Ritratto di madre, in cornice americana

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“Perché le voci sono buone solo quando le accompagnano silenzi, quando dietro il colloquio delle corde rumori restano come di sangue; e angosciosi e insensati sono i tempi quando dietro il loro affannarsi vano non regna una sostanza che riposa.” RAINER MARIA RILKE, Il figlio 1

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Nella notte di Capodanno del 1956, una madre e un figlio sono costretti a separarsi da un destino imposto dal regime comunista ungherese. Le persecuzioni della dittatura – sfociate in due detenzioni – e i conflitti mondiali alle spalle spingono l’ormai ex aristocratica Judit Csernovics a inseguire la libertà fino in America. Ma il rovescio della medaglia è l’inevitabile distacco da Budapest e da suo figlio Miklós, intellettuale deciso a non abbandonare la patria in un momento tanto difficile. Una scrittura capace di comporre con eleganza le tristi vicissitudini familiari e uno spaccato fedele della recente storia ungherese, che evoca con delicatezza, rimpianto e immenso affetto la figura di una donna di alto rango ma dotata di uno spiccato senso pratico.

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“Perché le voci sono buone soloquando le accompagnano silenzi,quando dietro il colloquio delle corderumori restano come di sangue;e angosciosi e insensati sono i tempiquando dietro il loro affannarsi vanonon regna una sostanza che riposa.”

RAINER MARIA RILKE, Il figlio1

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È in piedi in cucina e prepara, mescola qualcosa. Non è la no-stra cucina, non è una di quelle che erano state nostre; è solosua, mi è estranea. Cucina per me. È una novità anche questa.Lei è là e ripete ciò che voglio, quello che io desidero. Lei nonesiste più, io ancora sì. E ho una volontà. Lei però va e vieneanche quando non lo voglio: entra nella mia testa, mi rivolge laparola o rimane in silenzio, è contenta o soffre, mi pensa o miguarda, mi telefona, mi domanda, mi scrive, fa tutto come sefosse viva. Sono insaziabile: mi interessa anche la sua vita pri-vata, quella al di fuori, prima, dopo e senza di me; provo a ri-costruirla con le minuscole tessere raccolte, ma ultimamentequalsiasi cosa lei faccia sembra che la faccia, o meglio, che l’ab-bia fatta, solo e sempre a me, per me, a causa mia, per mio tra-mite, con me o con il mio aiuto.

In questo istante la voglio in piedi in quella sua cucina a me-stare qualcosa in una pentola. Magari una delle sue specialitàimparate all’estero come la salsa ai capperi che accompagna labistecca alla griglia. Le faccio ripetere anche molto altro: adesempio in questi ultimi tempi mi piace guardarla di nascostodal mio letto mentre si strucca seduta al suo antico tavolino datrucco, sotto l’immenso specchio veneziano dalla cornice do-rata, e si osserva attentamente nell’altro specchio antico dallacornice d’argento montato su piedi, dopodiché esegue piccoli,metodici, precisi e invariati movimenti rotatori con batuffolidi cotone imbevuti di crema, quando è necessario fa smorfie ogonfia metà del viso, strofina la pelle, e alla fine la unge anche

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con un liquido che chiama “misto da scuotere”, che si rap-prende immediatamente e le trasforma il volto in quello bian-co di un pagliaccio. Poi lo deterge e io mi riaddormento. Lastanza è tutta a specchi, anche i sei sportelli dell’armadio a mu-ro sono rivestiti di specchi fino a terra. Il mio letto sta qui, nel-la sua camera da letto; nella stanza dei bambini dorme la miaFräulein tedesca. A volte mi sveglio in piena notte quando ar-riva dal bagno silenziosa nella sua vestaglia di seta gialla e do-po l’applicazione di altre creme, stavolta per la notte, la sentocoricarsi, girarsi di continuo, trovare la posizione nel letto, ra-schiarsi la gola, emettere un sospiro appagato per poi addor-mentarsi di gusto, respirare a bocca spalancata, rumorosa-mente, soddisfatta, proprio come di recente anch’io mi sonoscoperto fare. Oppure la guardo salire in macchina verso le un-dici del mattino, truccata, con indosso un completo, cappello,guanti e scarpe con il tacco alto; solleva dal viso il velo alla mo-da dalla trama ariosa, fa retromarcia per uscire dal garage eprende la corsia di sinistra – si teneva ancora la sinistra – perscendere via Sashegyi, poi via Hegyalja, diretta al centro persbrigare delle commissioni, per poi incontrare al bar Mignon,inaugurato di recente e primo nel suo genere in Ungheria, leamiche, ed eventualmente anche mio padre, che a volte la rag-giunge dall’ufficio facendo due passi per concordare il pro-gramma della serata e del giorno dopo, e per parlare di ciò chein quel momento gli interessa. Da lì tornano a casa per pran-zare insieme. Oppure quando al termine del colloquio mensi-le a Márianosztra, e in seguito a Kalocsa, viene portata via dauna guardia armata, mentre nella sala divisa in due da una fit-ta rete metallica, fra le guardie e le detenute spinte fuori sottoi grandi ritratti di Stalin e Rákosi, attraverso una porta di ferroa due ante, all’improvviso si apre un piccolo varco nella mia di-rezione, che lei forse avverte, perché si arresta per un istante,

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si sporge verso di me sopra la spalla intuendomi ancora là aguardarla. Il berretto piatto della guardia già nasconde il suoviso per metà, ma i suoi occhi appena contratti, la testa recli-nata, il lieve sorriso e i lucciconi negli occhi mi raccontano mol-to più di quello che nei quindici minuti trascorsi in presenzadi una guardia fosse riuscita a comunicarmi.

Non l’avevo mai vista piangere. Non pianse quando morìmio padre né quando morì sua sorella maggiore. Non sapeva,non aveva mai saputo, non aveva mai voluto, non era mai sta-ta abituata e non era mai stata incline a esprimere i suoi senti-menti più impetuosi direttamente, a parole, meno che mai convivaci manifestazioni esteriori. Quando uno di noi doveva par-tire mi abbracciava, mi stampava un lieve bacio sul viso, segui-to da leggere pacche di incoraggiamento sulla schiena, e con ilpollice mi disegnava una croce sulla fronte. Fu questo il nostrocongedo anche alla fine di dicembre del 1956 alla Stazione Sud:entrambi a pezzi nel nostro intimo, come le rovine della città,piangevamo senza lacrime e in silenzio, perché sapevamo chenon ci saremmo visti per molti anni o forse mai più.

Non l’avevo mai sentita cantare o canticchiare. E mi tornaspesso in mente l’episodio del telefono che squillava nella suacasa americana con lei che mi guardava imbarazzata come perchiedermi, senza pronunciare una parola, di rispondere, per-ché aveva problemi con la lingua, in particolare al telefono. Ilpiù delle volte erano ungheresi a chiamarla, perché aveva benpochi conoscenti di altre nazionalità. Rivedo spesso quello chepotrebbe essere il filmato di quel suo sguardo implorante cheper me è una punizione, una sorta di autoflagellazione. Prova-vo pena per lei, tuttavia un paio di volte le feci notare che intutti quegli anni avrebbe potuto pur imparare la lingua decen-temente. Mi pentivo subito e non sono mai riuscito a capire checosa mi costringesse a educarla, a criticarla, sottolineando co-

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sì la mia estraneità, ovvero reiterando il mio rifiuto. Un’urgen-za non limpida, da chiarire, mi portava a infierire dove era piùsensibile, arrivando spesso fino in fondo. Vedevo che le di-spiaceva, che la addolorava e la rattristava; ne soffriva e si chiu-deva in sé ma l’accettava con saggezza e lo aggiungeva al resto.Forse capiva istintivamente quello che io non comprendevo.Questo gioco scorretto era presente anche prima dei suoi anniin prigione e lo aveva sopportato con dolore, ma l’idea che lacasualità biologica le avesse assegnato un adolescente tanto dif-ficile forse la faceva ancora sorridere. Poi, però, le bastava po-co per tornare quella di sempre. Era dotata di una pazienza e diuna saggia comprensione quasi infinite, che si nutrivano dauna sorgente ben al di sotto della superficie. Non mostrava al-tro. Non c’erano mai stati abbracci inaspettati, vezzeggiamen-ti, baci affettuosi senza motivo o risate scherzose, giocose pre-se in giro, spensieratezza e buffonate. Alcune di queste formeespressive sono estranee anche a me. Possiedo invece capacitàdi riserbo e di discrezione, che però non sono sinonimi né dicupezza né di mancanza di colore, e nemmeno d’indifferenza,perché non escludono calore, gentilezza, attenzione e allegria,e possono vestire lo spirito di quella sottile ironia che mi piacetanto. Ero abituato a cercare in altri, istintivamente e almeno inparte, quello che in lei non potevo trovare, e sin dalla nascita loscoprivo in splendida abbondanza in Gizi, nella mia adoratamadrina, e in forma più semplice e modesta nella Fräulein diturno. In seguito lo cercai nelle ragazze e nelle donne con ri-sultati decisamente alterni. Invano, perché in verità non è pos-sibile ricevere altrove quello che non abbiamo avuto dalle no-stre madri, e nemmeno ciò che abbiamo avuto. Di questo sonosinceramente convinto.

Negli ultimi tempi, da quando lei non c’è più, la sento piùvicina. Per molto tempo l’avevo considerata un’anima sempli-

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ce. Un’istintiva con pregiudizi non in grado di dare forma alleimpressioni e agli impulsi, salvo quando doveva esprimerli eprendere posizione. Ma ho capito di essermi sbagliato. Non so-lo aveva un ricco mondo interiore, strutturato, con molti sen-timenti e stratificazioni, ma anche un mondo di idee e di gustibasato sulle tradizioni familiari e sulla classe di appartenenza.Rimiro le immagini di alcune sue esternazioni memorabili, leesamino, le interpreto ancora una volta e giungo sempre allastessa conclusione. Le sue opinioni erano intelligenti, maiistintive o improvvisate ma ponderate, e all’occorrenza sapevaspiegarle in poche parole e in maniera eccellente. Aveva mora-lità e ottimo gusto, la sua impressione sulle persone era pres-soché infallibile. Non era snob, era gentile e amichevole anchequando era una gran dama, e non si rivolgeva mai con accon-discendenza alla servitù. Leggeva molto ma non era colta. Gra-zie a lei già nei primi anni dell’adolescenza mi avvicinai a Bal-zac e a Dickens, nell’età in cui prevalgono Karl May e Jules Ver-ne. In vecchiaia lesse le memorie di Churchill con grande pia-cere. Aveva fatto le superiori in una scuola femminile ad Aradma la sua famiglia, proprietari terrieri di origine serba in se-guito divenuti ungheresi, dopo l’occupazione rumena si era ri-fugiata a Budapest, e solo per poco nel tempo poté finanziarele sue lezioni di violino da Hubay. La foto della bellissima ra-gazza snella dai capelli lunghi che suona rapita il violino – se sipuò dare retta all’immaginazione – testimonia una musicalitàappassionata. Raccontò che quando erano finiti i soldi aveva-no regalato il prezioso strumento a un bambino prodigio ciecoe povero. Sorprendentemente non mostrò mai più interesseper la musica. Forse aveva un contenzioso con il destino? Fat-to sta che non frequentava mai né concerti né l’opera. Il con-sumo di musica della nostra famiglia si esauriva con l’ascolto,durante il pranzo, della selezione di dischi di esecutori di pri-

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m’ordine che la radio trasmetteva la domenica a mezzogiorno.Forse perché mio padre non amava affatto la musica. Io fin dapiccolissimo ne ero fortemente attratto e strimpellavo sul me-raviglioso pianoforte Steinway che la mia madrina aveva avu-to in regalo da Horthy; ma il mio desiderio costantemente rei-terato di voler imparare a suonare il pianoforte era sempre sta-to considerato un capriccio passeggero e infantile e, caso uni-co, come tale negato. Tuttora non riesco a perdonarglielo.

Per lo più le chiedo di raccontare e di rispondere alle mie do-mande, ma le mie osservazioni prive di tatto o persino provoca-torie la mettono spesso in imbarazzo; la correggo, le faccio del-le lezioncine, a volte la offendo proprio, la punisco, le dimostrola mia superiorità intellettuale, le chiedo dei chiarimenti, la pren-do in giro e subito dopo desidero farle sapere, con terribile, pa-ralizzante rimorso, che so di averla offesa; tuttavia non riesco adirglielo, né sono capace di chiedere scusa e in generale non cela faccio a riprendere l’argomento, e di conseguenza a dirle chenon volevo ferirla. Rimane tutto sospeso, lasciando dentro di meun lungo e lugubre crepitio, come un foglio di giornale impi-gliato in una staccionata. Anche quando lei ha già superato tut-to, o per lo meno così sembra. Ancora oggi, quando nel sognorivivo quegli episodi, il rimorso mi duole nel petto al punto da ri-svegliarmi. Lei però sa controbattere, non per vendetta, bensì indifesa, e sa mettermi in imbarazzo, quando ad esempio alle miedomande curiose sulla famiglia replica amaramente che un tem-po me ne infischiavo dei suoi avi, che poi sono anche i miei, an-zi, un tempo addirittura mi vergognavo di annoverare fra loroaristocratici e nomi storici. Non mi importava neppure del leg-gendario generale impiccato ad Arad. La nonna era una baro-nessa, non era colpa sua, qual è il problema? Oggi sulla paretedella mia casa, accanto ai ritratti degli avi famosi, è appeso ancheil pomposo albero genealogico del nonno.

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Ora sta cucinando per me, in quella cucina, in una manierache definirei dimostrativa: con metà del corpo è rivolta a me echiacchiera allegra con orgoglio non celato. La sua figura altae slanciata è un punto esclamativo nella cucina dimessa: guar-di, ho imparato a cucinare! Vuole dimostrare – è sempre in-tenta a dimostrare qualcosa – che sa cucinare e pure bene. Pri-ma preparava, ma solo se era costretta, qualche zuppa, il se-molino al latte, la frittata, la fettina in padella, le fette di panefritte e poco altro. Si annoda un grembiule a quadretti verdi ebianchi, sotto indossa una camicetta di seta color crema conun filo di perle (bigiotteria economica ma di buona fattura,l’originale era finita nell’Unione Sovietica) con la gonna di uncompleto beige a spina di pesce, e porta scarpe eleganti, stret-te, ma non più con i tacchi alti. Rimane così fino al momento diandare a dormire (naturalmente senza più il grembiule), vesti-ta da ufficio, non si toglie nemmeno le scarpe, mentre per meè la prima cosa da fare non appena arrivo a casa, qui come inUngheria. O meglio là come qui. Non capisce che fastidio pos-sano darmi le scarpe. Le pantofole vanno indossate solo perandare a letto e per alzarsi. Di giorno è unsoarnirt, dice. Detestoquesta mostruosa coniazione: un aggettivo francese con il pre-fisso privativo tedesco in salsa magiara, una specie di grillotal-pa, che scritta fa un effetto ancora più terribile. Era un termi-ne ricorrente già durante la mia infanzia, lo usavano le sue so-relle e anche i miei cugini, era probabilmente il lascito addo-mesticato delle bambinaie tedesche e francesi che si alternava-no ad Arad. Ovviamente glielo faccio notare, e non è la primavolta, con tono mite ma forse con irritante o persino sprezzan-te superiorità; le spiego che ci sono molti altri modi per espri-mere lo stesso concetto, non c’è motivo di usare un terminestraniero, meno che mai uno storpiato e tanto brutto. Natural-mente si offende ma non lo dà a vedere; naturalmente me ne

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pento ma non lo do a vedere. Smettiamo di parlare. Le nostreconversazioni sono sovente stentate o superficiali. Non siamopersone loquaci. Non fra di noi.

L’arrosto di vitello ai capperi è squisito. Non avevo mai as-saggiato nulla di simile prima. A casa sono cresciute genera-zioni che non conoscono neppure l’esistenza dei capperi. An-ch’io ero bambino quando li mangiai per l’ultima volta: tra learinghe arrotolate i capperi verde scuro, umidi e lucidi, miguardavano come tanti occhi di un animale marino, o per lomeno così me li ricordo. Un sapore noto, eppure completa-mente nuovo. Mi scruta il viso per vederne l’effetto e mi do-manda se i capperi mi piacciono. Non le permetto di provaregioia, non c’è nulla di straordinario nel fatto che in America sipossano comprare i capperi e molto altro che da noi non si tro-va. A volte anche in Ungheria vendono le banane, rispondo conla dignità di un nano, prima di Natale vendevano anche learance. C’era da fare la fila, aggiungo per essere oggettivo. “Madavvero?” domanda con voce delusa. Secondo me dovrebbe es-sere contenta, invece. Ha forse dimenticato che cosa significhiper noi un’arancia o una banana? Continuiamo a mangiare.Sento che l’arrosto di vitello con la salsa di capperi e le patateintere arrostite nella carta d’alluminio è una delle sorprese pre-parate per me da tempo e con cura. Un’autentica pietanza ame-ricana. Poi mi dice di saper cucinare anche molti altri piatti, eche me li farà assaggiare. Vengo a sapere che nel tempo liberoa volte prepara delle torte su ordinazione di conoscenti un-gheresi e di conoscenti dei conoscenti, per le loro feste, e lorogliele pagano. Sapevo già che occasionalmente fa anche la ba-by-sitter: quasi sempre in famiglie ungheresi ma le capitanoanche famiglie americane, e racconta episodi divertenti conbambini pestiferi che non conoscono una parola d’ungheresee la chiudono nel bagno per ore. Racconta fiera dei dieci dolla-

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ri guadagnati di recente con una torta Sacher. Compra lei gliingredienti e mette in conto la manodopera che il suo giro diungheresi le riconosce come costo. Insieme alla torta, che disolito consegna a domicilio, presenta anche gli scontrini degliingredienti. Racconta ridendo di mance ricevute da scono-sciuti. Le ha accettate? Ma certo, perché no? Deglutisco. Questiguadagni, aggiunti ai gruzzoletti risparmiati con il suo stipen-dio di modesta impiegata, prima approdavano sotto forma dipacchi di abbigliamento scelto con gusto e senso pratico nellamia casa sul Lungodanubio Groza, e ora trasformati in giocat-toli e vestiti per bambini in via Vércse. È chiaro che il mio bi-glietto aereo implica pannolini sporchi e torte squisite, e an-che il denaro che mi regala in abbondanza per le mie spese pro-viene dalla stessa fonte. Dopo mille ostacoli, alla fine la Re-pubblica Popolare Ungherese mi ha lasciato andare, ma consoli cinque dollari in tasca per un soggiorno di tre mesi. Atrentaquattro anni ricevere del denaro per le piccole spesedalla propria madre è imbarazzante. Mia madre mi sta man-tenendo. Racconta che sa fare quattro o cinque torte diverse,naturalmente seguendo le ricette, e finora sono venute tuttebenissimo tranne la Dobos, perché lavorare il caramello nonè facile.

Mangiamo. Già da bambino mi piaceva osservarla mentrecompiva piccoli movimenti risoluti con il coltello e la forchettaper disporre il cibo secondo una precisa idea topografica, comeun regista cinematografico che prima di accendere la teleca-mera allestisce la scena e dà istruzioni agli attori. Sposta la car-ne a destra del piatto lasciando a sinistra i contorni raggrup-pati, ben separati fra loro. Girare il piatto è considerato volga-re, un tabù da non prendere nemmeno in considerazione. Ta-glia un pezzettino di carne, lo inforca, raccoglie una quantitàadatta di contorno sul dorso della forchetta e porta tutto alla

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bocca. Non è semplice, perché i capperi cadrebbero se non fa-cesse giochi d’equilibrio con la forchetta, se prima non li ap-piattisse un pochino, se il pezzettino di carne o di patata infor-cato non si mettesse di traverso, e se a ogni boccone lei non siinchinasse sempre di più sopra il piatto per infilarli in bocca ilprima possibile. Dispone di una strategia a parte per il contor-no di piselli, poiché solo alcuni riescono a rimanere fermi suldorso della forchetta dietro la carne; si crea un surplus di pi-selli che la costringe a consumarne porzioni extra. Con l’aiutodel coltello infilza sulla forchetta i piselli che a loro volta ne trat-tengono altri leggermente schiacciati. Avevo visto altra genteusare questa tecnica, ma se spingendo e schiacciando i piselliqua e là nel piatto alla fine li trasformavano in una poltiglia, latecnica di mia madre risulta innegabilmente più elegante e raf-finata. Mangia con abilità e grazia. Le sue porzioni di carnecontorno e insalata sono calcolate sempre in modo che fini-scano tutte insieme: ogni boccone di carne ha il suo contornoe viceversa. Non lascia mai nulla nel piatto. Io neppure. Lei èsopravvissuta alla carestia dovuta a due guerre mondiali, io auna. Raccoglie con la forchetta e porta alla bocca anche la sal-sa o il liquido eventualmente avanzati nel piatto piano. L’usodel cucchiaio non è contemplato. Reclina la testa in avanti, af-fonda la forchetta come fosse un cucchiaio, la gira appena unpo’ verso l’esterno affinché il liquido possa colare solo per unistante e la porta alla bocca. È una tecnica spettacolare, richie-de concentrazione e rapidità, costa tempo ed energia ma è ef-ficace, e la sua inutilità non fa che nobilitarla. Da quando man-gio con gli adulti adopero anch’io questa tecnica, che anche lasignorina tedesca ha fatto sua di buon grado. Ma mentre pernoi due è una seconda lingua, e commettiamo frequenti erro-ri, per mia madre è la lingua materna, ci è cresciuta dentro, leiforse non ha mai visto nessuno mangiare diversamente. Mio

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padre, educato in un ambiente differente, non seguiva questorituale. Quello che non poteva infilzare lo spazzava nell’incavodella forchetta e se lo infilava in bocca. La salsa rimasta nel piat-to, se gli piaceva, la raccoglieva col cucchiaio con tutta tran-quillità, in caso contrario la lasciava. Se non avevamo ospiti fa-ceva la scarpetta, a volte con la forchetta, altre volte persino conla mano! Lui sì che poteva, ma solo lui. Vedendomi adoperarelo stile materno, alla mensa universitaria già il primo giornomi derisero e scoprirono senza difficoltà che provenivo dalladegenere classe borghese. Anche chi non aveva fatto studi mar-xisti-leninisti capiva che ero un nemico di classe. Da alloramangio con stile eterodosso e vivendo da solo ho perso classe,mentre mia madre all’estero, sebbene sola anche lei, raccoglie-rà la salsa con la forchetta fino al suo ultimo respiro.

Silenzio. Sparecchia. Prende a lavare i piatti, la guardo, ri-fiuta l’aiuto. I suoi capelli castani non si sono imbiancati, pro-babilmente per l’effetto di qualche artifizio. È molto bella, i trat-ti del suo viso sono delicati, lo sguardo è mite, irradia calore, eil viso è pieno di vita malgrado i suoi quasi sessant’anni. Oracapisco perché un giornale frivolo di Budapest negli anni ’30l’aveva definita “una delle più belle donne in città”. Si svolge laliturgia dello strucco prima di andare a dormire – ora però nonla guardo dal letto come un tempo ma cammino avanti e in-dietro alle sue spalle e conversiamo, le racconto i giri che hofatto quel giorno per New York – il “misto da scuotere” e i ge-sti sono quelli di una volta, mancano solo i begli specchi anti-chi. Il volto ancora femminile che ricambia il mio sguardo dal-lo specchio a buon mercato è molto attento, sa ancora provaregioia, è ancora armata di curiosità, vuole ancora vedere. Nonsoffre del parassitismo e del cinismo degli emigrati declassati,i muri di solitudine che la circondano non l’hanno indurita, ilgigantismo, gli spazi immensi e la frenesia di questo mondo a

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lei estraneo non l’hanno trasformata. Come non l’aveva trasfi-gurata nemmeno la cella della prigione dove condividevano innove l’angusto spazio. È sola, l’ho appurato seguendo pruden-temente alcuni segnali e sentendo in giro, eppure speravo cheavesse qualcuno. Non potevo chiederlo a lei, di quest’argo-mento non abbiamo mai potuto parlare. L’educazione impar-tita da mia nonna alle tre figlie, delle quali mia madre era la piùpiccola, prevedeva di incollare o addirittura di tagliare via leultime pagine ritenute sconvenienti anche del più innocuo ro-manzo per ragazze, quando il pretendente giovane e bello non-ché impeccabile sotto ogni aspetto, nel gran finale tanto atteso,ossia nell’occasione del fidanzamento ufficiale, poteva final-mente e per la prima volta sfiorare la mano dell’adorata ragaz-za innocente. Mia madre ricorreva a un metodo meno radica-le e per lei più comodo: l’argomento semplicemente non esi-steva. La mia educazione sessuale in famiglia si limitava aun’unica frase sentita da lei all’età di quattro o cinque anni,quando ero malato di qualcosa, forse d’influenza. “È proibitogiocare con il pistolino.” Tutto qui. Da mio padre nemmenoquesto. In seguito alla materia in questione mi avvicinai da stu-dente privato.

Frequenta qualche parente e amica, tutti ungheresi, e condue di questi ha rapporti stretti. Sospetto, sento, vedo, perchémi arrivano segnali inconfondibili, che in verità vive per me,per lo meno ora sicuramente ed esclusivamente. Vuole mo-strarmi, comprarmi, darmi tutto quello che può ottenere conl’intelletto e con il denaro in America, già che io ero rimasto acasa e non ero venuto via con lei. Si è preparata a farlo met-tendo insieme anche dei risparmi. Appena sono arrivato mi haportato in un grande magazzino non troppo caro e rispettan-do i miei gusti mi ha rivestito dalla testa ai piedi, come se fossiun bambino. Ha avuto suo figlio in prestito per tre mesi. Ho

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dovuto buttare via alcuni miei capi d’abbigliamento, in questoè stata inflessibile.

Risale ad almeno trent’anni fa la foto sulla rivista “SzinháziÉlet”2 che la raffigura mentre gioca a solitario con Gizi. Gizimette giù le carte, lei la osserva attentamente fumando una si-garetta, e con il pollice sinistro gira il suo anello con il sigillo,un suo gesto abituale. Anche ora porta quest’anello d’oro con ilsigillo miracolosamente sopravvissuto sopra la fede, e non se losfila neppure per fare i piatti. Da bambino desideravo arden-temente averne uno uguale anch’io. Nel rubino di un rosso in-tenso, sotto una corona a cinque punte, è incisa la minuscola fi-gura di un cavaliere al galoppo che vira a destra ammainandouna testa con le trecce infilzata con la spada. Lei mi aveva spie-gato più volte, sempre pacatamente e ragionandoci sopra, chenon era possibile, non potevo averlo perché non ce l’aveva nep-pure mio padre. Mi addoloravo, mi arrabbiavo, non riuscivo adaccettare di non esserne degno. Come mai proprio io no? Io,che ottenevo tutto quello che volevo. Per la prima volta il miomondo rivelò i suoi confini, e scoprirli era per me insolito e in-comprensibile. Avrei dato tanto per poter girare anch’io unanello al dito conversando e rispondendo incurante a doman-de curiose come faceva lei. In ritardo di qualche anno e qualcheepoca dopo, la rimproverai per l’anello con il sigillo. Prima del-la nazionalizzazione dei licei frequentavo l’istituto dei cister-censi ma leggevo avidamente Ady, Móricz, Dezso Szabó, LászlóNémeth, Illyés, Zoltán Szabó, Lajos Nagy, Attila József e Bibósulle pagine di “Válasz”3, e mi vergognavo di mia madre anchecon gli altri, perché il suo anello con il sigillo, un retaggio delfeudalesimo, era in discordia con i miei ideali di uguaglianzavissuti intensamente. Obbedendo alla mia richiesta ostinata,trascorreva le serate a scucire rassegnata, con faccia cupa e sen-za dire una parola, la corona a cinque punte ricamata sopra le

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iniziali dai pezzi rimasti del suo corredo: tovaglie, tovagliolini,biancheria da letto, asciugamani, canovacci da cucina e strac-ci per spolverare. Dopodiché accadde l’imprevedibile: dovettiassumermi la responsabilità dell’anello con il sigillo un tempotanto ambito e poi altrettanto disprezzato, perché la dittaturalo infilò anche al mio dito. L’anello divenne un pericolo e io miindignai perché non era questo il mio intento. Temevo per leie volevo convincerla a sfilarselo perché poteva metterla neiguai. Non mi dava retta. L’aveva portato in tutta la sua vita adul-ta, poiché non rinnegava la sua famiglia, non si vergognavadelle sue origini, disse con una punta di ironia. Poco dopo, nelnovembre 1949, fu arrestata con l’accusa del tutto assurda didiffusione di notizie false. “Con chi scopi, puttana aristocrati-ca?” le domandò il primo poliziotto che la interrogò al nume-ro 60 di via Andrássy.

Nella piccola cucina c’è di che essere orgogliosi. Fra gli og-getti ammiro un arnese sconosciuto appeso alla parete accan-to all’apriscatole elettrico: si tratta di una lastra di cartone diun metro quadro, dipinta di bianco e perforata, incorniciata incasa con nastro isolante rosso; nei fori appositi sono sistematiganci a distanza appropriata, dai quali pendono utensili da cu-cina e attrezzi. Una semplicissima e magnifica invenzione delpragmatismo americano. L’ha vista da qualche parte, l’ha com-prata, l’ha incorniciata e l’ha inchiodata con le sue mani allaparete, praticissimo, dice, fa risparmiare un sacco di spazio.Non ricordo di averla mai vista nella nostra vita precedente,nelle nostre vite precedenti, con un cacciavite o con un mar-tello in mano. Ora possiede pinze, scalpelli, lime, chiavi ingle-si, metri e nastri isolanti che tiene in una cassetta degli attrez-zi da vero professionista ed elenca fiera le tante riparazioni perle quali li ha usati.

Ci trasferiamo nel living room – chiama così il soggiorno con

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un sorriso misto a una velata richiesta di perdono; difficil-mente potrebbe chiamarlo salone e noi non usavamo il termi-ne “soggiorno”. Questo vano è buio anche di giorno, è il piùbuio di tutto l’appartamento che dà sul cortile. Racconta ridac-chiando e con ammiccamenti per me del tutto nuovi, partico-lari e birichini, abbassando anche la voce, che dalla finestra chedà sul piccolo spazio comune di servizio si può guardare den-tro uno degli appartamenti del palazzo vicino, in cui la sera, aluci accese e con la finestra aperta, il portiere nero di notevolemole sdraiato sul divano – “mio caro Muksi, ehm, si immagi-ni!” – si accarezza. E si sente persino il suo ansimare! Quindi bi-sogna tirare le tende anche di giorno. Alle pareti vedo alcuneincisioni in cornici piuttosto rozze fatte chiaramente in casa.L’arredamento della camera è composto da due poltrone vetu-ste e molto diverse fra loro, che con una certa dose di buonavolontà possono essere definite antiche, da due tavolini an-ch’essi diversi fra loro, di fattura recente ma in stile antico, eda una piccola cassettiera poggiata su sottili piedi attorcigliati,parente dei tavolini solo perché anch’essa è un’imitazione. So-no acquisti occasionali, un pezzo per volta, fatti in un thrift shop,ovvero in un negozio che vende roba dismessa dai signori, e ilricavato va in beneficenza. Sui tavolini tiene ninnoli, piccolioggetti antichi d’argento, rame e porcellana, una foto in unacornice d’argento, un bel posacenere antico; per lo più sonopezzi ereditati dai Csernovics e dai Damjanich che su sua ri-chiesta le ho portato io da casa. Mi ambiento subito e senza esi-tazione, sembro uno di ritorno a casa. Ci sono anche dei vasisui tavolini e come in passato non mancano i fiori. Un gustoche mi è ben noto e che rispecchia quello degli avi. Fino alla fi-ne della guerra avevo vissuto sul colle Sas fra i suoi magnificimobili antichi. Raccoglieva in un portasigarette di metallo lepiccole scaglie lucide e marroni che si staccavano, e ogni tanto

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veniva un bravo restauratore di mobili che le riattaccava conprecisione chirurgica come fossero pezzi mancanti di un col-lage. Medicati, i mobili riconquistavano la loro antica dignità etornavano a splendere maestosamente. I surrogati a buon mer-cato che sembrano tante quinte teatrali la aiutano a ricostrui-re l’atmosfera di un tempo e a sentirsi a casa. Aveva salpatol’oceano con il desiderio irrinunciabile di non doversi separa-re dal proprio io, dal passato, dall’anello, dai capperi in equili-brio precario sul dorso della forchetta. E io mi commuovo sen-za però darlo a vedere.

Nel living room c’è anche un mastodontico e goffo televiso-re. Racconta allegra di averlo trovato in strada a qualche isola-to da casa; qualcuno l’aveva lasciato sul marciapiede con un bi-glietto che diceva che l’apparecchio funzionava. Faceva faticaanche solo a spostarlo, ma due giovani volenterosi si offrironodi trasportarlo in spalla a turno, rischiando di crollare sotto ilsuo peso. Lo deposero affannati ma ridenti in ascensore senzaaccettare nulla, nemmeno un caffè. In seguito un vicino di ca-sa, un attore disoccupato, riuscì persino a metterlo in funzione.

Così è l’America, questa storia ne è la palese conferma. Nes-suno è lasciato solo. L’antenna è un cavo lungo almeno quindicimetri, che secondo la stazione a cui si vuole sintonizzare va si-stemato in punti sempre diversi dell’appartamento. I ripetito-ri trasmettono dai tetti di alcuni grattacieli di Manhattan che sischermano fra loro, e noi siamo solo a un quarto piano. Servi-rebbe un’antenna vera e propria, ma non se la può permettere.Il cavo arriva nella camera da letto dove fa un giro completo; ca-pita però di doverlo portare in bagno, da lì fargli attraversare lacamera degli ospiti e – dopo avergli fatto compiere un semi-cerchio – portarlo in cucina. I risultati cambiano a seconda seil rigido e distorto cavo di rame è sistemato sul pavimento, oall’altezza dei mobili, o se è appeso alla maniglia della finestra.

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Se non si fa attenzione si può facilmente inciampare, quindiprima di andare a dormire bisogna raccoglierlo, e la sera doposi ricomincia da capo. Lei dice ridendo che a volte deve corre-re su e giù durante i programmi più interessanti e spostare ilcavo di qualche centimetro, perché dal bagno o dalla cucina loschermo non si vede. Come per compensare il loro pallore, leimmagini in bianco e nero sono spesso multiple e sovrapposte,ma chi è dotato di una certa curiosità e fantasia ci passa sopra.Lei ci ha fatto l’abitudine. La tivù americana trasmette ancheottimi programmi, potrò accertarmene con i miei occhi. A ca-sa, in Ungheria, non abbiamo ancora il televisore, solo la por-tinaia ne ha uno.

Mia madre ammira tutto quello che questo nuovo mondooffre; sorride, ride, si lamenta di rado, non vuole vedere i la-ti negativi. L’America per lei deve rappresentare una storia dicompleto successo, il paese dove ha trovato la libertà, la sicu-rezza, la possibilità di guadagnarsi da vivere, la tranquillità eun certo comfort. Una volta mi scrisse: “Qui ho tutto quelloche ho desiderato in prigione: una casa calda, un bagno, unbuon caffè e una vita senza paura. Mi manca solo lei, mio ca-ro Muksi.” Ci sono tante persone gentili, gli ungheresi godo-no di un trattamento di favore, sono bene accolti, l’America èinteressantissima, gioiosa ed è piena di sorprese fantastiche.Lei racconta meravigliata e il suo entusiasmo è contagioso.Presto ci sarà un rubinetto alla cui estremità verrà applicatoun congegno che grazie alla scissione dell’atomo produrrà co-stantemente acqua calda, senza bisogno di una caldaia. Fun-zionerà anche come riscaldamento. I giornali, le radio, le te-levisioni anticipano il numero degli incidenti stradali previ-sti per il fine settimana, sanno quanti centimetri di neve ca-dranno e dove, e le previsioni si verificano quasi sempre. Esi-ste una trasmissione dal vivo alla radio da chiamare in caso di

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problemi, e l’aiuto arriva sempre. Sa che nella madrepatriaquesto non esiste nemmeno nei sogni. Parla dei tre scippi cheha subìto per strada tornando a casa al buio – malgrado fos-se un buon quartiere – come di una curiosità locale, cercan-do di discolpare l’America. L’inglese ha addirittura un verboper questo tipo di rapina, dice, come se questo potesse legit-timarne l’esistenza. Tutto si svolse in pochi istanti. Le strap-parono la borsa di mano e quando lei si riprese e avrebbe avu-to il tempo per spaventarsi, non c’era più nessuno. In due oc-casioni fortunatamente aveva le chiavi nella tasca del cappot-to ma la terza volta no; solo con grande difficoltà riuscì a en-trare in casa e il giorno dopo dovette far sostituire la serratu-ra. In tutti e tre i casi fu scippata da ragazzotti di colore, cio-nonostante prova pena per la gente di colore, la sostiene e daquando ha diritto al voto vota democratico. Da noi non ci so-no rapine in strada, dico con voce che suona come se mi van-tassi. Finalmente qualcosa che funziona meglio da noi. I van-taggi dello Stato di polizia, aggiungo con una risatina per evi-tare malintesi. In due occasioni, dopo qualche giorno, la po-lizia le ha riportato la borsa con i documenti ritrovata in unacassetta della posta, mancava solo il denaro. Per fortuna inAmerica la gente gira con poco denaro contante perché pagaquasi sempre con l’assegno. A casa, se dovesse capitare e seritrovassero la borsa, dico io, arriverebbe una rozza convoca-zione alla stazione di polizia, piena di errori ortografici, dovedopo una lunga attesa mi rimprovererebbero con durezza dinon essere stato abbastanza attento. È sollevata, non perchéin Ungheria si stia peggio ma perché finalmente ho volutoammettere qualcosa. Da noi il ladro sicuramente non usereb-be la gentilezza di abbandonare la borsa depredata nella cas-setta delle lettere, aggiungo per farla contenta. Per giunta nonpotrebbe neppure se volesse. Ridiamo.

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Deve dimostrare continuamente, a sé stessa e anche a me,ora e sempre, che ha fatto bene a lasciare l’Ungheria malgradoil terribile rimorso per l’abbandono del figlio venticinquenne,diventato finalmente adulto. Il compito non è difficile, risultaovvio che uscita di prigione per la seconda volta, ma sempresolo grazie alla sospensione della pena che avrebbe permessoai suoi carcerieri di rinchiuderla di nuovo, volesse scappare,senza contare che anch’io insistevo con lei perché andasse via.Inizialmente feci finta di volerla accompagnare, quando peròil viaggio – non privo di pericoli e molto costoso – fu organiz-zato, e per lei sarebbe stato molto difficile tornare indietro an-che dal punto di vista psicologico, comunicai la mia intenzio-ne di rimanere.

Io invece devo dimostrare a lei e a me stesso che per me ri-manere è stata la scelta giusta. Allora, non esente da pathos,credetti giusto non lasciare al suo destino la mia patria calpe-stata: cosa ne sarebbe stato se l’avessero abbandonata tutti? Co-vavo vaghi progetti letterari, ero innamorato della letteraturaungherese e anche di una bionda conturbante. Mia madre ca-piva questo secondo amore, il primo molto meno. Diceva chevolendo avrei potuto scrivere anche all’estero. Nove anni dopoqui, in America, faccio sempre più fatica a dare credibilità allamia scelta. Inoltre lo stimolo di dimostrare la correttezza dellenostre scelte lavora incessantemente in entrambi, ci stuzzica,produce tensione, passione, ci costringe a moderarci, provocaestraniazione al punto che a volte mi stupisco di me stessoascoltandomi. E fluttua fra noi il suo desiderio a lungo non pro-nunciato ma tanto più avvertibile di farmi restare. So che que-sto suo desiderio non è dettato dall’egoismo, non solo dal-l’egoismo, ma dalla preoccupazione per il mio futuro e per lamia sicurezza personale. Verso la fine del mio soggiorno in unmomento più comunicativo lo esprime chiaramente aggiun-

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gendo che mia moglie potrebbe raggiungermi in seguito, tut-tavia il tono della voce è rassegnato, come se le parole le fosse-ro solo sfuggite di bocca. Tramite un professore universitarioamericano incontrato in Ungheria ho ricevuto l’invito a tene-re una conferenza in un’università di prim’ordine e dopo laconferenza mi è arrivata una proposta di lavoro molto intri-gante. Ne è fiera, l’ho sentita mentre lo raccontava più volte altelefono. Posto di nuovo davanti a una scelta, cerco di orien-tarmi fra i due mondi seduto a cavalcioni in cima a un’altastaccionata, stavolta però con una certezza che insieme mi al-letta e mi spaventa. Inoltre ormai ho una visione più chiaradell’America e delle prospettive che mi aspettano. Ma questastaccionata è una cortina di filo spinato che ferisce. Forse perquesto ferisco sempre anch’io. Mi devo difendere dall’Ameri-ca, da mia madre. E anche da me stesso. Non torno mica in unagiungla. Ma più si avvicina la partenza più si fa chiaro che inverità mia madre e io abbiamo avuto l’ennesimo colloquio fradetenuto e parente in visita. Un tempo avevamo soltantoquindici minuti al mese, ora ci vediamo ogni due anni ma piùa lungo, eppure la situazione non cambia. Fra un incontro el’altro possiamo comunicare anche per posta e telefono masiamo censurati come prima, e probabilmente anche qui, inAmerica. La differenza è che ora sarò io a essere riaccompa-gnato da soldati armati dietro le sbarre. Saranno loro a rice-vermi già all’aeroporto.

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La polizia è un tema molto importante. Per qualche tempo le sichiudeva lo stomaco anche qui alla vista di un poliziotto. Inun’altra occasione mi raccontò che teneva una lametta in bor-sa nell’eventualità di essere arrestata di nuovo. Era determina-

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