Riflessioni sull’autonomia normativa degli enti locali

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LE REGIONI / a. XXXVI, n. 1, febbraio 2008 Riflessioni sull’autonomia normativa degli enti locali di FRANCESCO MERLONI Sommario: 1. Premessa. Alla ricerca del fondamento dell’autonomia normativa locale. - 2. Le precondizioni dell’autonomia locale. - 3. Livelli e contenuti dell’autonomia nor- mativa. 3.1. Autonomia normativa e organizzazione. 3.2. Autonomia normativa e diritti. - 4. Quale protezione dell’autonomia normativa locale? 1. Premessa. Alla ricerca del fondamento dell’autonomia normativa locale Il tema dell’autonomia normativa locale è oggetto di un filone già molto ricco di studi e di monografie 1 che trae spunto dalle nuove norme costituzionali sulla competenza normativa, legislativa e regola- mentare delle Regioni, ma soprattutto dall’esplicito riconoscimento, con l’art. 117, comma 6, Cost., di un potere regolamentare degli enti locali, per la «disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite». La posizione comune alla quasi totalità di questi scritti è che il nuovo riconoscimento costituisca un deciso avanzamento nella dire- zione dell’autonomia normativa locale come nuovo valore costituzio- nale, da tutelare sia in sede di interpretazione delle nuove disposi- 1 Nella produzione recente si possono qui indicare alcune monografie dedicate al tema: A. PIRAINO (a cura di), La funzione normativa di Comuni, Province e Città nel nuovo sistema costituzionale, Palermo 2002; L. PISCITELLI, La potestà normativa dell’ente locale, Genova 2003; M. DI FOLCO, La garanzia costituzionale del potere normativo locale, Padova 2007; A. POGGI, La potestà regolamentare tra Stato e Re- gioni ed altri enti territoriali, in F. PIZZETTI, A. POGGI (a cura di), Il sistema «in- stabile» delle autonomie locali, Torino 2007; A. DE CHIARA, La funzione normativa della Regione e degli enti locali, in G. CLEMENTE DI S. LUCA (a cura di), Comuni e funzione amministrativa, Torino 2007.

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LE REGIONI / a. XXXVI, n. 1, febbraio 2008

Riflessioni sull’autonomia normativa degli enti locali

di FRANCESCO MERLONI

Sommario: 1. Premessa. Alla ricerca del fondamento dell’autonomia normativa locale. - 2. Le precondizioni dell’autonomia locale. - 3. Livelli e contenuti dell’autonomia nor-mativa. 3.1. Autonomia normativa e organizzazione. 3.2. Autonomia normativa e diritti. - 4. Quale protezione dell’autonomia normativa locale?

1. Premessa. Alla ricerca del fondamento dell’autonomia normativa locale

Il tema dell’autonomia normativa locale è oggetto di un filone già molto ricco di studi e di monografie1 che trae spunto dalle nuove norme costituzionali sulla competenza normativa, legislativa e regola-mentare delle Regioni, ma soprattutto dall’esplicito riconoscimento, con l’art. 117, comma 6, Cost., di un potere regolamentare degli enti locali, per la «disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite».

La posizione comune alla quasi totalità di questi scritti è che il nuovo riconoscimento costituisca un deciso avanzamento nella dire-zione dell’autonomia normativa locale come nuovo valore costituzio-nale, da tutelare sia in sede di interpretazione delle nuove disposi-

1 Nella produzione recente si possono qui indicare alcune monografie dedicate al tema: A. PIRAINO (a cura di), La funzione normativa di Comuni, Province e Città nel nuovo sistema costituzionale, Palermo 2002; L. PISCITELLI, La potestà normativa dell’ente locale, Genova 2003; M. DI FOLCO, La garanzia costituzionale del potere normativo locale, Padova 2007; A. POGGI, La potestà regolamentare tra Stato e Re-gioni ed altri enti territoriali, in F. PIZZETTI, A. POGGI (a cura di), Il sistema «in-stabile» delle autonomie locali, Torino 2007; A. DE CHIARA, La funzione normativa della Regione e degli enti locali, in G. CLEMENTE DI S. LUCA (a cura di), Comuni e funzione amministrativa, Torino 2007.

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zioni del Titolo V, sia ipotizzando nuove e più significative forme di protezione giuridica degli enti locali, a tutela della loro competenza.

Sotto il primo profilo abbondano interpretazioni sui rapporti che si sarebbero stabiliti tra le fonti, con particolarissima attenzione al profilo della eventuale configurazione di una «riserva» di regola-mento locale, che escluderebbe l’intervento della legge, sia essa sta-tale e regionale. Ma non meno raffinate sono le ricostruzioni intorno alla configurabilità di norme di livello superiore (legislative e regola-mentari) di tipo «cedevole», destinate a essere sostituite dall’adozione di norme regolamentari locali.

Sotto il secondo profilo vengono evocati gli strumenti che pos-sano condurre a una effettiva protezione degli enti locali e della loro autonomia normativa di fronte all’evidente tendenza del legislatore e regolamentatore nazionale (in minor misura quello regionale, la cui produzione legislativa è in sensibile diminuzione negli ultimi anni) a occupare ogni spazio di normazione, con discipline spesso di estremo dettaglio. Strumenti che vanno dalla partecipazione ai procedimenti di formazione degli atti normativi (le Conferenze a livello nazionale e regionale, i Consigli delle autonomie locali presso le Regioni), fino alla possibilità di difesa giurisdizionale (davanti al giudice, ordinario o amministrativo, o davanti, con accesso diretto, alla Corte costituzio-nale2, possibilità di ricorsi statali contro leggi regionali e contro leggi statali invasive della competenza regolamentare degli enti locali). Dal-l’attivazione di forme di lettura preventiva in sede regionale della le-gislazione in itinere per valutarne la compatibilità con la Costituzione e lo Statuto, all’attribuzione al giudice del potere di disapplicare leggi che siano lesive dell’autonomia normativa regionale e locale.

Di fronte al proliferare di questi studi devo confessare una certa insoddisfazione, che non nasce, evidentemente, dal rifiuto del valore costituzionale del riconoscimento dell’autonomia normativa di Re-gioni ed enti locali, dal momento che ritengo, come vedremo meglio tra poco, che l’autonomia normativa costituisca un elemento impre-scindibile di una vera posizione di autonomia. Nasce piuttosto dal carattere astratto della discussione, che sembra prescindere dal fatto innegabile dello scarsissimo uso che gli enti locali fanno di questa

2 Va ricordato che l’Italia, pur avendo sottoscritto e ratificato da tempo la Carta europea dell’autonomia locale, convenzione internazionale promossa dal Consiglio d’Europa, non si è ancora adeguata al principio del suo art. 11: «Gli enti locali de-vono disporre di un diritto di ricorso giurisdizionale al fine di assicurare il libero esercizio delle loro competenze e il rispetto dei principi di autonomia che sono con-sacrati nella Costituzione o nella legislazione interna».

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autonomia, a dimostrare l’assenza di una spinta effettiva verso quella differenziazione delle regole che è alla base del riconoscimento di au-tonomia normativa.

Naturalmente non può ignorarsi il lato positivo della posizione che ho richiamato: la forte protezione dell’autonomia normativa, una volta realizzata, (con gli strumenti prima accennati, o con altri) è condizione per un suo successivo e più ampio esercizio. Un potere garantito, si dice, potrà essere più adeguatamente dispiegato dall’au-tonoma iniziativa degli enti locali.

Eppure l’insoddisfazione resta e spinge a porsi qualche interroga-tivo più di fondo intorno a due questioni.

Primo. Lo scarso uso del potere di autonomia normativa (non solo a livello locale, come si è detto, ma anche regionale) non di-pende dal fatto che non si sono realizzate le condizioni di base del-l’autonomia locale tout court? Che non ha senso rivendicare l’auto-nomia normativa se poi l’ente locale non dispone di significative funzioni in titolarità, ovvero non dispone per il loro esercizio delle corrispondenti risorse (organizzative e finanziarie)?

Secondo. Non nasconde questo scarso uso una sfiducia più diffusa nei confronti di una potenziale eccessiva differenziazione delle regole a livello locale, in presenza, semmai, di spinte verso la nuova unifor-mazione delle regole (non solo a livello nazionale, ma sicuramente a livello comunitario, se non internazionale o globale)? Non nasconde l’idea che i diritti di uguaglianza sono meglio tutelati da discipline uniformi e che l’autonomia normativa può pregiudicarne la cura?

In definitiva si tratta di interrogarsi sui contenuti e sulle finalità che si connettono al riconoscimento costituzionale dell’autonomia normativa degli enti territoriali.

A questo scopo, nei limiti di un intervento volutamente schema-tico, si possono affrontare tre ordini di problematiche: a) la valuta-zione delle condizioni di contesto o precondizioni, senza le quali non è possibile neppure parlare di autonomia normativa; b) la possibile gradazione del riconoscimento dell’autonomia normativa, in rapporto ai suoi contenuti; c) la predisposizione degli strumenti di protezione giuridica dell’autonomia normativa, sempre in rapporto ai suoi con-tenuti

2. Le precondizioni dell’autonomia locale

Senza il verificarsi di alcune precondizioni minime non siamo in presenza di una effettiva autonomia, ma di un mero decentramento

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di funzioni, che si ha in tutti i casi in cui le funzioni sono attribuite a soggetti cui non è riconosciuto il potere di darsi ordinamenti auto-nomi o che sono sottoposti a forti poteri di indirizzo e di condizio-namento nello svolgimento delle attività di esercizio delle funzioni.

La prima di queste precondizioni è l’attribuzione, con legge sta-tale o regionale, di funzioni in titolarità, secondo il principio di sus-sidiarietà dell’art. 118 Cost. Non avendo spazio adeguato per moti-varla adeguatamente, ripeto qui la mia interpretazione del secondo comma dell’art. 118: gli enti territoriali, a ciascun livello, sono titolari di funzioni proprie, che corrispondono alle funzioni da essi libera-mente assunte (nel rispetto delle funzioni svolte dagli altri livelli) e di funzioni attribuite (cioè conferite in titolarità, a differenza di quelle conferite a mero titolo di esercizio, cioè delegate) dalla legge (statale e regionale).

La precondizione ancora non realizzata è che si faccia l’opera di redistribuzione delle funzioni attribuite: in sede di individuazione delle funzioni fondamentali degli enti locali (quelle che devono essere garantite come soglia minima a ciascun livello di governo, per tutto il territorio nazionale), e poi in sede di legislazione di settore (statale e regionale), legislazione che ha il potere di attribuire (o, se si vuole, mantenere) funzioni amministrative anche a livello statale (per le ma-terie statali) e regionale (per le materie statali e regionali).

Perché dico che la condizione non si è realizzata? Perché gli enti locali continuano a svolgere solo le funzioni «storiche», cioè quelle loro attribuite dalla legislazione statale e regionale che fin qui si è stratificata, senza che vi sia stata alcuna revisione organica, necessaria non per astratto spirito di geometria, ma perché l’opera di redistri-buzione non può che farsi nel rispetto dei nuovi principi del Titolo V: sussidiarietà, copertura finanziaria integrale, autonomia normativa. L’attribuzione consapevole di una funzione ai Comuni significa oggi che l’ordinamento riconosce a questi il potere non solo di svolgere la funzione, ma di determinarne le condizioni di esercizio (con il po-tere di stabilire le priorità, di finanziare le attività, di disciplinarne il modo potenzialmente differenziato l’organizzazione e lo svolgi-mento).

Le conseguenze che l’ordinamento ormai connette all’attribuzione delle funzioni in titolarità sono da considerarsi un elemento non se-condario in sede di decisione se attribuire o meno una data funzione. L’attribuzione di funzione condiziona l’autonomia locale, ma anche il grado di autonomia normativa riconosciuto per le funzioni attribuite condiziona l’opera di redistribuzione delle funzioni.

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A oggi prevalgono, non funzioni organiche, ma spezzoni di com-petenza, frutto del depositarsi non coordinato della legislazione.

Senza questa revisione, che non può che realizzarsi a partire da un’idea di fondo sul ruolo spettante a ciascun livello di governo, an-che l’opera di autoattribuzione di funzioni (proprie) appare incerta.

La seconda condizione di autonomia è l’autogoverno, cioè il po-tere delle comunità locali di scegliere gli organi di governo degli enti locali che rappresentano e curano i loro interessi generali. Su que-sto non è qui il caso di soffermarsi, poiché le condizioni formali sembrano esistere pienamente, dal momento che l’ordinamento non riconosce a nessuna autorità superiore (statale o regionale) alcun potere di limitazione dei diritti elettorali e di partecipazione demo-cratica. Residuando in capo ad esse solo poteri di tipo eccezionale e straordinario: il potere di scioglimento dei consigli (per impossibilità di funzionamento o per infiltrazione della criminalità organizzata)3, il potere di sostituzione di cui all’art. 120 Cost. (di competenza chia-ramente statale in base al tenore letterale della disposizione costi-tuzionale, ma ormai pacificamente riconosciuto in capo anche alle Regioni, sulla base dell’interpretazione costante della Corte costitu-zionale)4 in caso di inerzia, i (crescenti nell’utilizzo) poteri di emer-genza5. Se dal piano formale si passa a quello sostanziale, il discorso può cambiare: non solo perché i ricordati poteri straordinari sono utilizzati con inquietante frequenza, ma perché sempre più spesso si rafforza la sensazione che all’esercizio formale dell’autogoverno cor-rispondano gravi elementi di condizionamento esterno delle scelte lo-cali, con fenomeni di delegittimazione del sistema democratico locale e di spostamento in altre sedi (superiori livelli di governo, istituzioni rappresentative di interessi particolari o di gruppo) dei poteri di de-cisione effettiva.

La terza precondizione riguarda l’effettivo potere decisionale ri-conosciuto agli enti locali in rapporto alle funzioni da loro svolte in titolarità (attribuite e proprie), che è potere di determinare autono-mamente le risorse necessarie, in termini di autonomia politico-am-

3 Il secondo dei fenomeni segnalati, lo scioglimento per infiltrazione mafiosa è, secondo le statistiche del Ministero dell’Interno, in preoccupante aumento,

4 Vedi la sent. n. 43 del 2004 della Corte costituzionale, ampiamente commen-tata in questa rivista.

5 Vedi il ricorso sempre più frequente ai poteri di nomina di commissari straor-dinari.

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ministrativa6 (allocazione delle risorse tra le diverse funzioni e defini-zione di un quadro autonomo di priorità per l’azione amministrativa dell’ente locale) e in termini di autonomia finanziaria, in attuazione del principio di integrale copertura (o di autosufficienza finanziaria) delle funzioni in titolarità7.

Condizione, questa, ben lungi dall’essere realizzata, con un si-stema che non trova un punto da cui partire per il riassetto e conti-nua a reggersi sul criterio della spesa storica.

La finanza locale non è ancora costruita in rapporto alle funzioni da svolgere (che non sono state redistribuite secondo il principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione), né in rapporto al prin-cipale potere uniformante rimasto allo Stato, quello di determinare i livelli essenziali delle prestazioni.

In definitiva non è dato riscontrare alcuna opera di redistribu-zione delle risorse in rapporto alle funzioni attribuite, alle loro ca-ratteristiche, alla situazione economica degli enti locali (il problema della perequazione), alle condizioni minime (livelli essenziali) alle quali l’ordinamento, quando attribuisce in titolarità, pretende che le funzioni siano svolte.

I principi costituzionali in materia di autonomia finanziaria ci aiutano anche ad affrontare più coerentemente il tema della coper-tura finanziaria nei diversi casi delle funzioni attribuite, proprie e de-legate.

Per le prime la legge (statale e regionale, o meglio regionale nel rispetto dei principi statali sul coordinamento della finanza pubblica) deve costruire un sistema finanziario, prevalentemente fondato su en-trate autonome, che assicuri l’integrale copertura dell’esercizio delle

6 Si veda in proposito la ricostruzione di M.S. GIANNINI nella notissima voce dell’Enciclopedia del Diritto, Autonomia pubblica. In essa, in una visione fortemente statalistica, oggi sicuramente superata dal nuovo testo costituzionale, si stabiliscono interessanti rapporti tra autonomia in generale e autonomia politico-amministrativa. Secondo Giannini solo questa seconda è l’unica possibile autonomia, mentre le altre posizioni di autonomia non avrebbero altro significato che di autonomie puramente organizzatorie (con l’autonomia normativa ridotta a mero strumento di disciplina della potestà organizzativa locale).

7 Va sottolineato che la Costituzione stabilisce ora un nuovo forte parallelismo tra autonomia regolamentare (ex art. 117, comma 6) e autonomia finanziaria (ex art. 119, comma 4), non a caso entrambe riferite alle funzioni «attribuite» dalla legge. Per le funzioni in titolarità Regioni ed enti locali devono disporre tanto delle risorse necessarie a compiere scelte autonome di indirizzo politico-amministrativo, quanto del potere di disciplina differenziata dell’organizzazione delle funzioni.

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funzioni e comprenda la garanzia dei livelli essenziali delle presta-zioni.

Per le seconde il sistema deve consentire agli enti locali di auto-attribuirsi funzioni utilizzando apposite risorse finanziarie, da chie-dere ai propri cittadini in aggiunta al carico fiscale necessario per lo svolgimento delle funzioni attribuite.

Per le terze (le funzioni delegate) il finanziamento non può che essere interamente a carico del livello di governo che delega ad un altro l’esercizio delle funzioni (mantenendone la titolarità e con essa poteri di indirizzo e di disciplina, anche di dettaglio, delle attività di svolgimento della funzione).

Quarta precondizione: i rapporti intergovernativi, controlli e stru-menti di partecipazione.

Il sistema dei controlli può essere assunto come strumento di mi-surazione del grado di autonomia riconosciuto agli enti territoriali.

L’attuale completa soppressione di ogni forma di controllo esterno in favore di soli controlli interni, se appare coerente con la necessaria eliminazione di strumenti di verifica dell’azione locale fin qui costruiti con la finalità di ricondurla agli indirizzi politico-ammi-nistrativi (spesso anche in forma di vincoli legislativi) di autorità di livello superiore, suscita crescenti perplessità, soprattutto in conside-razione della mancata attivazione di adeguati controlli interni.

Non è questa la sede per interrogarci sul sistema dei controlli quanto alla tenuta complessiva della legalità nel nostro sistema am-ministrativo locale8. Ciò che interessa è valutare le ricadute di un insufficiente sistema di controlli sull’autonomia locale, in particolare normativa.

Se l’assenza di controlli esterni appare come un ampliamento della posizione di autonomia, spesso si trascura di considerare gli effetti negativi che essa può costituire: di fronte a un sistema che appare non in grado di garantire adeguatamente né la legalità, né l’imparzialità e il buon andamento dell’amministrazione locale, la rea-zione del decisore, in particolare del legislatore (statale e regionale) titolare del potere di attribuire funzioni (con le connesse risorse e con la connessa autonomia normativa) sarà tendenzialmente restrit-tiva. Se attribuire agli enti locali funzioni significa «condannarle» a

8 La Rivista si è già occupata ampiamente del tema, ad esempio, nel n. 1/2 del 2005 e prevedibilmente se ne occuperà nel futuro.

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un esercizio illegale o comunque non conforme agli interessi generali (si pensi agli obiettivi di contenimento della spesa pubblica) il legisla-tore, con il conforto dell’opinione pubblica, si asterrà dall’attribuire funzioni e risorse ovvero lo farà mantenendo compiti di sostanziale controllo, ovvero limiterà il riconoscimento di una finanza autonoma, ovvero, infine, cercherà di porre limiti all’autonomia normativa lo-cale.

Se si vuole salvaguardare l’autonomia locale (e il connesso potere normativo) l’ordinamento deve dare adeguate garanzie sul corretto esercizio delle funzioni attribuite.

Lo stesso ragionamento può essere esteso alle forme di leale col-laborazione: se queste producono risultati utili (alla tutela della posi-zione degli enti autonomi, ma anche alla cura di interessi superiori) bene, altrimenti ci si rifugia nello spezzettamento di competenze al-l’interno delle funzioni, in una finanza locale meno autonoma, in una riduzione dell’autonomia normativa.

Per concludere su questo punto: in assenza di quelle che abbiamo definito come precondizioni essenziali, la stessa autonomia normativa perde di senso: o non viene esercitata (alla disciplina dell’esercizio di funzioni attribuite senza autonomia provvede direttamente la legge, statale e regionale), ovvero decade a disciplina meramente integra-tiva-attuativa di regole largamente fissate dalla legge.

La spinta all’autonomia normativa deriva solo dall’attribuzione certa di funzioni, dal riconoscimento di una effettiva autonomia po-litico-amministrativa e finanziaria, da un coerente sistema di controlli e di leale collaborazione.

3. Livelli e contenuti dell’autonomia normativa

Solo se le precondizioni dell’autonomia si realizzano si può aprire la riflessione sugli effettivi contenuti dell’autonomia normativa, cioè sul modello di autonomia normativa configurato dalle previsioni del nuovo Titolo V.

Per semplificare il discorso proviamo a delineare due possibili oggetti dell’autonomia normativa, leggendo il nuovo testo costituzio-nale al fine di individuare fino a qual punto esso ha inteso spingere questa autonomia.

La grande distinzione oggettuale non può che riguardare da un lato l’organizzazione (nel suo significato più ampio) e dall’altro il

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riconoscimento di diritti, individuali collettivi, dei cittadini nei con-fronti degli enti territoriali.

3.1. Autonomia normativa e organizzazione

Quanto all’organizzazione, la stessa articolazione del nuovo Titolo V ci induce a distinguere almeno quattro diversi oggetti:

a) la forma di governo, che comprende la determinazione degli organi di governo, le forme della loro investitura (regole elettorali), le loro competenze, nei rapporti tra organi politici e tra questi e gli organi amministrativi;

b) l’organizzazione amministrativa in generale (o di base)9, che comprende l’articolazione generale degli uffici, gli uffici di diretta collaborazione, i principi sulla dirigenza professionale, i principi sui controlli interni e così via;

c) l’organizzazione amministrativa delle funzioni (articolazione de-gli uffici a rilevanza esterna, assunzione e gestione dei servizi pub-blici);

d) lo svolgimento delle attività di esercizio delle funzioni (disci-plina di dettaglio dei procedimenti amministrativi).

Per la forma di governo il nuovo testo costituzionale tratta in modo differenziato Regioni ed enti locali.

Per le Regioni la Costituzione (art. 123) rinvia la relativa disci-plina allo Statuto e alla legge regionale (quanto al sistema della ele-zione e ai casi di ineleggibilità e incompatibilità art. 122), anche se pone essa stessa dei limiti in funzione di uniformità del modello. Sono predeterminati: gli organi di governo (art. 121), «i principi fon-damentali stabiliti con legge della Repubblica, che stabilisce anche la durata degli organi elettivi», i rapporti tra Presidente della Regione e Consiglio regionale (art. 126, commi 2 e 3).

Per gli enti locali, invece, la predeterminazione nazionale di un modello uniforme è molto più ampia, stante la riserva alla legisla-zione statale esclusiva (art. 117, comma 2, lett. p)) della «legislazione elettorale» e degli «organi di governo».

9 La distinzione tra l’organizzazione generale e quella relativa alle funzioni è chiaramente delineata in A. PIOGGIA, I principi come limite dell’organizzazione degli enti locali, in F. ASTONE, M. CALDARERA, F. MANGANARO, A. ROMANO TASSONE, F. SAITTA (a cura di), Principi generali del diritto amministrativo e autonomie territoriali, Torino 2007, 83 ss.

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Per l’organizzazione amministrativa in generale o di base le novità sono più rilevanti. In via generale viene riservata allo Stato (art. 117, comma 2, lett. g)) la competenza legislativa solo per l’«ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazio-nali», il che ha portato l’interpretazione unanime dei commentatori nel senso di una avvenuta rottura del modello dell’uniformità orga-nizzativa che era alla base del sistema amministrativo precedente, la-sciando a Regioni ed enti locali la possibilità di adottare modelli dif-ferenziati di organizzazione amministrativa.

Ciò è affermato in modo esplicito per le Regioni, cui è riservato un potere statutario per la disciplina dei «principi fondamentali di organizzazione e funzionamento» (art. 123), potere statutario che apre la strada anche all’intervento di fonti legislative e regolamentari per la disciplina più puntuale dell’organizzazione.

Per gli enti locali vi è un esplicito richiamo al potere statutario (art. 114, comma 2) e l’esplicito riconoscimento del potere rego-lamentare dell’art. 116, comma 6. Questo è riferito alla «disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni» e potrebbe, a una prima lettura, apparire più circoscritto, riguardare cioè solo l’ul-teriore livello di autonomia normativa, quello che ha per oggetto le scelte organizzative relative alle singole funzioni di competenza del-l’ente locale, ma non l’organizzazione generale. Con il che si apri-rebbe la porta a un potere normativo statale o regionale nella ma-teria. Ma una tale interpretazione appare smentita, per entrambi i livelli normativi.

Per la legge dello Stato vale il carattere tassativo della riserva del-l’art. 117, comma 2, lett. p), letta insieme con la riserva della lett. g). Detto in poche parole: lo Stato non ha conservato l’organizzazione generale degli enti locali come materia riservata e l’unica riserva in materia di organizzazione che le è riconosciuta riguarda espressa-mente solo l’organizzazione statale (e degli enti pubblici nazionali) e non l’organizzazione amministrativa in generale.

Quanto alle Regioni la mancata riserva in capo allo Stato non apre la strada all’applicazione in loro favore della clausola di residua-lità di cui al comma 4 dell’art. 117. Se la determinazione dell’orga-nizzazione amministrativa generale è sottratta allo Stato, in virtù dei nuovi rapporti di equiordinazione istituzionale fissati dall’art. 114, a maggior ragione essa è sottratta alla competenza regionale. Anche per gli enti locali, quindi, si può affermare la competenza sulla disciplina dell’organizzazione generale attraverso l’uso del potere statutario e regolamentare (generale).

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La determinazione autonoma, da parte di Regioni ed enti locali, della propria organizzazione amministrativa generale è senza limiti oppure valgono anche per loro alcuni principi generali?

Escluso un potere statale di fissare principi fondamentali sull’or-ganizzazione di base, escluso, quindi, un potere statale uniformante, volto cioè ad imporre un modello organizzativo uniforme a tutte le amministrazioni regionali e locali, escluso un analogo potere regio-nale10, resta per le Regioni (per i loro statuti, leggi e regolamenti) e per gli enti locali (per i loro statuti e regolamenti) il necessario ri-spetto di principi generali che si possano ritenere desunti da prin-cipi costituzionali, che si possano, cioè, considerare direttamente de-rivanti da norme della Costituzione. Per limitarci a un solo esempio recente, la Corte costituzionale ha ritenuto (sent. n. 104 del 2007)11 il principio della distinzione tra politica e amministrazione e le con-seguenti applicazioni a tutela delle competenze e della posizione di indipendenza della dirigenza amministrativa come principio diretta-mente derivante dal principio costituzionale di imparzialità di cui al-l’art. 97 Cost. Analoghi ragionamenti possono essere svolti in materia di accesso al lavoro pubblico, di posizione in generale dei funzionari pubblici, di responsabilità, di controlli interni (di legittimità e di fun-zionalità), per i quali è agevole individuare precisi principi costituzio-nali al cui rispetto sono tenuti tutti i livelli di governo (tutti i soggetti costituenti la Repubblica).

10 Sembra in realtà configurare un potere della legge statale e regionale di limi-tare l’autonomia normativa locale la l. n. 131 del 2003 che, all’art. 4, prevede da un lato (comma 2) che lo Statuto degli enti locali stabilisca i «principi generali dell’orga-nizzazione e funzionamento dell’ente», «in armonia con la Costituzione e con i prin-cipi generali in materia di organizzazione pubblica, nel rispetto di quanto stabilito dalla legge statale in attuazione dell’art. 117, secondo comma, lett. p)» e dall’altro (comma 3) che «l’organizzazione degli enti locali è disciplinata dai regolamenti nel rispetto delle norme statutarie». Lo Stato (e solo lo Stato) potrebbe limitare l’auto-nomia normativa locale, anche al fine di assicurare il rispetto delle norme statali sulle materie riservate (organi di governo e legislazione elettorale): in via diretta quanto al potere statutario e in via indiretta quanto al potere regolamentare. Lo stesso articolo, al comma 4, prevede un potere della legge (questa volta sia statale che regionale) per assicurare «i requisiti minimi di uniformità», che però sono riferiti all’organizzazione e allo svolgimento delle funzioni, non all’organizzazione generale. Come vedremo più avanti, l’intervento del legislatore statale e regionale in questa seconda materia appare legittimo, mentre resta sprovvisto di adeguata copertura costituzionale il po-tere statale di fissare il principi fondamentali in materia di organizzazione ammini-strativa generale.

11 Vedi il relativo commento di F. MERLONI e S. DE GÖTZEN, in questa Rivista 2007.

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Che le leggi regionali (compresi quindi gli statuti) debbano ri-spettare la Costituzione è detto all’art. 117 comma 1, dal quale si può agevolmente derivare che analogo vincolo valga, a maggior ra-gione, per gli statuti e i regolamenti locali.

Resta da determinare chi possa procedere all’individuazione di questi limitati principi derivanti dalla Costituzione, dal momento che la nostra Costituzione non ha riservato allo Stato un potere legisla-tivo del genere, anzi lo esclude (la riserva sull’ordinamento e l’orga-nizzazione amministrativa è limitata solo allo Stato e gli enti pubblici nazionali). O lo Stato, sulla base di una convenzione costituzionale non scritta con Regioni ed enti locali, a condizione di sottoporre al loro parere (nelle Conferenze) un testo avente questi contenuti, ov-vero, in via suppletiva, la Corte costituzionale.

La sintetica ricostruzione del nuovo Titolo V ci porta a conclu-dere che esso prefigura una forte discontinuità con il passato, rom-pendo il modello della necessaria uniformità, a favore di una possi-bile differenziazione dei modelli di organizzazione amministrativa generale.

All’ampio riconoscimento di autonomia normativa non corri-sponde, però, un adeguato uso dei nuovi poteri da parte di Regioni ed enti locali. E qui si apre ancora una volta l’interrogativo di fondo che ci siamo posti: se esso dipenda dall’attuale incertezza istituzionale (l’incertezza sull’effettivo contenuto di questa autonomia, l’incertezza sulle precondizioni di autonomia, il persistere, sia pure in forma «ce-devole», almeno per gli enti locali, del modello uniformante di am-ministrazione prefigurato dalle norme del TUEL), ovvero dipenda da una scarsa propensione di fondo alla differenziazione: da parte di amministratori regionali e locali e di una dirigenza amministrativa che preferisce attenersi a un modello predeterminato ma conosciuto, piuttosto che avventurarsi nell’incerto mare della sperimentazione; da parte dei titolari di diritti e di aspettative di prestazioni nei confronti delle amministrazioni pubbliche (cittadini, singoli o associati, im-prese), per i quali l’uniformità amministrativa, anche quanto all’orga-nizzazione generale, costituisce un fattore di certezza e di risparmio di risorse. Contare su un modello organizzativo uniforme per tutti i Comuni, ad esempio, secondo una posizione ancora oggi ricorrente presso istituzioni rappresentative degli interessi economici (sindacati e organizzazioni imprenditoriali), facilita i rapporti con le ammini-strazioni pubbliche rispetto a una accentuata differenziazione che, in-vece, comporta obblighi di informazione e costi per l’organizzazione delle relazioni con le amministrazioni.

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Veniamo ora alla organizzazione delle funzioni, cioè a quella parte dell’organizzazione amministrativa che consiste nella individuazione delle specifiche competenze degli organi amministrativi (all’interno dell’organizzazione propria dell’ente territoriale) o nella individua-zione di altre soluzioni organizzative (ad esempio creazione di strut-ture esterne all’amministrazione dell’ente: agenzie, enti pubblici o so-cietà per azioni in controllo pubblico) che assicurino l’esercizio delle funzioni (o lo svolgimento delle relative attività, di funzione pubblica in senso stretto (regolazione) o di erogazione (prestazione) di servizi pubblici).

Per le Regioni queste materie sono disciplinate in gran parte con leggi regionali e più limitatamente con regolamenti. Si tratta di una competenza normativa ampia e non condizionabile dalla legislazione statale. Escluso l’intervento della legge statale per le funzioni ammi-nistrative nelle materie residuali, resta solo la competenza sulla deter-minazione dei principi fondamentali nelle materie di legislazione con-corrente. Fino a che punto può spingersi il legislatore statale nella disciplina delle funzioni? Può, in sede di determinazione dei prin-cipi, fissare regole di svolgimento della funzione che condizionino la Regione nella organizzazione? La giurisprudenza della Corte, so-prattutto quella relativa alla legislazione statale in materia di finanza pubblica, tende a non escludere, ma a restringere, tale potere condi-zionante: esso dovrà essere proporzionato all’obiettivo da raggiungere e cioè limitato allo stretto indispensabile, rispetto al risultato atteso dall’azione amministrativa, nella tutela dell’autonomia normativa re-gionale sull’organizzazione delle funzioni.

Per gli enti locali vale, di nuovo, il riconoscimento (art. 117, comma 6) dell’autonomia regolamentare per la «disciplina dell’or-ganizzazione (...) delle funzioni loro attribuite». Il ragionamento ap-pena svolto per le Regioni rende evidente che lo scopo del riconosci-mento è permettere una differenziazione delle soluzioni organizzative relative alle funzioni in titolarità degli enti locali, ma che esso non esclude l’intervento della legge (statale e regionale) volto a fissare an-che quelle condizioni operative, organizzative, che garantiscano il ri-sultato dell’azione amministrativa.

Un importante campo di applicazione dei rapporti tra fonte le-gislativa e autonomia normativa locale in materia di organizzazione delle funzioni attribuite riguarda i servizi pubblici locali. Se questi fossero nient’altro che una delle forme di organizzazione delle fun-zioni di prestazione attribuite agli enti locali, la decisione sulla loro assunzione/istituzione, così come le scelte sulle relative forme di ge-stione (affidamento ad aziende pubbliche o a società in house, affi-

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damento previa gara tra imprese private) dovrebbero ritenersi total-mente lasciate all’autonoma regolamentazione locale. Noi sappiamo, però, che l’ordinamento comunitario e il suo fondamentale principio di concorrenza consentono sì l’erogazione di servizi (economici e non) sottraendoli, in tutto o in parte, alle regole di mercato. Ma que-sto può avvenire solo nel rispetto del principio di proporzionalità: il servizio può essere assunto/istituito e organizzato con autonoma de-cisione locale solo se il mercato non è in grado di garantire la presta-zione del servizio alle condizioni stabilite dal decisore pubblico. Qui vi è indubbiamente uno spazio per il legislatore nazionale (nell’eser-cizio della sua competenza riservata ex art. 117, comma 2, lett. e), in materia di «tutela della concorrenza») per fissare limiti e procedure decisionali per entrambe i profili poi rimessi al potere normativo lo-cale: la decisione di istituire un servizio pubblico locale12, la determi-nazione delle forme di gestione del servizio istituito.

Se, quindi, l’intervento del legislatore, sia pure negli stretti limiti indicati, è pienamente legittimo, appare evidente come non sia pos-sibile utilizzare la nozione di «riserva» a protezione dell’autonomia normativa locale, nonostante le incertezze lessicali prodotte dalla ri-cordata l. n. 131 del 2003. Questa in realtà parla di «riserva» proprio nei casi, la disciplina dell’organizzazione delle funzioni amministra-tive, nei quali essa deve essere esclusa, mentre se ne astiene per il campo oggettuale (l’organizzazione amministrativa generale) nel quale un dettagliato intervento del legislatore deve ritenersi illegittimo.

Quarto punto, l’autonomia normativa riferita alla disciplina del procedimento, cioè alla definizione delle regole che le amministra-zioni, una volta definita la loro organizzazione, si danno quanto allo svolgimento delle attività.

Anche in questo caso dobbiamo registrare l’assenza di una riserva allo Stato in materia di procedimento amministrativo.

La relazione tra organizzazione della funzione e procedimento è strettissima. Come è stato ampiamente sottolineato in dottrina, le re-gole sul procedimento sono in gran parte regole sull’organizzazione nel senso che l’articolazione delle attività di esercizio di una funzione

12 Nel fissare limiti all’assumibilità dei servizi pubblici in rapporto alle effettive condizioni di mercato la legge dovrebbe risolvere la questione della legittimità del-l’istituzione di servizi pubblici locali in attivo (che producono un profitto per l’ente locale), quando il principio di libertà di iniziativa economica privata imporrebbe di astenersi da ogni intervento pubblico in presenza di un mercato concorrenziale in grado di fornire i servizi agli utenti.

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amministrativa costituisce in buona misura una scelta relativa alla loro organizzazione. Poiché, però, le norme sul procedimento hanno effetto anche sulle posizioni giuridiche dei cittadini coinvolti dal-l’azione dell’amministrazione (partecipazione, accesso, accordi, ter-mine e così via) si è posto il problema di garantire una soglia minima di uniformità (o dei principi generali sul procedimento sicuramente applicabili a tutte le amministrazioni, anche se dotate di autonomia normativa).

Il legislatore statale ha cercato di dare una risposta introducendo, con la l. n. 15 del 2005 una nuova versione dell’art. 29 della l. n. 241 del 1990, che correttamente delimita il campo di applicazione diretto della legge sul procedimento ai «procedimenti amministrativi che si svolgono nell’ambito delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali», proprio con riferimento alla riserva statale della lett. g) dell’art. 117, comma 2 (a conferma della stretta relazione tra organizzazione e procedimento)13. Per le Regioni e gli enti locali il comma 2 dell’art. 29 usa una formulazione un po’ contorta, ma che utilizza la tecnica della comprensione dei principi della l. n. 241 tra i principi di derivazione costituzionale che abbiamo prima indivi-duata.

Ma non va trascurata anche l’altra tecnica, utilizzata in materia di accesso: l’art. 23, comma 2, definisce l’accesso come «principio ge-nerale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurare l’imparzialità e la trasparenza ed attiene ai livelli es-senziali delle prestazioni (...) ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. m), Cost.».

Le soluzioni ipotizzate appaiono non del tutto convincenti, ma solo sul piano della effettiva competenza dello Stato a legiferare nella materia del procedimento, non quanto alla loro qualità intrinseca.

La scelta di qualificare i principi della legge sul procedimento come principi derivanti dalla Costituzione è avvenuta senza alcuna contestazione da parte delle Regioni che non hanno eccepito il di-fetto di competenza dello Stato nella materia, con ciò facendo una sorta di «acquiescenza» rispetto a una scelta che nel caso specifico non appare del tutto incongrua.

13 D. SORACE, Diritto delle amministrazioni pubbliche, Bologna 2007, sottolinea la coincidenza tra riserva in materia di organizzazione dello Stato e potestà norma-tiva statale sul procedimento.

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La gran parte della l. n. 241, almeno fino che essa si limita a in-dividuare principi veramente generali sull’azione amministrativa e non prefigura nel dettaglio (si pensi alla disciplina delle conferenze di servizi) il procedimento per l’esercizio delle funzioni amministra-tive, ben si presta al sistema prima individuato per rendere questi principi vincolanti anche in sede di amministrazioni regionali e locali: le disposizioni della legge sul procedimento contengono principi di-rettamente derivanti da principi costituzionali (fondamentalmente di imparzialità e buon andamento) e quindi non restringono impropria-mente l’ambito di autonomia normativa regionale e locale.

3.2. Autonomia normativa e diritti

Il riconoscimento di un’autonomia normativa a Regioni ed enti locali, sia pure con le gradazioni note (legislativa e regolamentare per le Regioni, solo regolamentare per gli enti locali) può riguardare oltre all’organizzazione, anche i «diritti» (da intendersi in generale come situazione giuridiche soggettive), in particolare i diritti collegati a prestazioni fornite, direttamente o indirettamente, da pubbliche am-ministrazioni.

Fin qui i due profili erano strettamente collegati: la garanzia di uguaglianza dei cittadini si riteneva consistere nell’uniformità dei di-ritti riconosciuti a tutti i cittadini, indipendentemente dal luogo di re-sidenza, e nell’uniformità delle soluzioni organizzative adottate per lo svolgimento delle attività pubbliche (amministrative) di prestazione14.

L’autonomia locale poteva, nel modello antecedente il nuovo Ti-tolo V, consistere nella individuazione di differenziate priorità nel-l’azione pubblica (nella distribuzione delle risorse tra finalità pub-bliche curate: l’autonomia politico-amministrativa di cui sopra), ov-vero nell’adozione di limitate soluzioni organizzative differenziate, in un quadro generale nel quale l’ordinamento (la «legge della Re-pubblica», intesa come legge dello Stato secondo il vecchio art. 128 Cost.) assicurava una forte uniformità organizzativa all’intero sistema.

Con il Titolo V la stretta connessione, che si faceva coincidenza, tra organizzazione e diritti si rompe: l’organizzazione si può diffe-

14 Per le considerazioni relative a questo punto, ma più in generale per quanto sostenuto in queste note sono debitore alle articolate riflessioni di E. CARLONI, Lo Stato differenziato, Torino 2004.

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renziare, a condizione che siano garantiti i risultati di uguaglianza quanto al godimento dei diritti.

Il discorso deve quindi svolgersi su due diversi piani: quello della distribuzione del potere normativo relativo all’individuazione dei di-ritti alle prestazioni pubbliche, da un lato, e quello dei suoi riflessi sull’organizzazione (in particolare sull’organizzazione delle funzioni e sul procedimento).

Sotto il profilo della garanzia dei diritti, questa sembra cambiare configurazione: non più dettagliata definizione dei risultati attesi, im-posta dalla legge (statale) a tutte le amministrazioni, ma scissione tra un’area più ridotta, che fissa principi o livelli essenziali, per la quale il valore dell’uniformità è salvaguardato, e un’area vasta nella quale la stessa individuazione di diritti, la loro articolazione, è aperta a una potenziale differenziazione.

La differenziazione dei diritti connessi a prestazioni pubbliche può operare, però, solo in una direzione, nel senso dell’accresci-mento dei diritti e dei livelli di prestazione pubblica rispetto al livello essenziale fissato dalla legge (statale, ma anche regionale). Il modello costituzionale esclude che l’autonomia territoriale (regionale e locale) possa produrre il risultato di una riduzione nella garanzia dei diritti rispetto alla soglia minima o essenziale garantita a tutti i cittadini.

Lo Stato, per tutte le materie, fissa questi livelli essenziali e deve garantire che vi siano risorse sufficienti per l’erogazione effettiva delle prestazioni secondo quei livelli.

Le Regioni, nelle materie di loro competenza possono, con legge, fissare ulteriori livelli essenziali per le funzioni da esse svolte e per le funzioni attribuite agli enti locali, ma le devono adeguatamente fi-nanziare.

Gli enti locali, con riferimento alle funzioni attribuite o alle fun-zioni liberamente assunte (proprie) possono, con il loro potere rego-lamentare, ulteriormente incrementare i livelli delle prestazioni, ma devono chiedere ai propri cittadini il necessario contributo finanzia-rio.

Certo, ove la legislazione statale operasse nella direzione di una determinazione di livelli essenziali molto contenuta o, addirittura, di una riduzione dei livelli essenziali già determinati, il tasso di unifor-mità nella garanzia dei diritti diminuirebbe, mentre aumenterebbe la possibilità di una differenziazione, sempre nel senso di una eleva-zione della soglia «minima» fissata dallo Stato, da parte di Regioni ed enti locali. In questo caso una bassa soglia essenziale delle prestazioni può condurre a una differenziazione eccessiva, compromettendo il principio di uguaglianza.

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Se lo Stato non solo può, ma deve, determinare principi e livelli essenziali di prestazioni pubbliche la conclusione è che non sia confi-gurabile, anche in questo campo, alcuna riserva in favore dell’autono-mia normativa locale, ma che l’unica protezione possibile di quest’ul-tima risiede nei limiti entro i quali lo Stato può condizionare, con disposizioni relative ai principi e ai livelli essenziali delle prestazioni la organizzazione delle funzioni.

Quanto, appunto, ai riflessi della disciplina dei diritti sull’orga-nizzazione, si deve partire dalla constatazione che non sempre, come sarebbe preferibile, la legge può limitarsi a determinare un risultato atteso, un obiettivo o un livello di prestazione disinteressandosi del tutto dei modi (dell’organizzazione, della configurazione delle atti-vità) che le amministrazioni seguiranno per raggiungere quei risultati (quegli obiettivi, quei livelli essenziali). Molto spesso, al contrario, la legge stabilisce, in via preventiva e generale, alcuni caratteri dell’or-ganizzazione della funzione. Ciò può riguardare funzioni generali del-l’amministrazione (si pensi ai casi della statistica15 e dell’informazione e comunicazione pubblica16, della informatizzazione degli atti e docu-menti amministrativi17) o funzioni specifiche (si pensi alla necessaria istituzione di sportelli unici per le imprese).

Quanto più stretta è la connessione tra organizzazione e svolgi-mento delle funzioni e diritti, tanto più è forte l’esigenza di una so-glia minima di uniformità che non riguardi solo i diritti in sé, ma la relativa organizzazione.

L’intervento del legislatore (statale e regionale) nel delineare le conseguenze organizzative della predeterminazione di principi e li-velli essenziali delle prestazioni connesse a diritti dei cittadini è legit-timo, purché sia ricondotto negli stretti limiti della proporzionalità: è

15 Per la quale la disciplina del SISTAN impone a tutte le amministrazioni, an-che a quelle degli enti territoriali, di dotarsi di un ufficio di statistica, con specifiche caratteristiche organizzative. La funzione statistica è strumentale all’esercizio delle funzioni degli stessi enti locali, ma è funzione conoscitiva generale svolta anche nel-l’interesse dei cittadini. Questo autorizza lo Stato a fissare norme che delimitano, an-che significativamente, l’autonomia organizzativa locale.

16 Si veda la l. n. 150 del 2000, che impone a tutte le amministrazioni la costi-tuzione di appositi uffici per lo svolgimento, rispettivamente della funzione di in-formazione (portavoce e ufficio stampa) e della funzione di comunicazione (ufficio relazione con il pubblico).

17 Si veda il d.P.R n. 445 del 2000 (Testo unico sulla documentazione ammini-strativa) e il d.lgs. n. 82 del 2005 (Codice dell’amministrazione digitale).

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legittimo solo l’intervento sull’organizzazione strettamente necessario al conseguimento della garanzia dei diritti.

Il nuovo modello è fortemente innovativo ma sottoposto a condi-zioni difficilmente realizzabili.

Presuppone che i titolari dei poteri normativi uniformanti residui (Stato e Regioni) si limitino alla sola uniformità sui risultati, trascu-rando di invadere (o invadendo solo per lo stretto necessario) l’area della organizzazione e che si limitino, ai fini di garanzia di ugua-glianza, alla sola uniformità per principi e per livelli essenziali, tra-scurando la determinazione puntuale di dettaglio delle prestazioni collegate ai diritti

Presuppone che i titolari dei poteri di differenziazione abbiano spazi di autonomia normativa non puramente formali, ma sostanziali, che vi siano cioè spazi concreti per incrementare i livelli delle presta-zioni rispetto ai livelli essenziali garantiti dai titolari dei poteri uni-formanti.

Ma, soprattutto, il nuovo modello, per realizzarsi compiutamente, impone lo svolgimento di un’ampia azione positiva necessaria, non meramente potenziale.

Nel quadro delineato la determinazione positiva dei livelli essen-ziali è condizione per la realizzazione dell’intero processo, che dia senso e contenuto all’autonomia normativa regionale/locale, alla ri-cerca della differenziazione del congiunto organizzazione-diritti alle prestazioni pubbliche.

Si rivela in particolare necessaria un’opera che riporti la legisla-zione al suo carattere di determinazione dei risultati, laddove la legi-slazione in vigore è ancora tutta costruita sul modello costituzionale precedente, quella dell’uniformità nazionale, insieme, dei diritti e del-l’organizzazione delle relative funzioni amministrative. Senza questa opera gli spazi per un’autonomia normativa regionale e locale sempli-cemente non esistono.

4. Quale protezione dell’autonomia normativa locale?

Scomposta nei suoi possibili contenuti, l’autonomia normativa lo-cale ci appare ormai non come un valore in sé, assoluto, ma relativo, da difendere e tutelare in rapporto agli obiettivi che essa consente di raggiungere.

Essa ci appare, poi, come un valore formale, certamente da non trascurare ma, in assenza di condizioni sostanziali, chiaramente spro-

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porzionato, come conferma puntualmente lo scarso uso che ne viene fatto.

Di qui la necessità non di abbandonare gli studi sulle garanzie formali dell’autonomia normativa, ma di accompagnarli con un’atten-zione altrettanto importante alla creazione delle condizioni sostanziali per l’esercizio di un consapevole e sensato potere di differenziazione.

Sul piano della protezione giuridico-formale allora occorrerà gra-duare le forme di tutela.

Laddove esiste una posizione delle fonti locali assimilabili alla «riserva», come abbiamo visto nel campo dell’organizzazione gene-rale o di base, le forme di tutela devono farsi più forti, nella quasi equiparazione tra statuto e legge regionale e statuto e regolamento locale. Ogni invasione da parte della legge statale (o regionale) do-vrebbe essere qualificata come illegittima e dovrebbe essere oggetto di ricorso alla Corte costituzionale o al giudice (che potrebbe essere dotato di poteri di disapplicazione di norme statali o regionali lesive della competenza normativa locale).

Per gli altri oggetti, l’organizzazione della funzione e il procedi-mento, poiché non si può parlare di «riserva», anche la protezione dovrà adottare strumenti diversi, che bilancino le diverse, ma conci-liabili, esigenze di uniformità (ai fini di uguaglianza nella garanzia dei diritti) e di differenziazione.

Sul piano delle condizioni sostanziali da creare va ricordato che la prima condizione, esterna, è l’effettiva attribuzione delle funzioni, in sussidiarietà. Che si tratti di individuare le funzioni fondamentali o le ulteriori funzioni da attribuire agli enti locali in sede di legislazione statale e regionale, l’unico modo corretto di procedere è la revisione organica della legislazione vigente, per razionalizzare la distribuzione delle funzioni tra i diversi livelli di governo.

Ma vi sono almeno altre due condizioni, «interne» al tema del riconoscimento dell’autonomia normativa.

La prima riguarda la protezione effettiva, non formale, dell’auto-nomia normativa sull’organizzazione, in particolare per l’organizza-zione delle funzioni (laddove la competenza in materia di organizza-zione generale fosse adeguatamente tutelata).

Anche in questo caso occorrerebbe un’opera generale di revisione della legislazione per la sua «semplificazione» e riduzione allo stretto indispensabile per il raggiungimento del risultato. Se resta in vigore una legislazione tutta costruita in rapporto alla vecchia concezione dell’uniformità dei diritti garantita dall’uniformità dell’organizzazione, non basta dichiarare cedevoli le disposizioni di dettaglio, in presenza di un’iniziativa normativa locale che si appropria del suo potere nor-

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mativo. Occorre «sfrondare» la legislazione vigente e individuare più chiari terreni per l’esercizio del potere normativo di differenziazione dell’organizzazione delle funzioni, applicando quel principio di pro-porzionalità che ha indicato la Corte costituzionale. Quest’opera non può che essere fatta dai legislatori, statale e regionale, perché è vano attendersi una effettiva spinta locale verso l’esercizio dell’autonomia normativa, se gli spazi di azione sono incerti, soggetti a possibili con-testazioni e tali da ingenerare ulteriori ritardi sull’azione amministra-tiva.

Anche l’autonomia normativa sui diritti ha bisogno di una re-visione normativa a monte. Stato e Regioni devono riportare l’area della necessaria uniformità nell’alveo naturale della determinazione dei principi, degli obiettivi generali dell’azione, della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, garantendo a quest’area la ne-cessaria copertura finanziaria. Se quest’opera non viene svolta, riven-dicare l’autonomia normativa è del tutto illusorio.

Si tratta, come si vede, di un programma molto ambizioso, un programma che richiede, a sua volta, condizioni di contesto istituzio-nale e politico fin qui non realizzate: la condivisione bipartisan del-l’obiettivo dell’attuazione del nuovo modello costituzionale, una forte determinazione, non di un solo governo ma dei governi che si succe-deranno almeno per il prossimo decennio.

Nell’attesa della messa a regime del nuovo modello sarebbe già un risultato di grande importanza garantire che l’autonomia norma-tiva possa esercitarsi soprattutto in materia di organizzazione, come differenziazione (possibile, nelle circostanze date) delle soluzioni or-ganizzative generali.

L’autonomia normativa per la potenziale differenziazione dell’or-ganizzazione delle funzioni e del procedimento in funzione della ga-ranzia dei diritti, deve restare, in conclusione, un obiettivo di fondo da perseguire.

Realismo vuole, però, che nell’immediato l’effettiva attuazione del nuovo modello costituzionale passi per la realizzazione delle condi-zioni minime, ma essenziali, per l’innesco dell’intero processo: attri-buzione effettiva delle funzioni in sussidiarietà e delle risorse finan-ziarie connesse. La compiuta realizzazione dell’autogoverno e dell’au-tonomia politico-amministrativa si rivelano, ancora, come condizioni indispensabili per un effettivo esercizio dell’autonomia normativa lo-cale.

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