riforma l.92/2012

52
CAPITOLO SECONDO Il tema del licenziamento individuale per motivi economici è da anni al centro di un incessante dibattito sulle politiche regolative del lavoro, ed ha assunto ruolo centrale nella discussione sulla riforma proposta dal Governo Monti sulla base delle affermate necessità di adeguamento del nostro ordinamento al quadro europeo. Quando si parla di “flessibilità in uscita” si intende soprattutto fare riferimento alla possibilità per il datore di lavoro di sopportare minori vincoli nella scelta di ridurre il personale per fare fronte a situazioni di difficoltà o alla necessità di apportare modifiche all’organizzazione del lavoro. Il tema è dunque quello dei licenziamenti per motivi economici, che possono poi svilupparsi nella forma giuridica del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo (art. 3, legge n. 604 del 1966) o dei licenziamenti collettivi per riduzione del personale. Il fatto che un allentamento del tasso di rigidità della disciplina giuridica dei licenziamenti possa in effetti dar luogo a maggiore competitività, favorire l’aumento dell’occupazione, ridurre il dualismo tra occupati stabili e precari o disoccupati, sono assunti basati su presupposti indimostrati, dei quali le più serie ricerche di economisti e giuristi mettono in discussione il fondamento 1 . Ciò premesso, appare comunque contraddittorio il fatto che la riforma Fornero intervenga non sulla disciplina sostanziale dei licenziamenti (se non per un aspetto di carattere procedurale), ma su quella sanzionatoria, attenuando le conseguenze di un licenziamento invalido: il risultato dunque non è che diventa più semplice o più facile, per l’impresa, operare un licenziamento legittimo, ma diventa meno costoso licenziare un lavoratore senza giustificazione. Tale scelta solleva notevoli perplessità, a cominciare dal fatto che la disciplina dei licenziamenti ha lo scopo di presidiare non solo, e non tanto, l’interesse del lavoratore alla stabilità del rapporto di lavoro (perché nel nostro ordinamento tale interesse cede di fronte ad una seria e dimostrata ragione imprenditoriale), quanto la libertà e la dignità stesse del lavoratore, la sua condizione contrattuale nella quotidiana relazione di conflitto di interessi con il datore di lavoro. L’evoluzione nel tempo della disciplina legale dei licenziamenti ha visto sovrapporsi regole sostanziali e sanzionatorie. La legge n. 604 del 1966, superando il precedente regime previsto dal codice civile (che ammetteva la libera recedibilità di entrambe le parti) ha previsto che il datore di lavoro possa licenziare il lavoratore a tempo indeterminato solo ove sussista una giusta causa o un giustificato motivo. Tale principio, inizialmente circoscritto solo alle imprese di una certa dimensione, è divenuto generale e applicabile a tutti i datori di lavoro con la legge n. 108 del 1990 (restano esclusi solo alcuni rapporti di lavoro, come quelli dei dirigenti e dei lavoratori domestici). Il licenziamento per ragioni economiche è quello identificato dal c.d. giustificato motivo oggettivo, che è determinato da “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” (art. 3), e viene intimato dal datore di lavoro rispettando un termine di preavviso (ovvero, in caso di dispensa dal preavviso, dovendo riconoscere al lavoratore la relativa indennità sostitutiva). Il datore di lavoro che invochi la sussistenza di tali ragioni ha l’onere di provarle in giudizio (art. 5), nell’ipotesi in cui il lavoratore impugni il licenziamento (impugnazione che, ai sensi dell’art. 6 come modificato dalla legge 183 del 2010, o ora di nuovo dalla legge 92/2012, deve essere fatta entro 60 giorni, con avvio dell’azione giudiziaria entro i successivi 180 giorni). Ove il datore di lavoro non dia prova del motivo economico addotto a giustificazione del recesso, o lo stesso non sia ritenuto rilevante da parte del giudice, il licenziamento è dichiarato illegittimo e dà luogo a un differente regime sanzionatorio a seconda della dimensione dell’ente o impresa. Per i rapporti di lavoro che si svolgano alle dipendenze delle imprese minori (datori di lavoro che 1 per ampi riferimenti sul punto si vedano le condivisibili osservazioni di A. Perulli e V. Speziale, L’articolo 8 della legge 14 settembre 2011, n. 148 e la «rivoluzione di Agosto» del Diritto del lavoro, nei Working Papers del Centro Studi Massimo D’Antona, n. 132 del 2011, http://csdle.lex.unict.it/

description

riforma l.92/2012

Transcript of riforma l.92/2012

Page 1: riforma l.92/2012

CAPITOLO SECONDO

Il tema del licenziamento individuale per motivi economici è da anni al centro di un incessante dibattito sulle politiche regolative del lavoro, ed ha assunto ruolo centrale nella discussione sulla riforma proposta dal Governo Monti sulla base delle affermate necessità di adeguamento del nostro ordinamento al quadro europeo. Quando si parla di “flessibilità in uscita” si intende soprattutto fare riferimento alla possibilità per il datore di lavoro di sopportare minori vincoli nella scelta di ridurre il personale per fare fronte a situazioni di difficoltà o alla necessità di apportare modifiche all’organizzazione del lavoro. Il tema è dunque quello dei licenziamenti per motivi economici, che possono poi svilupparsi nella forma giuridica del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo (art. 3, legge n. 604 del 1966) o dei licenziamenti collettivi per riduzione del personale. Il fatto che un allentamento del tasso di rigidità della disciplina giuridica dei licenziamenti possa in effetti dar luogo a maggiore competitività, favorire l’aumento dell’occupazione, ridurre il dualismo tra occupati stabili e precari o disoccupati, sono assunti basati su presupposti indimostrati, dei quali le più serie ricerche di economisti e giuristi mettono in discussione il fondamento1. Ciò premesso, appare comunque contraddittorio il fatto che la riforma Fornero intervenga non sulla disciplina sostanziale dei licenziamenti (se non per un aspetto di carattere procedurale), ma su quella sanzionatoria, attenuando le conseguenze di un licenziamento invalido: il risultato dunque non è che diventa più semplice o più facile, per l’impresa, operare un licenziamento legittimo, ma diventa meno costoso licenziare un lavoratore senza giustificazione. Tale scelta solleva notevoli perplessità, a cominciare dal fatto che la disciplina dei licenziamenti ha lo scopo di presidiare non solo, e non tanto, l’interesse del lavoratore alla stabilità del rapporto di lavoro (perché nel nostro ordinamento tale interesse cede di fronte ad una seria e dimostrata ragione imprenditoriale), quanto la libertà e la dignità stesse del lavoratore, la sua condizione contrattuale nella quotidiana relazione di conflitto di interessi con il datore di lavoro. L’evoluzione nel tempo della disciplina legale dei licenziamenti ha visto sovrapporsi regole sostanziali e sanzionatorie. La legge n. 604 del 1966, superando il precedente regime previsto dal codice civile (che ammetteva la libera recedibilità di entrambe le parti) ha previsto che il datore di lavoro possa licenziare il lavoratore a tempo indeterminato solo ove sussista una giusta causa o un giustificato motivo. Tale principio, inizialmente circoscritto solo alle imprese di una certa dimensione, è divenuto generale e applicabile a tutti i datori di lavoro con la legge n. 108 del 1990 (restano esclusi solo alcuni rapporti di lavoro, come quelli dei dirigenti e dei lavoratori domestici). Il licenziamento per ragioni economiche è quello identificato dal c.d. giustificato motivo oggettivo, che è determinato da “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” (art. 3), e viene intimato dal datore di lavoro rispettando un termine di preavviso (ovvero, in caso di dispensa dal preavviso, dovendo riconoscere al lavoratore la relativa indennità sostitutiva). Il datore di lavoro che invochi la sussistenza di tali ragioni ha l’onere di provarle in giudizio (art. 5), nell’ipotesi in cui il lavoratore impugni il licenziamento (impugnazione che, ai sensi dell’art. 6 come modificato dalla legge 183 del 2010, o ora di nuovo dalla legge 92/2012, deve essere fatta entro 60 giorni, con avvio dell’azione giudiziaria entro i successivi 180 giorni). Ove il datore di lavoro non dia prova del motivo economico addotto a giustificazione del recesso, o lo stesso non sia ritenuto rilevante da parte del giudice, il licenziamento è dichiarato illegittimo e dà luogo a un differente regime sanzionatorio a seconda della dimensione dell’ente o impresa. Per i rapporti di lavoro che si svolgano alle dipendenze delle imprese minori (datori di lavoro che

1 per ampi riferimenti sul punto si vedano le condivisibili osservazioni di A. Perulli e V. Speziale, L’articolo 8 della legge 14

settembre 2011, n. 148 e la «rivoluzione di Agosto» del Diritto del lavoro, nei Working Papers del Centro Studi Massimo D’Antona, n. 132 del 2011, http://csdle.lex.unict.it/

Page 2: riforma l.92/2012

occupano fino a 60 dipendenti, o fino a 15 nella singola unità produttiva o nell’ambito del medesimo comune) la conseguenza è quella della mera tutela “obbligatoria”, con condanna del datore di lavoro a riassumere il lavoratore (ipotesi che di fatto non si realizza mai) o a risarcirgli il danno con una indennità fissata dal giudice in una misura tra due e mezzo e sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Ove siano superati i limiti dimensionali sopra ricordati (per il cui calcolo, peraltro, operano alcune regole specifiche) entriamo nel campo di applicazione dell’art. 18 st. lav. e dunque di quella che, fino alla legge 92, veniva chiamata tutela “reale”. Esso (nella versione precedente alla legge in commento) prevedeva una tutela caratterizzata dal fatto che la sentenza rimuove gli effetti del licenziamento illegittimo, il rapporto di lavoro viene ricostituito nella sua continuità giuridica, il lavoratore ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro e, per il periodo intercorso tra licenziamento e ricostituzione effettiva del rapporto, ad un risarcimento del danno equivalente alla retribuzione persa (con un minimo di cinque mensilità), oltre al versamento dei contributi previdenziali. Il lavoratore peraltro poteva rinunciare alla reintegrazione a fronte di una indennità di quindici mensilità della retribuzione (fermo restando il risarcimento per il periodo trascorso tra il licenziamento illegittimo e la rinuncia alla reintegrazione). In un primo momento, sembrava che la riforma dell’art. 18 dovesse incidere soltanto sulla sanzione dei licenziamenti per motivi economici, escludendo per gli stessi l’obbligo di reintegrazione e introducendo un regime soltanto indennitario. Poi si è parlato dell’adozione di un modello analogo a quello tedesco, nel quale il licenziamento per motivi organizzativi passa attraverso una procedura di verifica con le organizzazioni sindacali, destinata a condizionare in modo significativo il successivo controllo del giudice, il quale può disporre sia la reintegrazione del lavoratore sia una alternativa meramente risarcitoria (proporzionata in genere all’anzianità del lavoratore). Dopo il lungo periodo di trattative con le parti sociali, il Consiglio dei Ministri approvò un primo testo della proposta di riforma del lavoro che fu trasfuso in un disegno di legge2. L’obiettivo del legislatore, imposto dalle ragioni del mercato, era quello di rendere più rapidi i processi in un settore in cui il tempo va a discapito di entrambe le parti della lite, creando una corsia preferenziale che non penalizzasse la qualità della cognizione e non creasse differenze tra i diversi gradi del giudizio, visti i ritardi che, in appello, va incontrando il procedimento previsto dall’art. 702-bis c.p.c. (peraltro, quel procedimento, che pure rappresenta uno dei modelli impiegati nella semplificazione dei riti avviata col D.Lgs. n. 150/2011, difficilmente sarebbe stato utilizzabile per controversie che possono presupporre un’indagine sulla qualificazione del rapporto di lavoro, le quali, per la loro complessità, avrebbero finito perciò per ritornare inevitabilmente sul binario del rito del lavoro). Già con il cd. Collegato lavoro (L. 4 novembre 2010, n. 183) si era inteso estendere il regime dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento a (praticamente) tutte le ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro dipendenti dal recesso datoriale. Il Collegato lavoro elenca all’art. 32, co. 2, 3 e 4, una serie di (del tutto nuovi) casi che vengono trattati a mo’ di licenziamento. Vale a dire che si applica l’art. 6 L. n. 604/1966 e l’ivi previsto onere di contestazione nei 60 gg. , oltre che in tutte le ipotesi di invalidità del licenziamento, anche ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro ovvero alla legittimità del termine apposto al contratto; al recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto ex art. 409, n. 3, c.p.c.; al trasferimento del lavoratore ex art. 2103 c.c. (con termine decorrente dal ricevimento della comunicazione di trasferimento); all’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro (ex artt. 1, 2 e 4, D.Lgs. n. 368/2001)3; alla cessione di contratto di lavoro nell’ambito di un

2 Si tratta del D.d.L. 5-4-2012, “Disegno di legge recante disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una

prospettiva di crescita” 3 In tal caso il termine per impugnare il licenziamento decorre dalla scadenza del termine stabilito nel contratto (ex art. 32, co. 3, del Collegato)

Page 3: riforma l.92/2012

trasferimento d’azienda ex art. 2112 c.c.4; alla somministrazione irregolare (art. 27 D.Lgs. n. 276/2003) e in tutti gli altri casi in cui si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto; ai contratti di lavoro a termine. Per questi ultimi solamente il legislatore ha stabilito una norma transitoria (art. 32, co. 4, del Collegato) che ne estende l’ambito di applicabilità anche ai contratti in corso, oltre che a quelli stipulati prima del D.Lgs. n. 368/2001, il cui termine non fosse ancora scaduto all’entrata in vigore del Collegato lavoro, e persino a quelli già scaduti all’entrata in vigore della legge5. Quell’obiettivo, che doveva essere raggiunto a costo zero per le ragioni ben note che hanno portato alla nomina del governo tecnico presieduto da Monti (anche se da più parti si sollevano critiche sulla cattiva qualità della spesa realizzata per la giustizia civile, a partire dai risarcimenti della legge Pinto, pur di recente modificata), non poteva perciò essere guadagnato – come sarebbe stato più logico e più semplice fare - con un aumento delle risorse da mettere a disposizione per far fronte all’arretrato (infatti, il comma 69 dell’art. 1 della L. n. 92/2012 ribadisce che “dall’attuazione delle disposizioni di cui ai commi da 47 a 68 non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, ovvero minori entrate”): il che rendeva inevitabile che si ripiegasse sulla ricerca delle norme processuali che potessero consentire una risposta più celere (o meno lenta) alla domanda di tutela, pur nella consapevolezza che non esiste un rito ideale, ma solo un sistema che deve poter funzionare nel suo complesso, e che qualunque tentativo di imprimere velocità ad un settore rischia di tradursi, se le risorse non sono adeguate, in un rallentamento complessivo dei giudizi. Le alternative erano intervenire sul processo a cognizione piena tratteggiato negli artt. 413 ss. c.p.c., modificandolo per le controversie oggetto dell’intervento normativo e questa alternativa è stata scartata. Il processo del lavoro è già congegnato in una maniera tale da garantire, le esigenze di celerità e di adattabilità alle liti che vi vengono versate, e, in assenza di risorse, a poco sarebbe valso, per accelerarlo, insistere sulla perentorietà dei termini, peraltro già previsti dal codice di rito, per la fissazione delle udienze da parte dei giudici; creare un rito diverso soltanto per dare un segnale di invito alla rapidità, e che avrebbe avuto allora necessariamente carattere sommario, non tanto per quanto attiene all’istruttoria (la cognizione non avrebbe dovuto essere né superficiale né parziale, visto che il processo del lavoro è tradizionalmente rivolto all’accertamento della verità materiale), ma intendendosi per sommarietà quella che nasce da una mancata o comunque non piena predeterminazione, da parte del legislatore, delle forme e dei termini del processo, e dall’apertura al potere discrezionale del giudice nella fissazione di essi. Vi sono dei riti ad esempio, nella materia fallimentare, che di sommario hanno ben poco, e che pure vengono trattati e decisi in tempi celeri, in omaggio alle esigenze di velocità che l’adozione di una veste sommaria suggerisce di rispettare. L’impiego del reclamo, in luogo dell’appello, non necessariamente allude ad un gravame costruito in modo diverso dall’appello tradizionale, ma può essere anche semplicemente un “tributo semantico” alla celerità6, pur nella consapevolezza delle difficoltà legate in ogni caso al carico dei ruoli e all’arretrato delle Corti d’appello.

4 Con termine decorrente dalla data del trasferimento 5 Il termine decadenziale, per queste ipotesi, decorre dall’entrata in vigore della legge, cioè il 24 novembre 2010. Nonostante le forti perplessità mostrate nei confronti di questa norma, che imporrebbe di impugnare il contratto ogni volta che viene rinnovato, con evidente compromissione del rapporto di lavoro in corso, essa è stata tenuta ferma. Cfr. V. De Michele, La riforma del processo del lavoro nel Collegato lavoro 2010, in Lavoro nella giur. 2011, 107; M. Miscione, Il collegato lavoro 2010 proiettato al futuro, ivi 2011, 5; S. Centofanti, Le nuove norme, non promulgate, di limitazione della tutela giurisdizionale dei lavoratori, in Giur. lav. 2010, 329. 6 Lo riconosce anche C. Consolo (e D. Rizzardo), Vere o presunte novità, sostanziali e processuali, sui licenziamenti individuali, in

Corr. giur. 2012, 736. Mostra di non comprendere, invece, le ragioni della scelta, A. Proto Pisani, Tre note sull’art. 18 dello statuto dei lavoratori, cit.

Sul rapporto tra reclamo ed appello, v. N. Rascio, Note sull’impiego del reclamo (in luogo dell’appello) come mezzo per impugnare le sentenze con devoluzione automatica piena, in Riv. dir. proc., 2008, 955.

Page 4: riforma l.92/2012

L’idea di fondo voleva essere quella che si legge nel documento di intenti approvato dal Governo Monti il 23 marzo 2012, nel passo relativo all’introduzione del rito speciale: “nel quadro di tale rito, una volta dettati i termini della fase introduttiva, è rimessa al giudice la scansione dei tempi del procedimento, nel rispetto del principio del contraddittorio e della parità delle armi nel processo. Si tratta di un rito con caratteristiche di celerità e snellezza, ma che, in ossequio alla specificità del processo del lavoro, rivolto tradizionalmente all’accertamento della verità materiale, prevede un’istruzione vera e propria, sia pure con l’eliminazione delle formalità non essenziali all’instaurazione di un pieno contraddittorio”. Tale idea si è tradotta, per quanto concerne il giudizio avviato con l’opposizione in un processo in cui, in ogni grado, la fase introduttiva è sufficientemente dettagliata, nella previsione dei termini per la costituzione delle parti e la chiamata dei terzi, e in cui la disciplina della trattazione e dell’istruttoria è condensata in una previsione che mutua, dall’art. 669-sexies c.p.c., la soppressione di ogni formalità non essenziale al contraddittorio (ma dove la libertà delle forme va apprezzata con riferimento ad una cognizione che non vuol essere né parziale né superficiale: sicché, per esempio, sarà necessaria l’articolazione in capitoli di prova delle circostanze di fatto, negli stessi termini in cui la giurisprudenza ne ravvisa l’esigenza nel rito del codice, per consentire al meglio l’operare del principio di non contestazione e, nel contempo, il compiuto esercizio del diritto di difendersi provando), ma non quella di eventuali tagli alle prove, che, coerentemente con un processo che mira alla verità materiale, dovranno essere, come negli artt. 420 e 421 c.p.c., tutte quelle richieste dalle parti o disposte d’ufficio, ovviamente nei limiti della loro ammissibilità e rilevanza. Non si avrà dunque quella selezione dei mezzi di prova indispensabili “in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto”, che nel rito cautelare uniforme si giustifica per l’esigenza che si apprezzi non già l’esistenza del diritto, ma la verosimiglianza di esso; né un’istruttoria come quella dell’art. 702-ter c.p.c., dove è la semplicità della lite a richiedere una semplificazione delle prove, dovendosi altrimenti avere la conversione del rito: si ha piuttosto, e soltanto, un’indicazione di snellezza, volta ad escludere i rallentamenti che potrebbero derivare da formalismi inutili e da eccezioni capziose che non tengano conto del fatto che il processo è uno strumento al servizio del diritto sostanziale, e non un percorso ad ostacoli creati per far inciampare ad ogni costo l’avversario. Il provvedimento, come presentato dal Governo, contemplò misure e interventi intesi a realizzare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione, alla crescita sociale ed economica e alla riduzione permanente del tasso di disoccupazione. Ciò attraverso i seguenti strumenti di intervento: a) favorendo l’instaurazione di rapporti di lavoro più stabili e ribadendo il rilievo prioritario del lavoro subordinato a tempo indeterminato quale forma comune di rapporto di lavoro (cd. «contratto dominante»); b) valorizzando l’apprendistato come modalità prevalente di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro; c) ridistribuendo in modo più equo le tutele dell’impiego: da un lato, contrastando l’uso improprio e strumentale degli elementi di flessibilità progressivamente introdotti nell’ordinamento con riguardo alle tipologie contrattuali; dall’altro, adeguando contestualmente alle esigenze del mutato contesto di riferimento la disciplina del licenziamento, con previsione, altresì, di un procedimento giudiziario specifico per accelerare la definizione delle relative controversie; d) rendendo più efficiente, coerente ed equo l’assetto degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive in una prospettiva di universalizzazione e di rafforzamento dell’occupazione delle persone; e) contrastando usi elusivi di obblighi contributivi e fiscali degli istituti contrattuali esistenti; f) promuovendo una maggiore inclusione delle donne nella vita economica e favorendo nuove opportunità di impiego ovvero di tutela del reddito per i lavoratori ultracinquantenni in caso di perdita del posto di lavoro. I ritardi della giustizia del lavoro, a prescindere dalle cause che li hanno determinati, hanno pesato non poco nella discussione sulle distorsioni e rigidità imputate alla tutela reale nel posto di lavoro.

Page 5: riforma l.92/2012

Nessuna meraviglia, pertanto, che nell’ambito di una riforma tesa a modificare il mercato del lavoro sia stato inserito anche un procedimento giudiziario specifico per accelerare la definizione delle controversie relative all’art.18 St. Lav. Le nuove regole pongono, non solo, una corsia preferenziale obbligatoria per i procedimenti aventi ad oggetto “ l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’art.19 della L.20 maggio 1970, n.300 e successive modificazioni, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro”, ma introducono delle garanzie di tipo organizzativo-ordinamentale, come si vedrà fra poco, previste dall’art. 1, commi 65,66 e 68, l.92/2012 affinché sia effettivamente realizzata la corsia preferenziale. Le critiche rivolte al nuovo procedimento comprendono, tra l’altro, quella di incoerenza con la strada di semplificazione e riduzione di riti7 , adottata dall’art. 54 della legge delega 18 giugno 2009, n.69 e con d. lgs. 1° settembre 2011, n. 150. Ma al riguardo devono essere fatte delle precisazioni. E’ pacifica l’estraneità del D. Lgs. N. 150/2011 al processo del lavoro. Le norme in questione riguardano il rito del lavoro che si applica, come è noto, alle controversie agrarie, a quelle locatizie ed altri casi, ma non riguardano le controversie disciplinate dagli artt. 409 e ss. C.p.c.8. In ogni caso nell’ambito del processo del lavoro si è assistito al fenomeno inverso alla riduzione dei riti, essendo stato introdotto, contemporaneamente, quasi, al decreto legislativo di attuazione della delega in materia di semplificazione e riduzione dei riti, il rito sommario dell’accertamento tecnico preventivo obbligatorio per le controversie in materia di invalidità civile, disciplinato dal d.l. 6 luglio 2011, n. 98 conv. In l. 15 luglio 2011,n.111 che ha inserito nel processo previdenziale una nuova norma, l’art. 445-bis c.p.c. Nell’ambito del processo del lavoro e previdenziale vi sono, dunque, almeno tre riti applicabili a seconda dell’oggetto della controversia, non contando il procedimento ex art. 28 St. Lav. Il rito speciale disciplinato dagli artt. 409 e ss. C.p.c., il procedimento giudiziario specifico per le impugnative di licenziamento ed il rito sommario dell’accertamento tecnico preventivo obbligatorio previsto dall’art. 445 c.p.c. che prevede due fasi del giudizio svolte davanti al Tribunale e la inappellabilità delle sentenze. Diversamente da quest’ultima riforma riguardante i procedimenti aventi ad oggetto le prestazioni previdenziali ed assistenziali per gli invalidi, la tecnica usata dalla l. n. 92/2012 non è stata quella della novella, attraverso l’aggiunta del nuovo procedimento giudiziario specifico nel codice di procedura civile, nel titolo IV dedicato alle controversie in materia di lavoro contenente norme riguardanti anche il giudizio di impugnazione ( art. 433 e ss. C.p.c.), ma quella di lasciare le norme processuali nella legge di riforma del mercato del lavoro. Ed in effetti la scelta si spiega anche con la specificità del nuovo procedimento, che si differenzia dal rito speciale del lavoro e con il suo stretto legame con il nuovo art. 18 St. Lav. E mentre l’invito avanzato nel corso dei lavori preparatori della legge a correggere la mancanza di collegamento tra il nuovo procedimento ed il rito speciale del lavoro9 è rimasto senza seguito, risulta oggettivamente accentuato il legame delle nuove regole processuali al complesso normativo contenuto nella legge di riforma del processo del lavoro, che è riassunto nell’art.1, punto c) ove si proclama l’intento di “ ridistribuire in modo più equo le tutele dell’impiego, da un lato contrastando l’uso improprio e strumentale degli elementi di flessibilità progressivamente introdotti nell’ordinamento con riguardo alle tipologie contrattuali; dall’altro adeguando contestualmente alle

7 C. CONSOLO- D. RIZZARDO, Vere o presunte op. Cit.,735. 8 F.P. LUISO, Diritto processuale civile, vol. IV, Milano 2011,107 ss.; C.CONSOLO Prime osservazioni introduttive sul D. Lgs. N.

150/2011 di riordino ( e relativa “ semplificazione”) dei riti settoriali , in Corr. Giur., 2011,11 9 Si legge nella relazione ai lavori preparatori del disegno di legge “ con riferimento all’art.1 commi 47 e seguenti, che introducono

un procedimento speciale per le controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’articolo 18 della legge n. 300 del 1970, da un lato, non è chiaro il rapporto di tali disposizioni con la disciplina contenuta nel codice di procedura civile agli articoli 409 e seguenti che disciplinano il rito del lavoro,e, dall’altro non è presente una clausola di chiusura che disponga l’applicabilità delle norme contenute nel codice di rito per tutto ciò che non è disciplinato dal provvedimento in esame”.

Page 6: riforma l.92/2012

esigenze del mutato contesto di riferimento la disciplina del licenziamento, con previsione altresì di un procedimento giudiziario specifico per accelerare la definizione delle relative controversie”. Certamente, come è stato autorevolmente detto da più parti, sul piano processuale, la integrazione della disciplina processuale, per tutto quanto non previsto dalle nuove norme, non potrà che fare riferimento alle regole del processo del lavoro dettate dal codice di rito, che, a loro volta, quando manchi una previsione, vengono integrate con quelle generali del processo civile10. Tuttavia il legame della previsione di un procedimento giudiziario specifico per i licenziamenti, per accelerare la definizione delle relative controversie, con il complesso normativo della riforma è innegabile e non può che essere, anch’esso, un criterio di interpretazione delle nuove regole processuali. Il nuovo procedimento specifico per i licenziamenti è costruito apparentemente in modo simile al procedimento sommario di cognizione, disciplinato dagli artt. 702-bis e ss. C.p.c., tanto da far pensare che la preclusione all’utilizzazione tout court di quello previsto dall’art. 183 c.p.c.6 nel processo del lavoro,ha comportato la creazione di un modello ad hoc. In realtà, come è stato felicemente evidenziato, il nuovo procedimento ha natura ibrida11 con connotati assimilabili, oltre che al procedimento sommario, al procedimento ex art. 28 St. Lav. E al procedimento cautelare12. Il procedimento specifico per le impugnative di licenziamento tutelate dall’art. 18 St. Lav. Si caratterizza per una sua peculiare disciplina che riguarda tutto il procedimento dalla fase sommaria, a quella delle impugnazioni con norme che ne fanno un procedimento a sé stante. C’è tuttavia chi sostiene che il nuovo modello processuale vada ricondotto nella categoria delle tutele sommarie non cautelari13,perseguendo sia la finalità di consentire la formazione anticipata di un titolo esecutivo, sia quella di pervenire, nel più breve tempo possibile, ad un accertamento sulla legittimità o meno del licenziamento idoneo, in mancanza di attivazione del rimedio oppositorio, ad acquistare caratteri di stabilità e definitività. Il nuovo procedimento è dunque diretto a realizzare,oltre all’interesse del lavoratore, anche quello del datore di lavoro. Non osta a tale conclusione la constatazione dell’ormai residuale ambito di applicabilità della tutela della tutela reintegratoria con tendenzialmente integrale corresponsione delle retribuzioni maturate tra il licenziamento e l’effettiva reintegrazione (sanzione la cui gravosità per la parte datoriale aumenta proporzionalmente al dilatarsi dei tempi di definizione della controversia): infatti, non può negarsi che, in ogni caso in cui un licenziamento sia contestato dal lavoratore, sussista l’interesse dell’imprenditore affinché, in presenza di un’impugnazione giudiziale, si pervenga nel più breve tempo possibile ad un definitivo pronunciamento giudiziale circa la legittimità del recesso e, soprattutto, circa la sussistenza o meno del diritto del lavoratore ad essere reintegrato nel posto di lavoro (diritto previsto dal nuovo art. 18 non solamente per il caso di licenziamento discriminatorio, ma anche per un’altra nutrita serie di ipotesi che vedremo successivamente), misura la cui esecuzione è tale da determinare rilevanti conseguenze sull’organizzazione aziendale anche quando non sia accompagnata da un pieno ristoro del danno economico subito dal dipendente. La specificità del rito e la correlativa corsia preferenziale permangono, quindi, per tutto il procedimento fino alla fase di legittimità,e, nelle fasi di merito, esse si connotano per l’identica struttura non formale dell’udienza di comparizione o di discussione ove la disciplina, con le varianti richieste dalla diversità della fase o del grado, è dettata in modo identico nei commi 49,57 e 60

10 P.CURZIO, Il nuovo procedimento in materia di licenziamenti, in P. CHIECO, Flessibilità e tutele nel lavoro. Commentario della

legge 29 giugno 2012,n.92, Bari, 2012. 11 F.P. LUISO, Diritto processuale civile, cit.115. 11 P.CURZIO, op. cit. 12 F.P.LUISO, La disciplina processuale della legge n. 92/2012 nell’ambito del processo civile: modelli di riferimento ed

inquadramento sistematico, relazione svolta al corso di formazione CSM, 29-31 ottobre 2012: l’autore peraltro evidenzia come la differenza con l’art. 28 St.Lav. è data dal fatto che il legislatore anche per la fase di opposizione ha previsto un nuovo rito.

13 Così anche F.M. GIORGI, Flessibilità in uscita e tutele del lavoratore. Aspetti sostanziali e processuali, coordinato da F.M. GIORGI,Jovene,2013,307 ss. .

Page 7: riforma l.92/2012

dell’art.1 dedicati, rispettivamente, all’udienza di comparizione della fase sommaria, all’udienza di discussione della fase di opposizione ed infine all’udienza di discussione nel grado di appello14. Si precede in tali commi il giudice (sia esso il Tribunali nella fase sommaria, il Tribunale nella fase di opposizione o la Corte d’Appello) E’ evidente la similitudine con il procedimento cautelare e con quello sommario di cognizione e la peculiarità è data dal fatto che la struttura non formale dell’udienza in funzione acceleratoria si ripete con parole pressoché identiche, ripetute come un ritornello, nei gradi di merito, per sottolineare la diversità di procedimento da tutti gli altri, spingere il Giudice e le parti a trovare soluzioni istruttorie le più semplici e celeri possibili e giustificare, così, la tenuta della corsia preferenziale fino alla fase di legittimità. L'esame del rito specifico muove dalle ultime nome, quelle sulle garanzie organizzative per numerose ragioni. La prima consiste nel fatto che aver inserito tali norme di carattere organizzativo costituisce la spia più evidente che il nuovo procedimento specifico non è disponibile dalle parti ed è, quindi, obbligatorio, se non altro perchè è la legge a stabilire regole organizzative ben precise alle quali si devono attenere i capi degli uffici, i giudici e, conseguentemente, le parti del processo. La previsione della corsia preferenziale fino al grado di legittimità esprime l'interesse dell'ordinamento alla trattazione celere di queste controversie e, al tempo stesso, indica che le parti possono ottenere la corsia preferenziale, vale a dire il mutamento di rito, in caso in cui un processo sia stato trattato erroneamente con il rito ex art. 409 c.p.c. E non con il procedimento nuovo. E l'interesse delle parti o almeno di una di esse è dato dai tempi ridotti di trattazione che dovrebbero essere garantiti dalla corsia preferenziale. L'esistenza di tali norme, contenute nell'ordinamento giuridico primario, e non quindi in fonti secondarie del tipo circolari,ha un rilievo non solo organizzativo ma anche processuale che le parti possono far valere per far sì che il processo sia trattato secondo quanto dispongono i commi da 47 a 66 dell'art.1 della l.n. 92/2012. La seconda ragione è che tutte le peculiarità e differenze del procedimento giudiziario specifico dal rito speciale previste nei commi da 48 a 64 si spiegano proprio con la corsia preferenziale. Si è concepito un procedimento disciplinato in modo autonomo, con nome che lo distinguono dal rito speciale del lavoro, sino alla fase di legittimità in funzione acceleratoria, per differenziarlo e poterlo tenere separato da tutti gli altri. In definitiva, aver posto sotto sorveglianza del capo dell'ufficio il rispetto dei termini e la tenuta della corsia preferenziale ha determinato la necessità di dettare una disciplina differenziata in tutto, da quella del processo del lavoro, senza richiamo alle norme del codice, in modo che esso non possa confondersi con gli altri processi. Si è già detto che nelle udienze, dedicate alle impugnative di licenziamento, il Giudice monocratico o collegiale che sia, “sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione … e provvede … all’accoglimento o al rigetto della domanda”. Cambia il provvedimento – ordinanza nella prima fase, sentenza nel giudizio di opposizione e nell'appello. Mutano le possibilità di ammissione degli atti di istruzione che sono solo quelli indispensabili richiesti dalle parti o disposti di ufficio nella fase sommario, quelli ammissibili e rilevanti nella fase di opposizione e quelli indispensabili ai fini della decisione nella fase di appello, ma permane identica, in tutte queste fasi, lo svolgimento di un'udienza snella, svolta senza formalismi, idoneo ad essere posta su quella corsia preferenziale destinata a garantire l'accelerazione della procedura, almeno nelle intenzioni del legislatore.

14 D. BORGHESI, Conciliazione e procedimento speciale dei licenziamenti per la riforma Foriero, in Lav. Giur., 2012, 10,912 ove

si sottolinea l’assonanza delle espressioni usate dal legislatore. L’autore peraltro esclude che tale riferimento possa conferire carattere sommario, oltre che alla fase introduttiva anche al giudizio di opposizione e all’appello, in quanto sono diversi gli atti di istruzione che il giudice può compiere.

Page 8: riforma l.92/2012

Infine la previsione normativa di un criterio di priorità nella definizione dei procedimenti tenta di introdurre una valutazione qualitativa sull'ordine di definizione dei processi civili, scandita negli ultimi anni, da una martellante esigenza di garantire la ragionevole durata dei processi su basi meramente quantitative e di anzianità della controversia per evitare le conseguenze derivanti dall'automatismo risarcitorio della legge Pinto. Si introduce per la prima volta, a quanto consta, un criterio normativo di organizzazione dei tempi del processo attraverso un ordine di priorità nelle controverse sulla base della materia, imponendo un criterio di definizione cd. LIFO (late in first out)15, contro tutti i suggerimenti che negli ultimi anni sono stati imposti dalla cd. “ giustizia manageriale”, sempre più interessata allo smaltimento dei processi16. Sembra che in questo caso si cerchi un punto di equilibrio tra la gestione della massa dei processi e lo scopo di tutela di posizioni soggettive proprio di ogni singolo processo17. Si realizza, quindi, per l'effetto di questa riforma, una tutela differenziata, non più accordata per le esigenze di tutela del lavoratore, come è stato nella riforma del processo del lavoro del 1973, ma per l'interesse generale alla celere definizione di queste controversie, nella convinzione che essa sarà benefica per la crescita del mercato del lavoro. Le garanzie organizzative sono la previsione di particolari giornate nel calendario delle udienze, e la vigilanza del capo dell' ufficio sia sull'osservanza di tale riserva funzionale all'attuazione della corsia preferenziale, sia sulla applicazione concreta dei commi da 47 a 66 alle controversie instaurate dopo l'entrata in vigore della legge. Tali norme rispondono all'esigenza di garantire effettività al nuovo rito, nel senso che la realizzazione della corsia preferenziale non è più affidata alla volontà del singolo Giudice, ed alla collaborazione delle parti del processo, ma garantita attraverso una programmazione delle udienze da dedicate alla trattazione dei procedimenti giudiziari specifici. La programmazione è controllata dal capo dell'ufficio al quale è demandato altresì il controllo sul rispetto dell'applicazione concreta delle nuove regole. L'art.1, comma 65, prevede che: “ alla trattazione delle controversie regolate dai commi da 47 a 64 devono essere riservati particolari giorni nel calendario delle udienze”. Calendario delle udienze è cosa diversa dal calendario del processo civile, previsto dall'art.1-ter del d.l. 13 agosto 2011 conv. Nella l. 14 settembre 2011, n. 148 che riguarda la calendarizzazione delle attività del Giudice. Il calendario delle udienze è invece la indicazioni delle udienze dedicate alla trattazione delle controversie di cui al comma 47 dell'art.1. L'art. 1, comma 66, prevede, inoltre: “ che i capi degli uffici giudiziari vigilano sulla osservanza della disposizione di cui al comma 65”, vale a dire vigilano che sia rispettata la riserva di particolari giorni nel calendario delle udienze dedicate alle controversie aventi ad oggetto l'impugnativa di licenziamento regolata dall'art. 18 St. Lav. Infine, l'art.1, comma 68, prevede: “ che i capi degli uffici vigilano sulla osservanza della disposizione di cui al comma 67”, ed,a sua volta il comma 67 dell'art.1 afferma che “i commi da 47 a 66 si applicano alle controversie instaurate successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge”. E' fuori discussione che il “controllo” del capo dell'ufficio non può certo riguardare l'applicazione o l'interpretazione delle norme processuali da parte dei singoli giudici, perchè ciò contrasterebbe con il principio di indipendenza della giurisdizione, ed ha, sotto tale profilo, riflessi organizzativi ed

15 Sul problema degli arretrati della giustizia civile e sui metodi di definizione dei procedimenti con la metodologia LIFO o FIFO, si

veda M. FABRI Giusto processo e durata ragionevole dei procedimenti, in C. GUARNIERI- F. ZANNOTTI (a cura di), Giusto processo?,Padova,2006,343-369.

16 Sul concetto di giustizia manageriale, A. GARAPON,Lo stato minimo, il neoliberalismo e la giustizia, Milano, 2012,31. 17 E' stato efficacemente affermato a proposito di un'altra riforma, la riforma dei mezzi di impugnazione di cui al d.l. 22 giugno

2012,n. 83 convertito nella L. 7 agosto 2012, n. 134 che “ se l'efficienza della composizione della singola controversia non deve perdere di vista l'efficienza nella gestione della massa dei processi, la gestione della massa dei processi non deve perdere di vista che lo scopo di ogni processo civile è la giusta composizione della controversia entro un termine ragionevole”, R.CAPONI, La riforma dei mezzi di impugnazione, in Riv. Trim. dir. Proc. Civ., 2012,23.

Page 9: riforma l.92/2012

eventualmente ordinamentali. E' certo, peraltro, che la sorveglianza del capo dell'ufficio si estende al rispetto dei termini minimi stabiliti per le controversie in questione18. Le nuove regole, secondo il principio tempus regit actum proprio delle norme processuali, si applicano alle controversie promosse dopo la loro entrata in vigore, vale a dire alle controversie instaurate dal 18 luglio 2012. Le caratteristiche ibride del nuovo rito accentuano la diffidenza dei giuristi e degli operatori pratici verso questo ennesimo mutamento delle regole processuali. La previsione del nuovo rito, così come l'intera legge 2012 di riforma del mercato del lavoro ha ricevuto stroncature da parte del mondo dei giuslavoristi19, mentre l'estabilishment politico ne propagandava, grazie proprio alle nuove regole processuali, un effetto taumaturgico sulle rigidità presunte o reali del mercato del lavoro italiano20. Si è, da più parti, ribadito il concetto che le disfunzioni della giustizia civile non si modificano o attenuano con continue riforme della legge, ma con maggiori risorse, come da anni ripete la dottrina processualcivilistica21. Sul fronte delle risorse l'art.1 comma 69 proclama che “ dalla attuazione delle disposizioni di cui ai commi 47 e 68 non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, ovvero minori entrate”. La mancanza di risorse, anche informatiche, quali le modifiche evolutive al sistema di registrazione informatica dei processi, potrebbe comportare il fallimento della riforma, essendo sia il controllo dei capi degli uffici, che il monitoraggio, in generale, previsto dalla riforma del mercato del lavoro (art.1, comma 2, l.n. 92/2012), agevolato dalla esatta registrazione dei procedimenti nei registri informatici che invece, non sono stati, allo stato ancora aggiornati, con la previsione del codice apposito per registrare i nuovi procedimenti giudiziari specifici. Tuttavia il giurista, di fronte alle norme-manifesto o norme-informazione per i mercati, che costituiscono la caratteristica della produzione legislativa del nostro tempo, mantiene lo stesso metodo interpretativo, ben conscio che le norme-manifesto o norme-informazione vanno poi inserite in un sistema stratificato di principi, di altre norme, per cui difficilmente si verificano risultati dirompenti, nel senso positivo enunciato dai riformatori, o nel senso negativo, rilevato dai primi commentatori. Attribuire a questa riforma un effetto certamente negativo sulla tenuta complessiva degli uffici giudiziari, sembra un eccesso, atteso che il procedimento nuovo, come si vedrà, riguarda una fetta non così ampia di contenzioso. La ratio di accelerare la definizione delle controversie relative alla impugnativa di licenziamento, agevola l'interpretazione delle nuove regole per cui eventuali interpretazioni che comportino un allungamento dei tempi di trattazione vanno tralasciate a favore di interpretazioni che appaiano maggiormente in sintonia con i principi del processo civile ma anche con la ratio acceleratoria delle nuove norme e con la presenza della corsia preferenziale. E' certo, inoltre, che la previsione della corsia preferenziale e gli altri dati normativi del nuovo procedimento suggeriscono un'interpretazione non estensiva delle nuove nome partendo dal dato letterale: si tratta di un rito specifico, o meglio di un procedimento giudiziario specifico e la parola specifico ha qui un peso determinante, se non alto perchè estranea alla qualificazione dei riti da parte del codice di procedura civile. Non ci troviamo di fronte ad un procedimento speciale applicabile ad una serie indeterminata di

18 P. SORDI, L'ambito di applicazione del nuovo rito per l'impugnazione dei licenziamenti e disciplina della fase di tutela urgente,

relazione al Corso organizzato dal CSM 29-31 ottobre 2012 <http://astra.csm.it/incontri/relaz/24955.pdf>. 19 Per critiche alla riforma: F. CARINCI, Complimenti, dottor Frankenstein: Il disegno di legge governativo in materia di riforma

del mercato del lavoro, in Lav. Giur., 2012; S. MAGRINI, Quel pasticciaccio brutto (dell'art.18), in Arg. Dir. Lav., 2012,3,35; A.VALLEBONA, La riforma del lavoro 2012, Torino, 2012

20 R.CAPONI,La corsia preferenziale per alcune cause di lavoro rallenta le altre in assenza delle adeguate risorse, in Guida dir. 2012,18,9-10, ove si richiama l'articolo del primo ministro Monti sul Wall Street journal del 7 aprile 2012 sull'effettività della riforma del mercato del lavoro proprio in relazione al varo delle nuove norme processuali.

21 R.CAPONI, La corsia preferenziale, cit.

Page 10: riforma l.92/2012

ipotesi e diverse azioni, così come nel caso del procedimento sommario di cognizione disciplinato dall'art. 702-bis e ss. c.p.c., o in generale negli alti riti, ma appunto ad un procedimento giudiziario specifico che si applica solo in casi ben determinati e definiti dal legislatore. Si tratta di un procedimento che, come vedremo fra breve è strutturato in una fase a cognizione sommaria, in un eventuale primo grado a cognizione piena22 introdotto da una opposizione, ed in un secondo grado introdotto da un reclamo. La sentenza pronunciata in sede di reclamo è impugnabile in Cassazione nei modi ordinari23. La somiglianza strutturale24 del procedimento in questione con quello previsto dall’art. 28 St. lavoratori è evidente25, ma con una non secondaria differenza: l’opposizione avverso l’ordinanza che chiude la fase sommaria del procedimento ex art. 28 St. lavoratori apre un processo che è regolato dal rito del lavoro, mentre nel nostro caso il legislatore ha introdotto un rito speciale anche per la fase di opposizione e quella di reclamo (in sostanza, per il primo ed il secondo grado).

Si pone così anzitutto il problema delle fonti di integrazione del procedimento speciale. L’ambito di applicazione del procedimento speciale ricade in toto nell’art. 409 n. 1 c.p.c., sicché il nuovo procedimento, per la materia da esso regolata, sostituisce il rito del lavoro. In altre parole, le controversie soggette al nuovo rito sono sottratte al rito del lavoro: è ragionevole dunque pensare che l’integrazione vada cercata dapprima nel rito del lavoro e solo dopo nel rito ordinario26. Inoltre il comma 48 stabilisce che la domanda si propone al tribunale “in funzione di giudice del lavoro”. Si può presumere quindi che le fattispecie previste dal comma 47 debbono essere qualificate, a tutti gli effetti, come controversie di lavoro. In sostanza, la riduzione dei tempi del processo con riferimento alle controversie in tema di licenziamento è stata considerata dal legislatore come un significativo tassello del più generale intervento mirante a «realizzare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione, in quantità e qualità, alla crescita sociale ed economica e alla riduzione permanente del tasso di disoccupazione» (art. 1, comma 1, della legge n. 92). Com’è stato detto, si tratta di un esempio di impiego del processo civile in vista di obiettivi di politica pubblica, ulteriori rispetto alla tutela giurisdizionale dei diritti individuali27. L’altra evidente caratteristica dell’intervento del legislatore è la scelta di non ricorrere a qualcuno dei modelli processuali già rinvenibili nell’ordinamento, ma di crearne uno nuovo, in chiara (ed immediata) smentita del lodevole proposito di semplificazione dei riti che aveva condotto, meno di anno prima, all’emanazione del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150. Si aggiunga che quello creato dal legislatore del 2012 è un rito difficilmente assimilabile ad uno di quelli già presenti nell’ordinamento. Invero, come pure è stato notato28, esso presenta alcune

22 CAPONI, Rito processuale veloce per le controversie in tema di licenziamento, in www.judicium.it, § 4; BENASSI, La riforma

del mercato del lavoro: le modifiche processuali, in Il lavoro nella giurisprudenza 2012, § 3; PAGNI, I correttivi alla durata del processo nella L. 28 giugno 2012 n. 92: brevi note sul nuovo rito in materia di licenziamenti [lavoro in corso di pubblicazione che ho potuto consultare per la cortesia dell’A.].

23 Salva una particolarità relativa alla decorrenza del termine breve: art. 1, comma 62. 24 Somiglianza solo strutturale: infatti, come vedremo (§ 3), vi è una netta diversità funzionale fra il procedimento in esame e l’art.

28 St. lavoratori 25 DE ANGELIS, Art. 18 dello Statuto dei lavoratori e processo: prime considerazioni, in Working papers del Centre for the study

on European labour law “Massimo D’Antona”, § 1 [lavoro in corso di pubblicazione che ho potuto consultare per la cortesia dell’A.]; CONSOLO-RIZZARDO, Vere o presunte novità, sostanziali e processuali, sui licenziamenti individuali, in Corriere giur. 2012, 735; BENASSI, La riforma, cit., § 3; PALLADINI, Opposizione e impugnazioni nel rito “Fornero”, relazione al convegno La riforma del mercato del lavoro, Milano 17 ottobre 2012, § 1; DE CRISTOFARO-GIOIA, Il nuovo rito dei licenziamenti: l’anelito alla celerità per una tutela sostanziale dimidiata, in www.judicium.it, § 5.

26 DE ANGELIS, op. cit., § 3; BUONCRISTIANI, Rito licenziamenti: disciplina e profili sistematici, § 10 ;CURZIO, Il nuovo rito per i licenziamenti Relazione all’incontro di studio organizzato dal C.S.M. sul tema “a riforma del mercato del lavoro nella legge 28giugno 2012 n. 92” Roma 29-31 ottobre 2012, § 1; SORDI, L’ambito di applicazione del nuovo rito per l’impugnazione dei licenziamenti e disciplina della fase di tutela urgente, Relazione all’incontro di studio organizzato dal C.S.M. sul tema ”La riforma del mercato del lavoro nella legge 28 giugno 2012 n. 92” Roma 29-31 ottobre 2012, § 1.2

27 R. CAPONI, La corsia preferenziale per alcune cause di lavoro rallenta le altre in assenza delle adeguate risorse, in Guida dir., 2012, n. 18, 9.

28 G.BENASSI, La riforma del mercato del lavoro: modifiche processuali, in LG. 2012,752. Ne risulta escluso, come noto, il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, con buona pace dell’ obiettivo, perseguito nell’ ultimo ventennio, della parificazione di disciplina sostanziale e processuale – oltre che di

Page 11: riforma l.92/2012

caratteristiche proprie del procedimento di repressione della condotta antisindacale di cui all’art. 28 della legge n. 300 del 1970, altre tipiche del procedimento sommario di cognizione disciplinato dagli artt. 702-bis ss. c.p.c. ed altre ancora comuni alla disciplina del procedimento cautelare uniforme (artt. 669-bis ss. c.p.c.). È pertanto impossibile qualificare il nuovo modello processuale come una species di qualcuno di quei genera e occorre invece riconoscere che si tratta di un rito con proprie caratteristiche che si affianca a quelli già noti. Una simile conclusione non è priva di conseguenze: una volta ammessa la piena specificità del procedimento di cui all’art. 1 della legge n. 92 del 2012, al fine di risolvere questioni di natura interpretativa poste dalla sua disciplina, non è possibile ricorrere sempre e comunque a soluzioni elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza in riferimento ad uno dei tre modelli processuali prima ricordati; quelle elaborazioni vanno sicuramente tenute presenti, ma limitatamente ai singoli tratti di disciplina che siano sovrapponibili con quelli del nuovo rito; e comunque sempre previa verifica della compatibilità della soluzione con le specifiche caratteristiche e la ratio del procedimento introdotto dal legislatore del 2012. Invece, al fine di colmare le lacune della disciplina della legge n. 92 del 2012 (nella quale manca la regolazione di numerosi aspetti del procedimento, anche di indubbia rilevanza, come, ad esempio, la competenza per territorio), occorre, in generale, far riferimento alle disposizioni codicistiche in materia di controversie di lavoro29. Vale a dire che la disciplina dettata dagli artt. 409 ss. c.p.c. si applica alle controversie in questione per tutto quanto non previsto dall’art. 1, commi da 48 a 65 (ovviamente a condizione che sussista la compatibilità di cui si è detto in precedenza). Seppure nella legge n. 92 del 2012 manchi un’espressa disposizione in tal senso, tale conclusione può essere agevolmente argomentata sulla base dell’espressione utilizzata dal legislatore, il quale non ha qualificato la disciplina da esso dettata come esaustiva; esso invece si è limitato a prevedere che quella disciplina «si applica» alle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti, presupponendo, quindi, che si tratti di una disciplina “aggiuntiva”, per così dire, a quella che ordinariamente regola quella categoria di controversie. E tale è, appunto, quella del Capo I del titolo IV del libro secondo del codice di rito che, a norma dell’art. 409, n. 1, c.p.c. si applica a tutte le controversie relative a rapporti di lavoro subordinato privato. A conforto di tale conclusione si aggiungano, da un lato, la già segnalata irriducibilità del nuovo rito ad uno degli altri procedimenti “speciali” (con conseguente impossibilità di ricorrere alla disciplina di questi ultimi per colmare le lacune di quella della legge n. 92 del 2012) e, dall’altro, che, considerato l’oggetto delle controversie di cui qui si tratta, è sicuramente maggiormente coerente con il generale ordinamento giuridico processualcivilistico ricondurre tali cause al rito codicistico del lavoro, piuttosto che al rito ordinario.

unificazione della giurisdizione – tra impiego privato ed impiego pubblico. La scelta è deliberata e politica: l’art. 1, co. 7, della cd. legge Fornero stabilisce infatti che le nuove disposizioni «costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni», demandando a provvedimenti anche normativi del Ministro per la p.a. e la semplificazione, «sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche», il compito di individuare e definire «gli ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche» (non sembra peraltro che in questa frase possa ritenersi presente alcuna delegazione di poteri legiferanti, potendosi leggere – nel riferimento ai provvedimenti “anche normativi” del Ministro – solo un’allusione a normazione di rango secondario). 29 Conformi: F.P. LUISO,Il procedimento per l’impugnativa dei licenziamenti in regime di tutela reale; modelli di riferimento ed

inquadramento sistematico, in F.P. LUISO – R. TISCINI – A. VALLEBONA, La nuova disciplina sostanziale e processuale dei licenziamenti, Giappichelli, 2013, 56; R.TOSI, L’improbabile equilibrio tra rigidità “i entrata” e flessibilità “ in uscita” nella legge n. 92/2012 di riforma del mercato di lavoro, in ADL, 2012, 840; – R. TISCINI, Il procedimento per l’impugnativa dei licenziamenti in regime di tutela reale; profili processuali, in F.P. LUISO – R. TISCINI – A. VALLEBONA, op. cit.,77; M.DE LUCA, Procedimento specifico per i licenziamenti nella recente riforma del mercato del lavoro ( l.n. 92 del 2012): note minime, FI, 2012,V, 345; L.DE ANGELIS, Art. 18 dello Statuto dei lavoratori e processo; prime considerazioni, in Working Papers Massimo D’Antona, www.lex.unict.it,10; CONSOLO-RIZZARDO, Vere o presunte novità, op. cit. 736; C.MUSELLA, Il rito speciale in materia di licenziamenti, in Il nuovo mercato del lavoro , a cura di m. CINELLI – G. FERRARO – O. MAZZOTTA, Giappichelli,2013,350; D. D FEO, La prima fase del rito speciale in materia di licenziamenti, in ADL, 2013, I ,103. Analogamente, D. BORGHESI , Conciliazione e procedimento speciale dei licenziamenti per la riforma Fornero, in LG, 2012,914,afferma che “ il nuovo processo speciale va inserito nella cornice del processo del lavoro”.

Page 12: riforma l.92/2012

L’art. 1, co. , 47, recita: «Le disposizioni dei co. da 48 a 68 si applicano alle controversie aventi ad oggetto l'impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall'art. 18 L. 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro». Un’altra caratteristica fondamentale del nuovo procedimento risiede nel fatto che, come accennato, per le controversie alle quali esso è applicabile, il rito di cui all’art. 1 della legge n. 92 del 2012 costituisce l’unica modalità di esercizio dell’azione giudiziale. E’ da tutti condivisa l'applicazione del criterio della prospettazione, cioè l'individuazione della fattispecie ai fini delle questioni di mero rito in base alla domanda come formulata indipendentemente dalla relativa fondatezza del petitum e della causa pretendi esposti. Sembra cioè corretto ritenere ben scelto il rito Fornero sulla base delle mere allegazioni astratte del ricorso, salvo poi la verifica di effettiva applicabilità dell'articolo 18. In questo senso si è del resto pronunciata la cassazione sostenendo che la questione di diritto deve essere riscontrata in base alla domanda dell'attore, nulla contando le contestazioni del convenuto sugli elementi posti a fondamento della domanda (Cass. 8214/2009). Non è concessa alla parte interessata la facoltà di scelta tra l’ordinario rito del lavoro di cui al codice di procedura civile e quello introdotto dal legislatore del 2012, essendo il ricorrente tenuto a seguire questo secondo30. Ciò si desume in maniera incontrovertibile dal tenore del comma 47 dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012, a norma del quale «le disposizioni dei commi da 48 a 68 si applicano alle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti». Come si vede, la disposizione prevede come inevitabile l’applicazione delle regole enunciate nei commi successivi alla categoria di controversie da essa contemplata. Questione diversa è, però, quella relativa alla possibilità per le parti di “saltare”, per così dire, la prima fase del giudizio di primo grado. Qui, infatti, non si tratta di riconoscere alle parti di scegliere un rito piuttosto che un altro. Si tratta invece di verificare se, ferma restando l’applicazione della disciplina processuale dettata dall’art. 1 della legge n. 92 del 2012, le parti possano iniziare la controversia a partire da quella che, nel disegno complessivo del nuovo modello processuale, è la seconda fase del giudizio di primo grado, introdotta con un ricorso in opposizione al provvedimento conclusivo della prima fase “urgente”. Ove si ritenga di fornire risposta affermativa a tale interrogativo, resterebbe comunque ferma l’applicazione di tutta la parte della disciplina del nuovo rito relativa al giudizio di opposizione, a quello di reclamo e a quello di cassazione: non vi sarebbe, dunque, alcuna deroga al generale principio dell’indisponibilità del rito per le parti. Tale sequenza processuale può, tuttavia, diventare solo eventuale se le parti concordemente dichiarano, nell’udienza di comparizione della prima fase, di voler rinunciare alla fase urgente ex art. 1 comma 48 l. 92/2012 e di voler passare direttamente alla fase di opposizione ex art. 1 comma 51 della medesima legge, nella sostanza ribaltando l’ordine procedimentale disposto dalla legge e rendendo facoltativo uno stadio che nella previsione della legge nasce come necessario.Il tal senso si è pronunciato il Giudice del Lavoro del Tribunale di Piacenza con l’innovativa ordinanza del 16 gennaio 2013, pronunciata fuori udienza a scioglimento della riserva posta sulla richiesta formulata dalle parti, secondo cui, in accoglimento di quest’ultima, “non paiono sussistere preclusioni, nell’ambito dello stesso rito, alla concorde volontà di entrambe le parti di ‘saltare’ la fase sommaria del procedimento”. Il giudice del lavoro investito ha osservato come tale conclusione sia perfettamente in sintonia con la ratio sottesa alla nuova disciplina, di pervenire, cioè, ad una sentenza definitoria del giudizio di primo grado in tempi ridotti, e come il tutto si compia nel rispetto della competenza per materia e per territorio e senza che il “salto” comporti la lesione di diritti delle parti e/o di diritti di rango superiore.Il passaggio immediato alla fase di opposizione è assicurato, per il giudice piacentino, dal ricorso all’applicazione analogica

30 Conformi: L. DE ANGELIS, op. cit., 11; A. BOLLANI, Il rito speciale in materia di licenziamento, in M. MAGNANI- M. TIRABOSCHI (a cura di), La nuova riforma del lavoro, Giuffré, 2012, 315; L. CAVALLARO, La riforma cd. Fornero: questioni processuali, Relazione all’incontro di studi “La tutela del lavoratore tra novità normative e revirements giurisprudenziali”, Agrigento, 21 settembre 2012, pag. 3 del dattiloscritto; G. PACCHIANI PARRAVICINI, Il nuovo art. 18 st. lav.: problemi processuali e sostanziali, in Mass. giur. lav., 2012, 755. Contra, senza motivazione, C. CONSOLO-D. RIZZARDO, Vere o presunte novità, op.cit, 735.

Page 13: riforma l.92/2012

della disciplina contenuta nell’art. 4 d.lgs. 150/2011 (c.d. decreto di semplificazione dei procedimenti civili), il quale prevede il mutamento del rito con ordinanza pronunciabile, anche d’ufficio, non oltre la prima udienza di comparizione delle parti.Con un provvedimento sicuramente rivoluzionario, il G.U. del Lavoro piacentino, per le domande del ricorso rientranti nell’ambito di applicabilità dell’art. 1 commi 47-68, ha così fissato udienza di discussione ex art. 1 comma 51 l. n. 92/2012 e concesso alle parti termini perentori, precedenti la detta udienza, per l’integrazione degli atti Il nuovo rito è dunque delineato specificamente per l’ambito applicativo dell’art. 18 Statuto31 ed ingloba al suo interno anzitutto, a prescindere da qualunque requisito dimensionale, il licenziamento discriminatorio, quello determinato da motivo illecito, quello irrogato in violazione di norme di protezione, fino a quello “veramente inefficace” per difetto di forma scritta32: il che comporta che – in presenza di siffatti vizi – il nuovo rito si applicherà a qualsivoglia ipotesi di recesso datoriale, quali che siano i caratteri del datore di lavoro. In aggiunta a ciò, ma questa volta nei limiti del requisito dimensionale definito dai co. 8-9, l’art. 18, ai co. 4-7, si riferisce al licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo soggettivo ed oggettivo, nonché a quello “inefficace” per vizi di forma (altri rispetto alla carenza di forma scritta). La riforma ha riguardato anche i licenziamenti collettivi, ai quali si applicano gli artt. 18 Statuto e 6 L. n. 604/1966, per quanto previsto dall’art. 1,co. 46, della cd. legge Fornero: cosicché anche ad essi deve ritenersi applicabile il rito speciale. Allorché la domanda abbia un obiettivo riconducibile al “quadro” dell’art. 18 Statuto, essa andrà trattata e decisa nelle forme del nuovo rito speciale anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro. Ne segue che l’accertamento sulla qualificazione del rapporto nelle forme del rito speciale potrà essere chiesto unicamente allorché sia strumentale all’impugnazione del licenziamento, che peraltro in questi casi sarà formalmente qualificato come esaurimento del rapporto di lavoro subordinato o per scadenza del termine o risoluzione del rapporto di lavoro autonomo o di somministrazione33: là dove è il sostanziale automatismo della prospettiva di reintegra (volta che il recesso datoriale risulterà il più delle volte illegittimo, perché intimato in forma orale o comunque del tutto immotivato, senza che tale carenza possa essere “recuperata” in iure per il principio immanente dell’immodificabilità) che motiva la riconduzione al rito speciale di controversie pur radicalmente diverse da quelle relative ai licenziamenti propriamente detti34. Primo aspetto da analizzare è se può essere o meno riconosciuto un potere dispositivo sul nuovo rito “ad una sola delle parti contendenti”, cioè all’attore. Scelta che s’impone sia al giudice sia alla controparte. La sezione lavoro del tribunale di Firenze ha affermato la facoltatività del rito, riconoscendo alla parte attrice la valutazione se per la stessa sia più utile procedere con il nuovo rito ovvero con l’ordinario rito lavoro. A supporto di questa tesi è stata indicata la giurisprudenza della cassazione in materia di procedimento di repressione della condotta antisindacale (art. 28 St. lav. ), nonché l’opportunità di trattare congiuntamente plurime domande, anche non rientranti nel nuovo rito, invece che costringere la parte a proporre più cause. In dottrina, si fa notare che il tenore letterale

31 Esso è testualmente richiamato in chiusura del co. 1 del nuovo art. 18 Statuto. L’avverbio “veramente” è aggiunto per significare, all’interno dell’art. 2 L. n. 604/1966, la diversa intensità dell’inefficacia che colpisce il licenziamento orale (tale da dare luogo alla reintegra: co. 1 dell’art. 2) e di quella che invece (pur etichettata dalla legge in termini apparentemente unitari) consegue alla violazione del requisito di motivazione (co. 2 dell’art. 2 L. n. 604/1966) e delle procedure ex art. 7 Statuto: inefficacia, quest’ultima, che … lascia in piedi l’efficacia del recesso ed è sanzionata unicamente sul piano risarcitorio. 32 Cfr. D. Borghesi, I licenziamenti: tentativo di conciliazione e procedimento speciale, in Commentario alla Riforma Fornero, a cura di F. Carinci e M. Miscione, cit., 16. 33 Nel senso che la riconduzione di queste ipotesi al rito speciale sia priva di giustificazione, se non addirittura inopportuna, v. invece C. Consolo e D. Rizzardo, Vere o presunte novità, op.cit., 737; F. Carinci, Finalità, monitoraggio, oneri

finanziari, in Commentario alla Riforma Fornero, a cura di F. Carinci e M. Miscione, Milano 2012, 5-6; A. Vallebona, La riforma del lavoro 2012, Torino 2012, 735

34 Così G. VERDE, Note sul processo nelle controversie in seguito a licenziamenti regolati dall’articolo 18 Statuto lavoratori, relazione al convegno La nuova disciplina dei licenziamenti - Incontro di studio in memoria di Pasquale Picone (Roma, Corte di Cassazione, 11 dicembre 2012), citato da DE LUCA, Diritti dei lavoratori, op. cit., 22 ss

Page 14: riforma l.92/2012

della legge, secondo cui «la domanda avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento di cui al comma 47 si propone con ricorso» (art. 1, comma 48, l. 92/2012) più che “prescrivere” intende “descrivere” le cadenze del procedimento35. Le domande proponibili al giudice con il nuovo rito non sono solo quelle attinenti al licenziamento, o quelle in cui è in discussione alla legittimità di un termine, il recesso, la qualificazione del rapporto, ma anche le domande «che siano fondate sugli identici fatti costitutivi» (co. 48, secondo alinea). Quest’ultima locuzione si presta invero a letture marcatamente divergenti. Se dovesse essere intesa in senso rigoroso, essa alluderebbe ad un “insieme vuoto”, essendo difficilmente concepibile una domanda, diversa da quelle paradigmaticamente destinate al rito speciale, davvero fondata solo ed esclusivamente su identici fatti costitutivi, e che non coinvolga segmenti di fattispecie ulteriori rispetto a quanto necessario per decidere di reintegra od indennizzo. Più ragionevole ci pare peraltro l’altra lettura, che pretende bensì che i fatti costitutivi dell’impugnativa di licenziamento siano tutti ricompresi nella fattispecie della domanda eterodossa, ma ammette che la fattispecie del diritto oggetto di quest’ultima possa estendersi anche a fatti ulteriori: in tale prospettiva si potrà quindi ammettere che nel rito speciale, in via accessoria o gradata rispetto alla domanda d’impugnativa, possa richiedersi l’eventuale risarcimento del danno ulteriore, la cui entità andrà dimostrata dal lavoratore, o il pagamento di differenze retributive, e forse anche del TFR, conseguenti alla diversa qualificazione del rapporto. Né vi è ragione per escludere, attesa la finalità del legislatore di convogliare nei canali del nuovo rito tutte le questioni relative alla “stabilità” del recesso datoriale, che anche l’azione di accertamento negativa della cessazione del rapporto proposta dal datore di lavoro debba essere trattata secondo le regole del rito semplificato, ovviamente là dove si riscontrino i presupposti di un idoneo interesse ad agire36. Peraltro l’art. 6 L. n. 604/1966, come modificato dall’art. 32 del Collegato, ha portata generale e si riferisce a tutti i tipi di licenziamento, che vanno, per questo, impugnati nei termini ivi stabiliti. E tuttavia, il legislatore, con marcata asintonia sistematica, non ha inteso introdurre il rito speciale e il prodromico procedimento di impugnazione per tutti i tipi di licenziamento, atteso che dall’art. 18 Statuto risulta ancora espunto il licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo, nonché “inefficace” per ragioni formali, dei dipendenti di azienda con un numero di lavoratori inferiore a quindici unità lavorative, la cui disciplina rimane affidata all’art. 8 L. n. 604/1966, quale modificato già dalla L. n. 108/1990. Ebbene, questa problematica va affrontata da un lato metagiuridico, guardando gli interessi e le finalità perseguite e tutelate (se, infatti, il nuovo rito protegge anche interessi della controparte o addirittura pubblici, diventa arduo riconoscere un potere monopolistico di scelta del rito ad una sola delle parti contendenti), e da un lato giuridico-sistematico, poggiando non solo sul mero dato letterale della norma, ma sulla distinzione tra rito e procedimento speciale. Iniziamo dal lato metagiuridico, che introduce anche l’ulteriore aspetto della legittimità costituzionale di una tutela giurisdizionale differenziata, riservata alle sole ipotesi in cui è in gioco l’attribuzione di una delle tutele previste dal novellato art. 18 St.Lav. In particolare, al di là di differenti valutazioni circa l’opportunità di questo nuovo rito, sono state sollevate critiche di costituzionalità, in riferimento agli artt. 3 e 2437 ,in quanto in questo modo si è acuita la sperequazione tra lavoratore e lavoratore, a seconda dell’essere dipendente di un datore di lavoro piccolo o non-piccolo, per cui il lavoratore meno tutelato a livello sostanziale deve anche subire il processo più lento, ovvero in quanto non è comprensibile come si possa differenziare, quanto a disciplina processuale, tra tutela obbligatoria ex art. 18 statuto lavoratori38 e tutela obbligatoria ex art. 8 l. 604/1966, risolvendosi comunque

35 In tal senso, appunto, A. Vallebona, La riforma del lavoro 2012, cit., 73 s. 36 Sull’ammissibilità dell’azione con esplicito riferimento al licenziamento, cfr., da ult., Cass., sez. lav., 9 maggio 2012, n. 7096. 37 Cfr., ad es., C. CONSOLO- D. RIZZARDO, op. cit., 735, nota 29; L. DE ANGELIS, Licenziamenti, progetto Fornero e tormento

del processo cit., 3; ID., Art. 18 dello Statuto cit., § 1; D. DALFINO,Il nuovo procedimento in materia di impugnativa del licenziamento (nella l. 28 giugno 2012, n. 92), Giusto proc. civ., 2012, 762; C. MAJER- A. PAONE, Nuovo rito in materia di licenziamento: prime osservazioni,www.indicitalia.it.

38 Ad es., quando si contesta l’illiceità del licenziamento per mera violazione di forma o di procedura ovvero per difetto di

Page 15: riforma l.92/2012

l’illiceità del licenziamento nel pagamento di una penale. Abbiamo infatti un nuovo rito, che si caratterizza per la (almeno tendenziale) maggior velocità e duttilità di svolgimento, come espressamente dichiarato dal Governo39. Occorre ricercare la giustificazione di questa tutela giurisdizionale differenziata (in quanto più rapida, almeno negli intenti del legislatore, e, per raggiungere tale fine, più duttile e diversamente articolata) nei principi generali, che regolano i rapporti tra diritto sostanziale e diritto processuale. Infatti, pur nell’autonomia del diritto processuale rispetto al diritto sostanziale, comunque, come notato, «se l’effettività della tutela giurisdizionale richiede l’emanazione urgente di un provvedimento per neutralizzare un pericolo nel ritardo, ciò non può che riflettersi anche sulla disciplina del procedimento»40. Questa notazione va affinata, per superare l’obiezione che non c’è bisogno di una tutela giurisdizionale differenziata per rispondere ad un’esigenza di tutela urgente, essendo sufficiente il ricorso alla tutela cautelare. Del resto, fino alla riforma il lavoratore poteva agire ex art. 700 c.p.c. per richiedere l’ordine provvisorio di reintegrazione (e, quindi, di pagamento delle retribuzioni) e il periculum in mora era considerato quasi in re ipsa, dato che in ballo c’era il posto di lavoro e, quindi, il rischio di restare “tagliato fuori” dal sistema produttivo e trovarsi “arrugginito” al momento in cui si fosse giunti in via ordinaria ad accertare l’illiceità del licenziamento. Parimenti, è sufficiente il ricorso alla tutela cautelare per ovviare al pregiudizio (ancora una volta da considerare quasi in re ipsa ) costituito dal tetto massimo di dodici mensilità, a prescindere dalla durata del processo, spettanti al lavoratore, in caso di licenziamento con difetto di giustificazione qualificato, comminato da datore di lavoro non-piccolo. Guardando però dal punto di vista del datore di lavoro, questi non può richiedere una tutela cautelare, essendosi già fatto giustizia da sé per mezzo del licenziamento ed non avendo dalla sua parte il periculum in mora, cioè il rischio che la durata del processo vada a danno della parte che ha ragione: se, ha ragione e il licenziamento è valido, la sua situazione resta identica, salvo acquistare stabilità, non essendo più discutibile la legittimità dello scioglimento del rapporto di lavoro. Onde pertanto ovviare alle lungaggini processuali, che potrebbero portare il datore di lavoro a non assumere altro lavoratore in sostituzione di quello licenziato in pendenza di giudizio, si è preferito ricorrere ad un rito più snello con l'obiettivo di giungere ad una rapida conclusione che possa giovare ad entrambe le parti nel processo. L’aver stabilito che il nuovo rito speciale si applica a tutte le tutele previste dal novellato art. 18 St. Lav. (Ora, il novellato art. 18 prevede una serie di ipotesi fra loro diversificate – oltre che naturalmente con riguardo alle rispettive fattispecie – anche con riferimento agli effetti. Esse hanno, tuttavia, un elemento in comune: la previsione che il giudice possa disporre la reintegrazione del dipendente invalidamente licenziato), anche quando potrebbe non essere disposta la reintegrazione in servizio, può dipendere dal fatto che si è scontata la probabilità che il lavoratore chieda sempre o molto spesso in tesi la tutela reintegratoria: si tratta di ridurre le incertezze41 legate ad una possibile reintegrazione del dipendente, giungendo quanto prima ad un provvedimento che, una volta per tutte, stabilisca se, a seguito del licenziamento, si avrà o meno la prosecuzione del rapporto di lavoro (ad es. assumendo l’insussistenza del fatto contestato), con conseguente difficoltà a scindere e differenziare tra tutela reintegratoria e tutela risarcitoria, pur previste dall’art. 18; inoltre, può dipendere dall’entità della tutela risarcitoria (che può giungere anche a due anni di stipendio) e,

giustificazione non qualificato.

39 Si fa riferimento al documento dal titolo La riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita, presentato dal Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali con delega alle Pari Opportunità, prof.ssa Elsa FORNERO, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, prof. Mario MONTI, al Consiglio dei Ministri del 23 marzo 2012 e approvata dallo stesso nella medesima seduta (vedilo in www.governo.it). Il punto 3.2 è rubricato come «rito processuale veloce per le controversie in tema di licenziamento», precisando che «al fine di consentire la riduzione dei tempi del processo per quanto concerne le controversie

giudiziali in tema di licenziamento, si propone, attraverso l’azione di concertazione istituzionale con il Ministero della Giustizia, l’introduzione di un rito speciale specificamente dedicato a tali controversie». V. anche il commento di R. CAPONI, Rito processuale veloce cit.

40 R. CAPONI, op. ult. cit., paragrafo 3. 41 DE ANGELIS, op. cit., 1; BUONCRISTIANI, op. cit., 5; SORDI, op. cit., 1.1; CURZIO, op. cit., 2

Page 16: riforma l.92/2012

quindi, dall’esigenza di dare certezza al datore di lavoro sulle somme che può investire in azienda, invece di tenerle nel cassetto per far fronte all’eventuale condanna al risarcimento dei danni causati dal licenziamento. Non ha rilevanza, sotto questo profilo, che il dipendente non chieda la reintegrazione (optando, ad es. , fin dal ricorso per l’indennità di cui all’art. 18, comma terzo, St. lavoratori)42. La domanda prevista dal comma 47 è sempre unica, qualunque sia la tutela richiesta. Non è quindi, irragionevole né tantomeno incostituzionale l’esclusione in radice, dall’ambito di applicazione del nuovo procedimento, delle ipotesi in cui la tutela spettante è quella dell’art. 8 della L. 604/196643, poiché in quei casi la reintegrazione non è mai possibile.In tal caso l’indennità risarcitoria è notevolmente più contenuta, anche rispetto all’indennità prevista dall’art. 18 statuto lavoratori per il caso di solo vizio di forma o procedura. Né è fondato rilevare che “il procedimento riguarda anche le ipotesi che il nuovo art. 18 riconduce alla stabilità obbligatoria sia pur rimpolpata”44, poiché anche in tali ipotesi la reintegrazione è pur sempre possibile. In altri termini: non esiste fattispecie disciplinata dall’art. 18 in cui possa escludersi a priori la reintegrazione; di conseguenza, il procedimento speciale può sempre concludersi con un provvedimento, che dispone la reintegrazione del dipendente. Quindi, una possibile giustificazione della tutela giurisdizionale differenziata c’è, salvo approvarla o negarla. L’esigenza di un nuovo rito speciale tendenzialmente più rapido non è imposta o resa necessaria dalle modifiche sostanziali apportate alla disciplina del licenziamento comminato da un datore di lavoro non-piccolo; infatti, l’esigenza di ridurre l’incertezza circa le conseguenze del licenziamento e così favorire nuove assunzioni o nuovi investimenti era ancora più marcata prima delle modifiche apportate, quando comunque all’illiceità del licenziamento (sia per vizi formali che sostanziali) seguiva la reintegrazione e il risarcimento del danno, corrispondente a tutte le retribuzioni medio tempore maturate, senza alcuna limitazione (come adesso introdotta, in caso di difetto qualificato di giustificazione), salva soltanto la deducibilità dell’aliunde perceptum et percipiendum. L’introduzione del nuovo rito speciale si pone quindi non come “risposta” ma come “completamento” alle modifiche apportate al diritto sostanziale: oltre a cercare di imbrigliare l’incertezza circa l’esito del processo e il relativo costo (escludendo la reintegrazione,salvo l’ipotesi di difetto qualificato di giustificazione, e limitando il quantum del risarcimento tra un minimo ed un massimo)45, il legislatore ha inteso ridurre anche temporalmente quest’incertezza, intervenendo sulla disciplina processuale. In sintesi, dal lato metagiuridico, occorre riconoscere che il nuovo rito risponde anche a finalità pubbliche oltre che ad esigenze di tutela del datore di lavoro. Questo rende arduo riconoscere ad uno dei due contendenti un potere monopolistico di scelta del rito, senza possibilità di opposizione da parte dell’avversario e senza possibilità di intervento da parte del giudice. Quindi,si parla di “rito” e non di “procedimento speciale”. Non è stata prevista una “possibile” diversa modulazione della trattazione della controversia di lavoro, con scelta affidata all’attore, similmente a quanto accade con il “procedimento sommario di cognizione”, di cui agli artt. 702 bis e ss. c.p.c., ovvero con il “procedimento di repressione della condotta antisindacale”, di cui all’art.28 St. lav. È vero che il legislatore nel d.lgs. 150/2011 ha poi elevato il procedimento sommario di cognizione alla dignità di rito sommario di cognizione per le tipologie di controversie indicate negli artt.14-30, ma a monte occorre tener ben distinto il “rito” dal “procedimento”: infatti, per le materie adesso

42 SORDI, 2 43 Come affermano DALFINO, op. cit., 1; DE ANGELIS, op. cit., 1; CONSOLO-RIZZARDO, Vere o presunte novità, cit., 735; DE CRISTOFARO-GIOIA, Il nuovo rito, cit., 2. 44 DE ANGELIS, op. cit., 1. Nello stesso senso, sostanzialmente, BOLLANI, Il rito speciale, cit., 321 45 In Francia, al contrario, il legislatore si limita a fissare il minimo dell’indennità risarcitoria che il giudice può liquidare a favore

del lavoratore, in caso di licenziamento ingiustificato. V., si paret, D. BUONCRISTIANI, Il licenziamento disciplinare. Tecnica procedimentale ed impugnatoria. Profili comparatistici (Francia, Spagna, Germania), 2012, parte seconda, capitolo primo.

45 BUONCRISTIANI, op. cit., 5. Nello stesso senso VALLEBONA, La riforma, cit., 77

Page 17: riforma l.92/2012

elencate negli artt. 14-30 del d.lgs. 150/2011 “deve” essere seguito il rito sommario di cognizione; al contrario, per le cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, la parte attrice è libera di scegliere se avvalersi del procedimento sommario di cognizione ovvero se percorrere il procedimento ordinario, proprio in quanto si tratta di un procedimento sommario e non di un rito speciale. In fine, i motivi di opportunità a non costringere la parte a proporre più cause non spostano il piatto della bilancia: il legislatore ha consapevolmente voluto completare la riforma della disciplina dei licenziamenti, prevedendo altresì una corsia riservata ed accelerata, con accesso limitato. In realtà, dunque, il legislatore non ha voluto creare uno speciale procedimento finalizzato alla tutela del dipendente ma, come è stato acutamente osservato, “l’introduzione del nuovo rito speciale si pone quindi non come risposta ma come completamento alle modifiche apportate al diritto sostanziale”46. La (parziale) somiglianza strutturale con l’art. 28 St. lavoratori pertanto non deve trarre in inganno: là la norma costituisce una tipica ipotesi di diritto in veste di azione47, in quanto ha la finalità di creare e tutelare una situazione protetta di cui sono titolari le organizzazioni sindacali; qui, invece, il procedimento speciale ha lo scopo di abbreviare i tempi necessari per arrivare ad una decisione nelle ipotesi in cui sullo sfondo c’è la possibilità di una reintegrazione. Esso, dunque, tutela anche la parte che ha torto48. Ciò consente anche di chiarire cosa significa l’ultima frase del comma 4749. La qualificazione del rapporto di lavoro, infatti, può costituire una questione pregiudiziale, dalla cui risoluzione discende la possibilità di qualificare come “licenziamento” la avvenuta interruzione del rapporto sostanziale, e di verificare se tale licenziamento sia valido o invalido. Così, ad es., se è controversa la qualificazione del rapporto come subordinato o meno, ovvero la qualificazione dello stesso come a termine oppure no50. Ora, le controversie relative all’accertamento dell’esistenza e qualificazione del rapporto rientrano nella previsione dell’art. 409 c.p.c., e dunque, in mancanza di quanto espressamente previsto nell’ultima frase del comma 47, si sarebbe potuto sostenere che – ove l’esito di un’impugnativa del licenziamento dipendesse dalla qualificazione del rapporto – tale qualificazione dovesse essere effettuata con il rito del lavoro, con la conseguente sospensione del procedimento speciale, o la sua attrazione al rito del lavoro ex art. 40 c.p.c. Così, invece, diviene possibile trattare delle questioni relative alla qualificazione del rapporto all’interno del procedimento volto a sindacare la validità/invalidità del licenziamento. La l. 4.11.2010, n. 183 - Collegato lavoro -, recante tra l’altro, come recita il suo titolo, disposizioni in tema di controversie di lavoro, contiene in realtà norme non solo processuali, ma anche sostanziali che riguardano il rapporto di lavoro in generale ed in particolare la nuova disciplina dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento e di altri atti datoriali, nonché dell’impugnativa del lodo arbitrale irrituale. La legge di riforma intervenne anche sull’art. 32 del D. L. n. 183/2010 anzitutto con riguardo alla disciplina della decadenza51 . Prescindendo dalla scelta di portare da 60 a 120 i giorni per l’impugnazione stragiudiziale, discutibile giacché sfugge la ratio della diversificazione rispetto alle altre fattispecie, le modifiche apportate alla lett. a del comma 3 dall’art. 1, comma 11, della legge n. 92 non si segnalano per perspicuità. Riferendo l’applicazione della disciplina della decadenza “ai licenziamenti che

46 BUONCRISTIANI, op. cit., 5. Nello stesso senso VALLEBONA, La riforma, cit., 77 47 SATTA, Commentario al codice di procedura civile, IV, 1, Milano 1959-1968, 285 ss. con riferimento alle azioni possessorie. 48 DE ANGELIS, op. cit., § 1, il quale afferma che “si è così finito per ampliare la portata del principio chiovendiano per il quale la durata non deve andare a danno di chi ha ragione”. In realtà, qui ciò che viene tutelato non è il diritto della parte che ha ragione, ma il diritto della parte in quanto tale (e quindi anche del soccombente) ad un decisione in tempi brevi. 49 In arg. v. CONTESSA, Il nuovo rito dei licenziamenti: l’ambito di applicazione delle nuove disposizioni processuali, relazione al

convegno La riforma del mercato del lavoro, Milano 17 ottobre 2012, 4 50 Ma non quando si invochi la nullità dell’apposizione del termine: VALLEBONA, La riforma, cit., 73 51 Cfr., con riguardo all’art. 32 prima delle modifiche, il mio Il contratto a tempo determinato nel “collegato lavoro” alla legge

finanziaria, in RIDL, 2010, II, 473 ss. Cfr anche L. MENGHINI, Le decadenze per l’impugnazione del recesso, del trasferimento geografico e del trasferimento d’azienda, in M. MISCIONE, D. GAROFALO (a cura di), Il Collegato lavoro 2010, IPSOA, Milano, 2011, 365 ss.

Page 18: riforma l.92/2012

presuppongono la risoluzione di questioni relative…alla nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368” (trasferendo così nella lett. a il contenuto della originaria lett. d , che viene abrogata) la norma per un verso può alimentare l’orientamento, invero assolutamente minoritario, secondo cui l’esclusione del lavoratore alla scadenza del termine integra un licenziamento27 e per converso può dare spazio ad una operazione ermeneutica giocata sul dato letterale la quale, muovendo dalla soppressione della lett. d , pretenda di escludere l’applicazione della decadenza all’azione di nullità del termine salva l’ipotesi (che possiamo dire dell'irrealtà) in cui si abbia un licenziamento. Viene in rilevo, a tal fine, l’art. 32 in tema di «decadenze e disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo determinato», che ha dettato una nuova disciplina dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento e di altri atti datoriali con le connesse relative decadenze. Alla disciplina dell’impugnazione del licenziamento (art. 32) può affiancarsi, in una visione sistematica della riforma contenuta nel «collegato lavoro», quella dell’impugnazione del lodo irrituale, di cui all’art. 31 della stessa l. 183/2010. Connessa a tale nuova disciplina delle impugnazioni è l’art. 2, co. 54, d.l. 29.12.2010, n. 225, convertito nella l. 26.2.2011, n. 10, che, poco dopo l’entrata in vigore del «collegato lavoro», ha già apportato una modifica introducendo il comma 1 bis nell’art. 32 l. n. 183/2010. Quindi, le «novità» normative, di cui si viene ora a dire, sono costituite dall’art. 32, l. n. 183/2010, come modificato dall’art. 2, co. 54, d.l. n. 225/2010, conv. nella l. n. 10/2011, quanto all’impugnativa stragiudiziale del licenziamento e di altri atti datoriali, e dall’art. 31 della stessa legge, quanto all’impugnativa del lodo arbitrale. Il legislatore del 2010 ha lasciato fermo il termine di decadenza per l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento, da sempre fissato in 60 giorni (art. 6, co. 1, L. n. 604/1966) dalla comunicazione in forma scritta del licenziamento o dei motivi, ove non contestuale52. Il successivo termine per la proposizione del ricorso giurisdizionale, o delle equipollenti comunicazioni alla controparte della richiesta di esperimento del tentativo di conciliazione o di arbitrato, era stato fissato in 270 giorni53. In questa disposizione vi è una certa coerenza – nell’ottica della flessibilità – nell’assicurare al datore di lavoro, che per qualsiasi motivo abbia allontanato il lavoratore, di non vedersi invocare contro, anche dopo anni (fino a cinque, prima della riforma), la tutela in forma specifica, e a non essere costretto a risarcire il lavoratore per attività non prestata anche per lungo periodo. Il legislatore del 2012 ha lasciato invariato il termine per l’impugnazione stragiudiziale54, mentre ha ridotto a 180 giorni quello per la proposizione del ricorso introduttivo, sia all’interno del rito speciale di impugnazione del licenziamento, per i casi riconducibili all’art. 18 Statuto (art. 1, co. 46 ss.); sia per i casi di tutela “puramente” obbligatoria nelle piccole imprese, ancora assoggettati al rito “ordinario” del lavoro55. 51 L’orientamento è rinvenibile in qualche sentenza dei giudici di merito (v. ad es., in materia di lavoro a progetto, Trib. Torino 5

aprile 2005, in LG., 2005, 651). La Cassazione ha sempre escluso che la cessazione del rapporto per scadenza del termine integri un licenziamento: cfr. ex multis Cass. S.U., 8 ottobre 2002, n. 14381; Cass. 21 maggio 2007,n. 11741. Così anche Cass. 31 maggio 2012, n. 8688. Questa sentenza merita di essere segnalata soprattutto perché contiene l’affermazione secondo cui, al contrario, al recesso ante tempus dal rapporto a termine, in quanto licenziamento ,“è applicabile pacificamente la disciplina ordinaria prevista dall’art. 18 L. 300/70” con conseguente diritto all’opzione per le 15 mensilità (sic!) .

52 L’impugnazione del licenziamento è tempestiva se la spedizione della lettera raccomandata avviene nel termine di decadenza: Cass., sez. un., 14 aprile 2010, n. 8830, in Riv. it. dir. lav. 2010, II, 919, con nota di D. Buoncristiani. 53 Il termine è di soli 60 giorni, che decorrono dal rifiuto o dal mancato accordo, qualora la conciliazione o l'arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento (art. 32, co. 1, ult. alinea, del Collegato). Per una specifica disamina del dies a quo in tutti i casi di conciliazione e arbitrato previsti dalla legge, si veda G.F. Carbonara, L’impugnazione del licenziamento, in La nuova giustizia del lavoro, a cura di D. Dalfino, Bari 2012, 423 ss., in particolare, 426 ss. 54 Per i casi in cui si faccia questione della nullità del termine apposto al contratto, il termine di decadenza è invece raddoppiato (centoventi giorni), ex art. 1, co. 11. Tale termine decorrerebbe dalla cessazione del medesimo contratto, scrive il legislatore. Tuttavia si sa che il contratto non cessa, al più cessa il rapporto (o gli effetti del contratto, ove il termine apposto non sia nullo). Sarebbe stato più opportuno perciò far riferimento al momento in cui il termine stabilito nel contratto sia scaduto. 55 Resta fermo il termine di 60 giorni dal rifiuto o dal mancato accordo conciliativo o arbitrato. Cfr. nota 57

Page 19: riforma l.92/2012

Il termine di 180 giorni decorre dallo specifico momento dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento56 e non già dall’ultimo giorno utile in cui questo poteva essere impugnato, né tantomeno dal giorno in cui il licenziamento è stato intimato. Sebbene questa ricostruzione privilegi il lavoratore che impugni all’ultimo istante, essa viene controbilanciata dalla considerazione che i 180 giorni effettivi intercorrenti tra l’impugnazione del licenziamento e la domanda giudiziale possono essere utilizzati per eventuali trattative informali tra le parti. Del resto, come si è rammentato, nulla impedisce al datore di lavoro che veda impugnato il licenziamento di proporre un’azione di accertamento negativo, così da chiedere immediatamente la verifica della legittimità o della validità del recesso. In considerazione della recettizietà dell’atto d’impugnazione del licenziamento57, il termine per adire il giudice non può che decorrere dal momento in cui il datore di lavoro riceva l’atto e non da quello in cui è stato inviato58. Simile lettura ben si compenetra anche con la ratio della norma, che, come detto, intende tutelare il datore da richieste ripristinatorie del rapporto di lavoro troppo dilatate nel tempo. Al momento della ricezione il datore sarà edotto sul termine entro il quale può aspettarsi un’eventuale domanda giudiziale da parte del lavoratore. Resta fermo che la peculiare natura dell’atto introduttivo del giudizio, che in caso di ricorso produce gli effetti processuali dal momento del deposito (cfr. anche l’art. 39, co. 3, c.p.c., quale novellato nel 2009), ha fatto determinare il legislatore a considerare quest’ultimo come dies ad quem (art. 6 L. n. 604/1966, come modificato dall’art. 32, co. 1, del Collegato)59. Per effetto della nuova disposizione che ulteriormente modifica l’art. 6 L. n. 604/1966, il termine di 180 giorni per adire il giudice si applica ai licenziamenti intimati dopo la data di entrata in vigore della presente legge (art. 1, co. 39). Senz’altro alla nozione di “licenziamenti intimati” (vista la onnicomprensività dei rapporti che seguono il rito speciale del licenziamento) deve ricondursi in generale la “cessazione del rapporto”, o forse, ancora meglio, debbono ricondursi i “rapporti nei quali il lavoratore ha cessato la sua attività lavorativa”. All’indomani del varo del Collegato lavoro, la dottrina evidenziò come alla norma che aveva ridotto il termine per far valere le proprie ragioni davanti al giudice fosse da attribuire natura

56 In tal senso G. Ianniruberto, Le regole per l’impugnazione nel cd. “collegato lavoro” , in Mass. Giur. lav. 2010, 888. 57 Che non trova smentita nella regola pretoriamente acquisita (cfr. supra nota 56) per cui è sufficiente che il lavoratore, nel termine, invii l’impugnativa stragiudiziale (ovvero direttamente depositi il ricorso introduttivo). 58 In tal senso, invece, G. F. Carbonara, L’impugnazione del licenziamento, cit., 426 59 Ai fini della salvezza della decadenza può essere senz’altro sufficiente il deposito di un ricorso cautelare, in alternativa ad un ricorso ordinario ex art. 414 c.p.c.: in tal senso paiono indirizzare univocamente i principi accolti dalla giurisprudenza in materia di momento individuatore della litispendenza, in caso di successione tra procedimento cautelare e tempestivo giudizio di merito (cfr. Cass., sez. lav., 12 luglio 2004, n. 12895: «Nel caso di domanda cautelare accolta (e confermata in sede di reclamo), seguita da rituale instaurazione del giudizio di merito nel termine fissato ai sensi dell'art. 669 octies c.p.c., ai fini della individuazione del giudice preventivamente adito deve necessariamente tenersi conto della data di instaurazione del procedimento cautelare, atteso l'inequivocabile collegamento che la norma impone tra ordinanza di accoglimento e inizio della causa di merito»; nonché Cass., sez. I, 24 luglio 2007, n. 16328, in Riv. dir. proc. 2008, 849, con nota critica di U. Corea, L’esperimento del giudizio cautelare modifica la disciplina della competenza per il giudizio di merito (e cancella l’art. 39, ult. co., c.p.c.): una inaccettabile conclusione della Corte Suprema; ed ancora Cass., sez. lav., 9 febbraio 2009, n. 3119, in Riv. dir. proc. 2010, 236, con nota critica di E.F. Ricci, Il provvedimento cautelare ante causam come lampada di Aladino, che ha necessariamente – seppur fantasiosamente – ribadito tale principio pur nel contesto dell’attenuazione della strumentalità necessaria dei provvedimenti ex art. 700 c.p.c., purché il merito venga coltivato nel termine di cui all’art. 669 octies, co. 1, c.p.c.). Allo stesso modo sarà sufficiente la proposizione del ricorso ex art. 1, co. 48, L. n. 92/2012 a un giudice che poi si dichiarerà incompetente. Certo la giurisprudenza collega anche alle domande che si concludano con una sentenza di rito tutti gli effetti della domanda validamente proposta, ivi compreso quello interruttivo-sospensivo della prescrizione (ex art. 2945 c.c.), e non necessariamente siffatto principio si estende all’effetto di impedimento della decadenza (cfr. per tutti C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile. II. Le disposizioni generali, 2^ ed., Torino 2012, 126 ss.); tuttavia – come noto – la declinatoria di competenza (ed oggi anche di giurisdizione) non colloca il processo su un binario morto, ma è premessa per la prosecuzione dell’identico rapporto processuale, in grazie della translatio iudicii ex art. 50 c.p.c. (e per la giurisdizione in grazia dell’art. 59 L. n. 69/2009, nonché dell’art. 9 del Codice del processo amministrativo), con pieno dispiegarsi dell’effetto impeditivo della decadenza, se il processo viene riassunto tempestivamente.

Page 20: riforma l.92/2012

sostanziale e, come tale, il nuovo termine di decadenza dovesse applicarsi ai licenziamenti intimati e ai rapporti nei quali il lavoratore aveva cessato la sua attività lavorativa dopo l’entrata in vigore della legge60. Questo ragionamento è così valido anche con riguardo al nuovo termine, ridotto da 270 a 180 giorni. Quanto invece al nuovo rito speciale, esso è disciplinato senz’altro da disposizioni di tipo processuale. Il legislatore detta così opportunamente una precisa norma di diritto transitorio, il co. 67 dell’art. 161, secondo cui il nuovo rito si applica alle sole controversie instaurate successivamente all’entrata in vigore della legge che lo ha introdotto, né razionalmente questi avrebbe potuto determinarsi diversamente. Tutte le cause pendenti aventi ad oggetto la materia che, pro futuro, sarà trattata con il rito speciale, se instaurate prima dell’entrata in vigore della cd. legge Fornero, continueranno a seguire il rito (ormai divenuto “ordinario”) del lavoro fino alla loro naturale conclusione. Come si diceva, nell’ambito del nuovo rito sono proponibili anche le domande “che siano fondate sugli identici fatti costitutivi” rispetto all’impugnativa del licenziamento (co. 48, secondo alinea): vi è quindi ricompreso , ad es. , l’eventuale risarcimento del danno ulteriore, in tanto in quanto il lavoratore sia in grado di dimostrarne i presupposti. Per quanto riferito circa il regime di queste domande risarcitorie, il giudice investito della domanda oltre i termini non potrà dichiararne l’inammissibilità, ma – accertato il decorso inutile del termine di decadenza sostanziale – dovrà dichiararla infondata. A questo punto si può tentare una semplificazione delle situazioni che si potranno presentare. Coloro i quali avranno cessato l’attività lavorativa prima dell’entrata in vigore del Collegato lavoro (cioè prima del 24 novembre 2010), che abbiano regolarmente impugnato in via stragiudiziale il licenziamento, potranno adire il giudice entro cinque anni, ex art. 2948, n. 5, c.c.62, onde ottenere il risarcimento in forma specifica (la reintegrazione o la riassunzione) e per equivalente, ai sensi degli artt. 18 Statuto e 6 L. n. 604/1966 vecchia formulazione. Coloro i quali abbiano cessato l’attività lavorativa in un momento che va dall’entrata in vigore del cd. Collegato lavoro all’entrata in vigore dell’ultima riforma, per ottenere la medesima tutela dei primi, sono tenuti ad adire il giudice entro 270 giorni dall’impugnazione stragiudiziale del licenziamento. Infine, i lavoratori che abbiano cessato la loro attività dopo l’entrata in vigore della L. n. 92/2012, al fine di ottenere la tutela in forma specifica e/o per equivalente ai sensi dei riformati artt. 18 Statuto e 6 L. n. 604/1966, dopo aver impugnato regolarmente il licenziamento con l’atto recettizio dovranno adire il giudice del lavoro nel termine di 180 giorni. Le tre situazioni prospettate convivranno per almeno dieci mesi dalla vigenza della cd. legge Fornero, mentre la prima e la terza continueranno a coesistere almeno fino alla fine del 2014, quando saranno trascorsi cinque anni dall’ultimo licenziamento intimato nel vigore del regime “tradizionale” prima delle due riforme. Certo è che la tutela appresta ai lavoratori licenziati nelle tre fasi temporali descritte comunque continua a rimanere differenziata. Anche dal punto di vista oggettivo vanno fatte delle distinzioni. Come già detto, al lavoratore licenziato prima dell’entrata in vigore del Collegato lavoro si applicano l’art. 18 Statuto e l’art. 6 L. n. 604/1966 prima della riforma. Nella stessa fase il lavoratore le cui prestazioni lavorative siano cessate per altre cause non abbisogna di alcuna impugnativa stragiudiziale e può far valere la sua

60 Cfr. in tal senso, seppure apoditticamente, A Vallebona, L’estinzione del rapporto di lavoro, in Istituzioni di diritto del lavoro, vol. II, VII ed., Padova 2011, 521, e, con articolata argomentazione, G. F. Carbonara, L’impugnazione del licenziamento, cit., 423 ss. 61 Sulla opportunità delle norme transitorie spende innumerevoli argomentazioni B. Capponi, La legge processuale civile. Fonti interne e comunitarie, Torino 2001, 103 ss. e 117 ss., e ivi anche la distinzione tra diritto transitorio e diritto intertemporale 62 La prescrizione breve si applica alle indennità spettanti per effetto della cessazione del rapporto di lavoro, a prescindere dalla natura, retributiva o previdenziale, ovvero dal tipo di rapporto, subordinato o parasubordinato. Cass., sez. lav.,

12 giugno 2008, n. 15798, giustifica la presa di posizione in tal senso in ragione dell'esigenza di evitare le difficoltà probatorie derivanti dall'eccessivamente prolungata “sopravvivenza” dei diritti sorti nel momento della chiusura del rapporto.

Page 21: riforma l.92/2012

domanda nel termine di prescrizione ordinario, ma dovrà provare il danno eventualmente subito, senza usufruire della predeterminazione ex lege . A partire dall’entrata in vigore del Collegato lavoro nessuna distinzione può essere fatta (tranne per ciò che vedremo tra breve) circa la quantità e le modalità di tutela tra i lavoratori che abbiano in qualsiasi modo cessato di svolgere la loro attività,su richiesta (espressa o no) del datore. Va affrontata la questione riguardante la obbligatorietà o facoltatività del rito. La giurisprudenza ha espresso una netta prevalenza n favore della obbligatorietà63. Diversamente, la sezione lavoro del Tribunale di Firenze64, all'esito della riunione tenutasi il 17 ottobre 2012, ha optato per la facoltatività, riservando all'attore, in relazione al caso concreto, la valutazione della maggiore o minore utilità del nuovo rito o di quello “ ordinario” del lavoro, rispetto “agli interessi del cliente”. Le argomentazioni utilizzate sono sostanzialmente le seguenti:

- poiché il nuovo procedimento è modellato su quello di cui all'art.28 St. Lav. , relativo alla pressione della condotta antisindacale, la conclusione cui è pervenuta la giurisprudenza per quest'ultimo, vale a dire la possibilità di utilizzare ai medesimi fini il giudizio a cognizione piena ex art.414 ss c.p.c.65, deve ritenersi perfettamente applicabile;

- poiché l'esclusività del rito Fornero, concepito, almeno n via tendenziale per la trattazione e decisione delle controversie relative alla sola impugnativa del licenziamento, impedisce di presentare domande diverse, “ sarebbe illogico obbligare la parte, che eventualmente abbia più istanze di tutela, a proporre più cause ( moltiplicando i processi)”.

Questa tesi si lascia apprezzare per lo sforzo volto ad evitare le conseguenze della obbligatorietà del rito. Tali conseguenze, tuttavia, sembrano inevitabili 66. Invero, una argomentazione in tal senso non potrebbe essere tratta dal tenore letterale del 48° comma dell'art.1, secondo cui “ la domanda [...] si propone”. Infatti, se la disposizione non dice che la domanda si “ può” proporre, non dice neanche che si “deve”. Pertanto, la conclusione potrebbe essere capovolta. A ben vedere, invece, sono la ratio e la funzione del rito a spingere verso la non facoltatività del rito e ad impedire alle parti ( il lavoratore che impugni il licenziamento o il datore di lavoro che domandi l'accertamento della legittimità del licenziamento, là dove sia ravvisabile un interesse ad agire in capo a quest'ultimo67) di optare per il rito a cognizione piena ex art. 414 ss. c.p.c. E' vero, infatti, che la celerità del nuovo rito sembra rispondere ad una logica di controbilanciamento, in favore del lavoratore, della riduzione del termine per l'impugnazione del licenziamento, volta, invece, a soddisfare l'esigenza, altrettanto meritevole di considerazione, del datore di lavoro di

63 Anche la dottrina sembra propendere per questa soluzione. Cfr. F.M. Giorgi, La riforma del Mercato del Lavoro – Aspett

sostanziali e processuali, Napoli, 2013,302 ss. ; F.P.Luiso, op. ct. 63 ss.; L. De Angelis, Art. 18 dello Statuto dei lavoratori e processo: Prime considerazioni, cit. 11; P. Curzio, Il nuovo rito per i licenziamenti, in WPCS.D.L.E. “Massimo D'Antona”. IT . - 158/2012,16. In senso contrario,v. G.Verde, Note sul processo nelle controversie in seguito a licenziamenti regolati dall'art.18 dello statuto dei lavoratori, in RDP, 2013,301 ss.

64 Sezione Lavoro del Tribunale di Firenze che, all’unanimità dei magistrati, ha deciso quanto segue: a) il rito ex l. 92/2012 è facoltativo, ed è compito della parte scegliere se – per il proprio caso – è più utile questo oppure il “classico” rito ex art. 414 c.p.c., ma si esclude (conseguentemente) che con il rito veloce si possano avanzare domande non strettamente connesse al licenziamento o alla qualificazione del rapporto di lavoro come, ad esempio, la richiesta di pagamento di differenze retributive; b) il datore di lavoro può utilizzare il nuovo rito per ottenere, con tempi ridotti, l’accertamento della legittimità del licenziamento intimato al lavoratore; c) l’esistenza del nuovo rito “veloce” non elimina la tutela d’urgenza ex art. 700 c.p.c. che continua a sopravvivere; d) sono inammissibili tutti i ricorsi rientranti nella tutela obbligatoria, o aventi ad oggetto la richiesta di ricostituzione del rapporto per nullità della clausola oppositiva del termine; e) nel nuovo rito il regime di preclusioni e decadenze è alleggerito in quanto non si decade dalla prova ma le parti devono offrire una completa prospettazione dei fatti costitutivi, modificativi, impeditivi ed estintivi; f) infine, il nuovo rito, inoltre, si applica a tutti i giudizi instaurati dopo l’entrata in vigore della Riforma Fornero, ovvero il 18 luglio 2012, anche se il punto è pressoché pacifico.

65 Cfr. Cass. 26 gennaio 1982, n. 515, in Fl.,1982,I, 1043 66 In dottrina, nel senso della facoltatività del rito, v. G.Verde, op. Cit. 3. 67 Scettico, sul punto sembra F.P.Luiso ( R. Tiscini, A.Vallebona) op. Cit. 5, ma v. Da ultimo, Cass. 9 maggio 2012, I,

1369, con nota di S. Calvigioni, che ha ravvisato l'interesse del datore di lavoro a domandare l'accertamento della validità e legttimità del licenziament intimato per giusta causa.

Page 22: riforma l.92/2012

conoscere quanto prima l'eventuale intenzione del lavoratore rispetto al recesso intimato; è anche e soprattutto vero, però, tale celerità è funzionale alla formazione di una decisione stabile e, dunque, al soddisfacimento di un'esigenza che non fa capo ad un soggetto in particolare ( come, invece, nel caso dell'art. 28 St. Lav.) e che corrisponde anche ad un interesse di carattere generale68. Ciò impedisce d estendere al procedimento sommario di cui all'art.1 48° comma ss. L.92/2012, l'orientamento cui innanzi si è fatto cenno relativo all'art. 28 St. Lav. Si ha poi 'ipotesi in cui le parti propongano istanza congiunta volta a “saltare” la fase sommaria per accedere direttamente a quella successiva a cognizione piena, di opposizione. Non si tratterebbe, infatti, di optare per l'applicazione di un rito diverso, ma per una fase successiva dello stesso rito previsto per le controversie in materia di impugnativa del licenziamento. In giurisprudenza, la questione è stata risolta in senso affermativo, non ostandovi la violazione di “ alcun principio generale dell'ordinamento prcessualcvilistico, ne con specifiche disposizioni dettate dalla legge n. 92 del 2012 e neppure con la ratio di quest'ultima “ 69. Peraltro, s è osservato che sarebbe contrario allo scopo della riforma imporre alle parti che abbiano chiaramente espresso la volontà d accedere alla cognizione piena, di affrontare i costi e i tempi d una fase processuale destinata, in ogni caso, ad essere seguita da una fase successiva e, quindi, inidonea a definire la lite69 La tesi è suggestiva ma non convince del tutto perchè la lettera del 51° comma dell'art.1, infatti, è chiara nel senso di impedire alle parti di disporre del rito anche in questa ipotesi (“ contro l'ordinanza”). Invero, l'opposizione avverso l'ordinanza conclusiva della fase sommaria costituisce si un primo grado di giudizio a cognizione piena, ma si atteggia anche, sia pure in senso lato, a rimedio impugnatorio ( non a caso qualificato come “opposizione”). In estrema sintesi, il nuovo “rito” per l’impugnativa del licenziamento si articola nel modo che segue:

a) Procedimento Sommario non cautelare di competenza del tribunale in funzione di giudice del lavoro,senza la previsione espressa di preclusioni o decadenze, destinato a concludersi con un’ordinanza di accoglimento o di rigetto, immediatamente esecutiva, che conserva efficacia ( non potendo essere né sospesa né revocata) sino alla definizione con sentenza dell’eventuale successivo giudizio di opposizione;

b) Giudizio di opposizione “contro” l’ordinanza innanzi al medesimo ufficio giudiziario in funzione di giudice del lavoro snello e senza la previsione di particolari formalità attinenti al contraddittorio, tuttavia a cognizione piena, caratterizzato nella fase introduttiva dalle medesime decadenze e preclusioni di cui agli art. 414 e 416 c.p.c., destinato a concludersi con sentenza esecutiva;

c) Giudizio di impugnazione della sentenza nelle forme di un reclamo da proporre innanzi alla corte d’appello, anch’esso snello e informale nello svolgimento del contraddittorio, tendenzialmente chiuso alle novità sul piano probatorio, con possibilità di inibitoria della esecutività della sentenza di primo grado;

d) Ricorso per Cassazione avverso la sentenza emessa all’esito del giudizio di reclamo. Dispone l’art. 1, comma 48, della legge n. 92 del 2012 che la domanda si propone con ricorso «al tribunale in funzione di giudice del lavoro». Anche se nulla è specificato in ordine alla competenza 68 Nello stesso senso, v. F.P.Luiso ( R. Tiscini, A.Vallebona) op. Loc. Cit. 69 V. Trib. Roma, ord. 28 novembre 2012. 69 Sempre secondo il trib. Roma, ord. 28 novembre 2012, cit. “ ritenere che, nonostante l'antcipata manifestazione

dell'intento delle parti di attivare il giudizio a cognizione piena, esse debbano essere costrette in ogn caso a percorrere comunque la strada del previo esperimento della fase sommaria, con conseguente allungamento dei tempi necessari per pervenire a quella decisione resa all'esito di un gudizio a cognizione piena cui le parti hanno chiaramente affermato d aspirare comunque” confligge “ con lo scopoperseguito dal legislatore del 2012”. Nello stesso senso, v. Trib. Piacenza, ord. 16 gennaio 2013.

Page 23: riforma l.92/2012

per territorio, è indubbio che questa è regolata dall’art. 413 c.p.c.70, norma sicuramente compatibile con il nuovo rito e, anzi, di necessaria applicazione, non potendosi tollerare lacune circa l’individuazione, sotto tutti i profili, del giudice competente a decidere la causa. In particolare, la domanda si propone con ricorso che deve avere i requisiti di cui all'articolo 125 del codice di procedura civile a seguito della cui presentazione il giudice fissa con decreto, non oltre quaranta giorni dal deposito, l'udienza di comparizione delle parti, assegnando un termine per la notifica del ricorso e del decreto non inferiore a venticinque giorni prima dell'udienza, nonché fissa un termine, non inferiore a cinque giorni prima della stessa udienza, per la costituzione del resistente. La notificazione è a cura del ricorrente, anche a mezzo di posta elettronica certificata. Qualora dalle parti siano prodotti documenti, essi devono essere depositati presso la cancelleria in duplice copia. La perentorietà del testo ( appunto: “La domanda si propone al tribunale…”), diverso da quello dell’art. 28 (“su ricorso…”) fa ritenere che il passaggio attraverso la fase sommaria sia un momento obbligato del procedimento71. Del resto, la logica deflattiva e di celerità sottesa alla disciplina e testimoniata dal tentativo obbligatorio di conciliazione pregiudiziale di cui si è detto in precedenza, è legata alla stabilità che il provvedimento sommario può avere e vede in ciò una qualche ragionevolezza e razionalità di un procedimento altrimenti appesantito da una fase in più quando si voleva alleggerirlo; logica deflattiva, lontanissima dagli intenti del legislatore dell’art. 28 dello statuto dei lavoratori con riguardo al quale la giurisprudenza è invece approdata a ritenere che fosse possibile iniziare il processo saltando la fase sommaria72 e che non sembra qui paragonabile. A proposito di stabilità,alcuni autori sostengono73 che la previsione del termine di trenta giorni dalla comunicazione del provvedimento o, se anteriore, dalla notificazione, porti con sé la definitività del provvedimento stesso pur nulla dicendo il testo al riguardo, così come la giurisprudenza di legittimità consolidata74 ha affermato circa la tardiva opposizione al ruolo e alla cartella di pagamento rilevando come il mancato disporsi in modo espresso della perentorietà del termine non costituisca argomento di persé decisivo, spettando sempre al giudice stabilire la natura del termine in relazione allo scopo che persegue e alla funzione che assolve75. Qui, peraltro, a differenza di quel che si diceva per l’opposizione al ruolo e alla cartella al fine di sostenere il contrario76, non può darsi valore al termine neppure dal punto di vista delle sole opposizioni con le quali si lamenti l’esistenza di vizi formali suscettibili di pregiudicare l’azione esecutiva, e vi è altresì la funzione deflattiva che ho prima rimarcato. Il ricorso deve avere i requisiti (non dell’art. 414, bensì) dell’art. 125 c.p.c. Quindi il lavoratore deve indicare l’ufficio giudiziario, le parti, l’oggetto, le ragioni della domanda e le conclusioni, non anche i mezzi istruttori dei quali intende avvalersi. All'udienza, il giudice, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione ammissibili e rilevanti richiesti dalle parti nonché disposti d'ufficio, ai sensi dall'articolo 421 c.p.c., e provvede con sentenza all'accoglimento o al rigetto della domanda, dando, ove opportuno,termine alle parti per il deposito di note difensive fino a dieci giorni prima dell'udienza di discussione.

70 Conformi L. DE ANGELIS, op. cit., 17; L. CAVALLARO, op. cit.,8 71 Contra, Consolo, Rizzardo, 2012, 735 ss. 72 Cfr., tra le altre, Cass. 8.9.1995, n. 9503, in MGL, 1995, 776, con nota di Cecchella. 73 Cfr. Consolo, Rizzardo, 2012, 735, secondo cui “ritenere che l’ ordinanza acquisti un’ efficacia analoga a quella di

giudicato mi sembra eccessivo, in considerazione della forte informalità della fase sommaria e quanto meno per la parte debole del rapporto”. In senso conforme alla definitività del provvedimento cfr., invece, Dalfino, 2012, § 9.

74 Cfr. Cass. 15.10.10, n. 21365, Rep. FI, 2010, Previdenza sociale, n. 481; Cass. 1.7.2008, n. 17978, LG, 2008, 1261, con nt. adesiva di Capurso; 27.2.2007, n. 4506, RIDL, 2007, II, 783, con nt. critica di Nicolini C.A.; obiter dictum in Corte cost., 29.3.2007, n. 111, RIDL, 2007, II, 783, con la citata nt. di Nicolini C.A.; contra, T. Udine, 29.7.2005, in Rep. FI, 2005, Previdenza sociale, 662; soprattutto, A. Bologna, 2.8.2003, LG, 2003, 480, con nt. di Nodari; in dottrina, diffusamente, Nicolini C.A., 2008, 288 ss. (oltre che nelle note cit.). Ricostruzione del dibattito in Palladini, 2006, 1801 ss.

75 Cfr. Cass. 4506/2007, cit. 76 Cfr. Nicolini, 1998, 288 ss.

Page 24: riforma l.92/2012

Non si può sostenere l’opinione opposta sulla scorta della constatazione secondo cui, nei fatti, il ricorso del lavoratore non potrà discostarsi dalle modalità di redazione previste dall’art. 414 c.p.c., pena il rischio che la domanda risulti generica o sfornita di prova e sul rilievo che il richiamo ai poteri del giudice di cui all’art. 421 c.p.c. operato dal comma 49 costituirebbe una spia dell’impossibilità per il giudice di sanare le decadenze derivanti dagli artt. 414 e 416 c.p.c.77. Invero, quanto al primo argomento, non si vede per quale motivo il fatto che il lavoratore (così come la sua controparte processuale) sia esonerato dalla necessità della deduzione delle istanze istruttorie già nel suo primo scritto difensivo esporrebbe il ricorrente al rischio di vedersi rigettare la domanda per carenza di prova, considerato che la parte – come si è visto – è perfettamente legittimata a formulare le proprie istanze istruttorie in udienza e, ciò facendo, non corre alcun rischio di soccombere per mancata indicazione dei mezzi istruttori. Quanto al riferimento all’art. 421 contenuto nel comma 49, trattasi di disposizione del tutto irrilevante al fine di appurare se anche i primi scritti difensivi delle parti nella prima fase del nuovo procedimento siano o meno soggetti alle prescrizioni degli artt. 414 e 416 c.p.c., una volta che si ammetta (come è doveroso) che esiste comunque un momento ultimo oltre il quale le parti non possono avanzare richieste di ammissione di nuove prove. Tanto chiarito, resta comunque la possibilità che il ricorso proposto dal lavoratore sia redatto in maniera difforme rispetto al modello rappresentato dall’art. 125 c.p.c. In proposito, va ricordato che, secondo la giurisprudenza, la mancanza di uno o più dei requisiti di cui all’art. 125 c.p.c. non causa la nullità dell’atto, non comminata da alcuna disposizione di legge, salvo che non determini il mancato raggiungimento dello scopo dell’atto di cui volta per volta si tratta78. Applicando quindi il generale principio enunciato dall’art. 156 c.p.c. al ricorso in oggetto, può concludersi nel senso che tale atto deve essere dichiarato nullo se privo delle indicazioni necessarie a rendere chiari petitum e causa petendi, poiché in tal caso esso non è idoneo al raggiungimento del suo scopo, non potendo né il convenuto difendersi adeguatamente, né il giudice essere in condizione di esercitare efficacemente il suo potere di conduzione della lite. Nulla deve però essere dedotto dal ricorrente circa l’eventuale periculum in mora, perché, come già detto, non si tratta di un procedimento cautelare e la concessione o meno della tutela prevista dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970 prescinde completamente dall’esistenza del rischio che il diritto del lavoratore sia soggetto ad un imminente pregiudizio irreparabile. Al deposito del ricorso ex legge n. 92 deve essere attribuito effetto impeditivo della decadenza prevista dall’art. 6 della legge n. 604 del 1966, se non altro perché tale ricorso è ormai l’unica modalità di esercizio dell’azione di impugnativa del licenziamento consentita dall’ordinamento. A seguito della presentazione del ricorso, il giudice deve emettere un decreto con il quale fissa l’udienza di comparizione delle parti e il termine per la notificazione dell’atto introduttivo. Nessun termine è imposto al giudice per la pronuncia di tale decreto (a differenza di quanto previsto dall’art. 415 c.p.c.). Tuttavia, poiché è stabilito che l’udienza debba essere fissata non oltre quaranta giorni dal deposito del ricorso e che il termine per la notificazione di ricorso e decreto non possa essere stabilito oltre il venticinquesimo giorno antecedente quello dell’udienza, è ovvio che il giudice debba procedere nel più breve tempo possibile all’emanazione del decreto medesimo. E’ certo che tale termine non sia perentorio79, tale non essendo espressamente qualificato dal legislatore, nè potendosi desumere da alcuna altra disposizione una deroga alla regola generale ( art. 152 c.p.c.) del carattere ordinatorio dei termini processuali. E’ lo stesso giudice che fissa il termine per la notificazione di ricorso e decreto, mentre la norma si limta a stabilire che “ non deve essere inferiore a venticinque giorni prima dell’udienza”; tale espressione deve essere intesa nel senso che il venticinquesimo giorno antecedente a quello dell’udienza cosituisce il limite massimo oltre il quale il giudice non può andare nell’individuare il termine per la notificazione.

77 G. PACCHIANA PARRAVICINI,op. cit., 75 78 Cass., 15 maggio 2002, n. 7055; Cass., 14 marzo 2001, n. 3695 79 Conformi: L. CAVALLARO, op.cit., 304; A. BOLLANI,op.cit.,315.

Page 25: riforma l.92/2012

Infine, nello stesso decreto, il giudice assegna al convenuto un termine per la propria costituzione. Anche qui, la norma si limita a disporre che tale termine non possa essere “ inferiore a cinque giorni prima” dell’udienza di comparizione delle parti. Non è chiarissimo cosa il legislatore abbia voluto intendere con una simile espressione: che lacostituzione del convenuto debba avvenire non oltre il quinto giorno antecedente quello dell’udienza oppure che tra la costituzione del resistente e il giorno dell’udienza debbano intercorrere al massimo cinque giorni? Probabilmente l’intento era quello di far sì che il convenuto abbia a disposizione almeno venti giorni prima dell’udienza e quella ultima utile per la costituzione tempestiva ( cinque giorni prima dell’udienza stessa) per predisporre le proprie difese, analogamente a quanto accade nel rito codicistico del lavoro per effetto del combinato disposto degli artt. 415. quinto comma e 416, primo comma. Non è previsto invece che il decreto di fissazione dell’udienza di comparizione delle parti sia comunicato al ricorrente (analogamente a quanto si ritiene valga per il decreto ex art. 415 c.p.c.80). La notificazione deve essere eseguita dal ricorrente, eventualmente anche a mezzo di posta elettronica certificata. Valgono, per questo, tutte le ordinarie regole chepresiedono alla notificazione degli atti introduttivi di una lite, ivi incluso l’art.151 c.p.c. che attribuisce al giudice il potere di prescrivere che la notificazione sia eseguita in modo diverso da quello stabilito dalla legge nel caso, tra gli altri, in cui sussistano “ esigenze di maggiore celerità” , ipotesi sicuramente ravvisabile nel procedimento in questione. Si deve comunque trattare di modalità di notificazione idonee ad assicurare la trasmissione dell’integrale contenuto dell’atto introduttivo, in ossequio al fondamentale principio del contraddittorio e del diritto di difesa del convenuto. Nelle controversie promosse contro pubbliche amministrazioni si applica sicuramente l’ultimo comma dell’art. 415 c.p.c. Il disposto normativo tace circa le modalità della costituzione del convenuto, ma sembra che essa debba avvenire mediante deposito in cancelleria di memoria scritta. Ciò, se non altro, almeno in attuazione del principio espresso dall’art. 416, secondo comma, c.p.c., sembrando eccessivo far discendere dal fatto che tale norma sia espressamente richiamata dal comma 53 dello stesso art. 1 della legge n. 92 del 2012 per la costituzione del convenuto nella fase di opposizione e non anche per il medesimo incombente nella fase “urgente”, la conclusione secondo cui, in questa prima fase, il resistente potrebbe costituirsi anche solo col ministero del difensore, senza necessità di depositare alcun atto81. La difesa in giudizio delle pubbliche amministrazioni è regolata, anche nelle controversie in oggetto, dall’art. 417-bis c.p.c., norma sicuramente compatibile con la specialità del rito in questione. Circa il contenuto della memoria di costituzione, poiché la norma (ai commi 53-56) disciplina le ipotesi della chiamata in causa di terzi e delle domande riconvenzionali solamente quando tratta del giudizio di opposizione, dovrebbe concludersi nel senso (coerente con la natura “urgente” della prima fase) che in questa fase simili iniziative siano precluse alla parte convenuta82. Quanto, poi, all’onere (espressamente imposto al resistente dall’art. 416, terzo comma, c.p.c.) di prendere posizione in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione circa i fatti affermati dal ricorrente, sembra superfluo discutere circa l’applicabilità o meno di tale onere anche nel procedimento di cui si tratta, per la semplice ragione che la sua inosservanza non produce conseguenze in rito, ma direttamente sul convincimento del giudice circa il merito della controversia, anche in virtù del disposto dell’art. 115, primo comma, c.p.c. (e ciò, a maggior ragione, in un giudizio a cognizione sommaria come quello costituito dalla prima fase del nuovo rito, a cognizione sommaria).

80 Cass. 5 marzo 2003, n.3251. 81 Come sostenuto, invece, da G. TREGLIA, Brevi note sul nuovo processo per licenziamento introdotto dalla riforma del mercato del lavoro, in Lav. giur., 2012, 766. Nel senso del testo G. BENASSI, op. cit., 753. 82 Conformi: D. BORGHESI, op. cit., 913; G. BENASSI, op. cit., 753; L. CAVALLARO, op. cit.,9.

Page 26: riforma l.92/2012

Priva di conseguenze dovrebbe essere poi la scelta del convenuto di costituirsi oltre il termine non inferiore a cinque giorni prima dell’udienza assegnatogli dal giudice nel decreto di comparizione.La previsione legislativa del termine di almeno cinque giorni prima dell’udienza è funzionale a che parti e giudice giungano in udienza conoscendo ricorso e memoria, quindi avendo un quadro completo delle posizioni onde evitare rinvii dell’udienza e proprio partendo da tale presupposto si è sostenuto che se il convenuto si costituisca tardivamente, potrà esporre in udienza le sue posizioni, ma la memoria sarebbe acquisibile al processo solo se depositata tempestivamente83. Al di là della condivisione o meno di tale posizione, sembra pacifico che in ogni caso non vi siano preclusioni istruttorie per il convenuto. Quanto, poi, all’onere espressamente imposto al resistente, ex art. 416 c.p.c., di prendere posizione in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione circa i fatti affermati dal ricorrente, si è osservato che la sua inosservanza non produce conseguenze in rito, ma direttamente sul con vincimento del giudice circa il merito della controversia, anche in virtù del disposto dell’art. 115, comma 1, c.p.c84. Sin dai primi commenti della legge n. 92/2012, i maggiori dubbi e contrasti interpretativi si sono avuti in ordine alle conseguenze nel caso di erronea scelta del rito. Le ipotesi possibili sono varie. Può aversi innanzitutto che una domanda avente ad oggetto l’impugnativa di licenziamento sia proposta con ricorso ex art. 414 c.p.c. oppure che si utilizzi lo strumento processuale disegnato dalla legge n. 92/2012 per proporre domande diverse dall’impugnativa del licenziamento. Il nostro ordinamento già contiene delle norme che regolano problemi analoghi: si pensi agli artt.426 e 427 c.p.c. che prevedono meccanismi diretti ad assicurare il semplice mutamento di rito,tutte le volte in cui una causa relativa ad uno dei rapporti previsti dall’art. 409 c.p.c. sia promossa nelle forme ordinarie ovvero una causa promossa secondo il rito del lavoro riguardi un rapporto diverso da quelli di cui al citato art. 409 c.p.c. Si pensi ancora all’art. 702ter c.p.c. in tema di rapporti tra procedimento sommario ed ordinario ed ancora all’art. 4 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 che stabilisce il mutamento di rito tutte le volte in cui una delle controversie da trattare secondo uno dei modelli considerati dal decreto sia promossa seguendo un rito diverso da quello stabilito dallo stesso decreto legislativo per quella categoria di controversie. Occorre verificare quali di queste norme siano applicabili al caso di specie. Ebbene non sembrano applicabili né gli artt. 426 e 427 c.p.c. che regolano i rapporti tra rito ordinario e rito del lavoro, mentre qui stiamo trattando di rapporti tra il rito del lavoro ed il rito specifico per i licenziamenti, né l’art. 702ter che disciplina solamente l’ipotesi in cui una domanda che avrebbe dovuto essere trattata seguendo il rito ordinario o del lavoro (perché estranea a quelle sulle quali il Tribunale giudica in composizione monocratico ovvero perché richiedente un’istruttoria non sommaria) sia stata invece proposta secondo le regole del procedimento sommario di cognizione. L’unica disposizione che sembra espressione di un principio generale è l’art. 4, D. lgs. n. 150/2011, che è diretto a risolvere le questioni di rito che possono porsi in riferimento a qualsiasi ipotizzabile combinazione tra i tre riti presi in considerazione dal decreto (quello ordinario, quello del lavoro e quello sommario di cognizione) e può ragionevolmente essere considerato come espressione di principi sufficiente mente generali da poter essere applicati in via analogica pure alle questioni di rito connesse con il nuovo procedimento di impugnazione dei licenziamenti85.

83 Nel senso dell’impossibilità di proporre domande riconvenzionali nella fase sommaria v. Trib. Vercelli. est. Aloj,

22.1.2012,che osserva come qualora il legislatore avesse voluto comprendere nella fase sommaria anche la possibilità di proporre la domanda riconvenzionale vi avrebbe fatto espresso riferimento e che l’ammissione della domanda riconvenzionale, a differenza delle domande proposte con ricorso e fondate sugli identici fatti costitutivi, determinerebbe inevitabilmente un rallentamento del giudizio per assicurare all’attore, convenuto in riconvenzionale, la possibilità di contraddire, rallentamento palesemente contrario alla ratio della norma

84 V. Sordi,op. cit. 85 V. P. Sordi,op. cit. Riproduce testualmente tali argomentazioni anche Trib. Napoli, est. Scognamiglio, ordinanza 19

Page 27: riforma l.92/2012

Ebbene l’art. 4 citato stabilisce che, quando una controversia è promossa in forme diverse da quel le per essa prescritte, «il giudice dispone il mutamento di rito con ordinanza» (comma 1) e, quale regola particolare, che, nel caso in cui la controversia debba essere trattata applicando il rito del lavoro, «il giudice fissa l’udienza di cui all’articolo 420 c.p.c. e il termine perentorio entro il quale le parti devono provvedere all’eventuale integrazione degli atti introduttivi mediante il deposito di memorie e documenti in cancelleria» (comma 3). Di conseguenza laddove venga proposta con il rito di cui alla legge n. 2/2012 una domanda che esula dal campo di applicazione della norma, il giudice dovrà mutare il rito e fissare l’udienza ex art. 420 c.p.c. Nel caso inverso (domanda di impugnativa proposta ex art. 414 c.p.c.) il giudice potrebbe limitarsi a mutare il rito senza necessità di fissare una nuova udienza, né tantomeno di concedere termine per eventuali integrazioni difensive. Infatti, in virtù delle disposizioni che regolano la costituzione delle parti nel rito del lavoro codicistico,le parti avranno già esaurientemente svolto le loro argomentazioni difensive e formulato le loro richieste istruttorie. Nel caso di contumacia del convenuto, l’ordinanza di mutamento del rito deve essere comunicata alla parte contumace, in applicazione del principio espresso dalla giurisprudenza di legittimità86 e costituzionale87 rispetto all’analogo provvedimento pronunciato ai sensi dell’art. 426 c.p.c. Ma cosa accade nel caso di cumulo di domande,quando cioè solo alcune delle domande proposte dalla parte possono essere trattate con il rito di cui alla legge n. 92/2012? Si pensi all’ipotesi in cui una parte avanzi, unitamente all’impugnativa di licenziamento, domanda di differenze retributive che pacificamente non sono fondate sugli stessi fatti costitutivi del licenziamento. Ai sensi dell’art. 40 c.p.c. si potrebbe ipotizzare che tutte le domande debbano essere trattate congiuntamente, ma nella specie l’art. 1, comma 48,legge n. 92/2012 statuisce espressamente che non possono essere presentate domande diverse a meno che non siano fondate sugli identici fatti costitutivi. Si è ipotizzato che il giudice debba disporre la separazione delle domande (ad esempio: differenze retributive da quella di licenziamento) disponendo la formazione di un nuovo fascicolo di ufficio e una nuova iscrizione a ruolo per le domande separate; nella stessa ordinanza potrebbe poi già fissare l’udienza ex art. 420 c.p.c. per la successiva trattazione della causa ed assegnare alle parti termine perentorio per provvedere all’integrazione degli atti introduttivi ed al deposito di memorie e documenti presso la cancelleria. Tale soluzione implica difficoltà sia di ordine pratico che teorico. Dal punto di vista pratico è evidente che questi provvedimenti di separazione, di formazione di nuovi fascicoli creano anche un notevole aggravio di lavoro per la cancellerie già notoriamente alle prese con gravi carenze di organico. Senza peraltro dire che in numerosi casi la separazione delle domande produce effetti dannosi soprattutto laddove la domanda di impugnazione del licenziamento sia connessa ad altre domande che si fondano su fatti costitutivi ed ulteriori rispetto a quello del licenziamento, come nel caso del mobbing, che consiglierebbero una trattazione unitaria della vertenza. Dal punto di vista teorico si è osservato88 che di provvedimenti di separazione se ne parla soltanto al comma 56, dell’art. 1, legge n. 92/2012, e solo con riferimento a domande riconvenzionali spie gate nella fase di opposizione e non fondate «su fatti costitutivi identici a quelli posti alla base della domanda principale». Si è così anche ipotizzato che il giudice debba dichiarare tout court

dicembre 2012 nel procedimento P.I.L.V. c/M.E. Sas. 86 Cass., 8 gennaio 2010, n. 77; Cass., 6 novembre 2008, n. 26611 (che ha precisato che la mancata comunicazione può essere eccepita solo dal soggetto interessato ossia il contumace che si costituisca successivamente e non dalla parte già costituita, che non vi ha interesse se non è compromesso il suo diritto di difesa); Cass., 13 febbraio 1985, n. 1209. 87 Corte cost., 14 febbraio 1977, n. 14, in Foro it., 1977, I, 259, con riferimento, peraltro, alle cause pendenti amomento

dell’entrata in vigore della legge n. 533/1973 per le quali era pronunciata l’ordinanza che fissava l’udienza di discussione ex art. 420 c.p.c. ed il termine perentorio per l’integrazione degli atti

88 L. Cavallaro,op. cit

Page 28: riforma l.92/2012

l’inammissibilità di tutte le domande, ma tale soluzione può comportare il rischio per il lavoratore di trovarsi preclusa per decorso dei termini la strada dell’impugnativa con richiesta di tutela obbligatoria, termine che oggi è ridotto a 180 giorni, almeno a seguire quella giurisprudenza secondo quale il pur tempestivo esercizio dell’azione giudiziaria non vale a sottrarre il diritto dalla decadenza laddove il giudizio si estingua o comunque non pervenga all’esito sperato per effetto di una pronuncia in rito89. Il drastico rigore del meccanismo processuale determinato dal sistema normativo sembra però veramente eccessivo, atteso che la parte rischia di scontare una conseguenza penalizzante al massimo e non a caso non è mancato chi90 ha dubitato che il termine di 180 giorni possa essere considerato veramente un termine di decadenza. Forse la strada più corretta è quella di ritenere che il giudice, con l’ordinanza conclusiva della fase «urgente», debba decidere nel merito le domande ammissibili e dichiarare l’inammissibilità di tutte le altre, il che eviterebbe anche la decadenza, visto che il procedimento non si conclude con una mera pronuncia in rito91. Nel caso invece in cui la parte chieda la tutela reale ed invece il giudice ritenga che vi siano solo i presupposti per la tutela obbligatoria, deve ritenersi che la parte abbia ben proposto il ricorso in base alla domanda e sarebbe assolutamente defatigante, dopo l’istruttoria, disporre il mutamento del rito ed effettuare un nuovo giudizio sui presupposti sostanziali del licenziamento ai fini della tutela obbligatoria. D’altra parte la domanda sulla tutela obbligatoria è fondata sui medesimi fatti costitutivi di quella che invoca la tutela reale, con la conseguenza che il giudice ben dovrà esaminare le domande nel merito e concedere la tutela obbligatoria92. Nelle prime applicazioni giurisprudenziali si è anche ritenuto di poter distinguere tra il caso in cui il requisito dimensionale sia oggetto di domanda ed il caso in cui il requisito dimensionale, pur apparendo presupposto implicito della domanda, sia in realtà rimasto estraneo alle allegazioni ed alle deduzioni difensive93.

89 Così testualmente Cavallaro,op. cit.,ed in giurisprudenza Cass. 18.1.2007, n. 1090. Vedi in dottrina

Consolo,Spiegazioni di diritto processuale civile,vol. II,Profili generali,Torino, 2010, 120. Forse proprio allo scopo di evitare siffatte conseguenze il Tribunale di Firenze, nel verbale di riunione citato, ha affermato che l’iniziativa giudiziaria anche se relativa ad un ricorso dichiarato inammissibile impedisce la decadenza di cui all’art. 32 del Collegato lavoro.

90 E. BarracoA. Sitzia,Riforma Fornero e rito speciale: la prima ordinanza di merito, Guida al Lavoro,2012, n. 42, pp. 27 ss.

91 Sordi,op. cit. In tal senso si sta orientando gran parte della giurisprudenza di merito: Trib. Milano, 2 ottobre 2012, est. Gasparini, Trib. Milano, 16 ottobre 2012, est. Lualdi e Trib. Milano 23 ottobre 2012, est. Colosimo hanno dichiarato improcedibili le domande volte ad ottenere il pagamento delle spettanze di fine rapporto e del compenso per lavoro straordinario. Trib. Roma, 31 ottobre 2012, est. Marra,Guida al Lavoro,n. 46, 2012, pp. 17 ss., ha dichiarato inammissibili le domande non fondate sugli stessi fatti costitutivi e nello stesso senso anche Trib. Palermo, est. Marino, 15 ottobre 2012. Per un approfondimento sulle prime decisioni sul nuovo rito Fornero v. G. FavalliA. Stanchi,Processo e nuovo rito Fornero: prime pronunce del Tribunale di Milano,Guida al Lavoro, n. 46, 2012, pp. 12 ss.

92 V. Cavallaro,op. cit. Il Tribunale di Firenze, nella riunione di sezione del 17 ottobre 2012, con verbale pubblicato in Guida al Lavoro,n. 46, 2012, pp. 19 ss. sembra ritenere che laddove il giudice ritenga insussistente il requisito dimensionale per la tutela ex art. 18, St. lav. debba respingere il ricorso, fermo restando la possibilità per il lavoratore di proporre azione per la tutela obbligatoria con il rito lavoro ordinario 93 Il Tribunale di Venezia con ordinanza 2.10.2012, est. Bortolaso, ha seguito l’interpretazione più rigida della Riforma ed ha deciso una controversia di licenziamento nel seguente modo (si riporta la massima): “Premesso che si tratta di azione promossa nelle forme del rito speciale ex art. 1, c.c. 47 ss., legge n. 92/2012; rilevato che – secondo quanto espressamente ammesso dalla ricorrente alla luce delle difese e produzioni documentali avversarie – difetta per tale rimedio (tutela reale) il requisito numerico dei più di 15 dipendenti all’epoca del licenziamento; ritenuta quindi l’infondatezza del ricorso; ritenuta quanto alle spese di lite la sussistenza dei motivi per l’integrale compensazione in ragione del fatto che la ricorrente non aveva la disponibilità dei dati per ricostruire in modo preciso la consistenza numerica dell’organico; visto l’art. 1, c. 49, legge n. 92/2012, rigetta il ricorso; compensa integralmente tra le parti le spese del procedimento”. In breve, il giudice veneziano ha aderito all’interpretazione più rigorosa della norma che

Page 29: riforma l.92/2012

Si è così disposto in prima battuta il mutamento del rito nel caso di impugnativa di licenziamento, avanzata ex lege n. 92/2012, in cui il lavoratore chiedeva la reintegra ma nulla diceva in ordine alla sussistenza del requisito dimensionale che veniva espressamente contestato dal datore94. Tale soluzione non appare condivisibile: il rito applicabile va individuato in relazione alle prospettazioni, al petitum ed alla causa petendi, con conseguente irrilevanza dell’esito del processo frutto della sua progressiva evoluzione, non potendo certo il rito cambiare secundum eventum litis e, quindi, dovendo la decisione sul rito applicabile prescindere dalla fondatezza nel merito della domanda95 . Alle medesime conclusioni dovrebbe pervenirsi anche nelle ipotesi in cui non sia stata formulata, in via subordinata rispetto alla domanda di tutela reintegratoria reale, la domanda di attribuzione dell’indennità risarcitoria, alla luce della costante giurisprudenza della Suprema Corte96.

prescrive l’applicazione del nuovo rito “veloce” solo ed esclusivamente nei casi di licenziamento o qualificazione del rapporto quando il rapporto di lavoro è assistito da tutela reale, quindi se l’azienda ha più di 15 dipendenti in ciascuna unità produttiva oppure più di 60 nel territorio nazionale; mancando la prova del requisito dimensionale il Giudice del Lavoro, invece che disporre il mutamento del rito, ha ritenuto inammissibile la domanda in quanto non esiste nella Riforma Fornero una norma che raccordi il nuovo rito “veloce” al rito “classico” così come accade invece ex art. 426 c.p.c. col il rito a cognizione ordinaria. Alcune decisioni del Tribunale di Roma Diverse, ed altrettanto interessanti, sono alcune decisioni del Tribunale di Roma che si analizzano in sintesi, ovvero: trib. Roma 31.10.2012, est. La Marra: la controversia aveva ad oggetto l’accertamento della legittimità di alcuni licenziamenti per giustificato motivo oggettivo intimati a seguito di passaggio di appalto da un datore all’altro; il Giudice del lavoro, per quel che riguarda l’aspetto procedurale, ha confermato l’applicazione del nuovo rito in quanto il ricorso è stato depositato dopo il 18 luglio (entrata in vigore della Riforma) seppur il licenziamento fosse stato intimato nel mese di giugno. Inoltre, è stata confermata l’applicazione del nuovo rito ai casi di richiesta di tutela reale ex art. 18 St. lav. seppur non possano essere proposte, con il medesimo ricorso, domande che non siano fondate su “identici fatti costitutivi”. trib. Roma 31.10.2012, est. Casola: in questo caso il Giudice del lavoro, oltre a confermare la possibilità di utilizzo del rito anche nei casi relativi alla corretta qualificazione del rapporto, ha ritenuto opportuno chiarire che il rito “veloce” si applichi anche nel caso di un licenziamento nullo (ad es. se discriminatorio o in concomitanza di matrimonio) e indipendentemente dal fatto che il datore di lavoro rientri, per natura giuridica e requisiti dimensionali, nell’area di applicazione dello Statuto dei lavoratori; sulla questione “temporale” del rito, il Giudice del lavoro è conforme ad altre posizioni nel ritenere rilevante unicamente la data di deposito del ricorso ovvero: “… nei riguardi del rito speciale il nuovo testo dell’art. 18 St. lav. funzionerà pertanto come norma processuale, preordinata all’individuazione delle controversie che vi debbono essere assoggettate: le quali saranno tutte (e solo) quelle per le quali la nuova versione dell’art. 18 St. lav. prevede l’applicazione di qualcuna delle sanzioni ivi previste per il caso d’invalidità del licenziamento, indipendentemente dal fatto che poi, in concreto, tale disciplina sia applicabile ratione temporis”. Questa interpretazione comporta che, nella fase di transizione tra vecchia e nuova normativa, si potranno avere procedimenti con il rito nuovo ma con applicazione del vecchio art. 18 St. lav. e, analogamente, procedimenti nuovi con applicazione del nuovo art. 18 St. lav. trib. Roma 31.10.2012, est. Pucci: la decisione in questione propone un interessante caso di mutamento del rito per mancata applicazione dell’art. 18 St. lav.; a prescindere dalla questione di merito stretto, il Giudice del lavoro ha interpretato la Riforma Fornero alla luce dell’art. 4., D.lgs. 1.9.2011, n. 150, che dispone il mutamento di rito nei casi di rapporto tra rito ordinario di cognizione, rito sommario di cognizione e rito del lavoro. Infatti si legge in motivazione che “… nel silenzio del legislatore, ritiene il giudicante che possa farsi riferimento all’art. 4 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150, con il quale il legislatore ha optato per la soluzione del mutamento di rito tutte le volte in cui una delle controversie da trattare secondo uno dei modelli considerati dal decreto sia promossa seguendo un rito diverso da quello stabilito dallo stesso decreto legislativo per quella categoria di controversie”. La disposizione del D.lgs. 150/2011 è stata, quindi, ritenuta applicabile in via analogica per il passaggio dal rito ex l. 92/2012 a quello “classico” ex art. 414 c.p.c. non avendo la parte ricorrente richiesto la tutela reale del rapporto o comunque la reintegrazione nel posto di lavoro; il Giudice, all’esito della prima udienza, ha quindi rinviato ad una nuova prima udienza ai sensi dell’art. 420 c.p.c. conferendo termine per l’integrazione degli atti difensivi, onde sanare eventuali preclusioni e decadenze intervenute. Sulla questione temporale, invece, il Giudice è in controtendenza rispetto ad altre decisioni analizzate: infatti, ritiene il magistrato del lavoro che se la disciplina del nuovo art. 18 St. lav. si possa applicare solo ai licenziamenti intimati dopo il 18 luglio. E fin qui, nulla quaestio. In ragione di ciò, continua il giudicante, il nuovo rito si può applicare solo ai casi ex nuovo art. 18 St. lav. per cui, presumibilmente, una controversia per l’inefficacia del licenziamento e richiesta di reintegra sarà azionabile ai sensi della l. 92/2012 solo se il licenziamento stesso è stato intimato dopo l’entrata in vigore della Riforma Fornero poiché prima, a questo punto, il licenziamento era sì inefficace ma non dava il diritto alla reintegrazione. 94 Trib. Reggio Calabria, est. Morabito, ord. 19 novembre 2012 nel procedimento L.K c/A.Srl. 95 Così espressamente M. LeoneA. Torrice,cit., p. 204. 96 Cass. n. 1486/2001 afferma che «non è ravvisabile mutamento della causa petendi nell’ipotesi in cui il dipendente

Page 30: riforma l.92/2012

Nel caso opposto in cui, invece, il lavoratore proponga un ricorso ex art. 414 c.p.c. nel quale, oltre a domande alle quali si applica il rito codicistico delle controversie individuali di lavoro, impugna anche il licenziamento chiedendo la tutela ex art.18, St. lav., probabilmente il giudice (dopo aver fissato l’udienza di discussione ex art. 420 c.p.c. con il decreto di cui all’art. 415 c.p.c., dovrà disporre, alla prima udienza, la separazione delle cause e, quindi, procedere alla conversione del rito limitatamente alla causa avente ad oggetto la domanda di applicazione delle tutele di cui all’art. 18 della legge n. 300/1970 e le altre eventualmente consentite dall’art. 1, comma 48, legge n. 92/2012 (e, anche qui, le parti potranno manifestare la volontà di omettere la fase «urgente»), proseguendo la trattazione secondo il rito codicistico per tutte le altre domande97, anche se tale soluzione sconta le difficoltà sopra delineate in tema di separazione dei procedimenti. Si rinvengono due diverse impostazioni: 1. la fase introdotta dal comma 48 dell'articolo 1 è a cognizione sommaria e con accertamento di tipo superficiale. Chi sostiene questa impostazione rileva che il giudizio viene introdotto con un atto ai sensi dell'articolo 125 cpc, che si conclude con una ordinanza e che il comma 49, con riferimento all'istruttoria, fa menzione degli atti di istruzione indispensabili, cioè usa una forma analoga a quella di cui all'articolo 669 sexies cpc, che fa intendere come oggetto della verifica processuale sia solo la verosimiglianza del diritto ossia un fumus boni iuris, a differenza che nella fase di opposizione che invece deve intendersi a cognizione piena come si evince dalla riferimento agli atti di istruzione ammissibili e rilevanti cui al comma 57, analogo a quello di cui all'articolo 702 ter che, com'è noto,è reputato un giudizio di merito solo deformalizzato, sulla fondatezza del diritto.La fase è quindi sommaria non solo nel senso che la trattazione è deformalizzata, ma anche nel senso che l'istruttoria consiste nella assunzione dei soli mezzi istruttori necessari a consentire al giudice la formazione di un giudizio di mera verosimiglianza circa l'esistenza o meno del vizio del licenziamento. Si ritiene così che in tale fase del procedimento sia necessario privilegiare le esigenze di celerità e di speditezza che hanno indubbiamente improntato e caratterizzato l'intervento della legge Fornero. Diversamente ragionando e quindi dando corso ad un' attività istruttoria piena verrebbe meno il significato di un procedimento ridisegnato secondo modalità e contenuti che appaiono viceversa finalizzati ad una definizione più possibile a rapida della controversia pendente a rimuovere la situazione di incertezza nel reciproco interesse di entrambe le parti (Ordin. Di Leo RG 852/13 del 12.3.13; Ordin. Lualdi RG 10290/12 del 25.9.12). 2. la cognizione è piena, l'accertamento deve portare ad una decisione possibilmente stabile e definitiva, necessità quindi di istruttoria ad ampio spettro anche in questa fase, pur se contenuta entro i limiti richiesti dalla speditezzadel rito.Atti di istruzione indispensabili richiesti dalle parti Cass fa riferimento a due parametri: - prove idonee a fornire elementi potenzialmente decisivi, quindi il mezzo di prova preferito sono i documenti; - fatto che renderebbe evidente il diritto. Il legisltore non dice che l'accertamento dev'essere sommario, l'ipotesi del dubbio va risolto sulla base del principio dell'onere della prova e non su quello della verosimiglianza, principio che si giustifica solo nel giudizio cautelare e con la richiesta del periculum. Va precisato che questa tesi non è stato esplicitata in un provvedimento in quanto nessun giudice è stato chiamato a pronunciarsi sulla questione. Tuttavia che tale sia l'impostazione della maggioranza dei giudici si evince dall'attività istruttoria espletata dal fatto che non vi siano decisioni allo stato

licenziato che impugni il relativo provvedimento, deducendone l’illegittimità per mancanza di giustificato motivo, proponga con ricorso introduttivo domanda di tutela reale, mentre, in sede di precisazione delle conclusioni, richieda quella obbligatoria, in quanto, in detta ipotesi, il mutamento riguarda solo gli effetti ricollegabili alla tutela richiesta da quest’ultimo, che sono compresi in quelli cui dà luogo la tutela originariamente invocata»; nello stesso senso Cass. n. 12579/2003.

97 Sordi,op. cit.

Page 31: riforma l.92/2012

degli atti. L’unica prescrizione dettata dal legislatore del 2012 attiene alla produzione documentale, l’ultimo periodo del comma 48 imponendo alle parti di depositare i documenti in duplice copia; è tuttavia evidente che (anche per la mancata previsione di una qualsiasi sanzione) l’inosservanza di tale prescrizione non produce alcuna decadenza in capo alle parti, sempre abilitate ad integrare la loro produzione mediante il deposito della copia mancante del documento. Si aggiunga che, in ogni caso, non sembra consentito desumere da tale disposizione l’onere per le parti, a pena di decadenza, di produrre i documenti dei quali intendano avvalersi contestualmente al deposito del loro primo scritto difensivo; la norma stabilisce semplicemente che, se le parti intendano produrre documenti, debbono depositare due copie di ciascun documento, non anche che esse debbano necessariamente depositare tutti i documenti unitamente al ricorso e alla memoria di costituzione. Il comma 49 dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012 stabilisce che «il giudice, sentite le parti e omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili richiesti dalle parti o disposti d’ufficio, ai sensi dell’articolo 421 del codice di procedura civile». Da questa scarna disposizione (ispirata, evidentemente, all’art. 669-sexies, primo comma, c.p.c. in materia di procedimenti cautelari) sembra doversi desumere anzitutto che, pur mancando un’esplicita precisazione al riguardo98, il legislatore abbia inteso delineare un procedimento nel quale, ove possibile, la trattazione e l’istruzione della causa siano concentrate in un’unica udienza. Ciò non significa che siano incompatibili con il nuovo rito adempimenti istruttori che richiedano necessariamente un rinvio ad altra udienza o che simili rinvii siano comunque vietati; si vuole dire semplicemente che, ove possibile, la trattazione deve essere concentrata nella stessa udienza di comparizione delle parti. Si potrebbe pertanto riproporre la questione relativa alla sussistenza o meno dell’onere per le parti di citare i testimoni da essi indicati già alla prima udienza di comparizione che, con riferimento alle controversie individuali di lavoro disciplinate dal rito codicistico, ha dato luogo a contrastanti soluzioni da parte della giurisprudenza di legittimità99. Si deve tuttavia riconoscere che l’opinione che postula l’esistenza dell’onere per le pari di intimare i testimoni a comparire già alla prima udienza non sembra comunque compatibile con le specificità della disciplina del rito introdotto dal legislatore del 2012 il quale, come visto, si caratterizza anche per il fatto che alle parti non è imposto di dedurre, a pena di decadenza, tutte le loro istanze istruttorie già nei rispettivi primi scritti difensivi; ed in un simile contesto non si vede davvero come possa addirittura ipotizzarsi che le parti abbiano l’onere di citare per la prima udienza come testimoni persone che potrebbero benissimo non aver indicato nel loro atto di costituzione oppure per rispondere a domande su circostanze che, in quell’atto, non erano comprese tra quelle oggetto di richiesta di ammissione di prova testimoniale. Si vuole dire che, alle obiezioni che, del tutto condivisibilmente, la dottrina ha costantemente opposto al richiamato e più risalente orientamento della Suprema Corte100, si deve

98 Invece espressamente prevista nella disciplina del procedimento sommario di cognizione: v. art. 702-ter, quinto comma, c.p.c 99 Il tradizionale orientamento secondo cui rientra tra i poteri del giudice del lavoro quello, previsto dall’art. 420, quinto comma, c.p.c., di disporre, nell’udienza di discussione, l’ammissione e l’immediata escussione dei testi con la conseguenza che grava su ciascuna delle parti l’onere di citare per tale udienza i testi di cui chiede l’ammissione e che l’inosservanza di tale prescrizione è a causa di decadenza a carico della parte istante (Cass., 7 giugno 1995, n. 6368, in arch. loc., 1995, 814; Cass., 29 aprile 1994, n. 4161; Cass., 13 aprile 1987, n. 3681; Cass., 14 febbraio 1984, n. 1133) appariva superato, dopo che Cass., 16 aprile 1997, n. 3275, in Giust. civ. , 1997, I, 1795, si era espressa nel senso che

nel rito del lavoro vige il principio che il giudice provvederà nella stessa udienza di ammissione della prova testimoniale alla audizione dei testi, comunque presenti, ma non potrà dichiarare decaduta la parte della prova per la mancata presentazione di essi, essendogli consentito di poterli citare solo in forza del provvedimento di ammissione, con la conseguenza che il giudice dovrà fissare altra udienza per la prosecuzione della prova. Tuttavia, più recentemente, Cass., 8 aprile 2008, n. 9136, ha ribadito la validità dell’impostazione maggiormente risalente.

100 F.P. LUISO, Un opportuno ripensamento della Suprema Corte, in Giust. civ., 1997, I, 1795; G. IANNIRUBERTO, Il processo del lavoro rinnovato, Cedam, 1999, 153; P. SANDULLI-A.M. SOCCI, Il processo del lavoro, Giuffré,

Page 32: riforma l.92/2012

aggiungere che, in ogni caso, esso non appare compatibile con un meccanismo processuale che consente alle parti di indicare per la prima volta all’udienza di comparizione i mezzi istruttori dei quali intendono avvalersi. In tale udienza il giudice deve procedere, secondo i principi generali, agli accertamenti preliminari relativi alla regolare costituzione del contraddittorio: verifica della regolarità della notificazione (e, al riguardo, il rispetto dei termine a difesa di venti giorni costituisce senz’altro formalità «essenziale al contraddittorio») e della costituzione delle parti ai sensi dell’art. 182 c.p.c.; verifica della integrità del contraddittorio nel caso in cui ricorra un’ipotesi di litisconsorzio necessario. In tutti questi casi, il carattere concentrato della trattazione della causa nella prima fase non impedisce che il giudice possa e debba somministrare i provvedimenti previsti in generale dall’ordinamento processualcivilistico in simili evenienze. Così, sicuramente il giudice dovrà concedere al ricorrente un nuovo termine per eseguire la notificazione nel caso in cui questa sia nulla o inesistente ovvero sia avvenuta in violazione del termine minimo previsto a favore del convenuto101. Così come dovrà assegnare un termine perentorio nelle ipotesi previste dall’art. 182 c.p.c. e per integrare il contraddittorio ai sensi dell’art. 102 c.p.c. Compiute queste verifiche preliminari, il giudice deve procedere a «sentire le parti». Si potrebbe ritenere che il fatto che il comma 49 dell’art. 1 della legge n. 92 contenga questa semplice indicazione, in luogo della più articolata attività richiesta al giudice dai primi tre commi dell’art. 420, escluda la necessità per le parti di comparire personalmente all’udienza e per il giudice di procedere al loro interrogatorio libero ed al tentativo di conciliazione. In effetti, se si ammette che al procedimento di cui si tratta si applicano tutte le norme regolatrici delle controversie individuali di lavoro che non siano incompatibili con la specialità del nuovo rito, si dovrebbe ritenere l’applicabilità anche della disciplina dettata dai primi tra commi dell’art. 420 c.p.c., sicuramente coerente con il procedimento in oggetto. Conseguentemente le parti hanno l’onere delle parti di comparire personalmente all’udienza e di essere informate sui fatti di causa. Dal canto suo, il giudice, anche in tali controversie, sarà tenuto ad interrogarle e a tentare la conciliazione, formulando alle parti una proposta transattiva, il cui rifiuto senza giustificato motivo costituirà comportamento valutabile ai fini della decisione. Così come dovrà ritenersi che la conciliazione eventualmente raggiunta durante la fase “urgente” del nuovo rito sia assistita dal regime di stabilità di cui all’art. 2113, ultimo comma, c.c. Invero, anche la sede conciliativa costituita dall’udienza fissata nel nuovo procedimento relativo alle impugnazioni dei licenziamenti può essere ricondotta (al pari dell’udienza ex art. 420 c.p.c., neppure essa menzionata espressamente dalla predetta norma del codice civile), a quella dell’art. 185 c.p.c. Quanto all’istruttoria, la formula utilizzata dal comma 49 lascia perplessi. Nell’evidente intento di stabilire che essa, in questa prima fase del procedimento, debba essere sommaria, il legislatore si è ispirato, anche sotto questo profilo, all’art. 669-sexies c.p.c., ma ripetendo solamente la prima parte del corrispondente precetto contenuto in tale disposizione (vale a dire quella che prevede la necessità di assumere solamente gli «atti di istruzione indispensabili»), non anche la seconda (quella, cioè, che collega il requisito dell’indispensabilità «ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto») che è proprio ciò che vale a caratterizzare nel senso della sommarietà l’istruttoria che si compie nei procedimenti cautelari102.

2000, 216; L. NEGRINI, Una soluzione ragionevole per il procedimento di assunzione della prova testimoniale nel rito del lavoro, in Nuova giur. civ. comm., 1998, 241; F. CENTOFANTI, Intimazione dei testimoni nel rito del lavoro e correlata decadenza dalla prova in prima udienza: la Cassazione innova nella continuità, in Mass. giur. lav., 1997, 658. Con riferimento al rito introdotto dalla legge n. 92 del 2012, L.CAVALLARO, op. cit., 10, ha utilizzato l’argomento fondamentale di tale orientamento dottrinale (e, cioè, che prima dell’ordinanza di ammissione della prova testimoniale non ci sono testimoni e, pertanto, neppure possono ipotizzarsi decadenze connesse con la loro mancata citazione a comparire) per pervenire alla stessa conclusione sostenuta nel testo.

101 Conforme L. CAVALLARO, op. cit., 9 102 Analogamente, l’art. 44 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (ormai superato dalla riforma operata sul punto

Page 33: riforma l.92/2012

Per raggiungere lo scopo della riduzione dei tempi del processo, è stata effettuata una scelta opposta a quella fatta prima con il rito del lavoro e poi con la novellazione del rito ordinario,cioè si è abbandonato lo schema della scansione predeterminata dal legislatore in maniera generale ed astratta, con la previsione di distinte fasi (ad es.,introduzione,trattazione per precisare i fatti controversi,istruzione,decisione),separate da rigide preclusioni e con l’eventuale ulteriore scansione di ciascuna singola fase tramite preclusioni interne; al contrario è stato introdotto un procedimento elastico, in cui è disciplinata soltanto la fase introduttiva e la tipologia ed efficacia del provvedimento decisionale,mentre,quanto all’attività di cognizione(che è quella che comporta il maggior sforzo e richiede maggior tempo), sta al giudice: a) procedere «nel modo che ritiene più opportuno»; b) «agli atti di istruzione indispensabili»; c) «sentite le parti e omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio». I problemi che pone questo processo elastico e duttile, affidato alla direzione del giudice, sono: “costituzionalità”, dato che a norma dell’art. 111 Cost. «la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge» e non dal giudice; “bilanciamento dei poteri del giudice e delle parti”, nella ricerca di un punto di equilibrio tra iniziativa di parte e direzione del giudice nella conduzione del processo, in mancanza di decadenze previste dal legislatore e della possibilità per il giudice di fissare termini perentori103. Quanto al profilo di costituzionalità del nuovo rito speciale, il dilemma di partenza è se l’espressione «regolato dalla legge», contenuta nella norma costituzionale dell’art. 111, vada letta nel senso che è istituita una riserva di legge ovvero nel senso che l’architet-tura del processo può essere delineata soltanto dal legislatore e non dal giudice, con conseguente predeterminazione delle modalità di realizzazione del contraddittorio, al fine della costruzione dell’edificio del fatto e del convincimento del giudice sulla spettanza della pretesa azionata104.Ebbene, questa visione tendente a due estremi opposti, in quanto per l’una ricostruzione (riserva di legge) è sufficiente che sia il legislatore a consegnare nelle mani del giudice il potere di stabilire le regole del procedimento, mentre per l’altra ricostruzione è necessario che il legislatore regolamenti in maniera precisa tutto il procedimento, tutta la sequenza di atti e attività i poteri di conduzione del processo eventualmente riconosciuti al giudice non possono essere considerati avulsi dal contesto e, in particolare, dai poteri delle parti, in base alla regola secondo la quale i poteri del giudice sono limitati non tanto dai poteri delle parti quanto dalle previsioni del legislatore. C’è un rapporto direttamente proporzionale, per cui a maggiori poteri del giudice corrispondono maggiori poteri delle parti. Ecco che entra in gioco il rispetto del contraddittorio, in condizioni di parità, tra le parti, nel senso che ad “ogni attività innovativa, sia di una parte che del giudice, deve corrispondere la possibilità di liberamente difendersi in un tempo congruo”.Vengono quindi in considerazione i concetti di attività innovativa, libertà di difendersi, tempo o termine congruo. L’attività innovativa può riguardare: -sia l’introduzione di un nuovo fatto sia la valorizzazione giuridica di un fatto silente, avventizio105, cioè un fatto entrato nel processo e risultante dagli atti, senza che la parte lo abbia invocato a sostegno della propria pretesa nè il giudice lo abbia valorizzato al fine di accogliere o respingere la domanda, con le seguenti precisazioni: a) al fine del rispetto del contraddittorio è rilevante solo il fatto che diventa mezzo di attacco o di

dall’art. 28 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150) in materia di azioni contro le discriminazioni faceva riferimento agli «atti di istruzione indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto». 103 A norma dell’art. 152, comma 1, c.p.c. i termini per il compimento degli atti del processo «possono essere stabiliti

dal giudice anche a pena di decadenza, soltanto se la legge lo permette espressamente» 104 Cfr.,fra i tanti, S. CHIARLONI, Il nuovo art. 111 Cost. e il processo civile,RDP , 2000, 1010; R. CAPONI,Rito

processuale veloce cit., paragrafo 4 105 Questa terminologia è mutuata da H. MOTULSKY, La cause de la demande dans la délimitation de l’office du juge, D. (Recueil Dalloz), 1964, Chron.(Chronique), 235. V.,si paret, D. BUONCRISTIANI, L’allegazione dei fatti cit., 2002,212.

Page 34: riforma l.92/2012

difesa, cioè il fatto qualificato giuridicamente e posto dinamicamente e causalmente in rapporto con l’effetto giuridico richiesto; b) non c’è distinzione tra fatti principali e fatti secondari, rileva solo che il fatto venga colorato giuridicamente e diventi rilevante causalmente per l’attribuzione o la negazione della tutela richiesta, così attualizzando l’esigenza di difesa della controparte o di entrambe le parti, in caso di rilievo da parte delgiudice; c) quanto al giudice, la possibilità di rilevare fatti silenti non può riguardare i fatti costitutivi individuatori del diritto controverso o i fatti impeditivi, modificativi ed estintivi oggetto di eccezioni riservate alla parte106 ; 2)il mutamento di prospettazione giuridica della controversia, cioè il rilievo di una questione di diritto (cfr. art. 101, 2ºcomma, c.p.c.), sia ad opera di una parte che del giudice107 ; 3)l’introduzione di un mezzo di prova. Quest’ultima attività innovativa è esemplare per meglio chiarire il significato della necessità di riconoscere alla controparte (o ad entrambe le parti, in caso di attività innovativa del giudice) il diritto di “liberamente” difendersi: sino all’intervento delle Sezioni unite con le sentenze nn. 8202 e 8203 del 2005108 si consentiva la produzione in appello soltanto di prove documentali e, quanto al rispetto del contraddittorio, si osservava che le parti erano poste su una posizione di parità, in quanto tale potere spettava ad entrambe109. Con riferimento all’attività innovativa riguardante la costruzione del fatto anche tramite la valorizzazione giuridica di un fatto silente trasformato in mezzo di attacco o di difesa o il mutamento della prospettazione giuridica, il rispetto del contraddittorio impone non soltanto che “all’iniziativa di una parte debba poter seguire una tempestiva replica della controparte e in particolare che a questa siano conferiti poteri equivalenti nonché i congrui strumenti (comunicazione ed adeguato spatium deliberandi) per esercitarli”110, ma impone la possibilità di difendersi “liberamente”, cioè esercitando poteri equivalenti e per tramite dell’allegazione di nuovi fatti e della richiesta di nuovi mezzi istruttori111.

106 Si rinvia, a D. BUONCRISTIANI, L’allegazione dei fatti nel processo civile, cit., 230 107 Si rinvia,anche per ulteriori riferimenti a D. BUONCRISTIANI, Il nuovo art. 101, 2º comma,c.p.c. sul contraddittorio e sui rapporti tra parti e giudice,RDP , 2010, 399 108 In particolare la sentenza n. 8202, riguardante il rito del lavoro,q. Riv., 2006, II, 197 109 La fallacità di tale impostazione stava nel fatto che è soltanto apparente l’equivalenza di poteri, poiché la parte

potrebbe non disporre di prove precostituite, ma soltanto di prove costituende e, conseguentemente, si trova impossibilitata a difendersi rispetto all’iniziativa istruttoria dell’avversario. V. in tema anche C. CONSOLO, Profili della nuova disciplina delle impugnazioni, con una rinnovata critica all’appello “chiuso” ai “ nova”, in La riforma del processo civile, Cedam, 1992, 194; M. FORNACIARI,L’attività istruttoria nel rito civile ordinario: poteri delle parti e poteri del giudice, GI , 1999, 442

110 Così si esprime A.CERINO CANOVA, La domanda giudiziale e il suo contenuto, in Commentario del codice di procedura civile, diretto da E. ALLORIO, libro II, tomo I, Utet, 1980, 131 ss.

111 Ad esempio, con riferimento ai fatti avventizi o alla questione di diritto, il riconoscimento di poteri equivalenti comporterebbe soltanto la possibilità di valorizzare altri fatti avventizi ovvero di replicare o sollevare altra questione di diritto, mentre ciò che serve è soprattutto poter “liberamente” difendersi, introducendo altri fatti resi “adesso” rilevanti dall’attività innovativa dell’avversario o del giudice. Altrimenti, la parte scaltra potrebbe attendere che sia preclusa l’attività di allegazione di fatti e di richieste istruttorie ovvero che il giudice si sia oramai riservato la decisione, dando termine per note difensive, e, a questo punto, tirar fuori l’asso dalla manica, cioè valorizzare il fatto risultante dagli atti, ma prima non utilizzato a fondamento della propria linea difensiva; la controparte avrebbe al più (se, giunti in fase decisoria, è stato assegnato anche un termine per repliche) soltanto un potere equivalente e cioè la possibilità del tutto teorica di tirar fuori altri fatti versati in causa, cioè di contraddire in base al materiale di causa.Si noti che non si può neppure obiettare che la parte, in fin dei conti, non è colta di sorpresa, in quanto l’attività innovativa ha radici nel materiale di causa, che è a disposizione di tutti. Si può infatti replicare che non sempre l’attività innovativa poggia su ciò che risulta dagli atti,come ad es.in caso di una diversa impostazione in diritto della controversia con l’eventuale implicazione di fatti di-versi non allegati e provati dalle parti. Ad es., in caso di licenziamento per illecito utilizzo di autoveicolo aziendale causando un incidente, le parti hanno discusso se il lavoratore, non specificatamente autorizzato all’utilizzo del mezzo aziendale, poteva o meno utilizzare un mezzo pubblico ovvero se avesse o meno deviato dal percorso ottimale; il giudice, invece, d’ufficio ritiene rilevante stabilire se il lavoratore,quale promotore finanziario, agiva o meno in una zona assegnata in esclusiva ad altro lavoratore. Questa diversa prospettazione rende rilevante stabilire fatti prima non considerati (e, quindi, non allegati

Page 35: riforma l.92/2012

Il principio del contraddittorio, anche tra giudice e parti, prevale sul principio di autoresponsabilità. Si tenga anche conto del codificato principio di non contestazione (novellato art. 115 c.p.c.): affinché la parte sia posta in grado di contestare i fatti affermati da controparte,occorre che l’avversario abbia esplicitamente valorizzato giuridicamente il fatto. Soltanto in tal caso scatta l’onere di contestazione e, in caso di mancato esercizio, l’espunzione dal thema probandum. Fin tanto che siamo di fronte ad un fatto avventizio, la parte non è onerata di contestarlo; quindi, il giudice, in caso di rilievo ufficioso, dovrà sottoporlo all’attenzione delle parti, anche per provocarne l’eventuale contestazione.Infine, il principio iura novit curia legittima sì il giudice a ricercare la corretta impostazione giuridica della situazione sostanziale dedotta in giudizio, ma non per questo lo autorizza a sorprendere le parti in sede di decisione. La sorpresa, che viola il diritto di difesa e il principio del contraddittorio, si ha tenendo conto della proiezione dinamica della questione di diritto, cioè quando la norma di diritto evidenziata dal giudice e posta in rapporto con l’effetto giuridico richiesto fa entrare il contenzioso in un campo di indagine non arato, rimasto fuori del recinto entro il quale si èsvolto il dibattimento. In ultimo luogo va chiarito il concetto di “tempo congruo”112 , al fine di avere in mano gli strumenti necessari per verificare il rispetto del principio del contraddittorio. Il giudice, infatti, pur potendo condurre questa fase del processo nel modo che ritiene più opportuno, nel fissare l’ampiezza della distantia temporis assegnata alle parti, deve tener conto in generale, della natura, urgenza e complessità della controversia,e, in particolare, dell’attività richiesta alla parte. Non viene quindi in rilievo la natura ordinatoria o perentoria ovvero dilatoria o acceleratoria del termine, ma la sua funzione qualitativa distrumento per il corretto svolgimento del contraddittorio, sentiti idiretti interessati, cioè gli avvocati delle parti.Essenziale, quindi, per il buon funzionamento del rito è la collaborazione tra le parti e il giudice.Va valorizzata l’indicazione “sentite le parti”, che precede l’espressione “omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio”, onde evitare di dover tornare sui propri passi e concedere proroghe o ammettere attività compiuta fuori termine, con il rischio di aprire un subprocedimento teso a verificare la congruità o meno del termine originariamente assegnato unilateralmente,senza aver sentito le parti e senza, quindi, il loro accordo. Al riguardo, il comma 49 dispone che il giudice compie gli atti istruttori «richiesti dalle parti» e quelli «disposti d’ufficio, ai sensi dell’articolo 421 del codice di procedura civile». Quanto ai primi, si è già detto che il richiamo all’art. 125 c.p.c. quale modello per l’atto introduttivo della presente procedura impone di escludere che le parti abbiano l’onere di indicare, a pena di decadenza, già nel loro primo scritto difensivo, i mezzi istruttori dei quali intendano avvalersi. E tuttavia, se si concorda sul fatto che il legislatore abbia delineato un procedimento tendenzialmente concentrato in una sola udienza, si deve anche convenire nella necessità che le parti formulino definitivamente le loro istanze istruttorie subito dopo l’interrogatorio libero e l’esperimento del tentativo di conciliazione (nonché la decisione sulle eventuali questioni pregiudiziali). Ciò, direi, prendendo spunto dalla previsione dell’art. 420, quinto comma, c.p.c., la quale colloca appunto in quella fase dell’udienza la decisione del giudice sui mezzi di prova già proposti dalle parti e su quelli che le parti non abbiano potuto proporre prima. Sembrerebbe ovvio, pertanto, che, anche nel procedimento di cui stiamo trattando, quello debba essere il momento in cui il giudice adotta la propria decisione circa l’istruttoria da compiere e, conseguentemente, anche il limite temporale

e provati), cioè l’esistenza di un accordo di esclusiva e il fatto che il luogo dell’incidente ricade o meno in una zona affidata in esclusiva all’attività di altro lavoratore. La parte non gode di facoltà divinatorie, per poter anticipare nella propria testa il ragionamento che farà il giudice e così potersi correttamente difendere. Inoltre, anche se la parte si fosse resa conto del fatto silente,per quale motivo dovrebbe portare l’attenzione e la discussione su di esso, se è contrario ai propri interessi? Il principio di autoresponsabilità non può tramutarsi in principio di autolesionismo. D. BUONCRISTIANI, RITO LICENZIAMENTI: PROFILI SISTEMATICIE PROBLEMI APPLICATIVI, testo con note della relazione tenuta al Forum Lavoro – Palazzo Giureconsulti, Milano, il 14 marzo 2013, R I D L, 2013, Anno XXXII Fasc. 2 – 2013.

112 Sul concetto di termine congruo e/o ragionevole vedi N. PICARDI - R. MARTINO, Termini: I) Diritto processuale civile, EGT , 1994, 17 ss. ed ivi ulteriori citazioni

Page 36: riforma l.92/2012

ultimo perché le parti formulino le loro istanze al riguardo113. Altro problema è il bilanciamento dei poteri delle parti e del potere di conduzione del processo del giudice: in mancanza di una predeterminazione sequenziale dell’attività consentita e in considerazione del divieto per il giudice di assegnare termini perentori per svolgere una certa attività (art. 152, 1º comma, c.p.c.), come può il giudice rifiutare alla parte la possibilità di una certa attività assertiva o probatoria, come può in tempi rapidi portare a definizione il giudizio?. Da aggiungere che comunque il giudice, nella conduzione delprocedimento, pur potendo regolarsi nel modo che ritiene piùopportuno, è tenuto a riservare particolari giorni nel calendario delle udienze per la trattazione di queste controversie (art. 1, 65º comma, l. 92/2012), sotto la diretta vigilanza dei capi degli uffici giudiziari (art. 1, 66º comma, l. 92/2012)114 .In sintesi, rileva che gli ampi poteri concessi al giudice abbiano come contrappeso ampi poteri delle parti di poter liberamente difendersi in tempo utile, con la possibilità di contestare l’uso di questo potere, sotto il profilo della violazione del diritto didifesa e del principio del contraddittorio. L’art. 111 Cost. è rispettato se la legge impone il rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa alle parti, l’una rispetto all’altra parte ed entrambe rispetto al giudice, con strumenti di controllo.In ogni caso, il profilo di costituzionalità di questo nuovo rito duttile ed elastico, affidato al potere di direzione e conduzione del giudice, è temperato dal fatto che, dopo questa prima fase senza predeterminazione legale della sequenza di atti e attività, può seguire una fase a cognizione piena in cui si procederà a tutti gli atti di istruzione ammissibili e rilevanti richiesti dalle parti (e non soltanto a quelli indispensabili), scandita dalle rigide preclusioni del rito del lavoro115 .Quindi,la parte ha a sua disposizione una fase di controllo “ordinaria”, sempre di primo grado. Ma non è consentita la revoca o sospensione dell’efficacia esecutiva dell’ordinanza che chiude la prima fase; pertanto, la parte che ha subito un torto dalla conduzione del processo nella prima fase, pur disponendo di una fase di controllo cadenzata dal legislatore, deve sopportare l’efficacia esecutiva del provvedimento fino alla sentenza che chiude la fase di opposizione. Tuttavia, la valutazione di incostituzionalità deve riguardare il divieto di revoca o sospensione dell’efficacia esecutiva dell’ordinanza,piuttosto che la prima fase duttile e deformalizzata. Ed infatti, per quanti sforzi si vogliano compiere, sul piano logico non v’è alcuna differenza tra atti istruttori «indispensabili», atti istruttori «ammissibili e rilevanti» (tale è la formula utilizzata dal successivo comma 57 al fine di definire l’istruttoria propria della fase di opposizione), mezzi di prova «rilevanti» (art. 420, quinto comma, c.p.c.)116. Né sembra che si possa ricorrere alle

113 Diversa l’opinione di L. CAVALLARO, op. cit., 5, e G. TREGLIA, op. cit., 767, secondo i quali le parti sarebbero

libere di promuovere istanze istruttorie lungo tutto l’arco del procedimento. Anche con riferimento al procedimento sommario di cognizione, la dottrina afferma in prevalenza che le parti sarebbero abilitate ad avanzare istanze istruttorie per tutto il corso del processo: C. CONSOLO, Spiegazioni, cit., 189; MENCHINI, op. cit., 1031; invece, nel senso che, per ragioni sistematiche derivanti dalla necessità di assicurare la ragionevole durata del processo e la coerenza con il modello processuale delineato dal legislatore, G. ARIETA, Il rito “semplificato” di cognizione, in www.judicium.it, 19; G. OLIVIERI, Il procedimento di primo grado, in Giur. it., 2010, 732, e, in giurisprudenza, Trib. Varese, 18 novembre 2009, in Guida dir., 2009, n. 50, 47

114 Critici sull’utilità e sugli effetti di questa previsione C. CONSOLO - D. RIZZARDO, op. cit., 736;R. CAPONI, La corsia preferenziale, op. loc. cit.Da tener conto, infatti, che non è previsto un aumento dell’organico né dei giudici né del personale di cancelleria, essendo al contrario precisato che dall’attuazione delle nuove disposizioni «non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, ovvero minori entrate» (art. 1, comma 69, l. 92/2012).

115 Dove è espressamente previsto che «l’opposto deve costituirsi mediante deposito in cancelleria di memoria difensiva a norma e con le decadenze di cui all’art. 416 c.p.c.»; altrettanto, quanto a decadenze, varrà quindi anche per l’opponente, che propone ricorso «contenente i requisiti di cui all’art.414 c.p.c.»

116 Per analogo rilievo, v. L. CAVALLARO, op. cit., 5. Nel senso della sostanziale equivalenza tra indispensabilità degli atti istruttori ex art. 669-sexies c.p.c. e rilevanza degli stessi ex art. 702-ter, A. CARRATTA, Nuovo procedimento sommario di cognizione e presupposto dell’ “istruzione sommaria”: prime applicazioni, in Giur. it., 2010, 904; Id., Procedimento sommario di cognizione, cit., 7. Invece D. BORGHESI, op. cit., 915, trae proprio dal fatto che la legge n. 92 parla di atti istruttori indispensabili – che è la formula utilizzata per l’istruttoria, appunto sommaria, propria dei procedimenti cautelari – per la fase “urgente” e di atti istruttori rilevanti – che è la formula utilizzata per l’istruttoria del procedimento sommario di cognizione, vale a dire di un rito semplificato ma a cognizione piena –

Page 37: riforma l.92/2012

acquisizioni giurisprudenziali in ordine all’interpretazione dell’analoga espressione utilizzata dall’art. 437, secondo comma, c.p.c. Infatti in quest’ultimo caso la nozione di indispensabilità dei mezzi istruttori è stata elaborata essenzialmente in rapporto alle preclusioni previste a carico delle parti dal rito codicistico del lavoro relativamente al giudizio di primo grado, aspetto del tutto estraneo alla fase del giudizio di impugnazione dei licenziamenti di cui qui si sta trattando. Ed allora, al fine di riempire di contenuto il precetto del comma 49, occorre necessariamente tener conto delle indicazioni circa i caratteri della prima fase del nuovo procedimento che si traggono da altri precetti dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012. E tali indicazioni sono tutte nel senso dell’intenzione del legislatore di definire un procedimento idoneo a consentire la formazione, nel tempo più rapido possibile, di un primo pronunciamento giudiziale circa la legittimità di un licenziamento intimato nell’area di applicabilità dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970. In tale direzione depone, già lo sdoppiamento del primo grado di giudizio in due fasi, sdoppiamento che non avrebbe senso se l’attività che il giudice deve compiere per pervenire alla decisione (e, in particolare, quella istruttoria che, com’è noto, comprende gli adempimenti che richiedono il maggior tempo) fosse la stessa; conseguentemente, poiché l’istruttoria che deve essere compiuta nella fase di opposizione è sicuramente quella piena (consistendo nell’assunzione di tutti i mezzi istruttori «ammissibili e rilevanti») è giocoforza concludere nel senso che l’istruttoria propria della prima fase debba da quella distinguersi sotto qualche profilo, in particolare al fine di renderla più snella. In secondo luogo, la già segnalata impossibilità per le parti di chiamare in causa terzi e di proporre domande riconvenzionali nella prima fase del giudizio di primo grado (facoltà che invece esse conservano integre nella fase di opposizione) conferma che quella prima fase è concepita come caratterizzata dalla massima concentrazione. Infine, occorre considerare che opinare diversamente (ritenendo, cioè, che anche la prima fase del giudizio di primo grado sia a cognizione piena) condurrebbe alla conclusione secondo la quale il legislatore del 2012 avrebbe introdotto per le impugnazioni dei licenziamenti un procedimento articolato addirittura su quattro gradi a cognizione ordinaria (vale a dire uno in più rispetto a quelli che caratterizzano il comune rito del lavoro), il cui unico temperamento sarebbe la previsione di una trattazione deformalizzata (misura di invero modesta portata acceleratoria, come si vedrà) e che comunque non costituisce un elemento che vale a distinguere la prima fase da quella di opposizione, posto che anche in questa seconda il giudice deve procedere omettendo le formalità non essenziali al contraddittorio. Ciò, oltre ad essere in clamorosa antitesi con le intenzioni dichiarate dal legislatore, anche negli atti parlamentari, renderebbe incomprensibile la ragione per la quale il legislatore avrebbe, contestualmente, introdotto tutta una serie di misure dirette alla semplificazione dell’attività processuale e alla riduzione dei termini. Tutte le considerazioni di natura sistematica appena esposte impongono pertanto di ritenere che l’istruttoria propria della fase “urgente” sia ridotta rispetto a quella propria di un giudizio a cognizione piena117. Si tratta ovviamente di precisare in cosa consista tale riduzione. Si può escludere che essa comporti una selezione dei fatti sui quali svolgere l’istruttoria, non essendovi alcun elemento testuale o sistematico che consenta di affermare che il giudice possa omettere di procedere ad accertamenti su qualcuno dei fatti richiesti dall’art. 18 della legge n. 300

per il giudizio di opposizione, la dimostrazione del fatto che la prima fase in cui si articola il nuovo rito è appunto a cognizione sommaria, mentre la seconda fase è a cognizione piena.

117 Contra A. BOLLANI, op. cit., 320, secondo il quale l’ordinanza pronunciata dal giudice nei procedimenti in questione si fonda su un accertamento istruttorio pieno e conclude nel senso che la riforma ha, di fatto, introdotto un grado aggiuntivo di giudizio (ivi, 321). In senso analogo, L. CAVALLARO, op. cit., 3, secondo il quale la sommarietà del procedimento non sta nella qualità dell’accertamento giudiziale,tendenzialmente analogo a quello della normale cognizione, quanto dal modo in cui esso è condotto, che si vorrebbe scevro da formalismi superflui; anche questo Autore però, sottolineando che tali formalismi sono del tutto assenti nel rito del lavoro, finisce con il riconoscere che la diversità con tale rito sarebbe impalpabile.

Page 38: riforma l.92/2012

del 1970 per l’applicazione di una delle tutele da esso previste ovvero su qualcuno dei fatti dedotti dal datore di lavoro a sostegno della legittimità del proprio operato. Si deve pertanto concludere che l’indispensabilità richiesta dal comma 49 vada intesa come posta in relazione all’urgenza del provvedimento richiesto, in conformità con la modifica suggerita dalla dottrina quando il disegno di legge era ancora all’esame del Parlamento e il segmento della disciplina relativo alla prima fase del nuovo procedimento era contenuta in un articolo significativamente intitolato “Tutela urgente”118. Ecco allora che la prima fase in cui si articola il giudizio di primo grado del nuovo procedimento è sommaria, non solamente nel senso che la trattazione è deformalizzata, ma anche nel senso che l’istruttoria consiste nell’assunzione dei soli mezzi istruttori necessari a consentire al giudice la formazione di un giudizio di mera verosimiglianza circa l’esistenza o meno del vizio (o dei vizi) del licenziamento denunciati dal ricorrente119. Ciò non significa affatto, però, che vi siano, tra le prove tipiche, alcune incompatibili con tale fase. Infatti, la sommarietà del procedimento, così come sopra precisata, non impone al giudice di limitare l’attività istruttoria ai mezzi di prova di più semplice e rapida assunzione; gli impone, invece, di assumere solamente quelli necessari per pervenire ad una ricostruzione meramente probabilistica dei fatti oggetto di causa120. L’estraneità del rito in oggetto alla tutela cautelare rileva, in materia di prove tipiche, sull’esclusione della possibilità per le parti di ricorrere al giuramento decisorio o a quello suppletorio; il fatto che tali mezzi siano finalizzati alla decisione della causa, se costituisce un elemento che depone in senso contrario alla loro esperibilità nei giudizi cautelari, è invece del tutto coerente con la natura del nuovo procedimento per l’impugnazione dei licenziamenti, il provvedimento definitorio della cui prima fase è sicuramente idoneo ad acquisire la stabilità propria della cosa giudicata. Per quanto concerne, poi, i poteri istruttori officiosi, la loro latitudine non sembra che possa essere apprezzata prescindendo dal richiamo al disposto dell’art. 421 c.p.c. operato dal legislatore. Il legislatore del 2012 non ha attribuito al Tribunale un’illimitata e generica facoltà di ammettere d’ufficio mezzi istruttori, ma solamente il medesimo potere riconosciuto in generale al giudice del lavoro dall’art. 421 c.p.c. Va confermato dunque il limite costituito dalle allegazioni delle parti, non potendo il giudice, neppure quello del nuovo rito per l’impugnazione dei licenziamenti, disporre indagini su fatti ulteriori rispetto a quelli dedotti dalle due parti in causa121. Ma, soprattutto, ciò che forse merita di essere sottoposto a verifica è l’applicabilità della ricorrente massima giurisprudenziale secondo la quale il giudice deve far ricorso ai poteri officiosi attribuitigli dall’art. 421 c.p.c. solamente quando dalle allegazioni delle parti e dal materiale probatorio acquisito al processo già emergano significativi dati di indagine122.

118 R. CAPONI, op. cit., 10 119 Nel senso che nella prima fase del giudizio di primo grado «il convincimento in fatto è per definizione superficiale,

riguardando il “fumus” di fondatezza della domanda», A. VALLEBONA, op. cit., 74 120 In un primo provvedimento giudiziale è stato affermato che nella fase “urgente” possono essere ammessi mezzi di prova diversi da quelli documentali «solo se assolutamente necessari alla decisione, anche in considerazione del carattere di articolare rapidità che il legislatore ha voluto attribuire al procedimento»: Trib. Rovigo 11 ottobre 2012, Est. Ferrari, N.F. c. S.M. s.r.l. Così, non v’è ragione per dubitare dell’ammissibilità della consulenza tecnica d’ufficio (che, del resto, è uno strumento praticamente indispensabile per il giudice, una volta che si ammetta la proponibilità, in simili procedimenti, anche delle domande dirette ad ottenere il risarcimento del danno alla salute eventualmente causato dal licenziamento illegittimo). Qui, infatti, non v’è la necessità (propria invece dei giudizi cautelari) di rispettare i limiti di tempo imposti dall’esigenza di scongiurare il verificarsi dell’irreparabile pregiudizio al diritto del ricorrente. Peraltro, la giurisprudenza di legittimità appare orientata a ritenere la c.t.u. compatibile anche con procedimenti prettamente cautelari: Cass., 22 ottobre 1997, n. 10388

121 V., tra le tante, la recente Cass., 4 maggio 2012, n. 6753 122 Cass., 24 ottobre 2007, n. 22305; Cass., 5 febbraio 2007, n. 2379; Cass., sez. un., 17 giugno 2004, n. 11353, in Foro

it., 2005, I, 1135; Cass., 6 luglio 2000, n. 9034, in Riv. giur. lav., 2001, II, 637. 57 Cass., 25 marzo 2004, n. 5965; Cass., 27 marzo 2003, n. 4666, in Giur. it., 2003, 2013; Cass., 26 settembre 2000, n. 12763, in Giur. it., 2001, 1378.

Page 39: riforma l.92/2012

Non vi possono essere dubbi, poi, sull’ammissibilità delle prove atipiche, almeno negli stessi limiti in cui esse sono ammesse nel giudizio ordinario dalla giurisprudenza di legittimità, secondo la quale, nel vigente ordinamento processuale, improntato al principio del libero convincimento del giudice, è possibile che questi ponga a fondamento della decisione prove non espressamente previste dal codice di rito, purché idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico con le altre risultanze del processo123 e purché sia fornita adeguata motivazione della relativa utilizzazione, rimanendo, in ogni caso, escluso che tali prove atipiche possano valere ad aggirare preclusioni o divieti dettati da disposizioni sostanziali o processuali, così introducendo elementi di prova che non sarebbero altrimenti ammessi o la cui ammissione richieda il necessario ricorso ad adeguate garanzie formali124. Come accennato, l’altro profilo nel quale si manifesta il carattere sommario del giudizio è il suo carattere deformalizzato, il legislatore avendo previsto che il giudice proceda nel modo che ritenga maggiormente opportuno e omettendo ogni formalità non essenziale al contraddittorio. Non è agevole individuare tali «formalità non essenziali al contraddittorio» che, pur essendo previste dalla disciplina ordinaria del processo, il giudice deve trascurare. Ciò per il fatto, già segnalato secondo cui al rito in oggetto si applica, per tutto quanto non previsto dalla legge n. 92 del 2012, la disciplina codicistica delle controversie individuali di lavoro, la quale è già di per se stessa caratterizzata da un notevole tasso di “semplificazione” rispetto a quella del rito civile ordinario. Ne discende che la “trasposizione” nel procedimento di cui stiamo trattando, della formula relativa all’omissione delle formalità non essenziali al contraddittorio propria della disciplina del rito cautelare uniforme e del rito sommario di cognizione produce effetti molto più modesti che in questi due casi. Ed infatti, premesso che non potrà comunque determinarsi il vantaggio costituito dall’affrancazione dalla necessità della concessione dei termini per la trattazione scritta ex art. 183 c.p.c. o del duplice termine per lo scambio degli scritti difensivi finali ovvero della fissazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni (adempimenti la cui esclusione discende, non già dalla previsione di un procedimento de formalizzato contenuta nel comma 49 dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012, bensì dalla segnalata applicabilità al nuovo rito della disciplina generale del rito codicistico del lavoro), si deve convenire anche che non si potrà mai omettere il rispetto delle formalità previste per la costituzione stessa del contraddittorio. Quelle, cioè, dirette ad assicurare il pieno esercizio del diritto di difesa delle parti. Così, come già detto, sicuramente non si potrà derogare al termine minimo di venti giorni concesso al convenuto per approntare la sua difesa. Infatti, posto che è assolutamente pacifico che la concessione al convenuto di un termine per esaminare il ricorso avversario e predisporre le proprie difese costituisca una formalità essenziale al contraddittorio125, deve anche ritenersi, in aggiunta,

In effetti non è agevole coniugare un simile principio con la natura superficiale dell’istruttoria che si deve compiere in un giudizio, come quello della fase “urgente” del nuovo rito, caratterizzato dal fatto che il convincimento che il giudice deve maturare è di mera verosimiglianza dell’esistenza del diritto azionato dal lavoratore. Ci si può chiedere, in particolare, se, a fronte di risultanze istruttorie che depongano in senso favorevole ad una delle parti, senza però assurgere al livello di piena prova, il giudice possa disporre d’ufficio altri mezzi istruttori o si debba arrestare e formulare il proprio giudizio che, appunto, è di ricostruzione meramente probabilistica dei fatti (mentre l’attribuzione al giudice del potere-dovere di assumere d’ufficio mezzi istruttori è finalizzata proprio ad attuare pienamente il principio della ricerca della verità materiale).

123 Cass., 25 marzo 2004, n. 5965; Cass., 27 marzo 2003, n. 4666, in Giur. it., 2003, 2013; Cass., 26 settembre 2000, n. 12763, in Giur. it., 2001, 1378

124 Cass., 5 marzo 2010, n. 5440, in Giur. it., 2010, 2589 125 In giurisprudenza, con riferimento all’analoga espressione contenuta nell’art. 669-sexies, primo comma, c.p.c., v.

trib. Lecce, 26 aprile 1994, in Foro it., 1994, I, 2249, nel senso che deve considerarsi essenziale affinché il ricorso cautelare possa raggiungere il suo scopo, che è anche quello di consentire alla controparte di difendersi adeguatamente. In dottrina, in generale, sulla necessità, di rilevanza costituzionale, della concessione al convenuto di un termine dilatorio inderogabile per la predisposizione delle difese, nei procedimenti sommari nei quali la legge riconosce al giudice un’elevata discrezionalità nella guida dello svolgimento del processo, A.GRAZIOSI, La cognizione sommaria del giudice civile nella prospettiva delle garanzie costituzionali, in Riv. trim. dir. proc. civ.,

Page 40: riforma l.92/2012

che, contrariamente al modello processuale costituito dal procedimento cautelare uniforme (nel quale il legislatore ha lasciato al giudice ampia discrezionalità nel determinare la durata del termine a difesa126), nel caso del nuovo rito per le impugnazioni dei licenziamenti, le indicazioni contenute nel sesto periodo del comma 48 circa il termine per l’esecuzione della notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza di comparizione delle parti e per la costituzione del convenuto sono chiaramente rivelatrici dell’intenzione del legislatore del 2012 di prefigurare un termine minimo che comunque deve essere concesso al resistente al fine di predisporre la propria difesa. Anche in caso di eccezioni tempestivamente sollevate da una delle parti, si dovrà assicurare alla controparte la possibilità di adeguatamente replicare e dedurre circa la necessità di nuovi mezzi istruttori; e la stessa facoltà deve essere assicurata ad entrambe le parti in caso di ammissione d’ufficio di mezzi di prova ai sensi dell’art. 421 c.p.c. ovvero nel caso in cui il giudice ritenga di porre a fondamento della decisione una questione rilevabile d’ufficio (in ossequio al principio consacrato nell’art. 101, secondo comma, c.p.c.). Sembra al pari indubbio che natura di formalità essenziale al contraddittorio debba essere riconosciuta anche al diritto delle parti di esprimere, una volta esaurita la fase istruttoria, le loro valutazioni finali, mentre rientra sicuramente nella discrezionalità che la norma attribuisce al giudice la scelta delle relative modalità (discussione orale immediata, rinvio ad altra udienza per la discussione, concessione di termine per il deposito di note scritte). Si può convenire sul fatto che le formalità non essenziali al contraddittorio che possono essere omesse siano essenzialmente quelle attinenti all’assunzione delle prove costituende. Premesso che, anche al riguardo, deve essere mantenuto fermo il rispetto della garanzia minima rappresentata dal diritto di entrambe le parti di essere presenti agli esperimenti istruttori su un piano di parità, va segnalato che, con riferimento all’identica espressione utilizzata dall’art. 702-ter, quinto comma, c.p.c., in giurisprudenza è stata dichiarata l’inammissibilità della prova testimoniale richiesta senza idonea capitolazione delle circostanze di fatto sulle quali i testimoni avrebbero dovuto essere interrogati e senza l’indicazione nominativa di questi ultimi127; con riferimento alla

2009, 168. 126 E ciò anche nel caso di concessione della misura cautelare con decreto emesso inaudita altera parte, poiché il

secondo periodo del secondo comma dell’art. 669-sexies c.p.c. si limita a stabilire il termine entro il quale deve essere fissata l’udienza di comparizione delle parti e il termine massimo entro il quale deve essere eseguita la notificazione del ricorso e del decreto, non anche il termine minimo che deve intercorrere tra la notificazione e l’udienza.

127 trib. Mondovì, 12 novembre 2009, in Giur. it., 2010, 899. Parlando della prova testimoniale,così commenta A.SORDI,op.cit. “sembra ovvio che non può essere omesso quanto richiesto dall’art. 251 c.p.c., in difetto del quale, anzi, neppure potrebbe parlarsi di prova testimoniale. Circa la previa indicazione delle persone da interrogare, non si vede davvero quale aggravio sui tempi di definizione della causa possa derivare da tale adempimento che, del resto, sembra davvero «essenziale al contraddittorio», poiché non dovrebbero esservi dubbi sul fatto che per la controparte sia essenziale conoscere, oltre che i fatti sui quali il testimone verrà interrogato, anche il nominativo di chi sia chiamato a rispondere a quelle domande. Venendo alla deduzione della prova testimoniale per capitoli separati e specifici, abbiamo già visto come sia stato lo stesso legislatore, nel non prevedere l’onere per le parti di indicare già nei rispettivi primi atti difensivi i mezzi istruttori dei quali intendano avvalersi, ad introdurre nel nuovo modello processuale un elemento di fortissima contraddizione con la proclamata intenzione di costruire un procedimento idoneo a consentire al giudice di pervenire nel più breve tempo possibile ad una decisione. Ciò comporta, come detto, la possibilità che le parti possano liberamente integrare le loro richieste istruttorie nel corso della prima udienza ed è evidente che, in quel contesto, è molto più agevole chiedere genericamente la prova testimoniale su tutte le circostanze di fatto dedotte nel ricorso o nella memoria di costituzione, piuttosto che formulare articoli specifici e separati, come preteso dall’art. 244 c.p.c. Ma è altrettanto evidente che richiedere che i difensori delle parti procedano a tale capitolazione nel corso dell’udienza comporterebbe inevitabilmente una dilatazione dei tempi della stessa. Ed è dunque per questo solo motivo (e non certo perché la previa capitolazione costituisca di per sé un adempimento idoneo ad allungare i tempi di definizione della causa, essendo semmai vero il contrario) che probabilmente deve ammettersi che le parti siano abilitate a richiedere l’ammissione della prova per testi senza necessità di una analitica capitolazione, fermo restando comunque la possibilità di formulare tale istanza solamente con riferimento ai fatti ritualmente dedotti in giudizio. Deve, infine, ritenersi essenziale al contraddittorio il riconoscimento alle parti della facoltà di fare osservazioni sull’attendibilità del testimone e di pretendere i chiarimenti necessari (art. 252, secondo comma, c.p.c,.) e di chiedere al giudice di rivolgere al testimone ogni

Page 41: riforma l.92/2012

consulenza tecnica d’ufficio, è stato disposto che, considerata la celerità che deve contraddistinguere il procedimento, le nomine dei consulenti di parte sono ammesse solamente fino all’udienza di giuramento del c.t.u. e non sono osservate le procedure previste dall’art. 195, con conseguente onere dei consulenti di parte di partecipare alle operazioni peritali e di evidenziare in quella sede le loro osservazioni128. La previsione della de formalizzazione non sembra idonea a determinare particolari vantaggi sul piano della contrazione dei tempi. Ma ciò non deve sorprendere, se si considera che essa si colloca nell’àmbito di un procedimento che è assoggettato, in generale, alla disciplina codicistica delle controversie di lavoro, vale a dire a un rito che è già di epr sé scevro da formalismi. Una disposizione che consente al giudice di omettere le formalità non essenziali al contraddittorio produce effetti molto significativi se applicato a cause regolate dal rito ordinario, consentendo di evitare di seguire pedissequamente il complesso iter prefigurato dall’art. 183 c.p.c. ovvero quello di cui agli artt. 190 e 281-quinquies, c.p.c. La medesima disposizione, invece, non ha molto senso, occorre riconoscerlo, se si inserisce in una disciplina come quella del rito del lavoro. L’art. 1, comma 49, della legge n. 92 del 2012 prevede che, all’esito della prima fase, il giudice decide circa l’accoglimento o il rigetto della domanda con ordinanza immediatamente esecutiva. Trattandosi di ordinanza, si applica l’art. 134 c.p.c., onde il provvedimento può essere pronunciato in udienza ovvero fuori udienza. Deve considerarsi sicuramente legittima la prassi secondo la quale il giudice si riserva la decisione concedendo un breve termine alle parti per depositare note scritte (facoltà della quale, a causa della ristrettezza dei tempi imposti alle precedenti attività defensionali e della delicatezza dell’oggetto delle controversie in questione, è pronosticabile che le parti si avvarranno con una certa frequenza). Ciò pur se si deve negare che la concessione di tale termine costituisca una formalità essenziale al contraddittorio, potendo le parti adeguatamente esercitare il loro diritto di difesa in sede di discussione orale. Pertanto è inevitabile riconoscere al giudice un ampio potere discrezionale circa l’accoglimento o meno dell’istanza delle parti in tal senso. Nonostante che il comma 49 preveda, quali unici esiti del procedimento, l’accoglimento o il rigetto della domanda (vale a dire, decisioni nel merito), la fase in questione può concludersi anche con pronunce in rito, quali quelle dichiarative dell’incompetenza per territorio o della nullità del ricorso. Il regime dell’ordinanza è descritto nei commi 49 e 50 dell’art. 1. Il primo stabilisce che essa è immediatamente esecutiva; il secondo che la sua efficacia esecutiva non può essere sospesa o revocata fino alla pronuncia della sentenza con cui il giudice «definisce» il giudizio di opposizione (non è necessario – affinché venga meno l’efficacia esecutiva dell’ordinanza – che la sentenza che conclude il giudizio di opposizione passi in giudicato, poiché sarebbe davvero contrario a qualsiasi principio di ragionevolezza che l’accertamento sommario prevalesse su quello pieno, seppur non ancora definitivo).

domanda utile a chiarire i fatti sui quali esso depone (art. 253 c.p.c.)”. 128 trib. Mondovì, 12 novembre 2009,cit.. Sempre SORDI, op.cit., “Passando alla consulenza tecnica d’ufficio, per

quanti sforzi si vogliano fare, non sarà mai possibile immaginare una modalità di svolgimento di tale accertamento maggiormente concentrata rispetto al modello già offerto dal rito codicistico del lavoro all’art. 422. Com’è noto, è qui previsto che il giudice, nominato «in qualsiasi momento» uno o più consulenti tecnici, possa assegnare alle parti un termine perentorio non superiore a cinque giorni per note sui quesiti da formulare all’ausiliare (nonché un termine non superiore a sei giorni per la nomina dei consulenti di parte: art. 145 disp. att. c.p.c.); il consulente può essere autorizzato a riferire verbalmente ovvero, in caso di relazione scritta, gli può essere concesso all’uopo un termine non superiore a venti giorni. Non si vede davvero come i tempi per il compimento delle operazioni peritale potrebbero essere ulteriormente compressi. Se si aggiunge che la prestazione del giuramento assume anche al riguardo formalità in difetto della quale neppure potrebbe parlarsi di consulenza tecnica d’ufficio, che la formulazione del quesito deve necessariamente essere riportata nel verbale d’udienza (per le più elementari esigenze di certezza e di rispetto dei poteri defensionali delle parti) e che la facoltà delle parti di ricorrere alla nomina di consulenti di parte rientra in pieno nell’esercizio del diritto di difesa, si può agevolmente concludere che, rispetto al mezzo in questione, la prescrizione secondo la quale il giudice omette ogni formalità non essenziale al contraddittorio si riduce all’impossibilità di applicare il complesso meccanismo previsto dall’art. 195, terzo comma, c.p.c. (ammesso e non concesso che esso sia, in generale, compatibile con il rito lavoristico).”

Page 42: riforma l.92/2012

Qualcuno dubita, tuttavia, che all’ordinanza possa ascriversi l’efficacia propria dell’art. 2909 c.c. , in considerazione della sommarietà dell’istruttoria129. Sommarietà che, si noti, riguarda solo la fase sommaria, in virtù di ciò che l’istruttoria ivi si limita agli atti di istruzione “indispensabili”, mentre nella successiva fase di opposizione l’istruttoria si estende agli atti di istruzione “ammissibili e rilevanti”130. L’efficacia esecutiva del provvedimento non può essere sospesa o revocata fino alla sentenza che definisce il giudizio di opposizione. Nonostante il legislatore abbia prescelto la forma dell’ordinanza, il provvedimento sembra avere natura e contenuti di sentenza. Con quest’ultima condivide il fatto di produrre gli effetti del giudicato, ossia di generare preclusioni e vincoli analoghi a quelli propri di una sentenza di merito, e ciò sia nel caso di accoglimento che di rigetto della domanda, sempre che non intervenga solo su questioni di mero rito131. A tale conclusione si perviene sulla base della considerazione che il procedimento di cui ai commi 48-49 non deve essere seguito necessariamente dal giudizio di merito132; ed infatti, il giudizio di opposizione di cui al comma 51 è concepito dal legislatore come meramente eventuale e non come condizione necessaria per garantire efficacia all’ordinanza. Dunque, in caso di mancata opposizione o di opposizione tardiva o rigettata, il contenuto del provvedimento di cui al comma 50 non potrà essere più oggetto di contestazione, restando immodificabilmente accertata tra le parti la situazione giuridica sottoposta al vaglio giudiziale133. La dottrina ha già manifestato perplessità circa la legittimità costituzionale di quest’ultima previsione (peraltro analoga a quella prevista dall’art. 28, secondo comma, della legge n. 300 del 1970 con riferimento al decreto con il quale il giudice dichiara l’antisindacalità della condotta datoriale), sottolineando come l’esclusione della sospensione e della revoca leda il diritto di difesa della controparte134.

129 CONSOLO-RIZZARDO, Vere o presunte novità, cit., 735. In arg. v. anche DALFINO, op. cit., 9. 130 Così LUISO, “Laddove ad una fase ad istruttoria sommaria possa seguire una fase a cognizione piena, non vi è alcun ostacolo ad attribuire efficacia di giudicato al provvedimento sommario.Tanto per rimanere in un ambito vicino, è pacifico che l’ordinanza ex art. 28 St. lavoratori, ove non opposta, sia idonea al giudicato. Del resto, negare efficacia decisoria al provvedimento sommario significa rinnegare la ratio del procedimento speciale che, come abbiamo già visto, è quella di ottenere, il prima possibile, una statuizione definitiva sulla reintegrazione o meno del dipendente licenziato. Né, a mio avviso, è possibile circoscrivere l’efficacia precettiva dell’ordinanza facendo riferimento ad un quid minus rispetto a quanto prevede l’art. 2909 c.c. , come accade per chi parla di preclusione pro iudicato54. Infatti – ferma ed impregiudicata la piena ed incondizionata efficacia precettiva dell’ordinanza che accolga o rigetti la domanda con cui è stato impugnato il licenziamento: rispetto alla quale ordinanza parlare di efficacia minore di quella propria del giudicato, e dunque di una quasi vincolatività, sarebbe come affermare che vi può essere una donna quasi incinta! – negare che tale provvedimento faccia stato anche sull’esistenza e qualificazione del rapporto - In ciò parte della dottrina più attendibile trova la distinzione fra efficacia del giudicato ed efficacia della preclusione pro iudicato: PROTO PISANI, op. loc. cit. - a monte, o sui diritti dipendenti a valle significa produrre delle distorsioni inaccettabili del diritto sostanziale. È immaginabile che, reintegrato il dipendente, possa essere posta in discussione la natura subordinata del rapporto di lavoro? O che, affermato valido ed efficace il licenziamento, al dipendente possa essere negato il t.f.r. , sostenendo che il rapporto di lavoro non è cessato? Se così fosse, allora anche la parte vittoriosa avrebbe interesse a proporre l’opposizione avverso l’ordinanza, al fine di ottenere con la sentenza, pronunciata in sede di opposizione, quella maggior tutela che, in tesi, solo questa può dargli e che l’ordinanza non gli dà”, F.P.LUISO, La disciplina processuale speciale della legge n. 92 del 2012.,op. cit.. 131 La pronuncia negativa per ragioni di rito, sostanziantesi nella dichiarazione di inammissibilità del ricorso, non

dovrebbe precludere la possibilità per l’istante di riproporre l’azione. 132 Il principio di “strumentalità attenuata” è stato già introdotto dalla novella del 2005 per i procedimenti cautelari

atipici. 133 In tal senso, v. P. Tosi, L’improbabile ecc., op. cit., pag. 839, il quale evidenzia le analogie con il decreto ex art. 28

della legge n. 300 del 1970 134 R. CAPONI, op. cit., 10. In effetti si deve riconoscere che, se è sicuramente legittima l’attribuzione dell’esecutività ad un provvedimento (quale l’ordinanza conclusiva della fase “urgente”) emanato a seguito di un’istruttoria meramente sommaria, non altrettanto può dirsi circa la stabilità di tale immediata esecutività, suscettibile di resistere anche alle diverse indicazioni derivanti dagli elementi acquisiti nel corso del successivo giudizio a cognizione piena.

Page 43: riforma l.92/2012

La legge tace completamente sul regime dell’ordinanza nel caso in cui essa non sia tempestivamente opposta (ovvero delle parti della statuizione giudiziale non oggetto di tempestiva opposizione). Tuttavia, il fatto che il legislatore abbia previsto un termine perentorio («a pena di decadenza», recita il comma 51 dell’art. 1 della legge n. 92) per la proposizione dell’opposizione dovrebbe indurre senz’altro a ritenere che l’ordinanza (o la parte dell’ordinanza) non oggetto di tempestiva opposizione acquisisca la stabilità propria della cosa giudicata135. Il problema piuttosto sta nel definire i confini dell’accertamento contenuto nell’ordinanza non opposta che diventa vincolante per le parti e per i giudici chiamati a decidere altre controversie tra le stesse parti. Proprio perché in mancanza di opposizione l’ordinanza è destinata a concludere definitivamente il procedimento, è sicuro che il giudice debba statuire anche sul riparto delle spese processuali. Punto critico della disciplina del nuovo procedimento previsto dal legislatore per l’impugnazione dei licenziamenti sia costituito dall’individuazione dei limiti dell’accertamento compiuto nel provvedimento divenuto definitivo (ordinanza ex comma 49 non opposta; sentenza ex comma 57 non reclamata; sentenza della Corte d’appello non impugnata o confermata dalla Corte di cassazione) idoneo ad acquistare la stabilità propria del giudicato. In particolare, occorre appurare se, oltre alla legittimità o illegittimità del licenziamento e alla titolarità o meno, in capo al lavoratore, dei diritti configurati dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, la definitività dell’accertamento si estenda anche all’esistenza o meno del rapporto di lavoro subordinato tra le due parti. Trattasi di una classica ipotesi di c.d. pregiudizialità in senso logico: chiedendo al Tribunale la concessione di qualcuna delle tutele di cui al predetto art. 18, il lavoratore deduce in giudizio anche la pregressa esistenza di un rapporto di lavoro subordinato con la controparte e fa valere, appunto, uno dei tanti effetti di un simile rapporto giuridico. La fattispecie, pertanto, è diversa da quella della c.d. pregiudizialità tecnica, categoria che comprende le ipotesi in cui un diritto (e non un rapporto) rientra tra gli elementi costitutivi di un altro diritto. È noto come la dottrina sia divisa circa l’applicabilità dell’art. 34 c.p.c. (e dei principi da esso espressi al fine di individuare i limiti del giudicato) alle ipotesi di pregiudizialità in senso logico. Ma è altrettanto noto come la giurisprudenza di legittimità esprima una posizione negativa al riguardo, sostenendo che, indipendentemente dalla proposizione di una domanda in tal senso, il giudicato sul diritto oggetto della domanda si estenda all’esistenza del rapporto giuridico dal quale quello trae origine136. Per quanto concerne l’ordinanza di rigetto, occorre operare la necessaria precisazione secondo la quale a quel provvedimento giudiziale va riconosciuto l’effetto di esprimere un accertamento

135 Conformi: L. DE ANGELIS, op. cit., 11; A. VALLEBONA, op. cit., 75; D. BORGHESI, op. cit., 914. Nello stesso senso, rispetto al decreto ex art. 28 legge n. 300 del 1970 non opposto, Cass., 23 novembre 1989, n. 5039, in Giust. civ., 1990, I, 2123, e Cass., 5 maggio 1984, in arch. civ., 1984, 1170. Contra, C. CONSOLO-D. RIZZARDO,op. cit., 735, con l’unica motivazione secondo la quale “ritenere che l’ordinanza acquisti un’efficacia analoga a quella del giudicato sembra eccessivo, in considerazione della forte informalità della fase sommaria e quanto meno per la parte debole del rapporto”. Dubbioso L. CAVALLARO, op. cit., 10. 136 V., tra le più recenti, Cass., 9 aprile 2009, n. 8723, Cass. 18 dicembre 2008, n. 29531, e Cass. 24 marzo 2006, n. 6628, secondo cui in relazione ai rapporti di durata, se l’accertamento dell’esistenza, validità e natura giuridica di un contratto, fonte di un rapporto obbligatorio, costituisce il presupposto logico-giuridico di un diritto derivatone, il giudicato si estende al predetto accertamento e spiega effetto in ogni altro giudizio, tra le stesse parti, nel quale il medesimo contratto è posto a fondamento di ulteriori diritti, inerenti al medesimo rapporto. Ove si ritenesse che tale consolidato orientamento sia applicabile alla fattispecie che qui interessa, si deve concludere che la definitività del provvedimento giudiziale conclusivo della controversia che riconosce a favore del lavoratore una delle tutele previste dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, fa acquisire carattere di stabilità anche all’accertamento positivo dell’esistenza di un pregresso rapporto di lavoro subordinato tra le due parti, sussistenza che, pertanto, non potrà più essere messa in discussione in eventuali futuri giudizi.

Page 44: riforma l.92/2012

definitivo circa l’inesistenza o l’invalidità del rapporto fondamentale dedotto in giudizio solamente se il rigetto delle domande del lavoratore si fondi proprio su quell’accertamento; invece, se il rigetto derivi dalla decisione di questioni attinenti esclusivamente ai diritti derivanti dall’illegittimo esercizio, da parte del datore di lavoro, del potere di recesso, non è possibile ritenere che l’ordinanza di rigetto faccia stato anche sull’inesistenza o l’invalidità del rapporto di lavoro subordinato tra le parti137. Potrebbe darsi il caso in cui il giudice, respinga la domanda di applicazione della tutela prevista dall’art. 18 per uno dei motivi appartenenti alla categoria appena indicata per seconda e, tuttavia, nella motivazione dell’ordinanza, si esprima nel senso della sussistenza della subordinazione. Qui dovrebbe escludersi che l’accertamento della sussistenza della subordinazione acquisti la stabilità propria della cosa giudicata. Infatti, le affermazioni formulate al riguardo nel provvedimento giudiziale non sono affatto legate alla statuizione sull’inesistenza del diritto alla reintegrazione da un nesso tale che questa seconda non sia concepibile prescindendo dalle prime, onde non è possibile predicare l’estensione dell’effetto di stabilità anche all’accertamento del rapporto di lavoro subordinato138.Se da un lato ciò costituisce la piana applicazione di consolidati principi giurisprudenziali, dall’altro è fonte di gravi inconvenienti in un modello processuale nel quale è esclusa in radice la possibilità di realizzazione del simultaneus processus in caso di contemporanea pendenza di controversie legate dal vincolo della pregiudizialità logica139. 137 V. Cass., 16 maggio 2006, n. 11356, in Corr. giur., 2006, 1216 (secondo cui la pronunzia di rigetto non più soggetta ad impugnazione non costituisce giudicato implicito – con efficacia vincolante nei futuri giudizi – laddove le questioni concernenti l’esistenza, la validità e la qualificazione del rapporto che ne è il presupposto logico-giuridico non abbiano costituito oggetto di specifica disamina e valutazione da parte del giudice); Cass., 17 novembre 2003, n. 17375, Cass., 14 gennaio 2002, n. 349, in Giust. civ., 2002, I, 637, e Cass., 11 febbraio 2000, n. 1532 (che hanno stabilito che l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato, anche nel caso di pronuncia di rigetto della domanda, estende i suoi effetti non solo alla decisione relativa al bene della vita chiesto dall’attore, ma anche a tutte le statuizioni inerenti all’esistenza e alla validità del rapporto dedotto in giudizio necessarie ed indispensabili per giungere a quella pronuncia). Significativo, in tal senso, anche l’orientamento secondo il quale il provvedimento giurisdizionale di merito, pur quando sia passato in giudicato, non è vincolante in altri giudizi aventi ad oggetto le medesime questioni di fatto o di diritto, se da esso non sia dato ricavare le ragioni della decisione ed i principi di diritto che ne costituiscono il fondamento: Cass., 25 novembre 2010, n. 23918. Volendo fare alcuni esempi: se il giudice respinga la domanda ex art. 18 legge n. 300 del 1970 perché ritenga insussistente la subordinazione e l’ordinanza non sia opposta tempestivamente, dovrebbe ritenersi definitivamente accertato che le prestazioni lavorative siano state eseguite in regime di autonomia; se invece il giudice rigetti la medesima domanda senza appurare alcunché circa la natura del rapporto, ma solamente perché ritenga che il rapporto non sia cessato ad iniziativa del convenuto ovvero perché escluda che questi occupi più di 15 dipendenti, all’ordinanza non opposta non potrebbe essere riconosciuto alcun effetto di accertamento definitivo circa l’insussistenza del rapporto di lavoro subordinato. 138 Del resto, opinare diversamente comporterebbe la necessità di ammettere l’esistenza dell’interesse del datore di

lavoro, pur pienamente vittorioso, ad impugnare un’ordinanza come quella ipotizzata nel testo, e ciò in contrasto con l’altro orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui l’interesse all’impugnazione va apprezzato in relazione all’utilità concreta derivabile alla parte dall’accoglimento del gravame, e si collega alla soccombenza, anche parziale, nel precedente giudizio, mancando la quale l’impugnazione è inammissibile; conseguentemente deve escludersi l’interesse della parte integralmente vittoriosa ad impugnare la sentenza al solo fine di ottenere una modificazione della motivazione: Cass., 10 novembre 2008, n.26921. Ciò anche se la parte prospetti l’utilità che l’auspicata diversa motivazione potrebbe avere con riguardo ad eventuali altre controversie di natura simile: Cass.,13 maggio 1997, n. 4168. Esempio, in un caso in cui il ricorrente, deducendo la qualificazione in termini di subordinazione delle prestazioni lavorative da lui eseguite, chieda la condanna della controparte alla reintegrazione sostenendo di essere stato licenziato verbalmente, il giudice dia atto nella motivazione dell’ordinanza di rigetto che dall’istruttoria espletata emerge la natura subordinata del rapporto, ma, ritenendo provato che il datore di lavoro abbia comunicato per iscritto il proprio recesso, rigetti comunque la domanda del lavoratore.

139 Eventualità del resto non del tutto sconosciuta nell’ordinamento processuale. Si consideri, in proposito, il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui, nell’opposizione a decreto ingiuntivo, il fallimento del creditore opposto, nei cui confronti sia stata proposta dall’opponente domanda riconvenzionale, non determina l’improcedibilità dell’opposizione e la rimessione dell’intera controversia al giudice fallimentare, rimanendo il Tribunale ordinario competente per l’opposizione mentre al Tribunale fallimentare, previa separazione dei giudizi, deve essere rimessa esclusivamente la domanda riconvenzionale: Cass., 27 maggio 2011, n. 11749; Cass., 14 settembre 2007, n. 19290. Con la conseguente affermazione secondo la quale non sussiste alcuna possibilità di simultaneus processus tra l’opposizione a decreto ingiuntivo in sede ordinaria e la controversia di

Page 45: riforma l.92/2012

Ed infatti, nel caso in cui sia controversa tra le parti la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato (il che può avvenire per i motivi più vari: contestazione della natura subordinata delle prestazioni eseguite, contestazione dello stesso svolgimento di attività lavorativa, contestazione dell’imputabilità del rapporto di lavoro proprio alla parte contro al quale il lavoratore ha proposto la domanda, ecc.), se il lavoratore sostenga di vantare una pluralità di diritti scaturenti da quel rapporto, egli, tutte le volte in cui qualcuno di quei diritti trovi fonte nell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, sarà costretto a introdurre almeno due controversie: una relativa alle domande di cui al predetto art. 18, l’altra per avanzare tutte le altre pretese. In base ai principi ricordati, il giudicato formatosi in entrambi i giudizi copre anche l’esistenza/inesistenza del rapporto di lavoro subordinato e, in ipotesi di decisioni segno diverso, ecco che si verificherà il contrasto tra giudicati. Al fine di evitare che si determini una simile, inaccettabile eventualità, possono essere ipotizzate la soluzione di ritenere che all’accertamento contenuto nel provvedimento conclusivo della controversia di impugnazione del licenziamento dispieghi effetti propri della cosa giudicata solamente rispetto allo specifico diritto contemplato dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970 azionato dal lavoratore nella controversia, non anche relativamente all’esistenza o meno del rapporto di lavoro subordinato dal quale quel diritto dovrebbe scaturire. Una strada percorribile resta allora quella di ritenere applicabile l’istituto della sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c. Vale a dire che, riconosciuto che il giudicato formatosi nella controversia di impugnazione del licenziamento si estende anche all’accertamento dell’esistenza o inesistenza del rapporto di lavoro subordinato, ne consegue che, tutte le volte in cui tra le due parti sia controversa l’esistenza di quel rapporto:

a) nelle controversie aventi ad oggetto altri diritti scaturenti da quel rapporto promosse dalle stesse parti successivamente alla formazione del giudicato nella causa di impugnativa del licenziamento, il giudice è vincolato al predetto giudicato che si estende anche all’esistenza (ovvero, alle condizioni sopra precisate, all’inesistenza) del rapporto di lavoro subordinato;

b) in caso di contemporanea pendenza delle due cause, se in una sia già stata pronunciata una sentenza sottoposta ad impugnazione, il giudice dell’altra può sospenderla ai sensi dell’art. 337, secondo comma, c.p.c.;

c) nel caso in cui le due cause pendano entrambe in primo grado, quella avente ad oggetto diritti diversi da quelli di cui all’art. 18 deve essere sospesa in attesa della definizione di quella di impugnazione del licenziamento.

Non ci si nascondono, peraltro, le difficoltà nelle quali incorre anche la soluzione qui proposta. In primo luogo, si deve riconoscere che, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, l’art. 295 c.p.c. prevede la sospensione necessaria solamente in caso di pregiudizialità in senso tecnico e non anche in quello di pregiudizialità in senso meramente logico140. E tale constatazione, tra l’altro, pone il problema dell’individuazione di quale, tra le due cause, debba essere sospesa. In secondo luogo, la stessa Suprema Corte ripete ormai da anni: che, nel quadro della nuova disciplina di cui all’art. 42 c.p.c., come novellato dalla legge 26 novembre 1990, n. 353, non vi è più spazio per una discrezionale, e non sindacabile, facoltà di sospensione del processo, esercitabile dal giudice al di fuori dei casi tassativi di sospensione legale; che, dalla esclusione della configurabilità di una sospensione facoltativa ope iudicis del giudizio, deriva come corollario l’impugnabilità, ai sensi del citato art. 42, di ogni provvedimento di sospensione del processo, quale che ne sia la motivazione; e che il ricorso deve essere accolto ogniqualvolta non si sia in presenza di un caso di sospensione ex lege141.

natura fallimentare, vuoi che quest’ultima sia già pendente presso il giudice del fallimento, vuoi che insorga nell’ambito dello stesso processo di opposizione: Cass., 11 agosto 2000, n. 10692, in Giust. civ., 2001, I, 418.

140 Cass., 21 dicembre 2011, n. 27932; Cass., 25 maggio 2007, n. 12233; Cass., 16 marzo 2007, n. 6159 141 Tra le tante, v. Cass., 25 novembre 2010, n. 23906; Cass., 31 gennaio 2007, n.2089, in Dir. prat. soc., 2007, n. 19, 82;

Cass., sez. un., 1° ottobre 2003, n. 14670, in Foro it., 2004, I, 1474.

Page 46: riforma l.92/2012

Le considerazioni appena svolte, tuttavia, costituiscono un problema solamente rispetto all’ipotesi enunciata in precedenza per il caso in cui la causa di impugnazione del licenziamento e quella avente ad oggetto un diverso diritto in cui sia controversa l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato siano contemporaneamente pendenti in primo grado142. La seconda fase del giudizio di primo grado viene attivata a seguito di opposizione avverso l’ordinanza di accoglimento o di rigetto della domanda del lavoratore. L’impugnazione, dunque, ha le stesse caratteristiche dell’appello ordinario143. Non vi è ragione, e vi sono indicazioni letterali in senso contrario, per ritenere che il secondo grado sia aperto a nuove allegazioni in fatto, a richieste istruttorie e produzioni documentali, o sia sganciato dalla rigorosa dipendenza dalle iniziative di parte in punto di questioni da riesaminare. Vale la considerazione per cui laddove, come in questo caso, l’unica deroga ai principi del processo ordinario consista nella sostituzione del termine “reclamo” a quello di appello, è corretto mantenere la portata espansiva delle regole generali,attinenti al regime impugnatorio delle sentenze come tali144. Qualche battuta, come anticipato, sull’opportunità del richiamo al modello del procedimento di repressione della condotta antisindacale e dell’introduzione di una fase “urgente” necessaria. E’ un modello, quello dell’art. 28 St. lav., dove la duplicazione del momento iniziale dell’intervento del giudice, suddivisa in un primo grado sommario e in un’opposizione regolata dal rito del lavoro del codice processuale, si giustifica in controversie in cui l’obiettivo è un provvedimento volto all’ottenimento, all’impronta, di una misura inibitoria, più che non la ricerca del giudicato sulla fondatezza o meno della pretesa; mentre nelle controversie in tema di licenziamento l’esigenza di avere, col provvedimento definitivo, certezza degli effetti prodotti dal recesso, è diretta conseguenza della natura dichiarativa (o, se si preferisce, costitutiva145) della pronuncia finale e della non applicabilità, ad essa, degli artt. 282 e 431 c.p.c. Né, in assenza della fase “urgente”, le cadenze previste per la conclusione in primo grado del giudizio (ed arrivare così all’emanazione della condanna alla reintegra o al pagamento dell’indennità compensativa), regolate anch’esse nelle forme di un processo sommario, sarebbero state tali da penalizzare l’interesse del lavoratore ad ottenere quanto prima una misura che anticipasse i corollari condemnatori del provvedimento definitivo. L’introduzione della fase “urgente”, che pure non ha natura cautelare, voleva evitare il ricorso al rimedio ex art. 700 c.p.c., sul presupposto – peraltro non pacifico - che il provvedimento d’urgenza non sia ammissibile, per la sua residualità, con riferimento a tutti quei diritti in favore dei quali il legislatore abbia previsto procedimenti sommari anche non cautelari, che garantiscano rapidità, destinati a concludersi, quanto meno in una prima fase, con un provvedimento sommario esecutivo. Ciò, a patto che i tempi di definizione della fase urgente si rivelino davvero analoghi a quelli della tutela cautelare, riaprendosi altrimenti lo spazio per il ricorso alla misura provvisoria. Nella prima esperienza applicativa delle nuove norme si è visto invece che solo in pochissime sedi giudiziarie il ricorso al provvedimento d’urgenza è stato escluso già in linea teorica, a motivo della residualità della misura cautelare atipica: nella gran parte dei tribunali, il rimedio ex art. 700 c.p.c. è

142 Non sembra, invece, che vi siano ostacoli all’accettazione della soluzione indicata nel testo per l’ipotesi sub lettera

b), considerato che la giurisprudenza di legittimità afferma l’applicabilità dell’art. 337, secondo comma, c.p.c., pure nei casi in cui tra i due giudizi esista un nesso di pregiudizialità anche soltanto logico: Cass., 3 maggio 2007, n. 10185; Cass., sez. un., 26 luglio 2004, n.14060, in Riv. giur. lav., 2005, 740

143 Sulle caratteristiche del reclamo che venga utilizzato in luogo dell’appello, v. Cass., sez. I, 28 ottobre 2010, n. 22110, in Fall., 2011, 291 ss., nella quale la Corte ribadisce il pieno operare dell’effetto devolutivo a proposito del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento (art. 18 l. fall.). Per una rassegna di ipotesi in cui il legislatore ha tratteggiato il reclamo come vera e propria impugnazione (in materia di usi civici, di status di rifugiato e di domanda di legittimazione ex art. 288 cod. civ.), cfr. Cass., sez. I, 5 novembre 2010, n. 22546, ibid., 22 ss.

144 Sul punto v. le considerazioni conclusive di N. RASCIO, L’efficacia devolutiva del reclamo avverso la sentenza di fallimento: un risultato precluso dal sistema e dalla lettera della legge, in Fall., 2010, 585 ss., spec. 590-591.

145 Per le diverse ricostruzioni, v. gli autori citati in C. CONSOLO e D. RIZZARDO, Vere o presunte novità, cit., spec. 732.

Page 47: riforma l.92/2012

stato ritenuto in astratto ammissibile de iure, e si è guardato piuttosto, per valutarne la concedibilità in concreto, alla sussistenza o meno, nella specie, dell’esigenza cautelare fatta valere dal lavoratore146. Occorre chiedersi se sia possibile l’opposizione147 anche se l’ordinanza che chiude la prima fase sommaria abbia pronunciato l’inammissibilità del ricorso. La norma fa specifico riferimento alla sola ordinanza di accoglimento o di rigetto, ma è da ritenersi che la specificazione abbia voluto esplicitare la totalità del mezzo impugnatorio, e non escludere una pronuncia che, pur appartenendo al genus delle pronunce di rigetto, sottolinei la ragione dello stesso (inammissibilità), non legata alla valutazione del merito del diritto vantato148. L’opposizione deve essere proposta con ricorso avente i requisiti di cui all’art. 414 c.p.c., ma naturalmente dovrà parametrarsi al contenuto dell’ordinanza. Essa deve essere proposta dinanzi al Tribunale che ha emesso il provvedimento opposto, a pena di decadenza, entro 30 giorni dalla notificazione dello stesso, o dalla comunicazione se anteriore. Anche in tale fase è preclusa la proposizione di domande diverse da quelle di cui al comma 47 dello stesso articolo, salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi o siano svolte nei confronti di soggetti rispetto ai quali la causa è comune o dai quali si intende essere garantiti149. Naturalmente il ricorso può essere proposto, in caso di soccombenza, sia dal datore che dal lavoratore e non si può neppure escludere l’ipotesi che datore di lavoro o lavoratore possano proporre due distinte opposizioni, per le parti nelle quali sono risultati soccombenti nella fase sommaria. In questo caso, sembra logico ritenere che le due opposizioni debbano essere successivamente riunite.

146 Seguendo così la linea suggerita da F. P. LUISO, Il procedimento per l’impugnativa dei licenziamenti, cit., 55 ss.,

spec. 57 ss.; ID., La disciplina processuale speciale della legge n. 92 del 2012 nell’ambito del processo civile: cit., 2 ss.

147 Ancora poco numerose sono ad oggi le sentenze emesse a seguito di opposizione all'ordinanza che ha concluso la fase sommaria. Tra le questioni che meritano segnalazione vi è quella relativa alla possibilità di introdurre o meno nuove allegazioni a sostegno della illegittimità o nullità del licenziamento. La questione è stata affrontata nella sentenza della dr Porcelli Rg n.1182/2013 del 21.3.2013, che ha ritenuto la inammissibilità di allegazioni nuove non dedotte nella precedente fase. Il giudice ha sottolineato che se è vero che il ricorso ex art 1 c 47 deve essere formulato ai sensi dell'articolo 125 cpc, tale norma prescrive in ogni caso l'indicazione delle ragioni della domanda " e ciò significa individuare e circoscrivere petitum e causa petendi definendo così il thema decidendum. Deve pertanto ritenersi preclusa, nella fase di opposizione, l'introduzione di deduzioni in diritto non proposte in precedenza e che potrebbero integrare una vera e propria mutatio e non solo una emendatio libelli. Il giudice, richiamata la giurisprudenza della cassazione in materia di domande nuove, ha ritenuto che le nuove allegazioni avanzate in sede di opposizione dai ricorrenti integrassero vere e proprie modificazioni della domanda. Si precisa che nel ricorso introduttivo era stata eccepita la natura discriminatoria e ritorsi a dei licenziamenti, in via subordinata era stato chiesto l'annullamento per mancanza di giusta causa e o giustificato motivo, insussistenza dei fatti contestati o per punibilità di tali fatti con una sanzione conservativa. In sede di opposizione erano state invece introdotte nuove allegazioni con riferimento alla sproporzione dei licenziamenti, all'impossibilità di tenere in considerazione gli addebiti con i quali era intercorso un lasso di tempo tra contestazione e sanzione superiore a quello previsto al contratto collettivo, e la sussistenza di una pluralità di violazioni procedurali. Il giudice ha poi rilevato che la interpretazione seguita trovava conforto anche nella lettera dell'articolo uno comma 51 della legge Fornero, che disciplina l'opposizione contro l'ordinanza di accoglimento o di rigetto e ha rilevato quindi che non si tratta di un giudizio nuovo nel quale possono essere inserite domande o allegazioni che non siano state dedotte fin dall'inizio anche se in forma sommaria. In conclusione ha quindi ritenuto che l'ambito del giudizio di opposizione rimane vincolato al thema decidendum individuato per il giudizio sommario. Muove dallo stesso presupposto l'Ordin. Colosimo sul ricorso nullo RG457/13 del 28.2.13). Di diverso avviso è chi ritiene invece che la fase sommaria comporti semplicemente l'accertamento della verosimiglianza del fatto, e che quindi ritiene che nel giudizio di opposizione la soglia ultima per individuare la materia del contendere è quella definita dal deposito degli atti processuali nel giudizio di opposizione, mentre la fase precedente ha funzione solo anticipatoria di quest'ultima con un approfondimento però limitato alla cognizione sommaria superficiale sulla verosimiglianza del diritto.

148 Così espressamente M. LeoneA. Torrice,,cit. p. 210 149 La previsione può probabilmente riferirsi ad ipotesi nelle quali la domanda di ricostituzione del rapporto e/o quella

risarcitoria formulate dal lavoratore nei confronti del datore di lavoro nella prima fase sommaria, siano poi estese ai sensi dell’art. 2112 c.c. nei confronti del cessionario dell’azienda e sia quindi il datore di lavoro, che agisca in opposizione, a spiegare una domanda in garanzia.

Page 48: riforma l.92/2012

Il giudice fissa con decreto l’udienza di discussione non oltre i successivi sessanta giorni, assegnando all’opposto termine per costituirsi fino a dieci giorni prima dell’udienza. Sia il ricorso che il decreto devono essere notificati, anche a mezzo di posta elettronica certificata, dall’opponente all’opposto almeno trenta giorni prima della data fissata per la sua costituzione. Il comma 53 dispone poi che l’opposto deve costituirsi mediante deposito in cancelleria di memoria difensiva a norma e con le decadenze di cui all’articolo 416 c.p.c. Se l’opposto intende chiamare un terzo in causa deve, a pena di decadenza, farne dichiarazione nella memoria difensiva. Nel caso di chiamata in causa a norma degli articoli 102, comma 2, 106 e 107 c.p.c., il giudice fissa una nuova udienza entro i successivi sessanta giorni, e dispone che siano notificati al terzo, ad opera delle parti, il provvedimento nonché il ricorso introduttivo e l’atto di costituzione dell’opposto. Il terzo chiamato, per disposizione del comma 55,deve costituirsi non meno di dieci giorni prima dell’udienza fissata, depositando la propria memoria a norma del comma 53. Il comma 56 stabilisce che nel caso di domanda riconvenzionale, se la stessa non è fondata su fatti costitutivi identici a quelli posti a base della principale,il giudice ne dispone la separazione. In altri termini, qualora la riconvenzionale sia fondata su un rapporto giuridico diverso dal rapporto di lavoro dedotto in causa o su questioni di fatto che nulla hanno a che vedere con i fatti che hanno portato al licenziamento impugnato, il giudice deve, con ordinanza, disporre la separazione delle domande. Ipotesi di domanda riconvenzionale ammissibile appare, così, quella di risarcimento dei danni for-mulata dal datore dei lavoro nei confronti del dipendente, fondata sugli stessi fatti oggetto degli addebiti disciplinari sfociati nel licenziamento im pugnato secondo la nuova procedura (ad esempio, in caso di licenziamento disciplinare per violazioni dei doveri del lavoratore che abbia posto in essere un’attività concorrenziale, la connessa domanda riconvenzionale risarcitoria). Ci si è chiesti se, nel silenzio del legislatore, trovi applicazione la norma generale del processo del lavoro dettata dall’art. 418 c.p.c., implicante la fissazione di una nuova udienza in caso di ricon-venzionale. L’opinione che ritiene tale disciplina incompatibile con la finalità acceleratoria del rito specifico150,appare eccessiva, posto che l’opposizione è una fase in cui il ritmo processuale diviene meno intenso e considerate le esigenze di garanzia del contraddittorio sottese alle regole dell’art. 418 c.p.c.151. All’udienza il giudice, sentite le parti ed omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione ammissibili e rilevanti richiesti dalle parti, nonché disposti d’ufficio,ai sensi dall’articolo 421 c.p.c. La disposizione non è molto diversa da quella relativa alla fase urgente, con la differenza che mentre nella prima fase devono essere compiuti solo gli atti istruttori indispensabili, in sede di op-posizione devono essere compiuti gli atti istruttori ammissibili e rilevanti. Tale fase è però a cognizione piena e devono considerarsi quindi ammissibili tutti i mezzi di prova previsti dalla legge, ivi compresi la consulenza tecnica d’ufficio, la verificazione della scrittura privata ecc., non avendo altrimenti senso la previsione di un’opposizione ad una pronuncia,quella che conclude la fase urgente, che si fonda su un giudizio di mera verosimiglianza. Al termine di questa fase, il giudice emette sentenza di accoglimento o di rigetto della domanda, dando, ove opportuno, termine alle parti per il deposito di note difensive fino a dieci giorni prima dell’udienza di discussione. La sentenza, completa di motivazione, deve essere depositata in cancelleria entro dieci giorni dal l’udienza di discussione. È evidente la differenza con l’articolo 429 c.p.c, nel testo modificato dall’art. 53 del Dl 25 giugno 2008, conv. in legge n. 133/2008.

150 Toffoli,Le novità processuali. Un altro rito speciale?,2012, dattiloscritto richiamato da Curzio;v. nota successiva. 151 Così espressamente Curzio,op. cit., p. 13.

Page 49: riforma l.92/2012

Infatti l’art. 429 c.p.c. statuisce che il giudice pronuncia sentenza con cui definisce il giudizio dando lettura del dispositivo e delle esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. In caso di particolare complessità della controversia, il giudice fissa nel dispositivo un termine, non superiore a sessanta giorni, per il deposito della sentenza. Invece nel rito speciale di cui al comma 57 non è prevista né la lettura del dispositivo all’udienza né la motivazione contestuale. Anzi poiché la norma fa riferimento ad una sentenza completa di motivazione, sembra che potersi affermare che, alla discussione finale della causa, non debba seguire alcuna lettura del dispositivo o della motivazione contestuale ma che l’intera sentenza, completa di dispositivo e di motivazione, vada depositata in cancelleria entro dieci giorni successivi. Deve però ritenersi che sia comunque consentita sia la redazione contestuale del provvedimento al termine dell’udienza di discussione sia il deposito dell’intera sentenza in Cancelleria nei successivi dieci giorni. Quello che, invece, non sembra più ammissibile è la lettura separata del dispositivo al termine della discussione, con la conseguenza che non è più consentita l’esecuzione con la copia del dispositivo in pendenza del termine per il deposito della motivazione, di cui al comma 2 dell’art. 431 c.p.c. né l’appello con riserva dei motivi, di cui al comma 2 dell’art. 433 c.p.c.152. Una delle questioni più delicate di questa fase è certamente quella relativa alla possibilità di trattare il giudizio di opposizione da parte dallo stesso magistrato che, all’esito della fase sommaria, abbia emesso l’ordinanza di accoglimento o di rigetto. Come è noto, la Corte costituzionale con la sentenza n. 587/1999 affrontò analoga questione in tema di procedimento ex art. 28, St. lav e venne ad affermare che lo stesso giudice non poteva trattare un procedimento che atteneva al medesimo oggetto e alle stesse valutazioni decisorie sul merito dell’azione proposta nella prima fase, ancorché avanti allo stesso organo giudiziario. In quella decisione il giudice delle leggi aveva premesso che esigenza imprescindibile, rispetto ad ogni tipo di processo, è quella di evitare che lo stesso giudice, nel decidere, abbia a ripercorrere l’identico itinerario logico precedentemente seguito; sicché, condizione necessaria per dover ritene-re un’incompatibilità endoprocessuale è la preesistenza di valutazioni che cadano sulla stessa res iudicanda (cfr. sentenza n. 131/1996). Importante è la successiva puntualizzazione della Corte che ha escluso che l’espressione «magistrato in altro grado del processo» utilizzata dal codice di procedura nell’articolo 51, n. 4, c.p.c. fosse d’ostacolo all’applicazione della regola dell’alterità del giudice dell’impugnazione, dovendo la medesima essere interpretata alla luce dei principi che si ricavano dalla Costituzione relativi al giusto processo, come espressione necessaria del diritto ad una tutela giurisdizionale mediante azione (art. 24 della Costituzione) avanti ad un giudice con le garanzie proprie della giurisdizione, cioè con la connaturale imparzialità, senza la quale non avrebbe significato né la soggezione dei giudici solo alla legge (art. 101 della Costituzione), né la stessa autonomia ed indi-pendenza della magistratura (art. 104, comma 1 della Costituzione). In altri termini, l’espressione «altro grado» non può avere un ambito ristretto al solo diverso grado del processo, secondo l’ordine degli uffici giudiziari, come previsto dall’ordinamento giudiziario, ma deve ricomprendere con un’interpretazione conforme a Costituzione anche la fase che, in un processo civile, si succede con carattere di autonomia, avente contenuto impugnatorio, caratterizzata (per la peculiarità del giudizio di opposizione di cui si discute) da pronuncia che attiene al medesimo oggetto e alle stesse valutazioni decisorie sul merito dell’azione proposta nella prima fase, ancorché avanti allo stesso organo giudiziario. Infine, neppure l’organizzazione interna degli uffici giudiziari potrebbe essere idonea a precludere la prospettata interpretazione dell’art. 51, n. 4,c.p.c., perché, secondo il giudice delle leggi una determinazione organizzatoria amministrativa, non può derogare a principi contenuti nelle norme processuali e costituzionali, dovendo il giudice disapplicarla in quanto priva di forza di legge se in 152 Così Tribunale di Firenze,verbale riunione citato.

Page 50: riforma l.92/2012

contrasto con detti principi. Ciò posto, occorre verificare se le argomentazioni sviluppate dalla Corte costituzionale in relazione al procedimento per la repressione della condotta antisindacale possano essere applicate anche alla fattispecie in esame. Effettivamente il rito specifico in tema di licenziamenti presenta, proprio in uno dei suoi aspetti essenziali e, cioè, nella struttura bifasica attribuita al primo grado del giudizio, delle indubbie analo-gie con il procedimento ex art. 28 della legge n.300/1970 e ciò potrebbe far propendere per l’in-compatibilità del giudice. In senso contrario potrebbe però osservarsi che l’opposizione in questione non costituisce revisio prioris instantiae nel senso ritenuto dalla giurisprudenza costituzionale per estendere il divieto ex art. 51, n. 4, c.p.c. al giudice che abbia conosciuto di altra fase del processo, stante l’assenza nella fase urgente di preclusioni, l’istruttoria e la possibilità che con la fase di opposizione vengano introdotte domande nuove (ad esempio: riconvenzionali, chiamate in garanzia) che coinvolgono parti che non hanno partecipato alla fase sommaria153 . L’assegnazione allo stesso giudice in astratto garantisce maggiormente anche l’esigenza di celerità del procedimento (si evita la dispersione dei saperi che come evidenziato dalla giurisprudenza costi-tuzionale154 allunga i tempi processuali), ma è evidente che allora bisogna ribadire la netta differen-za anche concettuale tra la fase urgente, caratterizzata da una mera valutazione di verosimiglianza della fondatezza della pretesa fatta valere, dalla fase di opposizione che rappresenta il vero e proprio giudizio. Nei primi mesi di applicazione del nuovo rito i Tribunali stanno procedendo in ordine sparso,con Tribunali che ritengono possibile assegnare allo stesso giudice le due fasi del primo grado,chi ha optato per l’incompatibilità ed altri che sembrano lasciare l’assegnazione al sistema automatico senza prevedere espresse incompatibilità155. Laddove si è poi optato per la scelta dello stesso giudice, si sono anche respinte istanze di ricusa-zione del magistrato che si era già pronunciato nella fase urgente, evidenziando come la seconda fase non rivesta carattere impugnatorio rispetto alla prima, ha oggetto più ampio (possono essere proposte domande nuove anche in via riconvenzionale) e non vi sia identità soggettiva (nella fase di opposizione è consentita la chiamata in causa di soggetti rispetto ai quali la causa è comune o dai quali si intenda essere garantiti)156. L’articolo 1, comma 58, legge n. 92/2012 statuisce che contro la sentenza che decide sul ricorso è ammesso il reclamo alla Corte di appello. Il reclamo si propone con ricorso da depositare, a pena di decadenza, entro trenta giorni dalla comunicazione, o dalla notificazione se anteriore. Appare già una peculiarità, ossia la circostanza che il legislatore preveda il reclamo, istituto tipico dei procedimenti cautelari, per il giudizio dinanzi alla Corte di appello. Non sembra però che dalla terminologia usata possa ricavarsi qualcosa in tema di inquadramento dell’istituto, nel senso che il procedimento di primo grado debba comunque ritenersi un procedimento sommario, ma non cautelare. In ogni caso poiché la finalità del reclamo sembra essere quella di sollecitare una nuova decisione sulla materia del contendere già discussa in primo grado, appare preferibile ritenere che, per le parti non espressamente disciplinate dalla legge, debba farsi riferimento alla regolamentazione generale e speciale prevista per l’appello. Ipotesi questa che trova anche un fondamento testuale, qualora si riconosca un’analogia sostanziale tra questo procedimento e quello sommario di cognizione, nel quale il già citato art. 702quater c.p.c. prevede in modo specifico come mezzo di impugnazione l’appello. Tra l’altro, la disciplina generale dell’appello è l’unica che, 153 In questo senso un provvedimento del presidente sez. lavoro, Tribunale Palermo, est. Ardito, rinvenibile in

www.sentenzelavoro.net che ha rigettato istanza di sostituzione del giudice. 154 Corte cost. n. 326/1997. 155 Vedi nel dettaglio Liti sui licenziamenti, sul doppio giudice si scatena il fai da te, il Sole 24 Ore, p. 9, rassegna

stampa Csm del 19.11.2012 156 V. Trib. Bologna, est. De Meo, 27 novembre 2012 che ha rigettato istanza di ricusazione avverso il giudice che aveva

pronunciato ordinanza nella fase urgente.

Page 51: riforma l.92/2012

presentandosi effettivamente completa ed organica, contiene tutti i riferimenti normativi necessari per regolamentare il giudizio di secondo grado (ad esempio le impugnazioni incidentali, la modalità di deduzione secondo motivi specifici, la rinuncia alle eccezioni e alle domande non riproposte e quant’altro). Come previsto in via generale, le parti non possono indicare nuovi mezzi di prova o documenti,salvo che il collegio, anche d’ufficio, li ritenga indispensabili ai fini della decisione ovvero la parte dimostri di non aver potuto proporli in primo grado per causa ad essa non imputabile. Si è affermato che a tali procedimenti non sarebbe applicabile l’art. 436bis,legge n. 134/2012, che estende al processo del lavoro in appello il filtro costituito dalla possibilità di dichiarare inammissibile con ordinanza l’impugnazione «quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta» disciplinato dagli artt. 348bis e ter c.p.c. in quanto il nuovo procedimento è connotato da celerità di trattazione e da peculiarità istruttorie e decisorie rispetto all’ordinario processo del lavoro, ed altresì per l’analogia che si riscontra con l’esplicita esclusione per le ordinanze emesse in sede di giudizio sommario di cognizione157. In senso contrario si potrebbe anche sostenere che nessuna norma prevede espressamente l’esclusione del filtro di cui all’art. 436-bis c.p.c. e che comunque il procedimento delineato dalla legge n. 92/2012 presenta notevoli differenze rispetto al processo sommario di cognizione158. La Corte d’appello fissa con decreto l’udienza di discussione nei successivi sessanta giorni e si applica no i termini previsti dai commi 51, 52 e 53 del medesimo art. 1, legge n. 92 per la costituzione del convenuto, per la notifica del reclamo e del decreto di fissazione dell’udienza e per la memoria difensiva del convenuto, con la conseguenza che il ricorrente deve costituirsi almeno 10 giorni prima dell’udienza e notificare, anche a mezzo Pec, il ricorso unitamente al decreto di fissazione dell’udienza almeno 30 giorni prima della predetta udienza. L’articolo 1, comma 60, prevede che alla prima udienza la Corte può sospendere l’efficacia della sentenza reclamata se ricorrono gravi motivi. La ricorrenza di gravi motivi sembra essere ancorata ad una valutazione preliminare sulla fondatezza dell’impugnazione159 e balza subito agli occhi la differenza con l’art. 431 c.p.c., comma 3,che stabilisce come l’esecuzione della sentenza di primo grado possa essere sospesa in grado d’appello solo quando ricorre il requisito del «gravissimo danno», che si verifica allorché, prescindendo dall’apparente fondatezza delle ragioni di merito dedotte con l’impugnazione, l’esecuzione della sentenza è idonea a cagionare un danno di gravità tale che non può essere altrimenti evitato se non con la sospensione del titolo esecutivo impugnato. In materia di licenziamento quindi il regime dell’esecutività delle sentenza viene parificato a quello dell’art. 431, comma 5, c.p.c. che prevede la sospensione della sentenza a favore del datore al ricorrere di gravi motivi, locuzione sicuramente meno pregnante di quel gravissimo danno di cui all’art. 431, comma 3, c.p.c. per la sentenza a favore del lavoratore, ma anche dei gravi e fondati motivi di cui agli artt. 282 e 283 c.p.c. Anche in appello, la Corte, sentite le parti,ogni formalità non essenziale al contraddittorio,procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione ammessi e provvede con sentenza all’accoglimento o al rigetto del reclamo, dando, ove opportuno, termine alle parti per il deposito di note difensive fino a dieci giorni prima dell’ udienza di discussione. Non sembra possibile la delega, da parte del presidente del Collegio, per l’assunzione degli eventuali mezzi di prova ammessi ad uno dei componenti del Collegio stesso, non essendo stata riprodotta la disposizione contenuta nell’ultima parte del già citato articolo 702 quater c.p.c. La sentenza, completa di motivazione, deve essere depositata in cancelleria entro dieci giorni dall’ udienza di discussione (come nel primo grado,non è prevista l’emissione di un dispositivo di sentenza). Il comma 61, dell’art. 1, legge n. 92, stabilisce che in mancanza di comunicazione o notificazione della sentenza si applica l’articolo 327 c.p.c., per cui il reclamo non potrà proporsi dopo decorsi sei

157 M. Leone A. Torrice,cit., p. 212 158 Vedi nel senso dell’ammissibilità del filtro in appello G. Girolami, relazione al corso Csm 5958 Questioni

controverse in tema di processo e diritto del lavoro, Roma, 1012 dicembre 2012. 159 Così Benassi,op. Cit.

Page 52: riforma l.92/2012

mesi dalla pubblicazione della sentenza, salvo che la parte contumace dimostri di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione di essa, e per nullità della notificazione degli atti di cui all’art. 292. L’articolo 1, comma 62, statuisce Il ricorso per cassazione contro la sentenza deve essere proposto, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dalla comunicazione della stessa, o dalla notificazione, se anteriore. La sospensione dell’efficacia della sentenza deve essere chiesta alla Corte di appello. Ai sensi del comma 63 la Corte fissa l’udienza di discussione non oltre sei mesi dalla proposizione del ricorso. Il comma 64 dispone infine che, in mancanza di comunicazione o notificazione della sentenza della Corte di appello che decide l’accoglimento o il rigetto del reclamo, si applica l’articolo 327 c.p.c., per cui non potrà proporsi ricorso in cassazione decorsi sei mesi dalla pubblicazione della sentenza, salvo che la parte contumace non provi di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione di essa