Riflessioni sul relativismo
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Canovaccio per una riflessione sul relativismo
di Roberto Paracchini
Una definizione. L’enciclopedia Treccani alla descrizione della voce
“relativismo” antepone la seguente definizione: “Concezione fondata
sul riconoscimento del valore soltanto relativo, e non oggettivo o
assoluto, sia della conoscenza, dei suoi metodi e criteri, sia dei
principi e dei giudizi etici, variando tutti da individuo a individuo,
da cultura a cultura, da epoca a epoca”. Il relativismo ha percorso la
storia della cultura e della riflessione sulle scienze. Di seguito alcuni
cenni (parziali) si questo itinerario e relativo dibattito, tutt’ora
aperto.
Il senso comune. “208. Ho una conversazione telefonica con New
York. Il mio amico mi informa che le sue pianticelle hanno certi
boccioli così e così. Ora sono convinto che le sue pianticelle sono…
Sono anche convinto che la Terra esiste?
209. Che la Terra esiste, è piuttosto una parte dell’intera immagine
che costituisce il punto di partenza della mia credenza…
214. Che cosa m’impedisce di supporre che questo tavolo, quando
nessuno lo sta guardando, scompaia, o cambi la sua forma o il suo
colore e poi, quando qualcuno ritorna a guardarlo, ritorni al suo stato
primitivo? Ma chi mai supporrà una cosa del genere? – si vorrebbe
2
dire” (Ludwig Wittgenstein, Della Certezza, Torino, Einaudi, 1978,
pagina 35, 36).
L’ultimo Wittgenstein, a cui appartiene Della Certezza, affronta il tema
del “senso comune”, tema in cui il filosofo austriaco evidenzia un
sistema di convenzioni, regole e codici linguistico concettuali con cui
normalmente ordiniamo le nostre esperienze: un codice per i
comportamenti umani che non punta a una legittimazione razionale,
nel senso di necessariamente consequenziale, ma alla constatazione
del suo valore di bussola sociale. In questo caso il “senso comune” è il
prodotto di una sedimentazione storica (quindi delimitata nel tempo e
nello spazio) che, permettendo di vivere la quotidianità dell’esistenza,
diventa “l’elemento di verità” (non in senso ontologico) della comunità
che utilizza quella lingua. Così come – si potrebbe affermare - per il
“senso comune” di una forma di vita acquatica è l’Acqua e non la Terra
“l’elemento di verità” (seppure istintivo). Una posizione (quella del
Wittgenstein della Della Certezza) considerata all’interno dell’area del
relativismo epistemico, in cui non si nega che vi siano diversi criteri
per giudicare “vera” una proposizione, ma si nega che possano esservi
meta criteri in grado di dare una priorità (superiore o inferiore) agli
stessi criteri di verità. In precedenza nel Tractatus logico-
philosophicus Wittgenstein aveva, invece, elaborato addirittura una
teoria “raffigurativa” del linguaggio, per cui la verità diventa una
relazione isomorfica (di corrispondenza biunivoca) tra linguaggio e
realtà, enunciati e fatti. In questo momento però ci interessa Della
Certezza.
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Il relativismo epistemico. “Per il relativista epistemico non ci sono,
ad esempio, principi che consentano di stabilire la superiorità dei
metodi della scienza post-galileiana su quelli della fisica medievale”,
spiega il filosofo della scienza Diego Marconi (Per la verità, Torino,
Einaudi, 2007, pagina 52). Mentre sarebbe abbastanza facile
argomentasre la superiorità scientifica dei criteri post-galileiani, non
tanto perché Galilei abbia messo a punto un metodo organico - il suo
fu un bricolage in cui entravano sia Aristotele che Pitagora e
Archimede (itinerario attentamente scandagliato in Molte nature,
Enrico Bellone, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2008, pagine 69-
109) - quanto per la capacità dello scienziato pisano di articolare
istanze diverse diventate poi teorie in grado di spiegare un numero di
fenomeni maggiore delle teorie precedenti. Il relativista epistemico
potrebbe, però, obiettare che si gioca a carte truccate visto che le
nostre argomentazioni presuppongono direttamente o indirettamente
i criteri post-galileiani (ovvero quelli di cui dovrebbero dimostrare la
superiorità). In questo caso, per uscire dall’impasse, è importante
portare la riflessione dalle singole teorie al quadro storico.
Lo scettico. La posizione spesso citata quando si parla di relativismo
è quella scettica. In termini teorici, lo scettico radicale non è tanto chi
considera incerte le nostre conoscenze o si pone dubbi sulla loro
attendibilità come verità, quando chi punta all’illegittimità di qualsiasi
verità, come se dicesse: “La terra è rotonda?, certamente, ma chi mi
garantisce che io e il mondo in cui vivo non siano altro che un sogno,
oppure che non siano altro che un sofisticato algoritmo implementato
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in un computer?”. A prima vista si tratta di un discorso paradossale,
ma solo in apparenza. Vediamo. Lo scetticismo si fa risalire a Gorgia di
Lentini (V secolo a.C.). Nel suo scritto Del non essere o della natura
afferma “1) nulla esiste; 2) se anche alcunché esiste, non è
comprensibile all’uomo; 3) se pure è comprensibile, è per certo
incomunicabile e inspiegabile agli altri” (AA.VV. Filosofia antica,
Raffaello Cortina Editore, Milano, 2005, pagina 82). Il suo obiettivo
polemico era l’identificazione tra le parole e le cose. In pratica “la
spaccatura che separa le parole dalle cose rende vano ogni discorso
sulla verità intesa come conformità tra logos e realtà. Il che (…) non
conduce alla negazione della realtà esterna, ma alla consapevolezza
della sua problematicità” (op. cit., pagina 81). In pratica “gli uomini si
trovano di fronte a una realtà indifferente a cui devono dare un
significato con l’ausilio del solo logos, che a sua volta è sempre altro
dalla realtà stessa. In questo sta la drammaticità della condizione
umana: non ci sono significati già dati” (ibidem). Un quadro, questo, in
cui il linguaggio assume un ruolo principe in quanto mezzo con cui si
costruiscono i significati (come si evince dall’opera di Gorgia Encomio
di Elena). Tornando ora al sogno, in rapporto all’elaborazione di un
paradigma conoscitivo, l’essere dentro un sogno o meno è ininfluente,
mentre questa situazione diverrebbe determinante in funzione di una
verità intesa in senso ontologico, come “cosa in sé”.
Un problema linguistico. L’abbandono del discorso ontologico sulla
verità (o il suo relativizzarsi, spostandolo, in contesti specifici – in
seguito vedremo il relativismo concettuale) è un tema che sta spesso
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sullo sfondo dei dibattiti sul relativismo. Schematizzando si può
affermare che chi considera l’ontologia (inteso come problema
dell’essere a cui, in questo caso, vengono dati i predicati tradizionali
della scolastica medievale, tra cui l’unicità) come conditio sine qua non
di qualsiasi discorso sulla conoscenza valuta come relativisti (nel
senso di incapaci di avere punti di riferimento) coloro che questo
discorso non lo praticano. Tra questi ultimi va ricordato Rudolf
Carnap (1891-1970) che non esclude la possibilità di una verità, ma
pone quest’ultima su un piano linguistico, svincolandola da
considerazioni di concordanza con una realtà oggettiva. In questo
contesto, con una verità che “proviene” dal (o “ridotta” che dir si
voglia al) linguaggio e dalle (alle) sue regole, diventa privo di
significato il discorso sulla verità come problema di corrispondenza
tra logos (strutture linguistiche, in questo caso) ed essere (strutture
extra linguistiche). Un’impostazione, questa, che può anche essere
considerata come uno scambio di piani: trasferisce (o identifica) nel
linguaggio il valore di realtà oggettiva. Il che non esclude, però, l’onere
di spiegare questo reale. Ovvero di organizzare proposizioni che diano
conto dei fenomeni, pur ridotti a fenomeni linguistici.
L’uomo come misura. In rapporto al discorso gnoseologico un cenno
va fatto anche a Protagora di Abdera (V secolo a.C.), da diversi studiosi
considerato il primo relativista e conosciuto soprattutto per i dialoghi
di Platone (428-347 a. C.). La sua frase più nota è “l’uomo è misura di
tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono
in quanto non sono”. In sintesi: ognuno è giudice ultimo delle sue
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conoscenze. Quindi “la verità non è oggettiva, ma soggettiva: la
conoscenza accade nell’uomo, non fuori di lui” (ibidem, pagina 66). A
queste considerazioni vanno poi aggiunti i criteri di utilità e di
efficacia che armonizzano i rapporti tra l’individuo e la collettività.
La Verità. La parola “verità”, dal latino veritas-atis, astrazione di
verus, vero, significa “meritevole di essere creduto”. Il che non
necessariamente comporta la corrispondenza tra logos e cose o
“l’adeguazione dell’intelletto e della cosa” come afferma Tommaso
d’Aquino (1225-1274) nella Summa Theolgiae e, in precedenza,
Aristotele (384-322 a. C.) quando precisa nella Metafica, che la verità è
la conformità di una proposizione alla realtà dei fatti: una
dichiarazione è vera se i fatti sono come essa li descrive, è falsa in caso
contrario. A questo punto è interessante notare che anche altre due
ipotesi sulla verità hanno avuto (e hanno tuttora) un ruolo negli ultimi
due secoli: coerenza e utilità. Per la coerenza citiamo: il filosofo inglese
Francis Herbert Bradley (1846-1924) in cui il monismo idealistico, in
cui soggetto e oggetto diventano un unicum perfettamente coerente,
produce l’unica verità-assoluto; e il neopositivista Otto Neurath
(1882-1945) che elabora una considerazione puramente sintattica
della verità in cui è centrale stabilire relazioni sempre più coerenti tra
le diverse proposizioni elementari, quelle che protocollano i fatti allo
stato puro (“scrostati” da elementi soggettivi tipo “io penso”, “cerco”,
“faccio” ecc.). Tra le ipotesi di verità come utilità segnaliamo: il padre
del pragmatismo Williams James (1842-1910) che identifica utilità e
verità solo nelle credenze non verificabili empiricamente, credenze
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morali e religiose; e John Dewey (1859-1952) che sottolinea la
strumentalità di ogni procedura conoscitiva ai fini del
perfezionamento della vita umana, per lui ragionare è uno strumento
(da cui lo strumentalismo) per elaborare l’esperienza.
Le giustificazioni. In questo brevissimo excursus sul concetto di
verità va ricordato il logico matematico Alfred Tarski (1902-1983):
posto che il termine vero va riferito solo a enunciati e non a fatti e
cose, “p è vero se e solo se p”. E va menzionata anche l’idea di verità
come asserzione giustificata (argomentata), di cui si danno tre forme.
Le prime due non reggono al vaglio della storia: giustificazioni che si
basano su argomentazioni false e deliranti (quelle date dai nazisti e
relative al “complotto ebreo contro la Germania”); e giustificazioni
derivate in modo convincente da premesse plausibili (la teoria
tolematica del moto dei pianeti, che aveva dalla sua osservazioni
astronomiche e calcoli raffinati). Le terza giustificazione, che ingloba il
concetto di verità in stile tarskiano, è considerata valida dai difensori
del concetto di verità (intesa come verità che, in quanto tale, non può
che essere oggettiva). Vediamola: le argomentazioni valide e corrette
sono giustificazioni delle loro conclusioni, “ma che cos’è
un’argomentazione valida? E’ un’argomentazione la cui forma è tale
che, se le premesse sono vere, lo sono anche le conclusioni. E che cos’è
un’argomentazione corretta? E’ un’argomentazione valida le cui
premesse sono vere” (Diego Marconi, op. cit., pagine 11, 13).
I rapporti tra le teorie. Nel procedere delle scienze, si trovano una
serie di proposizioni considerate leggi come, nella fisica classica (Isaac
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Newton – 1642-1727), il secondo principio della dinamica: F=ma
(forza uguale massa per accelerazione). Oppure nella relatività
ristretta (Albert Einstein - 1879-1955): E=mc2 (energia uguale massa
per velocità della luce al quadrato). Entrambe le formule funzionano:
in determinate condizioni rispondono sempre alle aspettative. Allora,
si potrebbe dire, sono vere nel senso ontologico di predicati
dell’essere, della realtà. O, ancora meglio, mostrano una
corrispondenza tra logos (linguaggio della fisica, in questo caso) e
realtà. Sono quindi verità eterne e non scalfibili? Non necessariamente
visto anche che E=mc2 afferma che quando un corpo è a riposo ha
comunque energia sotto forma di massa, al contrario di quanto
previsto dal sistema newtoniano, secondo il quale un corpo libero
fermo è privo di energia. Eppure la meccanica di Isaac Newton
funziona. Le questioni sono un po’ più articolate di una semplice
antinomia vero/falso. Infatti “dopo la teoria della relatività ristretta di
Albert Einstein (1905), la meccanica di Isaac Newton non ha smesso di
valere, semmai ha visto ridotto il suo campo di validità (per velocità
molto basse rispetto alla velocità limite della luce)” (Giulio Giorello,
Relativismo, sta in Laicità a cura di Giovanni Boniolo, Einaudi, Torino,
2006, pagina 234). Se si ricostruisce il procedere degli scienziati si
vede come anche le cosiddette leggi nascono da un faticoso bricolage e
da una forte componente immaginativa, da gioco e caparbietà, da
ipotesi e dispute.
Per via “furiosamente speculativa”. Einstein parla elaborazione
delle teorie per via “furiosamente speculativa” in una lettera a Max
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Born (1882-1970) in cui esprime le sue perplessità sulla meccanica
quantistica. Premesso che Born ha avuto il premio Nobel per la
fisica nel 1954 e che l’ha ricevuto, in particolare, per la sua
interpretazione probabilistica della funzione d'onda nella meccanica
quantistica e che il padre della relatività non amava questa
interpretazione (che è anche quella attualmente maggioritaria),
nella lettera del maggio del 1944 Einstein scrive: “Le nostre
prospettive scientifiche sono ormai agli antipodi tra loro. Tu ritieni
che Dio giochi a dadi col mondo; io credo invece che tutto obbedisca
a una legge in un mondo di realtà obiettive che cerco di cogliere per
via furiosamente speculativa. Lo credo fermamente, ma spero che
qualcuno scopra una strada più realistica – o meglio un fondamento
più tangibile – di quanto non abbia saputo fare io. Nemmeno il
grande successo iniziale della teoria dei quanti riesce a convincermi
che alla base di tutto ci sia la casualità, anche se so bene che i
colleghi più giovani considerano quest’atteggiamento come un
effetto di sclerosi” (Einstein-Born, Scienza e vita. Lettere 1916-1955,
Einaudi, Torino, 1973, pagina 176). Un passo significativo perché
mostra, tramite uno degli scienziati più autorevoli che l’umanità
abbia mai avuto, quanto di passione, carne e sangue vi sia nel
procedere scientifico. Il che non esclude, sia chiaro, il suo
progredire né, come dimostra la storia, che tutte le teorie siano
equipollenti. Oggi sessant’anni di esperienza dicono che la
meccanica relativistica funziona nel macrocosmo, mentre la
quantistica (col suo incedere probabilistico) nel microcosmo. E ci
racconta anche le difficoltà (per il momento non risolte) di unificare
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le due teorie in una che le comprenda entrambe. Ma questo è un
altro discorso, a noi interessa il procedere scientifico.
La scienza fragile. Secondo il matematico Bruno de Finetti
(1906-1985) quelle che definiamo leggi naturali sono eventi “di cui
attendiamo con certezza pratica il verificarsi” (citato in Giulio
Giorello, ibidem). Ma una legge naturale non si ripete all’infinito?
Per de Finetti quel che si può dire è “io prevedo che il tale fatto
avverrà nel tal modo, perché l’esperienza del passato e
l’elaborazione scientifica cui l’elaborazione dell’uomo l’ha
sottoposta mi fanno sembrare ragionevole questa previsione”
(ibidem). Insomma (e de Finetti, che afferma quanto segue nel
1935, ha di mira il neopositivismo di Carnap) “non si tratta per noi
di porre la Scienza su basi più solide, ma semplicemente di
riconoscere quanto tali basi siano fragili” (Bruno de Finetti,
L’invenzione della verità, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006,
pagina 124). Ma niente disfattismo, tanto meno sottovalutazione
delle scienze. Il problema è che, continua de Finetti, “dobbiamo
inventare il mondo per inquadrarvi le nostre sensazioni, ma non
dovremo mai considerarlo come uno schema rigido e fisso, come
una costruzione definitiva: esso non è che il risultato provvisorio di
uno sforzo di sintesi. Le nostre sensazioni, i nostri concetti
fondamentali, a cominciare da quelli di spazio e tempo, non saranno
mai i protagonisti di una commedia finita ove ciascuno ha la sua
parte e il suo ruolo, saranno sempre i sei personaggi in cerca
d’autore” (Bruno de Finetti, ibidem).
11
Tra congetture e confutazioni. Il bello del procedere
scientifico, si potrebbe dire, sta proprio in questo inventare il
mondo comprendendolo. Si potrebbe dire tramite Congetture e
confutazioni, come titola un libro di Karl Popper del 1969. Ma
questo non deve trarre in inganno, non significa abdicare alla
conoscenza, né sottovalutare il valore delle teorie: “Il nostro scopo,
in quanto scienziati - afferma Popper, uno dei maggiori filosofi della
scienza del XX secolo, considerato anche lui un relativista – è di
scoprire la verità circa il problema in esame; e dobbiamo
considerare le teorie come seri tentativi per trovare la verità” (Karl
Popper, Congetture e confutazioni, il Mulino, Bologna, 1972, pagina
421). Armati quindi non solo – in stile euclideo – di squadra e
compasso, ma di fantasia e spirito critico. Infatti “Non abbiamo
alcun motivo per ritenere la nuova teoria migliore dell’antica – o di
credere che sia più vicina alla verità – fino a che non abbiamo
derivato dalla nuova teoria nuove previsioni, che non potevano
ottenersi dalla vecchia (le fasi di Venere, le perturbazioni,
l’equazione massa-energia) e fino a che non abbiamo riscontrato
che queste nuove previsioni sono valide. Soltanto tale successo,
infatti, mostra che la nuova teoria comportava conseguenze vere
(cioè, un contenuto di verità) mentre le vecchie teorie
comportavano conseguenze false (cioè, un contenuto di falsità)”
(Karl Popper, op. cit., pagina 422).
Le culture. Interessante e funzionale al discorso sul procedere
scientifico è anche il cosiddetto relativismo concettuale.
Semplificando: non si può parlare di stati quantici nel linguaggio
12
della filosofia naturale del rinascimento, così come non è possibile
parlare di simpatia come concetto teoricamente probante nella
fisica moderna. I due sistemi fanno riferimento a una serie di
differenti impalcature concettuali che non includono le proposizioni
accennate. Detta in altri termini: è difficile pensare che la filosofia
naturale rinascimentale sia in grado di acquisire gli stati quantici
senza smantellare la maggioranza delle sue maglie categoriali. Idem
per la fisica moderna in rapporto al concetto di simpatia. Altro
esempio: il concetto di sviluppo è come incastonato nella maggior
parte delle teorie economiche legate all’economia di mercato. Ma
esistono lingue, come la moré, un idioma niger-kordofaniana parlato
dai mossi (è diffuso principalmente nel Burkina Faso, dove si contano
circa cinque milioni di parlanti), dove “non si è trovato un
equivalente” linguistico “per descrivere il concetto in questione
(quello di sviluppo – ndr)” (Marco Aime, Prefazione a Il tempo della
decrescita di Serge Lautouche e Didier Harpagès, elèuthera, Milano,
2011, pagina 17). Anche in questo caso l’inserimento del concetto di
sviluppo nei moré non sarebbe semplicissimo senza, a monte, una
modifica della struttura sociale e, quindi, concettuale del contesto dei
parlanti.
Il progresso debole. “Lo sviluppo delle conoscenze preistoriche e
archeologiche – spiega l’antropologo Lèvi Strauss (1908-209) - tende a
disporre nello spazio forme di civiltà che eravamo propensi a
immaginare come successive nel tempo. Il che significa due cose:
anzitutto che il progresso (se questo termine è ancora adatto a
13
designare una realtà diversissima da quella a cui era stato in un primo
tempo applicato) non è né necessario né continuo; procede a salti, a
sbalzi, o, come direbbero i biologi, per mutazioni” (Lèvi Stauss, Razza e
storia. Razza e cultura, Einaudi, Torino, 2002, pagina 21). Non si vuole
qui entrare nel discorso del relativismo culturale in generale, ma
sottolineare l’apporto che l’etnologia ha dato alla rimodulazione del
concetto di progresso (anch’esso coinvolto nella nozione di verità e di
relativismo). Sebbene in questo ultimo secolo le scoperte scientifiche
siano cresciute in modo spesso esponenziale, le considerazioni che
seguono possono essere considerate funzionali – rendendo Lèvi
Strauss di grande modernità e attualità - anche per il procedere
scientifico nel suo complesso: “L’umanità in progresso non assomiglia
certo a un personaggio che sale una scala, che aggiunge con ogni suo
movimento un nuovo gradino a tutti quelli già conquistati; evoca
semmai il giocatore la cui fortuna è suddivisa su parecchi dadi e che,
ogni volta che li getta, li vede sparpagliarsi sul tappeto, dando luogo
via via a computi diversi. Quel che si guadagna sull’uno, si è sempre
esposti a perderlo sull’altro, e solo di tanto in tanto la storia è
cumulativa, cioè i computi si addizionano in modo da formare una
combinazione cumulativa” (Ibidem). Tornando al relativismo
concettuale, molto presente nella storia delle culture, a ben guardare e
visto che questa impostazione porta a dire non tanto che comunità
umane diverse hanno opinioni (anche scientifiche) diverse, ma che
vivono in mondi diversi in quanto il contesto concettuale crea le
nozioni (o le proposizioni) su cui ci si esprime…; a ben guardare – si
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diceva – il relativismo concettuale diventa paradossalmente il suo
contrario: una forma di ontologia in quanto crea il suo mondo
concettuale, quindi i suoi possibili stati di realtà. E infatti possibile dire
che la proposizione che il sale serve a conservare i cibi aveva senso (o,
se si preferisce, era vera) nella Grecia di Omero; mentre la
proposizione che il sale è cloruro di sodio, no (esempio specifico
citato da Diego Marconi, op. cit., pagina 62; il relativismo concettuale è
argomentato in maniera precisa da Ian Hacking, Ontologia storica, Ets,
Pisa, 2010).
Gli orizzonti del meticciato. Quanto affermato poco prima, sia
chiaro, non significa affatto che non possano esservi delle valutazioni
(dei gradi) sulla maggiore potenza degli universi concettuali, ma – a
parere di chi scrive - che tutti vanno contestualizzati proprio per
capirne meglio le metodologie e, come potrebbe suggerire Strauss,
forzare le varie maglie categoriali per arrivare a contaminazioni e
meticciati virtuosi (si pensi agli attuali sforzi di coniugare la
meccanica relativistica con quella quantistica o alle contaminazioni tra
matematiche un tempo considerate incommensurabili, come quelle
utilizzate per risolvere l’ultimo teorema di Fermat, in cui problemi
delle curve ellittiche vecchi di secoli sono stati trasportati nelle loro
forme modulari e affrontati con nuovi strumenti matematici).
Insomma niente va considerato statico e chiuso, tanto meno le
riflessioni sulle teorie scientifiche (le metateorie e le implicazioni
contestuali). Infatti “l’evoluzione del sapere - afferma Bellone
commentando gli sforzi galileiani per demolire il principio
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copernicano secondo cui l’universo è rappresentato da sfere corporee
– ristruttura continuamente l’ontologia, ovvero il repertorio degli enti
necessari affinché le teorie riescano a spiegare o a descrivere i fenomeni
naturali” (Enrico Bellone, op. cit., pagina 109).