoglio di avviare un’educazione ai principi fascisti della gioventù indigena sono tuttavia limitati, in questa occasione, dal regolamento dell’istituzione stes-sa. Esso prevede infatti che l’ammissione dei ragazzi alle cure assistenziali dell’Ente per fanciulli musulmani avvenga esclusivamente dietro richiesta dei genitori. Ciò significa che l’iscritto all’Ente è stato già indirizzato verso un’educazione se non ancora fascista, comunque non apertamente ostile al governo dell’Italia.

Il quinquennio 1929-33 ha conosciuto a Tripoli, parallelamente alla crescita delle difficoltà economiche, un incremento delle attività finalizza-te a contrastarle. Gli introiti ottenuti dalle istituzioni benefiche cittadine sono maggiori rispetto agli anni precedenti ma tuttavia ancora ritenuti insufficienti rispetto alle necessità42. La campagna propagandistica per l’as-sistenza invernale 1933-34 inizia sin dal settembre e con rinnovata insi-stenza. Per affrontare la stagione, il cui inizio è fissato per il 19 ottobre si intraprendono nuove misure per combattere le difficoltà della popolazione meno abbiente. Nell’approssimarsi del nuovo anno si ripropongono a Tri-poli gli appelli rivolti alla cittadinanza per una partecipazione compatta a sostegno delle istituzioni assistenziali per far fronte alle difficoltà che si

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presenteranno. Contribuire al loro sforzo assume l’aspetto di un dovere imposto dal fascismo.

Bisogna che quest’anno le possibilità benefiche siano superiori all’anno passato. Le cifre statistiche pur mirabili ed egregie degli esercizi trascorsi devono essere superate, perché chi ha, deve dare la sensazione precisa che ascolta la voce del cuore e i dettami del Fascismo specialmente in materia di assistenza: quei dettami che il DUCE ha sin-tetizzati nella frase: «Andare verso il popolo»43.

Conclusioni

Con il contributo dell’immagine offerta dall’unico quotidiano cittadi-no, «L’Avvenire di Tripoli», è senz’altro possibile ricostruire alcuni aspetti della vita nella città e nella colonia, distinguendo al contempo gli elementi reali da quelli edulcorati dalla propaganda e dalla retorica fasciste che in-tervengono per conferire alla Tripolitania una fisionomia confacente alle necessità e alle volontà del regime.

Dall’analisi delle iniziative intraprese sulla «quarta sponda» si distin-guono alcune diverse categorie di attività. Si ripropongono cioè in alcuni ambiti le caratteristiche della vita civile e militare organizzata del regno, con una trasposizione oltremare delle strutture e degli enti fascisti pres-soché senza alcuna variazione. In altri settori invece Tripoli diviene un laboratorio per esperimenti di vario genere. Dall’agricoltura al turismo, dalla Fiera campionaria al Gran Premio automobilistico, il regime cerca di migliorarsi e di perfezionare l’efficacia propagandistica, celebrativa ed economica delle iniziative lanciate in Tripolitania. Manifestazioni come la campionaria dimostrano la duttilità di cui il fascismo necessita per ottenere mezzi sempre aggiornati, e quindi adeguati, alle proprie esigenze, spesso mutevoli.

Gettando uno sguardo su alcuni aspetti della politica condotta dal go-verno della colonia si nota dunque un procedimento per tentativi, una trasformazione costante degli strumenti a propria disposizione sia per ot-tenere una loro maggiore efficienza, sia per adeguarli alle sempre rinnovate aspirazioni.

Al procedimento per tentativi o alla costante trasformazione nelle mo-dalità di svolgimento che si sono riscontrati in questi campi di azione del fascismo, si contrappone una vita civile rigidamente organizzata. Qui non vi è spazio per esperimenti di nessun genere, le direttive giungono da Ro-

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ma e seguono i modelli e le strutture già adottate ed affermate in Italia. Balilla, opere assistenziali, la Milizia, il Pnf presentano a Tripoli caratte-ristiche del tutto simili a quelle del regno, sebbene talvolta si impongano piccoli accorgimenti per rendere il loro compito perfettamente aderente alle volontà del regime anche sulla «quarta sponda». La vita civile fascista a Tripoli appare quindi strettamente controllata, essa procede sotto l’attenta sorveglianza del Pnf locale, sempre accorto ad intervenire laddove lo ri-tenga necessario. Nel periodo analizzato la Federazione fascista ammonisce i tesserati che non portano la spilla del fascio o chi pratica affitti a prezzi troppo alti, così come insiste affinché chi può aiuti le persone meno ab-bienti. Un’interferenza cioè su molteplici contesti della vita quotidiana che accomunano Tripoli alle altre città italiane durante il periodo del fascismo.

«L’Avvenire di Tripoli» concorre infine a dimostrare, lo si è visto, come la componente metropolitana della città versi per una sua cospicua parte in condizioni di indigenza. I luoghi di provenienza nel regno e le scarse pos-sibilità di guadagno offerte dalla «quarta sponda» fanno sì che coloro che si avventurano oltremare non vi trovino quelle opportunità di successo e quelle caratteristiche positive che la propaganda fascista ha invece descritto e sostenuto.

Una capillare organizzazione delle opere assistenziali, riunite sotto la competenza dell’apposito Ente, nonché una costante insistenza sulla necessità della beneficenza attestano l’ingombrante presenza del disagio economico a Tripoli. Le proporzioni delle iniziative che si intraprendono in soccorso delle persone bisognose rivelano inoltre come la popolazione coinvolta dalle difficoltà sia molto numerosa. Il Pnf si impegna a far sì che i più facoltosi offrano ciò che possono per alleviare i problemi dei di-sagiati, che si fanno sempre maggiori in concomitanza con il ripercuotersi della crisi economica del 1929 anche in Tripolitania. La Federazione fasci-sta non si limita a delle esortazioni, si vede persino costretta ad avanzare, sia pur indirette, minacce. Ai provvedimenti governativi quali la gestione dell’Ente pro opere assistenziali, la Befana fascista ecc, si aggiungono gli ausili della Croce rossa, della Società di mutuo soccorso, dei comitati fem-minili. Un’organizzazione massiccia che attesta quindi le dimensioni del fenomeno.

Alcuni cambiamenti intervenuti nei primi anni trenta sulle abitudini collegate alla balneazione mette ulteriormente in luce le difficili condizioni in cui versa una larga fascia di italiani a Tripoli. La chiusura di alcuni sta-

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bilimenti gratuiti o con tariffe molto basse e la contemporanea apertura di un Lido moderno e costoso suscita le lamentele e le proteste di tutti coloro che non si possono permettere la frequenza di una struttura con i prezzi e le caratteristiche dei più sviluppati centri balneari italiani. Sul quotidiano cittadino si denuncia come oltre ai molti agi dei quali gode una minoranza metropolitana, si siano adesso tolti ai meno abbienti anche il sole ed il mare.

Il giornale della Federazione fascista presenta un’immagine della città e della colonia sempre positiva ed entusiasta, esso si impegna ad illustrare un progresso costante e consistente ottenuto per mezzo del governo coloniale e più generalmente del regime. La Tripoli che il fascismo ha pubblicizzato e trasportato nella madrepatria, tanto da farne nell’immaginario comune un idillio italiano nell’Africa mediterranea, ospitale, fascinosa, quasi fiabesca, assume forme molto diverse agli occhi di coloro che decidono di intrapren-dere una nuova vita sulla «quarta sponda».

Le continue evoluzioni che «L’Avvenire di Tripoli» conosce dalla sua na-scita sino alla sua estinzione, sia grafiche che, soprattutto, di composizione e di contenuti, rivelano la volontà di adeguarsi con sempre maggiore impe-gno, alle esigenze e alle abitudini della cittadinanza metropolitana. Essen-do ritenuto il quotidiano un efficacissimo strumento di propaganda e di indottrinamento da parte della Federazione fascista, esso avverte l’esigenza di essere costantemente modificato affinché svolga la propria funzione nel miglior modo possibile. Ecco quindi che alle ampie trattazioni politiche ed economiche intrise di profonda retorica ed esplicita propaganda del regi-me, si affiancano pagine di cronaca e di informazioni utili, volte a comple-tare il foglio tripolino ed a renderlo, oltre che fonte di informazione, quale principalmente esso stesso si considera, un dinamico strumento al tempo stesso utile e di intrattenimento.

Nonostante le caratteristiche marcatamente fasciste del giornale, e quindi ad un’interpretazione soggettiva e filtrata degli avvenimenti, «L’Av-venire di Tripoli» riesce comunque a fornire un interessante spaccato della vita quotidiana nella città e nella colonia sottoposte al governo del regime fascista.

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Note al testo

1 L’articolo è una rielaborazione della tesi discussa in Siena il 12 giugno 2006 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia per il corso di laurea specialistica in Documentazione e Ricerca storica: Vivere in Colonia. Dalle pagine de «L’Avvenire di Tripoli» (1929-1933), relatore prof. Nicola Labanca, controrelatore prof. Tommaso Detti.Gli studi sulla Libia coloniale, sia nella sua fase liberale che in quella fascista, sono oggi mol-teplici. La colonia mediterranea non fu la prima conquista italiana e non fu l’ultima nel qua-dro della costruzione dell’impero su cui Roma impostò la propria politica estera. La «quarta sponda» fu però il luogo dove le istituzioni conobbero maggiore sviluppo e dove, sia pur in numero molto inferiore a quanto si fosse progettato, andarono ad insediarsi più italiani, dando vita alla più sviluppata società coloniale. L’osservazione delle opere riguardanti la colonia nei suoi aspetti generali non può prescindere dagli studi di Angelo Del Boca. La vastità delle fonti utilizzate e la ricchezza di particolari legati alle vicende italiane sulla «quarta sponda» rendono i suoi lavori fondamentali per un inquadramento del contesto storico, sociale e culturale del colonialismo in Libia, come per l’intero panorama dell’impero italiano. In Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Labanca ripercorre le vicende del colonialismo in tutte le sue fasi, abbracciando più strettamente anche aspetti legati alla nascita e allo sviluppo della società coloniale italiana. Alcune fasi della valorizzazione della Libia si trovano efficacemente illustrate nelle biografie dei governatori che si alternarono sulla «quarta sponda». Quelle di maggior valore, per i riferimenti ad aspetti rurali della colonia, appartengono a Badoglio (Piero Pie-ri, Giorgio Rochat, Pietro Badoglio. Maresciallo d’Italia, Mondadori, Milano 2002; Silvio Bertoldi, Badoglio, Rizzoli, Milano 1993 ) e a Balbo (G. Rochat, Italo Balbo, Utet, Torino 2003; Giordano Bruno Guerri, Italo Balbo, Mondadori, Milano 2001; Claudio G. Segrè, Italo Balbo, una vita fascista, Il Mulino, Bologna 2000). Complessivamente, la storiografia sulla Libia sembra privilegiare aspetti principalmente militari e politici, con alcuni significativi studi anche sulla colonizzazione demografica intensiva, trascurando ancora molti aspetti legati alla vita quotidiana in colonia.

2 Al momento della prima pubblicazione del quotidiano, sotto la direzione di Giovanni Battista Costa, fanno parte della redazione Piero Costa, Germano Giuliani, Alfredo Maccioni e Giu-seppe Buffa. Corrispondente da Roma è Fausto Boninsegni. Nel luglio dello stesso 1928 Buffa lascia il giornale e lo sostituisce Francesco Maria Rossi che rimarrà alla redazione sino all’otto-bre successivo. A sua volta egli cede quindi il posto a Giacomo Zaverio Ornato. Costa rimane alla direzione del foglio tripolino sino a tutto il novembre 1930, dopodichè cede la propria posizione al dottor Ugo Marchetti. Nella stessa circostanza viene sostituito anche il corrispondente da Roma, adesso impersonato da Pio Gardenghi. Tra i collaboratori si registrano sostituzioni e alternanze nella loro presenza alla redazione della testata. Alla fine del 1929 entra a far parte dell’organico Fernando Gori, che vi rimarrà sino al maggio 1931. Nell’agosto del 1930 viene assunto Guglielmo Maria Riviello e nel mese di ottobre successivo lascia Tripoli Alfredo Maccioni, uno dei protagonisti della nascita del giornale. Si prestano inoltre occasionalmente attraverso la stesura di articoli o con corrispondenze numerosi altri giornalisti. Tra questi: Raffaele Di Lauro, Francesco Corò, Mario Scaparro, Nicola Placido, Li-no Bassura, E.G. Parvis, Egidio Costa, E.F. Tencajoli, Dante Serra, G.Leone, Amilcare Fantoli ed il professor Tucci.

3 Al 1928 «L’Avvenire di Tripoli» si trova ad essere l’unica pubblicazione quotidiana della Tripo-litania, essendo cessata la stampa dei due fogli precedenti: «La Nuova Italia» e il «Corriere di Tripoli». «La Nuova Italia» iniziava le pubblicazioni il 26 agosto del 1912 e le protraeva per 14 anni, sino al n° 270 del 17 novembre 1926. Dal 1921 al gennaio del 1925 veniva poi diffuso il «Corriere di Tripoli», poi confluito in «La Nuova Italia» e quindi estinto. Il 1 ottobre 1941 si riprenderà poi una breve pubblicazione dello stesso «Corriere di Tripoli», sino al 30 novembre

«L’Avvenire di Tripoli» e la risposta alla crisi del 1929

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del 1942.4 Un’importante seduta del Consiglio di Amministrazione del giornale, in «L’Avvenire di Tripoli»,

19 luglio 1930.5 Ibidem.6 Breve storia dell’Avvenire di Tripoli nell’«Annuario della Stampa Italiana», in «L’Avvenire di Tri-

poli», 5 dicembre 1931.7 L’Avvenire di Tripoli nel 1932, in «L’Avvenire di Tripoli», 30 settembre 1931.8 Edicola Orsi, in piazza San Silvestro.9 Edicola giornalistica Chiavaro, in via Etnea.10 L’Avvenire di Tripoli nel 1932 cit.11 Opportuno richiamo, in «L’Avvenire di Tripoli», 17 gennaio 1929.12 Un anno, in «L’Avvenire di Tripoli», 7 marzo 1929.13 Ibidem.14 L’Avvenire di Tripoli nel 1932 cit.15 Ibidem.16 Indicazioni, aggiornamenti ed appuntamenti appaiono con regolarità per tenere al corrente i

propri iscritti sulle attività e gli eventi collegati a ciascuna associazione. In questo contesto si notano più frequentemente le comunicazioni dell’Avanguardia Giovanile e dell’O.N.B., del Dopolavoro, del Pnf, del Guf, del Circolo Italia e dell’Unione Militare, del Circolo Ballo Dahra, dell’Unuci, ma anche del Consorzio agrario corporativo fascista della Tripolitania, della Società anonima editrice fascista di Tripoli, dell’Automobile club di Tripoli, del Club motociclistico. Inoltre pubblicano informazioni di interesse per i propri appartenenti l’As-sociazione nazionale mutilati ed invalidi di guerra, i Finanzieri in congedo, i Carabinieri in congedo, la Società tripolina di mutuo soccorso, l’Associazione nazionale volontari di guerra e quella combattenti e Nastro azzurro. Il fiduciario locale dell’Associazione bersaglieri utilizza il quotidiano per dare notizia delle riunioni tra i membri, così come anche la Società anonima Tonnara convoca le adunanze degli azionisti, analogamente all’Unione tripolina per l’industria e il commercio dello Sparto. Mettono infine al corrente i propri iscritti delle attività svolte la Società cacciatori di Tripoli, la Federazione nazionale Arditi d’Italia e la Società italiana boni-fiche agrarie (Siba).

17 La definizione appare come formula conclusiva di molti annunci pubblicati su «L’Avvenire di Tripoli» da parte della direzione del Grand Hotel, soprattutto in occasione di appuntamenti di gala e di veglioni nel periodo del carnevale.

18 Gli oggetti di cui più frequentemente si denuncia lo smarrimento o si annuncia il ritrovamento sono portafogli, orologi, biciclette, mantelle, spille ed altri gioielli in oro, chiavi e portamonete.

19 Sino alla metà del 1932 i nominativi di coloro che incorrono in sanzioni sono riportati sul giornale quotidianamente, accompagnati dalla provenienza e dall’infrazione commessa. Un lunghissimo elenco delle motivazioni per le quali la Pubblica Sicurezza o le guardie municipali impongono contravvenzioni rileva la presenza di regolamenti molto severi sui comportamenti da mantenere nella vita quotidiana a Tripoli. Il rispetto delle normative si rende particolar-mente difficile nell’elemento indigeno, la cui frequenza di infrazioni dimostra come i mo-delli imposti dall’Italia si scontrino molto spesso con le locali consuetudini. Alcune fra le più diffuse infrazioni sono così descritte: ubriachezza, violenza, resistenza, orinare sulla pubblica via, esercitare il lustrascarpe in luoghi non previsti, espurgare pozzi neri in orari non previsti,

Gabriele Bassi

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circolare in vetture con fari spenti, lasciare vagare il cane sulla pubblica via senza guinzaglio e museruola, macellare clandestinamente, non apporre il cartellino del prezzo sulla verdura in vendita, circolare su biciclette sprovviste di fanale e/o campanello, circolare con automobili a corsa eccessiva o con lo scappamento libero o ancora sprovvista di specchietto di visuale retrospettiva, stazionare con la vettura in luoghi non prescritti, vendere pane a forme anziché a peso, vendere beni a prezzi superiori da quelli stabiliti dal calmiere, lanciare sassi, pascolare capre in zone cimiteriali, eseguire lavori in muratura senza licenza od oltre a quelli di cui si è inoltrata la richiesta, depositare immondizie o acqua sporca sulla pubblica via, anticipare gli orari di apertura delle botteghe, esercitare il mestiere di vetturino pubblico senza il prescritto certificato di iscrizione, esercitare vendite ambulanti senza il permesso, circolare con carri con peso superiore al previsto, maltrattare i cavalli, non attenersi al segnale di fermo, condurre carri a due ruote trainati da cavalli stando seduti anziché condurli a piedi, giocare a pallone sulle spiagge, non completare i lavori di rifinitura di un’abitazione e darla in locazione non in condizioni di abitabilità, servirsi di ceste per il trasporto di carne bovina anziché i carri di prescrizione, accattonaggio, ecc.

20 La ditta Joseph Lanzon, rappresentante e depositaria di molti prodotti di importazione italia-na, commercia generi alimentari, tinture istantanee per capelli, estratti di carne aromatizzati, farine lattee, polveri per acque minerali da tavola ecc. La Società commerciale Gnocchi e Cam-polongo si occupa dell’importazione di liquori, acque minerali, prodotti dolciari, ricostituenti ecc.

21 Tra gli annunci più ricorrenti si registrano quelli del dottor Mazzolani, diplomato del corso di perfezionamento all’Istituto Benito Mussolini di Roma, che si occupa di malattie interne e dell’apparto respiratorio nonché di tubercolosi. Il gabinetto medico del professor Casoni offre la cura di malattie toraciche e addominali, veneree e sifilitiche. Lo stesso Casoni diverrà medico primario in patologia medica dell’Ospedale coloniale di Tripoli non appena istituito. Blenor-ragia e sifilide sono malattie di competenza del dottor Carmelo dell’Aria che in Sciaria Mizran appronta anche cure ostetriche e ginecologiche. Gibelli svolge la propria professione di dentista in via del Fascio, egli è specialista per le malattie dei denti e della bocca, offre visite gratuite e provvede all’impianto di denti e dentiere in oro. Ancora, il dottor Serra è specialista dermato-logo, oltre alle malattie della pelle egli si occupa di capelli, disturbi ghiandolari e venerei. Stessa specializzazione possiede il Cavalier Zaccaria che presso l’omonima farmacia esegue analisi del sangue oltre a consultazioni su prostatiti, blenorragia e malattie veneree. In Zenghet el Amri il medico chirurgo Giuseppe di Salvo svolge operazioni ostetriche. Il gabinetto di radiologia medica e terapia fisica in corso Vittorio Emanuele offre ai pazienti tripolini tutte le cure rite-nute più all’avanguardia con impianti per i raggi X e «raggi ultravioletti luminosi e calorifici».

22 E.O.A., in «L’Avvenire di Tripoli», 24 ottobre 1933.23 Ente Opere Assistenziali. Beneficenza, in «L’Avvenire di Tripoli», 19 novembre 1932.24 E.O.A. cit.25 La nuova Società generale per la Pubblica Beneficenza in Colonia, in «L’Avvenire di Tripoli», 4

maggio 1929. 26 L’attività della Società Tripolina di Mutuo Soccorso, in «L’Avvenire di Tripoli», 21 dicembre

1932.27 L’Ente Opere Assistenziali per la prossima campagna benefica, in «L’Avvenire di Tripoli», 17

novembre 1932.28 Il significato della «Befana Fascista», in «L’Avvenire di Tripoli», 16 dicembre 1931.29 Dal lemma Befana fascista, in Victoria de Grazia, Sergio Luzzatto, Dizionario del fascismo,

Einaudi, Torino 2002, pp. 152-154.

«L’Avvenire di Tripoli» e la risposta alla crisi del 1929

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30 Ibidem.31 Il significato della «Befana Fascista» cit.32 Ibidem.33 Dal lemma Befana fascista, in Victoria de Grazia, Sergio Luzzatto, Dizionario del fascismo

cit.34 La riunione del Comitato femminile di beneficenza al Palazzo Governatoriale, in «L’Avvenire di

Tripoli», 5 gennaio 1932.35 Ibidem.36 Appello benefico, in «L’Avvenire di Tripoli», 20 novembre 1932.37 L’Ente Opere Assistenziali per la prossima campagna benefica cit.38 Le sottoscrizioni pro E.O.A., in «L’Avvenire di Tripoli», 26 novembre 1932.39 Le attrezzature sono in realtà di proprietà di privati, ottenute in comodato attraverso appelli

della Federazione fascista.40 Le sottoscrizioni pro E.O.A. cit. 41 Ibidem.42 A titolo di esempio, l’Ente opere assistenziali elargisce nel corso dell’anno 1933 140.000 lire

per sussidi in genere, 50.000 per viveri e indumenti, 79.340 lire vengono spese per l’orga-nizzazione della Befana fascista. Ancora 70.000 per varie iniziative benefiche e 9.000 per il pagamento delle rette per i sanatori e per gli spostamenti dei tubercolotici. Complessivamente circa 340.360 lire che si impiegano per il sollevamento di 1.925 indigenti e 2.230 bambini in occasione della Befana.

43 E.O.A., in «L’Avvenire di Tripoli», 24 ottobre 1933.

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La Libye avant le renouveau actuel

di Anwar Fekini

Le «printemps arabe» de 2011, qui commença par les événements de Tunisie pour s’étendre à l’Egypte puis à la Libye, en entraînant la chute spectaculaire de plusieurs régimes, a renouvelé le regard porté par les occi-dentaux sur les sociétés arabes.

Il a aussi rafraîchi la question de la démocratisation dans les pays arabes, maintes fois traitée depuis qu’à la fin du XXe siècle, avec le crépuscule des dictatures du sud de l’Europe puis l’écroulement des «démocraties popu-laires» d’Europe de l’Est, la plupart des pays européens se sont convertis aux vertus de la démocratie représentative.

Plusieurs auteurs ont abordé cette problématique dans laquelle la pé-riode coloniale, vécue par presque tous les pays arabes (hormis la péninsule arabique et le Maroc), constitua à la fois, pour les populations arabes et leurs élites, un premier contact avec la démocratie pratiquée dans certains pays européens mais aussi la constatation de ses limites1.

Or l’histoire de la Libye au XXe siècle constitue presque un cas d’école d’instauration rapide et tardive d’un système colonial, puis de constitution laborieuse d’un État et de rendez-vous manqué avec la démocratie, avant le renouveau actuel. Cependant nous souhaiterions montrer dans cet article que ce renouveau ne se fonde pas sur rien.

Nous nous arrêterons dans cet article plus particulièrement sur la brève mais notable période de la République tripolitaine de 1918, première ten-tative de cette sorte en pays arabe, durant laquelle un projet de constitu-tion démocratique fut esquissé2. Si elle ne porta pas ses fruits, du fait des hésitations italiennes et des rivalités libyennes, cette tentative n’en consti-tue pas moins, près d’un siècle plus tard, un précédent remarquable, digne d’être rappelé.

Nous souhaiterions donc proposer ici un rappel de cet épisode his-torique plutôt méconnu à travers la figure de l’homme politique libyen,

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Mohammed Fekini (1858-1950), dont la carrière s’étendit depuis la tutelle ottomane, en traversant les diverses étapes de la phase coloniale jusqu’à l’exil durant la seconde guerre mondiale, et enfin la création de l’État li-byen indépendant.

Car outre sa riche carrière personnelle, deux de ses fils ont pu incarner deux moments décisifs de la vie politique libyenne: le premier, Hassan, aurait pu, s’il n’était mort au combat dans la fleur de l’âge, représenter un type rare de synthèse des cultures libyennes et italiennes; le second, Mo-hiyeddine, participa en tant que premier ministre du royaume de Libye, à l’élaboration et à la mise en œuvre d’une politique progressiste dans les années 1960.

De l’Empire ottoman à la République tripolitaine

Né à Tardiyya, en Tripolitaine (la région occidentale de l’actuelle Li-bye), alors province ottomane depuis 1551, Mohammed Fekini était au début du XXe siècle un notable, haut fonctionnaire de l’administration ottomane, qâimaqâm de Fassato puis moutassarif du Djebel. Si la province dans laquelle était né Mohammed Fekini semblait quelque peu isolée dans le vaste Empire ottoman, elle allait en ce début de siècle connaître des turbulences qui la mirent au centre de l’attention des dirigeants d’Istanbul et d’un État européen. En 1908, son frère cadet, Ahmad Fadel (1875-1965), participa à l’expérience parlementaire lancée par le gouvernement des «Jeunes Turcs», parmi les 60 députés arabes sur les 288 membres de ce parlement.

Cependant cette expérience parlementaire ottomane, qui réunit des représentants d’Europe, d’Asie et d’Afrique, s’acheva, le 26 août 1912, dans une crise, à laquelle d’ailleurs l’intervention militaire italienne ne fut pas étrangère. Quel qu’ait été le destin de cette institution, elle demeure un précédent non négligeable car «les ottomans dotèrent les provinces qui leur étaient soumises d’institutions administratives, et celles-ci, en dépit de leurs lacunes et de leurs imperfections, avaient un certain caractère de modernité»3.

Cependant cette ultime tentative de rénovation politique ottomane se fit sous le regard avide des puissances européennes, dont l’Italie qui enten-dait se tailler une place au soleil en Afrique, surtout depuis que la France était présente en Tunisie. Le 29 septembre 1911, la guerre italo-turque

La Libye avant avant le renouveau actuel

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était déclarée. Le 4 octobre, d’importantes troupes italiennes débarquaient en Tripolitaine et le 5 novembre, l’Italie annonçait l’annexion de la Tripoli-taine et de la Cyrénaïque (la région orientale de Libye), qui devint effective le 25 février 1912.

La résistance ottomane s’organisa sous le commandement d’Ismaïl Enver4, envoyé en Tripolitaine pour y diriger les opérations militaires, qui conclut une alliance avec la confrérie des Sénoussis, basée en Cyrénaïque, et qui était alors la principale confrérie religieuse du pays. La chambre ottomane fut dissoute en janvier 1912, et la guerre italo-turque s’acheva le 18 octobre de la même année par le traité d’Ouchy, lequel céda à l’Italie les provinces de Tripolitaine et de Cyrénaïque, bien que seule la première fût réellement sous le contrôle de l’armée italienne. En effet, les italiens connurent de nombreuses déconvenues avant de prendre définitivement le contrôle du territoire libyen à la fin des années 1920. En outre, l’annexion italienne ne fut reconnue officiellement par la Turquie qu’avec le traité de Lausanne, en 1923.

Dans un premier temps, Mohammed Fekini adopta une attitude réa-liste (et plus conciliante que celle de son rival berbère, Soulayman al-Ba-rouni) quant à l’occupation italienne, ne réclamant qu’un protectorat sem-blable à ceux accordés à la Tunisie et à l’Égypte. Il fut nommé gouverneur du Djebel par le gouverneur italien de Tripolitaine mais se refusa à partici-per à des expéditions punitives contre ses voisins.

Cependant avec le déclenchement de la première guerre mondiale (et le retour des turcs en Libye), éclata la grande révolte à laquelle il participa avec les autres chefs libyens, mais dont l’instigation revenait surtout à la confrérie sénoussie soutenue par les ottomans. De 1914 à 1918, les italiens eurent à faire face à cette révolte, en essuyant quelques défaites militaires cuisantes comme celle de Qasr Bu Hadi, le 29 avril 1915, tout en s’enga-geant dans la première guerre mondiale à partir de mai 1915 aux côtés des Alliés. Durant l’été 1915, la «révolte arabe» provoqua le repli des troupes italiennes sur la capitale, les Italiens se retrouvant ainsi à leur point de dé-part de 1911. À l’automne 1915, une attaque visa la garnison britannique de Salloum, à la frontière avec l’Égypte.

En 1917, un premier accord fut signé à Acroma, le 17 avril, qui éta-blissait une sorte d’armistice entre les italiens et les forces de Mohammed Idriss Sénoussi, chef de la confrérie, sans renoncer à la prétention italienne à la souveraineté sur la Cyrénaïque. Néanmoins cet accord, dû aux bons

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offices des britanniques soucieux de pacifier la frontière égyptienne, rame-na la paix dans la région orientale.

En 1918, la guerre s’achevait à peine en Europe que des chefs libyens de Tripolitaine se réunirent à al-Qassabat, où, le 15 novembre, fut lue cette proclamation: «La nation tripolitaine a décidé de proclamer son indépen-dance et la République avec l’accord des oulémas, des notables et des chefs militaires représentant toutes les régions du pays […]. La nation tripoli-taine se considère comme détentrice de son indépendance, acquise grâce à la lutte de ses fils durant les sept années passées»5. Cette proclamation fut accompagnée de courriers envoyés, le 16 novembre, aux gouvernements italien, français et britannique ainsi qu’au président américain Wilson, lequel avait dès le 8 janvier 1918 fait son fameux discours au Congrès insistant sur le droit des peuples à disposer d’eux-mêmes et la limitation de la souveraineté ottomane aux seules régions turques. La lettre au prési-dent du conseil italien appelait «le gouvernement italien à reconnaître le gouvernement républicain tripolitain, et à faire en sorte que ce dernier ne soit contraint de poursuivre la guerre pour réaliser ses espoirs légitimes».

Il est important de noter le caractère laïque de cette République, énon-cé par le député tripolitain Farhat Bey à un journaliste français: «Guerre sainte! N’employez pas ce mot… Vous nous rendriez suspects en France. Nous sommes des patriotes pieds nus et en haillons, comme vos soldats de la Révolution et non des fanatiques religieux. Si le gouvernement turc nous abandonne, nous proclamerons qu’il a perdu tout droit sur notre pays, et nous formerons la République de Tripolitaine»6.

La première réaction italienne consista à envoyer en Libye des renforts militaires, disponibles grâce à la fin de la guerre en Europe, puis le ministre des colonies Colosimo et le gouverneur de Tripolitaine Garioni autori-sèrent le général Tarditi à entamer des pourparlers, en mars 1919. Ils abou-tirent à un projet de statut qui fut ensuite promulgué le 1er juin. «En vertu de cet acte, les habitants de la Tripolitaine sont élevés à la dignité morale et politique de citoyens jouissant des mêmes droits que ceux concédés ici aux citoyens italiens, et ils sont appelés à concourir au gouvernement de la chose publique et à l’administration du territoire sous la forme la plus étendue et concrète, dans un régime de liberté et de progrès civil, qui est pour eux le gage d’un avenir serein».

Les 41 articles comprenaient notamment:1. La reconnaissance d’une «citoyenneté italienne de Tripolitaine».

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2. La substitution d’un service militaire obligatoire par un service vo-lontaire.

3. L’institution d’un parlement local.4. La reconnaissance de la langue arabe à égalité avec la langue italienne.5. La reconnaissance des libertés de presse et de réunion.Cette Loi fondamentale était «remarquablement libérale, en accor-

dant de larges pouvoirs aux dirigeants locaux, et allait bien au-delà des concessions faites à des groupes nationalistes dans les pays voisins»7. Cette attitude libérale était aussi motivée par les difficultés économiques du royaume d’Italie, sorti exsangue de la première guerre mondiale. Restait à l’appliquer dans un pays qui avait aussi son poids de féodalisme et de rivalités régionales, outre des dissensions entre arabes et berbères.

Du fait de son apport à la rédaction du statut, Mohammed Fekini fut désigné pour faire partie du Conseil de gouvernement. Sa position sur cette Loi est exprimée sans ambigüité dans un courrier adressé au ministre des colonies en date du 30 septembre 1920: «Personne ne veut plus que moi son application immédiate, car depuis que je suis arrivé dans cette région je n’ai cessé de la préparer, en faisant des propositions indispensables au gouvernement central, et j’ai reçu par télégraphe une réponse approba-tive dans l’ensemble»8.

Ce tournant, qui permit aux italiens de rapatrier une bonne partie de leurs troupes, se concrétisa par la nomination pour la première fois d’un civil comme gouverneur de Tripolitaine.

En septembre 1919, la République devint le Comité central de réforme dont furent membres Ramadan Shtiwi, Ahmad Mrayyed, Abd al-Nabi Belkheyr et Soulayman al-Barouni. En outre faisait office de conseiller Abd al-Rahman Azzam, un égyptien venu en Libye dans le sillage du prince ottoman Othman Fouad9 et dont le couronnement de la carrière poli-tique devait être, après la seconde guerre mondiale, le secrétariat général de la Ligue arabe10. Pour garantir les droits à peine acquis, les membres du Comité rédigèrent pour leur part un «pacte conventionnel»:

1. Respect et protection absolue des règles de la Loi fondamentale et maintien d’une paix générale pour éviter toute effusion de sang musulman.

2. Arrestation immédiate de quiconque violerait la Loi fondamentale.3. L’accord unanime était nécessaire pour prendre des décisions concer-

nant les affaires générales.4. Tous les signataires du Pacte conventionnel étaient égaux entre eux.

Anwar Fekini

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Les décisions étaient prises à la majorité.5. Tout changement ne serait légal que s’il aurait rencontré un consen-

sus général.

De la République tripolitaine au royaume de Libye

Si certains italiens étaient réservés face à cette Loi, notamment ceux qui allaient ensuite appliquer la politique fasciste en Libye, ce fut un libyen qui s’y opposa le premier, Ramadan Sthiwi11. Ce chef de la région centrale de Misrata, de laquelle les italiens s’étaient retirés, prétendait que la région des Orfella était de son seul ressort, une requête rejetée par les membres du Conseil qui souhaitaient maintenir la division administrative ottomane. L’obstination de Shtiwi, fondée sur sa rivalité avec la famille Muntasir et Abd al-Nabi Belkheyr qui lui reprochait ses positions hostiles aux Sénous-sis, poussa les autres chefs à former une coalition, ce qui menaça de dislo-quer la région. Comme le souligne Lisa Anderson, «la rareté des ressources et l’attrait des notables pour les postes administratifs, avec leurs pouvoirs de lever des impôts, exacerbèrent les luttes intestines entre les chefs de la République»12.

Le 23 mai 1920, Ramadan écrivait au ministre des colonies, Ruini: «Je suis disposé à m’employer avec toute mon autorité à assurer l’ordre et à faire appliquer le Statut, à condition d’obtenir de nouvelles bases de nature à empêcher la politique séparatiste et celle des intérêts personnels»13. Le 24 août 1920, il décida de rompre le siège imposé à Misrata par Abd al-Nabi Belkheyr et lança une expédition sur la région des Orfella, où il perdit la vie.

Une fois Ramadan Shtiwi disparu, restait Khalifa ben Askar, un chef berbère qui lui attaqua en septembre 1920 les villages arabes du Djebel. Cette attaque était la poursuite d’une rivalité qui avait produit une pre-mière crise en 1916, lorsque les Berbères avaient dû quitter leur région pour ne s’y réinstaller que trois ans plus tard.

Chef de cette région sensible de Tripolitaine, Mohammed Fekini fut au cœur de cet épisode troublé. Depuis 1912, il s’opposait vivement à Soulayman al-Barouni qui entendait s’y tailler un émirat ainsi qu’à Khalifa ben Askar. Cette rivalité prit un tour personnel lorsque son fils aîné Has-san, trouva la mort dans une expédition, le 12 septembre 1920, qui visait à contenir les abus de Khalifa ben Askar. Sa mort survenait moins d’un

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mois après celle de Ramadan Shtiwi, mais à la différence de celle de ce der-nier, la personnalité de Hassan Fekini représentait un possible renouveau parmi les dirigeants tripolitains, de par ses attaches familiales et régionales comme par sa connaissance approfondie de l’Italie, où il avait étudié et s’était encore rendu en juin 1920. Il avait même su y susciter l’intérêt et gagner l’estime du sociologue et sénateur du royaume, Gaetano Mosca.

Toutefois Mohamed Fekini ne laissa pas prévaloir cet aspect personnel face à la mort de son fils aîné, et selon le témoignage de Raffaelle Rapex, il quitta son poste de conseiller du gouvernement pour protester contre la collusion de ce dernier avec Khalifa Ben Askar. En outre, le gouvernement italien ignorant sa demande d’envoi d’une expédition punitive contre Kha-lifa Ben Askar, Mohammed Fekini quitta Tripoli avec ses hommes pour venger la mort de son fils14.

Il est vrai que les italiens étaient alors plus soucieux de contrer le dan-ger venu de Cyrénaïque et, en octobre 1920, de nouvelles négociations furent engagées qui aboutirent à l’accord d’al-Rajma, visant à reconnaître le pouvoir des Sénoussis sur la province en échange d’une application de la Loi fondamentale. Le parlement de Cyrénaïque se rassembla cinq fois jusqu’à sa dissolution en 1923, mais il se limitait à des chefs tribaux, qui ne représentaient ni les villes ni les italiens.

En Tripolitaine, les élections n’eurent jamais lieu, et les querelles entre chefs arabes et berbères s’intensifièrent. Pour sortir de l’impasse, les diri-geants tripolitains se réunirent eux à Gharyan en novembre 1920. Les rela-tions entre arabes et berbères s’étant détériorées, le chef berbère Soulayman al-Barouni refusa d’y assister. Les délégués de cette conférence établirent une commission pour engager des négociations directement avec Rome. Ses délégués devaient y formuler deux requêtes principales: la révision du Statut concédé en 1919, et toujours pas appliqué, et la constitution d’un gouvernement autonome de Tripolitaine, sous protectorat italien. Or cette commission ne fut reçue qu’en avril 1921 par le ministre des colonies, Luigi Rossi, les italiens exigeant la libération préalable de prisonniers ita-liens; la rencontre n’aboutit à aucun résultat tangible15.

En octobre 1921, les opérations menées par Mohammed Fekini contre les chefs berbères de Rehibat reprirent, puis il occupa Jado, Fassato, Ca-bao et Nalout, ce qui provoqua l’exode de 15.000 berbères qui trouvèrent refuge dans les zones côtières occupées par les italiens. Encore une fois le témoignage de Raffaelle Rapex est précieux: «Il apparut au gouverneur

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Volpi, dès les premiers jours de son gouvernorat, qu’il fallait se rapprocher de Mohammed Fekini qui, de son côté, ne se lassait de répéter que sa lutte n’était dirigée que contre les chefs berbères qui l’avaient offensé et contre Soulayman al-Barouni qui les encourageaient, mais que ses sentiments de sujétion envers le gouvernement restaient inchangés16. Le gouverneur Volpi entra alors en contact avec Mohammed Fekini puis, le 22 décembre 1921, lui donna raison en éloignant définitivement de Tripolitaine Soulay-man al-Barouni désigné comme fauteur de troubles.

Le second événement capital de cette période fut la convocation, à la mi-janvier 1922, à Syrte, à mi-chemin de la Tripolitaine et de la Cyré-naïque, d’un congrès qui se conclut par une décision à caractère histo-rique: les deux régions, ex-vilayets ottomans, n’auraient plus désormais qu’un seul chef, le Mohammed Idriss Sénoussi. En outre, un pacte d’unité nationale fut conclu qui posait les bases d’un État, doté d’un parlement17. Cependant cet accord équivalait à un faire-part de décès de la République tripolitaine.

Entre-temps, après une année d’instabilité qui vit se succéder pas moins de quatre ministres des colonies, Giuseppe Volpi, gouverneur de Tripoli-taine depuis juillet 1921, suite à quelques mois d’observation et d’attente, vit dans cet accord un défi à l’autorité italienne, laquelle avait, en vertu des accords d’al-Rajma, accordé un certain degré d’autonomie à la Cyrénaïque et voyait ses intérêts de plus en plus menacés.

Dans un tel contexte, Volpi chercha à obtenir la neutralité de Moham-med Fekini, auquel il écrivait en août 1921: «Si aujourd’hui nous jouissons de la sécurité et de la prospérité, c’est grâce à vous. C’est la raison pour laquelle je compte sur votre aide pour rétablir un état de sûreté permanente selon les lois et exigences de la justice […]. Nous devons travailler résolu-ment et sincèrement à appliquer dès que possible la Loi fondamentale»18.

De nouvelles rencontres eurent lieu à Fondouq al-sharif qui n’abou-tirent à rien. Cependant, le ministre des colonies Amendola affirmait ne pas vouloir renier le statut de 1919, en ajoutant: «Aucun ordre ne sera possible en Libye tant qu’y règneront les rivalités entre chefs, rivalités desquelles, peut-être, à quelques moments, selon une vision erronée des choses, on a pu croire tirer des avantages qui nous seraient utiles». Mais selon l’historien Angelo Del Boca, ce discours arrivait «après trois ans d’atermoiements, de promesses non tenues et d’intrigues; le message venait trop tard parce que les demandes des Tripolitains n’étaient plus les mêmes»19.

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Selon Raffaele Rapex, membre du cabinet de Volpi, l’intention de ce dernier était de «mettre en œuvre des dispositions législatives devant conduire à la convocation immédiate du Parlement et de cette représen-tation légale qui pourrait légitimement parler au nom de la population tripolitaine»20. Plusieurs mesures significatives s’ensuivirent comme l’abo-lition du tribunal pour indigènes, l’institution d’un tribunal supérieur autonome de la charia, une amnistie pour délits politiques. Cependant le gouverneur voyait dans le Comité central de réforme un État dans l’État et interpréta étroitement les requêtes faites par les chefs tripolitains lors de la visite du prince héritier italien, Umberto. Un d’eux affirma notam-ment: «Les Arabes de Tripolitaine, Votre Altesse, sont profondément bles-sés par la considération dans laquelle les tiennent les colonialistes lesquels les considèrent comme une quantité négligeable»21.

Ne voyant, pour préserver ses intérêts, d’autre voie que la restauration de la domination effective de l’Italie, Volpi décréta le débarquement de troupes à Misrata, le 26 janvier 1922. En avril, la trêve achevée, la Répu-blique tripolitaine avait échoué à réunir les deux provinces qui restaient désunies par une méfiance réciproque. En octobre de la même année, le fascisme parvint au pouvoir à Rome, ouvrant une nouvelle page de la poli-tique italienne en Libye. En décembre, Mohammed Idriss Sénoussi partit en exil en Égypte, où il demeura jusqu’en 1943.

Cette période fasciste de la colonisation de la Libye fut marquée par des succès militaires qui permirent aux italiens d’avoir conquis la totalité du territoire en 1924, en ayant recours à des méthodes radicales comme l’usage de gaz contre les combattants adverses et l’incarcération de popu-lations en camps de concentration. Le commandant en chef Rodolfo Gra-ziani et le général Pietro Badoglio devaient ensuite appliquer les mêmes méthodes en Ethiopie.

Mohammed Fekini fut également un des acteurs de cette période de défaite pour les résistants libyens: il lutta contre les italiens dans le Djebel de 1922 à 1924 puis s’étant réfugié dans le Fezzan, (la région méridionale de la Libye, la plus inaccessible), il fut contraint de traverser la frontière algéro-libyenne en février 1930 pour trouver ensuite refuge, avec sa famille et plusieurs centaines de combattants, en Tunisie en 1931.

C’est donc Gabès, au sud de la Tunisie sous protectorat français, qu’il suivit les événements dont son pays et le monde furent le théâtre: la décla-ration de guerre italienne puis l’affrontement entre les troupes italo-al-

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lemandes et anglaises et enfin la victoire de ces dernières qui permit la libération de la Libye du joug italien.

En juin 1940, alors que le rêve colonial italien semblait réalisé (70.000 colons italiens vivaient en Tripolitaine, dont la moitié à Tripoli, et 40.000 en Cyrénaïque), l’engagement italien auprès de l’Allemagne changea la donne. Dès l’automne 1942, après la bataille d’El-Alamein, l’avantage revenait aux forces britanniques qui pénétraient en territoire libyen tandis que les Forces françaises libres, après avoir mis en échec l’avancée alle-mande à Bir-Hakeim, en mai-juin 1942, progressaient en Afrique équato-riale, aux portes du Fezzan. Un an plus tard, le pays était sous administra-tion britannique en Tripolitaine et Cyrénaïque (et cela devait durer jusqu’à 1947) et sous administration française dans le Fezzan (et cela devait durer jusqu’à 1951).

Pendant ce temps, la tâche de réunir les deux régions principales sous la houlette des Sénoussis s’accomplit, avec l’arrivée d’une nouvelle généra-tion d’hommes politiques. Dans cette période délicate, les tripolitains qui avaient gardé le souvenir de leur république, se montrèrent plus ouverts que leurs pairs de Cyrénaïque. En 1947, la Tripolitaine avait une demi-douzaine de partis tous favorables à l’indépendance du pays, à l’union des trois provinces et à l’adhésion à la Ligue arabe22. Le principal sujet de dis-corde était le rôle de la famille Sénoussi.

Ces questions s’ajoutaient à celle des intérêts des puissances victorieuses, ce qui fit qu’une commission quadripartite vint en Libye, avant de confier la question à l’Assemblée générale des Nations-Unies, le 15 septembre 1948. Le plan Bevin-Sforza qui proposait un protectorat de 10 ans de la France sur le Fezzan, de l’Italie sur la Tripolitaine et de la Grande-Bretagne sur la Cyrénaïque provoqua des manifestations populaires et resserra les rangs des hommes politiques libyens. À la réunion suivante de l’Assemblée générale des Nations-Unies, la Grande-Bretagne avait décidé d’octroyer unilatéralement l’indépendance à la Cyrénaïque sous la direction de Mo-hammed Idriss Sénoussi. En créant ce précédent et plaçant ce dernier dans cette position avantageuse, la Grande-Bretagne préservait ses intérêts dans la région. En février 1950, la France créa un gouvernement transitoire au Fezzan, et le 29 novembre 1949, une résolution sur l’indépendance de la Libye (à partir du 1er janvier 1952) fut adoptée.

Dans le contexte de la guerre froide, une des considérations de la Grande-Bretagne et des États-Unis fut qu’en tant qu’État indépendant, la

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Libye pouvait accueillir des bases militaires étrangères. Ce sont donc des considérations de politique internationale qui présidèrent à la création du Royaume uni de Libye, qui devint donc un État par le fait colonial puis par un concours de circonstances internationales, plus que par une tradition et une évolution locales.

Du point de vue idéologique et culturel, le premier contact qu’avaient eu les libyens avec l’État moderne occidental durant la première partie du XXe siècle avait été particulièrement brutal. L’Italie, en quête de pres-tige parmi les nations européennes, avait surtout conquis les régions otto-manes pour y trouver un exutoire à sa surpopulation, excluant les libyens de l’administration de leur colonie23. Le résultat fut que la bourgeoisie locale était presque inexistante, et que les allégeances familiales, locales ou tribales reprirent le dessus sur le sentiment de citoyenneté.

Le Sénat du pays consistait en 24 membres, 8 pour chaque province, dont la moitié était nommée par le roi. Un député était élu à la chambre des représentants pour 20.000 habitants. Le gouvernement était respon-sable devant le roi, qui pouvait le renvoyer, et devant le Parlement, qui pouvait le démettre par un vote de défiance.

En fait, le Parlement ne pouvait contrôler le gouvernement qui contrô-lait les élections. Le pouvoir émanait du roi ou du dîwân royal (constitué en grande partie de chefs de Cyrénaïque). Tous les gouvernements renvoyés le furent pour cause de litiges entre la cour et le gouvernement. À la suite des premières élections parlementaires, tous les partis politiques furent inter-dits, ce qui contribua au désintérêt des électeurs. Ce fut d’ailleurs, jusqu’à ce jour, l’unique expérience d’élections avec des partis en Libye.

Un projet républicain vit le jour en 1955, promu par le premier mi-nistre Ben Halim pour résoudre le problème posé par la structure fédérale du royaume et pour échapper aux intrigues de la famille Sénoussi. Il pré-voyait l’abolition du fédéralisme et la transformation de la monarchie en république, avec le roi Idriss comme président pour un mandat unique de 10 ans. Si le fédéralisme fut bien aboli en avril 1963, le projet républicain fut abandonné, ce qui montre que l’intention était bien de réorganiser le royaume pour s’adapter à la rente pétrolière, et non de changer de régime24.

C’est en exil à Gabès que Mohammed Fekini s’était éteint à l’âge de 92 ans en 1950, mais un autre des ses fils reprit le flambeau, Mohiyeddine qui fut à la tête du gouvernement du 19 mars 1963 au 22 janvier 1964. Après des études à la Sorbonne, il avait intégré le corps diplomatique où il

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représentait la nouvelle génération de technocrates éduqués en Occident. Il s’illustra par des mesures économiques et sociales ainsi qu’en concédant aux femmes le droit de vote aux élections générales. C’est peut-être son ambitieux programme de réformes qui provoqua sa chute, accélérée par des troubles consécutifs au deuxième sommet de la Ligue arabe au Caire, le 13 janvier 1964.

C’est en assistant à ce sommet qu’il apprit la mort, à Benghazi, le 14 janvier, de deux lycéens abattus par la police alors qu’ils manifestaient leur soutien à la cause palestinienne. Il dépêcha une enquête qui visa le géné-ral Mahmoud Bouqwitine, par ailleurs connu pour sa corruption, mais le palais refusa de le limoger, ce qui entraîna, le 22 janvier, la démission circonstanciée du gouvernement Fekini, que le roi accepta.

Le manque de légitimité du régime monarchique ne put que souffrir de telles palinodies comme de l’incapacité du roi à mettre un terme à la corruption, laquelle n’avait fait que croître avec l’afflux d’argent provoqué par l’exploitation pétrolière à partir de 1960. Le 1er septembre 1969, le coup d’État du capitaine Kadhafi acheva un régime fragile et discrédité. Des voix s’étaient pourtant élevées pour avertir le roi du danger. Ainsi en mai 1969, le frère de Mohiyeddine Fekini, Ali Noureddine ex-ambassa-deur, avait adressé une supplique au roi l’enjoignant de mettre un terme à la corruption25.

Avec la prise du pouvoir du capitaine Kadhafi commence une des pé-riodes les plus troublées, et des plus originales, de l’histoire libyenne. En 1973, ce militaire instaura un régime dictatorial qui se voulait unique en ce qu’il prétendait être une démocratie directe, ce qui fut théorisé dans Le livre vert à partir de 1975, puis consacré dans l’appellation de «Jamahi-riyya», ou «État des masses» en 1977.

Les relations extérieures de la Libye passèrent par plusieurs phases, d’abord nationaliste arabe avec plusieurs projets d’union, dont un avec l’Egypte voisine, qui avortèrent, puis une phase de tensions avec l’Occi-dent et de soutien actif à plusieurs formes de terrorisme, cette période culmina avec le bombardement américain de Tripoli en 1986. Pour le reste, le régime développa une politique de coopération avec de nombreux pays africains.

Enfin le rapprochement avec l’Occident, après l’opération américaine en Irak, se manifesta dans une phase de désarmement, en échange d’un retour au sein des instances internationales, accompagné d’une ouverture

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économique26. En 2009, le régime libyen fêta ses 40 années, avant qu’une vague de

soulèvements populaires démocratiques en Afrique du Nord ne l’ébranle, après les régimes tunisiens et égyptiens. Cette contestation inattendue prouva, pour le moins, la volonté des sociétés en question de prendre en main leur destin contre des régimes affaiblis et dépourvus de légitimité.

Il est frappant de constater que les libyens qui avaient rejeté l’assaut et l’intrusion italiens en 1911 se sont révoltés contre le régime de Kadhafi un siècle après, à la faveur de ce «printemps arabe» de 2011. Si les précédents démocratiques de la Libye sont plus rares que ceux de ses deux voisins, et si l’issue du mouvement de contestation y reste inconnue, il n’en reste pas moins que le République tripolitaine de 1918 constitue non seulement un exemple digne d’être rappelé et étudié, mais une étape indispensable à la compréhension du dernier siècle dans ce pays.

Note al testo1 Démocraties sans démocrates, sous la direction de Ghassan Salamé, Fayard, Paris 1994.2 Dirk Vandewalle, A History of Modern Libya, Cambridge 2006.3 Histoire de l’Empire ottoman, sous la direction de Robert Mantran, Fayard, Paris 1989, p. 420.4 Futur ministre de la Guerre ottoman, plus connu sous son titre d’Enver Pacha.5 Angelo Del Boca, Naissance de la nation libyenne, Milelli, Villepreux 2008, p.97.6 Cité par Philip Hendrick Stoddard, The Ottoman Government and the Arabs, 1911 to

1918,A Study of the Teskilat Mahsusa, Princeton 1963, p.3.7 D. Vandewalle, A History of Modern Libya cit., p. 28.8 Archives Anwar Fekini: Mohamed Fekini, Mémoires, annexe n. 42.9 Futur roi d’Égypte en 1922.10 Anna Baldinetti, Italian Colonial rule and the Muslim Elites in Libya: A relationship of Antago-

nism and Collaboration » in Guardians of faith in Modern Times: ulama in the Middle East, sous la direction de Meir Hatima, Brill, Leiden and Boston 2009.

11 Ou Suwayhli. Voir à ce propos, Lisa Anderson, Ramadan al-Suwayhli, Hero of the Libyan resistance in Edmund Burke III, Struggle and Survival in the Modern Middle East, I.B. Tauris, London & New York 1993, pp.114-128.

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12 Ibidem, p. 125.13 MAE, Archives historiques du ministère de l’Afrique italienne, Libye, télégramme du 23 mai

1920.14 R. Rapex, L’affermazione della sovranità italiana in Tripolitania, Chihli Press, Tientsin 1937,

p. 104.15 A. Del Boca, Naissance de la nation libyenne cit., pp. 136-137.16 R. Rapex, L’affermazione della sovranità italiana cit., pp. 122-123.17 A. Del Boca, Naissance de la nation libyenne cit., pp. 151-152..18 Archives Anwar Fekini, annexe n. 76.19 A. Del Boca, Naissance de la nation libyenne cit., p. 161.20 R. Rapex, L’affermazione della sovranità italiana cit., p. 103.21 A. Del Boca, Naissance de la nation libyenne cit., p.144.22 D. Vandewalle, A History of Modern Libya, Dirk Vandewalle, idem, p. 38.23 Sergio Romano, Storia d’Italia dal Risorgimento ai nostri giorni, Milan 1978, p. 140. 24 D. Vandewalle, A History of Modern Libya cit., p. 63.25 Archives Anwar Fekini: Ali Noureddine Fekini, Le châtiment.26 D. Vandewalle, A History of Modern Libya cit.

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I Buddenbrook d’Oltremare

di Nicolò Tambone

Quando arriviamo in albergo sono esausto. Lenzuola dal colore incerto mi persuadono a sdraiarmi sopra il letto senza perder tempo a togliermi i vestiti. La notte è fredda, mi avvolgo in una coperta e mi addormento all’istante; cado in un sonno profondo e senza sogni.

Riemergo alle prime ore del mattino a un suono reso distorto dagli alto-parlanti: una nenia, la voce del muezzin che invita alla preghiera. Il sonno abbandona la zavorra un poco alla volta, senza cedere del tutto alla coscienza. Resto per un certo tempo come sospeso, senza memoria del luogo in cui mi tro-vo, del viaggio che mi ha condotto fin qui e dei motivi che mi hanno portato a intraprenderlo.

Filtra attraverso le tende un po’ di luce dai lampioni sulla strada. I vetri alle finestre tremano per effetto di quel vento ostinato di cui finora ho soltanto sentito parlare, il Ghibli, soffia dal deserto portando granelli finissimi di sab-bia. Il tintinnare dei vetri si sovrappone al canto del muezzin. Resto immobile e ascolto. Non voglio muovermi finché non farà giorno. Aspetto l’indomani, la luce; le cose che – ora ricordo – sono venuto a cercare.

La coscienza si fa strada. È una notte di aprile 2009, mi trovo nell’unico albergo di El Merg, altipiano del Gebel, Libia orientale, fuori da qualsiasi itinerario turistico. Settant’anni prima, in questa città, moriva mio nonno. Forse l’indomani riuscirò a localizzare la sua tomba, e dipanare il mistero per il quale lui e i suoi fratelli si avventurarono qui in cerca di fortuna, in un tempo ormai remoto, poco meno di un secolo fa.

Forse viene da qui un certo mio interesse per i fatti del passato, l’ambizione di volerli capire. A chi mi chiedeva cosa andassi a fare in Libia, rispondevo che si trattava di una gita turistica, e in parte era vero. A Tripoli vagavo spensiera-to per il souk. Ma a Sabratha ero già insofferente e non vedevo l’ora di partire per la Cirenaica, arrivare a El Merg, mentre fantasticavo sulle assonanze e sulla suggestione dei nomi: El Merg come El Dorado. Le illusioni umane sono

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in fondo sempre le stesse.El Merg-El Dorado, certo. Ma credo che, nella decisione dei Monaco di

stabilirsi in colonia, agissero anche altri, e più forti, motivi. La fortuna era compiacente con loro, da almeno un paio di generazioni. Non era il caso di cercarla altrove. Credo dunque ci fosse dell’altro. Desiderio di fuga e di autono-mia, la ricerca di un futuro diverso, l’ambizione a migliorare ogni aspetto della propria vita, non solo il profilo economico. Ma queste ragioni, se pure ci sono state, restano per me oscure. E mi accorgo di sapere molto poco sul conto dei vecchi Monaco, delle loro vicende, del loro modo di pensare e stare al mondo.

Remoti e misteriosi, di loro so le poche cose che ho sentito raccontare da quelli che li hanno conosciuti. Racconti decantati da troppo tempo, a volte reticenti, filtrati da abbellimenti e infioriture. So di loro grazie alle fotografie, alle carte. E le carte, poche: quelle conservate per scopi del tutto prosaici, docu-mentare proprietà e certificare esistenze in vita. Molto dicono, ma altrettanto lasciano in ombra, dell’aspetto che a me più interessa, quello umano, emerge poco. Sulla scorta della lezione di Jaques Le Goff, non resta comunque che dipanare l’avventura libica dei Monaco seguendo la labile traccia delle carte.

Innanzitutto le origini. I nomi e la condizione sociale di Michelangelo Monaco e Teresa Bolmida compaiono nell’elogio funebre del figlio Giacomo, arciprete a Mombarcaro (Cuneo), nato nel 1823 e morto nel 1881. Conta-dini, insediati, all’inizio del XIX secolo, a Camerana, al tempo provincia di Mondovì, oggi provincia di Cuneo. L’area è quella appenninica al confine tra Piemonte e Liguria; valle Bormida; alta Langa. Regione storicamente poveris-sima e arretrata, rimasta tale fino a tempi recenti. Crocevia di comunicazione verso il mare, via del sale già in epoca romana; porta d’ingresso della prima campagna napoleonica in Italia. Ed è possibile, anche se mancano i documenti a provarlo, che il vecchio Michelangelo fosse uno dei tanti reduci della Grande Armée, con il Piemonte annesso all’Impero francese e soggetto alla coscrizione obbligatoria.

La coppia aveva altri due figli: Nicola, del quale non si hanno notizie, tranne una labile memoria sulla sua partecipazione a una delle guerre di in-dipendenza, e Carlo, nato nel 1814. Dal testamento olografo di Carlo, redatto nel 1866, si deduce una condizione, per l’epoca, di discreto benessere. È regi-strata la somma di duemila lire, dote della moglie Elisabetta Rabellino, una casa e un po’ di terreno.

Carlo è il patriarca di una famiglia numerosa, come lo erano le famiglie rurali del tempo: quattro maschi e altrettante femmine. Ha un buon mestiere,

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è mugnaio. Sul finire dell’Ottocento, conduce, come locatario, il mulino di proprietà di Fortunato Gambera, possidente del luogo. I rapporti con il Gam-bera tuttavia non sono buoni e un contenzioso sulla manutenzione del mulino finirà in tribunale. Una causa che verrà dibattuta per anni in tutti i gradi, a partire dal 1880, prima nel tribunale di Monesiglio, poi a Mondovì, per finire in Cassazione a Torino, nel 1890, con la sconfitta definitiva del Gambera. Sconfitta che sembra segnare un nuovo corso, con il declino dei Gambera e l’ascesa dei Monaco.

A dispetto del testamento vergato nel 1866, il vecchio mugnaio vive ancora nel 1901, quando si decide (non sappiamo quali argomenti lo convincono) a presentarsi davanti al notaio per una donazione a favore degli otto figli. Viene spartita la cospicua somma di ventottomila lire, la casa adiacente il mulino, e numerosi terreni. Liberatosi dei beni materiali e delle conseguenti preoccupa-zioni, il mugnaio passerà a miglior vita soltanto nel 1909, quasi centenario.

I figli maggiori di Carlo, Michele e Luigi, escono di scena. Nulla si sa del loro destino. Molto probabilmente emigrano, forse in Francia, o negli Stati Uniti. Angelo e Giuseppe, invece, continuano a vivere a Camerana, coltivan-do la terra del padre. Angelo è anche un campione di pallone elastico, sport caratteristico giocato a squadre nelle piazze della Liguria e del basso Piemonte. Giuseppe è il nuovo patriarca, anche se ha «solo» tre figli, non molti per l’epo-ca. Si parla ovviamente dei sopravvissuti, la mortalità infantile essendo a quel tempo un fatto normale.

Perfettamente a suo agio nel suo nuovo ruolo, Giuseppe sembra voler appro-priarsi dello status del quale godevano fino a poco prima i Gambera, memore di una lotta durissima che sarebbe inopportuno definire «di classe», ma piutto-sto di avvicendamento delle élite. Il clima è quello del Piemonte ottocentesco e rurale, profondamente vincolato a usanze e tradizioni che nemmeno ci si im-magina di mettere in dubbio: venerazione assoluta per la monarchia sabauda, una religiosità quasi sanfedista che porta il mugnaio Carlo a legare pel riposo di sua anima messe lette da Requiem duecento. L’ambizione di Giuseppe la possiamo dedurre dalla posa ieratica che assume nelle fotografie, dai baffi a manubrio, lo sguardo fiero che lascia trapelare una certa durezza rivolta a se stesso a agli altri. Dalla nuova casa che costruisce nel 1913: un grande edificio la cui bellezza austera è appena addolcita da una decorazione a trompe l’oeil sulla facciata. La nuova costruzione sembra sancire l’avvenuta rivalsa nei con-fronti dei Gambera, come a sfidare, in dimensioni e architettura, il palazzotto dei rivali che sorge a breve distanza, allineato anch’esso alla strada per Savona.

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Negli anni della prima guerra mondiale, Giuseppe è assessore comunale di Camerana. I figli, Carlo, classe 1895, e Luigi, 1898, sono al fronte. Scarsa la documentazione di quel periodo, limitata a poche foto. Luigi in trincea, probabilmente in Francia, mentre Carlo, sottufficiale dei Carabinieri, dopo un probabile periodo sul fronte italiano, viene destinato, nel 1917, alla Libia. La colonia nordafricana, strappata all’impero ottomano nel 1912, è tutt’altro che sotto controllo. Imperversa la guerriglia e lo sforzo bellico sul fronte della Grande Guerra costringe il governo a centellinare il rafforzamento del contin-gente dislocato in Libia. Purtroppo non è dato sapere molto di più riguardo a questo periodo, del quale si è persa ogni memoria, e anche la documentazione epistolare presenta un vuoto di diversi anni. Ma è proprio il momento in cui Carlo, come ex-militare, ottiene in concessione dal governo una superficie agri-cola di cento ettari nella piana di Barce, in Cirenaica. Barce, il nome latino di El Merg, già insediamento greco e poi romano.

Sulla fascinazione di Carlo per la quarta sponda, si può solo far congetture. Ma è lecito assumere il punto di vista del mondo rurale agli inizi del XX secolo; e credere che, più della retorica nazionalista, abbia agito il senso pratico, il fiu-to per la «terra buona» e la possibilità di ottenere gratuitamente grandi esten-sioni di terreno. Bisogna considerare che le Langhe, e ancor più l’Alta Langa e la Valle Bormida, sono da sempre caratterizzate dalla frammentazione degli appezzamenti di terra, spesso situati in posizioni collinari impervie, che li-mitano le possibilità di coltivazione e irrigazione. L’agricoltura, qui, muove un’economia di mera sussistenza, o poco più. Nessuna meraviglia, quindi, se agli occhi di un giovane degli anni dieci del secolo scorso, la fertile piana di Barce, con i suoi prati a perdita d’occhio, appare come una meravigliosa terra promessa. Soprattutto se si aggiunge l’opportunità di affrancarsi dall’egida del patriarca e dei suoi diktat, ai quali non sfugge nessuno di coloro che ne condi-vidono il tetto.

Resta il fatto che nel 1926 Carlo e Luigi Monaco sono insediati in Cirenai-ca, insieme alla sorella Elisabetta, classe 1904. Ne abbiamo testimonianza da una lettera, vergata in fretta sul foglio strappato da un quaderno, nella quale Luigi trasmette notizie ai genitori.

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Merg 6 agosto 1926Caro PadreMi scuserai se scrivo di rado non è che mi trascuri a non occuparmi, è perché ho sempre poco tempo da perdere. Quando arrivo a casa tra man-giare e altre cose debbo sempre sbrigarmi per la partenza. Poi, capirai, una macchina che viaggia di continuo ha sempre bisogno di qualche cosa: lubrificazione, qualche cosetta per tenerla in ordine da non perdere tempo per strada.Dico sempre scriverò domani; domani passa e passa mesi. [...]

Non sappiamo a quale macchina si riferisca Luigi. Probabilmente un mez-zo agricolo, un trattore, o forse un furgone per il trasporto merci. È certo che i mezzi agricoli importati dall’Europa e costruiti per lavorare in altri climi, richiedono una manutenzione straordinaria, legata alle alte temperature di esercizio, alla tecnologia ancora arretrata dei lubrificanti dell’epoca.

Segue un passo oscuro, dove viene fatto riferimento ad argomenti discussi in corrispondenze precedenti, andate perdute. E vengono per la prima volta elencati gli appezzamenti di terra a disposizione:

[…] abbiamo circa 30 ettari vicino al paese proprio attaccato al campo aviazione e 100 più giù lontano; terreno senza un sasso, piano […] come dal campo Gambera alle case Frati, tutto così.

I terreni, dunque. E a darne idea della bontà, il paragone con il campo Gambera, al paese; il ricorrere dell’antica rivalità, la rivalsa, ora tramutata in inseguimento di benessere e prestigio. Segue un passo dal quale emerge la volon-tà di convincere il genitore che l’impresa coloniale è redditizia, si parla di cifre da inviare a casa e il progetto di un allevamento. Progetto per la realizzazione del quale si cerca il consenso e forse anche un appoggio economico. Poi ancora rassicurazioni sul buono stato di salute.

[...] io devo ritirare 23 mila lire ma le amministrazioni sono rimaste senza soldi, è anche per quello che dobbiamo ritardare a mandarti […] ma con questo giro deve essere sicuro il pagamento. Mi rincresce farti aspettareSoldi guadagnati da me solo con la macchina che vale un 40 mila lire. Questi solo maggio, giugno, luglio […] vedi che lavorando con volontà si guadagna […] perché [l’idea] sarebbe di fare una bella stalla con una

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tettoia da mettere il foraggio o tener bestiame, che il mantenimento qua costa poco, è quasi tutto pascolo. Questo sta già bene ma se non c’è chi li accudisce allora [invece] di guadagnare si perde [...]. La salute non mi manca, la forza neanche. Questo è il capo principale. Vorrei dirti molte cose ma mi aspettano.

La chiusa è interessante. Si palesa in modo più esplicito la richiesta di con-senso e appoggio finanziario (l’unione fa la forza). E una considerazione sul tasso di cambio del dollaro.

L’ultimo periodo, benché sintatticamente sconnesso, è profetico. Di lì a qualche anno la crisi economica del 1929 sconvolgerà, oltre agli Stati Uniti, anche l’Europa e l’Italia.

[…] la penso di fare per unirsi, che l’unione fa la forza. Hai visto che prez-zo il dollaro per le ordinazioni all’estero: 37,29. Povera Italia che miseria verrà vale più un bue nella stalla un tempo che il portafoglio pieno.

Io lascio con salutarviVostro figlio Luigi

Le ultime righe della lettera sono vergate in una grafia diversa. A scriverle è Elisabetta, all’epoca ventiduenne. Molto interessanti perché danno l’idea della condizione femminile nella società del tempo, dell’ingerenza genitoriale nella vita e negli affari sentimentali dei figli, anche se già adulti. Si parla di un certo Nino, riguardo al quale «è cosa di andar piano»; l’agghiacciante remissività contenuta nella frase: «I genitori indovinano sempre tutto».

Si fa cenno a un momento di sconforto per il fratello Carlo, probabilmente in seguito a un malanno passeggero.

Le lettere le abbiamo ricevute tutte. In quanto al colonnello, Luigi, aven-dolo visto di combinazione, non può sapere il suo indirizzo.Avete ragione che riguardo a Nino è cosa di andar piano. I genitori indovi-nano sempre tutto. È stato un momento di sconforto proprio per Carlin, altrimenti qua sto molto bene, mi manca niente e lavoro poco. Tutti mi rispettano. Dunque lascio a voi decidere ma se non gli avete parlato potete anche sospendere.

Saluto, Bettina

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Qualche mese dopo, un’altra lettera di Elisabetta dalla quale si desumono nuovi dati interessanti.

Merg 9 dicembre 1926Cara mammaHo ricevuto il pacco, ti ringrazio molto di aver preso il disturbo di pagare Linda.Spero che già avrete ricevuto la lettera di Luigi, e pure io vi ripeto di non pensare male che noi stiamo bene.Come pure Carlin ha fatto una cura e s’è rimesso molto bene. Al mattino si alza presto, davvero ha fatto un cambiamento che mai mi avrei creduto. E ciò per me è una consolazione.Quei soldi che ricevette [...] in municipio non siamo noi ma è la ditta Epifani. Avrete pure ricevuto i 14.000 mila per pagare i nostri uomini, ab-biamo ritardato perché il governo non pagava e secondariamente abbiamo ancora comperato per 22.000 di terreno perché quella che concedeva il governo non piaceva ai miei fratelli. 5000 mila li avevamo già dati a Linet e Carlo quando son partiti. Dunque [...] son 40000 mila, tutti soldi guada-gnati questa primavera, alla fine di settembre dovremo incassare un 28.000 mila circa e dovete contare che pure già l’annata è stata poco buona. Spero che pure voi state bene, guardate di affittare come disse Luigi che oramai avete lavorato abbastanza. Saluti dai vostri figli Elisabetta. Ti auguriamo un buon onomastico e giorni felici.

Ancora resoconti e ancora cifre, per l’epoca significative. Ma quello che più merita la nostra attenzione è l’attitudine a reinvestire parte dei guada-gni nell’acquisto di nuova terra perché «quella che concedeva il governo non piaceva ai miei fratelli». Attitudine che, come vedremo più avanti, si rivelerà disastrosa. Emerge un aspetto fondamentale del colonialismo italiano, lo sforzo del governo per rendere produttive le colonie, l’erogazione di contributi pub-blici che gravano sulle finanze esauste di un paese in difficoltà, da poco entrato nel ventennio fascista. Spese che si sommeranno a quelle militari, occorrenti ad alimentare le campagne per il pieno controllo del territorio.

Stranamente, nessun accenno viene fatto a questioni di sicurezza. Eppure nella zona, specie sui monti del Gebel, imperversano le bande dei ribelli capeg-giate da Omar Al Mukhtar. La guerriglia terrà sotto scacco l’esercito italiano ancora per alcuni anni, fino a quando, nel 1931, la brutale repressione guida-ta dal generale Rodolfo Graziani non vi porrà fine, con l’arresto e la pubblica

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impiccagione di Al Mukthar. Le operazioni militari della «riconquista» pro-sciugheranno fiumi di denaro pubblico. Verranno compiuti crimini infamanti che graveranno sulla coscienza collettiva degli italiani, e per questo a lungo negati o minimizzati.

Nessuna traccia di tutto ciò nelle lettere dei primi anni. Nella corrispon-denza privata, gli arabi come non esistessero. Senz’altro una rimozione, più o meno cosciente. Perché nei racconti orali, si tramandano le memorie dei patiboli che compaiono sulla piazza di Barce, dai quali pendono i cadaveri dei ribelli impiccati. Anche nelle fotografie, gli arabi sono comparse, appaiono per caso, intenti nel lavoro o radunati in capannelli, addossati ai muri, distanti e sfuocati sullo sfondo. Oppure sono in posa, ma in qualità di elemento esotico, di «mirabilia» kitsch.

Ricorrono, nelle lettere, riferimenti non precisati alla malattia e al recupero della salute, come il sintomo di un male più grande e di natura indefinita. E le ambizioni, il denaro, la rivalità con i Gambera, l’ombra dell’autorità patriarcale. Infinite assonanze con I Buddenbrook di Thomas Mann, come a confermarne la sostanziale verità del romanzo.

Ma atteniamoci ai fatti. Nei primi anni trenta Carlo sposa Felicita Mon-taldo, originaria di Santo Stefano Belbo (CN) e costruisce a Barce una graziosa

La villa dei Monaco a Barce in una recente foto

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villa – ancora oggi esistente –, dotata di allacciamento elettrico e stanza da bagno, comfort molto elevati per l’epoca, dei quali erano ancora prive moltissi-me abitazioni italiane. Nel 1934, Luigi vince le titubanze di una ventenne di Monesiglio, Giuseppina Albesano, e i due si sposano. Merita soffermarsi sulla lettera nella quale Luigi le propone il matrimonio.

[…] Sono libero fino al quindici di giugno, forse interrompo per venirti a sposare. Non dirmi di prolungare Giuseppina, prendi questa decisione con il cuore in pace, se mi vuoi bene, come io ne voglio a te, e questo verrà se non oggi poi […]

Atroce, ai nostri giorni, la frase «questo [l’amore n.d.A.] verrà se non oggi poi». Ma comune, nella mentalità di allora, nel considerare la donna come un essere incapace di autonomia, al quale necessita sempre la guida di qualcuno: genitore, marito o fratello; un tutore che decide per lei cosa è bene e cosa non lo è.

Dalla stessa lettera deduciamo che Giuseppina è tutt’altro che entusiasta di compiere un passo così irrevocabile. Prende tempo con la scusa di completare il corredo di nozze, una sorta di Penelope del XX secolo.

[…] Con la speranza che la prendi presto [la decisione n.d.A.] e che non ci sia più quel benedetto lenzuolo in mezzo o qualche foderetta o qualche fazzolettino, mi fai un semplice telegramma Monaco Barce. – Sta bene – oppure: – non è possibile – ti chiedo riporta per telegramma così mi passo otto giorni di più in Italia e si fa le cose con più comodo […].

Schietto e pragmatico, Luigi prega di non perdere tempo con le lettere d’a-more. Si attende una risposta per telegramma, lascia uno spiraglio alla possi-bilità di un diniego della ragazza, ma per semplice forma, dando quasi per scontato che il matrimonio si farà e con più comodo. L’amore, quindi, può attendere: verrà col tempo. Non può attendere, invece, la terra. E dunque la lettera non tralascia il capitolo affari.

[…] facciamo una società […] tu ti metti subito dietro l’azienda. [...] for-mata la società in tre e ordinato le macchine, scelto il terreno e ottenuto dal Governo la bellezza di molti ettari che spero di arrivarci a seminarlo se le macchine non ritardano oltre il 18 giugno, come d’accordo con la casa costruttrice […].

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Poche righe che quasi inteneriscono per l’ottimismo e l’entusiasmo nel pro-getto nuovo. Si parla di una società da fondare. È il punto nel quale le strade dei fratelli Monaco, dal punto di vista lavorativo, si separano. Pur restando buoni i rapporti familiari, prevale l’ambizione di autonomia di Luigi, che il matrimonio con Giuseppina rende effettiva.

Gli anni dal 1934 al 1939 trascorrono sereni, e oseremmo dire felici, stan-do alle fotografie che di quel periodo ci sono pervenute. Istantanee che mostrano attività come la mietitura e la trebbiatura, inquadrano mezzi agricoli di tutto rispetto come un Caterpillar modello Twenty Two, una mietitrice trainata da un cingolato e l’immancabile trebbiatrice Orsi. Non mancano i momenti di svago: foto di gruppo sui monti del Gebel, in riva al mare a Tolmetta, sui prati immensi della piana di Barce. Una posa frequente nelle fotografie dei coloni, li ritrae tra le altissime e pesanti spighe del grano maturo, a documentarne l’eccezionale qualità e abbondanza. Un simbolo di ricchezza e prosperità, im-magini per ironia della sorte molto simili a quelle coeve del realismo socialista, della propaganda sovietica.

Anni durante i quali non si quietano le ambizioni dei Monaco e la loro fame di nuova terra, che ottengono sia in concessione dal governo, sia acqui-standola dagli arabi. Una scrittura privata del 20 febbraio 1937 documenta che Mohammed Aga e i fratelli Rascid e Abdulaziz Ben Hussein El Turchi, ricevono un acconto di ottocentottanta lire per un terreno da loro venduto. Sempre nel 1937, il sette settembre, Luigi acquista da Scerif ben Salah El Turchi, commerciante e possidente, un terreno sito nel territorio di Barce, con-trada Medina, località Seil El Got, Pozzo Romano, per la cifra di diciottomila lire. Il 22 ottobre 1938, con atto pubblico stipulato dalla Regia Prefettura di Bengasi, Ufficio Affari Economici e Finanziari, Luigi Monaco ottiene dal Governo della Libia la consegna provvisoria del lotto di terreno demaniale n. 5 della estensione circa di ettari 58 del nuovo piano di lottizzazione della zona di colonizzazione di Barce, a condizione che lo stesso Luigi sottoscriva un atto di sottomissione col quale si impegni a firmare il disciplinare di concessione.

Merita qui, a titolo di una breve divagazione, riportare le condizioni im-poste dal governo ai concessionari, in quanto molto dicono, sia sulla politica coloniale, sia riguardo i criteri agronomici predisposti dalle autorità:

a) Il lotto di terreno demaniale n. 5 della superficie circa di ettari 58 fa-cente parte del nuovo piano di lottizzazione delle zone di colonizzazione della piana di Barce gli viene assegnato dal Governo Generale della Libia

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a titolo provvisorio;b) le opere di valorizzazione agraria che verranno eseguite nel lotto non potranno essere ammesse ai contributi dello Stato prima dell’approvazione del disciplinare di concessione;c) la metà della superficie del lotto dovrà essere valorizzata con culture arbo-ree, obbligo questo che, in sede di approvazione del piano di colonizzazio-ne da parte del Ministero dell’Africa Italiana, potrà essere ridotto al 25%;d) sul lotto dovranno essere eseguite culture erbacee avvicendate;e) nel lotto dovrà essere immessa una famiglia colonica italiana;f ) dovrà essere osservata ogni altra prescrizione in materia dei sesti e delle culture.

L’intraprendenza di Luigi Monaco non si ferma qui. Un’altra scrittura privata, il mese successivo, indica che:

In data 12 novembre 1938, alla presenza dei testi Kalifa ben Otmen Bu-ragà della cabila Iorsh ailet Busciahma, nella qualità di tutore e procuratore sciaraitico del minore Mohamed ben Mohamed El Mehascihasc, [...] e di Muftah ben Abdulhamid El Mehascihasc negli interessi propri e della madre Zainab ben Hiteita di cui la Procura del Tribunale Sciaraitico di Bengasi in data 29 gennaio 1931, i quali dichiarano di voler cedere al signor Monaco Luigi di Giuseppe il terreno seminativo situato ad Ovest e Nord di Sidi Gibrin per la durata di sei anni a decorrere dalla suindicata data per il canone complessivo di Lire Cinquemila pagati anticipatamente, che i locatari dichiarano aver ricevuto [...].

Firmano per esteso Muftah ben Abdulhamid e Luigi Monaco, gli altri si-glano con l’impronta digitale. Sei anni a decorrere dal novembre 1938, il ca-none saldato in anticipo. Un pessimo affare, come vedremo. Anche perché l’in-vestimento non si esaurisce con l’acquisizione o locazione dei terreni: occorre un ulteriore impiego di risorse per l’indispensabile bonifica e per l’avviamento della produzione.

Siamo dunque alla fine del 1938 e la parabola dei Monaco è al suo culmi-ne, con la gioia della nascita, nel settembre di quell’anno, della piccola Marisa, figlia di Luigi e Giuseppina.

È un momento storico estremamente infelice, con la recrudescenza del fasci-smo, l’alleanza con la Germania nazista, le leggi razziali. E forse, la distanza

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che li divide dall’Europa, dà ai coloni l’illusione di trovarsi al riparo dagli oscuri eventi che si stanno preparando. Ricordava un anziano ex-collaboratore dei Monaco, durante una conversazione di molti anni fa, che questi erano piuttosto tiepidi nei confronti del regime fascista, affermando che né Luigi, né Carlo avevano la tessera del partito. Testimonianza sulla quale – almeno per quanto riguarda Luigi – è lecito esprimere qualche riserva, se si tiene con-to dell’«atto di sottomissione» menzionato nel documento dell’Ufficio Affari Economici e Finanziari. Atto di sottomissione che deduciamo non limitato al disciplinare di concessione, ma che doveva estendersi per forza di cose al regime, ed essere dimostrabile previa esibizione della tessera all’atto della domanda.

Ma abbandoniamo le congetture e torniamo ai fatti, che all’esordire del 1939, volgono irreversibili in tragedia, preconizzano il dramma terribile che sta per abbattersi sull’Europa e sul mondo, travolgerà senza risparmio le pro-vince d’Oltremare.

Il dramma dei Monaco ha inizio con una banale febbre, i cui brividi co-stringono a letto l’infaticabile Luigi, appena rientrato da un viaggio di lavoro a Bengasi. Sulle prime sembra un malanno da poco, ma la tosse implacabile e il catarro rugginoso che ne deriva, impongono l’urgente consultazione del medico. La diagnosi è di broncopolmonite.

Sono gli anni in cui Fleming sperimenta la penicillina, sulla quale il mon-do scientifico non ha ancora espresso un verdetto unanime e che, comunque, presenta difficoltà nella produzione su scala industriale. Nessun farmaco an-tibiotico è dunque disponibile. A quel tempo si può contare solo sulla blanda azione batteriostatica dei sulfamidici, che, seppure di recente scoperta, sono scarsamente adatti a combattere infezioni importanti.Nel volgere di pochi giorni Luigi si aggrava e muore. Avrebbe compiuto quarantuno anni il mese successivo. Testimone della triste vicenda, il ventenne Emilio Albesano, fratello di Giuseppina, che ne fornisce un dettagliato resoconto epistolare.

Benina li 18/1-39-XVIIMamma, Vittorio e Piero carissimi,La vostra mi fece molto piacere, per le buone notizie che mi ha recato.Mentre voi festeggiavate l’arrivo della mamma, qui a Barce perdevamo il caro Luigi, come già saprete. Infatti il giorno dopo la partenza della mam-ma, verso sera, si è messo a letto con la febbre, ma il dottore non ci trovò nulla di grave soltanto il mattino seguente disse che era colpito da bron-copolmonite. Il giorno dell’ Epifania andai a Barce a trovarlo, e ci stetti

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vicino fino che si spense, la domenica sera 8 c.m. Il povero Luigi, benché grave mi volle sempre vicino al letto, mi raccontò minutamente del suo viaggio a Bengasi, poi dei primi brividi di freddo ed i primi giorni della malattia. Durante questi terribili giorni, ci fu sempre la casa piena di amici e conoscenti, che venivano a far visita a Luigi e si prestavano di assisterlo e vegliarlo. Per tutti i sei giorni della malattia c’è sempre stato Carlo e Fe-licita con noi e non ci siamo più spogliati, per poterlo curare ed assistere. Le cure non mancarono; venne il Prof. Prosdocimo e Frinti di Bengasi, oltre il dott. di Barce, e fu sempre assistito da un infermiere dell’ospedale. Purtroppo a nulla valse; dopo aver giocato alle carte tutta la domenica, tranquillo e alquanto sollevato; alla sera si spense, sereno e calmo come era vissuto. Io che non avevo mai visto nessuno a morire, il veder lui non mi fece né spavento né impressione, tanto fu invidiabile la sua morte. La sepoltura poi fu un vero trionfo, tale era commovente e suggestiva. A Barce mai avevano visto tanta gente e sì bella sepoltura. Infatti c’erano quindici corone, offerte tutte dagli operai di Luigi, da amici e da conoscenti suoi c’erano cinque sacerdoti, tutte le autorità civili e militari, una moltitudine di gente grandiosa molti venuti anche da Bengasi. Ai lati delle vie poi, c’era un’interminabile fila di arabi, (circa due o tre mila) che, al passaggio della bara salutavano romanamente, con le lacrime agli occhi. Basti questa breve descrizione a darvi un’idea della grande popolarità e del grande affetto che godeva presso tutte le categorie di cittadini, dalla più alta alle più infime.Il nostro dolore è grande altre ogni misura, non ci sono parole per espri-merlo. In quanto a Giuseppina, specialmente nei primi giorni era come fuori di sé, ma le assidue cure da parte mia e dei veramente buoni cognati, sono riuscite a qualcosa. Infatti ora ha soltanto uno sfogo di pianto ogni tanto, e si cerca di distrarla, benché anche noi si abbia il cuore che sangui-na. Io sono stato a Barce per dodici giorni ed ogni tanto faccio una scappa-ta a vedere Giuseppina che si trova in casa di Felicita, la quale si prodiga in ogni modo per farla mangiare e tenerla un po’ sollevata. La piccola Marisa sta assai bene, e benché si allatti con latte artificiale, perché quello della mamma non basti, per ora, è grassa e vispa come prima.Benché la disgrazia sia grande, ed il dolore pari, occorre farsi coraggio, pensando che il povero Luigi sta certamente meglio di prima poiché se realmente c’è un premio al di là questo non può essere che suo, tale fu santa la sua morte, soddisfatto dei conforti religiosi. Egli sarà certamente col caro papà nostro, ed insieme ci proteggeranno.

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Carlo Monaco e Felicita Montaldo

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Luigi Monaco, Barce 1939

Luigi Monacoe Giuseppina Albesano

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La mietitrice

Mietitura, anni trenta, Cirenaica

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Sui prati della Cirenaica

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Nei campi di grano, Cirenaica. Carlo Monaco, terzo da destra

Casa Ressia a Barce

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Trebbiatura notturna, Barce, anni trenta

Barce, visita di Vittorio Emanuele III

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Il monumento ai caduti sul Gebel

Scampagnata sul Gebel

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Sul Gebel. L’uomo col cappello bianco, accanto alla donna felliniana è probabilmente Umberto Bertaiola, podestà di Barce e presidente del consorzio agrario. Accanto, Car-lo Monaco e la moglie Felicita

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Stazione ferroviaria di Barce

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Giuseppina Albesano e la piccola Marisa Monaco, Barce, 1940 circa

Foto di gruppo a Barce

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Giuseppina Albesano e bimba araba. Barce, anni trenta

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Funerali di Luigi Monaco, Barce, gennaio 1939

In Cirenaica, anni trenta

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Pensandovi sempre bene vi saluta ed abbraccia il vostro aff.moEmilio

Un frate francescano scrive agli anziani genitori di Luigi, in Piemonte, una lettera nel tentativo di consolarli. La missiva è interessante perché il frate, nell’introduzione, si presenta fornendo alcune notizie di sé. Padre Francesco Rovere sarà negli anni a venire un interlocutore fondamentale e, per molto tempo, l’unica fonte di notizie dalla quarta sponda.

La lettera è dattiloscritta su carta intestata al Vicariato Apostolico della Cirenaica di Bengasi.

Bengasi 14 gennaio 1939 XVII

Gentilissimi Signori MonacoCon l’animo ancora oppresso ed addolorato per la perdita del mio caris-simo amico Luigi, non trovo parole per presentarmi a voi, colpiti da sì grande sciagura. Quanto era buono e benvoluto il carissimo scomparso! La sua perdita fu un cordoglio generale ed un lutto cittadino. Forse il vostro Luigi vi avrà parlato di me. Sono un Frate Francescano, na-tivo in quel di Pieve di Teco, e da otto anni missionario in Cirenaica. Sono stato per due anni parroco a Barce, dal Dicembre 1932 al Giugno 1934, ed ho conosciuto i vostri due figli Carlo ed il compianto Luigi. Frequentavo e frequento tuttora molto la loro casa, anzi, due anni fa, per un periodo di tre mesi, sono stato ospite di Carlo, e ci facemmo buona compagnia.Ciò per giustificare questo mio povero scritto.Grande ed incommensurabile è il vostro dolore e rimpianto, e la mia pri-ma parola è quella della rassegnazione. La volontà di Dio ha voluto così: voi dovete, per quanto lo comporta il vostro immenso dolore, inchinarvi a questa volontà divina, che tutto governa, regge ed ordina secondo una legge superiore. Il vostro dolore è condiviso da tanti buoni amici e persone care che aveva l’amato Luigi. Questo vi sia di conforto, perché non siete soli a piangere, ma altre anime delicate e sensibili si uniscono a voi nella preghiera del suffragio cristiano per il defunto; ed in quella al Signore, affinchè voglia concedere forza di resistenza ed ispirare coraggio e rassegna-zione a quelli che sono rimasti nel lutto e nel pianto, e sono certo, che il buon Luigi di lassù guiderà i passi incerti e veglierà sopra la piccola Marisa e sulla sua inconsolabile e desolata Giuseppina.

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Piangete pure tutte le vostre lacrime, esse sono sante, come santi sono tutti i genitori che allevano ed educano persone rette come Carlo e Luigi, ma nelle vostre lacrime vi sia di conforto il pensiero, che Luigi ha fatto una morte da santo, serena e tranquilla e si è spento senza soffrire. Egli due giorni prima di lasciarci ha ricevuto il S.Viatico, con grande devo-zione ed ammirazione di tutti.Durante la sua brevissima malattia non fu mai abbandonato un minuto. I famigliari gli erano sempre attorno per soddisfare ogni suo desiderio, anche minimo; i suoi amici lo hanno vegliato giorno e notte; il Parroco si recava spesso a trovarlo ed a portarci la sua parola di conforto e di sollievo; la Suora infermiera non lo abbandonava mai un minuto sia di giorno che di notte.Fu fatto tutto il possibile per strapparlo al fiero morbo, che ne aveva mina-to la forte e robusta esistenza. Vennero anche celebri medici e professori da Bengasi, si tenne un consulto, ma tutto fu inutile. Il Signore voleva provare la Famiglia Monaco e l’ha provata troppo duramente …, ma Egli sapeva che voi siete buoni, ed anche il povero Luigi era buono; e sappiamo, che i buoni sulla terra devono soffrire più di tutti, che questo mondo non è per quelli che sono santi, il loro posto è in Paradiso, dove, sono certo, si trova ora il vostro amato e pianto Luigi.Appena saputa la triste notizia, ho chiesto il permesso al mio Vescovo di re-carmi a Barce, e vi giunsi il mattino dei funerali, che riuscirono un trionfo della bontà e della gentilezza del povero Luigi. Vi partecipò la città intiera con alla testa tutte le Autorità cittadine. Vi era il Vicecommissario prefetti-zio, il Podestà, il Segretario del Fascio, e poi una folla immensa di uomini, venuti dai centri vicini ed alcuni anche da Bengasi.I suoi dipendenti e quelli di Carlo vollero avere per se l’onore di recarlo a spalle fino al cimitero. Vi erano le Suore con le bambine e cinque sacerdoti, compreso il sottoscritto. Una quindicina di corone dei famigliari e degli amici e dei dipendenti stavano ad attestare col loro omaggio floreale, l’a-more da cui era circondato il povero e mai troppo pianto Luigi.Durante tutto il percorso del corteo, le botteghe ed i negozi della città era-no chiusi, e più di duemila arabi facevano ala e salutavano romanamente il loro Signor Luigi, che tanto bene aveva operato in mezzo ad essi. In Chiesa poi vi fu la Messa Cantata in terzo in forma solenne e molti piangevano.Nel vostro dolore vi sia un po’ di conforto e di sollievo il sapere che Luigi morì da santo, assistito fino all’ultimo dal Parroco, dalle Suore, dai fami-gliari, dagli amici: ed il suo non fu un funerale, ma un trionfo della bontà,

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della gentilezza, e della cortesia del povero estinto, e la dimostrazione di affetto fu tale, che la città di Barce non ne vide mai nessuna uguale. Questo ho voluto farvi sapere per dimostrarvi come amavo il vostro figliu-olo e come lo amarono e lo amano ancora centinaia e centinaia di nazionali e di indigeni, che lo hanno conosciuto, e che ne hanno esperimentato la bontà e la delicatezza d’animo e di coscienza.Appena saputa la notizia della sua dipartita, ho subito celebrato una S. Messa per lui, e continuerò ancora a pregare per l’anima sua benedetta, benché sia certo che non ne abbia bisogno, tanto ha fatto una morte santa e invidiabi-le. Nel giorno dell’ottavario, celebrerò di nuovo una Messa per lui, perché mi è impossibile recarmi a Barce, dove sarà celebrato un solenne funerale.Vogliatemi scusare, se in questo momento, non trovo parole adatte ad ispi-rare nel vostro cuore quella rassegnazione necessaria: ma so che siete buoni cristiani, e perciò vi invito ad elevare il vostro pensiero ed il vostro sguardo al cielo, e lassù in seno a Dio, veder il vostro Luigi, già in possesso di quella felicità, che è riservata ai giusti ed ai buoni come lui.Piangete pure, ma ricordatevi di pregare il vostro Luigi, affinché vi dia quel conforto e quella rassegnazione necessaria per portare senza lamenti e recriminazioni questa tremenda croce, questa prova grande, che il Signore ha voluto mandarvi: pregatelo il vostro Luigi, perché lassù dall’alto vegli amoroso e paterno sopra la sua desolata Giuseppina e sulla piccola Marisa, che tanto e tanto bisogno avevano ancora di lui; che dia ad esse la forza necessaria per sopportare questa tremenda sciagura, e conceda ancora ad esse quella rassegnazione cristiana, che ci rende meno pesanti e tristi i lutti ed i pianti di questa valle di lacrime.Vi resta ancora Carlo; cercate di profondere in lui quella parte di affetto che vi univa al povero Luigi, e sono certo, che sarete pronti ad esaudire qualsiasi desiderio che vi mostrerà: egli è tanto buono e prudente, che merita tutta la vostra fiducia e benevolenza.Vogliate nuovamente gradire le mie più sincere e sentite espressioni di con-doglianza, unitamente alla assicurazione delle mie continue preghiere per l’indimenticabile Luigi.

Dev.mo nel Signore P. Francesco Rovere

È probabile che la lettera di Padre Francesco, così come quella di Emilio Albesano, nel tentativo di consolare, si spinga un po’ oltre il vero e conten-

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ga qualche esagerazione riguardo la partecipazione alle esequie. Specialmente convince poco la grande commozione degli arabi che, come possiamo vedere nelle foto, restano al margine del corteo funebre, radunati in capannelli a ridosso dei muri, come spettatori sfiorati appena da un evento che riguarda i «Taliani». E a guardare bene, dopo aver ingrandito l’immagine molte volte, nessuno è colto con il braccio teso.

A proposito di saluti romani, è degno di nota un episodio piuttosto oscuro, sul quale ormai è impossibile far luce, essendo scomparsi i testimoni diretti e nessun documento ne riporta traccia. Al punto che è impossibile persino stabi-lirne la collocazione cronologica. Tuttavia si tratta di un fatto avvenuto senza dubbio, e che ha segnato nel morale la famiglia Monaco almeno quanto la prematura scomparsa di Luigi. A un dato momento, Carlo Monaco viene arre-stato e incarcerato per motivi politici, molto probabilmente per una delazione seguita a qualche esternazione imprudente riguardo Mussolini o l’operato del governo. Un avvenimento che ricorda a distanza di molti anni la figlia Maria, all’epoca bambina, e confermato da altri famigliari.

Anche se ha solo ventiquattro anni, Giuseppina Albesano dimostra il carat-tere e l’energia necessari ad occuparsi da sola dell’azienda del marito. Per qual-che tempo la vita segue il solco degli anni precedenti, finché l’entrata in guerra dell’Italia non porta nuove ansie. Ansie che crescono, in Libia, dopo la morte, il 28 giugno 1940, del governatore Italo Balbo, vittima di un clamoroso errore, il friend fire della contraerea italiana nella baia di Tobruk.

Successore di Balbo è il generale Graziani, il quale assume il comando dell’armata italiana e riceve da Mussolini il mandato di attaccare gli inglesi e avanzare in Egitto. La situazione tecnico-logistica dell’esercito è disastrosa. Per sopperire alle carenze di mezzi, il generale Graziani impone requisizioni di veicoli e macchine alle imprese insediate in Cirenaica. Vengono smontati gli acquedotti messi in opera da poco tempo; requisiti i preziosi Caterpillar. In sostanza viene disfatto il lavoro di anni proprio nel momento in cui se ne iniziavano a intravedere i frutti.

Poche lettere rimangono di quel periodo; compaiono i timbri della censura. Le comunicazioni si diradano mentre le cose volgono al peggio. Graziani non è riuscito ad avanzare che pochi chilometri oltre il confine. Nel gennaio del 1941 le truppe britanniche, guidate dal generale Wavell, sferrano una controffensiva memora-bile che porterà alla rapida e completa distruzione dell’intera armata italiana.

Sebbene gli eventi precipitano così rapidamente da non lasciare il tempo di predisporre l’evacuazione dei civili, Giuseppina Albesano e Felicita Montaldo,

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con le rispettive figlie, riescono a mettersi in salvo a Tripoli e, da qui, tornare in Italia. Carlo Monaco, invece, rifiuta di abbandonare l’azienda, che rappresen-ta la sua vita, tutto quanto aveva costruito durante anni di impegno e lavoro.

Il 5 febbraio 1941, la 6ª divisione australiana entra in Barce. Negli stessi giorni viene occupata Bengasi. Per ironia della sorte, gli australiani, vale a dire il boomerang dell’aggressione proditoria voluta da Mussolini. Come truppe di occupazione infieriscono con inaudita violenza, saccheggiano, distruggono e violentano. È la rivalsa per i mesi trascorsi nel deserto. Le abitazioni di Luigi e Carlo vengono saccheggiate, gli infissi asportati per ricavarne legna da ardere. Le macchine superstiti, risparmiate dalle requisizioni di Graziani, vengono requisite o danneggiate dagli inglesi.

Le armate britanniche, sottoposte a loro volta all’usura della guerra nel deserto, non sono in condizione di mantenere a lungo le posizioni conquistate. Nell’aprile del 1941 ripiegano di fronte all’avanzata di Rommel, ma, prima di ritirarsi, distruggono tutto quanto fanno in tempo a distruggere. Rommel entra a Bengasi, accolto dalla folla in festa e acclamato come liberatore. Scene che si ripeteranno identiche qualche anno dopo, con gli americani vincitori in Italia: applausi; donne che offrono fiori e fiaschi di vino.

Anche questa sarà un’illusione destinata a durare poco. L’impatto con la guerra ha gravemente compromesso le infrastrutture e le attività produttive della Cirenaica. I danni non verranno più riparati: il rapido altalenarsi de-gli eventi bellici non ne darà il tempo. Seguirà a breve una nuova invasione britannica, poi ancora una controffensiva tedesca e, infine, dopo la decisiva battaglia di El-Alamein, il ripiegamento definitivo dell’Asse e la fine, di fatto, della colonizzazione italiana in Libia.

Nel settembre 1941, l’insostenibilità della situazione appare già chiara a Carlo Monaco, che scrive alla sorella in Italia, fornendo indicazioni per l’ac-quisto di terreni nel paese nativo, «perché io non rimarrò fisso in colonia e così rimango a casa e ho un’occupazione a casa nostra [...]». Si tenta, per quanto possibile, di portare avanti le attività agricole, ma senza esito positivo.

Rendono conto della situazione drammatica due lettere, indirizzate da un tale Giuseppe Riccò a Giuseppina Albesano, datate rispettivamente 11 ottobre 1942 e 20 novembre 1942, quindi a ridosso dell’ultima battaglia di El-Alamein.

Barce li 11/10/42 XX

Gent. Ma Signora AlbesanoHo ricevuto la vostra lettera, ed ora mi sto interessando riguardo alla semi-

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na nella speranza di potere fare qualche cosa.In quanto al signor Bonati non è ancora deciso a darmi una sicurezza de-finitiva se ce lo lascerà seminare. Comunque avrei piacere che ci scriveste anche voi per vedere se si convince e si decide – e per il lavoro credo anch’io che con una buona erpicatura sia sufficiente. Per quello di […] vuole che ci si faccia 15 ettari di aratura come era stato stabilito l’anno scorso. – questo veramente è un po’ un problema perché il vostro Internazionale [trattore n.d.A.] è impossibile ora ripararlo e tanto più del Fabbro insiste con i suoi pezzi, anzi li ho già smontati. L’unico che potrei sperare di poterceli arare sarebbe con il trattore di Furio che anzi ce ne ho già parlato anche per il terreno del canali (questo ci tenete a seminarlo? Però mi dovete dare una risposta telegrafica per guadagnare tempo se volete seminarlo).In quanto all’azienda qui a Barce non c’è proprio nulla da fare perché ora è tutta recintata e occupata dall’aviazione e soltanto per entrare ci vuole tanto di permesso.In quanto a me non vi do nessuna sicurezza matematica di trattenermi qui per molto tempo però la semina la finirò senz’altro di questo ho già avvertito anche vostro cognato [Carlo Monaco n.d.A.] perché a essere sin-cero comincio averne abbastanza della colonia e poi purtroppo ci ho a casa l’inconveniente che vi dissi nella mia precedente.Ad ogni modo se questo proprio dovesse essere prima di partire vi sistemo tutte le cose in vostro riguardo.Vogliate perdonare dalla fretta il mio mal scritto e nel contempo gradire i miei più distinti saluti.Con tanti bacioni a Marisa

Dev.mo Riccò

La missiva porta i timbri della censura, alla quale stranamente sfugge la frase «comincio [ad] averne abbastanza della colonia», che da sola vale più di un trattato.

L’illusione di procedere comunque con i lavori agricoli, si scontra dunque con la dura realtà alla quale ancora si stenta a credere. Non sappiamo se, quell’autunno del 1942, Giuseppe Riccò sia riuscito a portare a termine la semina. Di certo, l’estate successiva, il frumento non l’avrebbe mietuto, né il Riccò, né nessun altro italiano.

Un dattiloscritto su carta intestata dell’intendenza della V Squadra Aerea, datato 19 novembre 1942, in risposta a una richiesta di chiarimenti sull’oc-

Nicolò Tambone

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cupazione degli immobili, conferma che gli immobili e un grosso appezza-mento della ditta Monaco sono stati occupati per l’ampliamento dell’aeroporto di Barce. La seconda lettera di Giuseppe Riccò è scritta a Tripoli, il disastro è ormai compiuto.

Gent.ma Signora Albesano,Purtroppo in questi giorni ho dovuto lasciare Barce, la vostra roba l’avevo lasciata da vostro cognato [Carlo Monaco n.d.A.], ma poi è venuto l’ordi-ne dello sgombro totale di tutti i nazionali e così pure vostro cognato è do-vuto venire via, e ora mi hanno detto che si trova a […] perciò fra qualche giorno sarà a Tripoli anche lui e così saprò come ha fatto, e chi ha messo a casa sua, ma purtroppo sarà rimasto tutto in mano a qualche arabo.Negli ultimi giorni che ero a Barce sono riuscito ad affittare il terreno di Sidi Gibrin per lire 6000. Forse potevo prendere anche di più ma c’era il fatto che ci stavano facendo la ferrovia che passa proprio in mezzo al terre-no e così molto terreno non si poteva seminare.Ieri qui da Tripoli vi ho fatto una rimessa telegrafica alla Banca d’Italia di Cuneo di lire 10000 diecimila per il rimanente per ora ho creduto oppor-tuno tenerlo sospeso perché spero di venire in Italia se mi riesce, e così potremo regolare i conti con più facilità, oppure se voi avete piacere di regolare tutto ora ditemi quallo che mi devo tenere di compenso mio.Per ora nullaltro, soltanto qui a Tripoli con un po’ di malinconia ma sem-pre nella speranza che tutto vada bene.Molti distinti salutie bacioni a Marisa Dev.mo Giuseppe Riccò.

La malinconia di Giuseppe Riccò evacuato a Tripoli, è l’ultimo segnale di vita che perviene dalla Libia da questo punto in poi. Si apre un lungo vuoto di documentazione e, sulle vicende di Carlo Monaco fino al suo rientro in Italia, nel 1946, nulla sappiamo, tranne il nudo fatto del suo internamento in un campo di prigionia britannico.

Quando ritorna in patria è prostrato psicologicamente dalle vicissitudini e dagli anni di lavoro andati in fumo, forse malato. Come molti altri reduci, non riesce a ricostruire la propria identità, a recuperare il suo ruolo nel contesto sociale. Muore per un arresto cardiaco nel 1947, a cinquantadue anni.

In quell’epoca pochi italiani vivono a Tripoli, pochissimi in Cirenaica. Tra

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questi, i frati francescani e, tra loro, padre Francesco, il quale traccia in poche righe la situazione della Barce post-bellica.

Bengasi 28 Ottobre 1947Gent.ma SignoraMi sono recato una seconda volta a Barce. Ho visitato la sua casa, che si trova in mano di un arabo, di cui non mi ricordo il nome. La casa è in buono stato. Mancano finestre e porte, ma l’arabo che la abita è riuscito a racimolarne qualcuna ed ora si presenta alla meno peggio. Il terreno intorno alla casa non è seminato, ma l’arabo spera di seminarne alquanto.Sono andato a fare una visita al povero Luigi: la tomba è ben conservata e pulita, ed ho raccomandato al custode arabo di mantenerla bene, pro-mettendogli qualche piastra. La casa della Sig.a Felicita è pure abitata e in buono stato, così pure quella della Sig.ra Ressia. Le fattorie ben coltivate e mantenute sono quelle di Sleaia, Sidi Rahuma, Cerasola, Cremonini e Luciani; le altre lasciano molto a desiderare.Barce è quasi intatta, invece Bengasi è quasi distrutta totalmente e non si fa nessuna riparazione. Si prevede che quest’anno sarà una buona annata, perché ha già cominciato a piovere. Si è molto arato verso Maddalena, ma verso Tolmetta poco o nulla.Io per ora sono al solito posto in Bengasi. La salute è ottima. Sto studiando l’arabo e l’inglese. Lei come sta? E la piccola Marisa? Il vecchio Monaco? Sua Mamma, fratelli e cognate? I suoi mezzadri?Mi saluterà tanto tanto tutti, che ricordo sempre con piacere, e non si dimentichi il buon Don Ciocca e Sorella, la sig.a Sindachessa e famiglia di Monesiglio …..Cordiali saluti e rispettosi ossequi

dev.mo nel Signore P. Francesco Rovere o.f.m.

P. Francesco Rovere-Cattedrale- Bengasi- Cirenaica.

L’avventura coloniale italiana è definitivamente conclusa. E tuttavia, con ostinata dedizione, le vedove di Carlo e Luigi, e il patriarca Giuseppe, decrepi-to e incredulo, tentano il possibile per liquidare quanto, teoricamente, risulta ancora di loro proprietà. Si scontrano con l’intransigenza della BMA, British Military Administration, l’ente del protettorato britannico che ora amministra i beni coloniali dell’avversario sconfitto.

È una lettera interessante per l’insolita durezza con la quale si esprime il

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Barce nel 2009

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frate, forse esasperato dall’insistenza dei suoi corrispondenti, i quali faticano ad accettare la realtà dei fatti.

15 febbraio 1950Egregio sig. Monaco,Ho ricevuto lettere delle sue due nuore, in cui mi chiedevano informazioni sulle loro proprietà qui in Barce, e mi permetto di sottoporre alla sua con-siderazione, le sue risposte: così avrà un quadro preciso della consistenza dei beni dei due suoi figlioli in Barce.1° richiesto sul valore attuale dei beni e delle proprietà: mi rispose che attualmente non hanno nessun valore; e non vi è speranza che ne abbiano in avvenire; perché non vi è nessun europeo e neppure vi è speranza che ne vengano. Inoltre trasferendosi i beni nemici dal governo inglese a quel-lo cirenaico, tutte le concessioni verranno incamerate dal nuovo governo, senza rifondere i danni.2° in particolare: le proprietà intestate a Lei Monaco Giuseppe, sono ora requisite dal governo inglese e non paga nessun affitto.Quelle intestate a Monaco Carlo, sono state già tutte prese e consegnate alla Cabila Salatna, che le ha adibite a pascolo. Tutta la zona a sinistra della stra-da che va da Barce a Maddalena è stata consegnata fin dal gennaio 1944 alla suddetta Cabila, e tutte le concessioni di suo figlio Carlo, che si trovavano appunto in quella zona, sono andate necessariamente perdute per sempre.Quelle intestate a Monaco Marisa: la casa è affittata a un arabo che paga l’affitto, ma delle terre non si può prendere niente.Questa è la situazione generale e miserevole, dopo tanti soldi, sacrifici e spe-se fatte dai suoi poveri due figliuoli qui in Cirenaica. Le cose forse sarebbero diverse se essi avessero sistemato le loro concessioni ad albereti fruttiferi e vigneti, così come fecero Cerasola, Cremonini, Luciani, Aprile, ecc; le qua-li concessioni sono ora ricercate dai ricchi Senussi, che vogliono renderle simili alle grandi tenute che hanno i ricchi in Egitto. Credo che la conces-sione di Cerasola, sia stata già comprata da uno della famiglia dei Senussi.Sono certo che questa lettera le recherà non poco dispiacere; ma voglia scu-sare la mia sincerità. A ciò sono stato spinto anche dal suo intimo desiderio di conoscere appieno la verità sui beni già posseduti dai due suoi scomparsi figliuoli. Su questi beni cirenaici, le sue Nuore non possono fare più nes-sun assegnamento di ricavarne soldi. Consegnando il governo inglese tutto alla Senussia, questa incamererà ogni cosa e chi ne ha avuto, ne ha avuto.

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Questa è l’amara e triste verità che noi qui vediamo ogni giorno, cui fa riscontro l’illusione di tanti italiani che sperano ancora... ma sarà presto un tragico risveglio per essi.Rinnovandole nuovamente le mie scuse, voglia avere la bontà di salutarmi tanto sua nuora Giuseppina, la piccola Marisa, il Parroco e le famiglie Albesano e Ressia. Augurandole una buona salute, spero nell’estate di un altr’anno di passarmi alcuni giorni in sua compagnia. Suo dev.mo nel Signore P. Francesco Rovere

Chi ne ha avuto, ne ha avuto. E questa, stilata dal frate, rimane la sintesi più efficace sulla fine del colonialismo in Libia.

Nel viaggio dell’aprile 2009 ritrovo i luoghi, rimasti quasi identici a set-tant’anni prima perché, in seguito a un terremoto, nel 1963, la città di El Merg è stata ricostruita a qualche chilometro dall’insediamento italiano. Qui restano le rovine degli edifici coloniali, sospesi nel tempo, come rappresi nell’e-poca che li aveva prodotti, uno scenario di abbandono post-atomico. Fantasmi di architetture razionaliste e l’insegna superstite «Albergo Moderno» a svettare ironica in cima a un fabbricato fatiscente dalle finestre murate.

Del vecchio cimitero italiano non rimane quasi nulla. Luigi Monaco ripo-sa qui, in una tomba ormai senza nome.

Quel che resta dell’Albergo Moderno a Barce

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Il tesoro archeologico della Libia

di Francesca Gandolfo

Il cosiddetto tesoro archeologico della Libia ruota attorno a un fitto carteggio intercorso tra la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Mi-nistero dell’Africa Italiana, il Ministero della Guerra, il Ministero della Pubblica Istruzione, il Ministero degli Affari Esteri, il Ministero del Tesoro e il Quartier Generale della Commissione Alleata – sezione Archeologia –, risalente agli anni compresi tra il 1944 e il 1955. Ministri, alti funzionari dello Stato, comandanti militari, diplomatici, semplici impiegati e studiosi si scambiarono lettere ufficiali e riservate sulla condotta da seguire in me-rito a una questione molto scottante: i materiali archeologici da restituire alla Libia.

Il carteggio è custodito nei fondi dell’Archivio Storico del MAE: in uno in particolare, denominato Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, dentro al pacco n. 20, 1944-55. In esso si trova una cartellina di colore beige, un po’ malmessa, scurita dalla polvere, dal tempo e dalle numerose traversie subite a causa dei terribili eventi legati all’ultima guerra mondiale. È uguale a migliaia di altre edite ancor oggi dal Poligrafico dello Stato per i vari ministeri italiani, ha come intestazione Ministero dell’Afri-ca Italiana e reca una data, apposta a penna sul lato destro, 1955. Al centro, ben in evidenza e in grassetto, è riportata la parola Oggetto e subito sotto vi è incollata una targhetta bianca con su stampigliato: Ministero dell’Africa Italiana. Ufficio Studi. Ricognizione del Tesoro Archeologico della Libia.

Il 31 dicembre 1945 venne stilato a Roma, nella sede del Ministero dell’Africa Italiana, un documento ad opera della Commissione incaricata di procedere alla ricognizione delle cassette contenenti il tesoro archeologi-co della Libia. Si trattava più precisamente della Relazione sulla ricognizione del Tesoro della Libia contenuto in due cassette recuperate al Nord1. La guerra era finita il 25 aprile e, appena tre mesi dopo, un Decreto Ministeriale del 20 luglio 19452 del Ministero dell’Africa Italiana, firmato da Ferruccio

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Parri3, istituiva la commissione che se ne sarebbe occupata.

Il Presidente del Consiglio dei MinistriPrimo Ministro segretario di Stato

Ministro ad interim per l’Africa Italiana

Ritenuto che dopo gli avvenimenti politico militari dell’8 settembre 1943, venne tra-sferito al nord un imprecisato quantitativo di monete antiche di pertinenza del Go-verno generale della Libia, temporaneamente depositato presso il Museo dell’Africa Italiana; Ritenuto che tale materiale è stato recuperato e trasportato nuovamente a Roma;Ritenuta la necessità di procedere alla ricognizione del materiale in questione;Considerata l’opportunità di affidare tale compito ad una speciale Commissione;Visto il Regolamento per l’amministrazione del patrimonio e per la contabilità gene-rale dello Stato, approvato con R.D. 23 maggio 1924, n. 827;Visto l’art. 63 del R.D. 8 maggio 1924 n. 843;Visto l’art. 1 del D.L.L. 5 aprile 1945 n. 167;

DECRETAArt. 1. – Per la ricognizione del materiale indicato nelle premesse del presente provve-dimento è nominata una speciale Commissione composta come segue:MORENO PROF. DOTT. MARTINO MARIO, segretario generale di governo di II classe, presidente;VITALE DOTT. MASSIMO ADOLFO, direttore di governo di II classe, membro;SCAGLIONE DOTT. FRANCESCO ATTILIO, consigliere di governo di I classe, membro;GUILLET SIG. AMEDEO, membro;Il dott. Scaglione Francesco Attilio ha le funzioni di segretario.Art. 2. – Ai suddetti non compete alcun emolumento, dovendo il loro lavoro essere svolto nelle normali ore d’ufficio.

Il conflitto si era concluso ma non i problemi di una nazione che dove-va fare i conti con una sconfitta subita, a seguito di una guerra provocata, e con la ricostruzione. Tra i problemi politici più incalzanti, seguiti alle devastazioni belliche, vi era quello della restituzione alle ex colonie degli oggetti archeologici, etnografici e paleontologici pervenuti in Italia come bottino di guerra.

L’inizio delle ricerche

Come si era giunti e perché alla relazione finale della Commissione che indagava sul tesoro archeologico della Libia? Sei mesi prima del 31

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dicembre, una succinta comunicazione ufficiale in inglese era arrivata dal Quartier Generale della Commissione Alleata a S.E. il Ministro dell’Africa Italiana, l’oggetto era per l’appunto il materiale archeologico della Tripo-litania. La data sul documento risulta parzialmente illeggibile, il giorno infatti è coperto da una macchia scura e si legge soltanto il mese «June» e l’anno «1945». La data del 15 giugno 1945 e il numero di protocollo, 4547, si leggono invece distintamente sul timbro apposto dal Gabinetto del Ministero dell’Africa Italiana al quale era destinata. Nell’originale in lingua inglese compare su di un lato la stampigliatura Ufficio Studi, seguita da un numero di protocollo 800750, senza alcuna data4.

Dalla lettura del testo si apprende dell’apertura e dell’ispezione di sei casse contenenti materiale archeologico ed etnografico, al cospetto dei rap-presentanti del Ministero della Pubblica Istruzione e della Sottocommis-sione ai Monumenti e alle Belle Arti della Commissione Alleata. Due, in particolare, includevano materiale «in prestito» (on loan) proveniente dalla Tripolitania. Erano le due casse del tesoro libico, per le quali verrà nominato, di lì a poco, un apposito comitato col compito di verificarne il contenuto. Nella lettera la Commissione Alleata chiedeva inoltre l’invio di due copie dell’inventario degli oggetti rinvenuti per informarne, attraverso l’Amministrazione Militare Britannica della Tripolitania, il Soprintenden-te alle Antichità e il Direttore del Museo Libico di Storia Naturale che avevano richiesto informazioni su questo materiale. La lettera è firmata per il Commissario Capo, un certo G.R. UpJhon, Brig, da G. B. Benhan Cart.

1. Six boxes containing archaeological and ethnographical material, which had been hidden for safekeeping, were recently opened and inspected in the presence of repre-sentatives of the Ministry of Public Instruction and of the Monuments and Fine Arts Subcommission of the Allied Commission. Two of the six boxes contained material on loan from TRIPOLITANIA.2.It would be appreciated if two copies of the inventory, as checked, could be for-warded to the Allied Commission, One of these will be forwarded to the British Mil-itary Administration of Tripolitania for the information of the Soprintendente alle Antichità and of the Director of the Museo Libico di Storia Naturale, both of whom have made enquiries about this material5.

Nella traduzione italiana6, la locuzione «in prestito» (on loan), riferita alle due casse del tesoro scompare. Oltre a questa misteriosa omissione, ciò che s’impone con evidenza sono tre annotazioni: una a matita «Tesoro

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Libico» e, subito sotto, in colore rosso: «Presi accordi verbalmente con l’Ufficio Alleato. Atti», siglato M. L’altra è scritta con penna stilografica nera e una grafia incerta: «N.B. Il Direttore del Museo [Coloniale, n.d.A.] mi ha comunicato di avere dato copia dell’inventario direttamente all’inte-ressato», la firma è apposta per esteso: Mininni7. Infine vi è una terza nota, in alto al centro, «Atti», sottolineata in rosso, e, come la precedente, siglata M. A quanto pare si tratta di una traduzione alquanto sofferta.

Nel frattempo il Quartier Generale della Commissione Alleata aveva inviato al Ministro dell’Africa Italiana un’altra lettera che riguardava questa volta materiale archeologico proveniente dalla Cirenaica e da Tripoli. La data di questo secondo dispaccio è dubbia, potrebbe infatti trattarsi del 10 oppure del 1° giugno 19458. Entrambe le lettere hanno il mese e l’anno scritti a macchina e sono chiaramente leggibili. L’indicazione del giorno, però, è stata scritta a mano e risulta o illeggibile - come nella prima delle due missive, dove una chiazza presumibilmente di inchiostro compare pro-prio sul giorno e lo rende indecifrabile - oppure di dubbia interpretazione, come nel secondo documento, dove lo zero, essendo scritto con un carat-tere molto più piccolo del normale, potrebbe in realtà essere il simbolo gra-fico dell’ordinale, al punto che il dubbio se si tratti del 10 o del 1° giugno 1945 permane anche dopo un attento esame.

Comparando i numeri di protocollo9 apposti su entrambe le lettere dall’Ufficio Studi, si desume che quest’ultima sia stata scritta successi-vamente e, cosa più importante, nella prospettiva della ricostruzione di quanto è accaduto ai preziosi reperti archeologici, sia la lettera destinata a rompere ufficialmente il silenzio sulle due famose casse contenenti il tesoro archeologico della Libia. Non costituisce di per sé l’inizio di una consape-vole ricerca di verità storica ed è solo in parte ispirata al principio del ri-spetto delle eredità culturali di ciascun paese, tuttavia sottolinea l’esigenza di un ordine politico post bellico, che è garanzia minima di giustizia nei confronti di chi ha patito invasioni e persecuzioni. Se da un lato essa rende manifesta la brutalità della guerra nei confronti dei vinti, dall’altro mostra la cruda e salda evidenza dei documenti.

1. In december 1942 two crates, containing important archaeological material from CIRENAICA and TRIPOLI and destinated for the Mostra d’Oltremare, were sent to ROME and stored in the Museo Coloniale. In may 1944 they were taken to the North by Comm. Achille RAGNI, who was attached to the Republican Fascist Governement and was then living in CREMONA (see attached report by Comm. Micacchi).

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2. Would you please advise this Headquarters of any further information you may posses regarding this matter10.

Vi si legge che le due casse erano destinate alla Mostra d’Oltremare di Napoli e che poi furono spedite a Roma e custodite nel Museo Coloniale che, dopo varie peripezie, era stato trasferito a via Ulisse Aldrovandi, 16 A, in un palazzo del Governatorato al Giardino Zoologico11. È singolare, o forse non lo è affatto, che, dopo la proclamazione dell’Impero nel 1936, il museo cambiò nome e assunse quello di Museo dell’Africa Italiana12, ma nel carteggio riguardante il tesoro della Libia continuerà a essere chiamato col vecchio nome. A creare confusione in una situazione già di per sé com-plicata c’è dunque il riferimento alla Mostra d’Oltremare. Dai documenti in nostro possesso, l’arrivo in Italia dei preziosi da Tripoli non risulta essere antecedente al 6 gennaio 1943. Non si capisce quindi il nesso con la Mo-stra Triennale delle Terre d’Oltremare di Napoli, la cui prima esposizione si ebbe nel 1937 e l’ultima nel maggio del 1940, chiusa in fretta e furia a seguito dello scoppio della guerra. Inoltre, nei documenti italiani di quel periodo, si fa distinzione tra ciò che viene chiamato il Tesoro archeologico della Libia, racchiuso nelle due casse che giunsero con una nave-ospedale da Tripoli a Napoli e infine alla stazione Termini di Roma13, e quello che viene definito «Materiale archeologico, bibliografico, etnografico e paleon-tologico proveniente dai Musei della Libia», quest’ultimo effettivamente esposto alla Mostra d’Oltremare14.

Alcuni oggetti di pregio come monili, monete e argenterie vennero esposti alla Triennale e poi trasportati a Roma da Guglielmo Narducci, delegato del Governo della Libia per la mostra Triennale delle Terre d’Ol-tremare. Questo è quanto riferisce, in una lettera del 16 novembre 1944, l’allora direttore del Museo Coloniale Umberto Giglio, al Capo dell’Uffi-cio Studi del Ministero dell’Africa Italiana, in risposta a quanto richiesto dal maggiore John Bryan Ward-Perkins, della Sottocommissione ai Mo-numenti e Belle Arti15. Il maggiore Perkins era un archeologo che prestava servizio in un’unità d’artiglieria dell’8a Armata insieme a un altro archeolo-go, il tenente colonnello Mortimer Wheeler.

Da una loro iniziativa prende avvio l’adozione di misure per la protezione delle antichità della Tripolitania, incluso l’impiego del personale della Soprintendenza. La struttura italiana, sotto la direzione provvisoria di Pesce, viene posta alle dipendenze di un archeologo inglese, ufficiale addetto alle antichità in seno alla British Military

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Administration […]. Il primo a ricoprire l’incarico di archeologo supervisore è proprio Ward-Perkins (gennaio 1943-agosto 1944), nominato acting adviser in Archaeology con il beneplacito di Wheeler16.

L’arrivo del tesoro alla stazione Termini di Roma

Un altro elemento che non quadra nel confronto con i dati, riguarda l’arrivo del materiale al Museo Coloniale. Stando a quanto si legge nel comunicato della Commissione Alleata, le due casse, dopo essere transitate dalla stazione Termini, furono direttamente trasferite al Museo Coloniale. In realtà al museo vi giunsero soltanto dopo l’8 settembre del 1943. Infatti, il 6 gennaio 1943 il tesoro arrivò alla Stazione Termini, al posto di polizia dell’Africa Italiana. Il giorno successivo, il 7 gennaio, una «[…] apposita Commissione incaricata dal Ministero dell’Africa Italiana>>, guidata dal prof. Rodolfo Micacchi, capo Dell’ispettorato per le Scuole e l’Archeologia del Ministero dell’Africa Italiana, lo prese in consegna e redasse un verbale, numero di protocollo 3600663. Poi consegnò il tutto all’economato del M. A. I. che lo assegnò alla Direzione Generale del Personale la quale, a sua volta, lo destinò all’Ufficio Affari Generali, a capo del quale era il comm. Achille Ragni che già aveva in affidamento altri oggetti di valore del mini-stero. Tutto questo lo troviamo scritto nel Report by prof. Micacchi, Head of the Inspectorate for Schools and Antiquities in Italian Africa, on two crates of material sent for safe-custody from Libya, allegato alla lettera del Quartier Generale della Commissione Alleata del 10 Giugno 1945.

In questa lettera17, che il Quartier Generale della Commissione Alleata aveva inviato al ministro dell’Africa Italiana, leggiamo che Ragni, dopo aver aderito al governo repubblicano fascista, portò, nel maggio del 1944, il tesoro archeologico al Nord. E fin qui le dichiarazioni combaciano. Nella stessa lettera, però, si asseriva che, non appena giunto a Roma da Tripoli, il tesoro era stato trasportato al Museo Coloniale e lì custodito. Invece sappiamo che le cose non andarono in questo modo proprio dall’attached report by Comm. Micacchi18 che accompagnava il dispaccio del comando alleato. Benché bastasse leggere quanto era a portata di pagina, in quanto scritto nel rapporto che gli stessi Alleati avevano accluso, la notizia tuttavia si perse nel nulla, destinata a essere soffocata dal ritmo incessante degli eventi, dalla baraonda e dallo smarrimento seguiti alla fine del conflitto, ma forse, più banalmente, anche da una scarsa padronanza della lingua

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italiana. In ogni caso, le cassette giunsero al Museo Coloniale in un giorno imprecisato della fine del 1943 e vi rimasero fino al maggio 1944:

[ … ] in custodia all’Ufficio Mostre ed Esposizioni [ … ], che in effetti le custodì con ogni cura, ed in secondo tempo, per preservarle da eventuali prelevamenti da parte delle autorità tedesche, provvide a murarle nei locali del Museo stesso, insieme ad altro materiale prezioso19.

Il loro prelievo dal museo costò ad Achille Ragni un’accusa per ap-propriazione indebita rivoltagli dal capo dell’Ispettorato per le Scuole e l’Archeologia del suo stesso ministero. Era evidente che un profondo con-flitto interno dilaniava ormai il dicastero dell’Africa Italiana, se due alti funzionari del medesimo ministero, coinvolti nell’affair libico, entravano pesantemente in rotta di collisione. I fatti si erano svolti più o meno così. I due dispacci del Comando Alleato si erano susseguiti a ritmo incalzante e in entrambi il tono generale era segnato dalla preoccupazione e dalla confusione, tanto è vero che inizialmente si parlava di sei casse di materiale archeologico ed etnografico provenienti dalla Tripolitania che «erano sta-te nascoste per custodia», precisando che due delle sei casse contenevano materiale on loan. Poi, nel secondo documento, si citavano soltanto due casse di importante materiale archeologico provenienti questa volta dalla Cirenaica e da Tripoli. Un vero guazzabuglio!

Nel rapporto del capo dell’Ispettorato per le Scuole e l’Archeologia del Ministero dell’Africa Italiana20, da cui abbiamo tratto una parte delle noti-zie sugli spostamenti in Italia del tesoro archeologico della Libia, vi si trova descritto, per sommi capi, il repertorio di oggetti da cui era composto.

[…] il Governo Generale della Libia inviava al Dott. Rodolfo Micacchi, nella sua qualità di Capo dell’Ispettorato per le Scuole e l’Archeologia nel Ministero per l’Africa Italiana, due cassette di tipo militare contenenti il tesoro archeologico della Libia, fino allora in consegna alla Cassa di Risparmio della Libia, e precisamente:1. le monete della collezione Meliu (in inventario 35 d’oro, 924 d’argento e 1658 di bronzo, oltre ad alcune centinaia di buste contenenti monete della collezione stessa, non meglio specificate;2. monete della Cirenaica ( e cioè 46 d’oro, 117 d’argento e 281 di bronzo, oltre a 1541 monete d’argento dell’età di Domiziano, Nerva e Traiano);3. monete della Tripolitania (307 d’oro, 207 d’argento e 593 di bronzo);4. gli oggetti rinvenuti nella stipe votiva dell’Artemision di Cirene (in bronzo, osso, oro, argento);

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5. bronzetti, gioielli, gemme incise, monili d’oro, idoletti d’oro (da Uaddan) etc.

È Micacchi a informarci, alla fine della relazione, che, all’epoca dei fatti, aveva sporto denuncia alla Sezione Archeologia della Commissio-ne Alleata e al Sottosegretariato di Stato per gli Italiani all’Estero contro il comm. Achille Ragni, capo di quell’Ufficio per gli Affari Generali del Ministero dell’Africa Italiana che aveva preso in consegna il tesoro, poco più di un anno prima, proprio dalle sue mani e che, dopo l’8 settembre 1943, lo aveva dovuto cedere al «Commissario del tempo S.E. Cerulli»21 che lo aveva trasferito al Museo Coloniale. Ma soffermiamoci a leggere le parole con cui lo stesso Micacchi ci racconta delle traversie subite dalle due cassette dopo l’armistizio:

[…] Dopo l’8 settembre 1943, le due cassette, che erano rimaste presso il predetto economato, vennero, a cura del Commissario del tempo, S.E. Cerulli, trasportate al Museo Coloniale e chiuse in un nascondiglio efficacemente protetto.Successivamente, il capo del predetto Ufficio per gli Affari Generali, Comm. Achille Ragni, il quale aveva aderito al Governo repubblicano fascista e si era trasferito a Cre-mona, richiese al Direttore del Museo Coloniale, comm. U. Giglio, le due cassette per portarle seco nel Nord. Una prima volta il comm. Giglio riuscì a frustrare la richiesta del Ragni; ma questi non si diede per vinto e, nel maggio 1944, tornato a Roma, rinnovò la richiesta e, a vincere l’opposizione del Direttore del Museo, presentò un ordine scritto del Comm. Alfredo Siniscalchi il quale, in quel momento, era a capo degli Uffici del Ministero dell’Africa Italiana rimasti a Roma.In seguito alla presentazione di tale ordine, il Direttore del Museo consegnò le due cassette che dal Ragni vennero asportate dal Ministero,e, si ritiene, portate a Cremona.Del fatto il dott. Micacchi ha sporto denuncia al Sottosegretario di Stato per gli italiani all’estero dal quale attualmente dipende l’Amministrazione coloniale22.

Dopo l’8 settembre

Cosa era dunque successo quel fatidico 8 settembre 1943 che ricorre così di frequente nei carteggi che stiamo esaminando? Al di là del fatto che per alcuni costituisca una tragedia e per altri l’inizio della liberazio-ne, l’8 settembre rappresenta oggettivamente un terminus post quem. La firma dell’armistizio di Cassibile, se da un lato sanciva la resa dell’Italia agli anglo-americani e la fine della guerra ufficiale, dall’altro rappresentava l’inizio della guerra civile tra chi, fra gli italiani, rimaneva fedele al regime e chi vi si opponeva, resistendo o semplicemente prendendo le distanze.

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In ogni caso, il post quem si presentava traumatico per l’intera popolazione italiana. E se si conviene sul fatto che esso tracciò un solco significativo tra «un prima» e «un dopo», trascinandosi dietro una congerie di avvenimenti piccoli e grandi, di sentimenti di paura, di umiliazione, di rabbia, di vo-lontà di riscossa e di sfida, allora non si può negare che anche il braccio di ferro avvenuto nelle stanze del Museo Coloniale, tra il direttore Umberto Giglio e Achille Ragni, tornato per la seconda volta a reclamare il tesoro ar-cheologico, vada, in senso lato, ricollegato a tale circostanza e alle capillari conseguenze che ne scaturirono.

Era il maggio 1944 e questa volta Ragni aveva portato con sé un ordine scritto del capo degli uffici del MAI rimasti a Roma, comm. Siniscalchi. Ordine a cui il direttore del Museo Coloniale non poté o non si sentì di opporsi e che fece scattare la denuncia di Micacchi. Anche Siniscalchi, a sua volta, aveva agito «per ordine della Sede Nord del Ministero dell’Africa Italiana»23. Il senso di questa contesa, tutta interna al Ministero dell’Africa Italiana, – poiché il Museo Coloniale dipendeva dall’Ufficio Studi di quel dicastero, così come l’Ispettorato per le Scuole e l’Archeologia e l’Ufficio per gli Affari Generali – risiedeva anch’essa nel grande cambiamento poli-tico e culturale che stava investendo in quei drammatici momenti l’intera società italiana. Cambiamento sancito da un armistizio che metteva, nero su bianco, le contraddizioni del Paese e il prezzo da pagare per i suoi erro-ri, stabilendo che da quella data in poi l’Italia si sarebbe dovuta muovere nell’ambito di una legalità internazionale cui erano affidate le sue sorti future.

L’irruzione sulla scena internazionale del Tesoro archeologico della Libia e del materiale paleontologico ed etnografico proveniente dai suoi musei fu di tale evento uno dei frutti acerbi, che arrivò a maturazione con il Trattato di Parigi del 10 febbraio 1947. Entrambi si configurarono come ‘fattori rivelanti’ il cambiamento radicale che era in atto nella società ita-liana. Il passaggio da una fase dittatoriale a una democratica si mostrava dunque attraverso il concomitante intervento di vari elementi. Alcuni di questi, come il tesoro archeologico e i reperti paleontologici ed etnografici, venivano, in tale contesto, ad assumere un significato specifico, in quanto soggetti/oggetti rivelatori dei meccanismi sottesi alla costruzione ideologi-ca del passato. Un passato non valido di per sé, ma strumento ideologico di un dato sistema politico-sociale, i cui effetti si proiettavano oltre quel sistema, immergendosi in quel particolare frangente della storia d’Italia

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nel quale l’«intreccio di circostanze tecniche, umane e morali che avevano accompagnato la sconfitta» sembrava avesse improvvisamente interrotto e poi rimesso in moto un tormentato processo di nazionalizzazione. Un processo cominciato nel 1861, entrato in crisi nel Ventennio, ma la cui crisi continuava a persistere e colpiva al cuore lo Stato nazionale24. Scrive Galli della Loggia25:

Nella radicalizzazione della crisi della nazione in «morte della patria» confluiscono dunque due ordini di fenomeni: da un lato la crisi/scomparsa dello Stato in conse-guenza delle particolari modalità politico-militari della sconfitta bellica, dall’altro lato – e proprio per effetto di tali modalità – la sensazione diffusa in moltissimi abitanti della penisola che la sconfitta, in realtà, è stata causa e insieme prodotto e manifesta-zione, di qualcosa di molto grave e profondo: di una paurosa debolezza etico-politica (secondo l’espressione che Renzo De Felice è stato uno dei pochi ad adoperare) degli italiani.

È proprio questa debolezza etico-politica degli italiani, a introdurci in un altro aspetto della vicenda, giocato appunto sulle umane debolezze dei protagonisti della nostra storia e a farci ritenere che la denuncia sporta dal capo dell’Ispettorato per le Scuole e l’Archeologia potesse costituire l’occasione per lasciarsi alle spalle un ministero, il MAI, divenuto incande-scente, perché troppo coinvolto con l’ancien régime, e passare a uno meno schierato, come quello della Pubblica Istruzione. Il drammatico processo di transizione in atto, orientato alla conquista di una forma democratica di società civile, aveva fatto sì che nel novembre 1943 si formasse il cosid-detto «governo dei sottosegretari», che riproduceva la struttura ministeriale precedente, suddivisa tra la Repubblica Sociale Italiana al Nord e il gover-no del Sud (Brindisi, Bari, Lecce, Salerno).

Nel Sud, la ricostituzione dell’Amministrazione coloniale, prima affidata al vecchio generale Melchiade Gabba e poi allo stesso Badoglio, procede lentissimamente. Quasi inesistente a Bari e a Salerno, riprende una certa consistenza solo quando il governo legale, nel settembre 1944, può tornare a Roma. Ma il palazzo della Consulta è stato letteralmente saccheggiato dai vandali istigati da Barracu [Angelo Maria Barracu era sottosegretario alla presidenza del Consiglio n.d.A.], per cui si deve lamentare non soltanto la scomparsa di gran parte della documentazione del ministero, ma anche la perdita totale degli atti personali, così che la stessa assistenza finanziaria alle famiglie dei prigionieri e degli internati viene interrotta per mesi26.

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In un’Italia di fatto divisa in due, tante erano già state le defezioni e i passaggi da un ufficio all’altro, da un ministero all’altro, da una scriva-nia all’altra27. Una vera e propria diaspora si era abbattuta sui funzionari pubblici. Ci fu chi dovette andare a lavorare a Brindisi o a Lecce, per con-to del Ministero dell’Interno, chi, avendo aderito alla Repubblica Sociale Italiana, fu dirottato nelle varie città del nord Italia alle dipendenze del Ministero dell’Africa Italiana o della Presidenza del Consiglio28. Tra coloro che si erano diretti a Nord ve ne erano parecchi che erano stati costretti a trasferirvisi «con lusinghe e minacce». Pochi, e per lo più imboscati, furono coloro che rimasero negli uffici di collegamento a Roma. Alcuni di essi riuscirono a essere dispensati dagli incarichi, anche rilevanti, fino ad allora svolti, usando stratagemmi a dir poco infantili. Uno di questi ‘fortunati’ fu proprio quel Mario Martino Moreno che nel luglio del 1945 ritroveremo a capo della commissione per la ricognizione del tesoro della Libia. All’e-poca dei fatti di cui si sta parlando, Moreno accusò una «grave stanchezza mentale», tanto da non potersi muovere da Roma. Figura di spicco del Mi-nistero dell’Africa Italiana, riuscì a mantenersi ai vertici di questo dicastero fino al 1951. Leggiamo in Del Boca:

Il ministero dell’Africa Italiana cessa pressoché di esistere con l’8 settembre. Trasferito al nord e decentrato in varie località, il MAI segue la sorte dell’effimera Repubblica Sociale, rivela una completa inefficienza anche per la diserzione di buona parte del personale e non fa neppure in tempo a far pervenire al pubblico il prodotto della sua scarsa attività, cioè una serie di pubblicazioni di propaganda coloniale. [ … ] Ma se è facile, per Barracu recuperare oggetti e documenti, molto più arduo per lui si presenta il compito di far affluire al nord il personale per ricostituire il MAI. Alle sue minacce di esonerarlo se non si presenterà a Salò, il segretario generale di colonia Mario Martino Moreno risponde che è malato, afflitto da una grave “stanchezza mentale”, e lo prega di sollevarlo dall’incarico29.

Risultava pertanto comprensibile che alcuni funzionari della pubblica amministrazione, come l’ex ispettore capo Rodolfo Micacchi, fossero in quella particolare fase storica indotti a una scelta di campo anche dalle circostanze. Scelta resa tanto più necessaria dal fatto che si trattava di di-fendere un patrimonio archeologico in reale pericolo, che sarebbe dovuto e potuto divenire oggetto di scambio ma non certamente ostaggio, come accadde invece, di una parte o dell’altra. Uno dei punti nodali era questo: riuscire ad affermare, nella situazione data, un principio di legalità, attra-

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verso la difesa degli artefatti e dei manufatti di entrambe le parti in causa, colonizzatori e colonizzati, e venire così incontro alle richieste sempre più pressanti della Commissione Alleata, salvaguardando la propria eredità culturale e la propria dignità di uomini.

In questi pezzi di Italia distrutti fin nelle loro fondamenta, i comporta-menti trasformistici di coloro che erano stati difensori del regime fascista e da questo si erano distaccati dopo l’armistizio o se ne stavano allonta-nando perché non vedevano più un futuro nell’ideologia selvaggia che lo aveva ispirato e che aveva distrutto sia la patria che gli affetti, emergevano talora come una disperata difesa, non soltanto come un provvidenziale quanto vile cambiamento di casacca. Non si può pretendere fedeltà as-soluta nei confronti di qualcosa che non c’è più. Nello stato di malattia addotto da Moreno o nella denuncia di Micacchi si percepisce una storia a misura d’uomo nella quale, insieme alle umane cedevolezze, traspare forse la ricerca di una legalità che desse nuovamente il senso dello Stato e delle istituzioni. Chi se la sentirebbe oggi di schierarsi apertamente a favore di un regime autoritario che perde la guerra e nega le libertà fondamentali? D’altra parte, però, è legittimo domandarsi quanto fosse improbabile che proprio costoro potessero rappresentare quel futuro democratico ed etica-mente forte che serviva all’Italia sconfitta. E forse la risposta sta in quella «paurosa debolezza etico-politica» che sembra ancora affliggerla quando, lungo il suo tormentato e complesso cammino, prevalgono sentimenti di statico e nostalgico patriottismo, o viceversa, prendono il sopravvento im-pulsi di negazione dell’italianità.

Il trasferimento del tesoro a Cremona nel maggio del 1944 e il suo rientro a Roma nell’inverno successivo.

Il Ministero della Pubblica Istruzione aveva da poco ripreso la sua de-nominazione originaria, e precisamente dal 30 maggio 1944, col governo Bonomi II – succeduto all’esecutivo Badoglio II – ma sulle lettere che in quel periodo si susseguivano numerose tra i due ministeri e il Quartier Generale della Commissione Alleata, ancora campeggiava, quantunque barrato da una linea nera, il nome Ministero dell’Educazione Nazionale, voluto da Mussolini nel 1929.

E mentre Micacchi sporgeva denuncia, Ragni portava le due cassette a Cremona, ove subito si costituì una commissione per la ricognizione del

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loro contenuto. Almeno tre furono i verbali redatti: del 31 maggio, del 1° e del 2 giugno30. Ciò viene confermato dall’unico verbale dei tre, il n. 2, ritrovato insieme a tutti gli altri documenti inerenti il tesoro nella cartella dell’Ufficio Studi del Ministero dell’Africa Italiana. A liberazione compiu-ta, gli esiti di tale denuncia costrinsero il MAI – responsabile istituzionale della sorte dei reperti d’oro e d’argento del Museo Coloniale e di altri og-getti archeologici provenienti dalla Libia – a intervenire attivamente per il loro recupero inviando alcuni suoi delegati a Cremona.

[…] Viva era la preoccupazione del Ministero per la sorte che potevano avere subito i preziosi contenuti nelle cassette e costante l’intendimento di recuperare ogni cosa. Su-bito dopo la liberazione del Nord, incaricati di questo Ministero poterono - attraverso indagini non facili per i continui spostamenti che gli uffici di Cremona avevano subito per l’avanzare degli eserciti alleati – rinvenire finalmente le due cassette che erano state ritrovate da certo Sig. Nino FRASCHINI il quale, con vivo senso di responsabilità e con encomiabile onestà e precisione, le aveva custodite, sottraendole alle affannose ricerche che, allo scopo di impossessarsene, facevano reparti e gruppi repubblichini ed altri 31.

La figura di Nino Fraschini, un illustre signor nessuno, salito per un breve spazio di tempo alla ribalta delle cronache per aver salvato il tesoro dalle grinfie di «repubblichini e altri», è un significativo esempio di come, allora come adesso, fosse importante credere in qualcosa che si riteneva giusto e che corrispondeva alle proprie necessità ideali, soprattutto in mo-menti di manifesta crisi di efficienza degli apparati tecnico-amministrativi dello Stato. Chissà come e chissà in quali circostanze Fraschini si era im-battuto nelle famose cassette e, dopo averne compreso il valore, se ne era preso cura, a proprio rischio e pericolo. Sappiamo che a Brenta di Cittiglio compilò dei verbali talmente perfetti che vi comparivano oggetti che non erano stati registrati in precedenti verbali. Come si legge nella relazione della commissione, egli venne elogiato per l’onestà, l’alto senso di respon-sabilità e il coraggio dimostrati in quel pericoloso frangente.

Ritengo doveroso mettere in particolare rilievo che la custodia delle cassette sponta-neamente assunta dal Sig. FRASCHINI in Val di Brenta, ha molto probabilmente salvato da rapina il tesoro archeologico della Libia, e che la scrupolosa esattezza dello stesso FRASCHINI nella compilazione dei verbali è indice del suo senso di specchiata onestà e di responsabilità, per cui gli va rivolto vivo plauso32.

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Alla luce degli sviluppi che la situazione politica internazionale e nazio-nale impose, dapprima con l’armistizio e poi con la liberazione del Nord nell’aprile 1945, si comprende perché si fosse resa necessaria la creazione di una commissione ministeriale che indagasse sui reperti provenienti dalla Libia. I governi in carica, per svariati anni, furono infatti sottoposti alle stringenti richieste degli alleati che spingevano per la restituzione degli oggetti d’arte e d’antichità alle ex colonie italiane. Nominare una apposita commissione che si occupasse di ciò che era ritenuto patrimonio dello Stato italiano diventava anche una condizione sufficiente a garantire un contesto senza ambiguità in rapporto a quell’ingarbugliato succedersi di avvenimenti che aveva fatto sì che i preziosi reperti partissero dalla Libia nel dicembre del 1942, approdassero a Roma nel gennaio del 1943 e ripar-tissero per l’Italia del Nord nel maggio del 1944, e infine ricomparissero a Roma, presumibilmente nell’inverno di quello stesso anno, nella loro genuina integrità, stando a quanto affermano i documenti esaminati33.

Le tensioni fra il Ministero della Pubblica Istruzione e il Ministero dell’Africa Italiana

Le richieste degli Alleati erano chiare ed erano rimaste inalterate nel tempo, come si capisce da una lettera del 10 gennaio 1947 che il ministro della Pubblica Istruzione Guido Gonella inviò all’Ufficio Studi del Mini-stero dell’Africa Italiana, al Gabinetto della Presidenza del Consiglio dei Ministri e al Ministero degli Affari Esteri. Il contenuto del documento riguarda ancora e sempre la restituzione del materiale archeologico, etno-grafico e paleontologico proveniente dai musei della Libia. Nella lettera, che reca l’intestazione Direzione Generale Antichità e Belle Arti, Divisione III, il ministro in persona perora la causa della restituzione degli oggetti ar-cheologici ed etnografici, segno evidente che la questione, lungi dall’essere stata risolta, permaneva all’ordine del giorno nelle trattative internazionali.

La commissione Alleata ha nuovamente fatto sapere che la restituzione alle Gallerie ed ai Musei Italiani del patrimonio artistico, asportato dai tedeschi in Germania durante la guerra, è subordinata alla restituzione da parte dell’Italia di quanto per qualsiasi ragione o motivo è stato portato qua dalle colonie o da altri paesi.Si fa presente che le opere italiane, che sono attualmente in Germania riunite al Cen-tral Collecting di Monaco, rappresentano un complesso considerevole per numero e, soprattutto, per l’altissimo valore artistico. La loro restituzione all’Italia è stata ora

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sospesa e viene subordinata alla restituzione da parte nostra del materiale archeologi-co, bibliografico, etnografico e paleontologico proveniente dalla Tripolitania e dalla Cirenaica.Questo Ministero non desidera assumersi la responsabilità di far negare all’Italia, già duramente provata dalla guerra nel suo patrimonio artistico, alcuni fra i più notevoli capolavori dei suoi Musei e Gallerie: di conseguenza il materiale archeologico e biblio-grafico della Tripolitania e Cirenaica è stato concentrato a Napoli preparato per la spe-dizione che avverrà a giorni. Invece gli oggetti etnografici e paleontologici depositati presso il Museo Coloniale e l’Istituto di Paleontologia dell’Università di Roma, sono stati rifiutati da codesto ministero [il MAI, n.d.A.] .Si deve quindi insistere di nuovo perché detti oggetti siano integralmente restituiti e rapidamente preparati per la consegna alle autorità alleate le quali hanno già predispo-sto il mezzo di trasporto che da Napoli dovrà fra breve partire per la Libia34.

L‘importanza che assumeva la riconsegna dei patrimoni dei rispettivi paesi belligeranti, non era altro che uno dei modi in cui si misuravano i nuovi rapporti di forza geopolitici che, con la sconfitta delle nazioni che avevano aderito all’Asse, stavano prendendo forma nell’Europa del dopo-guerra. Il Trattato di Pace di Parigi sarà firmato il 10 febbraio 1947, appena un mese dopo l’invio di questa lettera. La relazione tra il quadro interna-zionale delineato dal trattato e questa lettera è evidente. Non ci sono alter-native, dovette aver pensato il ministro della pubblica istruzione mentre si accingeva a scrivere agli altri esponenti di governo: «Si deve quindi insistere di nuovo perché detti oggetti siano integralmente restituiti».

Quello che fino a pochi anni prima sarebbe stato semplicemente im-pensabile, la sconfitta dell’Italia e della Germania, era accaduto, e ora biso-gnava prenderne atto e agire di conseguenza. Gonella sapeva che si sarebbe scontrato con chi, nel governo, aveva una visione opposta alla sua e allora ricorre a un linguaggio radicale, inequivocabile, lontano da ogni equilibri-smo dialettico, specificando le competenze e le azioni che i vari dicasteri devono compiere, nel tentativo estremo di mettere i suoi «avversari» poli-tici di fronte alle proprie responsabilità, sia nei confronti del Paese, sia nei confronti delle nazioni vincitrici. Il suo ministero – afferma – non si as-sume «la responsabilità di far negare all’Italia, già duramente provata dalla guerra nel suo patrimonio artistico, alcuni fra i più notevoli capolavori dei suoi Musei e Gallerie», essendo la loro riconsegna subordinata all’obbligo di restituzione da parte dell’Italia di ciò che «è stato portato qua dalle co-lonie o da altri paesi».

In questo passaggio la lettera di Gonella squarciava definitivamente il

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velo sulla effettiva drammaticità della congiuntura storica e politica che il Paese stava attraversando e sulle tensioni all’interno della compagine gover-nativa. Tensioni che sfoceranno in due opposte decisioni. Infatti i reperti archeologici e il materiale bibliografico, su cui ha giurisdizione il Ministero della Pubblica Istruzione, verranno trasferiti «presso la Soprintendenza alle Antichità di Napoli per la spedizione con mezzi di trasporto alleati»35 alla volta della Libia. Mentre gli oggetti etnografici depositati nel Museo Co-loniale (quindi anche il tesoro archeologico, che non viene espressamente citato, ma che sappiamo essere al museo) e quelli paleontologici, custoditi nell’istituto di Paleontologia dell’Università, non si muoveranno da Roma per ordine del capo del governo e ministro ad interim dell’Africa Italiana, Alcide De Gasperi, d’accordo con l’allora ministro degli esteri Pietro Nenni.

Le riunioni e gli incontri ad alto livello che si avranno su questo spi-noso argomento, la formazione di commissioni e sottocommissioni non faranno altro che rendere manifesta l’assenza di una strategia condivisa. Al linguaggio crudo e pragmatico di Gonella se ne opporrà uno sfuggente, scritto in un ‘politichese’ raffinato ma ciò nondimeno concepito più per confondere che per chiarire le reali intenzioni di chi se ne faceva portavo-ce. Un linguaggio di fatto ostile ad accettare le condizioni imposte dagli alleati, anche a rischio della perdita del nostro patrimonio, nel quale si percepiva l’onta del vinto, pronto a dare battaglia in una guerra già persa.

La lettura della missiva del 4 settembre 1946, firmata dal sottosegreta-rio di stato, Paolo Cappa, addetto al Gabinetto della Presidenza del Consi-glio dei Ministri, sottolineava proprio come l’open diplomacy dell’esecutivo fosse in realtà una scelta pro domo sua, declinata su regole di diritto inter-nazionale che non stavano al passo con la nuova fase economico-politica innescatasi con la fine del colonialismo imperiale e avviatasi verso un pro-cesso di emancipazione dei popoli ex colonizzati.

[…] il Ministero dell’Africa Italiana, sollecitato ad adottare i provvedimenti per la re-stituzione ai luoghi di provenienza del materiale dei Musei della Tripolitania e della Ci-renaica a suo tempo trasferito in Italia per l’allestimento della Mostra delle Terre d’Ol-tremare, ha fatto presente di non ritenere opportuno, d’accordo col Ministero degli Esteri, di procedere per ora alla suddetta restituzione. Infatti, nell’attuale situazione, le raccolte in parola, che presentano grande interesse scientifico, oltre che notevole valo-re, potrebbero, per eventi imprevedibili, essere soggette a manomissioni o a distruzioni che comprometterebbero l’integrità delle preziose collezioni, che sono state assicurate, grazie agli sforzi dell’Amministrazione italiana, al patrimonio culturale comune36.

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Eppure, solo due mesi prima l’atteggiamento del Governo era stato completamente diverso.

La questione della restituzione del materiale della Libia [scrive il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri Giustino Arpesani, n.d.A.] interessa vivamente l’Amministrazione della P.I., poiché è strettamente connessa con l’esito del-le trattative in corso con gli Alleati per la restituzione alle Gallerie e ai Musei italiani del patrimonio artistico asportato dai tedeschi in Germania durante la guerra, la cui importanza non può essere messa a confronto con quella degli oggetti dei musei libici. Si richiama pertanto l’attenzione di codesto Dicastero [Ministero dell’Africa Italiana, n.d.A.] sulla urgente necessità di provvedere alla consegna del materiale richiesto, su-perando ogni eventuale difficoltà37.

In un primo momento, infatti, l’esecutivo ingiungeva al MAI «di prov-vedere alla consegna», in una fase successiva si defilava. Si assiste a un ri-baltamento dei rapporti di forza. Tuttavia, il complice assenso del governo rafforzò le tesi del Ministero dell’Africa Italiana e fece sì che i materiali provenienti dai musei libici non venissero alla fine restituiti. Quali erano queste tesi? Una prima argomentazione poggiava sulla nozione di «eventi imprevedibili», i quali avrebbero potuto mettere in serio pericolo l’integri-tà di beni di «grande interesse scientifico, oltre che notevole valore», poi si passava a invocare il diritto internazionale, introducendo la categoria giuridica di sovranità nazionale.

D’altro canto non è da presumere che la richiesta restituzione, la quale, a quanto comunicato da codesto Ministero, è in stretta relazione col recupero del patrimonio artistico italiano asportato dai tedeschi in Germania, trovi fondamento nel criterio generale in base al quale gli oggetti di valore artistico appartenenti a un determinato Stato ed a questo illegalmente sottratti con la forza, vanno ad esso riconsegnati, in quanto, nel caso in esame, le raccolte libiche sono state costituite mediante ricerche, studi e scavi effettuati in territorio posto sotto la sovranità italiana, senza che pertanto venisse mai leso l’interesse di alcun altro soggetto di diritto internazionale38.

La sovranità nazionale e le politiche coloniali

Il tema della sovranità presenta in effetti una sua specificità giuridica e storica. Sul piano giuridico «con la dichiarazione unilaterale italiana di sovranità sulla Libia, i beni archeologici passarono direttamente sotto la giurisdizione del Ministero delle Colonie»39. Il Regio Decreto del 24 set-tembre 1914 n. 1271 mette ordine nella sequela dei regi decreti che furono

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emanati – sulla scia di una continuità normativa nazionale e sulla base di quella che era stata la legislazione ottomana – a partire dalla conquista della seconda colonia italiana, per impulso del generale Carlo Caneva40. L’articolo 1 del R.D. n. 1271/1914 recita:

Le cose immobili e mobili che abbiano interesse storico ed archeologico, esistenti nel territorio della Tripolitania e della Cirenaica, siano esse già in luce o si rinvengano mediante scavi o fortuitamente, appartengono in proprietà allo Stato.

All’articolo 9 invece si stabilisce che:

L’autorizzazione di eseguire scavi può essere concessa dal Governatore soltanto ad Isti-tuti e Corpi scientifici nazionali con le norme che saranno fissate dal Governo e sotto la vigilanza del personale preposto ai servizi archeologici.

Il provvedimento si chiude con l’articolo 13:

Il Ministro delle colonie ha facoltà di provvedere con i suoi decreti, alla organizzazione dei servizi archeologici della Tripolitania e della Cirenaica e del personale che vi sarà addetto, nonché di emanare le norme occorrenti per l’esecuzione del presente decreto.Ordiniamo, ecc. 41

Sul piano storico la faccenda si complica e non può non sorprendere il fatto che le preziose collezioni di oggetti libici potessero, allo stesso tempo, essere definite «patrimonio culturale comune» ed essere sottoposte alla «so-vranità italiana» e non alla legittima sovranità dello Stato di provenienza, ora che l’Italia aveva perso le sue colonie. E non è da dire che è l’oggi a farci parlare così, lo spirito dei tempi e dicerie di questo genere, perché lo spi-rito dei tempi dell’epoca si accordava perfettamente con quanto sosteneva il ministro della Pubblica Istruzione Guido Gonella, che era l’opposto di quanto sosteneva Alcide De Gasperi. La riflessione da fare è su come fun-ziona il mondo, oggi come allora, sulla problematicità e sulla conflittualità derivante da ragionamenti di carattere assiomatico.

Ripensare i meccanismi di funzionamento delle politiche coloniali de-gli stati europei alla luce della corrispondenza epistolare fra una istituzione e l’altra, permette di interrogarsi sulla «formazione delle strategie discorsi-ve» e sulla loro differenziazione. Ma soprattutto consente di scoprire «tut-ta una gerarchia di relazioni» cui corrisponde una gerarchia di concetti e

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di regole che sono il prodotto di meccanismi di relazioni gerarchicamen-te strutturati42. Ne discende che, a proposito del concetto di sovranità, quest’ultimo diventi a poco a poco una prerogativa degli stati europei e non di quelli extraeuropei, in virtù dell’estensione di un diritto che dal Seicento in poi si propaga fino al Novecento inoltrato e che vede le nazioni europee, che in quel periodo si stavano costituendo, uniche depositarie del diritto alla sovranità nazionale. E ciò è in contrasto con il diritto di ogni popolo, europeo e non, a rivendicare la propria eredità culturale, la quale non è fatta soltanto di beni materiali, più o meno preziosi o più o meno scientificamente rilevanti, ma è costituita da quelle possibilità, offerte a ciascun popolo, di essere in rapporto con la storia, elaborando forme e mo-di propri e sviluppandoli in un sistema politico-sociale di potere/sapere43.

In nome del potere/sapere, infatti, si sviluppò nel XIX secolo una for-ma di «etnocentrismo epistemologico», i cui detriti permarranno anche in tempi molto recenti, a giudicare ad esempio dalle argomentazioni espresse nella lettera appena citata della Presidenza del Consiglio dei Ministri. In quest’ultima non vi è nessuna novità rispetto alla rappresentazione, an-che se molto sfumata, che dei popoli «primitivi» si aveva nel Seicento, nel Settecento e nell’Ottocento. Come sottolinea il filosofo Mudimbe44, «la novità risiede nel fatto che il discorso sui “selvaggi” è […] un discorso in cui un potere politico esplicito presume di avere l’autorità di un sapere scientifico, e viceversa».

Ma i discorsi politici non sono tutti uguali, come si è avuto modo di notare, e si sviluppano in modi complessi e contraddittori, entro paradig-mi politici e scientifici spesso opposti, anche se nel contesto di una comu-ne esperienza post-coloniale. E così, se da un lato, De Gasperi e Nenni, attraverso una pratica discorsiva agita sotto forma di scelta politica, oppo-nevano un netto rifiuto alla restituzione degli oggetti d’arte e d’archeologia alla Libia, dall’altro Gonella ne affermava una opposta a cui corrisponde un agire politicamente corretto, che prefigurava valori e diritti che per noi oggi sono assolutamente normali.

Si deve quindi insistere di nuovo perché detti oggetti siano integralmente restituiti e rapidamente preparati per la consegna alle autorità alleate le quali hanno già predispo-sto il mezzo di trasporto che da Napoli dovrà fra breve partire per la Libia.Nell’interesse della reintegrazione del patrimonio artistico italiano, si prega vivamente di aderire alle ripetute premure degli Alleati affinché non venga ulteriormente com-promesso il ritorno dei preziosissimi capolavori italiani riuniti a Monaco45.

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Incertezze e ambiguità della politica culturale del Ministero dell’A-frica Italiana.

Nonostante gli sforzi del ministro della Pubblica Istruzione il materiale archeologico e paleontologico della Libia non fu imbarcato sul piroscafo “Campidoglio”. Lo apprendiamo da una lettera del Gabinetto della Presi-denza del Consiglio dei Ministri, firmata dal sottosegretario Paolo Cappa, indirizzata al Ministero dell’Africa Italiana (Direzione Generale Affari Po-litici), al Ministero Affari Esteri (Direzione Generale Affari Politici – Uffi-cio I) e, per conoscenza, al Ministero della Pubblica Istruzione (Direzione Generale Antichità e Belle Arti), che reca la data del 12 maggio 194746. In questa nota si legge che la Pubblica Istruzione attribuisce la responsabilità del mancato imbarco dei reperti al Presidente del Consiglio.

Il Ministero della Pubblica Istruzione ha replicato al foglio di questa Presidenza […], dichiarando di essere in possesso di elementi dai quali risulta incontrovertibilmente che il dott. Gaetano Chapron del Ministero dell’Africa Italiana ordinò, per asserita disposizione del Presidente del Consiglio dei Ministri, la sospensione dell’imbarco del materiale paleontologico ed archeologico della Libia già in via di caricamento sul piroscafo “Campidoglio”.La suddetta Amministrazione ha declinato ogni responsabilità per l’eventuale pregiu-dizio che tale episodio può derivare alla auspicata sollecita definizione della questione relativa alla restituzione del complesso d’opere d’arte italiane rinvenute a Monaco.Si prega pertanto il Ministero dell’Africa Italiana di voler fornire i necessari chiarimen-ti sull’azione svolta dal suddetto dott. Chapron.Con l’occasione si prega altresì il Ministero dell’Africa Italiana di voler far conoscere l’esito dei passi compiuti, nella sua competenza e d’intesa con le Amministrazioni in-teressate, presso le autorità alleate per la soluzione concreta della surriferita questione, di cui non può ovviamente sfuggire l’importanza connessa alla tutela del patrimonio artistico nazionale.

A questa lettera del Gabinetto, che chiede chiarimenti al ministro dell’Africa Italiana, replica Giuseppe Lupis, sottosegretario agli Esteri47, con un comunicato48 scritto su carta non intestata – qui di seguito riporta-to integralmente – diretto alla Presidenza del Consiglio e, per conoscenza, alla Direzione Generale Affari Politici degli esteri, ma non al Ministero della Pubblica Istruzione.

Il Dott. Gaetano Chapron, invitato da questo Ministero, ha rilasciato la dichiarazione

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che si unisce, dalla quale risulta, oltre che chiarito il probabile equivoco, come e perchè il Dott. Chapron si sia opposto all’imbarco di materiale archeologico e bibliografico, che il Ministero della Pubblica Istruzione aveva invece ordinato sul piroscafo «Campi-doglio» in partenza per Tripoli.È bene avvertire che il Dott. Chapron ha così agito perché queste erano le istruzioni che questo Ministero gli aveva specificamente nella sua competenza impartito.Il fatto che il materiale in parola fosse in temporanea consegna al Ministero della Pubblica Istruzione non variava minimamente la questione di principio sollevata da questo Ministero, appoggiato da quello degli Esteri sul rinvio in Libia del noto mate-riale archeologico.L’accostamento che si vuol fare delle due questioni, è cioè della subordinata restitu-zione delle opere d’arte asportate dai tedeschi alla restituzione alla Libia del materiale in parola, non regge e, d’altra parte come ha testualmente osservato il Ministero degli Affari Esteri, «non sembra che le autorità alleate abbiano subordinato in maniera uffi-ciale ed esplicita la restituzione del materiale che si trova a Monaco all’effettivo ritorno in Libia del materiale archeologico e paleontologico e si dubita che, in mancanza di argomenti che giustifichino tale subordinazione, esse intendano farlo».Nessun pregiudizio pertanto – si ritiene – può derivare dal mancato imbarco del noto materiale, e – d’altra parte – il temuto inconveniente non si prospetterebbe neppure se il Ministero della Pubblica Istruzione, che pur conosceva il pensiero in materia di questo Ministero e di quello degli Esteri, avesse tenuta sospesa la questione o almeno avesse tempestivamente avvertito questo Ministero, prima di adottare delle misure che, per le divergenze cui hanno dato luogo, hanno messo in maggiore risalto l’intera questione.

Circa un anno prima, il 12 agosto 1946, nell’intricata frammentazione delle competenze e nella diversità delle posizioni tra i due ministeri, del-la Pubblica Istruzione e dell’Africa Italiana, proprio Lupis aveva inviato, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e per conoscenza al Ministero degli Esteri, un comunicato, anch’esso rigorosamente su carta semplice, nel quale conveniva, in linea di massima, «sulla opportunità di restituire ai luoghi di provenienza il materiale archeologico trasferito in Italia dalla Libia negli anni 1940 e 1942»49. Anche se tale evenienza non si presentava subito esperibile - asseriva nell’agosto del 1946 il ministro dell’Africa Ita-liana tramite il suo portavoce - tuttavia le richieste degli alleati, riguardo al tesoro archeologico della Libia e ad altri reperti provenienti dai musei libici, erano da considerarsi legittime.

Un anno dopo la posizione del MAI si radicalizzerà, ma in direzione opposta e, quando la questione tornerà prepotentemente alla ribalta, farà appello alla sovranità italiana, al pericolo di manomissioni o distruzioni

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per eventi imprevedibili, al diritto di studiare ciò che si è scavato con i soldi e il lavoro degli italiani – come nel caso dei reperti fossili di Sahabi – per non procedere alla resa delle collezioni. Il MAI affermerà inoltre che «l’ac-costamento che si vuol fare delle due questioni, è cioè della subordinata restituzione delle opere d’arte asportate dai tedeschi alla restituzione alla Libia del materiale in parola, non regge». La logica conseguenza fu che il materiale non venne imbarcato.

In ordine ai resti paleontologici che sarebbero dovuti essere imbarcati per Tripoli insieme a quelli archeologici, etnografici e bibliografici, venne allegata una dichiarazione dell’archeologo Carlo Petrocchi a una nota ur-gente inviata dal MAI alla Presidenza del Consiglio il 27 agosto 1946:

[…] per quanto riguarda il materiale paleontologico proveniente dagli Scavi della Li-bia, si rimette l’unita dichiarazione del Prof. Petrocchi, autore degli scavi eseguiti in Sahabi e scopritore di numerosi reperti fossili, al quale le autorità anglo-americane hanno rivolto invito a restituire il materiale su cui egli sta attualmente compiendo importantissimi studi.Tale materiale riveste valore esclusivamente per la esperienza personale ed i dati di cui è in possesso lo studioso e, restituito ai luoghi di origine senza che lo studio di cui è oggetto venga compiuto, perderebbe completamente ogni valore50.

La dichiarazione del prof. Petrocchi, responsabile degli scavi nel giaci-mento fossile di Sahabi51, situato nelle sabbie mioceniche della Cirenaica meridionale, è la seguente:

A chiarimento del colloquio avuto circa il materiale paleontologico di Sahabi attual-mente conservato parte nel Museo Paleontologico della Università di Roma e parte nel Museo Coloniale, mi permetto di aggiungere che detto materiale fu dallo scrivente portato in Italia per ragioni di studio.È noto che nel campo scientifico lo scopritore ha il diritto di studio sul materiale reper-to e, nel caso particolare dei resti fossili di Sahabi, l’unica persona che sia in possesso dei dati stratigrafici ed ecologici indispensabili alla determinazione dei fossili stessi è lo scrivente il quale dal 1934 al 1939 condusse le campagne di scavo che portarono al rinvenimento dei fossili stessi. Infatti il Giornale di scavo e la documentazione foto-grafica sono in suo possesso.La pubblicazione, edita a cura di codesto Ufficio Studi, di un primo gruppo dei fossili di Sahabi sarà seguita da un secondo volume che è in preparazione e che ritengo di condurre a termine entro il 1947.Pertanto la richiesta di trasferimento a Tripoli di detto materiale non può per il mo-mento essere accolta in quanto viene a ledere un diritto dello scrivente e ad annullare

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l’importanza del materiale stesso, il quale non studiato perderebbe qualsiasi valore scientifico52.

Non fu edito un secondo volume sul mastodonte, risalente a tre milioni di anni fa, ritrovato da Petrocchi nel 1935 sulle sponde di un fiume ormai scomparso che scorreva parallelo al Nilo e si gettava nel Golfo della Sirte.

Il «focolare europeo» e lo scontro di civiltà

Comunque si voglia interpretare questa vicenda, i fatti qui narrati, rico-struiti attraverso testimonianze scritte, suggeriscono di percorrere la strada che stiamo seguendo, intercalando diverse storie in diversi momenti, tutte documentate tra il 1942 e il 1955, anche se alcune di esse cominciano mol-to tempo prima e altre s’interrompono prima di tale termine e altre ancora muoiono sul nascere. Storie destinate a rappresentare un paese, che talvolta si dispiegano in parallelo e talaltra si muovono in diverse direzioni senza un apparente senso, ma tutte in qualche modo intrecciate. Gli echi delle quali risuonano come un gong, tra l’incessante fare e disfare della politica, della cultura e della vita stessa. Politica, cultura, vita, temi grandi e uni-versali che implicano vincoli di appartenenza ad una medesima comunità nazionale e assegnano o tolgono valore alle cose, sulla base di paradigmi ideologici e di comportamenti che ieri parlavano di civiltà universali e oggi di «scontro di civiltà». Categoria utile soltanto a chi ha interesse che lo scontro ci sia. Sottolinea Ricoeur53:

Il fatto che la civiltà universale abbia proceduto per molto tempo dal focolare europeo, ha mantenuto l’illusione che la cultura europea fosse, di fatto e di diritto, una cultura universale. L’anticipo preso sulle altre civiltà sembrava fornire la verifica sperimentale di questo postulato; ma, ancor di più, l’incontro con altre tradizioni culturali era esso stesso il frutto di questo anticipo e, più in generale, il frutto della stessa scienza occi-dentale. Non è forse l’Europa ad aver inventato, nella loro forma scientifica diretta, la storia, la geografia, l’etnografia e la sociologia?

Applicando il ragionamento di Ricoeur a quello che è stato definito il Tesoro archeologico della Libia, scopriamo che anch’esso è un prodotto ‘confezionato’, più che originato, dal «focolare europeo». E poiché l’Italia è Europa, esso è dunque, di fatto e di diritto, italiano e universale. Nella lettera della Presidenza del Consiglio si dichiara infatti che la sua compo-

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sizione e la sua integrità è stata garantita «grazie agli sforzi dell’Ammini-strazione italiana» che lo ha in questo modo assicurato «al patrimonio cul-turale comune», che altro non è che la «cultura universale» di cui parlava Ricoeur. E così il cerchio si chiude su se stesso, consentendo all’Ammini-strazione italiana di rivendicare un diritto di primogenitura anche laddove la tradizione culturale si riveli essere diversa. Un diritto espresso in nome di un postulato antico, ma ancora tutto da dimostrare – la cultura europea è cultura universale – asserito come verità universale da un potere politi-co che si attribuisce l’autorità scientifica per esercitare questo diritto nelle forme e nei modi che ritiene più opportuni, in barba alle richieste degli Alleati, dei legittimi possessori e dei colleghi di governo che la pensano in un altro modo.

La determinazione con la quale la commissione, istituita subito dopo la Liberazione, procedette alla verifica dell’integrità del tesoro archeologico della Libia, era figlia di questa sedimentazione storico-politica e, oltre a rappresentare un atto dovuto, diventava un elemento strategico nei riguar-di dell’opinione pubblica nazionale e internazionale. Pertanto, alle richie-ste di aggiornamenti da parte della Sezione Archeologia della Commissio-ne Alleata, così rispondeva la Commissione ministeriale italiana:

[ … ] avendo la Commissione Alleata chiesto che si procedesse alla ricognizione del materiale, il Ministero le dava notizia che la ricognizione era già in corso ed esprimeva il proprio gradimento all’intervento di un suo rappresentante alle sedute.Fu incaricato il Capitano Maxse, che intervenne alle sedute dalla quinta in poi, sosti-tuito qualche volta dalla Sig.ra BONAIUTI dell’Ufficio stesso.Alla terza seduta della Commissione, tenuta il 26 luglio 1945, intervenne il prof. DE RINALDIS dell’Ispettorato Scuole ed Archeologia, che recò il rapporto originale della Soprintendenza Monumenti e Scavi della Libia di cui è cenno al principio di questa relazione, insieme con il citato verbale di ritiro delle cassette dalla Stazione Termini di Roma54.

Tre esponenti del Ministero dell’Africa Italiana e un maggiore del Regio Esercito Italiano formavano il comitato. Mario Martino Moreno55, che nel settembre del 1943 aveva dichiarato al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Barracu di non poter seguire il MAI al Nord perché afflitto da «una grave forma di stanchezza mentale», presiedeva la commissione e allora ricopriva la carica di segretario generale di governo di 2ª classe nonché capo di gabinetto del ministero. Massimo Adolfo Vitale, direttore

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di governo di 1ª classe, era stato chiamato a farvi parte in qualità di nuovo direttore del Museo Coloniale, al posto di Umberto Giglio; Attilio Sca-glione, consigliere di governo di 1ª classe, vi fu cooptato come segretario in quanto assegnato all’Ufficio Studi; mentre il maggiore Amedeo Guillet, uomo raffinato e brillante, famoso per le sue imprese di guerra tanto da essere soprannominato «Comandante Diavolo», fungeva da garante della sicurezza militare.

Il gruppo di esperti si riunì per dodici volte, dal 21 luglio al 18 settem-bre 1945, redigendo, di volta in volta, un verbale degli oggetti esaminati. E, infine, scrisse un rapporto di tre pagine cui allegò una relazione in copia della R. Soprintendenza ai Monumenti e Scavi della Libia, del 19 dicem-bre 1942, protocollo n. 3945 e ben diciotto verbali: «verbale n. 360066 dell’8 gennaio 1943, dell’Ispettorato Scuole e Archeologia; verbali originali relativi alla ricognizione effettuata nei giorni 31 maggio, 1° e 2 giugno 1944 [a Cremona, n.d.A.]; due verbali originali, privi di data, compilati, 1 per cassetta dal Sig. FRASCHINI; dodici verbali in originale della Com-missione Ministeriale per la ricognizione»56.

Gennaro Pesce soprintendente reggente ai Monumenti e Scavi della Libia dal novembre 1942 al novembre 1945

La commissione, nel riferire che Gennaro Pesce, soprintendente reg-gente ai Monumenti e Scavi della Libia, obbedendo agli ordini del gover-natore generale Ettore Bastico, «provvedeva […] a sistemare in due cassette il “Tesoro Archeologico della Libia” per spedirlo nel Regno all’Ispettorato per le Scuole e l’Archeologia presso il Ministero dell’Africa Italiana, ove avrebbe potuto essere meglio custodito»57, concluse la sua ricognizione constatando che «nulla di prezioso è risultato mancante»58. In verità, nes-suna disposizione era stata impartita al reggente, né dal soprintendente Giacomo Caputo, né tantomeno dal governatore Bastico, come ci dice lui stesso nel rapporto che spedirà da Tripoli il 19 dicembre 1942 e, succes-sivamente, nel saggio che pubblicherà nel 195359. Incrociando i dati dei verbali con l’esame de visu dei materiali, la Commissione stabilì inoltre che «i verbali compilati a Val di Brenta [da Nino Fraschini, n.d.A.] segnano – anzi – oggetti non elencati a Cremona»60.

Dopo l’8 settembre, furono trasferiti nella Repubblica Sociale Italiana, oltre a gran parte degli uffici del MAI, migliaia di documenti dell’Archivio

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Storico e del Servizio Cartografico. I documenti vennero caricati su treni in partenza per Cremona, Pallanza, Intra, Verbania, Laveno, Brenta di Cit-tiglio e patirono vicissitudini di ogni tipo61. Sull’onda di questa repentina e caotica fuga dalla capitale, come noto, partirono per l’Italia settentrionale, nel maggio del 1944, anche i preziosi oggetti archeologici provenienti dalla Tripolitania e dalla Cirenaica.

Un dedalo di verbali accompagna l’odissea dei reperti archeologici e, in verità, essi sono ad oggi l’unica prova testimoniale della loro esistenza e consistenza. Facciamo qualche passo indietro e torniamo al primo verbale, in ordine di tempo, al modello originale da cui sono discesi tutti gli altri. Si tratta del resoconto, stilato da Gennaro Pesce che, nel dicembre 1942, si trovò a rivestire la carica di soprintendente reggente al posto del titolare, Giacomo Caputo, il quale ricopriva tale incarico dal 193662. Questi, par-tito per l’Italia, vi resterà fino alla fine della guerra, ma sarà ufficialmente ancora a capo della Soprintendenza ai Monumenti e Scavi della Libia.

Come tale viene invitato a tornare al suo posto dagli amministratori inglesi. Giunto a Tripoli nel novembre 1945 con una nave-ospedale, il soprintendente riprende la direzione dalle mani di Pesce, rimasto sino a quel momento a capo del personale ita-liano nell’ambito della BMA. […] Caputo rimane alla direzione della Soprintendenza della Tripolitania fino al giugno 1951, quando passa le consegne e l’onere dell’eredità archeologica italiana a Ernesto Vergara Caffarelli. L’anno successivo è nominato alla direzione della Soprintendenza dell’Etruria con sede a Firenze63.

Il resoconto di Pesce è senz’altro l’esposizione più importante dal punto di vista dei contenuti scientifici e della cronaca di ciò che accadde in Libia a quel pezzo di patrimonio archeologico in quei tremendi giorni dell’inver-no del 1942. Non soltanto perché a comporla fu un archeologo di provata esperienza64 – era subentrato tre anni prima a Enrico Paribeni all’Ispetto-rato di Bengasi, ma aveva alle spalle anni di lavoro sul campo in Italia e all’estero – mentre i successivi compilatori furono dei solerti burocrati, ma soprattutto perché si sente che il racconto di Pesce è una registrazione in diretta. Le sue parole suonano come immagini che illuminano il buio di quegli ultimi giorni di presenza italiana in Libia e ci restituiscono, al di là dell’ufficialità burocratica della scrittura, sprazzi di emozioni e di visioni «da vita vera». Esordirà così all’inizio del suo rapporto: «Premesso che al momento dell’aggravarsi della situazione militare in Libia il prof. Giaco-mo Caputo, titolare di questa Soprintendenza, si imbarcava per recarsi in

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missione nel Regno, lasciando al sottoscritto […] la reggenza, […] tuttavia etc. etc. etc.». E nella relazione tra parole e immagini si gioca in effetti una questione significativa, la questione della mediazione tra i fatti e la verità, anche se sappiamo essere la verità un meccanismo polimorfo. In un testo pubblicato molti anni dopo, nel 1953, negli «Annali delle Facoltà di Let-tere e Filosofia e di Magistero dell’Università di Cagliari»65, Gennaro Pesce dirà:

Poiché io fui non solamente un testimone oculare, ma anche un attore di quelle vi-cende, voglio raccontarvi cosa veramente accadde nei musei cirenaici. È una specie di cronaca, che intraprendo a narrare, col solo aiuto della mia memoria, non avendo più documenti presso di me, ed è del tutto inedita. La narro allo scopo di far sapere non solamente ch’è salvo, nel suo complesso, il patrimonio di valori culturali, creato in quella terra dalle fatiche di una generazione d’italiani, ma che è salvo per opera di altri italiani, generali da una parte, oscuri operai dall’altra, nella cui coscienza fu sempre presente, fino all’ultimo, il senso del dovere e della responsabilità.

I fatti raccontati dall’ex ispettore ai monumenti e scavi della Libia orientale risultano talmente impressionanti, in quanto colmi di ricordi freschi, di gesti normali, necessari e imprescindibili – allorquando la quo-tidianità era soffocata dagli accidenti bellici – e quindi ancor più carichi di passione e di dedizione per la propria professione di archeologo militante, da non lasciarci indifferenti. Anche quando dichiarava nel suo rapporto che non aveva ricevuto «alcuna preventiva istruzione in merito alla difesa del patrimonio archeologico della Libia» e ciò nonostante si sentiva spinto ad agire subito, «di propria iniziativa». Nelle tre pagine di premessa agli allegati, nei quali elencò giudiziosamente il contenuto delle due cassette, nelle pieghe di un linguaggio assertivo e burocratico, egli lascia trasparire una sotterranea partecipazione umana e un moto di sottile collera sembra affiorare laddove, per tre volte, ricorda le incombenze piovutegli addosso in seguito alla partenza del titolare, prof. Giacomo Caputo. Si capisce che sono la paura e la preoccupazione insieme a generare quella larvata collera, che altro non è che la naturale reazione di un uomo lasciato drammatica-mente solo a fronteggiare una situazione più grande di lui.

Le sue parole vibrano, e netta si avverte la sensazione che, se ci sono due qualità in cui non difetta, queste sono il coraggio e il senso di responsabi-lità. Dirà infatti, riferendosi al materiale prezioso della Tripolitania, «che – sebbene non di mia specifica spettanza essendone personalmente con-

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segnatario il titolare prof. Caputo – pur tuttavia mi incombeva il dovere di provvedervi»66. Incaricato della salvaguardia del tesoro della Cirenaica, Pesce aveva già portato al sicuro, nell’Ufficio Scavi di Leptis Magna, le oreficerie, le monete della collezione Meliu e varie altre suppellettili pre-ziose provenienti dai cantieri di scavo e di restauro a lui affidati: Cirene, Tolemaide e Tocra.

Il 6 gennaio 1941, giorno della befana, egli si trovava in casa a Bengasi, a festeggiare il battesimo dell’ultimo nato, quando fu raggiunto da un ca-rabiniere che gli comunicò di recarsi immediatamente al Governatorato di Cirene. Il colonnello Granata gli annunciò che era in atto il ripiegamento dei reparti italiani e che il maresciallo Graziani gli ordinava di imballare e trasferire verso occidente statue, stele, cippi, basi, busti, teste, bronzi, terracotte, vasi, monete, gemme, sarcofagi.

Chi non abbia mai visto Cirene e crede che essa consistesse tutta in ciò, che n’è pub-blicato nelle opere d’archeologia e nelle riviste divulgative, si sbaglierebbe. Oltre ai quattro complessi architettonici monumentali (Piazzale d’Apollo, Agorà, Tempio di Zeus e Necropoli), esistevan due grandi musei – l’epigrafico e l’archeologico – co-stituiti in due stabili distinti, ciascuno dei quali conteneva centinaia di monumenti: […]. Ma non basta: una collezione di statue di grande formato era nel salone Ance-schi delle Terme del Piazzale d’Apollo; statue colossali eran nella Casa Parise; statue votive, funerarie, onorarie e decorative erano state lasciate in situ, per l’immensa zona monumentale, altre statue e sarcofagi colossali nel vasto magazzino archeologico. In quest’ultimo, poi, migliaia di oggetti minuti di terracotta, di vetro, di bronzo e via dicendo erano allineati in bell’ordine, con i relativi cartellini, sopra scaffali di legno in giro alle pareti. Tutto questo immenso patrimonio doveva essere imballato e caricato sugli autocarri in brevissimo tempo. C’era di che sudar freddo al solo pensarci, ma c’era poco da pensare, bisognava agire, risolvere subito i problemi tecnici, via via che si presentavano, superare ad ogni costo ogni difficoltà. […] e fu estratta dal muro d’una delle sale la grande cassaforte contenente i preziosi67.

Nella sua travagliata missione di salvataggio archeologico, egli incon-trerà difficoltà a non finire, piccole e grandi, come quella appena descritta, che affronterà con ineludibile razionalità, date le circostanze. Impedimenti di tipo burocratico si alterneranno a ostacoli pratici, ora a Cirene, ora a Bengasi o a Tripoli. A causa del secondo ripiegamento delle truppe italia-ne, verranno perse a Bengasi le chiavi dei due cofanetti contenenti monili, argenterie e monete e Pesce si troverà costretto a forzarli.

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Data la circostanza che, come già da me fatto presente al Governo, le chiavi dei due forzieri erano andate disperse a Bengasi in occasione del secondo ripiegamento, trattavasi o di spedire i forzieri così come erano o di aprirli forzandoli in qualsiasi modo, prelevarvi il contenuto e sistemarlo diversamente allo scopo di ridurre più che possibile peso e volume; partito quest’ultimo cui il Governo ritenne più opportuno attenersi. L’operazione del forzare gli scrigni non essendo stata possibile eseguirla nell’Ufficio Sca-vi di Leptis Magna per varie difficoltà fra cui la mancanza di un meccanico, mi fu necessario trasferire detti colli a Tripoli, collocarli temporaneamen-te nel laboratorio fotografico del Castello avendo cura di domandare con lettera 3816 del 20/XI/42 al Governo che si provvedesse ad un servizio di sorveglianza da parte dei RRCC e di adottare le necessarie precauzioni per preservarli da eventuali bombardamenti68.

L’incubo della guerra in Tripolitania e in Cirenaica: una cronaca in diretta

Per capire meglio lo svolgimento degli avvenimenti dobbiamo rifarci al quadro bellico, seguendo un ordine cronologico che risale al novembre del 1942, quando gli anglo-americani sbarcarono sulle coste del Marocco e dell’Algeria. Le truppe italo-tedesche, insediate in Tunisia, cercarono inva-no di ostacolarne l’avanzata ma furono costrette a ritirarsi nell’entroterra, inseguite dalla 8ª Armata britannica. La Libia a quel punto fu abbando-nata dall’armata corazzata italo-tedesca e dalla 5ª Armata italiana. È facile immaginare quali tragiche conseguenze si abbatterono sulla popolazione civile nell’antica colonia italiana. Ci racconta Del Boca che «la regione più devastata dalla guerra è comunque la Cirenaica, che in tre anni subisce due offensive italo-tedesche e tre controffensive britanniche»69. È dai ricordi dei sopravvissuti che riusciamo a cogliere con nettezza l’orrore della guerra:

Quando arrivò l’ordine di sgombrare era mezzogiorno ed avevamo appena versata la pastasciutta nei piatti. Ma non ci fu il tempo per mangiare. Buttammo le nostre valige sugli autocarri e la colonna imboccò la Balbia con destinazione Tripoli. Il viaggio durò quattro giorni e fu un viaggio d’ inferno. Ogni tanto gli aerei inglesi sorvolavano la nostra autocolonna per mitragliarla o bombardarla. Noi allora ci buttavamo giù dai camion e correvamo lontano dalla strada gettandoci per terra. Se qualcuno rimaneva ucciso, lo seppellivamo con due palate di sabbia. Poi si riprendeva il viaggio. Quando arrivammo a Castel Benito, l’aeroporto di Tripoli, ci imbarcarono su alcuni Junker

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tedeschi, che ci trasferirono a Castelvetrano, in Sicilia. Con l’Africa avevamo chiuso, ma ora per noi cominciava una nuova odissea70.

Di lì a poco anche in Tripolitania la vita diventerà un incubo, soprat-tutto per i nostri coloni, ma non solo. In questa sorta di eredità testamen-taria che sono le pagine che Gennaro Pesce ci ha lasciato, vi sono descritti episodi di vita quotidiana, meritevoli di essere citati, non soltanto per via di quella intensità narrativa che è propria di chi li ha vissuti, ma perché marcano uno stile di pensiero e di comportamento difficilmente ripetibili. Stile che contrasta con la devastazione e la miseria morale, civile e culturale che la guerra trascina diabolicamente con sé e che insorge, a dispetto di tutta questa barbarie, in quanto frutto delle «fatiche di una generazione d’italiani». Fatiche che non sono state buttate via ma che, in un momento così drammatico, vengono riprese – dice Pesce – da «altri italiani», fra cui lui, perché in esse vi è quel potere salvifico capace di proteggere e trasmet-tere ai posteri un «patrimonio di valori culturali» ed etici. Nel 1953, dieci anni dopo i fatti che stiamo narrando, affiderà a queste parole la conclu-sione del suo testo:

Nel turbine d’una guerra, in mezzo a un’umanità abbrutita dalla libidine del distrug-gere, è impresa difficile difendere i valori della cultura. Promotrice di questa difesa fu in Libia l’Armata italiana la quale, pur nel tragico sconvolgimento della sconfitta, si preoccupò di questi ideali interessi. L’Amministrazione militare britannica, colà su-bentrata all’Italia, ed oggi lo Stato autonomo della Libia hanno continuato e conti-nuano l’opera nostra, in omaggio a quella «religione dell’antichità», che è sentita da ogni popolo civile71.

Il passato, dunque, viene alla luce come eredità complessa: fatta di cose antiche, miti, superstizioni, tradizioni, abitudini, costumi, «fatiche», riferi-mento «vivo» e perciò stesso ricco di pathos e di coscienza che si trasforma in un presente agito. Non bisogna dimenticare che la mente umana con-tiene ragione e irrazionalità e tutte e due godono di ottima salute. Il che significa che il passato ospita significati antitetici ed è per questo che la storia dell’uomo è costellata di misteri e ambiguità che stimolano l’incon-scio desiderio di svelarli. Se non avessimo avuto la possibilità di accedere alle due cronache, una in diretta (1942) e l’altra in differita (1953), che l’ex ispettore ci ha lasciato in eredità, in qualità di «testimone oculare» e di «at-tore di quelle vicende», noi oggi non avremmo avuto la possibilità di aprire

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il nostro orizzonte di senso nella prospettiva di una interpretazione allar-gata e pluralistica su ciò che successe ai beni archeologici nei mesi cruciali della disfatta italiana in Libia. Non avremmo avuto una spiegazione basata su fatti concreti e su una serie di interessanti circostanze secondarie. Non avremmo altresì avuto alcun riscontro significativo in merito a quanto di-chiarato in un libretto del Ministero della Cultura Popolare dal titolo Che cosa hanno fatto gli inglesi in Cirenaica72, edito nel luglio 1941, sull’entità delle distruzioni belliche operate da inglesi e australiani nei musei di Ci-rene. Senza negare il fatto che gli inglesi erano animati da intenti punitivi nei confronti degli italiani, tuttavia è opportuno ricordare a tale proposito quanto scrive il «testimone oculare» di allora:

Questo volumetto, oggi del tutto dimenticato [siamo ormai nel 1953; n.d.A.], con-tiene una documentazione per mezzo di fotografie, fac-simili di lettere, racconti di testimoni e via dicendo, circa il modo come la truppa mercenaria al soldo degl’inglesi, occupanti la Cirenaica nell’invernata del 1941, si comportò nei confronti delle per-sone e delle cose del territorio occupato. Fra le pagine 40 e 41 del testo è una serie di figure, tre delle quali riproducono vedute fotografiche di interni devastati, dove si vedono statue in piedi e numerosi piccoli oggetti sparsi sul pavimento e più o meno in frantumi. Tali figure sono illustrate da didascalie: Devastazioni di capolavori romani nel Museo di Cirene: il museo devastato – Così com’è stato ridotto il museo di Cirene. Una quarta figura riproduce una parete dello stesso museo con scritte di soldati australiani. Nessun accenno, però, si fa nel testo a questa devastazione. Inoltre un film di propa-ganda, proiettato nelle sale cinematografiche d’Italia, mostrò vedute di sale dei musei di Cirene piene di piedistalli privi di statue. Queste visioni ingenerarono nel pubblico l’idea che il patrimonio archeologico della Cirenaica era stato dagl’inglesi in parte di-strutto e in parte asportato come preda di guerra. I fatti, in realtà, erano andati molto diversamente, ma le Autorità competenti si guardarono bene dal dire la verità, perché impedite da un’elementare regola di politica, che vuole il nemico dipinto quanto più nero possibile73.

Il testo monografico Che cosa hanno fatto gli inglesi in Cirenaica, uscì anche sugli «Annali dell’Africa Italiana» con un titolo meno ad effetto – Gli inglesi in Cirenaica 74 – ma il contenuto è lo stesso descritto da Pesce. Vi si trovano infatti fotografie con sotto scritto: Devastazioni inglesi nel mo-numento dei caduti di Derna, il segno dei barbari – come si presentano i musei classici della Cirenaica dopo l’evacuazione degli inglesi. 1. Bengasi. Incendi provocati dal nemico in fuga. 2. Dinanzi al bel palazzo delle suore d’Ivrea e via discorrendo. Così come vi si trovano riprodotti documenti, proclami e

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testimonianze che denunciano le malefatte della «perfida Albione», come l’esposto fatto da un certo Bertaiola Umberto il 9 maggio 1941 su carta intestata della R. Prefettura di Bengasi – Questura di Polizia dell’AFRICA ITALIANA – Ufficio Speciale di Istruzione di Polizia di Barce, la cui di-dascalia è: Un singolare documento sulle ruberie degli inglesi in Cirenaica75.

[…] poco dopo l’occupazione inglese della Cirenaica, l’aiutante maggiore del Generale Wilson, dopo essersi informato presso il direttore del consorzio agrario, dott. Rozzi, se l’Ente avesse disponibilità di danaro, chiese al Rozzi la somma di lire 50.000 senza spe-cificare a quale titolo la somma stessa dovesse essere versata. […] [ dopo varie resistenze da parte italiana, n.d.A.] mi recai presso la cassa del consorzio che aprii unitamente al dott. Rozzi prelevandone la somma di lire 50.000 che inviai al comando inglese […]. Circa una decina di giorni dopo verso il tramonto […] il dott. Rozzi e il dott. Piscopo segretario del consorzio rientrando nella abitazione del primo ove era stata collocata la cassa trovarono […] un sacco parzialmente riempito di oggetti vari di proprietà del Rozzi. Pochi istanti dopo la porta d’ingresso si apriva e ne entravano due individui armati di pistola, entrambi in uniforme inglese, […] i quali imposero loro di alzare le mani costringendoli ad aprire la cassa forte […]. I due si impadronirono di una parte del denaro circa lire 100.000 (centomila) e di altri documenti vari, allontanandosi poi.

Vero o falso quanto dichiarato, lascia perplessi il fatto che si faccia una rapina con tanto di firma, l’uniforme inglese, e che l’aiutante maggiore del generale Wilson non abbia un nome e un cognome. Non sarebbe stata la prima volta che la propaganda politica fascista fabbricava un prodotto che soddisfaceva in pieno le aspettative del suo pubblico per raggiungere il pre-ciso scopo di dipingere il nemico «quanto più nero possibile». Scrive Munzi:

[…] Sebbene la maggior parte della statuaria e degli oggetti di valore fosse stata trasfe-rita d’urgenza in previsione dell’occupazione inglese, erano rimaste sul posto alcune statue insieme a numerosi oggetti minori: sono questi i materiali di Cirene rovinati o trafugati, mentre più grave è la devastazione del Museo di Tolemaide, ma l’esagera-zione propagandistica dell’Agenzia Stefani è contraddetta dai racconti di Pesce e dal resoconto steso da Caputo dopo la sua visita nella Cirenaica riconquistata dall’Asse: alla fine si contano cinque teste in marmo sparite, due o tre statue danneggiate e un largo numero di oggetti minori o fragili andati distrutti o dispersi.[…] A conclusione delle ostilità la responsabilità delle devastazioni di Cirene e Tole-maide, comunque imbarazzanti per gli Alleati, sarebbe stata attribuita concordemente dalle due parti ad alcuni facinorosi elementi delle comunità locali, che avrebbero ap-profittato dell’interregno di diversi giorni occorso tra il ripiegamento italiano e il pieno controllo inglese76.

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Tra le traversie affrontate da Pesce durante quelle che definirà «le squal-lide giornate che videro l’agonia di Tripoli italiana» vi fu il recupero nella filiale tripolina della Banca d’Italia del tesoro della Tripolitania.

Per quanto riguarda il tesoro della Tripolitania […] detto tesoro trovavasi depositato presso la Banca d’Italia di Tripoli, nella cassetta di sicurezza n. 14 intestata personal-mente al prof. Caputo, che ne aveva le chiavi e la relativa tessera (lasciate da lui in con-segna al delegato contabile di questa S. Intendenza Santuccio Salvatore). Nello stesso periodo in cui si svolgeva la pratica in oggetto tra questa S. Intendenza ed il superiore Governo della Libia, perveniva a questa S. Intendenza una cartolina della Segreteria della Banca d’Italia, che invitava il prof. Caputo a recarsi alla Banca per cose che lo riguardavano. Recatomi io invece di lui, che era già partito appresi dal segretario Trani l’ordine ( pubblicato con apposito Bando-Allegato n. 2 – a firma del Governatore Ge-nerale della Libia ed affisso nei locali della medesima Banca) che tutti i valori depositati nelle cassette di sicurezza della Banca dovevano essere ritirati dagli interessati. Munito quindi di regolare autorizzazione dal Governo, addì 26/XI/ c.a. alla presenza del ca-valier Turba, del Santuccio e dello Sciortino, ritirai dalla Banca d’Italia il contenuto della cassetta n. 14 consistente principalmente in n. 2 pacchi quadrangolari di diversa grandezza avvolti in carta bianca di imballaggio sigillati e muniti di etichetta (recante il nome di Giacomo Caputo, Turba Luigi, Tedeschi Cesare, Santuccio Salvatore). Oltre ai due suddetti pacchi fu trovato uno scatolino avvolto con spago che riconobbi per averlo io stesso consegnato alla S. Intendenza e contenente oggetti scoperti negli ultimi scavi di Tolemaide77.

La ricognizione prima della partenza per l’Italia

Nella relazione sulla ricognizione del tesoro della Libia stilata a Roma dalla commissione presieduta da Moreno, si accennava molto sintetica-mente agli oggetti che lo componevano: «[…] nella cassetta n. 1 furono collocati il tesoro già conservato nella cassaforte del Museo di Cirene, le monete della collezione Meliu, alcuni preziosi di Tolemaide, etc…. nella cassetta n. 2 furono messi: il tesoro della Tripolitania, oggetti da Tolemai-de, Barce, Bengasi, Cirene e il tesoro dello Artemision di Cirene»78. Si rin-viava, infatti, ai dodici verbali compilati durante le sedute tenutesi dal 21 luglio al 18 settembre 1945 e al più accurato rapporto redatto a Tripoli.

Rapporto sul servizio circa il trasferimento nel Regno del tesoro archeologi-co della Libia79, così si intitola la relazione ufficiale che il Soprintendente reggente ai Monumenti e Scavi di Libia inviò il 19 dicembre 1942 alla Direzione Affari Civili e, per conoscenza, alla Direzione del Personale del

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Governo della Libia e all’Ispettorato Generale Scuole e Archeologia del MAI. Ben tredici pagine dattiloscritte, dense di notizie di prima mano su chi, cosa, quando, come e perché, comprensive dei rispettivi allegati, si tro-vano conservate nel Fondo dell’ex Ufficio Studi del Ministero dell’Africa Italiana80. Il dossier comprende un minuzioso «elenco degli oggetti facenti parte del tesoro archeologico della Libia contenuti in n. 2 cassette di legno tipo militare, che furono spedite nella capitale per essere recapitate all’I-spettore Generale per le Scuole e l’Archeologia presso il Ministero dell’AI», cui si aggiunge l’inventario di artefatti provenienti da un altro tesoro, quel-lo dell’Artemision di Cirene81.

Premesso che al momento dell’aggravarsi della situazione militare in Libia, il Prof. Giacomo CAPUTO, titolare di questa Soprintendenza, si imbarcava per recarsi in missione nel Regno, lasciando al sottoscritto Ispettore delle antichità della L. O. (Libia Orientale, n.d.A.) dott. Gennaro Pesce la reggenza di questa Soprintendenza, nella sua nuova qualifica di Reggente di questa Soprintendenza. Pur non avendo ricevuto alcuna preventiva istruzione in merito alla difesa del patrimonio archeologico della Libia nelle presenti contingenze dal suddetto titolare Prof. Caputo, tuttavia di propria iniziativa, prospettava (con lettera n. 3781 del 16/XI/42 indirizzata alla Direzione AA. CC. e del Personale) al Governo della Libia la necessità, di trasferire nel Regno tutto il complesso di minuti oggetti preziosi costituenti il tesoro archeologico della Cirenaica e della Tripolitania.Pertanto, previ accordi verbali col Direttore Capo del Personale Conte della Croce, il sottoscritto si recò personalmente addì 20/XI/42 con un camioncino del Governo a Leptis Magna, dove rilevò n. 4 colli già depositati presso quell’Ufficio Scavi. Detti colli erano:n. 1) - cassaforte del Museo di Cirene contenente preziosi vari di quel medesimo Mu-seo; n. 2) - cassette ferrate già dell’Ufficio Scavi di Tocre contenenti monete e preziosi vari di Bengasi e di Tolemaide e di altre località della Cirenaica; n. 3) - cassetta in legno sigillata contenente 14 oreficerie dello Artemision di Cirene; n. 4) – cassetta in legno sigillata contenente monete della collezione Meliu e varie altre suppellettili preziose.

Questo è l’incipit del rapporto ufficiale82 che l’ex ispettore inviò a Ro-ma. Con puntigliosità certosina egli raccontò, giorno dopo giorno, quel che accadde prima di passare allo spoglio del materiale archeologico. Storie di ordinaria amministrazione che in quel frangente risultavano straordina-rie – dal falegname arabo di Tripoli che costruì le gloriose due cassette che arrivarono alla stazione Termini, all’ufficiale dei carabinieri, di cui non si conosce il nome, che le scortò lungo tutto il viaggio da Tripoli a Roma – e che in parte abbiamo già raccontato.

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Gennaro Pesce riuscirà a mettere in salvo e a far arrivare nel Regno, il 6 gennaio 1943, circa settemila reperti d’oro, d’argento e di bronzo, il cui peso complessivo si aggirava sui cento chilogrammi, contenuti in due cassette «in legno compensato e abete che misurano ciascuna in lungh. m. 0.80 largh. m. 0.345 altezza m. 0.28 e pesano la prima (n. 1) kg. 63 circa la seconda (n. 2) kg. 42 circa»83. Per portare a termine tutta l’operazione egli coordinerà una squadra di cinque persone così composta: Luigi Turba, geometra, Flaminio (detto Nino) De Liberali, fotografo, Sante Gaudino, tecnico giornaliero, Santuccio Salvatore, delegato contabile della Soprin-tendenza, Vincenzo Sciortino, tecnico. Tutti firmatari con lui del verbale e degli elenchi degli oggetti facenti parte del tesoro della Cirenaica, del tesoro della Tripolitania e del tesoro dell’ Artemision di Cirene.

A dargli man forte vi furono l’inserviente libico Gibrin, che trasportò i due pacchi sigillati contenenti il tesoro della Tripolitania dalla succursale della Banca d’Italia di Tripoli alla soprintendenza, il ragioniere Portoso che ospitò nella sua stanza per alcuni giorni il tesoro, Eugenio De Liberali, capo meccanico dell’officina meccanoidraulica Malagoli che «addì 27/XI aprì le cassette del Museo di Cirene [di cui si erano perse le chiavi a Ben-gasi, n.d.A.] schiodandone il fondo alla presenza del sottoscritto [Gennaro Pesce, n.d.A.], del tecnico […] Sciortino Vincenzo nei locali del nostro laboratorio fotografico»84. Poi, lo stesso giorno, insieme a Turba, Sciortino e gli altri testimoni85, Pesce trasferì i monili, le monete, le medaglie, i basa-mari, i dischetti, le statuette, le testine, vari oggetti fittili e altri manufatti di piccole dimensioni nella nuova cassetta di legno che contrassegnò con il n. 1. L’indomani essi procedettero all’apertura di un’altra cassaforte sigilla-ta, la « n. IV del vecchio elenco», il cui contenuto fu spostato nella cassetta n. 1. Il 1° dicembre, ad essere sistemato nella seconda cassetta di tipo mi-litare fu il tesoro dell’Artemision di Cirene, il «n. III del vecchio elenco». Il 2 dicembre il gruppo si dovette trasferire nell’officina meccanoidraulica di Malagoli a Tripoli, in via Vittorio Veneto, per aprire un altro «scrigno ferrato (n. II del vecchio elenco)», il cui contenuto, una volta ritornati al laboratorio fotografico nel Castello della vecchia cittadella tripolina, fu riversato anch’esso nella cassetta n. 2.

Dopo il tesoro della Cirenaica, venne la volta di quello della Tripolita-nia che, come sappiamo, si trovava in una cassetta di sicurezza della filiale della Banca d’Italia di Tripoli, e che l’ex ispettore riuscì a far trasportare in Soprintendenza dall’«inserviente libico Gibrin» e a chiudere a chiave

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nella stanza del ragionier Portoso. Ma fu nell’ufficio tecnico del Castello – alias laboratorio fotografico – che avvennero le operazioni più delicate: l’apertura, il controllo e la risistemazione del prezioso contenuto nel nuo-vo cofanetto di legno, il n. 2. Con qualche variante, si ripeteva lo stesso inevitabile iter burocratico adottato per il tesoro di Cirene. Attori e scene erano sempre gli stessi.

Vi furono dei piccoli colpi di scena. Uno di questi si verificò quando, il 1° dicembre 1942, nell’ufficio tecnico del Castello i presenti si accinsero ad aprire i pacchi. Immediatamente si accorsero, e non senza una certa apprensione, che uno dei due presentava una lacerazione nella carta di imballaggio ai due angoli inferiori. A causa di questa rottura (subito an-notata e l’involucro accuratamente sistemato, come prova, nella cassetta insieme agli ori e agli argenti) era caduta a terra una moneta d’oro araba, presumibilmente appartenente alla serie di monete arabe ritrovate in fondo al pacco. Il rinvenimento fu fatto il giorno prima dell’apertura ufficiale dei plichi, il 31 novembre 1942.

Pesce ci tiene a sottolineare un particolare che ai non addetti ai lavori sembrerebbe irrilevante, ma che per un archeologo è un dettaglio impor-tante, in quanto il dettaglio ha senso se è riferito a un contesto. Ed è da questo piccolo e apparentemente insignificante particolare che capiamo quanto sia stata decisiva la sua figura professionale anche sul piano scienti-fico oltre che su quello logistico, laddove una corretta registrazione del dato è espressione di una metodologia scientifica altrettanto corretta. La moneta araba caduta a terra non fu rimessa con le altre, non potendosi dimostrare al momento, ma solo ipotizzare, la sua appartenenza al gruppo di monete arabe presenti nel pacco stracciato. Venne così segnalato l’anomalo rinve-nimento e la moneta fu custodita in una bustina a parte dentro la «busta n. 24 dell’elenco relativo al materiale della cassa n.1». Una regola generale in archeologia vuole che, se per una serie di deduzioni o induzioni, qualcosa può essere e quindi probabilmente è e, ciononostante, non si può provare, deve permanere il dubbio fino a prova contraria documentata.

C’è da aggiungere che la situazione era di per se stessa estremamente delicata e rischiosa. Pesce era consapevole che la sua nuova investitura lo esponeva a critiche e a pesanti responsabilità, qualora l’esito dell’opera-zione non fosse stato positivo. Volente o nolente, era lui in quel momen-to responsabile della salvezza di una considerevole parte del patrimonio archeologico della Libia. Il tesoro della Libia era di fatto nelle sue mani

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ed egli avrebbe dovuto preventivamente scongiurare lo scatenarsi di ogni possibile «caccia al tesoro» da parte di chiunque, non soltanto del nemico. Occorreva agire in fretta, bene e con assoluta trasparenza.

E non sarà, parafrasando Munzi, l’ultimo soprintendente italiano, in-sieme al suo collaboratore l’ispettore Gennaro Pesce «rimasto sempre sul posto», a salvare, nei momenti più difficili della guerra, «i beni archeologici della Libia dalle distruzioni e devastazioni belliche»86. Sarà piuttosto il con-trario. Il facente funzioni di soprintendente Gennaro Pesce, nominalmente insieme al suo superiore, ma di fatto solo, salverà l’eredità archeologica italiana in Libia. L’immagine dell’archeologo italiano tratteggiata da Rai-mondo Zucca87 in una nota biografica, risponde in pieno a quanto affiora dalla lettura delle fonti d’archivio relative al tesoro della Libia.

Gennaro Pesce, in virtù del ritorno in Italia del soprintendente Caputo, fu investito della responsabilità archeologica dell’intera Libia, proprio mentre la guerra infuriava sulla «quarta sponda». In quel drammaticissimo frangente Pesce, con un’abnegazione totale, conscio del valore universale dei beni culturali affidati alla sua tutela, salvò un patrimonio inestimabile dalle devastazioni che la sorda guerra comportava.Dopo il definitivo arrivo delle armate inglesi, lo spirito dell’archeologo fu capace di superare le logiche nazionalistiche per collaborare con il neo costituito Department of Antiquities della Libia, retto da uno dei più grandi archeologi inglesi del Novecento, il Ward Perkins, scavando a Sabratha il tempio di Iside e studiando la decorazione pittorica e musiva delle piccole terme di Leptis Magna.

Il Ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai88 riconobbe a Gennaro Pesce il merito di aver impedito la distruzione dei beni archeo-logici e del materiale grafico e fotografico della Soprintendenza ai Monu-menti e Scavi della Libia e propose di insignirlo della medaglia d’argento come benemerito delle arti89. Un riconoscimento giusto perché quanto accadde non fu, come si è visto, l’effetto di una concatenazione di cause impersonali, ma fu il frutto del lavoro di pochi uomini che, ben guidati, seppero dare dignità alla scienza e a se stessi. Un lavoro «oscuro» ai più, ma tanto più nobile perché fuori da ogni retorica e strumentalizzazione politi-ca. Pesce decise, infatti, in completa solitudine, di prospettare «al Governo della Libia la necessità di trasferire nel Regno tutto il complesso di minuti oggetti preziosi costituenti il tesoro archeologico della Cirenaica e della Tripolitania» e se ne assunse i rischi90.

Non c’era bisogno di una fervida immaginazione per capire che il va-

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lore commerciale dei settemila reperti archeologici che andavano sotto il nome de Il Tesoro archeologico della Libia, la maggior parte dei quali d’oro e d’argento, era incalcolabile, così come lo era quello storico-culturale. E neppure ci voleva un genio per immaginare quali interessi si potessero ac-cendere intorno a un tesoro che viaggiava nel bel mezzo di una guerra e quali pericoli e problemi pratici questo potesse comportare. L’avventuroso episodio di cui Pesce si rese protagonista per proteggere la collezione Meliu e la raccolta di monete greche e romane, trovate per caso durante i lavori per l’edificazione del palazzo dell’I.N.A. in via Roma a Bengasi, ne è un emblematico esempio.

Nel 1939 il governo italiano aveva acquistato la collezione numismatica Meliu. Una raccolta di grande importanza perché comprendeva «le serie complete delle antiche monete della Cirenaica, tutte quelle dei Lagidi, nu-merose monete romane repubblicane ed imperiali, bizantine, rinascimen-tali». Centinaia di esemplari d’oro, d’argento e di bronzo che si trovavano depositati in uno stipo-medagliere nell’ufficio dell’ispettore insieme a un «tesoretto di monete d’argento greche e romane, trovato due anni prima durante uno scavo fortuito in Bengasi»91. L’ispettore non aveva fatto in tempo a spedire il medagliere con gli automezzi civili della Prefettura che, nel frattempo, si erano resi disponibili. La situazione intanto peggiorava di giorno in giorno92:

Una sera – la città era paurosamente circondata da incendi, provocati dalle incursioni aeree precorrenti l’arrivo del nemico – mi recai nel mio ufficio insieme col più fida-to dei miei dipendenti (il fotografo Demech), traemmo le monete e ne riempimmo dei sacchetti, che portammo a casa mia, dove li chiudemmo in fondo ad una cas-sa contenente libri. Durante i primi giorni dell’occupazione tutto andò liscio. Ma il mio cuore cominciò a pulsar più forte, quando la truppa australiana e neozelandese si diede al saccheggio metodico della città. Era tanto metodico quel saccheggio, da potersi prevedere con forte approssimazione il giorno in cui sarebbe toccato a questo o a quell’altro stabile, […]. Nel caso – possibilissimo – che i saccheggiatori avessero scoperto e portato via le monete, io mi sarei trovato in questa terribile alternativa: se li avessi denunciati, avrei dovuto implicitamente confessare di avere occultato dei beni statali all’Autorità occupante, col rischio di finire in campo di concentramento; se avessi taciuto, avrei dovuto poi fare i conti col Governo italiano, in quanto avevo commesso un’illegalità […] mi venne un’idea. La popolazione di Bengasi si difendeva dai saccheggiatori murando le porte esterne delle case e delle botteghe. Io feci qualcosa di simile […], feci accatastare le casse con i libri e con le monete, più il meglio delle mie masserizie nell’ultima stanza di casa, feci murare la porta di questa stanza dai miei

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fidi operai di Tolemaide, […], feci addossare una credenza all’esterno della parte mu-rata […], misi il resto della casa in disordine per simulare un saccheggio già avvenuto e mi trasferii con la mia famiglia in un grande rifugio pubblico al centro della città. Il trucco riuscì felicemente: australiani entrati in casa la cedettero già visitata da loro camerati, si limitarono a svuotare una bottiglia di liquore (l’avevo lasciata apposta per loro!), si presero una valigia di biancheria, dimenticata dalla nostra domestica […] e se ne andarono, grazie alla Divina Provvidenza, senz’essersi accorti della porta murata. Le monete eran salve.

Il tesoro si trasferisce nel Regno

È risaputo che l’interesse e l’ingordigia da sempre suscitati dai tanti «tesori» scoperti da archeologi, esploratori, avventurieri, proprietari di fondi, sia che si tratti di oggetti fatti con metalli nobili, sia che si tratti di città sepolte, monumenti, fondazioni o altro, sono sempre stati straordi-nariamente forti per l’impatto emotivo da essi provocato e per la valenza simbolica loro attribuita, oltre che per il valore intrinseco. Il tempo ha poi fatto il resto. La maestria degli artigiani greci ed etruschi nell’arte orafa continua a essere celebrata, ieri come oggi, e le antiche tecniche orafe (sbal-zo, filigrana, «granulazione») continuano a essere ammirate e in alcuni casi riprodotte, come fecero nell’Ottocento, magistralmente insuperati, orafi del calibro dei fratelli Castellani, commercianti, antiquari, archeologi e amanti delle antichità93. «Gli oggetti di metallo prezioso – si sa –, scrive Pesce, destano la cupidigia e perciò son più d’ogni altra cosa esposti al pe-ricolo di finire in mani diverse da quelle del legittimo proprietario»94. Un irresistibile desiderio al quale si sono abbandonati anche illustri archeologi quali Heinrich Schliemann, «scopritore delle città dell’epoca del bronzo di Troia e Micene» e Henry Layard di Austen, che scavò i resti della città assira di Nimrud, i quali commisero delle vere e proprie ruberie:

Schliemann impacchettò il «Tesoro di Priamo» e lo fece uscire di nascosto dalla Tur-chia nel 1873, mentre Layard donò sculture assire a sua cugina Lady Charlotte Guest per la sua casa di campagna in Inghilterra. Nel 1869, quando Layard sposò la figlia di sua cugina, Enid Guest, le donò una parure di gioielli archeologici composta da auten-tici sigilli cilindrici e a stampo della Mesopotamia, che comprendeva un bracciale con il «sigillo di Esarhaddon», trovato da Layard a Nimrud95.

Se il valore commerciale dei gioielli riprodotti dai Castellani è oggi elevatissimo, figuriamoci quello rappresentato dagli autentici gioielli ar-

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cheologici che componevano il tesoro della Libia e di cui purtroppo si sono perse le tracce. Dal rapporto di Pesce si apprende che:

Terminato questo faticoso e indispensabile lavoro di sistemazione ed elencazione degli oggetti, si è proceduto al temporaneo prelevamento di alcuni oggetti inediti dei recenti scavi di Cirene e di Tolemaide, che sono stati consegnati al fotografo De Liberali per fotografarli. Durante questo periodo le chiavi dei lucchetti delle due cassette in que-stione sono state da me affidate al Cav. Turba, che ha provveduto a rimettere al loro posto i detti oggetti dopo le fotografie, incassa[re] il tutto, chiudere e ferrare le casse e restituirmi le chiavi96.

Come d’abitudine, i manufatti archeologici venivano fotografati oltre che inventariati e catalogati e dunque forse, da qualche parte, potrebbero ancora esistere delle fotografie. Oltretutto, non trattandosi di materiale or-dinario, vasellame da cucina per intenderci, ma di artefatti preziosi - pezzi unici, dal momento che non esisteva ancora l’oreficeria in serie - veniva loro attribuita una grande importanza e quindi con maggiore solerzia si procedeva ad attente investigazioni scientifiche. Quasi certamente doveva-no esserci, almeno per una parte di essi, annotazioni sui giornali di scavo, schizzi, schede tecniche e probabilmente studi già pubblicati o in corso. Il tutto bruscamente interrotto dalla guerra. È lo stesso Pesce a dircelo indi-rettamente quando afferma che:

Gli elenchi che seguono sono necessariamente sommari, non essendo stato possibile procedere ad un dettagliato inventario descrittivo, a causa dell’urgenza massima ri-chiesta dal servizio, che è stato eseguito negli intervalli fra le violente incursioni aeree subite dalla città di Tripoli nei giorni tra fine di novembre e i primi di dicembre c.a.97.

Se ci fosse stato più tempo e meno raid aerei, con relativi sganciamenti di bombe, Pesce avrebbe potuto redigere un elenco più corposo che, come intuiamo dalle sue stesse parole, quando parla della impossibilità di pro-cedere a «un dettagliato inventario descrittivo», era in grado di fornire. E questo surplus di dati avrebbe consentito una diagnosi culturale delle rac-colte in esame, qualitativamente e quantitativamente interessante, con la possibilità di stabilire collegamenti trasversali fra gruppi o singoli reperti e relativi contesti di scavo. Si è invece costretti a rinunciarvi, ma si potrà non rinunciare in futuro a formulare ipotesi esplicative, insite nel ragionamen-to diagnostico, alla luce delle fonti attualmente disponibili e di ulteriori

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indagini mirate. Tuttavia, è lo stesso studioso a dichiararlo, vi sono degli appunti, conservati nell’archivio di famiglia, concernenti lo studio del «te-soretto di monete d’argento greche e romane» rinvenuto fortuitamente in via Roma a Bengasi, di cui Pesce pubblica alcuni dati preliminari98. Studi appena iniziati e mai potuti terminare, prima a causa della guerra e poi perché non ebbe più a disposizione i materiali.

I reperti alla fine vennero sistemati, singolarmente o a gruppi, per ri-durne l’ingombro in vista del lungo viaggio via mare e via terra che avreb-bero dovuto affrontare, «in sacchetti di carta oleata o in busta» che, nell’in-ventario, vennero chiamati «plichi». Ogni plico venne numerato in ordine progressivo da 1 a 236. I plichi in questione contenevano il materiale fa-cente parte del tesoro della Cirenaica, del tesoro della Tripolitania e quello pervenuto da «località varie della Cirenaica». Per il Tesoro dello Artemision di Cirene, si preferì lasciare la vecchia numerazione fatta a Leptis Magna, nel gennaio 1942, che va da 1 a 1999.

Il 5 dicembre 1943 il reggente la Soprintendenza ai Monumenti e Scavi della Libia comunicò al Governo generale italiano che le casse erano pron-te per partire. Il 7 dicembre Pesce contattò il Capo del Personale Conte della Croce per concordare le modalità della spedizione100. Il resto della storia è noto. Dopo le rocambolesche vicende di cui fu oggetto il tesoro della Libia e i suoi protagonisti, qui e di là dal Mediterraneo, siamo ritor-nati fatalmente al punto di partenza, come in un gioco dell’oca. Il tesoro, nel maggio del 1944, fu trasferito al Nord, ma, presumibilmente, tornò a Roma già a dicembre dello stesso anno e risulta essere stato depositato nel Museo Coloniale, nella stanza deposito dei valori postali, dove si trovava «una preziosissima collezione di francobolli e molte monete d’argento»101. La sicurezza della stanza fu affidata a cinque carabinieri che si alternavano nelle ventiquattro ore: da una a due unità di giorno, da due a tre unità di notte102.

Che fine ha fatto il tesoro archeologico della Libia?

Si apprende dalle fonti d’archivio che nel luglio 1944 era già in corso un’inchiesta dell’Autorità di Polizia Italiana sui materiali dell’Amministra-zione Coloniale e sugli oggetti archeologici di pregio del Museo Colonia-le103. A seguito delle indagini, si erano avute perquisizioni nelle abitazioni di alcuni funzionari dell’amministrazione coloniale. Una di queste fu quel-

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la del comm. Angelo Piccioli, capo dell’Ufficio Studi del Ministero dell’A-frica Italiana. In tale circostanza il primo direttore del Museo Coloniale, Umberto Giglio, aveva dichiarato

[…] tutti i materiali di pregio intrinseco (oltreché scientifico) di pertinenza del Museo sono stati, a tempo opportuno, da me occultati e sepolti nei locali stessi del Museo in modo tale da sfuggire con quasi assoluta certezza ad ogni ricerca dei nazi-fascisti, dimodoché il tesoro, costituito da ori, argenti, monili, avori è integralmente salvo104.

Il tesoro di cui parla Giglio è con tutta evidenza un insieme di preziosi reperti provenienti da tutte le ex colonie italiane e non soltanto dalla Li-bia. Infatti si citano, oltre alle sei casse «contenenti tutta la suppellettile di argenteria del Governatore della Libia», avori e monili vari, sei corone negussite «di rame dorato», che il maresciallo Graziani fece portare in Italia da Addis Abeba 105. Poi Giglio fa un po’ di confusione e afferma che le «due casse contenenti il cosiddetto “tesoro numismatico della Libia”» – che, ve-rosimilmente, altro non era che il repertorio di ori e argenti comprendenti le monete della collezione Meliu, le antiche monete della Cirenaica, dei Lagidi e via discorrendo, di cui parla Gennaro Pesce nei resoconti dalla Libia – furono trasportate da Guglielmo Narducci, delegato dal Governo della Libia per la Mostra Triennale, da Napoli a Roma.

Questo è un punto cruciale della vicenda del tesoro archeologico libico, in quanto Narducci non poteva portare a Roma ciò che non era in suo possesso. Alla luce dei dati disponibili e della loro elaborazione, infatti, non risulta che il tesoro sia partito da Tripoli prima della fine del dicembre 1942. Seguendo il filo degli avvenimenti così come ci vengono narrati nella relazione del Soprintendente Reggente – nella quale sappiamo essere minuziosamente descritte tutte le fasi preparatorie relative alla raccolta e all’assemblaggio degli oggetti archeologici della Tripolitania e della Cire-naica – e nei documenti a essa collegati, le date non coincidono. La Mostra Triennale delle Terre d’Oltremare venne chiusa nel maggio 1940, quando ancora in Libia si conduceva una vita normale e la complessa operazione di safekeeping, che Gennaro Pesce metterà in piedi a partire da quel fatidico 6 gennaio 1941, era ancora lontana dall’essere concepita.

Nonostante le incertezze per l’avvenire, la comunità italiana di Libia è all’avanguardia nelle statistiche demografiche. Nel primo semestre del 1940 la natalità è del 28,4 per mille, ossia il doppio del quoziente registrato in tutte le altre circoscrizioni del regno.

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Nei primi otto mesi del 1940 i nati vivi sono infatti 2310, i matrimoni celebrati 650. […] Per molti coloni che vivono lontano da Tripoli, nella Gefara o sul Gebel, e che della guerra hanno soltanto le notizie che comunica la radio, la vita continua quasi regolarmente, scandita dalle stagioni, dalle semine e dai raccolti106.

Poi vi fu un’accelerazione delle sorti della guerra che porteranno in breve tempo le truppe alleate alla conquista della Cirenaica, dove Pesce viveva con la famiglia. Quando il colonnello Granata bussò all’uscio della sua casa di Bengasi, il giorno della Befana, informandolo della decisione del generale Graziani di trasferire in territorio tripolino i monumenti e gli oggetti archeologici più significativi dell’antica Cirene, la situazione era già disperata. Appena un mese dopo, gli australiani entreranno a Bengasi. Pesce racconta di aver sudato freddo all’idea di dover «svuotare» Cirene dalle colossali statue che ornavano i suoi complessi architettonici e dalle migliaia di manufatti stivati nei suoi due musei. Ma non ci pensò su due volte e fece imballare e caricare tutto il possibile su automezzi militari. Fu in quel drammatico frangente che procedette alla delicata operazione di estrazione, dal muro di una delle sale del museo archeologico, della «gran-de cassaforte contenente i preziosi»107.

Se l’operazione Cirene avvenne nel gennaio del 1941 nei modi e nei tempi narrati, come è possibile che lo stesso materiale prezioso fosse espo-sto alla Mostra Triennale chiusa allo scoppio della guerra? E se qualche reperto fosse effettivamente transitato dalla Triennale, come è possibile che Gennaro Pesce, così attento e scrupoloso, abbia omesso di parlarcene? E tuttavia non è nemmeno pensabile che alla vigilia di una guerra si lascino viaggiare per mare o per terra oggetti di così alto valore culturale e mate-riale. Evidentemente, all’epoca dell’esposizione di Napoli, il tesoro della Cirenaica e quello della Tripolitania, che sappiamo essere stato prelevato dalla succursale della Banca d’Italia di Tripoli il 26 novembre 1941, con tanto di testimoni e autorizzazione governativa, erano entrambi in Libia.

Non sarebbe potuto essere altrimenti, visti gli esiti. E cioè, dapprima, l’arrivo «in blocco» del tesoro archeologico da Tripoli a Roma e, in segui-to, dopo alterne vicende, il suo «occultamento» e la sua «sepoltura» nei locali del Museo Coloniale. Le parole sono di Umberto Giglio, scritte nel rapporto che il 4 agosto 1944 inviò al Capo di Gabinetto del MAI108, a seguito di un’inchiesta avviata dall’Autorità di Polizia Italiana, e di cui si è riportato un breve stralcio a inizio paragrafo.

Il 15 gennaio 1945 è Massimo Adolfo Vitale, incaricato delle funzioni

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di direttore del Museo Coloniale, a riferire circa «alcuni preziosi in carico» all’istituto:

Preciso che tali preziosi stessi sono regolarmente in carico, ed opportunamente custo-diti, in attesa della generale sistemazione dei monili ed oggetti d’oro e d’argento109.

Fino a tutto il 1947, la spinosa faccenda del tesoro della Libia andò

avanti in un’ansiosa ricerca di legittimità e di sicurezza. Ad un certo punto, però, il tesoro esce di scena, in modo inaspettato. E’ pur vero che prima di questa ricostruzione c’era un «buco nero», di questo tesoro non se ne conosceva più né l’esistenza né la consistenza. Ora perlomeno si sa che è esistito, di quanti e di quali pezzi era composto e dove, una volta giunto in Italia, fu custodito, almeno fino al 1947, stando alle carte. I documenti esaminati, quelli, per intenderci, conservati nel Fondo ex Ufficio Studi del Ministero dell’Africa Italiana, Pacco n. 20, 1944-55, tranne che per una esigua parte, sono mischiati, non seguono un ordine cronologico. Soltanto alcuni di essi sono in connessione tematica, pertanto è difficile incastrarli l’uno con l’altro, ma soprattutto si ha chiara la percezione che non siano completi. E così, spulciandoli uno ad uno e poi incrociandoli, ci si rende conto delle assenze, di ciò che manca o resta incompiuto, di interlocutori assenti. Ci si rende inoltre conto che gestire questo tipo di «assenze» è insidioso, perché si perdono i riferimenti. Allo stesso tempo, questo proli-ferare di omissis aiuta, in una certa misura, a individuare la direzione verso la quale orientare nuove indagini.

Non è irragionevole pensare che sussista qualche relazione tra la man-canza di documenti sul tesoro a partire dal 1948 e la sua successiva uscita di scena. Il fatto stesso che 100 chilogrammi d’oro e d’argento siano stati seppelliti nell’oblio e il tesoro non sia più stato nominato in quel carteggio, non è esso stesso indicativo di una strada che si stava imboccando per poi dimenticare e far dimenticare? È abbastanza inverosimile che tutto questo sia accaduto per caso e non invece per seguire un «programma iniziale», il quale forse non prevedeva esattamente questo epilogo, ma che poi, per cir-costanze a noi ignote, fu in seguito modificato. È altrettanto poco credibile che di tutti questi reperti, circa settemila, non sia rimasta alcuna traccia da nessuna parte. Il cosiddetto Tesoro archeologico della Libia non può essere scomparso nel nulla e il mistero che ora lo circonda altro non è che l’assen-za di notizie certe su di esso.

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Note al testo

1 Ministero degli Affari Esteri, Archivio Storico del Ministero dell’Africa Italiana (d’ora in avanti MAE, ASMAI), Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, Relazione del 31 dicembre 1945.

2 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, Decreto Ministeriale del 20 luglio 1945.

3 Ferruccio Parri fu presidente del Consiglio dei Ministri e ministro ad interim per l’Africa Italia-na dal 21 giugno all’8 dicembre 1945.

4 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, S4/10, lettera del giugno 1945.

5 Ibidem. In una nota a fondo pagina, si legge: «Al dr. Cepollaro traduzione integrale oggi stesso 19/7».

6 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, S4/10, lettera del 12 giugno 1945.

7 Mattia Mininni era il capo dell’Ufficio Studi del Ministero dell’Africa Italiana.8 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.

119, S4/10, lettera del 10 o 1° giugno 1945.9 La lettera di cui si sta parlando reca il prot. n. 800919 apposto il 30 luglio 1945 dall’Ufficio

Studi; la precedente lettera recava il numero 800750.10 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.

119, S 4/10, 10 o 1° giugno 1945. Anche questa seconda lettera della Commissione Alleata è firmata, per il commissario capo G.R. UpJhon, Brig, da G. B. Benhan Cart.

11 Dipinti, Sculture e Grafica delle collezioni del Museo Africano. Catalogo Generale, a cura di Ma-riastella Margozzi, Isiao, Roma 2005, pp.17-18. Il Museo Coloniale chiuse i battenti nel 1971 «per riordinamento».

12 R.D. 25 novembre 1940, n. 1970 Nuovo Regolamento per il Museo dell’Africa Italiana.13 Cfr. Gennaro Pesce, In margine alla storia dell’ultima guerra in Libia. (Come fu salvato il

patrimonio archeologico della Cirenaica). «Annali delle Facoltà di Lettere e Filosofia e di Magi-stero dell’Università di Cagliari», estratto dal v. XXI, parte I, 1953, pp.14-15; MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, Rapporto sul servizio circa il trasferimento nel Regno del tesoro archeologico della Libia, redatto dal reggente la Soprintendenza ai Monumenti e Scavi della Libia Gennaro Pesce, prot. n. 3945, del 19 dicembre 1942.

14 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, S 4/10, lettera della Presidenza del Consiglio dei Ministri al Gabinetto del Ministero dell’Africa Italiana del 12 luglio 1945.

15 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, S 4/12, lettera del 16 novembre 1944.

16 Massimiliano Munzi, La decolonizzazione del passato. Archeologia e politica in Libia dall’am-ministrazione alleata al regno di Idri, ,«L’Erma» di Bretschneider, Roma 2004, p.16.

17 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, S 4/10, 10 o 1° giugno 1945.

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18 Dal Report by prof. Micacchi, allegato alla lettera del Quartier Generale della Commissione Alleata, n. protocollo 800919 dell’Ufficio Studi, 10 o 1° giugno 1945 apprendiamo che: «[…] Le due cassette giunsero a Roma la sera del 6 gennaio 1943, scortate da un Maresciallo dei RR.CC. e vennero consegnate al dott. Micacchi, a cura del quale, la mattina seguente, ven-nero depositate presso l’Economato del Ministero dell’Africa Italiana, affinché la Direzione Generale del Personale (Ufficio Affari Generali) provvedesse alla loro custodia insieme con gli altri oggetti di valore del Ministero. Della consegna fu redatto regolare verbale». Cfr. inoltre MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, Relazione del 31 dicembre 1945 nella quale si legge: «[…]Così recuperate le cassette venivano finalmente trasportate a Roma e custodite in armadio metallico presso il Gabinetto del Ministro dell’Africa Italiana, e successivamente consegnate, previa ricognizione esterna da parte della Commissione di cui sotto, al Direttore del Museo dell’Africa Italiana dott. Massimo Adolfo Vitale, per la definitiva custodia nei locali del Museo stesso».

19 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, Relazione del 31 dicembre 1945.

20 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, S 4/10, Report by Prof. Micacchi, allegato alla lettera del Quartier Generale della Commis-sione Alleata datata 10 o 1° giugno 1945.

21 Enrico Cerulli (Napoli 1898 - Roma 1988, orientalista, fu direttore generale al Ministero dell’Africa Italiana (1936), poi vicegovernatore generale dell’AOI (1937); dal 1950 al 1954 ambasciatore a Teheran. Sia in Iran e sia nel corso di viaggi ed esplorazioni nella Somalia, nel Harar e nell’Etiopia occidentale, acquistò un’importante raccolta di manoscritti, poi donata alla Biblioteca Vaticana. Nel 1943 ricopriva la carica di commissario per il Ministero dell’Africa Italiana a Roma. Cfr. MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Ita-liana, pacco 20, fasc. 119, S 4/12, lettera del 4 agosto 1944 a firma Umberto Giglio, indirizzata al Capo di Gabinetto del Ministero dell’Africa Italiana.; MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Uf-ficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, S 4/10, Report by Prof. Micacchi.

22 Report by Prof. Micacchi allegato alla lettera del Quartier Generale della Commissione Alleata, n. protocollo 800919 dell’Ufficio Studi , 10 o 1° giugno 1945.

23 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, Relazione del 31 dicembre 1945.

24 Sul tema della crisi dello Stato nazionale, sull’8 settembre e sulle implicazioni che la fine della II Guerra Mondiale ebbe sull’idea di nazione e sul concetto di patria, cfr. Ernesto Galli della Loggia, La morte della patria. La crisi dell’idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica. Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 3-50.

25 Ibidem, p.5.26 Angelo Del Boca, Gli Italiani in Africa Orientale. Nostalgia delle colonie, IV, Laterza, Roma-

Bari 1984, p. 8.27 A proposito di scrivanie ministeriali, la scrivania sulla quale siedono i ministri della cultura che

si sono succeduti dal 1974 a oggi era nel salone del Gran Consiglio fascista. 28 Cfr. Vincenzo Pellegrini - Anna Bertinelli, Per la storia dell’Amministrazione coloniale

italiana. Giuffré editore, Milano 1994, pp. 25-26.29 A. Del Boca, Gli Italiani in Africa Orientale. Nostalgia delle colonie, IV, cit., p.7.30 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.

119, Relazione del 31 dicembre 1945.31 Ibidem.

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32 Ibidem.33 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.

119, S 4/11, comunicato dell’Ufficio Studi Mostre ed Esposizioni inviato all’Ufficio Studi – Sede del Ministero dell’Africa Italiana del 12 dicembre 1944, prot. n. 772233; fasc. 119, S4/12 comunicato del 15 gennaio 1945, prot. n. 525018.

34 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, S 4/10, lettera del 10 gennaio 1947.

35 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, S 4/10, lettera del 12 luglio 1946 a firma del Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri Giustino Arpesani, il quale ricoprì tale carica insieme a Giorgio Amendola.

36 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, S 4/10, lettera del Gabinetto della Presidenza del Consiglio dei Ministri a firma del Sot-tosegretario di Stato Paolo Cappa del 4 settembre 1946.

37 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, S 4/10, lettera del Gabinetto della Presidenza del Consiglio dei Ministri a firma del Sot-tosegretario di Stato Giustino Arpesani del 12 luglio 1946.

38 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, S 4/10, lettera del Gabinetto della Presidenza del Consiglio dei Ministri a firma del Sot-tosegretario di Stato Paolo Cappa del 4 settembre 1946.

39 M. Munzi, L’epica del ritorno. Archeologia e politica nella Tripolitania italiana, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2001, p. 35.

40 Il Decreto Ministeriale del 31 gennaio 1922 n. 20 rese attuativo il Regio Decreto del 24 set-tembre 1914. Ibidem, pp. 36-37.

41 L. Parpagliola, Codice delle Antichità e degli oggetti d’arte. Raccolta di leggi, decreti, regolamen-ti, circolari relativi alla conservazione delle cose d’interesse storico-artistico e alla difesa delle bellezze naturali, I, La libreria dello Stato, Roma (II ed.) 1932, pp. 435-437, R. Decreto 24 settembre 1914, n. 1271, cui segue Regolamento per la esecuzione del R. Decreto 24 settembre 1914, N. 1271, che approva l’ordinamento archeologico della Libia, alle pp. 438-454. In Codice delle antichità e degli oggetti d’arte. Parte Settima. Tutela archeologica ed artistica nelle colonie. Consta di tredici articoli molto stringenti rispetto alla tutela dei beni culturali, in linea con le disposizioni vigenti in Italia in virtù della Legge n. 364 del 20 giugno 1909.

42 Michel Foucault in L’Archeologia del sapere (1969), cap. VII, pp. 94-101 mette in evidenza proprio le conseguenze derivanti da enunciazioni che rivelano concetti e strategie operanti nella realtà quotidiana attraverso un sistema di formazione composto da elementi eterogenei in relazione fra di loro. «Per sistema di formazione – dice Foucault a p. 98 – si deve dunque intendere un complesso fascio di relazioni che funzionano come regola: esso prescrive ciò che si è dovuto mettere in rapporto, in una pratica discorsiva, perché essa si riferisca a questo e a quell’oggetto, perché essa faccia intervenire questa e quella enunciazione, perché essa utilizzi questo o quel concetto, perché essa organizzi questa e quella strategia».

43 Ibidem. Si vedano in particolare le pagine che vanno da 218 a 231, nelle quali l’autore esplora le condizioni di possibilità in cui si articola la conoscenza e le mette in relazione non più con una storia globale ma con una storia generale piena di scarti e fratture, e che dunque non è vista come un continuum di «successioni temporali». Egli cerca di rintracciare una coscienza storica (flusso di coscienza) attraverso i discorsi scritti e pronunciati. Questi ultimi sono dei sistemi che agiscono con efficacia operativa sulle idee e le istituzioni, mostrando in questo modo il loro radicamento nella società che li ha generati. Nel caso in questione, la lettera

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del sottosegretario di stato diventa la pratica discorsiva attraverso la quale, a un certo punto, l’enunciato si trasforma in evento o, comunque, crea condizioni sufficienti e necessarie a far sì che diventi tale all’interno di una determinata situazione storica, come conseguenza di rapporti di potere/sapere e non soltanto come esito di una genesi storico-politica. L’archeologia viene chiamata in causa proprio perché si rifà al contenuto del discorso in quanto tale, lo assume così com’è, nella sua specificità e nella sua naturalità, con le sue relazioni sincroniche e diacroniche, le sue contraddizioni, le differenze e le discontinuità. Alle pagine 222 e 223 Foucault scrive: «L’archeologia parla, molto più volentieri che la storia, delle idee, di tagli, di faglie, di aperture, di forme completamente nuove di positività e di improvvise ridistribuzioni. […] procede in senso inverso: cerca piuttosto di districare tutti quei fili che la pazienza degli storici aveva teso; moltiplica le differenze, mescola le linee di comunicazione e si sforza di rendere più difficili i passaggi; non cerca di mostrare che l’analisi fisiocratica della produzione preparava quella di Ricardo; non considera pertinente alle proprie analisi affermare che Coeurdoux aveva prepara-to Bopp». Il compito dell’archeologia è quello di analizzare «il grado e la forma di permeabilità di un discorso: dà il principio della sua articolazione su una catena di avvenimenti successivi; definisce gli operatori mediante i quali gli avvenimenti si trascrivono negli enunciati», ovvero l’archeologia mostra in quali condizioni di possibilità un discorso può attivare delle regole che riorganizzino un campo di sapere specifico, – nella correlazione, ad esempio, tra discorso politico e colonialismo – «e in che cosa consista precisamente (quali confini, quale forma, quale codice, quale legge di possibilità abbia)». Essa inoltre permette di individuare «il livello dell’innesto evenemenziale», Michel Foucault, L’Archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura. Bur, Milano 2009 (ed. or. 1969),p. 220. A proposito del ruolo dell’etno-logia, invece, Mudimbe scrive, parafrasando Foucault: «Una certa posizione costituitasi nella storia della ratio occidentale fonda il rapporto di quest’ultima con tutte le altre società […]. L’etnologia non assume le proprie dimensioni che nella sovranità storica del pensiero europeo e del rapporto che lo contrappone a tutte le altre culture non meno che a se stesso», Valentin Y. Mudimbe. L’invenzione dell’Africa, Meltemi, Roma 2007, p.41.

44 Ibidem.45 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.

119, S 4/10, 10 gennaio 1947.46 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.

119, S 4/10, 12 maggio 1947.47 Giuseppe Lupis insieme a Eugenio Reale fu sottosegretario del MAE durante il governo De

Gasperi III, in carica dal 2 febbraio al 31 maggio 1947. Alcide De Gasperi aveva l’interim del MAI, Gonella era ministro della Pubblica Istruzione. Non si capisce come mai a rispondere di una questione così delicata riguardante il Ministero dell’Africa Italiana, e per di più su di un foglio in carta semplice, sia il sottosegretario agli esteri e non quello dell’Africa Italiana.

48 La data della lettera è 12 maggio 1947, il protocollo di arrivo all’Ufficio Studi è il n. 215874 del 28 maggio 1947; MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, S 4/10.

49 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, S 4/10. Nota del 12 agosto 1946, prot. n. 501016.

50 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, S 4/10. La nota è firmata per il ministro da F. D’Alessandri, n. prot. 501410 del 27 agosto 1946.

51 Carlo Petrocchi, Il giacimento fossilifero di Sahabi, Collezione scientifica e documentaria a cura del Ministero dell’Africa Italiana, Airoldi editore, Verbania 1943, pp. 1-170.

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52 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, S 4/10. La lettera è del prof. Carlo Petrocchi e fu allegata alla nota del 27 agosto 1946.

53 In V. Y. Mudimbe. L’invenzione dell’Africa cit., p. 45.54 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.

119, Relazione del 31 dicembre 1945.55 Mario Martino Moreno era stato vicegovernatore dei Galla e Sidama in Etiopia dal 1936 al

1938. Rientrato in Italia, venne nominato direttore generale degli Affari Politici del Ministero dell’Africa Italiana, carica che ricoprì dal 1938 al 1951. Oltre alla sua carriera diplomatica svolse anche un’intensa attività scientifica come orientalista. Specializzato in filologia camito-semitica, insegnò all’Università di Roma, di Beirut e di Napoli.

56 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, Relazione del 31 dicembre 1945.

57 Ibidem.58 Ibidem.59 G. Pesce, In margine alla storia dell’ultima guerra in Libia cit., pp. 2-16; MAE, ASMAI, Africa

IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero A.I., pacco 20, fasc. 119, Rapporto sul servizio circa il trasferimento nel Regno del tesoro archeologico della Libia, Tripoli, 19 dicembre 1942, firmato, per il soprintendente, dall’ispettore G. Pesce e da: Luigi Turba, Flaminio De Liberali, Sante Gaudino, Santuccio Salvatore, Sciortino Vincenzo.

60 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, S 4/10, Relazione del 31 dicembre 1945.

61 «[ …] Durante questo trasporto un carro ferroviario contenente 8000 fascicoli dell’archivio del personale sarebbe stato agganciato erroneamente ad un treno diretto in Germania causando la perdita di quel materiale». V. Pellegrini - A. Bertinelli, Per la storia dell’Amministrazione coloniale italiana cit., pp. 100-101. A questo riguardo Cerreti precisa che tali materiali dell’Uf-ficio Studi, dopo essere arrivati in Germania, furono rinvenuti successivamente in una stazione boema ma il loro recupero non fu possibile. «[…] Da Cremona, nel maggio 1944 l’ufficio [Studi, n.d.A.] si trasferì a Pallanza, di qui a Ghiffa, poi a Intra, dove giunse, sempre con tutto il materiale, ai primi di luglio. Divenuta poco sicura la vicina Val d’Ossola, si decise di trasportare l’Ufficio a Laveno, sulla sponda opposta del Lago Maggiore: durante il trasbordo, nella notte del 31 agosto, parte del carico cadde in acqua senza che si potesse ripescarlo. Da Laveno, infine, il tutto fu trasferito a Brenta di Cittiglio, dove venne preso in consegna dal CNL il 26 aprile 1945». Claudio Cerreti, La raccolta cartografica dell’Istituto Italo-Africano. Presentazione del fondo e guida alla consultazione. «Collana di Studi africani», 11, Isiao, Roma 1987, pp. 9-10.

62 «Dopo la morte del Guidi, il dott. Giacomo Caputo assunse, […], la direzione della Soprin-tendenza unificata della Tripolitania e della Cirenaica, con sede a Tripoli, lasciando al prof. Raf-faele Rinaldis la continuazione degli scavi e dei restauri di Tolemaide». Matteo Balice, Libia. Gli scavi italiani. 1922-1937: restauro ricostruzione o propaganda?, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2010, p. 78.

63 M. Munzi, La decolonizzazione del passato cit., p.18. Per le notizie biografiche su Giacomo Caputo si veda M. Munzi, L’epica del ritorno cit., pp. 50-51.

64 La sua brillante carriera l’archeologo napoletano l’aveva iniziata conseguendo nel 1929 una borsa di studio della Regia Scuola Archeologica Italiana di Atene. Il 10 dicembre dello stesso anno cominciò a lavorare presso la Soprintendenza alle Antichità delle province di Napoli, Avellino e Benevento retta da Amedeo Maiuri come salariato temporaneo e con mansioni di Ispettore alle Antichità. Da lì fu trasferito in Piemonte e poi di nuovo a Napoli dove collaborò

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con Giacomo Caputo all’allestimento della Mostra Triennale delle Terre d’Oltremare (1937). Il 24 febbraio 1939 Pesce si trasferisce in Libia e diventa responsabile di due cantieri di scavo permanenti, Cirene e Tolemaide, a cui si aggiunse «per sua volontà» il cantiere di Tocra, l’antica Teuchira, che condurrà con l’assistente Giuseppe Raganato e con l’ingegnere P. Pedone. Pesce riportò alla luce anche un colossale tempio dorico di età arcaica (VI-V sec. a.C.) situato nella collina orientale di Cirene. A Tolemaide si dedicò particolarmente allo scavo e al restauro del Palazzo delle Colonne, della basilica paleocristiana e del mausoleo ellenistico. Cfr. Nota biogra-fica in G. Pesce, Sardegna Punica, a cura di Raimondo Zucca, Ilisso, Nuoro 2000 (I ed. 1961), pp. 28-31; M. Munzi, La decolonizzazione del passato cit., pp. 18-22, 27, 46; M. Balice, Libia. Gli scavi italiani. 1922-1937 cit., p.83.

65 G. Pesce, In margine alla storia dell’ultima guerra in Libia cit. pp. 3-4.66 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.

119, Rapporto sul servizio circa il trasferimento nel Regno del tesoro archeologico della Libia, Tri-poli 19 dicembre 1942.

67 G. Pesce, In margine alla storia dell’ultima guerra in Libia cit.., pp. 5-6.68 Ibidem, pp. 5-6.69 A. Del Boca, Gli Italiani in Libia. Dal fascismo a Gheddafi. II, Laterza, Roma-Bari 1988,

pp.312 ss.70 Ibidem, p. 316; da una testimonianza di Antonina Lo Certo raccolta dall’autore.71 G. Pesce, In margine alla storia dell’ultima guerra in Libia cit., p.16.72 Si vedano A. Del Boca, Gli Italiani in Libia. Dal fascismo a Gheddafi cit., pp. 313-314; M.

Munzi, L’epica del ritorno cit., pp. 119-120; Id., La decolonizzazione del passato cit., pp. 15-16.73 G. Pesce, In margine alla storia dell’ultima guerra in Libia cit., p.3.74 Sugli «Annali dell’Africa Italiana», anno IV, vol. II, del 1941, pp. 371-401, fu pubblicato un

articolo intitolato Gli inglesi in Cirenaica, che recava la seguente premessa fatta dal comitato di redazione: «Siamo lieti di offrire ai nostri lettori la documentazione integrale raccolta dal Ministero dell’Africa Italiana e della Cultura Popolare sul comportamento degli inglesi durante la loro breve occupazione della Cirenaica . Tale documentazione è stata raccolta in speciale monografia dal Ministero della Cultura Popolare».

75 Ibidem. Le pagine con le fotografie o le riproduzioni di documenti non hanno la numerazione.76 M. Munzi, L’epica del ritorno cit., p. 119. Cfr. G. Pesce, In margine alla storia dell’ultima

guerra in Libia cit., pp.7-8.77 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.

119, Rapporto sul servizio circa il trasferimento nel Regno del tesoro archeologico della Libia, Tri-poli 19 dicembre 1942.

78 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, Relazione del 31 dicembre 1945.

79 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, Rapporto sul servizio circa il trasferimento nel Regno del tesoro archeologico della Libia, Tri-poli 19 dicembre 1942.

80 Nell’Archivio storico-diplomatico del MAE è conservata una copia, mentre l’originale fu resti-tuito dalla commissione incaricata all’Ispettorato Scuole e Archeologia.

81 Nella relazione di Pesce si legge: «Gli oggetti pertinenti a questo tesoro sono conservati in scatolette di cartone da lastre fotografiche, ciascuna avvolta in carta da imballaggio ed ogni

Il tesoro archeologico della Libia

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pacco legato con lo spago. Altri gruppi di oggetti sono conservati in buste di carta oleata. La numerazione di questa serie di pacchi e sacchetti va da 1 a 19 (rimanendo quale fu stabilito nella sistemazione di detti oggetti fatta a Leptis Magna nel gennaio 1942) cfr. verbale di verifica di un sacco proveniente da Cirene: R. Ufficio Scavi di Leptis Magna prot. 32 del 21/1/1942». MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, Rapporto sul servizio circa il trasferimento nel Regno del tesoro archeologico della Libia, Tri-poli 19 dicembre 1942.

82 Ibidem.83 Ibidem.84 Ibidem.85 Il fotografo Nino De Liberali e il tecnico giornaliero Santo Gaudino. Ibidem.86 « […] Caputo verrà richiamato dalla British Military Administration, che lo confermerà al suo

posto, sebbene alle dipendenze degli Antiquities Officiers giunti al seguito dell’Ottava Arma-ta». M. Munzi, L’epica del ritorno cit., p.51.

87 G. Pesce, Sardegna Punica, a cura di R. Zucca, cit., pp. 30-31.88 Il ministro Giuseppe Bottai predispose un accurato piano di difesa e protezione antiaerea dei

monumenti, degli edifici storici e delle più importanti opere artistiche presenti sul territorio nazionale fin dal 1940.

89 G. Pesce, Sardegna Punica, a cura di R. Zucca, cit., p.31.90 La lettera con la quale il soprintendente ad interim chiedeva di trasferire in Italia le preziose

raccolte è del 16/XI/1942, prot. n. 3781. MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, Rapporto sul servizio circa il trasferimento nel Regno del tesoro archeologico della Libia, Tripoli 19 dicembre 1942.

91 G. Pesce, In margine alla storia dell’ultima guerra in Libia cit., p. 9.92 Ibidem, pp. 10-11.

93 Stefanie Walzer, La famiglia Castellani da Fortunato Pio ad Alfredo, in I Castellani e l’orefice-ria archeologica italiana, a cura di Anna Maria Moretti Sgubini e Francesca Boitani, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2005(ed. or. 2004), pp. 21-66.

94 G. Pesce, In margine alla storia dell’ultima guerra in Libia cit., p. 10.95 Elizabeth Simpson, «Una perfetta imitazione del lavoro antico». Gioielleria antica e adatta-

menti castellani, ivi, p. 181.96 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.

119, Rapporto sul servizio circa il trasferimento nel Regno del tesoro archeologico della Libia, Tri-poli 19 dicembre 1942.

97 Ibidem.98 Cfr. G. Pesce, In margine alla storia dell’ultima guerra in Libia cit., pp. 9-10, nota 1.99 Ibidem. In particolare vi si legge: «Cfr. verbale di verifica di un sacco proveniente da Cirene: R.

Ufficio Scavi di Leptis Magna prot. 32 del 21/1/1942».100 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.

119, Rapporto sul servizio circa il trasferimento nel Regno del tesoro archeologico della Libia, Tri-poli 19 dicembre 1942.

101 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, S 4/11, comunicato dell’Ufficio Studi Mostre ed Esposizioni inviato all’Ufficio Studi –

Francesca Gandolfo

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Sede del Ministero dell’Africa Italiana. del 12 dicembre 1944, prot. n. 772233. Cfr. inoltre Relazione del 31 dicembre 1945. MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119.

102 Ibidem.103 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.

119, S 4/12, lettera del 4 agosto 1944 a firma Umberto Giglio, indirizzata al Capo di Gabinet-to del Ministero dell’Africa Italiana.

104 Ibidem.105 Ibidem.106 A. Del Boca, Gli Italiani in Libia. Dal fascismo a Gheddafi. II, cit, p.312.107 G. Pesce, In margine alla storia dell’ultima guerra in Libia cit., pp.5-6.108 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc.

119, S 4/12, lettera del 4 agosto 1944 a firma Umberto Giglio, indirizzata al Capo di Gabinet-to del Ministero dell’Africa Italiana.

109 MAE, ASMAI, Africa IV, Fondo ex Ufficio Studi Ministero dell’Africa Italiana, pacco 20, fasc. 119, S 4/12, lettera del 15 gennaio 1945, indirizzata al Ministero dell’Africa Italiana, Ufficio Studi.

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Le visite di Gheddafi in Italia

di Giampaolo Calchi Novati

La volontà di dimenticare che ha offuscato il nostro colonialismo è stata interrotta dall’accettazione a pieno titolo nel campo politico della destra di matrice fascista o neo-fascista. Era prevedibile una fiammata del revanscismo, almeno virtuale, da parte di una forza politica che ha im-personato i valori del patriottismo aggressivo e della grandezza «imperia-le» della nazione. L’Italia non si è mai del tutto rassegnata alla «perdita» delle colonie, prima in guerra e poi nella battaglia diplomatica all’Onu. Per i nostalgici poteva essere l’occasione buona. In parte è stato così, con un’indubbia ripresa d’interesse per i temi coloniali, ma i fatti non sono an-dati tutti e coerentemente nella direzione che ci si poteva aspettare. Nello stentato dibattito politico-culturale sul colonialismo italiano, del resto, i partiti di centro-destra e di centro-sinistra non hanno prodotto argomenti di spiccata brillantezza e gli accenti usati non sono veramente distinguibili gli uni dagli altri. È stato un governo di centro-destra, comunque, a por-tare a termine l’operazione di restituzione all’Etiopia della stele di Axum e a chiudere la lunga disputa con la Libia sui risarcimenti morali e materiali dei misfatti del colonialismo italiano.

È nel contesto di questa specie di «ritorno di colonia» che la Libia si è confermata un tabù difficile da gestire. Anche le reazioni che hanno ac-compagnato la crisi terminale del regime di Gheddafi hanno suscitato una partecipazione a livello sia emotivo che politico non paragonabile a ciò che è avvenuto in Italia a suo tempo per le crisi in Somalia o in Etiopia, senza risparmiarci nessuno degli stereotipi che costituiscono l’ossatura del pen-siero coloniale. L’unanimità a destra e a sinistra, in gara a chi era più duro con il «dittatore», non era priva di equivoci, come sempre quando si tratta di ex-colonie e delle vicende del Sud in generale. Malgrado il compianto per le vittime, le preoccupazioni, anche in Italia, riguardavano anzitutto i riverberi esterni: la minaccia del fondamentalismo, le emigrazioni di mas-

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sa, le forniture energetiche. Il momento della verità nel rapporto fra l’Italia e la sua ex-colonia

è scoccato con la tanto attesa e temuta prima visita ufficiale in Italia di Muammar Gheddafi, realizzata finalmente nel giugno 2009. Per certi aspetti, quarant’anni dopo la visita in Italia dell’imperatore Haile Selassie, fu l’epilogo della storia coloniale dell’Italia. L’Italia – il governo, i partiti, l’opinione pubblica – è stata costretta a fare i conti con il passato. L’in-contro dell’Italia con Gheddafi non passò inosservato. I media si impos-sessarono dell’avvenimento fin da quando il colonnello discese la scaletta dell’aereo con una delle sue divise rutilanti e una fotografia di Omar el-Mukhtar che gli pendeva sul petto come un trofeo negativo o un memento. Molti italiani non sapevano niente dell’«eroe» che la Guida della rivolu-zione libica (Gheddafi avendo formalmente rinunciato a tutti i titoli di carattere istituzionale nella Jamahiriya da lui stessa proclamata Stato delle masse anziché delle rappresentanze) voleva mettere sotto gli occhi degli ex-colonizzatori. Per censura o ritegno è stata impedita di fatto la circolazione nei cinema italiani o alla televisione del film Il Leone del deserto che rico-struisce l’epopea di Mukhtar. Un motivo di più per alimentare i malintesi che caratterizzarono tutta la visita. La tenda piantata fra il verde della Villa Doria Pamphili sul Gianicolo, la guardia del corpo femminile, le passeg-giate e le assenze furono lette solo come folclore e soprattutto eccitarono risentimenti che si può far risalire a una fine del colonialismo mal dige-rita. Si sfiorò l’incidente diplomatico allorché Gianfranco Fini, stanco di aspettare un leader in perenne ritardo sul calendario degli impegni, decise di considerare annullato l’invito a visitare il parlamento e incontrarsi con un gruppo di invitati in una delle sale di Montecitorio: nell’applauso libe-ratorio con cui il pubblico presente salutò l’annuncio del presidente della Camera era facile cogliere la frustrazione per quell’omaggio, pur mancato, a un antico suddito e la rivincita di un popolo civilizzato nei confronti di un uomo venuto dal deserto (e quindi dal vuoto). Quando Gheddafi lasciò l’Italia si diffuse nel paese un’aria di sollievo come se anziché un parco di limousines bianche fossero partiti i cammelli.

Tre lezioni derivarono da quella visita, non si sa quanto percepite ed esattamente valutate dall’uomo della strada, dalla stampa e dal nostro di-scorso politico-culturale. Anzitutto, si dovette prendere atto che l’Italia ha alle spalle una storia coloniale e che il colonialismo fa parte della nostra identità. Secondo, la Libia pesa nel ricordo e nell’immaginario degli ita-

Le visite di Gheddafi in Italia

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liani più dell’Africa orientale, che gli storici, a torto apparentemente, si erano abituati a reputare il fulcro della nostra politica coloniale per durata, dimensioni, impegno e perché l’Impero di Mussolini è stato edificato nel Corno e non nel Nord Africa. Una colonia atipica, non primogenita come l’Eritrea, non prediletta come la Somalia, non avversata e rispettata come l’Etiopia, era tuttavia la più importante per gli affari e per certi nervi ancora scoperti. Terzo, la nostra memoria del colonialismo non può ridursi a uno dei tanti atti dovuti come avviene quando mettiamo in scena nei giorni ca-nonici la politica della memoria. Il colonialismo italiano non ha generato una memoria condivisa bensì memorie diverse, opposte e antagonistiche: anche nel nostro Stato democratico, post-coloniale e post-fascista, il colo-nialismo come politica dei poteri e come vissuto della gente comune è un «buco nero» su cui è meglio non indagare troppo. Il responso più sorpren-dente fu accertare che nella partita del dare e avere, fra memoria e oblio, un po’ tutti gli italiani sono convinti di avere più diritti (o pretese) che doveri.

Per l’Italia, la Libia è stata la «quarta sponda». Il colonialismo italiano si è spinto verso i lidi remoti dell’Africa orientale solo per consolarsi dei sogni svaniti nel Mediterraneo. Al fine di convincere un’opinione pubbli-ca inquieta e distratta, Pasquale Stanislao Mancini nel lontano 1885 fece passare l’aforisma che «il Mar Rosso è la chiave del Mediterraneo». I colpi a vuoto in Egitto e in Tunisia e tanto più la disfatta di Adua obbligarono l’Italia, con la Sinistra storica al governo, a ripiegare sull’Eritrea e la Soma-lia, ma la Libia era rimasta la meta più ambita, anche più dell’Etiopia, la «mela proibita», divenuta col tempo un’icona dell’anti-fascismo e dell’anti-imperialismo. Nel secondo Congresso sull’emigrazione italiana organizza-to nel 1911 dall’Istituto coloniale italiano (Ici) fu approvata una mozione che chiedeva a chiare lettere di agire in Tripolitania. Toccherà a Giolitti e poi soprattutto al fascismo colmare quella lacuna. A colonialismo finito, la Libia continuò a essere speciale. La Libia era più vicina delle colonie nel Corno. In Libia si erano stanziate decine di migliaia di coloni. La Libia era appartenuta all’impero di Roma e completava a sud il perimetro del Mare Nostrum.

La sindrome del dominio che si è sviluppata fra Italia e Libia nell’ulti-mo secolo ha falsato ogni ipotesi di «buon vicinato». Come ha scritto Aimé Césaire, il colonialismo è il modo peggiore di mettere in contatto i popoli fra di loro. La Libia è il solo ex-possedimento italiano che abbia ritenuto di esigere scuse e indennizzi. Lo aveva già fatto il vecchio re Idris, con le sue

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flebili forze, e Gheddafi è tornato alla carica con ben altra durezza. Non c’erano le condizioni perché la difesa dei diritti se non dei privilegi degli ex-coloni seguisse procedure rispettose della sovranità altrui e dell’altrui suscettibilità rendendo impossibile o un’integrazione alla pari nelle istitu-zioni e nell’economia della Libia indipendente o un distacco concordato e indolore. Un primo accordo firmato nel 1956 cercò di rispondere ad alcune delle rivendicazioni dei libici e di stabilire un modus vivendi in vista di una futura collaborazione. Mentre i pastori-contadini della Cirenaica che ripresero possesso delle loro terre, in mancanza di capitali e della tec-nologia adatta tornarono ben presto a un livello di arretratezza e povertà, gli ex-coloni rimasti in Libia si trasformarono in piccoli possidenti. Non appena Gheddafi, salito al potere il 1° settembre 1969 deponendo il trop-po arrendevole Idris, riprese in mano l’agenda della «liberazione», i coloni furono – con le basi militari di Inghilterra e Stati Uniti – gli inevitabili capri espiatori della svolta radicale. Si può solo rimpiangere quella storia diversa del Mediterraneo che poteva esserci e non c’è stata se i traumi legati al colonialismo non avessero determinato il «grande esodo» dei francesi dall’Algeria e il «piccolo esodo» degli italiani dalla Libia.

Il caso degli italiani che hanno dovuto lasciare la Libia per le misure punitive emanate da Gheddafi in occasione del primo anniversario della rivoluzione è parte del circolo vizioso che ha fomentato incomprensioni e ritorsioni. L’evento in sé è stato raccontato male e con molti non-detti. L’esodo degli ex-coloni dalla Libia non è assurto a questione nazionale. Gli italiani venuti via dalle colonie per effetto del secondo conflitto mondiale, dalla Cirenaica negli anni di guerra ma anche quelli partiti dal Corno con le «navi bianche», erano dei profughi o, come dissero alcuni, «africani d’I-talia». In Africa erano rimaste le terre, le proprietà e le illusioni. In Italia nessuno li voleva. Il «mal d’Africa» non è solo nostalgia, comprende la difficoltà di abbandonare una condizione di favore o più semplicemente i luoghi della propria giovinezza ma anche, sullo sfondo, più o meno ela-borati, i miti di potenza che l’Impero sembrava assicurare al nostro paese. Una lobby a più facce si prese cura finché possibile degli ex-coloni a costo di confondere le loro rimostranze come individui che avevano perso tutto o quasi con i debiti contratti per aver beneficiato di un sistema fatto di abusi e usurpazioni. Ci si può rivolgere allo Stato per esserne protetti e dichiararsi estranei alle responsabilità di quello stesso Stato?

Gheddafi credeva fermamente che un invito ufficiale a visitare Roma

Le visite di Gheddafi in Italia

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da leader di uno Stato sovrano sarebbe stato il degno coronamento dei suoi sforzi per riscattare la Libia da quella vergogna involontaria che in-genera negli ex-colonizzati un’esperienza coloniale. La fierezza della Libia è un’immagine di marca a cui Gheddafi non ha mai rinunciato, tanto più perché la Libia non aveva ovviamente la storia dell’Etiopia. La creazione di una nazione al posto del coacervo di tribù che era stata la Libia come somma tardiva delle due province ottomane chiamate Cirenaica e Tripoli-tania giustificava, nella mente del leader della rivoluzione, l’autoritarismo e la privazione di ogni libertà effettiva. L’obiettivo potrebbe essere fallito a giudicare da una «fine di regno» che ha risvegliato divisioni date per superate. Durante la guerra fredda, Gheddafi volle osservare le distanze da Est e Ovest con la sua «terza» teoria universale: un po’ socialismo e un po’ mercato, un po’ Corano e un po’ Rousseau. L’anti-colonialismo è rimasto però un punto fisso e l’Italia è stata continuamente tartassata. La Libia non ha cessato di apparire sghemba anche rispetto alle linee di tensione del xxi secolo. Dopo aver messo da parte l’avventurismo degli anni ottanta e no-vanta, non si è fatta ingabbiare in nessuna casella – di politica o di civiltà (l’islam) – sfuggendo così alle semplificazioni dell’Asse del Male e alla war on terror lanciata da Bush e ripresa a suo modo da Obama.

La richiesta di un programma di aiuti che Gheddafi ha posto come condizione per la normalizzazione dei rapporti con Roma e gli italiani ave-va il senso di una «riparazione» davanti alla storia e trascendeva la venalità dei singoli atti. La Libia ha preteso che le sofferenze e le violenze del colo-nialismo venissero sancite sul piano bilaterale visto che l’ordine mondiale è refrattario a farlo in nome dei diritti universali dei popoli, che valgono per il Nord ma non altrettanto per i popoli del Sud, e spesso solo per vie traverse e strumentalmente, tanto più se al potere ci sono governi «illibe-rali». Nessuno se non l’Italia poteva assolvere questo debito. Gheddafi ha sollevato con insistenza la questione dei deportati libici in Italia e il recu-pero dei documenti in cui è custodita una pagina della storia della Libia nonché degli oggetti d’arte sottratti al suo paesaggio archeologico come fossero res nullius. Italia e Libia stipularono nel luglio 1998 un accordo – il contraente da parte italiana era Lamberto Dini, ministro degli Esteri del primo governo Prodi – che avrebbe dovuto aprire una fase nuova nelle loro relazioni. Fra le altre disposizioni figurava un progetto congiunto di ricerca storica attraverso l’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente (Isiao) e il Centro di studi libici di Tripoli sui libici condannati al confino e portati

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alle Tremiti, a Ponza, a Ustica. A dimostrare quanto il tema fosse scabroso venne impiegata una perifrasi intrisa di ipocrisia: non deportati, ma «allon-tanati coercitivamente dalla Libia in periodo coloniale».

Nell’agosto del 2008 ci fu un salto di qualità con la firma a Bengasi, in un clima persin troppo enfatico, di un accordo di amicizia e cooperazio-ne fra Italia e Libia. L’accordo prevede rapporti a tutto campo con molti vantaggi per le imprese italiane in Libia. L’Italia riconosce le responsabilità del colonialismo e si impegna a versare una somma di 5 miliardi di dollari per realizzare alcune opere infrastrutturali non meglio precisate, fra cui doveva esserci un’autostrada da est a ovest lungo la costa. L’accordo diven-ne la pietra dello scandalo su cui paradossalmente si consumò la rottura. In esso non mancavano effettivamente lati oscuri soprattutto in tema di immigrazione dalla Libia verso l’Italia. Come noto, l’immigrazione dalla Libia che l’accordo si proponeva di arginare non coinvolge cittadini libici ma per lo più africani originari del Corno o della fascia sahelo-sudanese che attraversano il territorio libico o sostano più o meno a lungo in Libia prima di imbarcarsi alla volta dell’Italia e dell’Europa. Le responsabilità di quel pactum sceleris non era tutta e solo di Gheddafi, come si è cercato di far credere: gli italiani (non solo Berlusconi) sapevano in quali condizioni sarebbero avvenuti i respingimenti dai porti della Sicilia o in mare e le con-dizioni del trattamento dei profughi sull’altra sponda nei campi di raccolta o di prigionia nel deserto.

Chiusa la parentesi d’origine coloniale, l’invito a Gheddafi non poté più essere rinviato. Per suo conto, Gheddafi non abbandonò neppure dopo la firma dell’accordo con l’Italia la tecnica della doccia scozzese. L’essenzia-le per lui era dare comunque l’impressione di non perdere l’iniziativa agli occhi di chi lo conosceva come irriducibile avversario del colonialismo ita-liano. Rotto il ghiaccio nel 2009, Gheddafi è sbarcato in Italia altre tre vol-te in poco più di un anno. Anche tenendo conto che due dei quattro viaggi rientravano in un contesto multilaterale (prima il G8 allargato dell’Aquila, poi il vertice della Fao a Roma), restano comunque più di quanto con-templino i parametri di una diplomazia ordinaria. Soprattutto nell’ultima visita, che era intesa a celebrare il secondo anniversario dell’accordo di Bengasi, fecero scalpore i toni di festa e intimità, che diventeranno altret-tanti capi d’accusa per il governo e personalmente per Berlusconi quando le manifestazioni popolari di protesta a Tobruk e Bengasi, dando sfogo alla gioia di chi aveva voglia di libertà, e poi la lotta armata in tutta la Libia

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hanno squarciato definitivamente il velo sui metodi brutali del regime. Con tutta evidenza, Italia e Libia avevano avviato un rapporto spe-

ciale. Dopo tanti anni di contrapposizione e rancori, la vicenda coloniale che lega indissolubilmente Libia e Italia si era trasformata in un anello di congiunzione. Gheddafi era grato al nostro governo e specialmente a Berlusconi per un trattato che ha cancellato gli strascichi dell’occupazione italiana e delle vendette libiche. La politica estera dell’Italia – e l’attenzio-ne che a essa prestano i media e il discorso politico – ha il vizio di essere episodica e di scadere di continuo nell’esotismo senza sforzarsi di capire e far capire i processi reali. La dimestichezza stabilitasi con Gheddafi aveva malgrado tutto un senso perché la Libia occupa un posto d’eccellenza nel nostro passato e nel nostro presente. Un po’ tutti hanno esagerato nel dare troppa evidenza alle relazioni di tipo personale rispetto alle poste concrete a livello di Stati di cui ci si deve occupare per ragioni oggettive. Si prescin-de qui da eventuali affari privati del presidente del Consiglio italiano in quanto imprenditore, oggetto di insinuazioni anche da parte dei funziona-ri dell’ambasciata americana a Roma senza che siano state fornite peraltro, a quanto risulta ufficialmente, prove risolutive. La visita dell’agosto 2010 per celebrare con Berlusconi e il popolo italiano l’anniversario del tratta-to di Bengasi fu oggetto di mugugni più insistiti rispetto all’anno prima, frutto forse di sensibilità di segno diverso. A parte la solita insofferenza per l’esibizionismo del leader libico, l’opposizione, dimenticando le conver-genze che si erano manifestate sulla Libia fra i due schieramenti di centro-destra e centro-sinistra, prese a rimproverare a Berlusconi di essere troppo prono verso un leader non propriamente democratico. Anche i detrattori più accaniti di Gheddafi, della prima o dell’ultimissima ora, non diceva però di voler interrompere i rapporti con la Libia. Pretendere di comprare petrolio e lucrare sui profitti dell’eni e delle imprese di costruzione, o di cooperare per contrastare gli sbarchi dei clandestini, ignorando o sprez-zando il colonnello come un paria, sarebbe stato offensivo non tanto per Gheddafi, abituato a ripagare gli sgarbi con la stessa moneta, quanto per la Libia come nazione, ridotta a semplice spazio da cui attingere beni per la nostra economia e la nostra sicurezza.

Il lato debole e insoddisfacente dell’intesa è stato se mai quello di aver speculato su una soluzione del contenzioso, quale che fosse, invece di col-locarsi – entrambe le parti – in una prospettiva chiaramente post-coloniale che guardasse avanti e non indietro. È come se il fardello dell’uomo bianco

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non sia mai stato veramente scaricato. La Libia si presta a funzioni ausilia-rie in cambio di trasferimenti di tecnologia; l’Italia sfrutta i vantaggi della posizione dominante. Le cadute di stile del «contorno» tradiscono debo-lezza e impreparazione, sono conseguenze non cause.

Per molti anni, Gheddafi ha tenuto testa alle ipoteche del sistema bipo-lare cercando di sottrarsi alle servitù che condannano la Periferia all’infe-riorità. Il colonnello non poteva certo ambire al Centro ma con i mezzi alla sua portata imitava le maniere con cui le grandi potenze sono solite per-seguire i loro obiettivi decidendo in proprio la quantità di violenza che è lecita e funzionale. Quando la guerra fredda è finita, è caduto anche perché non c’erano più i contrappesi di una volta. Nelle intenzioni di Gheddafi, il bersaglio grosso doveva essere l’«imperialismo» a cui Idris aveva appaltato il territorio della Libia, così ricercato ieri come oggi per la sua centralità nel Mediterraneo fra Europa, Africa e Medio Oriente, concedendo basi aeree e di terra a Gran Bretagna e Stati Uniti per il contenimento dell’Urss, la difesa di Israele e forse il petrolio (nel 1951, anno dell’indipendenza della Libia, ancora di là da venire). L’Italia aveva un ruolo secondario. Ghed-dafi riservò i suoi strali più acuminati alle installazioni militari americane e inglesi, anche per togliere ogni sospetto sul doppio gioco della Libia nella contesa arabo-israeliana, ma per coerenza non poteva ignorare l’im-perialismo – minore ma più diretto – dell’Italia con le ultime presenze sul terreno e soprattutto con il ricordo di una sottomissione costellata di veri e propri crimini. Senza il sacrificio dei coloni italiani, Gheddafi non si sarebbe sentito abbastanza diverso da Idris, che è stato sia il capo politico della resistenza della Senussia, guidata sul campo con le armi da Omar el-Mukhtar, sia il vertice del regime contro cui nel 1969 fu organizzato il colpo di Stato degli «ufficiali liberi». Allo stesso modo, senza il petrolio e le commesse non ci sarebbe stato il «pentimento» per le colpe dell’era coloniale che Berlusconi alla fine ha pronunciato a mezza voce, incapace di coinvolgere l’Italia in una presa di coscienza collettiva. La famosa strada da 5 miliardi di dollari giova anche alle imprese italiane ma la Libia ha ragione di attendersi ricadute benefiche in termini di impieghi, diffusione di iniziativa, proliferazione di centri di sviluppo fuori delle grandi città. Il successo o il flop dipende da come l’Italia concepirà e realizzerà quell’opera, se mai i lavori saranno effettivamente incominciati e soprattutto portati a compimento. Se lo spirito è quello delle «cattedrali del deserto» di una sta-gione della cooperazione che si pensava finita, la Libia rischia di ritrovarsi

Le visite di Gheddafi in Italia

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ai tempi della prima Balbia con in più l’umiliante bilancio – per l’Italia come per la Libia – del dossier emigrazione.

L’approccio di Gheddafi alla globalizzazione è stato sempre sull’orlo della provocazione ma non privo di un suo realismo. Pativa lo strapotere americano, ma non voleva mettere a repentaglio i risultati acquisiti. At-traverso l’Italia ha regolarizzato la sua posizione in Europa e nel mondo. Il regime ha cercato in tutti i modi una base più solida chiedendo, come troppo spesso avviene ai paesi della Periferia, una legittimazione o addirit-tura un riconoscimento all’esterno a costo di perdere di vista le incrinature o i crolli che stavano precipitando la situazione all’interno. Riconciliandosi con vicini e lontani, Gheddafi voleva compiacere le propensioni di quella parte dell’opinione pubblica libica che era stanca di impennate, trasgres-sioni e stravaganze e aspirava a godersi le condizioni di relativo benessere concesse dal petrolio. La leva principale di cui si servì Gheddafi dopo che venne riammesso in società è la stessa che brandiva quando era un anta-gonista: la ricchezza petrolifera in un paese con pochi milioni di abitanti e larghi margini di surplus. I vantaggi di un’economia di rendita – con una leadership che prende tutto e distribuisce quanto basta – sono anche i suoi limiti. Nel Duemila la Libia non può accontentarsi di vivere e pro-sperare sugli alti prezzi del greggio e barcamenarsi fra finta partecipazione del popolo, autoritarismo ferreo e clientelismo ondivago: deve preparare il dopo-petrolio, diversificare l’economia, trovare lavoro per le leve giovanili in vertiginoso aumento, dare una rappresentanza politica ai ceti emergenti. La Libia non ha mai avuto la compattezza e la tradizione statale di Tuni-sia ed Egitto, per non parlare del Marocco e della stessa Algeria. Anche per questo la guerra civile ha minacciato seriamente l’esistenza stessa della Libia facendo balenare lo spettro della «somalizzazione». L’ampiezza della crisi del regime era più grave del previsto, anche a prescindere dal dente avvelenato delle petrolcrazie del Golfo e dalle interferenze delle potenze occidentali a cui l’Italia ha finito per accodarsi rompendo con il vecchio alleato e amico.

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notizie sugli autori di questo numero

Isabella Abbonizio - Chitarrista classica a livello professionale e dottore di ri-cerca in Storia delle Scienze e Tecniche della Musica presso l’Università di Roma Tor Vergata. attualmente è Visiting Scholar presso il Center for European and Mediterranean Studies della New York University. I suoi interessi di ricerca si in-centrano sulla storia della musica del primo novecento, sulla relazione tra musica e politica in Italia tra le due guerre e in particolare sulla relazione tra musica e colonialismo italiano.

Matteo Aguzzi - Dal 2010 dottore magistrale in Documentazione e ricerca stori-ca, titolo conseguito presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena, sempre a Siena si era precedentemente laureato in Storia, tradizione e innovazione.

Gabriele Bassi - Dal 2002 ha orientato gli studi universitari, condotti presso le università di Siena e San Marino, sul colonialismo italiano in Libia, conducendo ricerche sul materiale a stampa disponibile presso la Biblioteca Nazionale Centrale e l’Istituto Agronomico per l’Oltremare di Firenze. Dal 2004 si è inserito in un gruppo di studiosi legati al medesimo tema stabilendo contatti con il Lybian Stu-dies Centre di Tripoli.

Giampaolo Calchi Novati - Ricercatore all’Istituto per gli Studi di politica in-ternazionale di Milano, al Center of African Studies di Boston e dell’UCLA di Los Angeles, è stato direttore dell’IPALMO a Roma. Attualmente titolare all’Uni-versità di Pavia della cattedra di Storia e istituzioni dei paesi afro-asiatici presso la Facoltà di Scienze Politiche, direttore del Dipartimento di studi politici e sociali e responsabile della laurea specialistica in Studi afro-asiatici. Tra le ultime pubblica-zioni citiamo L’Africa d’Italia. Una storia coloniale e postcoloniale, Carocci, Roma 2011.

Angelo Del Boca - Da quarant’anni si occupa di storia del colonialismo e dei problemi dell’Africa d’oggi. Fra i suoi libri recenti: Gheddafi. Una sfida dal deserto, Laterza, 2010; Un testimone scomodo, Grossi, 2000; La disfatta di Gars bu Hàdi, Mondadori, 2004; Italiani, brava gente? Neri Pozza, 2005. Per i tipi della Baldini Castoldi Dalai A un passo dalla forca, con il quale ricostruisce la vicenda di uno

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dei protagonisti della resistenza libica all’occupazione italiana, Mohamed Fekini.

Anwar Fekini - Libico, laureato alla Sorbona esercita la professione di avvocato fra San Diego in California, dove risiede, Parigi, Londra e Tripoli. È il nipote di Hadj Mohamed Khalifa Fekini, capo della cabila dei Tarabulsi e Rogebani, per vent’anni oppositore alla dominazione degli italiani sulla Libia.

Francesca Gandolfo - Archeologa, lavora presso la Direzione generale per il pae- saggio, le belle arti, l’architettura e l’arte contemporanee del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Ha condotto indagini archeologiche ed etnoarcheologiche in Italia, nel Vicino e Medio Oriente e negli Emirati Arabi Uniti per conto, oltre che del Ministero, dell’Università La Sapienza di Roma, dell’Università Cattolica di Milano, del CNRS di Parigi, della Maison de l’Orient Mediterranéen, Université Lyon 2. In passato professore a contratto all’Università degli Studi di Firenze, è autrice di varie pubblicazioni tra le quali Realtà e mito nei costumi tradizionali e popolari del Piemonte e della Valle d’Aosta, Priuli & Verlucca, Ivrea 1997.

Nicola Labanca - Docente di Storia contemporanea all’Università di Siena, pre-siede il Centro interuniversitario di studi e ricerche storico-militari e siede nel comitato direttivo del Forum per i problemi della pace e della guerra di Firenze. Tra i suoi volumi In marcia verso Adua, Einaudi, Torino 1993; Caporetto. Storia di una disfatta, Giunti-Castermann, Firenze 1998 e Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, il Mulino, Bologna 2002.

Alberto Magnani - Laureato in Storia contemporanea all’Università di Pavia, collabora con enti e istituti storici in Italia e in Spagna ad attività di ricerca sulle vicende del Novecento.

Marco Scardigli - Novarese, ha insegnato a contratto all’università di Pavia Sto-ria del colonialismo italiano. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Il braccio indigeno. Ascari, irregolari e bande nella conquista dell’Eritrea (1885-1911), Franco Angeli, Milano 1996; Lo scrittoio del generale. La romanzesca epopea risorgimentale del ge-nerale Govone, UTET, Torino 2006; Le grandi battaglie del Risorgimento, Rizzoli, Milano 2011.

Nicolò Tambone - È nato nel 1968 ad Alba, dove vive e lavora. Tra l’altro ha pubblicato il romanzo Taliani (Albatros, 2011).

1313I SENTIERIDELLA RICERCAr i v i s t a d i s t o r i a c o n t e m p o r a n e a

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settembre 2011

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� 20,00 EDIZIONI CENTRO STUDI “PIERO GINOCCHI” CRODO

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