RICORDO DI RAFFAELE MATTIOLI Una sedia vuota a...

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s-j(L)14,0 Lu 's RICORDO DI RAFFAELE MATTIOLI Una sedia vuota a Milano A un anno dalla sua scomparsa, è ancora difficile spiegare tutto ciò che faceva di lui un personaggio insostituibile nell'economia e nella cultura italiana: come diceva scherzando negli ultimi tempi, accennando allo scranno dell'usciere nei corridoi della Banca Commerciale, anche seduto II, sarò sempre il presidente di questa baracca ». Nessuno che l'abbia incontrato sulla sua strada, ha proseguito il cammino con lo stesso passo. A nessuno, che non abbia avuto questo privilegio, si potrà mai chiarire il segreto della sua umanità di Antonello Gerbi M ILANO. Compian- to, si, unanime, — o quasi. Ricono- scimento dei suoi meriti in tanti campi, anche, giu- sto e generoso. Ma il sen- so di vuoto, della mancan- za dell'uomo Mattioli, non s'avverte in quasi nessu- no dei molti scritti in oc- casione della sua morte, e non poteva forse avvertir- si, così, a botta calda. La costernazione, la sorpresa han fatto da censura pre- ventiva al bilancio. Solo oggi, a un anno di distan- za, ci accorgiamo che « c'è un vuoto, c'è un intolle- rando vuoto nell'aria ». Poco importa che aves- se ormai lasciato la Ban- ca cui aveva consacrato per decenni inesauribili energie. Come diceva scherzando negli ultimi tempi, « anche seduto li, —e accennava allo scran- no dell'usciere in corri- doio, — sarò sempre il presidente di questa ba- racca ». Che cosa aveva fatto di Raffaele Mattioli il capo insostituibile che era? Perché ne sentiamo oggi la mancanza, in banca e fuori di banca, nelle fon- dazioni da lui promosse, in casa sua, tra le incom- benti pareti foderate di scaffali, nelle stanze disa- dorne della Ricciardi? La risposta immediata, ov- via, che era un uomo, un uomo completo, non ci può soddisfare. Non a- vrebbe soddisfatto lui, sempre così attento a va- lutarsi e a misurarsi, e ci obbliga a cercare una spie- gazione più sfumata e più aderente. Nemmeno ci possiamo contentare, se non come di una prima approssima- zione, di aggiungere a quel corale riconoscimento di piena umanità il tratto ca- ratteristico (anche se trop- po spesso largito gratui- tamente) di un vero, nior- boso attaccamento al la- voro. E non parlo di « re- ligione del lavoro », per- ché la sua dedizione era molto più che religiosa, anzi era tutta laica, e co- me tale includeva le ne- cessarie e quindi fruttuo- se divagazioni, le ore e ore spese senza badare, nell'ascoltar musica e nel conversare «á bátons rom- pus », con i vecchi amici, si, ma anche con i conta- dini di Nozzole, con gli studenti nelle «affres» del- la laurea, o con gli ester- refatti e incomprensivi banchieri d'oltre oceano. Una singolare passione Quasi leggendaria era la sua assiduità in ufficio, nello stesso isolato in cui aveva la sua casa e la Ric- ciardi. Sempre il sabato, anche dopo che si era adottata in Italia la « pen- tamana », come dileggia- va: quasi sempre la do- menica mattina e nelle fe- ste « comandate » (e quin- di da « non » osservare), sbalordiva i colleghi stra- nieri ligi alle mollezze del week-end ». Occorre aggiungere che, per questo e per far sem- pre molto tardi la sera prima di mettere in li- bertà i suoi collaboratori, era cordialmente detesta- to dalle loro mogli, igna- re del fascino che eserci- tava la sua cara, irrevo- cata « tirannia »? E che alcune osassero anche rin- facciargli l'« odiosa» pre- potenza? Ma erano poi di- sarmate, quando il presi- dente, magari alle otto o alle nove di sera, telefo- nava loro dalla banca: Lei, che conosce tutta la musica a memoria, mi sa dire di chi è questo? », e zufolava la melodia; op- pure: « Si ricorda come si chiaman quelle sigaret- te che mi comprò (tren- t'anni prima!) alla stazio- ne di Vienna? ». Delle ferie di quaranta giorni l'anno, spettanti ai direttori centrali, non ri- cordo abbia mai fatto uso. Né le « perdonava» ai suoi collaboratori. Una volta, uno di questi si pre- se tutte le vacanze cui aveva diritto per contrat- to. Il quarantesimo gior- no, finalmente, invece del direttore, arrivò in banca, sul tavolo di Mattioli, una nota dell'Ufficio Persona- le per informare che il dottor tal dei tali non sa- rebbe rientrato dalle fe- rie, perché proprio l'ulti- mo giorno si era rotto una gamba. « Ben gli sta », annotò Mattioli sen- za titubare. Le ferie, diceva anche, vanno fatte con discrezio- ne. Se uno sciagurato si prende uno scolo, se lo cura, no?... Ma mica va a destra e a sinistra a rac- contarlo a tutti! (E ricor- dava forse il "De morbi gallici curanda ratione" del suo omonimo Pieran- drea Mattioli, il gran na- turalista del '500, a lui fa- miliare, che mori poi di peste come Don Ferran- te...). Anche l'uggia del forza- to riposo per limiti d'età, uggia cui forse soccombet- te, definiva scherzando pensionite », e il pensio- namento stesso, infatti, equiparava a « una pu- gnalata mortale ». Ricordo che una volta, in una bozza della rela- zione, dove c'era il con- sueto, rituale ringrazia- mento al personale, can- cellò la frase anodina con cui il redattore esprime- va l'apprezzamento del Consiglio « a tutti gli im- piegati e funzionari della Direzione Centrale e a quanti lavorano nelle Fi- liali », esclamando: « Bra- vo fesso! Così si dà ra- gione a chi dice che alla Direzione Centrale non si lavora! ». Si è parlato, fin troppo, della sua passione per i ciuchi ». Ciuchi, si badi bene, non asini o somari. Il ciuco, effigiato, narra- to, allegorizzato, era per lui il simbolo della umi- le fatica, della pazienza mal ricompensata, e an- che, e forse soprattutto, del rifiuto di agitarsi e scomporsi: « tutto quel chiasso ei non degnò d'un guardo E a brucar serio e lento seguitò ». Certo, sotto il suo im- pulso, in ogni ufficio del- la banca, centrale e peri- ferico, si lavorava con un impegno singolarissimo, credo unico al mondo. Quando uno sconsigliato propose di creare un uf- ficio di Pubbliche Rela- zioni (che era, tra l'altro, un errore di traduzione: « "Public Relations" vuol dire relazioni con il pub- blico; relazioni pubbliche son quelle delle putta- ne! »), sbottò a dire: « Co- me se tutta la banca non fosse un solo ufficio di pubbliche relazioni"! ». Ma quando gli doman- davano: « Si può sapere come mai Lei, dottor Mat- tioli, che ha fatto eccete- ra eccetera, non è nemme- no Cavaliere del Lavoro?», rispondeva sorridendo: Ma io sono molto di più: sono Cavaliere del- l'Ozio! ». E, se l'interlocu- tore non capiva subito lo sfottò », gli sparava una girandola di estrose e in- credibili improvvisazioni sulle virtù del « dolce far niente » e sulla cretinag- gine degli anglo-sassoni che dicono « Time is mo- ney », come se non fosse vero invece che « Money is time » e quindi la cosa più labile di questo mon- do, e via di questo passo. Magnetismo personale In verità, del tempo, del suo tempo, sapeva fare l'uso più accorto. Alieno già per temperamento dal- le formalità e dai conve- nevoli, prediligeva anche nel discorrere sapide sprezzature lessicali e sin- tattiche. Nella sua bocca, fesso e puttana non ave- van niente di ingiurioso, IL MONDO, 18 luglio 1974. Pagina 28

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s-j(L)14,0 Lu's

RICORDO DI RAFFAELE MATTIOLI

Una sedia vuota

a Milano A un anno dalla sua scomparsa, è ancora difficile

spiegare tutto ciò che faceva di lui un personaggio insostituibile nell'economia e nella cultura

italiana: come diceva scherzando negli ultimi tempi, accennando allo scranno dell'usciere nei corridoi

della Banca Commerciale, anche seduto II, sarò sempre il presidente di questa baracca ». Nessuno

che l'abbia incontrato sulla sua strada, ha proseguito il cammino con lo stesso passo.

A nessuno, che non abbia avuto questo privilegio, si potrà mai chiarire il segreto della sua umanità

di Antonello Gerbi

MILANO. Compian-to, si, unanime, — o quasi. Ricono-

scimento dei suoi meriti in tanti campi, anche, giu-sto e generoso. Ma il sen-so di vuoto, della mancan-za dell'uomo Mattioli, non s'avverte in quasi nessu-no dei molti scritti in oc-casione della sua morte, e non poteva forse avvertir-si, così, a botta calda. La costernazione, la sorpresa han fatto da censura pre-ventiva al bilancio. Solo oggi, a un anno di distan-za, ci accorgiamo che « c'è un vuoto, c'è un intolle-rando vuoto nell'aria ».

Poco importa che aves-se ormai lasciato la Ban-ca cui aveva consacrato per decenni inesauribili energie. Come diceva scherzando negli ultimi tempi, « anche seduto li, —e accennava allo scran-no dell'usciere in corri-doio, — sarò sempre il presidente di questa ba-racca ».

Che cosa aveva fatto di Raffaele Mattioli il capo insostituibile che era? Perché ne sentiamo oggi la mancanza, in banca e fuori di banca, nelle fon-dazioni da lui promosse, in casa sua, tra le incom-benti pareti foderate di scaffali, nelle stanze disa-dorne della Ricciardi? La risposta immediata, ov-via, che era un uomo, un uomo completo, non ci può soddisfare. Non a-vrebbe soddisfatto lui, sempre così attento a va-lutarsi e a misurarsi, e ci obbliga a cercare una spie-gazione più sfumata e più aderente.

Nemmeno ci possiamo contentare, se non come di una prima approssima-zione, di aggiungere a quel corale riconoscimento di piena umanità il tratto ca-ratteristico (anche se trop-po spesso largito gratui-tamente) di un vero, nior-boso attaccamento al la-voro. E non parlo di « re-ligione del lavoro », per-ché la sua dedizione era

molto più che religiosa, anzi era tutta laica, e co-me tale includeva le ne-cessarie e quindi fruttuo-se divagazioni, le ore e ore spese senza badare, nell'ascoltar musica e nel conversare «á bátons rom-pus », con i vecchi amici, si, ma anche con i conta-dini di Nozzole, con gli studenti nelle «affres» del-la laurea, o con gli ester-refatti e incomprensivi banchieri d'oltre oceano.

Una singolare passione

Quasi leggendaria era la sua assiduità in ufficio, nello stesso isolato in cui aveva la sua casa e la Ric-ciardi. Sempre il sabato, anche dopo che si era adottata in Italia la « pen-tamana », come dileggia-va: quasi sempre la do-menica mattina e nelle fe-ste « comandate » (e quin-di da « non » osservare), sbalordiva i colleghi stra-nieri ligi alle mollezze del

week-end ». Occorre aggiungere che,

per questo e per far sem-pre molto tardi la sera prima di mettere in li-bertà i suoi collaboratori, era cordialmente detesta-to dalle loro mogli, igna-re del fascino che eserci-tava la sua cara, irrevo-cata « tirannia »? E che alcune osassero anche rin-facciargli l'« odiosa» pre-potenza? Ma erano poi di-sarmate, quando il presi-dente, magari alle otto o alle nove di sera, telefo-nava loro dalla banca:

Lei, che conosce tutta la musica a memoria, mi sa dire di chi è questo? », e zufolava la melodia; op-pure: « Si ricorda come si chiaman quelle sigaret-te che mi comprò (tren-t'anni prima!) alla stazio-ne di Vienna? ».

Delle ferie di quaranta giorni l'anno, spettanti ai direttori centrali, non ri-cordo abbia mai fatto

uso. Né le « perdonava» ai suoi collaboratori. Una volta, uno di questi si pre-se tutte le vacanze cui aveva diritto per contrat-to. Il quarantesimo gior-no, finalmente, invece del direttore, arrivò in banca, sul tavolo di Mattioli, una nota dell'Ufficio Persona-le per informare che il dottor tal dei tali non sa-rebbe rientrato dalle fe-rie, perché proprio l'ulti-mo giorno si era rotto una gamba. « Ben gli sta », annotò Mattioli sen-za titubare.

Le ferie, diceva anche, vanno fatte con discrezio-ne. Se uno sciagurato si prende uno scolo, se lo cura, no?... Ma mica va a destra e a sinistra a rac-contarlo a tutti! (E ricor-dava forse il "De morbi gallici curanda ratione" del suo omonimo Pieran-drea Mattioli, il gran na-turalista del '500, a lui fa-miliare, che mori poi di peste come Don Ferran-te...).

Anche l'uggia del forza-to riposo per limiti d'età, uggia cui forse soccombet-te, definiva scherzando

pensionite », e il pensio-namento stesso, infatti, equiparava a « una pu-gnalata mortale ».

Ricordo che una volta, in una bozza della rela-zione, dove c'era il con-sueto, rituale ringrazia-mento al personale, can-cellò la frase anodina con cui il redattore esprime-va l'apprezzamento del Consiglio « a tutti gli im-piegati e funzionari della Direzione Centrale e a quanti lavorano nelle Fi-liali », esclamando: « Bra-vo fesso! Così si dà ra-gione a chi dice che alla Direzione Centrale non si lavora! ».

Si è parlato, fin troppo, della sua passione per i

ciuchi ». Ciuchi, si badi bene, non asini o somari. Il ciuco, effigiato, narra-to, allegorizzato, era per lui il simbolo della umi-le fatica, della pazienza

mal ricompensata, e an-che, e forse soprattutto, del rifiuto di agitarsi e scomporsi: « tutto quel chiasso ei non degnò d'un guardo E a brucar serio e lento seguitò ».

Certo, sotto il suo im-pulso, in ogni ufficio del-la banca, centrale e peri-ferico, si lavorava con un impegno singolarissimo, credo unico al mondo. Quando uno sconsigliato propose di creare un uf-ficio di Pubbliche Rela-zioni (che era, tra l'altro, un errore di traduzione: « "Public Relations" vuol dire relazioni con il pub-blico; relazioni pubbliche son quelle delle putta-ne! »), sbottò a dire: « Co-me se tutta la banca non fosse un solo ufficio di pubbliche relazioni"! ». Ma quando gli doman-

davano: « Si può sapere come mai Lei, dottor Mat-tioli, che ha fatto eccete-ra eccetera, non è nemme-no Cavaliere del Lavoro?», rispondeva sorridendo:

Ma io sono molto di più: sono Cavaliere del-l'Ozio! ». E, se l'interlocu-tore non capiva subito lo

sfottò », gli sparava una girandola di estrose e in-credibili improvvisazioni sulle virtù del « dolce far niente » e sulla cretinag-gine degli anglo-sassoni che dicono « Time is mo-ney », come se non fosse vero invece che « Money is time » e quindi la cosa più labile di questo mon-do, e via di questo passo.

Magnetismo personale

In verità, del tempo, del suo tempo, sapeva fare l'uso più accorto. Alieno già per temperamento dal-le formalità e dai conve-nevoli, prediligeva anche nel discorrere sapide sprezzature lessicali e sin-tattiche. Nella sua bocca, fesso e puttana non ave-van niente di ingiurioso,

IL MONDO, 18 luglio 1974. Pagina 28

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Raffaele Mattioli. A lui Milano deve, fra l'altro, nel campo della cultura, la « per-la » dei Musei Civici e quella delle Ci-viche Biblioteche, la Pietà Rondanini di Michelangelo, il catalogo degli incuna-boli dell'Ambrosiana. A lui si devono anche importanti organismi come la Fon-dazione Longhi per la storia dell'arte.

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ma se mai un che di be-nevolo compatimento , e affettuosa indulgenza. Un amico, cui rimproverava di non averlo capito, gli disse una volta: « Vedi, caro Raffaele, a yolte tu credi di esprimerti in pa-role; ma in realtà parli per ideogrammi stenogra-fati », e la metafora gli piacque, e la ripete poi più volte.

Vivissimo e acuito dal-l'amorosa lettura dei clas-sici aveva il senso dello stile e della parola giu-sta al posto giusto. Un noto giornalista austro-americano, dopo aver re-datto su di lui un articolo per « The New Yorker », gli mandò le bozze per l'approvazione finale, e Mattioli le ricorresse in modo che l'autore gli scrisse, o telegrafò, non ricordo, « Dr. Mattioli, you have an exceptionally fine editorial hand », ossia, siete bravissimo nel por-tare un testo alla sua per-fezione.

Lo stesso scrupolo di nitore ed eleganza si espri-meva nel suo gusto della bella tipografia, di cui so-no esempio, non solo le edizioni della Ricciardi, ma quelle di molte altre case cui fu prodigo di con-sigli e di critiche (Monda-dori, Rizzoli, Einaudi gli devono aiuti; l'Electa, Scheiwiller, il Polifilo, la Valdonega, consigli e sug-gerimenti preziosi). E' ad esso legato era il compia-cimento per la succosa brevità, che trovava sfogo spontaneo, non solo nel rendere' in italiano testi « difficili » come i sonetti di Shakespeare e i poemi di Coleridge, ma anche nella composizione estem-poranea di versetti gnomi-ci, ahimé affidati soltanto a brandelli di carta e for-se ormai dispersi: « così al vento, nelle foglie levi, si perdea la sentenza di Sibilla ».

Ma forse va ricondot-to a questo istinto e a quest'ansia della brevità

espressiva anche il suo frainteso « turpiloquio », che era in definitiva un modo popolaresco e sbri-gativo di dar giudizi tut-t'altro che improvvisati e impetuosi, anche se a vol-te lo esponeva a sorpren-denti ritorsioni.

* * *

Anche questi, però, ri-pensandoci, sono aspetti marginali, periferici, del-l'uomo. Pervasivo e fon-damentale era l'affiato mo-rale del suo agire, tanto più forte quanto più sot-taciuto, e magari sbeffeg-giato. Del suo predecesso-re alla Presidenza, Camil-lo Giussani poteva dire, giustamente, che aveva sempre obbedito a un

imperativo etico ». Di sé non l'avrebbe mai detto,

non per modestia, --scarsa era in lui questa gran virtù dei mediocri, — ma perché tutto quel che faceva non era in som-messa ubbidienza a un qualsivoglia «imperativo», ma sciolta e libera espres-sione di una volontà crea-tiva e, mi si perdoni il gioco grammaticale, « in-dicativa », sempre, e di mete lontane.

Nemmeno è esatto par-lare della sua confessata vanità, Aveva piuttosto una chiara consapevolez-za del suo prestigio anche fisico, o diciamo, una can-dida, riposata compiacen-za del suo magnetismo. Amava ripetere che, da gio-vanotto, era stato ammi-rato da Riccardo Strauss. Fotogenico, avrebbe volu-to farsi fare il ritratto da Kokoschka, il solo forse che sarebbe riuscito a ren-der con la dovuta magia, sotto le folte ciglia di Plu-tone, il lampo cilestrino dello sguardo.

Nel vestire era sempre di sobria, ma ricercata e quasi provocante elegan-za. Magari agli autisti del-. la banca non faceva pia-cere che il Presidente, d'e-state, volesse viaggiare sempre con tutti i fine-

strini ermeticamente chiu-si, e lui abbottonato e in-cappellato. Ma una delle maggiori personalità mon-diali dell'economia ebbe a dire dopo un rapido in-contro: « Il dottor Mattio-li lascia l'impressione di essere un uomo di primis-simo ordine. Il bello è che lo è davvero! ».

L'esercizio fisico non lo attirava; e ben poco lo sport. Durante il periodo fascista, andava volentie-ri alle partite di calcio, ma solo perché « li, almeno, uno può dire liberamen-te, e anche gridare la pro-pria opinione! ».

Un « ebreo onorario»

Il male identificava nel-la paura, come il suo ami-co Zottoli nel ritratto di don Abbondio. Ai vili non perdonava, e ai prodi, prode egli stesso in guer-ra, concedeva larga indul-genza. Alle vittime di so-prusi si sentiva carnal-mente vicino. La persecu-zione era per lui la più valida raccomandazione. Al tempo delle discrimi-nazioni razziali, è stato ricordato, aveva la ri-schiosa civetteria di dirsi « ebreo onorario ». E di fatti, ebrei, in genere di flebile religiosità, furono molti dei suoi « best friends », da Toeplitz a Sraffa, da Giorgio Falco a Gino Luzzatto, da Gior-gio DI Veroli ad Alessan-dro, a Raffaello e a Nino Levi, dai fratelli Treves ad Alberto Vigevani. Ma non s'è detto che considerava un onore inderogabile, un fausto stigma della Prov-videnza, collocarsi così, proprio come Ermengar-da, « tra gli oppressi ».

* * * Dire che Mattioli era ge-

neroso è quasi un pleona-smo: ma non è privo di significato che egli stesso sorridesse della « incon-sulta generosità » che gli

si rimproverava. Quando lo chiamavano Mecenate, invece, si adontava: « Me-cenate era un gran bec-co! ». Ma anche qui le in-tenzioni travalicavano a volte i limiti della possibi-lità, e le promesse fatte «ex abundantia cordis» si proiettavano fiduciose in un troppo incerto futuro. Forse non voleva far de-cadere al rango di un adempimento contrattua-le, del giuridico assolvi-mento di un obbligo, quel-la che doveva essere e re-stare una spontanea ma-nifestazione di liberalità e benevolenza.

Non meraviglia che, con queste predisposizioni, non si sia arricchito nei quaranta e più anni di la-voro spesi ai più alti li-velli della finanza interna-zionale. Ma chi l'ha ascol-tato, in una delle ultime assemblee, replicare con-clusivamente alle sciocche insinuazioni di un « pro-fessionista »: « E sappia che la mia forza sta nel non possedere un soldo! », non dimentica l'accento di sdegnosa fierezza che, al di là di ogni precisione contabile, dava all'iperbo-le una verità sostanziale. All'uomo del fisco, che non voleva accettare per veritiera la sua dichiara-zione di redditi, e insinua-va lusinghevole: « Ma un uomo come Lei, dottor Mattioli, "vale" molto di più di x milioni l'anno », rispondeva con sorriden-te malizia, che purtroppo non tutti son pagati per quello che valgono, come doveva saper benissimo quel povero funzionario...

Le sue sfuriate erano di rara e brusca violenza. Chi non le ha sofferte non può immaginare quanto facilmente la sua abitua-le benevolenza, indulgen-za, comprensione delle al-trui debolezze, la sua pa-triarcale serenità, potes-sero d'un tratto rovesciar-si in burbanzose contume-lie, grida e invettive sul malcapitato. Vittima elet-

,

ta di solito ne era il suo multilingue segretario, Va-lentino Bona, il più che devoto, umilissimo e fede-lissimo Valentino, morto quasi sordo a più di ot-tant'anni, che gli dava sempre del tu, ma servi-va da parafulmine per le sue scariche di elettricità,

gli era, anche per ciò, particolarmente caro.

Non si contano le ini-ziative che ha vittoriosa-mente promosso. Non par-lo dell'Iri, di Mediobanca, dell'Eni o d'altri ben ar-chitettati « negotia ». Ma a lui Milano deve la « per-la » dei Musei Civici, la Pietà Rondanini di Miche-langelo, e la « perla » del-le Civiche Biblioteche, la raccolta dei libri lasciati dal « milanese » Stendhal quando mori a Civitavec-chia, — oltre al catalogo degli incunaboli dell'Am-brosiana e all'inventario del patrimonio artistico della città. A lui, Firenze

Venezia debbono i pri-mi e, si spera, i più va-lidi aiuti per rimediare ai disastri delle alluvioni. A lui, l'Italia d'oggi deve, non solo i tanti apporti elencati dai giornali, ma nuovi organismi pregni di avvenire, come la Fonda-zione Longhi per la storia dell'arte e quella per lo studio delle classi dirigen-ti del nostro paese.

La sua biblioteca priva-ta, sempre in disordine, sia perché continuamente riordinata e rimáneggia-ta, sia perché i libri arri-vavano a ondate, in serie, in collane intere, era pri-ma e più che uno stru-mento di lavoro, un ba-luardo contro il mondo e le miserie del mondo. Che i libri raccolti fosse-ro 20, 30 o 50.000, com'è stato scritto, non importa niente. Chi ama i libri, non li conta. Un opusco-lo di otto pagine e la cor-rispondenza di Voltaire in cento e tanti volumi, han-no lo stesso peso ideale. Ogni « pezzo » ha il valo-re, ed è il riassunto em-

blematico di tutta la bi-blioteca. Ognuno rappre-senta un desiderio, un at-timo di vita, un proposito di nuove fatiche. E Raf-faele Mattioli amava i li-bri: i suoi, quelli che pos-sedeva e che in molti ca-si aveva fatto proteggere

ornare a Parigi con bel-lissime legature; quelli da lui editi, e non solo i suoi

figli classici » della Ric-ciardiana, ma il Manzoni

il Leopardi della Grego-riana, infinitamente supe-riori per carta, caratteri, legatura e soprattutto ele-ganza e correttezza tipo-grafica ai volumi della

Pléiade », che si è detto ripetuto volessero « imi-

tare »!; e, perché non dir-lo?, quelli degli amici, se non li aveva, e li desidera-va, e li considerava per-tanto degni di allinearsi sui suoi scaffali. Una de-scrizione anche sommaria delle sue raccolte riempi-rebbe un articolo più lun-go di questo. Ma come non ricordare la serie de-gli economisti francesi del Settecento, i classici ita-liani, la letteratura dell'il-luminismo e « tutto » su Croce?

Un adagio di Mozart

Di libri d'arte, ne rice-veva tanti in regalo, e mol-ti bellissimi, che gli erano quasi venuti a noia. Quel-li poi che rifiutava decisa-mente erano i cosiddetti

paperbecchi » e, peggio, le ristampe anastatiche, il « Musée Grévin della bi-bliofilia », diceva. Né ac-coglieva benignamente gli scritti frivoli o effimeri. Quando Fratnoise Sagan, per sfruttare il successo di « Bonjour tristesse », diede alle stampe « Dans un jour, dans un an », sul-la candida copertina, sot-to il titolo, scrisse a lapis:

Dans un jour, dans un an, Espérons que la Sa-gan Soit si riche et satis-

faite Que sa piume enfin s'arréte », sprezzando l'er-rore di prosodia, per me-glio esprimere il suo giu-dizioso parere.

* * *

Qual'è dunque l'imma-gine che ci resta di Mat-tioli, nell'angosciata pro-spettiva di un anno pri-vo di lui? Non c'è formu-la che possa racchiudere una personalità così pro-teiforme, così propulsiva, così. schietta. Nessuno che l'abbia trovato sulla sua strada ha proseguito il cammino con lo stesso passo. Non è stato più lo stesso dopo averlo cono-sciuto. A nessuno, che non abbia goduto di quell'au-tentico « privilege », si po-trà mai spiegare il come

il perché di quella sua elementarissima, sempli-cissima e pur trasfigurata umanità.

Alle esequie, nell'abba-zia cistercense di Chiara-valle, dove volle essere tu-mulato, il Quartetto Ita-liano suonò, per suo espli-cito desiderio, il suo pez-zo del cuore, l'adagio del Quintetto K. 516 di Mo-zart. « Che purezza di pas-sione, che dolore sempli-ce, spontaneo, limpido, senza grumi né pretese! Beati i puri di cuore, poi che vedranno Dio... Gli zampilli della musica sal-gono sempre più in alto, fin che la colonna insor-gente si perde nella luce del sole, e la musica, ec-co, modula dall'acqua in un arcobaleno ». Ma poi, nell'ultimo tempo, « la mente fa uno sforzo su-premo, respinge la febbre del troppo soffrire e, con uno scoppio di risa, in-giunge al corpo di danza-re » (Aldous Huxley). For-se soltanto oggi riusciamo a capire perché in quel-l'elegia disperata e diohi-siaca, Raffaele Mattioli ri-conoscesse la sigla miste-riosa della sua esistenza

di quella d'ogni uomo che nasce e muore su que-sta terra.

IL MONDO, 18 luglio 1974. Pagina 29