ripensare-progresso

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51 1 E, in effetti, come ha scritto Remo Bodei: “Sono in pochi oggi a credere, per ragionamento e non per fede, che la storia abbia un senso” (Bodei 2006, p. 17). Abstract Al concetto di progresso, “indipendentemente dalla prospettiva adottata, è sempre connaturato un potenziale prognostico a cui nessuna politica può rinunciare” (Koselleck 1991, p. 110). La dissoluzione, o quantomeno la critica impietosa, delle ideologie del progresso tardo-settecentesche e ottocentesche nasconde, sotto una veste politica, la rinuncia o l’indebolimento delle categorie della metafisica occidentale e con essa della sua punta di diamante, la pretesa universalizzante della ragione. I tentativi di contrapporre filosofie “senza speranze” a quelle “smisurate” del progresso (cfr. Rossi 2008) falliscono nel loro intento: da un lato, mutando la direzione della storia da progresso a regresso, non fanno che riproporne i dualismi di fondo; dall’altro, rinunciando alla normatività della ragione, ci si sente autorizzati a rinunciare tout court ad ogni approccio della ragione al futuro, anche nella forma di una ragionevolezza. Viene allora da chiedersi se non sia possibile, invece, uscire dalla gabbia di questi falsi dilemmi e trovare delle “ragionevoli speranze” che, senza riportare ai suoi fasti l’idea di una ragione trascendente, non perda però nemmeno di vista il potenziale euristico contenuto nell’idea di progresso. All’interno della così detta filosofia continentale l’espressione “filosofia della storia” è quasi immediatamente associata ai méta-récits lyotardiani, a quei grandi racconti teleologici che avrebbero costruito e definito l’episteme moderna. Fare “filosofia della storia”, in tale contesto teorico-filosofico, significa più o meno questo: identificare la tendenza fondamentale del nostro tempo, costruire una storia filosofica dell’Occidente, tracciare le linee di sviluppo della storia, in breve capire dove stiamo andando e perché ci stiamo andando. Questo tipo di filosofia della storia ha largamente perduto il credito e l’attrattiva che pure, in alcuni momenti del nostro passato storico-filosofico, le è stato concesso. Che essa si sia davvero ritirata – e, ancora prima, che essa possa davvero ritirarsi – dall’orizzonte euristico-ermeneutico attuale e futuro è un’altra questione su cui intendo ritornare in seguito. Se pare azzardato e anacronistico ricercare qualcosa come una razionalità, un significato o una direzione generale nella storia 1, nulla sembra opporsi a una ricerca di tipo metodologico o epistemologico sul sapere storico. Si inserisce in questo filone il lavoro condotto, per esempio, all’interno della tradizione filosofica anglosassone; ma è anche l’approccio adottato, sulla scia della scuola francese dei vari Canguillhem e Bachelard, da Michel Foucault che, non a caso, all’inizio dell’Archeologia del sapere rivendicava l’indipendenza delle proprie ricerche dalle storie teleologico-progressive (Foucault 1969, p. 16). Questa distinzione preliminare è in qualche modo parallela a quella usualmente tracciata tra etica normativa e meta-etica: qui come lì si vuole in qualche modo porsi su un piano ideologicamente neutrale, critico piuttosto che positivo-normativo, metodologico piuttosto che sostanziale. Se a questo punto ci rivolgiamo alla categoria di progresso, ci sono almeno due diverse angolazioni (simili anche se non del tutto sovrapponibili alle due fin qui enunciate) da cui possiamo impostare il problema. La prima si concretizza nella domanda: si dà progresso nella storia dell’umanità? Posta in questi termini, la questione è evidentemente poco interessante: prima di poter rispondere dovremmo accordarci sui criteri di ciò che chiamiamo “progresso”, sull’estensione della parola “storia” e su ciò che vogliamo chiamare “umanità”. Qui non si tratta di negare la possibilità di un accordo minimale ma di capire, credo, che quello che cercavamo non era una risposta alla domanda da cui siamo /Ripensare il progresso. Rethinking progress./

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1 E, in effetti, come ha scritto Remo Bodei: “Sono in pochi oggi a credere, per ragionamento e non per fede, che la storia abbia un senso” (Bodei 2006, p. 17).

Abstract Al concetto di progresso, “indipendentemente dalla prospettiva adottata, è sempre connaturato un potenziale prognostico a cui nessuna politica può rinunciare” (Koselleck 1991, p. 110). La dissoluzione, o quantomeno la critica impietosa, delle ideologie del progresso tardo-settecentesche e ottocentesche nasconde, sotto una veste politica, la rinuncia o l’indebolimento delle categorie della metafisica occidentale e con essa della sua punta di diamante, la pretesa universalizzante della ragione. I tentativi di contrapporre filosofie “senza speranze” a quelle “smisurate” del progresso (cfr. Rossi 2008) falliscono nel loro intento: da un lato, mutando la direzione della storia da progresso a regresso, non fanno che riproporne i dualismi di fondo; dall’altro, rinunciando alla normatività della ragione, ci si sente autorizzati a rinunciare tout court ad ogni approccio della ragione al futuro, anche nella forma di una ragionevolezza. Viene allora da chiedersi se non sia possibile, invece, uscire dalla gabbia di questi falsi dilemmi e trovare delle “ragionevoli speranze” che, senza riportare ai suoi fasti l’idea di una ragione trascendente, non perda però nemmeno di vista il potenziale euristico contenuto nell’idea di progresso.

All’interno della così detta filosofia continentale l’espressione “filosofia della storia” è quasi immediatamente associata ai méta-récits lyotardiani, a quei grandi racconti teleologici che avrebbero costruito e definito l’episteme moderna. Fare “filosofia della storia”, in tale contesto teorico-filosofico, significa più o meno questo: identificare la tendenza fondamentale del nostro tempo, costruire una storia filosofica dell’Occidente, tracciare le linee di sviluppo della storia, in breve capire dove stiamo andando e perché ci stiamo andando. Questo tipo di filosofia della storia ha largamente perduto il credito e l’attrattiva che pure, in alcuni momenti del nostro passato storico-filosofico, le è stato concesso. Che essa si sia davvero ritirata – e, ancora prima, che essa possa davvero ritirarsi – dall’orizzonte euristico-ermeneutico attuale e futuro è un’altra questione su cui intendo ritornare in seguito. Se pare azzardato e anacronistico ricercare qualcosa come una razionalità, un significato o una direzione generale nella storia 1, nulla sembra opporsi a una ricerca di tipo metodologico o epistemologico sul sapere storico. Si inserisce in questo filone il lavoro condotto, per esempio, all’interno della tradizione filosofica

anglosassone; ma è anche l’approccio adottato, sulla scia della scuola francese dei vari Canguillhem e Bachelard, da Michel Foucault che, non a caso, all’inizio dell’Archeologia del sapere rivendicava l’indipendenza delle proprie ricerche dalle storie teleologico-progressive (Foucault 1969, p. 16). Questa distinzione preliminare è in qualche modo parallela a quella usualmente tracciata tra etica normativa e meta-etica: qui come lì si vuole in qualche modo porsi su un piano ideologicamente neutrale, critico piuttosto che positivo-normativo, metodologico piuttosto che sostanziale. Se a questo punto ci rivolgiamo alla categoria di progresso, ci sono almeno due diverse angolazioni (simili anche se non del tutto sovrapponibili alle due fin qui enunciate) da cui possiamo impostare il problema. La prima si concretizza nella domanda: si dà progresso nella storia dell’umanità? Posta in questi termini, la questione è evidentemente poco interessante: prima di poter rispondere dovremmo accordarci sui criteri di ciò che chiamiamo “progresso”, sull’estensione della parola “storia” e su ciò che vogliamo chiamare “umanità”. Qui non si tratta di negare la possibilità di un accordo minimale ma di capire, credo, che quello che cercavamo non era una risposta alla domanda da cui siamo

Utopia e fantascienza: disillusioni del progresso. Progress in utopia and science-fiction: the role of the future.

principio. La metafantascienza, dal canto suo, non si è accontentata di creare begli esperimenti mentali su cui far riflettere una società altamente tecnologizzata e poco responsabile: ha voluto mostrare che siamo da sempre dentro allo specchio, ha voluto mettere potentemente a nudo la sostanza entropica della nostra concezione di progresso – l’iperrealtà non è altro che questo svelamento. Ciò che allora veramente inquieta degli universi fantascientifici – perché «la fantascienza gioca sempre con la nostra inquietudine, anche quando si presenta come rassicurante» (Goimard 1980, p. 101) – non è tanto l’artificio letterario, il nonsense, la violazione dei basilari canoni del realismo: ciò che inquieta – lezione di kafkiana memoria – è che quegli universi apparentemente insensati, onirici, meccanico-operazionali, utopico-distopici e quindi infine entropici sono presentati come il risultato, nel futuro, di un lungo processo di integrazione potere-tecnologia che ha avuto origine in un passato non troppo distante. Cioè, il nostro presente. Il mondo della fantascienza non se ne sta nel distante regno della speculazione filosofica come le nuove Atlantidi dell’utopia letteraria, o le più vicine (ma ancora non abbastanza) Lilliput, Brobdingnag etc: è niente di meno che il nostro mondo, con le sue contraddizioni elevate al massimo grado.

/Luca Bozzato//

Bibliografia

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Spedding, J. (a cura di), 1861, The Letters and Life of F. Bacon, including his occasional works, (7 voll.), London.

/Ripensare il progresso. Rethinking progress./

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Queste le prime due parole del titolo del suo libro Cultural Pessimism: Narratives of Decline in the Postmodern World, tradotto in italiano (Pessimismo culturale) per i tipi del Mulino.

Si tratta del concetto introdotto da Dawkins per indicare, in un senso che non interessa qui approfondire, l’equivalente culturale del gene (si veda Dawkins 1976).

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Si tratta, in fondo, di un’estensione all’ambito della storia delle idee della celebre tesi vichiana dei corsi e ricorsi storici.

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Non si tratta, chiaramente, di una decisione intenzionale né questa vuole essere una ricostruzione storica di un percorso di pensiero.

Scrive Heidegger (1943, p. 198) a proposito dell’operazione critica nietzscheana: “in quanto semplice controcorrente, essa resta necessariamente conforme, come ogni ‘anti-’, alla natura di ciò contro cui si volge. L’antimetafisica di Nietzsche, in quanto semplice capovolgimento della metafisica, è un irretimento nella metafisica stessa [...]”.

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2 Così la definiva già nel 1833 Heinrich Heine (cfr. La scuola Romantica, in Id., La Germania, a cura di B. Chiarini, Bari, Laterza, 1972, pp. 1-168, p. 135).

Ripensare il progresso. Rethinking progress.Ripensare il progresso. Rethinking progress.

partiti. La seconda angolazione da cui esplorare le vicissitudini del progresso consiste nell’interrogarsi sull’uso che si fa, e che è stato fatto, di questo concetto. È in questa direzione che intendo muovermi. A partire dalla fine dell’Ottocento la persuasione che, parafrasando Kant, “il genere umano sia in costante progresso verso il meglio” cominciò gradualmente a erodersi: Nietzsche (1888, § 4, p. 5), definendola come “semplicemente un’idea moderna, cioè un’idea falsa” inaugurava quell’interminabile serie di sferzate teoriche che, nel corso del Novecento, avrebbe costretto l’idea di progresso nella categoria del mito, dell’illusorio, e infine dell’ideologico, fino a riconoscerne la sostanziale sconfitta e abbandonarla come idolo dell’epoca scientifica, come nuova religione sorta dalla scienza 2. Ne Il conflitto delle interpretazioni, Paul Ricoeur ha distinto due funzioni o modalità della demitizzazione. La prima – la demitizzazione come demistificazione – consiste nel “riconoscere il mito come mito [...] per rinunciarvi” (Ricoeur 1969, p. 349). La seconda – la demitizzazione come demitologizzazione – consiste, invece, nel “riconoscere il mito come un mito, ma allo scopo di liberarne il fondo simbolico”. In questo caso ciò che si deve distruggere è “lo pseudologo del mito” ovvero “la razionalizzazione in seconda istanza che lo tiene prigioniero” (ibid.). Ebbene, uno dei tratti caratteristici della cultura (filosofica e non) post-moderna è stata proprio l’incapacità, o il rifiuto, di provare a dare un senso al potenziale teoretico e insieme pratico contenuto in questa distinzione. Uno degli effetti

di tale decisione 3 – non solo di questa, ovviamente – è stata l’elaborazione, ancora in voga, di alcune tesi che a uno sguardo attento appaiono, nel migliore dei casi, piuttosto tranchant, ingenue e contestabili, nel peggiore decisamente fallaci. Qui si intende presentarne alcune la cui struttura è riconducibile a due modelli ovvero a due tipi di operazioni teoriche: (a) la costruzione di filosofie della storia rovesciate dove la critica ai racconti teleologici progressisti si limita, semplicemente e paradossalmente, a invertirne il segno narrando storie di decadenza e declino o, più radicalmente, prospettando scenari apocalittici; (b) la fabbricazione e l’assunzione, spesso tacita, di falsi dilemmi (del tipo: o il progresso nell’accezione tardo-settecentesca e ottocentesca o il non senso; o il progresso come raggiungimento di una perfezione e trasparenza finale o la rinuncia a qualsiasi concetto normativo di progresso).

È piuttosto nota, anche a chi non è specialista o cultore della filosofia heideggeriana, la critica che il filosofo tedesco muoveva alla decostruzione nietzscheana della metafisica. Il teorico della morte di Dio, limitandosi a un rovesciamento della metafisica (a un’antimetafisica, dice Heidegger) ne sarebbe in qualche modo rimasto conforme e, sostanzialmente, prigioniero

4. L’idea è, più o meno, che se si rovescia o capovolge una tesi, si finisce – o meglio, si comincia – con l’assumerne i presupposti. Ora, la critica heideggeriana potrebbe non presentare alcun problema se si concedesse che tali presupposti

sono, almeno in parte, corretti; il punto è che tali rovesciamenti intendono invece, generalmente, superare e uscire completamente dalla prospettiva che criticano. Non mi pare perciò eccessivamente azzardato attribuire a Heidegger una mossa analoga a quella che egli rimprovera a Nietzsche perché l’idea che, dopo i presocratici, una continua e inesorabile decadenza abbia travolto e definito la cultura occidentale non è altro che la controparte, il doppio negativo, il rovesciamento (lo si dica come si vuole), della teleologia progressista moderna. Non basta invertire la direzione della storia, spostare il luogo del telos, insomma sostituire il regresso al progresso, per tagliare i ponti con le imbarazzanti (per un contemporaneo) filosofie della storia che hanno accompagnato e qualificato l’epoca che chiamiamo “moderna”. Nel 1931 Herbert Butterfield coniò il termine “Whig history” per indicare e stigmatizzare quell’orientamento storiografico che, leggendo il passato come una storia di progresso verso il presente, confezionava una serie interminabile di distorsioni interpretative. Potremmo dire che la Whig history è in qualche modo il corrispettivo, sul piano della narrazione storica e della teorizzazione politica, delle teorie del progresso illuministe. Ora, è interessante osservare come la critica a questo tipo di impostazione, considerata fuorviante se non aberrante, non abbia impedito di sviluppare modalità di scrittura e interpretazione storico-politica che paiono ricalcarne le orme seppure, ancora una volta, invertendo la direzione di marcia della storia. Se

accorpiamo storie filosofiche e lavori di taglio più prettamente scientifico (quelli rubricati, per intenderci, nell’ambito delle così dette “scienze storico-sociali”) possiamo dire che, dopo la crisi e la disfatta che nel corso del Novecento ha investito i grandi racconti progressisti dei due secoli precedenti, si è assistito a un trionfo di alcuni modelli narrativi che, paradossalmente, hanno fatto del regresso, del declino e della catastrofe il senso delle magnifiche sorti e progressive. Ho richiamato la posizione heideggeriana, ma i riferimenti si potrebbero moltiplicare tendenzialmente all’infinito: da quel filone che cavalca l’onda di una dialettica dell’illuminismo o che, più radicalmente, ritiene il progetto illuministico in sé – e il liberalismo, suo corollario politico – all’origine dei mali del mondo contemporaneo (tra gli altri, MacIntyre e la letteratura comunitarista), ai meta-racconti articolati in termini messianici o apocalittici (in modi diversi Fukuyama e Virilio). I racconti epocali di decadenza non sono, peraltro, una novità del panorama contemporaneo. Al contrario, essi accompagnano la storia intellettuale dell’Occidente da Esiodo a Spengler passando per Rousseau. Vederli ricomparire, però, sia pure in forme più sofisticate e informate, può lasciare un senso di profonda insoddisfazione. Perché la disillusione dal sogno progressista deve cedere il posto a sospetti di tramonto o a incubi apocalittici? Pare proprio che questa volta la Querelle des anciens et des modernes la si voglia a tutti i costi perdere. Le spiegazioni di questo proliferare di racconti di regressione

sono molteplici e si collocano su piani differenti. Se assumiamo l’ottica dello storico delle idee osserveremo, come già Arthur Lovejoy aveva a suo tempo fatto, che nella storia intellettuale esiste un’oscillazione periodica nei modi e nelle forme del pensare e che perciò teorie antitetiche, come quella del progresso e della decadenza, si richiamano e si alternano ciclicamente 5. Se seguiamo Oliver Bennett e la sua analisi del “pessimismo culturale” 6 saremo spinti a ricercare a livello socio-psicologico le ragioni della fortuna del refrain decadentista. Se, ancora, troviamo persuasiva la teoria dawkinsiana dei memi 7, possiamo avvalerci di questo dispositivo teorico per giustificarci l’incontenibile diffusione dei disincanti postmoderni. E così via. È difficile, peraltro, non provare l’impressione che Paolo Rossi abbia pienamente ragione quando, con la vis polemica che lo contraddistingue nel contestare “gli araldi della disperazione” (Rossi 2008, p. 27), scrive: “Il puro e semplice rovesciamento del fiducioso ottimismo in una visione tragica o apocalittica della storia non è affatto, di per sé, un fatto positivo, né offre, di per sé, una qualche garanzia di ‘maggiore profondità’” (Rossi 1995, p. 10). Eppure, sarebbe proprio questa pretesa di profondità e spessore a rendere così attraenti e convincenti le diagnosi di declino che circolano numerose tanto nello spazio della cultura accademica quanto in quello giornalistico-pubblicistico: “Il pessimismo appare sempre (spesso a buon mercato) più nobile e profondo di una visione che fa appello alle ragioni della

speranza” (Rossi 2008, p. 28). A questi quadri esplicativi, tuttavia, si potrebbe rimproverare la messa in atto di uno scollamento ingiustificato delle teorie della storia dal contesto storico che le genera e al cui interno vanno comprese. In altri termini, si potrebbe ribattere che le valutazioni “di regresso” sono in qualche modo il riflesso del mondo in cui viviamo così come quelle “di progresso” lo erano in riferimento all’Europa del Settecento e dell’Ottocento. Un’obiezione di questo tipo lascia il tempo che trova e per svariate ragioni alquanto intuitive che mi limito qui a enunciare in modo piuttosto dogmatico. Innanzitutto, il rapporto tra teoria e storia non può essere inteso in senso derivativo-riduzionistico, in un verso o nell’altro, ma va compreso in un’ottica in senso lato dialettica. In secondo luogo, ma la chiusura della lista è del tutto arbitraria, se anche si potesse concepire un rapporto speculare, sarebbe piuttosto difficile rendere plausibile l’idea di un periodo storico in cui le cose andavano oggettivamente meglio rispetto a un altro (meglio per chi? Sulla base di quali criteri?). In tal caso, peraltro, se pure convenissimo su un qualche criterio, se pure potessimo dare un senso a tale confronto, è probabile che finiremmo per affermare (se non altro perché, tautologicamente, sono i nostri criteri attuali e formati nel nostro contesto a improntare la valutazione che diamo) che viviamo meglio di duecento anni fa. Se ora, sulla scorta di queste ultime battute, e abbandonate le spiegazioni di stampo storico-sociologico, vogliamo tentare ancora qualche considerazione

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Queste le prime due parole del titolo del suo libro Cultural Pessimism: Narratives of Decline in the Postmodern World, tradotto in italiano (Pessimismo culturale) per i tipi del Mulino.

Si tratta del concetto introdotto da Dawkins per indicare, in un senso che non interessa qui approfondire, l’equivalente culturale del gene (si veda Dawkins 1976).

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Si tratta, in fondo, di un’estensione all’ambito della storia delle idee della celebre tesi vichiana dei corsi e ricorsi storici.

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Non si tratta, chiaramente, di una decisione intenzionale né questa vuole essere una ricostruzione storica di un percorso di pensiero.

Scrive Heidegger (1943, p. 198) a proposito dell’operazione critica nietzscheana: “in quanto semplice controcorrente, essa resta necessariamente conforme, come ogni ‘anti-’, alla natura di ciò contro cui si volge. L’antimetafisica di Nietzsche, in quanto semplice capovolgimento della metafisica, è un irretimento nella metafisica stessa [...]”.

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2 Così la definiva già nel 1833 Heinrich Heine (cfr. La scuola Romantica, in Id., La Germania, a cura di B. Chiarini, Bari, Laterza, 1972, pp. 1-168, p. 135).

Ripensare il progresso. Rethinking progress.Ripensare il progresso. Rethinking progress.

partiti. La seconda angolazione da cui esplorare le vicissitudini del progresso consiste nell’interrogarsi sull’uso che si fa, e che è stato fatto, di questo concetto. È in questa direzione che intendo muovermi. A partire dalla fine dell’Ottocento la persuasione che, parafrasando Kant, “il genere umano sia in costante progresso verso il meglio” cominciò gradualmente a erodersi: Nietzsche (1888, § 4, p. 5), definendola come “semplicemente un’idea moderna, cioè un’idea falsa” inaugurava quell’interminabile serie di sferzate teoriche che, nel corso del Novecento, avrebbe costretto l’idea di progresso nella categoria del mito, dell’illusorio, e infine dell’ideologico, fino a riconoscerne la sostanziale sconfitta e abbandonarla come idolo dell’epoca scientifica, come nuova religione sorta dalla scienza 2. Ne Il conflitto delle interpretazioni, Paul Ricoeur ha distinto due funzioni o modalità della demitizzazione. La prima – la demitizzazione come demistificazione – consiste nel “riconoscere il mito come mito [...] per rinunciarvi” (Ricoeur 1969, p. 349). La seconda – la demitizzazione come demitologizzazione – consiste, invece, nel “riconoscere il mito come un mito, ma allo scopo di liberarne il fondo simbolico”. In questo caso ciò che si deve distruggere è “lo pseudologo del mito” ovvero “la razionalizzazione in seconda istanza che lo tiene prigioniero” (ibid.). Ebbene, uno dei tratti caratteristici della cultura (filosofica e non) post-moderna è stata proprio l’incapacità, o il rifiuto, di provare a dare un senso al potenziale teoretico e insieme pratico contenuto in questa distinzione. Uno degli effetti

di tale decisione 3 – non solo di questa, ovviamente – è stata l’elaborazione, ancora in voga, di alcune tesi che a uno sguardo attento appaiono, nel migliore dei casi, piuttosto tranchant, ingenue e contestabili, nel peggiore decisamente fallaci. Qui si intende presentarne alcune la cui struttura è riconducibile a due modelli ovvero a due tipi di operazioni teoriche: (a) la costruzione di filosofie della storia rovesciate dove la critica ai racconti teleologici progressisti si limita, semplicemente e paradossalmente, a invertirne il segno narrando storie di decadenza e declino o, più radicalmente, prospettando scenari apocalittici; (b) la fabbricazione e l’assunzione, spesso tacita, di falsi dilemmi (del tipo: o il progresso nell’accezione tardo-settecentesca e ottocentesca o il non senso; o il progresso come raggiungimento di una perfezione e trasparenza finale o la rinuncia a qualsiasi concetto normativo di progresso).

È piuttosto nota, anche a chi non è specialista o cultore della filosofia heideggeriana, la critica che il filosofo tedesco muoveva alla decostruzione nietzscheana della metafisica. Il teorico della morte di Dio, limitandosi a un rovesciamento della metafisica (a un’antimetafisica, dice Heidegger) ne sarebbe in qualche modo rimasto conforme e, sostanzialmente, prigioniero

4. L’idea è, più o meno, che se si rovescia o capovolge una tesi, si finisce – o meglio, si comincia – con l’assumerne i presupposti. Ora, la critica heideggeriana potrebbe non presentare alcun problema se si concedesse che tali presupposti

sono, almeno in parte, corretti; il punto è che tali rovesciamenti intendono invece, generalmente, superare e uscire completamente dalla prospettiva che criticano. Non mi pare perciò eccessivamente azzardato attribuire a Heidegger una mossa analoga a quella che egli rimprovera a Nietzsche perché l’idea che, dopo i presocratici, una continua e inesorabile decadenza abbia travolto e definito la cultura occidentale non è altro che la controparte, il doppio negativo, il rovesciamento (lo si dica come si vuole), della teleologia progressista moderna. Non basta invertire la direzione della storia, spostare il luogo del telos, insomma sostituire il regresso al progresso, per tagliare i ponti con le imbarazzanti (per un contemporaneo) filosofie della storia che hanno accompagnato e qualificato l’epoca che chiamiamo “moderna”. Nel 1931 Herbert Butterfield coniò il termine “Whig history” per indicare e stigmatizzare quell’orientamento storiografico che, leggendo il passato come una storia di progresso verso il presente, confezionava una serie interminabile di distorsioni interpretative. Potremmo dire che la Whig history è in qualche modo il corrispettivo, sul piano della narrazione storica e della teorizzazione politica, delle teorie del progresso illuministe. Ora, è interessante osservare come la critica a questo tipo di impostazione, considerata fuorviante se non aberrante, non abbia impedito di sviluppare modalità di scrittura e interpretazione storico-politica che paiono ricalcarne le orme seppure, ancora una volta, invertendo la direzione di marcia della storia. Se

accorpiamo storie filosofiche e lavori di taglio più prettamente scientifico (quelli rubricati, per intenderci, nell’ambito delle così dette “scienze storico-sociali”) possiamo dire che, dopo la crisi e la disfatta che nel corso del Novecento ha investito i grandi racconti progressisti dei due secoli precedenti, si è assistito a un trionfo di alcuni modelli narrativi che, paradossalmente, hanno fatto del regresso, del declino e della catastrofe il senso delle magnifiche sorti e progressive. Ho richiamato la posizione heideggeriana, ma i riferimenti si potrebbero moltiplicare tendenzialmente all’infinito: da quel filone che cavalca l’onda di una dialettica dell’illuminismo o che, più radicalmente, ritiene il progetto illuministico in sé – e il liberalismo, suo corollario politico – all’origine dei mali del mondo contemporaneo (tra gli altri, MacIntyre e la letteratura comunitarista), ai meta-racconti articolati in termini messianici o apocalittici (in modi diversi Fukuyama e Virilio). I racconti epocali di decadenza non sono, peraltro, una novità del panorama contemporaneo. Al contrario, essi accompagnano la storia intellettuale dell’Occidente da Esiodo a Spengler passando per Rousseau. Vederli ricomparire, però, sia pure in forme più sofisticate e informate, può lasciare un senso di profonda insoddisfazione. Perché la disillusione dal sogno progressista deve cedere il posto a sospetti di tramonto o a incubi apocalittici? Pare proprio che questa volta la Querelle des anciens et des modernes la si voglia a tutti i costi perdere. Le spiegazioni di questo proliferare di racconti di regressione

sono molteplici e si collocano su piani differenti. Se assumiamo l’ottica dello storico delle idee osserveremo, come già Arthur Lovejoy aveva a suo tempo fatto, che nella storia intellettuale esiste un’oscillazione periodica nei modi e nelle forme del pensare e che perciò teorie antitetiche, come quella del progresso e della decadenza, si richiamano e si alternano ciclicamente 5. Se seguiamo Oliver Bennett e la sua analisi del “pessimismo culturale” 6 saremo spinti a ricercare a livello socio-psicologico le ragioni della fortuna del refrain decadentista. Se, ancora, troviamo persuasiva la teoria dawkinsiana dei memi 7, possiamo avvalerci di questo dispositivo teorico per giustificarci l’incontenibile diffusione dei disincanti postmoderni. E così via. È difficile, peraltro, non provare l’impressione che Paolo Rossi abbia pienamente ragione quando, con la vis polemica che lo contraddistingue nel contestare “gli araldi della disperazione” (Rossi 2008, p. 27), scrive: “Il puro e semplice rovesciamento del fiducioso ottimismo in una visione tragica o apocalittica della storia non è affatto, di per sé, un fatto positivo, né offre, di per sé, una qualche garanzia di ‘maggiore profondità’” (Rossi 1995, p. 10). Eppure, sarebbe proprio questa pretesa di profondità e spessore a rendere così attraenti e convincenti le diagnosi di declino che circolano numerose tanto nello spazio della cultura accademica quanto in quello giornalistico-pubblicistico: “Il pessimismo appare sempre (spesso a buon mercato) più nobile e profondo di una visione che fa appello alle ragioni della

speranza” (Rossi 2008, p. 28). A questi quadri esplicativi, tuttavia, si potrebbe rimproverare la messa in atto di uno scollamento ingiustificato delle teorie della storia dal contesto storico che le genera e al cui interno vanno comprese. In altri termini, si potrebbe ribattere che le valutazioni “di regresso” sono in qualche modo il riflesso del mondo in cui viviamo così come quelle “di progresso” lo erano in riferimento all’Europa del Settecento e dell’Ottocento. Un’obiezione di questo tipo lascia il tempo che trova e per svariate ragioni alquanto intuitive che mi limito qui a enunciare in modo piuttosto dogmatico. Innanzitutto, il rapporto tra teoria e storia non può essere inteso in senso derivativo-riduzionistico, in un verso o nell’altro, ma va compreso in un’ottica in senso lato dialettica. In secondo luogo, ma la chiusura della lista è del tutto arbitraria, se anche si potesse concepire un rapporto speculare, sarebbe piuttosto difficile rendere plausibile l’idea di un periodo storico in cui le cose andavano oggettivamente meglio rispetto a un altro (meglio per chi? Sulla base di quali criteri?). In tal caso, peraltro, se pure convenissimo su un qualche criterio, se pure potessimo dare un senso a tale confronto, è probabile che finiremmo per affermare (se non altro perché, tautologicamente, sono i nostri criteri attuali e formati nel nostro contesto a improntare la valutazione che diamo) che viviamo meglio di duecento anni fa. Se ora, sulla scorta di queste ultime battute, e abbandonate le spiegazioni di stampo storico-sociologico, vogliamo tentare ancora qualche considerazione

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Questa domanda è stata sollevata e discussa in modo particolarmente interessante da Hutchings 2008.

Si precisa che la precedenza del teoretico al pratico viene assunta astrattamente, per amor di ragionamento.

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Ripensare il progresso. Rethinking progress.Ripensare il progresso. Rethinking progress.

del progresso, sembra che l’unica via sia quella che passa per la destituzione della ragione e la dichiarazione della inevitabile contingenza – in senso negativo – di ogni ricostruzione che si appelli al termine di “storia”. Come dire: o il progresso o il non senso, o la verità oggettiva o l’ineludibile rinuncia ad ogni aspirazione normativa dell’idea di progresso. Questa posizione, che potremmo grossolanamente etichettare come un errato relativismo, finisce per fare come quell’agave di cui parlava Montale: abbarbicata allo scoglio della critica, essa non fa che riproporre i dualismi che odia nella metafisica e che vorrebbe dissolvere, precludendosi così la possibilità di sfruttare il potenziale prognostico di un progresso diversamente inteso (cfr. Koselleck 1991, p. 110). Possiamo tentare di distinguere crescita da progresso. In questo modo, cerchiamo di separare due aspetti che generalmente vengono confusi nell’idea di progresso, cioè un moto retrospettivo e uno prospettivo. Crescita si riferisce infatti esplicitamente al passato, è il processo mediante il quale, generalmente, nuove formazioni vengono all’esistenza, costruendosi su quelle precedenti. Ora, è ben vero che ogni progresso implica una crescita, ma ci aggiunge qualcosa di nuovo: una meta, un supposto traguardo verso il quale si pensa che la crescita stia avanzando. Come intendere questa meta? Le teorie del progresso tardo-settecentesche e ottocentesche riponevano nella ragione umana “smisurate speranze” (cfr. Rossi 2008): è la sua presunta universalità e oggettività – cioè libertà dalle pastoie dell’individuale e del

contingente – a fare da sfondo a dette teorie. La critica alle posizioni illuministe, che potremmo sintetizzare come la scoperta della storicità della ragione, approda da un lato alla riproposizione delle stesse teorie con segno negativo, dall’altro alla negazione di ogni rapporto umano con la trascendenza – almeno nel senso dell’eccedenza temporale del futuro rispetto al presente. La filosofia che i “postmoderni” citati da Bernstein offrono è, in senso letterale, “senza speranze” – se la storia, e in particolare l’avvenire, è il luogo dove si gioca la dialettica tra le attese e i timori.

Dunque, il riconoscimento della storicità della ragione porta inevitabilmente alla disperazione? O non è forse il caso di chiedersi se è possibile uscire da questa trappola delle impostazioni binarie e ricomporre i dualismi? Tra speranza e disperazione tertium non datur, oppure è lecito interrogarsi, come faceva Bacone, sulla possibilità che esistano “ragionevoli speranze” per non disperare? La via, nella riflessione filosofica, c’è ed è stata aperta dall’ermeneutica su un versante e dal pragmatismo sull’altro. Entrambe le posizioni si preoccupano di evitare i dualismi che portano a una filosofia “senza speranze”, riconoscendo la paritaria validità delle due spinte che agiscono sulla ragione umana: la sua radicale storicità, ma anche la sua pretesa di normatività. Richiamando il già citato Ricoeur, occorre far seguire al momento puramente demistificatorio quello demitologizzante. Nel nostro caso, si tratta di seguire

le intuizioni che non mascherano l’impossibilità della ragione di raggiungere “il punto di vista dell’occhio di Dio”, per dirla con Putnam, né il fatto che la verità non sia un trovato ma un prodotto – Rorty amava dire che non è il mondo a parlare, ma solamente noi; che la contingenza e i suoi presupposti non sono un fardello per l’operato della ragione, ma che costituiscono la sua stessa possibilità: limitatezza non significa inefficienza. Esattamente in una filosofia che guardi ai limiti come ineludibili e radicali, ma positivamente come condizioni entro le quali, solo, si ha esperienza, è possibile recuperare un senso del progresso come ideale regolativo, capace di dare unità e organicità alle nostre azioni, e che solo a causa di un uso improprio può venire definito illusione. Esiste, in qualche modo, una tensione tra il piano metodologico-ermeneutico dove, a ragione, regnano l’invito a non leggere la storia in senso progressivo nonché il riconoscimento del carattere ingiustificato e talvolta controproducente (e non solo, come si è visto, a livello teorico) di alcune assunzioni temporali progressiste (ma più in generale, teleologiche) e il piano che potremmo invece definire, in senso lato, etico dove il progresso è un’idea di cui, per dirla ancora con Salvadori, non possiamo fare a meno. Dovrebbe essere ormai assodato, peraltro, che si tratta di un progresso riscoperto e ri-semantizzato: per un verso, nel quadro di una filosofia dei limiti che faccia dell’uomo e del suo cammino non un libro già scritto in attesa di essere letto, ma un compito assegnato e sempre continuamente da

di calibro più specificamente filosofico, possiamo domandarci: che relazione esiste tra le analisi ermeneutico-descrittive e normative della politica mondiale e i modi di concettualizzare il tempo storico? 8 Presupposto sotteso a questo interrogativo è l’idea che le assunzioni temporali incorporate nelle teorie della politica mondiale giochino un ruolo fondamentale nella comprensione analitica e nella valutazione normativa di quanto accade, a livello socio-politico, nel mondo in cui viviamo. Se le cose stanno così, una lettura teleologica della storia (in un verso o nell’altro) non è solo un abbaglio metodologico-storiografico ma può avere implicazioni a più ampio raggio sul modo in cui valutiamo il presente e pensiamo il futuro. Il problema, a questo punto, diventa quello di capire quali delle nostre assunzioni temporali siano davvero giustificate e irrinunciabili e, soprattutto, quali ci permettano le migliori diagnosi e valutazioni dell’epoca storica in cui ci troviamo a vivere e del futuro che attende noi e le generazioni future. Quando si parla di modalità di concettualizzazione del tempo storico-politico non si intende riferirsi esclusivamente alle letture standard della storia in termini di ripetizione, progresso, declino e apocalissi, ma a tutta quella costellazione di modelli della temporalità che fanno da sfondo – a volte esplicito, più spesso implicito – ai modi in cui ci autorappresentiamo e comprendiamo storicamente. In che misura, per esempio, si può dire che le attuali letture della politica mondiale siano libere da una concezione unitaria e monolitica

del tempo dove “una particolare configurazione dell’esperienza temporale, caratteristica della modernità occidentale, è universalizzata (negativamente o positivamente) nella temporalità omogenea del presente”? (Hutchings 2008, p. 154, trad. mia). Oppure: in che misura le narrazioni contemporanee eludono quel “dispiegamento metastorico dei significati ideali e delle indefinite teleologie” (Foucault 1971, p. 30) e quella “ricerca delle origini” a cui Foucault contrapponeva, con Nietzsche, quel “gioco casuale delle dominazioni” (ivi, p. 38) scovato dalla storia genealogica? O ancora – e questa volta contro Foucault: è davvero legittimo, e che conseguenze teoriche comporta, servirsi di costruzioni epocali, ipotizzare l’esistenza di un paradigma dominante o di un’episteme specifica di un certo secolo o stagione storica? Sono domande, queste, che mirano a suggerire quanto alcune assunzioni filosofiche sul tempo e sulla storia, alcuni fantasmi della modernità, si potrebbe dire – che, forse, credevamo di esserci per sempre lasciati alle spalle – in forma esplicita o implicita, in forma canonica o rovesciata, continuino a informare i nostri schemi ermeneutici e, di conseguenza, le nostre azioni e scelte pratiche.

Possiamo fare a meno dell’idea di progresso? Il dubbio di M. Salvadori (2006) suona quanto mai pertinente. Abbiamo già osservato che la semplice inversione del segno non è sufficiente né a comprendere né a sradicare le ideologie del progresso, poiché questa operazione si

limita a scambiare capo e coda alla “linea del tempo” e non esce dall’illusione di poter predire il destino dell’Occidente, sia esso la perfezione o il tramonto. Scrive a proposito Rossi (2008, p. 16): “Penso che dopo una montagna di errori compiuti, sia davvero giunta l’ora di abbandonare i profeti (anche quelli travestiti da filosofi) al loro destino. A differenza di coloro che credono nel Progresso […], anche a differenza di coloro che riscrivono il Libro dell’Apocalisse e profetizzano un immancabile Futuro Catastrofico, penso che si possano soltanto raccontare storie e che La Storia (vale a dire il senso della storia, la sua struttura, la sua direzione) ci sia e ci sia sempre stata preclusa”.E tuttavia riesce difficile resistere alla suggestione di Vattimo (2002) che un certo declino – almeno nel senso, sulla cui valutazione torneremo in seguito, dell’indebolimento delle categorie metafisiche – non appartenga come destino alla “terra dell’occaso”. Come si è visto nel raffronto Nietzsche-Heidegger, la posta in gioco filosofica (teoretica, prima che pratica 9) per cui si combatte la battaglia tra progressisti e anti-progressisti è precisamente la validità della metafisica occidentale e delle sue categorie: il linguaggio, l’universale, il razionale, il totale, l’uno, etc. In una parola, la validità della Verità. Vede bene Bernstein (1999, p. 23), che “con i loro attacchi implacabili al logocentrismo, all’universalità, alla razionalità, all’unità e alla totalità, molti pensatori “postmoderni” ci inducono a ingannevoli (e disastrosi) aut aut”. Se le letture catastrofiche non sono, e non possono essere, un antidoto alle ideologie

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Questa domanda è stata sollevata e discussa in modo particolarmente interessante da Hutchings 2008.

Si precisa che la precedenza del teoretico al pratico viene assunta astrattamente, per amor di ragionamento.

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del progresso, sembra che l’unica via sia quella che passa per la destituzione della ragione e la dichiarazione della inevitabile contingenza – in senso negativo – di ogni ricostruzione che si appelli al termine di “storia”. Come dire: o il progresso o il non senso, o la verità oggettiva o l’ineludibile rinuncia ad ogni aspirazione normativa dell’idea di progresso. Questa posizione, che potremmo grossolanamente etichettare come un errato relativismo, finisce per fare come quell’agave di cui parlava Montale: abbarbicata allo scoglio della critica, essa non fa che riproporre i dualismi che odia nella metafisica e che vorrebbe dissolvere, precludendosi così la possibilità di sfruttare il potenziale prognostico di un progresso diversamente inteso (cfr. Koselleck 1991, p. 110). Possiamo tentare di distinguere crescita da progresso. In questo modo, cerchiamo di separare due aspetti che generalmente vengono confusi nell’idea di progresso, cioè un moto retrospettivo e uno prospettivo. Crescita si riferisce infatti esplicitamente al passato, è il processo mediante il quale, generalmente, nuove formazioni vengono all’esistenza, costruendosi su quelle precedenti. Ora, è ben vero che ogni progresso implica una crescita, ma ci aggiunge qualcosa di nuovo: una meta, un supposto traguardo verso il quale si pensa che la crescita stia avanzando. Come intendere questa meta? Le teorie del progresso tardo-settecentesche e ottocentesche riponevano nella ragione umana “smisurate speranze” (cfr. Rossi 2008): è la sua presunta universalità e oggettività – cioè libertà dalle pastoie dell’individuale e del

contingente – a fare da sfondo a dette teorie. La critica alle posizioni illuministe, che potremmo sintetizzare come la scoperta della storicità della ragione, approda da un lato alla riproposizione delle stesse teorie con segno negativo, dall’altro alla negazione di ogni rapporto umano con la trascendenza – almeno nel senso dell’eccedenza temporale del futuro rispetto al presente. La filosofia che i “postmoderni” citati da Bernstein offrono è, in senso letterale, “senza speranze” – se la storia, e in particolare l’avvenire, è il luogo dove si gioca la dialettica tra le attese e i timori.

Dunque, il riconoscimento della storicità della ragione porta inevitabilmente alla disperazione? O non è forse il caso di chiedersi se è possibile uscire da questa trappola delle impostazioni binarie e ricomporre i dualismi? Tra speranza e disperazione tertium non datur, oppure è lecito interrogarsi, come faceva Bacone, sulla possibilità che esistano “ragionevoli speranze” per non disperare? La via, nella riflessione filosofica, c’è ed è stata aperta dall’ermeneutica su un versante e dal pragmatismo sull’altro. Entrambe le posizioni si preoccupano di evitare i dualismi che portano a una filosofia “senza speranze”, riconoscendo la paritaria validità delle due spinte che agiscono sulla ragione umana: la sua radicale storicità, ma anche la sua pretesa di normatività. Richiamando il già citato Ricoeur, occorre far seguire al momento puramente demistificatorio quello demitologizzante. Nel nostro caso, si tratta di seguire

le intuizioni che non mascherano l’impossibilità della ragione di raggiungere “il punto di vista dell’occhio di Dio”, per dirla con Putnam, né il fatto che la verità non sia un trovato ma un prodotto – Rorty amava dire che non è il mondo a parlare, ma solamente noi; che la contingenza e i suoi presupposti non sono un fardello per l’operato della ragione, ma che costituiscono la sua stessa possibilità: limitatezza non significa inefficienza. Esattamente in una filosofia che guardi ai limiti come ineludibili e radicali, ma positivamente come condizioni entro le quali, solo, si ha esperienza, è possibile recuperare un senso del progresso come ideale regolativo, capace di dare unità e organicità alle nostre azioni, e che solo a causa di un uso improprio può venire definito illusione. Esiste, in qualche modo, una tensione tra il piano metodologico-ermeneutico dove, a ragione, regnano l’invito a non leggere la storia in senso progressivo nonché il riconoscimento del carattere ingiustificato e talvolta controproducente (e non solo, come si è visto, a livello teorico) di alcune assunzioni temporali progressiste (ma più in generale, teleologiche) e il piano che potremmo invece definire, in senso lato, etico dove il progresso è un’idea di cui, per dirla ancora con Salvadori, non possiamo fare a meno. Dovrebbe essere ormai assodato, peraltro, che si tratta di un progresso riscoperto e ri-semantizzato: per un verso, nel quadro di una filosofia dei limiti che faccia dell’uomo e del suo cammino non un libro già scritto in attesa di essere letto, ma un compito assegnato e sempre continuamente da

di calibro più specificamente filosofico, possiamo domandarci: che relazione esiste tra le analisi ermeneutico-descrittive e normative della politica mondiale e i modi di concettualizzare il tempo storico? 8 Presupposto sotteso a questo interrogativo è l’idea che le assunzioni temporali incorporate nelle teorie della politica mondiale giochino un ruolo fondamentale nella comprensione analitica e nella valutazione normativa di quanto accade, a livello socio-politico, nel mondo in cui viviamo. Se le cose stanno così, una lettura teleologica della storia (in un verso o nell’altro) non è solo un abbaglio metodologico-storiografico ma può avere implicazioni a più ampio raggio sul modo in cui valutiamo il presente e pensiamo il futuro. Il problema, a questo punto, diventa quello di capire quali delle nostre assunzioni temporali siano davvero giustificate e irrinunciabili e, soprattutto, quali ci permettano le migliori diagnosi e valutazioni dell’epoca storica in cui ci troviamo a vivere e del futuro che attende noi e le generazioni future. Quando si parla di modalità di concettualizzazione del tempo storico-politico non si intende riferirsi esclusivamente alle letture standard della storia in termini di ripetizione, progresso, declino e apocalissi, ma a tutta quella costellazione di modelli della temporalità che fanno da sfondo – a volte esplicito, più spesso implicito – ai modi in cui ci autorappresentiamo e comprendiamo storicamente. In che misura, per esempio, si può dire che le attuali letture della politica mondiale siano libere da una concezione unitaria e monolitica

del tempo dove “una particolare configurazione dell’esperienza temporale, caratteristica della modernità occidentale, è universalizzata (negativamente o positivamente) nella temporalità omogenea del presente”? (Hutchings 2008, p. 154, trad. mia). Oppure: in che misura le narrazioni contemporanee eludono quel “dispiegamento metastorico dei significati ideali e delle indefinite teleologie” (Foucault 1971, p. 30) e quella “ricerca delle origini” a cui Foucault contrapponeva, con Nietzsche, quel “gioco casuale delle dominazioni” (ivi, p. 38) scovato dalla storia genealogica? O ancora – e questa volta contro Foucault: è davvero legittimo, e che conseguenze teoriche comporta, servirsi di costruzioni epocali, ipotizzare l’esistenza di un paradigma dominante o di un’episteme specifica di un certo secolo o stagione storica? Sono domande, queste, che mirano a suggerire quanto alcune assunzioni filosofiche sul tempo e sulla storia, alcuni fantasmi della modernità, si potrebbe dire – che, forse, credevamo di esserci per sempre lasciati alle spalle – in forma esplicita o implicita, in forma canonica o rovesciata, continuino a informare i nostri schemi ermeneutici e, di conseguenza, le nostre azioni e scelte pratiche.

Possiamo fare a meno dell’idea di progresso? Il dubbio di M. Salvadori (2006) suona quanto mai pertinente. Abbiamo già osservato che la semplice inversione del segno non è sufficiente né a comprendere né a sradicare le ideologie del progresso, poiché questa operazione si

limita a scambiare capo e coda alla “linea del tempo” e non esce dall’illusione di poter predire il destino dell’Occidente, sia esso la perfezione o il tramonto. Scrive a proposito Rossi (2008, p. 16): “Penso che dopo una montagna di errori compiuti, sia davvero giunta l’ora di abbandonare i profeti (anche quelli travestiti da filosofi) al loro destino. A differenza di coloro che credono nel Progresso […], anche a differenza di coloro che riscrivono il Libro dell’Apocalisse e profetizzano un immancabile Futuro Catastrofico, penso che si possano soltanto raccontare storie e che La Storia (vale a dire il senso della storia, la sua struttura, la sua direzione) ci sia e ci sia sempre stata preclusa”.E tuttavia riesce difficile resistere alla suggestione di Vattimo (2002) che un certo declino – almeno nel senso, sulla cui valutazione torneremo in seguito, dell’indebolimento delle categorie metafisiche – non appartenga come destino alla “terra dell’occaso”. Come si è visto nel raffronto Nietzsche-Heidegger, la posta in gioco filosofica (teoretica, prima che pratica 9) per cui si combatte la battaglia tra progressisti e anti-progressisti è precisamente la validità della metafisica occidentale e delle sue categorie: il linguaggio, l’universale, il razionale, il totale, l’uno, etc. In una parola, la validità della Verità. Vede bene Bernstein (1999, p. 23), che “con i loro attacchi implacabili al logocentrismo, all’universalità, alla razionalità, all’unità e alla totalità, molti pensatori “postmoderni” ci inducono a ingannevoli (e disastrosi) aut aut”. Se le letture catastrofiche non sono, e non possono essere, un antidoto alle ideologie