RIFLESSIONI SULLA DISTANZAIN PSICOTERAPIA

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RIFLESSIONI SULLA DISTANZA IN PSICOTERAPIA L’assurdo fa parte della vita umana… è meglio essere simultaneamente impegnati e distaccati, e quindi assurdi, giacchè questo è l’opposto della negazione del sé e il risultato della piena consapevolezza. Nagel (1986) Francesca Vignozzi Psicologa

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Francesca Vignozzi

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RIFLESSIONI SULLA DISTANZA IN PSICOTERAPIA

L’assurdo fa parte della vita umana… è meglio essere simultaneamente impegnati e distaccati, e quindi assurdi, giacchè questo è l’opposto della negazione del sé e il risultato della piena consapevolezza.

Nagel (1986)

Francesca Vignozzi Psicologa

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Il tema della distanza in psicoterapia è passibile di essere affrontato, come d’altronde ogni altro aspetto tra tutto ciò che ‘entra’ nella stanza di analisi, dal duplice punto di vista di paziente e terapeuta. È certo, infatti, che il concetto di distanza assume diversi significati se viene analizzato a partire dal terapeuta nei confronti del paziente, piuttosto che dal paziente verso il terapeuta o, ancora, dal paziente nei confronti di se stesso. Nonostante ciò la distanza come libero fluttuare nella dialettica tra identificazione e separazione, tra frammentazione e ristrutturazione del Sé, potrebbe sembrare esclusiva competenza del paziente: il terapeuta rimane tranquillamente e (saldamente!) seduto sulla sua poltrona mentre osserva il paziente che scandisce le diverse tappe del processo psicoterapico attraverso la regolazione della distanza psicologica da lui. Tuttavia gli analisti postmoderni, che interpretano la realtà attraverso la lente del costruttivismo, escludono di poter accettare questa a dir poco riduttiva visione del lavoro analitico. Sappiamo, inoltre, che già dagli anni ‘50 la funzione dell’analista come ‘schermo bianco’ è stata messa in discussione anche dalla letteratura psicoanalitica classica (Macalpine, Benedek).

Insieme a questa le regole della neutralità e dell’astinenza, a cui l’analista dovrebbe

sottostare, non solo sono state riconosciute come miti davvero lontani da ciò che è possibile nel mondo relazionale reale, ma, addirittura, si è ritenuto fuorviante e deleterio ogni tentativo di rigida applicazione delle stesse. È proprio perchè è impossibile astenersi dall’essere e dall’esserci che la nostra essenza è per natura priva di neutralità: l’essenza della cura sta proprio nella possibilità da parte del paziente di riconoscere il terapeuta come altro da lui-in relazione con lui. Tangolo dice che in ‘in terapia ci si guarda più che si parla. Il sentirsi visto e ascoltato con amore e con riconoscimento è ristrutturante per il Sé dell’individuo. Quando il paziente impara a vedersi con gli occhi del terapeuta acquisisce il diritto di esistere, di essere nel mondo’. Dunque, l’agire terapeutico del professionista ha a che fare con l’offrire se stesso come strumento di rispecchiamento per il cliente all’interno della relazione e ciò avviene per mezzo della relazione.

Non vi è dubbio che tutto questo implichi una dinamica di progressivo avvicinamento e

allontanamento psicologico tra terapeuta e paziente, che se troppo vicini o troppo distanti non riescono a ‘vedersi’ (e a riconoscersi), entrambi alla ricerca di una distanza che diviene ‘sufficientemente buona’ nello strutturarsi della relazione attraverso il tempo. Come spiega Sisalli, uno tra i maggiori meriti di Berne è stato proprio quello di aver cominciato a parlare con i pazienti in un momento storico in cui gli psicoanalisti aspettavano solo l’occasione giusta per interpretare. Così il padre dell’AT ha intuito come la relazione tra paziente-terapeuta sia centrale nel processo di cura e per tale ragione la dialettica tra dimensione relazionale e intrapsichica, tra dialogo esterno e dialogo interno, è divenuta oggetto di studio privilegiato e, al contempo, fondamento teorico imprescindibile. Tale approccio presenta senz’altro diversi punti in comune con quello di Alexander, anch’esso interessato a rilevare come irrinunciabile il carattere affettivo e interattivo del processo psicoterapico. Egli infatti sostiene che l’analisi non funziona solo per la validità delle interpretazioni dell’analista sul piano intellettuale (non funzionano le interpretazioni telefoniche tra un professionista ed un paziente sconosciuto!), ma perché i pazienti trovano nella situazione psicoanalitica esperienze affettive di tipo diverso in risposta ai loro più profondi bisogni dell’età infantile. Mitchell risolve il dilemma tra interpretazione ed interazione ed il loro rispettivo peso nell’economia di ciò che in realtà costituisce l’intrinseco fattore di cura, legittimando il valore di entrambe, anzi, riconoscendone il legame indissolubile. Secondo questo autore, infatti, le interpretazioni non sono solamente informative, ma sono

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sempre eventi relazionali e trasformano le relazioni. Allo stesso modo l’inter-azione non è priva di significato concettuale ed esente dall’aprire nuove forme di comprensione.

Sulla stessa linea si trova Kernberg il quale sostiene che le interpretazioni funzionano

quando i pazienti vivono il setting come un ambiente di holding o l’analista come empatico. Ciò è in sintonia con quanto concettualizzato in A.T., secondo cui oltre all’alleanza terapeutica tra l’Adulto del paziente e quello del terapeuta, è necessaria anche la costituzione di un’alleanza transferale positiva, in cui Genitore e Bambino del terapeuta interagiscano con il Bambino del paziente. Dunque non vi è dubbio che, analizzando la recente letteratura su questo tema, emerge come il dibattito non sia più fra interpretazione e interazione, quanto tra diverse forme di partecipazione del terapeuta alla relazione. Accantonato il principio di neutralità, adesso viene ammesso ed accettato che il terapeuta intervenga, eccome, nel processo analitico del paziente. Egli non può e non deve essere solo uno schermo vuoto, ma una persona che nell’interazione parla di sé, lascia il segno, mette in campo il suo sistema di valori, i suoi sentimenti, cioè, in termini AT, si presenta in terapia con tutti e tre i suoi Stati dell’Io, senza temere per questo di suggestionare il paziente o di influenzarlo: ciò non impedisce lo sviluppo autonomo dell’analizzato, al contrario, prepara il terreno perché questo divenga possibile. Di questo aspetto Mitchell scrive:

L’autonomia personale non è qualcosa che anticipa la relazione con gli altri, ma una

proprietà emergente dai processi interattivi, non è qualcosa che può essere protetto dall’influenza, ma qualcosa che cresce attraverso l’influenza…definire l’autonomia come separata dalle reciproche influenze e dal campo equivale a confondere l’autonomia con una sorta di difesa narcisistica onnipotente contro la dipendenza e l’attaccamento (p. 36)

Sullivan sottolinea come il terapeuta non osservi il paziente da una posizione neutrale e distaccata ma sia dentro al campo psicoanalitico e ottenga i suoi dati proprio attraverso l’interazione con il paziente, rimanendo continuamente influenzato ‘da ciò che sta osservando e lo influenza a sua volta’. Questo significa che nella pratica clinica un fattore terapeutico fondamentale è costituito dalla capacità di ‘stare in relazione’ e interagire in quello spazio transizionale che è un po’ sè e un po’ altro da sè, che permette ai due di trascendere da se stessi e di aprirsi alla trasformazione reciproca. Quindi il terapeuta partecipa al pari del paziente al processo di regolazione della distanza che scandisce le diverse fasi della terapia1. Di conseguenza, se non c’è collaborazione alla diade di uno dei membri, non vi è relazione, la distanza psicologica è eccessiva e l’obiettivo terapeutico irraggiungibile. Ciò può ad esempio riguardare il terapeuta alle prime armi, che per proteggersi dai contenuti dolorosi portati dal cliente si manterrà eccessivamente distaccato e, così, non coglierà i particolari del quadro che il paziente gli offrirà di Sé. Al contrario, se il terapeuta si avvicina troppo al paziente, soffre al posto suo, lavora al posto suo, vi è il rischio di collusione, poiché, come spiega Zazo, ‘finchè terapeuta e paziente vibrano della stessa angoscia il terapeuta non potrà usare il suo pensiero e aiutare il paziente ad usare il suo’. In questo caso non vi è più una relazione empatica (B-B) o supportiva

1 Sicuramente meriterebbe un approfondimento l‟analisi del rapporto tra regolazione della distanza e strutturazione

del tempo in terapia. In breve, nelle prime fasi della terapia generalmente il paziente che rimane “lontano” strutturerà

il tempo in seduta mediante passatempi o rituali, mai mediante l‟intimità, impedendo, in tal modo, l‟instaurazione

dell‟alleanza, cioè quando viene soddisfatto il bisogno di integrazione e appartenenza alla relazione. Una volta

stabilita questa, il tempo può essere organizzato secondo le varie modalità identificate da Berne e l‟analisi di ciò darà

indicazione del livello evolutivo del paziente.

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(G-B) tra un Io e un Tu, ma un Noi sinciziale, manifestazione di fusione simbiotica, dove il terapeuta non è in grado di utilizzare tutti e tre gli Stati dell’Io perché vi è una sovrapposizione tra i suoi e quelli del paziente.

Il processo terapeutico si sviluppa a partire dalla relazione tra un Io e un Tu, dal muoversi,

dall’agire e dall’inter-agire all’interno dello spazio, unico e irripetibile, che si crea tra un particolare terapeuta ed uno specifico paziente. È in tale spazio che la mente del paziente viene compresa e ciò accade ‘solo attraverso un processo di costruzione interpretativa’. Le dinamiche centrali pertinenti al processo psicoanalitico non sono preorganizzate e “nascoste” nella mente del paziente, come insetti sotto il sasso della coscienza, piuttosto vengono co-create nuove esperienze, di natura conscia e inconscia, nel ‘regno del tra’ (come lo definisce Sisalli) del setting e mediante queste avviene la co-costruzione di significato2 (Friedman). Zazo dice che la supervisione è “pensare un pensiero mai pensato”. Non è così anche per la terapia? Hoffman lo conferma dicendo:

Riflettere sull’esperienza è come cercare forme in una nuvola… nessuno direbbe mai che è stato identificato ogni possibile percetto nella nuvola. In effetti, nessuno direbbe che la nuvola ha solo una determinata serie finita di percetti che sono ipoteticamente suscettibili di essere “scoperti”. Il senso di infinite possibilità dimostra che, in termini di forma, la nuvola non è semplicemente complessa ma irriducibilmente ambigua… noi facciamo una “scelta”…quando risolviamo quell’ambiguità in un modo piuttosto che in un altro (pag. 51).

Hoffman, inoltre, aggiunge che ‘l’analista ha la responsabilità non solo di interpretare ma anche di contribuire creativamente allo sviluppo della relazione in altri modi, di esercitare con saggezza la propria ineludibile autorità morale nel processo e di confrontarsi con il paradosso di partecipare alle riattualizzazioni mentre cerca di comprenderle e trascenderle’ (pag. 137).

L’aspetto paradossale, e al tempo stesso curativo, della partecipazione del terapeuta al

processo analitico è rappresentato pertanto dalla dialettica tra il coinvolgimento personale spontaneo e la riflessione critica sul processo.

Egli entra, si avvicina, si lascia coinvolgere, travolgere dalle dinamiche del paziente. Poi si

ferma, torna indietro, pone una sufficiente distanza tra sé e l’altro, e a questo punto, attivando il proprio Adulto, analizza la situazione, la interpreta, fino a renderne partecipe il paziente stesso, il quale, ora, vede emergere qualcosa di nuovo da qualcosa di vecchio3.

2 Clarkson (1994) riferisce come non riesca a rinunciare a continuare a domandarsi „se gli interventi terapeutici siano

opera solo del terapeuta o se talvolta non vengano co-creati con i clienti, capaci di trasformare brillanti interventi in un

vero pastrocchio, ma anche di trasformare in oro puro risposte di mera competenza‟ (pag. 63). Hoffman spiega come

„ciò che viene detto dai partecipanti non si limita semplicemente a esprimere quanto già esiste, ma crea anche ciò che

esiste e ciò che esisterà nell‟esperienza di entrambe le persone‟(pag.202). 3 A questo proposito Greenson distingue tra alleanza transferale e working alliance, la prima caratterizzata dal

dispiegarsi di un‟ineluttabile dinamica di transfert e controtransfert, la seconda, basata sul senso di realtà, permette al

cliente di cominciare a riconoscere il terapeuta come persona reale e a distinguerlo dagli oggetti del passato. Allo

stesso modo Clarkson distingue tra varie forme di relazione terapeutica, tutte potenzialmente curative. Tra queste

distinguiamo quella che essa definisce Relazione „da Persona a Persona‟ e la Relazione „di Transfert e Contrtransfert‟.

La prima viene definita una relazione Io-Tu ed è caratterizzata dall‟incontro esistenziale Qui-e-ora tra le due

persone‟. Essa implica una mutua partecipazione al processo di instaurazione, interpretazione e risoluzione del

transfert, nel quale comunque la persona reale dello psicoterapeuta non può mai venire esclusa totalmente. Ciò che è

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Non vi è dubbio che l’azione transferale esclusiva e totalizzante lasci l’individuo sostanzialmente solo con se stesso, o meglio con altri sé, e con gli oggetti del proprio passato. Tuttavia nel momento in cui il paziente agisce vissuti transferali nei confronti dell’analista li porta fuori, proprio in quello ‘spazio intermedio’ laddove la storia e la personalità del terapeuta e del paziente si incontrano, nella loro riconosciuta e consapevole alterità, meta-riflettono e co-costruiscono un nuovo significato all’esperienza del paziente, ogni volta più consapevole. E’ dopo aver danzato nel ‘regno del tra’, mediante la manifestazione del processo di transfert e controtransfert, che ‘l’Adulto del terapeuta e l’Adulto del paziente si incontrano, siedono e parlano’.

Greenson a questo proposito parla di dimensione dialettica nel paziente (e parimenti anche

nel terapeuta, anche se, come spiega Hoffman, ‘non vi è dubbio che l’analista debba essere meno visibile del paziente’) tra partecipazione alla relazione transferale (quindi tra due diverse parti di sé, una delle quali viene proiettata) e partecipazione alla relazione “reale” (quindi tra sé e altro da sé che successivamente verrà introiettato). Attraverso ciò diviene possibile promuovere una riflessione critica sul modo in cui la realtà del paziente è stata costruita nel passato e continua ad essere costruita nell’interazione attuale, quale che sia ‘l’amalgama di ripetizione e nuova esperienza nella costruzione attuale’. Hoffman a tale proposito scrive:

Contro la potente alleanza del transfert nevrotico e del controtransfert complementare sta l’interesse che il paziente e l’analista condividono a far accadere qualcosa di nuovo per il paziente, qualcosa che promuoverà la sua capacità di sviluppare nuovi tipi di relazioni interpersonali. E’ qui che subentra e svolge un ruolo estremamente importante l’’oggettività’ dell’analista (pag.203).

Tale spazio interpersonale, creato tra analista e paziente come ‘campo di battaglia’ nella lotta alla distinzione tra esperienza infantile ed esperienza odierna, diviene, con il dipanarsi della psicoterapia, presenza interna, intrapsichica. Tale processo di esternalizzazione e successiva internalizzazione del materiale elaborato, porta allo sviluppo (o al consolidamento) di un Io Osservante interno che permette al paziente di guardare con distanza l’Io che fa l’esperienza e di acquisire l’abilità di mentalizzare. Fonagy individua come denominatore comune di tutte le forme di psicoterapia proprio la riattivazione della mentalizzazione. Questa capacità, secondo l’autore, emerge primariamente nella relazione di rispecchiamento con il caregiver. Nell’ambito di una relazione di attaccamento sicura il genitore accoglie e rielabora pensieri e sentimenti del bambino, processo che diviene con il tempo interiorizzato fino a permettere a quest’ultimo di organizzare le rappresentazioni primarie dell’esperienza in rappresentazioni secondarie degli stati della mente. Questo è ciò che avviene anche tra terapeuta e paziente e, scopo della terapia, tra paziente e se stesso. Da quella teorizzata dalla Linehan fino a quella formulata da Kernberg, le varie psicoterapie lavorano, implicitamente o meno, alla creazione di un contesto interpersonale sicuro dove sia possibile la comprensione degli stati mentali e, conseguentemente, il riconoscimento del sé del paziente come ‘intenzionale e come reale’. Nel momento in cui tale riconoscimento viene percepito dal cliente all’interno di una relazione sicura viene data ‘fiducia’ all’Adulto del paziente, il quale con il tempo si energizza, fino a divenire disponibile, all’interno del sé, come interprete e supervisore del dialogo interno tra Genitore e Bambino e in grado di

terapeutico, dice Fairbairn, è proprio il momento dell‟incontro reale poiché non è ciò che è accaduto prima (che è

transferale), ma ciò che non è mai accaduto prima (pag. 32)

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operare la regolazione affettiva. Ancora Fonagy vede l’instabilità del senso del sé come conseguenza dell’assenza della capacità riflessiva e delle rappresentazioni di secondo ordine accurate degli stati mentali. In termini AT, quando l’Adulto risulta esautorato, il potere esecutivo appartiene al Bambino e/o al Genitore e ciò comporta come output un’immagine ambivalente e disorganizzata del sé. Fonagy conferma che il nucleo della terapia psicologica, soprattutto con pazienti affetti da gravi disturbi di personalità, è il miglioramento dei processi riflessivi, ovvero la capacità dell’individuo di osservare i propri vissuti emotivi, le proprie esperienze da una distanza ‘sufficientemente buona’, quindi a partire dallo stato dell’Io Adulto.

In termini di distanza psicologica ciò che risulta terapeutico è dunque la creazione, mediante la relazione che si instaura tra professionista e cliente, di uno spazio sicuro che è altro da sé, funzionale per portare fuori materiale doloroso che entra poi nel terapeuta, viene da quest’ultimo contenuto e modificato, infine restituito al paziente: esemplare a questo riguardo è l’azione dell’identificazione proiettiva così come viene concettualizzata da Ogden, il quale non la considera come mera difesa alla stregua di tutte le altre, piuttosto come fondamentale risorsa terapeutica in quanto meccanismo relazionale. Il paziente esternalizza i propri contenuti dolorosi al terapeuta, come un bambino fa con la madre; il professionista, allo stesso modo di un genitore, modula (Fonagy, 2002), contiene (Bion, 1962), ‘processa’ e modifica (Ogden, 1979) tali contenuti per il paziente, fino a quando quest’ultimo reinteriorizza il nuovo materiale. Facendo così, spiega Fonagy, egli diviene capace di rappresentazione secondaria dell’affetto, così come il bambino che trova una versione riconoscibile dei propri stati mentali nella mente della madre acquisisce, infine, una rappresentazione simbolica di quegli stati che gli permette di esercitare un controllo su di essi.

Il distacco che il paziente è in grado di operare nei confronti del proprio mondo emotivo è espressione di una distanza che da interpersonale diviene intrapsichica e che, in quanto tale, non implica più la presenza fisica del terapeuta, divenuto comunque oggetto interno. In termini di Analisi Transazionale, si può parlare della creazione di una distanza interna tra diversi stati dell’Io che collaborano attivamente grazie al controllo esercitato su di essi dall’Adulto Osservante. Non a caso il controllo sociale, che si ottiene attraverso la strategia della decontaminazione, consiste proprio nella liberazione dell’Adulto indebolito a livello energetico dall’influenza del Genitore e del Bambino e nel riallineamento dei confini tra i vari Stati dell’Io.

Anche quei pazienti che già posseggono un Adulto funzionante all’inizio della terapia,

divengono capaci, al suo termine, interiorizzata l’esperienza stessa dell’analisi e l’interazione con il terapeuta, di utilizzare questo Stato dell’Io per riflettere in modo costruttivo su se stessi e sulle proprie esperienze, oltre che per far fronte in modo aperto e funzionale alle esigenze e alle responsabilità del presente Un processo di questo tipo potrebbe essere definito re-adulting. Pertanto, al di là della dialettica tra gli Stati dell’Io che garantisce una pacifica convivenza, armonia e integrazione tra le varie parti in cui è suddivisa la personalità, ciò che l’energizzazione dell’Adulto produce è anche una nuova organizzazione del proprio mondo interno, un ulteriore sviluppo delle conoscenze e della comprensione riguardo se stesso e la propria storia.

Sicuramente, la distanza operata rispetto ad un determinato contenuto, che implica

l’attivazione dello Stato dell’Io Adulto a discapito del Bambino, risulta curativa nel momento in cui rappresenta la ‘conclusione’ di un processo, dunque non è a priori ma è sempre a posteriori.

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Ciò che è terapeutico, infatti, è il passaggio all’Adulto dopo che il Bambino ha contattato l’emozione, quando cioè l’energia è passata da quella parte dell’Io che ha fatto l’esperienza all’altra che osserva. La distanza posta inizialmente nei confronti di un’esperienza esercita una funzione protettiva di evitamento dell’affetto. Basti pensare ai meccanismi di difesa quali l’isolamento, l’intellettualizzazione e la razionalizzazione, tutti accomunati da un iperinvestimento del razionale e da una svalutazione delle ‘implicazioni personali e viscerali di una qualche situazione, idea o evento’ (Mac Williams, 1994), operata a partire da un Adulto esclusore oppure, potremmo dire, da un ‘Adulto che contamina il Bambino’. Semplificando, la distanza iniziale rappresenta il sintomo che ci permette, integrando gli altri elementi in nostro possesso, di effettuare la diagnosi; al contrario, la distanza operata al termine della terapia è rivelazione della cura.

Moiso e Novellino rilevano aspetti negativi e positivi anche nello Stato dell’Io Adulto: si

tratta di A- quando viene usato in modo difensivo per razionalizzare gli eventi e le esperienze privandoli del loro contenuto emotivo; è A+ quando, al contrario, tale Stato dell’Io dialoga con gli altri, tiene conto degli aspetti etici ed emotivi della realtà, meta riflette al fine di crescere a livello personale. Da ciò si evince come l’Adulto sia in continuo divenire, poiché la funzione riflessiva in un individuo non è mai definitivamente conseguita (Fonagy, 2002) ma è espressione di un processo introspettivo potenzialmente inesauribile. Come sottolinea Cavallero, ‘la coscienza totale di ciò che avviene in noi è un mito ma l’espansione della nostra consapevolezza è un onere quotidiano’ (pag. 102) (Novellino L’approccio clinico dell’AT).

Forse è illusorio pensare che alla fine della terapia il paziente raggiunga una volta per

tutte una distanza correttiva ottimale dai propri contenuti emotivi e da lì non si muova più. Sappiamo come, nei momenti di forte stress a cui ogni individuo si può trovare sottoposto in momenti critici della vita, sia probabile che il Bambino torni a prendere il sopravvento sull’Adulto. Allora è più plausibile che egli tenda ad oscillare ancora ‘avanti e indietro’, consapevole comunque di diverse possibilità di movimento. Nonostante questo limite, il processo psicoterapico è senza dubbio sorprendente e assurdo, caratterizzato com’è dalla perenne dialettica tra impegno e distacco: è la componente affettiva di questo tipo di relazione, unica nel suo genere, che permette al paziente di ‘Stare’ nella stanza di terapia ed è la stessa che permetterà a questo di separarsi con ‘amore’ dal terapeuta (Massi). Scopo della terapia è, infatti, ‘la creazione delle basi per un legame che permetta nuove possibilità di separazione e intimità’ (Fonagy), oltre, naturalmente, alla costruzione di nuovi significati, alcuni tra gli infiniti possibili, ad esperienze passate e presenti, al fine di promuovere la comprensione (data da conoscenza e accettazione) del ‘là ed allora’, la consapevolezza di un differente ‘qui ed ora’ e il riconoscimento di nuove opzioni di un ‘domani e chissà dove’.

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LA DONNA CHE AVEVA FREDDO…UN ESEMPIO CLINICO

“Marie, perché piange?” “Perché lei non piange.”

Kieslowski, Film Blu

Ho visto Ilaria la prima volta a casa dei suoi genitori un anno fa. La paziente era stata dimessa 15 giorni prima dall’ospedale di Firenze dove, nel mese di Agosto, era stata ricoverata in seguito ad un infarto al miocardio avvenuto durante un esame coronografico. Di ritorno dall’ospedale la sorella maggiore le aveva suggerito di richiedere un sostegno psicologico che almeno in un primo tempo fosse domiciliare, in attesa che le condizioni fisiche di Ilaria migliorassero. La casa dove sono entrata quel giorno di Settembre era buia. Ad accogliermi trovo due figure femminili: una, molto curata nell’aspetto, mi porge con decisione la mano e si presenta come la sorella di Ilaria; l’altra, dimessa, incerta e trascurata, è la mia paziente. Mi guida in salotto, dove ci sediamo l’una di fianco all’altra. Ilaria è una giovane donna di 36 anni, sposata e madre di due figli; eppure a me sembra di aver di fronte una bambina infreddolita e terrorizzata. Si tratta del mio primo colloquio. Mi sento molto agitata. Nonostante questo, continuo a sorridere, come per rassicurare me incoraggiando Ilaria. Come dice Berne, mi trovo dinanzi al grande dilemma che costituisce il ‘vero problema’ dello psicoterapeuta: ‘cosa faccio quando sono in una stanza con una persona chiamata paziente, se io sono chiamato terapeuta?’.

In quella situazione sperimento in modo chiaro la paura di non risultare adeguata nei panni

che per la prima volta indosso e che legittimano la mia presenza in quel luogo. Ricordo, ad esempio, che nella fase di formulazione del contratto legale parlo di ‘ricompensa’ invece di ‘onorario’, ad indicare come il mio Bambino abbia preso il sopravvento sull’Adulto. Dunque, tutt’altro che neutrale, partecipo, eccome, assieme alla mia paziente, al processo analitico che si sta avviando, mettendo in campo il mio controtransfert proattivo, il mio sistema di valori, oltre ai miei sentimenti, come nel momento in cui, entrando nella casa, porgo la mano sorridendo e scelgo di presentarmi semplicemente come ‘Francesca’. Durante il colloquio Ilaria mi parla apertamente di sé. Da diverso tempo ‘vorrebbe’ separarsi dal marito ma lui non accetta. Quando si è sentita male aveva avuto una lunga ed estenuante discussione con lui, secondo Ilaria il vero responsabile di ciò che le è accaduto. Le domando come posso aiutarla; risponde che vuole un sostegno nel percorso che sta per intraprendere di separazione dal marito e lavorare sul ‘rafforzamento del proprio carattere’.

Racconta poi l’esperienza traumatica dell’infarto, l’eterno viaggio in ambulanza verso

Firenze, l’angoscia sul volto dei suoi familiari e l’agitazione convulsa dei medici che si muovevano intorno a lei. Da qui la paura di non arrivare in vita fino all’ospedale, il terrore di non rivedere più i suoi bambini, lo sgomento di fronte all’anticipazione della fine. Ilaria è come stupita di esserci ancora e di poter raccontare questa tragica esperienza.

Al termine del colloquio è già abbozzato un principio di relazione, perché c’è stata inter-

azione nel campo transizionale in divenire: mi sento, infatti, preda di una serie di sentimenti intensi e caotici fra i quali non riesco più a distinguere ciò che è mio da ciò che invece è una proiezione della paziente. Tornando a casa, pervasa da un acuto disagio e da un senso di

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profonda angoscia, mi chiedo se per caso non ho sbagliato professione (o la paziente ha sbagliato terapeuta!). Ogden (in Mitchell, 1997) spiega il perchè del mio sentire e delle mie conclusioni:

Sia per l’analista che per il paziente, il pericolo che il primo colloquio comporta sorge prevalentemente dalla prospettiva di un nuovo incontro con il proprio mondo interno e con il mondo interno di un’altra persona. E’ sempre una faccenda pericolosa agitare i profondi recessi della mente inconscia. Questa angoscia viene regolarmente misconosciuta dai terapeuti alle prime armi, e viene trattata come se fosse paura che il paziente abbandoni il trattamento; in realtà il terapeuta è spaventato dall’idea che il paziente resti (pag. 138, corsivo mio). La distanza tra me e Ilaria si è improvvisamente annullata quando, per effetto

dell’identificazione proiettiva, la sua angoscia è divenuta la mia angoscia. In questa fase la mia funzione è quella di ‘modulare’, ‘contenere’, ‘modificare’ il profondo dolore della paziente affinché essa possa reinteriorizzarlo elaborato. E’ a conclusione di tale processo che si ripristinerà una ‘distanza sufficientemente buona’ tra me ed Ilaria. E’ a conclusione del medesimo processo che la paziente sarà in grado di ‘guardare’ con distanza al proprio vissuto traumatico a partire dallo stato dell’Io Adulto. Inoltre, come dice Hoffman:

Anche se non abbiamo la possibilità di cambiare l’esperienza vissuta in qualsiasi determinato momento, possiamo fare scelte che influiscono sul significato che ha per noi quel momento, pensandolo retrospettivamente…di fronte alla schiacciante realtà della morte, ciò che rimane è un bisogno di distogliersi abbastanza per affermare la vita’ (pp. 250-255). Si muore ma si può scegliere di vivere nel frattempo. In questo percorso accompagno la mia paziente; di più, costruisco insieme a lei il ‘castello di sabbia’, uno spazio protetto dal non senso, delle mura che custodiscano dal nulla che sta intorno, all’interno delle quali valga la pena darsi da fare per trovare un nuovo modo di stare al mondo.

Da quel momento la relazione si è sviluppata nel tempo e diversi obiettivi sono stati

raggiunti. Ad esempio, dopo due mesi di terapia abbiamo cominciato a vederci nel mio studio, a dimostrazione delle buone condizioni fisiche della paziente e della sua indipendenza. Ricordo ancora la sua soddisfazione di essere riuscita a venire, miscelata all’imbarazzo di sentirsi per la prima volta ‘mia ospite’. Ilaria adesso è più ‘bella’. E’ infatti più curata nell’aspetto, ride più spesso, fa progetti. Con il tempo però risulta sempre più chiaro come essa alterni momenti di adattamento, in cui ascolta attentamente i miei interventi, mi ringrazia immancabilmente a fine seduta, si accerta che io ci sia nel caso in cui abbia bisogno di me durante la settimana, ad altri di ribellione, in cui agisce continue svalutazioni e persistenti attacchi alla terapia, arrivando in ritardo, annullando un appuntamento senza una reale motivazione, sostenendo di aver trovato un amico che mi potrebbe rubare il lavoro perché è ‘proprio uno psicologo’. Con il tempo questa modalità contro-dipendente di Ilaria è divenuta più frequente, fino a quando mi telefona per annunciarmi che ‘deve’ interrompere la terapia perché non ha più soldi. Abbassato il telefono, mi sento presa dall’urgenza di comprendere dove e cosa ho sbagliato, poi emerge preponderante in me la rabbia come sentimento controtransferale. Sento di aver bisogno di una supervisione per elaborare quello che è successo. Con l’aiuto del supervisore attivo il mio Adulto e prendo le

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distanze dal mio vissuto emotivo. Comprendo in questo modo come sia fondamentale accogliere e rispettare la decisione della paziente perché, così facendo, agisco diversamente da sua madre che si è sempre comportata scoraggiando qualsiasi sforzo della figlia verso l’autonomia e la competenza. Quando vedo Ilaria nella prima delle tre sedute di separazione verifico l’ipotesi formulata in supervisione. Poiché secondo Racker il modo migliore di esplorare (e stimolare, secondo la Clarkson) il transfert del paziente è esplorare le sue fantasie circa il controtransfert dell’analista, chiedo ad Ilaria: ‘Che fantasia ti eri fatta sulla mia reazione quando hai pensato di interrompere la terapia?’. Lei mi risponde visibilmente commossa4: ‘Pensavo che ti saresti arrabbiata con me, invece mi hai accolto con il sorriso sulle labbra’. Bingo!

Tre settimane dopo il nostro ultimo incontro Ilaria mi telefona dicendo che ha bisogno di

vedermi. Tuttavia prima rimanda, poi annulla, infine fissa nuovamente l’appuntamento con me almeno un paio di volte. Mi sento in mare aperto: da balia della paziente mi ritrovo in balìa della paziente (Giusti). Al termine dell’ultima telefonata mi sento arrabbiata di fronte a questa sua ambivalenza. Ma di chi è quella rabbia? E’ la mia rabbia o è la sua rabbia? Sembra che sia in corso un duello tra me e lei nel ‘regno del tra’, laddove ciò che è mio si mescola a ciò che è suo, in un amalgama di ‘là e allora’ e ‘qui e ora’. Mi vengono in mente le parole di Calvino in Una notte di inverno un viaggiatore: Cerco inutilmente di stringere nel groviglio di membra… contrapposte ed identiche, quei fantasmi…che svaniscono nella loro diversità irraggiungibile, e cerco allo stesso tempo di colpire me stesso, forse l’altro me stesso che sta per prendere il mio posto nella casa oppure il me stesso più mio che voglio sottrarre a quell’altro, ma ciò che sento premermi contro è solo l’estraneità dell’altro, come se già l’altro avesse preso il mio posto e qualsiasi altro posto (pag. 44).

Attivando il mio Adulto posso analizzare la vicenda da una distanza sufficiente per comprendere che il mio controtransfert deriva dal meccanismo dell’identificazione concordante (o del ‘rivolgimento del passivo in attivo’, nel linguaggio di Weiss), cioè per effetto della proiezione di una parte di Ilaria, sperimento sentimenti che il suo Bambino più o meno inconsciamente prova (non mi sento ok, non mi sento di valere, non mi sento importante), mentre la mia paziente assume il polo genitoriale, sperando a livello inconscio di non ostacolare od opprimermi come lei è stata ostacolata e oppressa dal comportamento parentale. Perciò è fondamentale trovare un equilibrio, un’equidistanza tra divenire effettivamente ciò che la paziente vuole che io divenga e rifiutare tale identificazione: se divengo totalmente ciò che lei necessita non posso esserle di aiuto perché non sono più in grado di utilizzare il mio pensiero, se non accetto almeno in parte di assumere quella funzione ‘non sto in relazione’. Come sostiene Gabbard ‘lo stato della mente ottimale per i terapeuti si realizza quando si lasciano ‘risucchiare’ nel mondo del paziente mantenendo nello stesso tempo la capacità di osservare ciò che sta accadendo davanti ai loro occhi. In un simile stato, i terapeuti stanno effettivamente pensando i propri pensieri, anche se sono in qualche modo sotto l’influenza del paziente’ (pag. 461).

Durante il periodo di interruzione della terapia con Ilaria, un episodio, cui ho partecipato

mio malgrado, mi ha permesso di gettare nuova luce su questo ‘caso’. Mi trovo in compagnia di

4 Massi mi ha ricordato che secondo Weiss la chiara espressione di un sentimento, di qualunque natura esso sia, da

parte del paziente in seguito ad un intervento del terapeuta indica il superamento del test da parte di quest‟ultimo.

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due colleghi, quando la mia paziente prova a chiamarmi perché sentiva il bisogno di rivedermi. Poiché non c’è sufficiente segnale, decido che le avrei telefonato la mattina successiva (in quell’occasione Ilaria mi chiederà un incontro perchè ‘ha bisogno di parlarmi’). Quando rivedo i miei colleghi mi domandano notizie sulla paziente. Ci troviamo in una situazione di piacevole benessere dopo aver gustato un’ottima cena. Mi rendo subito conto di rispondere alle loro domande agendo sotto la duplice spinta del ‘compiaci’ e dello ‘sforzati’. Mi sento improvvisamente catapultata da un comodo sdraio da giardino ad una sedia calda in una stanza di supervisione. Provo fatica nel tentativo di risultare competente e sicura presentando un quadro chiaro della mia paziente e di me in relazione a lei. Mi sento incalzata dai loro quesiti, ai quali inizialmente tento di rispondere cercando di fare chiarezza; questo però immancabilmente non succede. Al contrario la confusione aumenta in me di pari passo alla rabbia che provo per i colleghi che mi pare vogliano dimostrare la mia inadeguatezza e la mia inefficacia: in fondo Ilaria è in terapia da diversi mesi e io mostro di non aver capito proprio nulla della sua situazione. Piano piano mi arrendo, fino a limitarmi a replicare con un arrendevole ‘non lo so’. Si è fatto tardi e i colleghi se ne vanno. Quando mi ritrovo sola comprendo subito che Ilaria si doveva sentire con me esattamente come io mi ero sentita con loro.

Come spiega la Clarkson il campo interpersonale co-costruito da paziente e terapeuta vive

in parallelo nel processo di supervisione e il terapeuta sperimenta un’identificazione temporanea con il paziente: la super-visione (‘vedere da sopra’ letteralmente) offre l’opportunità di uscire momentaneamente dal campo di azione e di inter-azione co-costruito con il cliente, ma ciò accade perché prima tale campo dinamico viene riproposto. Non si può dunque prescindere dall’identificazione per giungere alla trascendenza che produce comprensione. Riflettendo sui colloqui con la mia paziente, mi sono accorta come, al pari dei miei colleghi nei miei confronti, la incalzavo di domande, trascuravo di cogliere la sua confusione e il suo disagio e mi concentravo esclusivamente su quanto, ai miei occhi, avesse a che fare con la separazione dal marito, cioè l’obiettivo che ci eravamo prefissate di raggiungere con la terapia. Ripensando ad Ilaria, il mio sguardo si ferma sulla stampa del Grido di Munch che ho sulla parete di fronte alla mia scrivania. Improvvisamente capisco che stavo ostinatamente concentrandomi sulle barche nello sfondo della tela (la separazione dal marito) e facendo così perdevo di vista, non ascoltavo cioè, il grido di sofferenza che la mia paziente cercava in ogni modo di porre in primo piano. Comprendo ora che aver accettato il contratto così come Ilaria me lo ha proposto è stato un mio errore; anzi, è stato un errore da parte mia aver utilizzato questo strumento come semplice contenuto e non come processo. L’ho lasciato così, nella mia mente, senza provvedere al suo accomodamento (in senso piagettiano del termine) in itinere, in base alle nuove informazioni che assimilavo della mia paziente.

Con-centrarsi sulla separazione è stato sicuramente un muoversi nel campo transizionale

unico e irripetibile co-creato dalla paziente e da me… ma nella direzione sbagliata! Molto probabilmente mi sono lasciata ‘risucchiare’ nel mondo della paziente perdendo la capacità di osservare ciò che stava accadendo da una distanza sufficiente per mantenere la capacità di ‘pensare i miei pensieri’. Ilaria, che presenta un’organizzazione borderline di personalità, piuttosto (o comunque) prima di separarsi (basti pensare che quando Ilaria si è trovata concretamente di fronte a questa possibilità ha di fatto prima ‘agito’ l’infarto, poi l’interruzione della terapia), dovrà imparare ad instaurare relazioni stabili e durature con altri significativi. Il lavoro con la paziente pertanto verterà in primo luogo sull’individuazione e sul sorgere della

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costanza oggettuale. Attraverso l’integrazione delle parti scisse di Sé, Ilaria potrà ‘crescere’ senza temere la ritorsione da parte di un oggetto persecutorio ed aggressivo.

Poiché secondo Kernberg (2000) i borderline presentano una fissazione alla fase del

riavvicinamento della Malher, l’allontanamento dalla terapia può assumere il significato di ‘test’ effettuato dalla paziente per misurare la mia affidabilità: se al suo ritorno sarò lì ad aspettarla avrò superato la prova e questo costituirà la prima possibilità di interiorizzazione di un legame sicuro. Con il mantenimento della relazione terapeutica, già curativo di per sé per questa tipologia di pazienti, potrò divenire una base sicura per Ilaria e lei, a sua volta, lo potrà essere per i suoi figli.

Quando finalmente vedo la mia paziente, mi sento rilassata, curiosa di ascoltarla. Ilaria

entra sorridendo, si lascia andare sulla sua poltrona ed esclama “finalmente!”. Mi tornano in mente le parole di Anna Massi che durante l’ultima supervisione mi ha detto: ‘a volte, è proprio quando si conclude che i pazienti si fanno una nuova idea della terapia’. Ilaria è tranquilla. Questo è la sua ultima seduta eppure sembra che per la prima volta abbia scelto di venire da me. Durante il colloquio le verbalizzo di aver sperimentato rabbia perchè ho letto come mancanza di rispetto nei miei confronti le sue continue richieste di aiuto e gli appuntamenti inevitabilmente annullati subito dopo. Facendo questo mi rendo conto di quanto sia vero ciò che dice Hoffman:

Come terapeuti partecipiamo come intimi compagni alla lotta che pazienti ingaggiano con la propria conflittualità e alle loro scelte tra, e ai loro sforzi di realizzare, le molteplici potenzialità di intimità e autonomia, di identificazione e individualità, di lavoro e di gioco, di continuità e cambiamento’ (pag.118)

Proprio in quanto ‘intima compagna’ nella lotta intrapresa da Ilaria, ho potuto utilizzare il

mio ‘coinvolgimento’ emotivo e la sua esplicitazione. Questo mi ha consentito di dare alla mia paziente il permesso di pretendere essa stessa rispetto e di rifiutare le continue svalutazioni di cui è spesso oggetto da parte di altri significativi e non.

Quando finisco di parlare, Ilaria mi sorride e mi dice di aver capito. Al termine della

seduta, di fronte alla porta mi abbraccia, mi ringrazia di esserci e di volerle bene “perché se ti sei arrabbiata significa che tieni a me”, mi dice.

A settembre Ilaria ha ripreso i colloqui. Adesso sento che c’è un’alleanza terapeutica tra

me e lei. A questo punto della terapia la paziente riconosce come egodistonici certi suoi atteggiamenti autodistruttivi come quello di avere rapporti sessuali indiscriminati e promiscui. Per effetto di una sorta di alfabetizzazione emotiva è in grado di parlare delle emozioni evidenziandone le differenze e le varie sfumature, le distingue, le dà un nome, ne riconosce la valenza positiva, ‘ci sta’, non le rifugge automaticamente. Ho stipulato con Ilaria un nuovo contratto che mira alla possibilità per lei di contenere gli impulsi, evitare gli agiti, rafforzare e recuperare la dimensione cognitiva oltre che emotiva, attivare l’Adulto per pensare a quello che le sta succedendo, riflettere sul proprio vissuto emotivo. Oltre che per imparare ad usare il computer! Domani, infatti, Ilaria comincerà il suo nuovo corso.

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BIBLIOGRAFIA

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