Ritrovare il senso della propria esperienza professionale. L'intervento di coaching

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RITROVARE IL SENSO DELLA PROPRIA ESPERIENZA PROFESSIONALE di Luisa Ghianda Oggi i lavoratori, soprattutto quelli che operano all'interno di contesti competitivi, sono logorati, spaesati, ma i più resilienti sono anche desiderosi di produrre performance eccellenti e di ripensare alla propria dimensione professionale con ottimismo e positività, ritrovandovi un senso. La fame di relazioni "sane" è fortemente cresciuta, tanto che i comportamenti più vagheggiati nei contesti professionali fanno riferimento a concetti quali empatia, etica, team working, rispetto. Una leadership "consapevole" è quanto mai necessaria, anche perché rappresenta la dimensione decisiva del successo di una organizzazione. Solo una leadership efficace crea motivazione nei dipendenti ed appartenenza al contesto professionale. Ed è impossibile pensare di essere un leader vincente se non si ha un buon grado di auto-consapevolezza dei propri comportamenti e degli effetti che i propri gesti hanno sugli interlocutori. Non è immaginabile realizzare una leadership coinvolgente e credibile se non si è di esempio per il proprio team, se non si è coerenti negli atteggiamenti, nei valori, negli agiti, se non si possiede empatia.

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RITROVARE IL SENSO DELLA PROPRIA ESPERIENZA

PROFESSIONALE

di Luisa Ghianda

Oggi i lavoratori, soprattutto quelli che operano all'interno di contesti competitivi, sono

logorati, spaesati, ma i più resilienti sono anche desiderosi di produrre performance

eccellenti e di ripensare alla propria dimensione professionale con ottimismo e positività,

ritrovandovi un senso.

La fame di relazioni "sane" è fortemente cresciuta, tanto che i comportamenti più

vagheggiati nei contesti professionali fanno riferimento a concetti quali empatia, etica, team

working, rispetto.

Una leadership "consapevole" è quanto mai necessaria, anche perché rappresenta la

dimensione decisiva del successo di una organizzazione. Solo una leadership efficace crea

motivazione nei dipendenti ed appartenenza al contesto professionale. Ed è impossibile

pensare di essere un leader vincente se non si ha un buon grado di auto-consapevolezza

dei propri comportamenti e degli effetti che i propri gesti hanno sugli interlocutori. Non è

immaginabile realizzare una leadership coinvolgente e credibile se non si è di esempio per

il proprio team, se non si è coerenti negli atteggiamenti, nei valori, negli agiti, se non si

possiede empatia.

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È proprio quest’ultima, troppo spesso ingiustamente relegata in un angolo buio, dimenticata

dalla maggior parte dei contesti professionali, che non vogliono sentire parlare di emozioni,

colei che, invece, favorisce il benessere nei lavoratori, restituendo loro il senso della propria

presenza sul luogo di lavoro. Perché le persone hanno necessità di essere “viste”,

considerate, valorizzate, bisogni di cui non si spogliano alla mattina prima di andare a

lavorare, bisogni che portano sempre sotto pelle e che più che mai gridano appagamento

sul posto di lavoro. Chissà che il successo di facebook non si basi anche su questa sua

capacità di dare visibilità agli esseri umani, alle loro vite, alle loro vittorie, alle loro emozioni,

delusioni comprese, vissuti narrati nel social network con un sottostante bisogno di ottenere

un riscontro, di ricevere una “carezza”, di avere un gruppo di appartenenza in silenzioso

ascolto. Un click su “mi piace” assurge proprio al ruolo di carezza, in fondo, e, seppur

virtuale, è pur sempre fonte di riconoscimento.

Anche nelle organizzazioni emerge il bisogno di essere in connessione con gli altri, una

connessione che, però, non lascia spazio alla virtualità. Se il capo c’è, con la testa e con il

cuore, può offrire sostegno, ascoltare, valorizzare.

Il capo non ha un compito semplice, indubbiamente. Produrre comportamenti consapevoli,

sviluppare pensieri costruttivi, contenere convinzioni limitanti, liberarsi da schemi

comportamentali ripetitivi e fallimentari, offrire empatia, guidare senza sostituirsi, dirigere

senza imporre significa possedere buone competenze manageriali. Tutte caratteristiche per

niente scontate. Se è vero che il talento del singolo è un elemento soggettivo, una

predisposizione innata, è altrettanto certo che un contesto facilitante consente di far

emergere potenzialità latenti, sviluppare il potenziale, colmare lacune, migliorare lati fragili.

Non è possibile creare il talento, ma è ipotizzabile sviluppare quel potenziale che consente

all’individuo di esprimersi al meglio.

Ma per lavorare sulle proprie potenzialità il solo buon senso o un lavoro "fai da te" potrebbero

non essere sufficienti, perché lo sviluppo personale, il cambiamento necessitano un lavoro

di analisi sia del proprio percorso individuale evolutivo generale, sia delle proprie esigenze

più particolari di formazione, affermazione, realizzazione personale e professionale.

Sviluppare il potenziale comporta la messa in discussione di se stessi, comporta un buon

management dei propri processi psicofisiologici, quali la capacità di gestire lo stress,

aumentare il self-control, ritrovare l'equilibrio psico-fisico, come pure l'implementazione di

nuove conoscenze, legate, ad esempio, alla gestione efficace delle relazioni, della

comunicazione, del lavoro in gruppo, dei collaboratori. Il tutto ben bilanciato, in perfetto

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equilibrio, per non andare fuori strada. Il tutto mescolato con l’etica, piena assunzione di

responsabilità del ruolo, che non prevede alcuna fuori uscita dai principi dichiarati.

Per una vita professionale di successo, al sapere fare management va aggiunta la capacità

di rimettere in primo piano le relazioni, portare in campo il fair play, come già Shakespeare

aveva suggerito, termine forse un po’ in disuso, che fa riferimento a quell'attitudine alla

lealtà, a quell’etica comportamentale improntata al riconoscimento e al rispetto dell'altro.

Il fair play è ciò che trasforma un capo in un leader.

Ci sono, poi, compiti sempre più complessi da affrontare, rispetto ai quali le organizzazioni

non concedono sconti o proroghe, cambiamenti di ruolo, contesto, capo, difficoltà

improvvise, eventi emotivamente stressanti, calo di energia o motivazione, situazioni in cui

le proprie competenze potrebbero non essere sufficienti e le risorse personali essere

particolarmente affievolite.

Io penso che il lavoratore non vada lasciato solo nei momenti di difficoltà. Credo che le

risorse umane, proprio perché preziose risorse, vadano sostenute nel loro processo di

crescita. Richiedere performance eccellenti senza offrire alcuna forma di auto-sviluppo è

una modalità miope da parte dell’organizzazione. Superare i propri limiti, focalizzare le

proprie qualità positive, sfruttare le proprie aree di eccellenza, mettere in atto comportamenti

efficaci necessitano un lavoro personale, il cui obiettivo è l'aumento dell'auto-

consapevolezza, perché solo quando si sa cosa si sta facendo si possono raggiungere

buoni risultati.

Il coaching è un modo concreto per realizzare processi di sviluppo professionale ad hoc, per

approfondire e sviluppare nuove consapevolezze, per rispondere al bisogno diffuso di

benessere nelle organizzazioni.

E’ un intervento fortemente personalizzato e congruente con la dimensione soggettiva

dell’esperienza di lavoro del singolo individuo, abbracciando temi di interesse per la persona

stessa, tipo uno specifico risultato da raggiungere, un problema da risolvere, il superamento

di un momento di empasse, la piena espressione del talento.

La realtà soggettiva del coachee è spogliata da valutazioni e giudizi, nonché sottoposta a

diverse chiavi d' interpretazione legate al ruolo, cosicché egli possa cogliere le motivazioni

intrinseche che regolano il comportamento agito. La consapevolezza di sé e delle proprie

dinamiche comportamentali si amplificano notevolmente, permettendo alla persona di

ricongiungersi consapevolmente con le proprie intenzioni e con i propri comportamenti, con

un conseguente aumento di responsabilità nei confronti dei propri agiti. Il risultato di tale

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lavoro interiore è quello di sentirsi più autodiretti, a favore di un'autonomia psicologica che

muove nuove scelte al di fuori di dinamiche automatiche ed inconsapevoli.

Il cambiamento frutto di un intervento di coaching non è una mera applicazione

comportamentale, bensì l’esito di un nuovo stato di equilibrio interno, dove nuovi stilemi

emotivi, cognitivi, relazionali e comportamentali sono stati messi a fuoco.

La personalizzazione e la profondità dell’intervento di coaching non sono strettamente

connessi alla vita privata ed emotiva del lavoratore, sebbene queste due dimensioni, proprio

perché non separate dall’attività professionale, costituiranno l’elemento di sfondo, né in

ombra, né in primo piano, ma prese in esame se funzionale al lavoro in corso. Il presidio

costante del grado di libertà del coachee costituirà, comunque, un elemento protettivo.

Il cambiamento obbliga all’introspezione, ad un lavoro che tocca la sfera interiore. Il coachee

deve poter entrare in contatto con sé stesso, con i suoi desideri e bisogni, deve poter

esaminare in modo lucido il suo rapporto con il contesto di riferimento, fino ad entrare in

rapporto con le sue risorse personali. La prescrizione di comportamenti ritenuti adeguati non

ha un vero valore formativo, soprattutto per quei manager che hanno già una solida

esperienza professionale e che quindi non necessitano di modelli semplificanti quanto

piuttosto di modelli personali, auto-costruiti in seguito all’acquisizione di nuove

consapevolezze legate all’approfondimento della conoscenza di sé stessi. Ciò significa

accedere ad un lavoro di indagine dei propri meccanismi interiori, del sé.

L’efficacia dell’intervento di coaching è legata proprio alla presa in carico di schemi mentali

impliciti, modalità interiori di interpretazione della realtà, mappe di riferimento. L’obiettivo è

un riallineamento mentale ed emotivo, passando attraverso la ristrutturazione di abitudini

mentali ricorrenti e depotenzianti, nonché attraverso il consolidamento di “meta

competenze”, quali la capacità di gestire le emozioni, di relazionarsi in modo sano e

costruttivo con gli altri, di implementare resilienza e creatività.

Il vantaggio dell’organizzazione nel promuovere interventi di coaching sarà quello di

produrre concretamente un aumento del livello di performance dei suoi dipendenti, mentre

il vantaggio del lavoratore sarà quello di beneficiare di un’esperienza di evoluzione

personale che gli consentirà di lavorare e vivere in modo più sereno, con una ricaduta

positiva su collaboratori e colleghi.

L’essere umano è portatore di enormi risorse potenziali, spesso lasciate ad uno stato

latente, depotenziate da meccanismi interiori inconsapevoli e automatici. Il lavoro di

coaching contribuisce a svelare e mobilitare risorse inespresse, aumentando la

consapevolezza di sé, vero motore del cambiamento. Riconoscere i bisogni più profondi

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sottostanti ai propri comportamenti insoddisfacenti chiarisce meccanismi interiori ancestrali,

da cui nasce la possibilità di appagare quei bisogni con comportamenti più sani.

Riconoscere le convinzioni profonde attorno alle quali è organizzata la propria esperienza

consente di prendere le distanze da ciò che fino a quel momento è apparso inevitabile ed

assoluto. A partire dal riconoscimento dei propri schemi depotenzianti è possibile attivare

nuovi stati mentali positivi e potenti.

Le persone che lavorano nelle organizzazioni hanno bisogno di capi emotivamente

competenti, hanno necessità di spazi di ascolto in cui sia possibile riscoprire un mondo

fiducioso e ricco di possibilità, hanno bisogno di esprimere pienamente il proprio potenziale,

migliorando l’efficacia del proprio contributo nell’azienda. Persone motivate e competenti

realizzano performance eccellenti e accrescono il valore dell’azienda.