Ricordi dal futuro. La poesia di Melendez - Luca Benassi

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Titolo: Ricordi dal futuro. La poesia di Mario Meléndez Autore: Luca Benassi

Edizione a cura di: In realtà, la poesia

Anno: 2013

Vol.: 16

Il presente documento non è un prodotto editoriale ed è da intendersi a scopo

illustrativo e senza fini di lucro. Tutti i diritti riservati all’autore.

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Ricordi dal futuro.

La poesia di Mario Meléndez

di Luca Benassi

In realtà, la poesia

2013

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Ricordi dal futuro. La poesia di Mario Meléndez

Ho conosciuto Mario Meléndez in occasione di una

presentazione romana, per la quale mi era stato chiesto di

parlare della sua poesia, nella bellissima traduzione di

Emilio Coco. Ne sono rimasto folgorato se non

intimorito, disabituato come la gran parte dei lettori

italiani ad una poetica orgogliosamente conscia (al limite

dell’ostentazione) del proprio ruolo e delle propria

capacità, attraverso una lingua schietta, capace di farsi

politica, civile, bruciante di umanità, senza rinunciare mai,

allo stesso tempo, ad un lirismo puro, alto, nel quale il

poeta (non lo scrittore che quasi si vergogna ad ammettere

a mezza bocca di scrivere versi, come accade in Italia) si

riconosce nella sua totalità.

In verità, ci si trova in imbarazzo di fronte ad una poesia

che non si lascia incasellare, sulla quale la colla delle

etichette non fa presa, per concedersi invece in tutta la sua

poliedrica magnificenza (ma anche sottile crudezza), in

tutta la sua consapevole forza.

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Annota Manuel Cohen nella prefazione a Ricordi del futuro,

pubblicato da L’arcolaio nel 2013: «con molta probabilità,

non eravamo più abituati, almeno nella nostra penisola –

nella nostra disincantata postazione - a confrontarci con

parole così apparentemente leggere, libere ed aeree,

eppure così irriducibilmente acuminate, sorgive e stupite»

ed effettivamente si ha l’impressione di leggere una voce

totalmente nuova, dotata di una ariosità capace di

inglobare una sensibilità sinestetica, che affonda volentieri

in un’immaginazione surrealista; eppure, come osserva

Cohen parlando di “irriducibilità” di questo dettato, allo

stesso modo sostanziata da una dolorosa ed abrasiva

ferocia. Sarebbe difficile, aggirandosi fra i campanili del

Bel Paese, trovare fra i poeti della sua generazione

(Meléndez è del 1971) una voce così autonoma e vibrante,

in grado di stagliarsi netta in un panorama ricco ma

sostanzialmente omogeneo quale quello italiano.

Vi è per la verità, in questa poesia, il riflesso della maturità

a tratti amara dell’esule, di chi è abituato a spostarsi e

viaggiare per fuggire la violenza o cercare fortuna,

lasciandosi indietro gli affetti, i ricordi, i libri (Meléndez mi

confidava come nella sua vita avesse dovuto abbandonare

per tre volte la propria biblioteca, ogni volta

ricostruendola con fatica). Infatti, il poeta, nato a Linares,

in Cile, nel 1971, ha trascorso l’infanzia durante il regime e

le violenze di Pinochet insediatosi dal 1973, si è poi

trasferito a Città del Messico, dove ha contribuito

attivamente al dibattito sulla nuova poesia latinoamericana

occupandosi di insegnamento, di editoria, scrivendo libri

di versi e saggi; adesso vive in Italia, nelle Marche.

Il complesso di queste esperienze, condotte con

un’intensità febbrile, insieme ai drammi e alle vicende del

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privato, hanno lasciato tracce profonde nella poesia di

Meléndez.

Si legga un testo fra i più struggenti di questa raccolta,

“sangue nell’esilio”, dedicato al popolo cileno e alla

sofferenza patita durante la dittatura:

Quando arrivò l’inverno in Cile

migliaia di uccelli volarono con la prima pioggia

erano impauriti tra l’ombra e la morte

e preferirono emigrare con le loro vite verso altre vite

Presero il primo aereo, disperati

si lanciarono sui moli inseguendo navi

attraversarono le montagne fuggendo dalle lance

e lasciarono indietro la patria e gli eredi della fame

Alcuni non decollarono mai

strapparono loro le ali tentando di lottare

scomparvero con nome e cognome

sotto gli alberi di ferro

li rinchiusero in gabbie per specie

e quando anni dopo li trovarono

avevano la carezza del corvo tra le penne.

In questo testo tutto giocato sulla metafora scopertamente

crudele degli uccelli costretti all’esilio o alla cattività al

sopraggiungere dell’‘inverno’ della dittatura, appare la

limpidezza sonora ed icastica della lingua di Meléndez,

nella quale nulla si concede alla retorica o all’oscurità delle

immagini per esaltare invece un dettato chiaro, quasi

epigrafico. Questa luminosità del poeta cileno, capace di

condurre il lettore fra le pieghe dell’inconscio senza mai

slabbrare la tenuta del senso, è una caratterista costante

che si fa più forte, con esiti di una modernità

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sorprendente, dove si affronta il dolore e la crisi della

civiltà politica.

Meléndez sembra avvertire una necessità inderogabile di

forza e chiarezza, dove ogni parola, ogni nome hanno il

peso di una pietra:

Il mio paese ha alberi senza tronchi e senza foglie

ha rose che cambiarono colore

per un chilo di pane

Il mio paese è una ferita nel tempo

una chitarra malata e sorda e muta

una canzone di nomi definitivamente tristi

definitivamente amari

definitivamente dimenticati nel grande sogno della vita.

In questa prosopopea della terra perduta e affamata, nella

quale si coglie il dolore per un futuro mancato («Il mio

paese ha alberi senza tronchi e senza foglie») come

conseguenza del taglio delle radici operato dall’esilio, si

coglie il senso di un’intimità lirica, sottolineata dal

possessivo ‘mio’, che insiste nell’anafora. Ed infatti nulla

in Meléndez è frutto di un pensiero astratto, di una

riflessione che non sia ancorata con lacci di dolore

all’esperienza di una vita che si getta nella poesia con il

bollore del sangue e la vitalità della carne. Il privato,

tuttavia, si espone nel verso lacerandosi per farsi

esperienza viva dell’universale, di una nazione, di un

popolo, di un tempo. Meléndez è poeta della propria

epoca, della frattura fra le generazioni, di una crisi che si

scopre essere ben più ampia dei confini ristretti

dell’economia. Osserva ancora Manuel Cohen:

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Si tratta di un autore in cui il privato è al primo posto:

potremmo per questo dirlo un lirico, un lirico puro, con il

rischio di sacrificarlo a una polemica posticcia, miope o

nostrana. Tuttavia, la voce corale, l’epos della sua gente,

costituisce e determina l’abito e l’ambito della sua

attenzione. Il nostro autore ci dice della sua vita, le sue

passioni, i suoi furori, i suoi dolori, e continuamente rinvia,

riverbera e allude a passioni furori e dolori della sua terra,

del suo intero Continente: emblematica potrà apparire in tale

ottica La playa de los pobres, “La spiaggia dei poveri”, che

attinge a elementi di realtà osservata e vissuta, ma che

nondimeno potrebbe indifferentemente essere trasposta o

travasata ad altre latitudini: dalla costa nord-africana al

medio-oriente all’est-asiatico.

Meléndez ci spiazza e ci affascina perché è poeta globale

(non globalizzato), capace di parlarci della nostra

contemporaneità, allacciando ponti, tessendo fili rossi fra i

due continenti. Si osservava innanzi come il poeta cileno

sia dotato di una sensibilità sinestetica nei confronti della

natura e della realtà, fino a costruire testi che giocano con

la concretezza disfandone i nessi, slabbrandone i contorni

per trascinare il lettore in una dimensione onirica, a tratti

surreale:

Mia sorella mi ha svegliato molto presto

stamattina e mi ha detto

“Alzati, vieni a vedere

il mare si è riempito di stelle”

Meravigliato per quella rivelazione

mi sono vestito in fretta e ho pensato

“Se il mare si è riempito di stelle

io devo prendere il primo aereo

e raccogliere tutti i pesci del cielo”.

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Questo sfasamento fra immaginazione reale – che nella

poesia prima citata porta a confondere il cielo con il mare

– è l’innesco necessario per l’accensione della poesia.

Questa si manifesta per improvvise trasposizioni di

immagini, mischiando i piani del senso fino a costruire

una verità altra dove tutto può succedere. L’effetto è

quello di un vuoto dove oggetti, sensazioni, uomini e

animali fluttuano in un dimensione fuori dal tempo,

lontana nello spazio, dove solo il linguaggio e la poesia

sembrano fornire le coordinate alle quali il lettore si

aggrappa per orientarsi all’interno di un mondo che

acquista significato sulla carta.

Emblematico è il testo “arte poetica” nel quale viene

descritto il procedimento di trasposizioni da un oggetto-

poesia (la mucca) fino al vuoto del linguaggio puro, dove

le sensazioni acquisiscono corpo e dimensione, passando

per la memoria del poeta come un paesaggio nel quale far

pascolare la poesia stessa. Si tratta, in fondo, di un

procedimento circolare che opera per sottrazioni, e il testo

in questione non ha altro obiettivo che mettere in chiaro –

pur attraverso le oscurità di atmosfere stranianti e surreali

– questa meccanica della scrittura poetica:

Una mucca pascola nella nostra memoria

il sangue scappa dalle mammelle

il paesaggio è ucciso da uno sparo

La mucca insiste nella sua routine

la sua coda spaventa la noia

il paesaggio risuscita al rallentatore

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La mucca abbandona il paesaggio

continuiamo a sentire i muggiti

la nostra memoria adesso pascola

in quell’immensa solitudine

Il paesaggio lascia la nostra memoria

le parole cambiano nome

ci soffermiamo a piangere

sulla pagina in bianco

Ora la mucca pascola nel vuoto

le parole stanno sulla sua groppa

il linguaggio si burla di noi.

In Meléndez, le immagini surreali si legano spesso ad un

uso irriverente dell’ironia (si pensi alla metafora delle

mucca-poesia nel testo sopra citato), utilizzata per

smascherare i luoghi comuni, giocare con la tradizione,

farsi beffe della morte. Questa è spesso oggetto di poesia,

fino a diventare un filo rosso che percorre l’intera opera.

Non si tratta, però, né di una riflessione dolente, dominata

dalla paura del mistero, né da una tensione mistica o

religiosa, bensì di un’ironia macabra portata fino

all’eccesso del grottesco:

Dovrò stare attento ai vermi

quando mi seppelliranno

la cosa più sicura

è che parlino male di me

che sputino sulle mie poesie

e orinino sui fiori freschi

che adorneranno la mia tomba

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sarà persino possibile

che divorino le mie ossa

mi estirpino gli intestini

o al colmo dell’ingiustizia

rubino il mio dente d’oro

e tutto questo perché in vita

non ho mai scritto su di loro.

Sono diversi i testi che hanno come argomento la morte e il rapporto con il poeta e la parola, un rapporto sanguigno, nel quale la poesia, la terra, il disfacimento del corpo e la tensione all’immortalità si mischiano in atmosfere grottesche e surreali, dove prevale il gusto dello scherzo da Grand Guignol. Si vedano, oltre a “precauzioni dell’ultima ora” sopra citato, anche “Sinfonia nera”, “L’ultima cena” nella quale di nuovo i vermi e il poeta sono protagonisti, “Mi avanza un morto”: la verità è che per Meléndez la morte del singolo è un accadimento comune, un fatto del quale non aver paura, essendo ben altre le circostanze (civili e politiche) della vita da temere e delle quali indignarsi. Vi è in questo un ulteriore segnale della maturità umana e letteraria dello scrittore cileno, da seguire nel futuro con quella particolare attenzione che si rivolge ad un poeta vero.

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