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7/25/2019 ricerca arte 2° lez http://slidepdf.com/reader/full/ricerca-arte-2-lez 1/12 CAVALCASELLE, Giovanni Battista Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 22 (1979) CAVALCASELLE, Giovanni Battista. - Figlio di Pietro e di Elisabetta Rosina, nacque a Legnago (Verona) il 22 genn. 1819. Dopo aver frequentato per qualche tempo gli studi di ingegneria, si iscrisse all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Poco disposto a seguire regolari corsi di studi, appena si impadronì delle tecniche artistiche abbandonò anche l’Accademia i mpiegando i soldi destinati allo studio per intraprendere viaggi che lo portarono prima in giro per il Veneto e poi per il resto d’Italia. A piedi “a piccole giornate, da una paese all’altro, con l’involtino delle cose sue in ispalla infilato ad un bastone” (Pognisi), visitava chiese, pinacoteche pubbliche e private, palazzi e conventi, scoprendo un’infinità di opere d’arte inedite, che riportava in schizzi su quaderni di viaggio o su fogli sparsi, e documenti che diligentemente trascriveva. Nel 1846, attraverso il Trentino e il Tirolo, giunse a Monaco, dove si fermò a lungo. Girò quindi tutta la Germania, fermandosi soprattutto a Dresda, Lipsia, Berlino. Mentre, nel 1848, stava risalendo il Reno alla volta dell’Olanda o del Belgio, gli giunse notizia dell’i nsurrezione della Lombardia e del Veneto; messe in salvo, in una valigia spedita alla famiglia a Legnago, tutte le sue carte, ritornò in patria e, a Padova, si arruolò nella legione studenti e volontari veneti, nel battaglione comandato da A. Cavalletto. I suoi biografi (Crowe, Douglas) dicono che a Piacenza (o Cremona) fu arrestato dagli Austriaci e condannato a morte, ma che si salvò per l’approssimarsi delle truppe piemontesi alla città. Costretto ad emigrare, nel 1850 era a Londra dove viveva con i pochi soldi che i parenti riuscivano a fargli pervenire dall’Italia.  Nel 1847, viaggiando tra Hann e Minden, in Germania, aveva incontrato in carrozza J. A. Crowe, giovane inglese di varia cultura che era con il padre giornalista e al quale il C. si presentò qualificandosi pittore. Il Crowe, allora, e poi anche nel secondo casuale incontro a Berlino, gli parlò del suo progetto di scrivere un libro sulla pittura fiamminga. Arrivato a Londra, il C., che abitava in modeste camere di affitto in Silver street e poi in Regent street, trovò in casa Crowe ospitalità affettuosa e accogliente. Quando anche per i Crowe cominciò un periodo difficile e la famiglia si stabilì a Parigi, il giovane Joseph si trasferì in Silver street con il Cavalcaselle. Questi viveva ingrandendo le illustrazioni che G. Scharfe utilizzava per le sue lezioni di storia dell’arte, e i due, che erano in grande miseria, andavano a visitare collezioni private, studiavano nelle biblioteche  preparando la storia dell’arte fiamminga, ed entravano in cont atto con persone importanti. Altri modesti introiti provenivano al C. da lavori di restauro; gli fu anche richiesto un parere sullo stato dei quadri della National Gallery. Sir Ch. Eastlake lo apprezzava come conoscitore e, dal Catalogue of the Paintings... in the permanent Gallery of Art di Liverpool (1851), risulta che il C. fu tra gli esperti che fecero attribuzioni in quella raccolta. Negli stessi anni il C. si recò a Parigi (1851) e in Spagna (1852). Quando viaggiavano separatamente i due studiosi guardavano, prendevano appunti e, incontrandosi, si informavano a vicenda. Il Crowe ricorda nelle sue memorie (p. 103) le accese discussioni quando avevano opinioni divergenti; era sempre l’inglese che scriveva, ma il C. aiutava a ricopiare, e Crowe ammirava la sua straordinaria capacità di definire la successione cronologica all’interno della carriera di un artista. Avevano fiducia assoluta l’uno nell’altro (p. 236) e nulla mai riuscì a incrinare questo perfetto sodalizio (vedi anche Moretti, pp. 45-48).  Nel frattempo Crowe, che faceva il giornalista, si recò in Crimea, dove era scoppiata la guerra; al ritorno da Balaklava (1854) trovò il C. alle prese con le bozze della storia della pittura fiamminga,  per le illustrazioni della quale aveva eseguito anche xilografie. L’ultimo giorno dell’anno 1856 l’opera uscì presso l’editore J. Murray di Londra con i due nomi, come in seguito per tutte le altre edizioni (prima quello del Crowe e poi quello del C.; solo nella edizione italiana della Storia della

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CAVALCASELLE, Giovanni Battista

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 22 (1979)

CAVALCASELLE, Giovanni Battista. - Figlio di Pietro e di Elisabetta Rosina, nacque a Legnago

(Verona) il 22 genn. 1819. Dopo aver frequentato per qualche tempo gli studi di ingegneria, siiscrisse all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Poco disposto a seguire regolari corsi di studi,

appena si impadronì delle tecniche artistiche abbandonò anche l’Accademia impiegando i soldi

destinati allo studio per intraprendere viaggi che lo portarono prima in giro per il Veneto e poi per il

resto d’Italia. A piedi “a piccole giornate, da una paese all’altro, con l’involtino delle cose sue in

ispalla infilato ad un bastone” (Pognisi), visitava chiese, pinacoteche pubbliche e private, palazzi e

conventi, scoprendo un’infinità di opere d’arte inedite, che riportava in schizzi su quaderni di

viaggio o su fogli sparsi, e documenti che diligentemente trascriveva. Nel 1846, attraverso il

Trentino e il Tirolo, giunse a Monaco, dove si fermò a lungo. Girò quindi tutta la Germania,

fermandosi soprattutto a Dresda, Lipsia, Berlino. Mentre, nel 1848, stava risalendo il Reno alla

volta dell’Olanda o del Belgio, gli giunse notizia dell’insurrezione della Lombardia e del Veneto;

messe in salvo, in una valigia spedita alla famiglia a Legnago, tutte le sue carte, ritornò in patria e, aPadova, si arruolò nella legione studenti e volontari veneti, nel battaglione comandato da A.

Cavalletto. I suoi biografi (Crowe, Douglas) dicono che a Piacenza (o Cremona) fu arrestato dagli

Austriaci e condannato a morte, ma che si salvò per l’approssimarsi delle truppe piemontesi alla

città. Costretto ad emigrare, nel 1850 era a Londra dove viveva con i pochi soldi che i parenti

riuscivano a fargli pervenire dall’Italia.

 Nel 1847, viaggiando tra Hann e Minden, in Germania, aveva incontrato in carrozza J. A. Crowe,

giovane inglese di varia cultura che era con il padre giornalista e al quale il C. si presentò

qualificandosi pittore. Il Crowe, allora, e poi anche nel secondo casuale incontro a Berlino, gli parlò

del suo progetto di scrivere un libro sulla pittura fiamminga. Arrivato a Londra, il C., che abitava in

modeste camere di affitto in Silver street e poi in Regent street, trovò in casa Crowe ospitalità

affettuosa e accogliente. Quando anche per i Crowe cominciò un periodo difficile e la famiglia si

stabilì a Parigi, il giovane Joseph si trasferì in Silver street con il Cavalcaselle. Questi viveva

ingrandendo le illustrazioni che G. Scharfe utilizzava per le sue lezioni di storia dell’arte, e i due,

che erano in grande miseria, andavano a visitare collezioni private, studiavano nelle biblioteche

 preparando la storia dell’arte fiamminga, ed entravano in contatto con persone importanti. Altrimodesti introiti provenivano al C. da lavori di restauro; gli fu anche richiesto un parere sullo stato

dei quadri della National Gallery. Sir Ch. Eastlake lo apprezzava come conoscitore e, dal Catalogue

of the Paintings... in the permanent Gallery of Art di Liverpool (1851), risulta che il C. fu tra gli

esperti che fecero attribuzioni in quella raccolta. Negli stessi anni il C. si recò a Parigi (1851) e in

Spagna (1852).

Quando viaggiavano separatamente i due studiosi guardavano, prendevano appunti e, incontrandosi,

si informavano a vicenda. Il Crowe ricorda nelle sue memorie (p. 103) le accese discussioni quando

avevano opinioni divergenti; era sempre l’inglese che scriveva, ma il C. aiutava a ricopiare, e

Crowe ammirava la sua straordinaria capacità di definire la successione cronologica all’interno

della carriera di un artista. Avevano fiducia assoluta l’uno nell’altro (p. 236) e nulla mai riuscì a

incrinare questo perfetto sodalizio (vedi anche Moretti, pp. 45-48).

 Nel frattempo Crowe, che faceva il giornalista, si recò in Crimea, dove era scoppiata la guerra; al

ritorno da Balaklava (1854) trovò il C. alle prese con le bozze della storia della pittura fiamminga,

 per le illustrazioni della quale aveva eseguito anche xilografie. L’ultimo giorno dell’anno 1856l’opera uscì presso l’editore J. Murray di Londra con i due nomi, come in seguito per tutte le altre

edizioni (prima quello del Crowe e poi quello del C.; solo nella edizione italiana della Storia della

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 pittura in Italia il Crowe darà il permesso di mettere prima il nome dell’italiano). The Early

 Flemish Painters ebbe successo e uscì in breve tempo in edizioni in francese e tedesco. Nel

frattempo il C. viaggiava in Europa su incarico di sir Eastlake, prendeva appunti e studiava, con

l’idea di scrivere in seguito una storia dell’arte italiana.

Quando nel 1857 Crowe partì per l’India, il C. chiese a Eastlake di trovargli lavoro in Italia, ma datala sua condizione di esule politico, era difficile farlo ritornare in patria con una certa sicurezza.

Eastlake riuscì a ottenergli un passaporto, e il C. partì con il proposito di preparare per l’editore

Murray una nuova edizione del Vasari. Tra il 1857 e il 1860 poté girare per la penisola (fu però

arrestato a Napoli nel 1859 dalla polizia borbonica che lo spedì a Roma). Dal 1860 il Crowe,

raggiunta la tranquillità economica e rimessosi in contatto con lui, lo incoraggiò a riprendere il

comune lavoro per una storia della pittura italiana. Nel 1862 il C. si recò a Lipsia, ospite del Crowe,

con il quale preparò il primo volume di questa seconda opera. Nel 1861 con G. Morelli aveva

redatto il Catalogo degli oggetti d ’arte delle Marche e dell ’Umbria, recuperando materiale

identificato nei suoi viaggi precedenti (il Catalogo fu pubblicato in Le Gallerie nazionali italiane, II

[1896], pp. 191-349; i rapporti con il Morelli divennero successivamente pessimi: Moretti, pp. 35-

37).

Il 13 sett. 1862, a Torino, fu ferito con arma da taglio da persona ignota: non si riuscirono a capire i

motivi del gesto che il C. pensava fosse motivato dai suoi elenchi di opere d’arte conservate nei

conventi soppressi dalle leggi ecclesiastiche (Ricci, 1912, p. 33). Nel 1862, con toni accorati,

indirizzò al ministro dell’Istruzione, C. Matteucci, varie sollecitazioni Sulla conservazione dei

monumenti e oggetti d arte... (pubbl. 1863).

Fece proposte, tra l’altro, per un inventario e catalogo generale delle opere, oltre che di norme per il

restauro dei mosaici, degli affreschi e dei quadri (“meglio di restaurar  sarebbe sempre conservare

l’antico qual è”), e per fermare l’esodo delle opere d’arte dall’Italia. Purtroppo neppure i successivi

ministri tennero conto degli avvertimenti del C., tuttora attualissimi e in parte recepiti dall’attuale

legislazione (Magagnato, 1973).

Erano usciti intanto (1864-66) i tre volumi della storia della pittura italiana. Il C. raggiunse

finalmente un minimo di sicurezza economica con la nomina (13 febbr. 1867) ad ispettore del

Museo nazionale del Bargello a Firenze, nomina che non lo soddisfece, in quanto i suoi interessi

erano sempre stati per la pittura, ma che lo immise finalmente nell’amministrazione statale delle

Belle Arti. Poté anche, essendogli ormai garantito un lavoro stabile, sposare (1867) Angela Rovea e

stabilirsi a Firenze; nel 1868, dopo gli elogi che ne fece il principe Federico di Prussia che lo ebbe

come guida nel giro delle collezioni fiorentine, gli fu conferita la croce mauriziana. In quegli anni il

C. continuava a viaggiare: nel 1865 fu a Copenaghen, Stoccolma, Pietroburgo, Praga, Vienna,Budapest, oltre che in Scozia e a Londra. Nel 1870 ebbe l’incarico dal ministro C. Correnti di

studiare e attuare i più urgenti restauri delle opere d’arte; il C. cercò di infondere ai restauratori il

 più rigoroso rispetto per le opere, raccomandando che non vi fosse alcun intervento di ritocco

 pittorico nel restauro degli affreschi, e che anche in quello dei dipinti su tela o su tavola le

ridipinture sulle lacune si limitassero al minimo.

Fece in tal modo restaurare, tra gli altri, gli affreschi di Giotto nella basilica di S. Francesco di

Assisi (suscitando polemiche: si veda la bibliografia in Ricci, 1912), quelli della cappella

dell’Arena e quelli del Mantegna nella cappella Ovetari della chiesa degli Eremitani a Padova, e nel 

 palazzo ducale di Mantova.

 Nel 1871 si trasferì a Roma, ed ebbe l’incarico di redigere gli inventari dei quadri e delle statue

nelle collezioni pubbliche italiane; ma, come aiutanti, gli furono dati due poeti, G. Prati e A.

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Aleardi, e i risultati furono assai scarsi: resta solo l’ Inventario di quelle esistenti in Friuli,

 pubblicato nell’edizione postuma (1973) della sua Pittura friulana (pp. 159-262).

In esso per ogni opera registrata vengono fornite notizie sintetiche, ma precise e sufficienti,

riguardanti l’ubicazione, la descrizione, l’autore, le fonti documentarie, lo stato di conservazione

oltre ad osservazioni sulla storia esterna dell’oggetto (iscrizioni, restauri, ecc.).

Usciva intanto a Londra (1871) A History of Painting in North Italy, firmata con il Crowe, opera

nuova per indirizzo metodologico e per ricchezza di dati (e però tutt’oggi non ancora tradotta in

italiano), mentre il C. pensava a un rifacimento, in italiano, della storia della pittura in Italia. Nel

1873, insieme con il Crowe, fu invitato a Vienna per assistere E. Engerth nel riordino della Galleria

del Belvedere e ottenne, per tale lavoro, la medaglia d’oro al merito da parte dell’imperatore. Il

governo italiano lo nominò formalmente il 27 maggio 1875 ispettore generale per la pittura e

scultura. Ma la delusione per i mancati riconoscimenti ufficiali in patria e le modeste condizioni

economiche lo rendevano sempre più aspro nei suoi rapporti con gli altri.

 Nel 1875 giudicò e valutò la collezione del Monte di pietà di Roma; nell’archivio della GalleriaDoria di Roma è conservato un manoscritto cartaceo con l’elenco schematico delle  Pitture

dell ’appartamento nobile, accompagnato da indicazioni delle decorazioni pittoriche,

tradizionalmente attribuito al C. (G. Carandente, Il palazzo Doria Pamphilj, Milano 1975, pp. 159,

170, 299). Negli anni seguenti uscivano le monografie su Tiziano (1877) e Raffaello (1882-85), che

segnarono la fine della collaborazione con Crowe (morto nel 1896), e quindi la traduzione italiana,

riveduta e ampliata dal C., della Storia della pittura in Italia (1886-1908). Nel 1883 si era recato per

l’ultima volta in Inghilterra, Francia e Spagna. Il 30 giugno 1893 lasciò il servizio per limiti di età,

restando membro della Giunta delle Belle Arti.

Durante un viaggio in treno da Firenze a Roma, veniva colto da malore e moriva a Roma il giorno

seguente (31 ott. 1897).

Tutte le sue carte e i suoi libri furono donati dalla vedova alla Bibl. Marciana di Venezia nel 1904;

altre carte si trovano nel Victoria and Albert Museum di Londra insieme con quelle del Crowe. Solouna parte dei disegni dei taccuini è stata pubblicata, oltre che in articoli (si veda Gardner, 1972, e

Magagnato, 1973), nel catalogo curato dal Moretti nel 1973. Ovviando con i disegni alla mancanza

di fotografie, il C. “penetrò nello stile dei pittori più a fondo di chiunque altro prima di lui. Dotato

di una memoria visiva di ferro e di un notevole senso della qualità della pittura, con l’aiuto dei

disegni egli riuscì a confrontare lo stile di opere vedute a distanza di luogo e di tempo in modo

 preciso. E quindi distrusse una quantità enorme di leggende sul valore assegnato a copie o

imitazioni, e distinse i maestri e gli scolari, e seppe indicare la successione delle produzioni di unostesso maestro” (L. Venturi).

Il C., come si è detto, disegnava tutto ciò che vedeva: prima ne faceva uno schizzo a matita, veloce

e sintetico, poi lo rifiniva, cercando soprattutto di cogliere i caratteri specifici dell’arte di ogni

autore, ripassando infine a china il tutto: a lato, le osservazioni, le particolarità salienti, il richiamo

ai colori, appunti vari, memoranda. Tra questi ultimi compaiono spesso documenti trovati in archivi

 pubblici e privati a dar peso e conferma a certe sue nuove e stupefacenti attribuzioni. Gran merito

del C. è infatti quello di aver improntato i suoi scritti ed una scientificità tutta moderna, ispirata alla

storiografia artistica dei fratelli Milanesi; non più dunque l’accettazione, supina delle antiche

tradizioni o di leggende tali da trasfigurare la personalità dell’artista, né un’adesione reverenziale

alla critica vasariana che ancora informava di sé i maggiori studiosi; il supporto di una riccadocumentazione, spesso di prima mano, affiancata a un notevolissimo bagaglio bibliografico,

rappresenta il pregio e la novità di tutta la sua opera. Per tali motivi, a distanza di un secolo, durante

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il quale i nuovi ritrovati della tecnica (piante, rilievi, disegni d’architettura, foto, fotocolor,

“trasparenti”) hanno in tutto sostituito i promemoria grafici del C., i suoi scritti continuano a

mantenere validità.

Per quanto riguarda la struttura e le classificazioni della sua Storia, il C. riprese lo schema del

Lanzi, dividendo i pittori per scuole e dando particolare rilievo alla pittura veneta.

Il suo interesse andava direttamente ai valori formali delle opere, e in questo l’indagine meticolosa

che egli sviluppava con il disegno e l’analisi grafica dei particolari era lo strumento essenziale della

sua penetrazione critica nello stile dei pittori. Giustamente annota il Moretti (1971, pp. 40-41): “Il

suo metodo era empirico e si fondava sulla percezione acuta delle distinzioni di stile da cogliere in

tutte le parti dell’opera; metodo estraneo al tentativo del Morelli di razionalizzare la tecnica del

conoscitore con la nota dottrina per la quale l’individualità dell’autore si manifesta in quei

 particolari, dove lo sforzo artistico è più debole, e perciò la forma è meno elaborata e più

rispondente all’istinto inconscio”.

L’ideologia risorgimentale trova in C. un eminente esponente; tutti e due gli aspetti fondamentalidella sua attività –  di storico dell’arte e di operatore culturale per la difesa del patrimonio artistico

nazionale –  trovano ispirazione nella sua concezione di cultura nazionale. “L’arte di un’epoca –  egli

dice nella pagina conclusiva del suo saggio del 1863 sulla Conservazione dei monumenti ed oggetti

d ’arte –  non può essere la stessa di quella di un’altra, come l’italiana non fu la greca, perché l’arte

non esprime che i bisogni del tempo ed i caratteri del popolo in mezzo al quale è nata e vive,

altrimenti è un’arte convenzionale, fattizia, arte senza vita... Per avere un’arte dunque non bastano

gli insegnamenti, ma conviene che essa sia sentita nel paese, sia, per così dire, un bisogno,

un’emanazione del sentimento nazionale stesso; ispirazione d’una grande idea, d’un grande

 principio che le dia vita o moto...”. Perciò la difesa dell’arte del passato si colloca in una visione di

restaurazione del principio di unità e continuità della vita e della tradizione nazionale; e si attua da

un lato con un’azione legislativa, per impedire le esportazioni delle opere d’arte più importanti

(contrapponendosi il C. in ciò al concetto pseudoliberistico in materia di svendita all’estero dei

governanti del tempo e di storici dell’arte insensibili al problema, come il Morelli e altri) e dall’altro

“col provvedere alla conservazione delle opere antiche, col riordinare le gallerie, col dimostrare le

scuole degli antichi nostri maestri per mezzo delle opere, non che colla ricerca dei documenti atti a

correggere i molti errori che s'incontrano, anche nella storia dell’arte”. Queste parole di apertura del

saggio citato sono la sintesi del suo concetto di organizzazione scientifica dell’amministrazione

delle Belle Ar ti, nel quale la storia dell’arte ha la stessa funzione che la storia della letteratura

nell’idea che De Sanctis, allora ministro della Pubblica Istruzione, ha dell’educazione nazionale. Ed

è da notare che in questo atteggiamepto rinnovatore della cultura e della politica delle arti il C. si

trova nella stessa posizione che anima gli altri esponenti dell’amministrazione e della politicaculturale del nuovo governo della Destra storica: Giuseppe Fiorelli nel campo dell’archeologia,

Ruggero Bonghi in quello delle biblioteche, C. Boito in quello della difesa e del restauro

dell’architettura. Anche se nel C., per i molti indizi segnalati dal Moretti (1973, pp. 23, 131), si può

sottolineare una concordanza di cultura e formazione con lo storicismo di Cattaneo e del

 Politecnico.

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Vasari, Giorgio

Enciclopedie on line

Vasari ⟨- ʃ -⟩, Giorgio. - Pittore, architetto e scrittore (Arezzo 1511 - Firenze 1574). Artista

manierista, fu attivo, come pittore e soprattutto come architetto, in diverse città italiane (Arezzo,Bologna, Napoli, Roma). Il nome di V. rimane legato però soprattutto alle grandi committenze

 pubbliche dei Medici a Firenze (complesso degli Uffizi) e alla raccolta delle Vite, edite la prima

volta nel 1550 (Vite dei più eccellenti architetti pittori et scultori italiani da Cimabue insino a'

tempi nostri), che costituiscono la prima opera moderna di storiografia artistica, nelle quali V. definì

il canone dell'arte italiana fra Trecento e Cinquecento.

Vita e opereAd Arezzo frequentò la bottega di G. de Pierre de Marcillat; a Firenze studiò con

Andrea del Sarto e B. Bandinelli, conobbe Michelangelo e fu introdotto nella cerchia della corte

medicea. Ad Arezzo conobbe Rosso Fiorentino; quindi lavorò con F. Salviati e poi presso V.

Ghiberti. Importanti nell'ambito della sua complessa formazione furono inoltre i viaggi a Roma

(1532 e 1538). Alla produzione giovanile risalgono il basamento dell'organo del duomo di Arezzo(1535-37) e vari dipinti per chiese cittadine ( Deposizione di Cristo, SS. Annunziata). Lavorò inoltre

alla decorazione dell'abbazia di Camaldoli (1537) e del refettorio di S. Michele in Bosco a Bologna

(1539-40), opere che denotano un accostamento a F. Salviati e al Parmigianino. Alla prima

commissione per una chiesa fiorentina ( Allegoria della Concezione, 1541, SS. Apostoli) seguì un

viaggio a Venezia; iniziò (1542) la ristrutturazione e gli affreschi della sua casa ad Arezzo; lavorò

quindi a Napoli (1544-45) nel monastero degli Olivetani. A Roma fu introdotto con successo nella

cerchia del cardinale A. Farnese, per il quale decorò (1546) la sala della Cancelleria. In questi anni

fu in stretto contatto con Michelangelo, la cui influenza è evidente nella cappella Del Monte in S.

Pietro in Montorio a Roma, complesso intreccio di architettura, scultura e pittura, e nel progetto per

Villa Giulia (1550-52). Chiamato a Firenze (1554) da Cosimo I, negli anni seguenti fu al centro dei

 principali avvenimenti artistici della città. Nell'attività per il granduca V. si dimostra artista

versatile, che coniuga la continuità della tradizione architettonica fiorentina con le necessità di

decoro e convenienza. Con vari collaboratori lavorò alla decorazione di Palazzo Vecchio (Quartiere

degli Elementi, 1555-57, e di Leone X, 1555-62; salone dei Cinquecento, 1562-65; studiolo di

Francesco I, 1570-72). Iniziò (1560) la fabbrica degli Uffizi, sede degli uffici di tredici

magistrature; ideato come raccordo spaziale tra Piazza della Signoria e il fiume, l'edificio è scandito

da una tripartizione orizzontale, che ne sottolinea le caratteristiche di assialità e simmetria.

All'attività per i Medici si affiancarono committenze private e lavori di rimodernamento di chiese

medievali (pieve di S. Maria ad Arezzo, 1560-64; S. Maria Novella, 1565-67 e S. Croce, 1566-68, a

Firenze). Tra le ultime opere, il progetto delle logge di Piazza Grande in Arezzo (1570-72) e le

decorazioni nelle tre cappelle Pie e nella Sala Regia in Vaticano (1571-73); incompiuta, per la suamorte, la decorazione della cupola del duomo di Firenze, per la quale lasciò numerosi disegni. V.

ebbe un importante ruolo nella fondazione/">fondazione dell'Accademia delle arti del disegno

(1563) e fu collezionista di disegni di maestri italiani. Tra i suoi scritti la rilevanza maggiore spetta

certamente alle Vite, di cui pubblicò una seconda edizione nel 1568 presso l'editore Giunti (con

titolo un po' modificato e con l'aggiunta delle Vite de' vivi, et de' morti, dall'anno 1550 infino al

1567), opera fondamentale nella storiografia artistica italiana, in cui V. elaborò il concetto dello

svolgimento e della "rinascita" dell'arte attraverso tre età, che segnano l'abbandono del Medioevo,

l'ingresso nell'età moderna tramite il recupero dell'antico, e la piena maturità, espressa nell'opera di

Michelangelo.

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Spasimo di Sicilia - Raffaello Sanzio

Lo Spasimo di Sicilia ( Andata al Calvario) è un dipinto

a olio su tavola trasportata su tela (318x229 cm) di

Raffaello Sanzio e aiuti, databile al 1517 e conservato

nel Museo del Prado di Madrid. L'opera è firmata suuna pietra in primo piano "RAPHAEL URBINAS". 

La tavola fu commissionata dal monastero

olivetano di Santa Maria dello Spasimo (da cui il

nome dell'opera) di Palermo. Dipinta a Roma entro

il 1517 (quando venne replicata su un'incisione di

Agostino Veneziano) venne invitata per mare, ma

la nave subì un viaggio avventuroso, riportato dal

Vasari e da Vincenzo Borghini, finendo per

naufragare. Le onde portarono la tavola verso le

coste nei dintorni di Genova, dove fu "ripescata etirata in terra, fu veduta essere cosa divina e per

questo messa in custodia, essendosi mantenuta

illesa e senza macchia o difetto alcuno, percioché

sino alla furia de' venti e l'onde del mare ebbono

rispetto alla bellezza di tale opera".Mentre la fama

del ripescaggio miracoloso si spandeva, i siciliani

dovettero ricorrere al favore del papa per riaverla:

di nuovo imbarcata arrivò finalmente a

destinazione.Nel 1661 venne acquistato dal viceré spagnolo Ferrando de Fonseca per il re Filippo

IV, che la volle sull'altare maggiore della cappella del monastero dell'Escorial. Fu a Parigi dal 1813

al 1822, per effetto delle spoliazioni napoleoniche, e in tale occasione si procedette al trasporto su

tela, pratica allora consueta in Francia, dopodiché tornò nelle collezioni spagnole.Le condizioni

della pala, anche a causa del cambio di supporto, non sono buone, per cui è stata rimossa per il

restauro fino la sua nuova presentazione alla mostra El último Rafael nel 2012.

La pala d'altare mostra il Redentore che caduto sulla via del Calvario si rivolge alla Madre, sorretta

dalla Maddalena e dalle pie donne. La scena è molto affollata, con numerosi soldati sia a piedi che a

cavallo, ma ha una piacevole apertura paesistica al centro, tra le due macchie di colore dello

stendardo rosso e di un edificio.L'espressività è drammatica e intensa, con un veloce incedere della

narrazione: Gesù sembra chiedere soccorso alla madre, che allunga le braccia invano, come per

volerlo sostenere; nella concitazione generale un soldato sta per sferzare un colpo di lancia e unaltro, girato di spalle, strattona la corda legata in vita a Gesù senza pietà; al centro la possente

muscolatura di Giuseppe d'Arimatea si fa carico dello sforzo di risollevare la croce.Evidenti sono i

rimandi al gusto nordico, come la Piccola e la Grande Passione di Dürer, e alla concitazione

michelangiolesca, tali da anticipare il manierismo. L'ideazione è sicuramente del Sanzio, ma la

stesura è riferita in gran parte agli allievi, come usuale nell'ultima fase della carriera del pittore.

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Vergine delle Rocce - Leonardo da Vinci (Louvre)

La prima versione della Vergine delle Rocce è un

dipinto a olio su tavola trasportato su tela

(199x122 cm) di Leonardo da Vinci, databile al

1483-1486 e conservato nel Musée du Louvre di

Parigi.

Il 25 aprile 1483 Bartolomeo Scorione, priore della

Confraternita milanese dell'Immacolata

Concezione (una confraternita laica maschile),

stipulò un contratto per una pala da collocare

sull'altare della cappella della Confraternita nella

chiesa di San Francesco Grande (oggi distrutta) col

giovane artista arrivato circa un anno prima da

Firenze. Per Leonardo era la prima commissione

che otteneva a Milano, dove era stato accolto

tiepidamente. Al contratto presenziarono anche i

 più noti fratelli pittori Evangelista e Giovanni

Ambrogio De Predis, che ospitavano Leonardo

nella loro abitazione vicino Porta Ticinese.

Il dettagliatissimo contratto prevedeva un trittico. Nella pala centrale la Madonna con un ricco abito

di "broccato doro azurlo tramarino" e "con lo suo

fiollo", Dio Padre in alto, anche lui con la "vesta

de sopra brocato doro", un gruppo di angeli alla

"fogia grecha" e due profeti. Nelle due parti

laterali i confratelli chiedevano quattro angeli, "uno quadro che canteno et l'altro che soneno". Le

tavole laterali, affidate ai De Predis, dovevano mostrare angeli in gloria, il tutto per un compenso di

ottocento lire imperiali da pagarsi a rate fino al febbraio 1485. L'intelaiatura lignea venne invece

affidata a Giacomo del Maiano.Non è chiaro perché Leonardo cambiò il soggetto della tavola,

optando piuttosto per il leggendario incontro tra i piccoli Gesù e Giovanni narrato nella Vita di

Giovanni secondo Serapione e in altri testi sull'infanzia di Cristo. Potrebbe essere stato Leonardo adecidere arbitrariamente le modifiche, ma è possibile che, viste le consuetudini dell'epoca, siano

state le richieste dei committenti a cambiare anche in considerazione dello stile un po' "arcaico"

della prima richiesta. Giovanni Battista infatti era il protettore, assieme a san Francesco, della

Confraternita dell'Immacolata, che quindi si riconosceva nella figura del Battista inginocchiata

davanti a Gesù e da lui benedetta, nonché, allo stesso tempo, protetta dalla Vergine Maria.Non

vennero dipinti né Dio padre, né i profeti e gli angeli "alla foggia greca". Due soli angeli musicanti

vennero dipinti da Ambrogio de Predis nelle ali laterali (oggi conservate alla National Gallery di

Londra).

Spesso si è letto che, a causa dell'inadempienza contrattuale legata al soggetto, la Confraternita

contestò il dipinto considerandolo incompiuto, o addirittura inadatto poiché eretico. Studi più precisi, basati sui documenti d'archivio relativi alla controversia legale che oppose gli artisti ai

committenti, hanno permesso di delineare una vicenda diversa.In una supplica al Duca di Milano,

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databile tra il 1493 e il 1494, Leonardo da Vinci e Ambrogio de Predis (Evangelista era nel

frattempo morto alla fine del 1490 o all'inizio del 1491) richiedevano che l'opera dovesse essere

 pagata più della cifra pattuita inizialmente (200 ducati) in quanto la realizzazione, soprattutto a

causa della complessa ancona dorata e intagliata, sarebbe stata molto più laboriosa e dispendiosa.

Gli artisti dunque chiedevano un conguaglio di 100 ducati per il dipinto centrale, ma se ne videro

offrire solo 25. Proposero allora che venissero nominati degli "esperti dell'Arte" che giudicassero illavoro oppure che i committenti «lasano ali dicti exponenti dicta nostra dona fata a olio» per la

quale hanno già ricevuto diverse offerte di cento ducati «da persone quale hanno voluto comprare

dicta Nostra Dona». Questo ha fatto supporre ad alcuni che la prima versione della Vergine delle

Rocce fosse già stata posta in opera ma che gli autori ne stessero chiedendo la restituzione, mentre

altri hanno sostenuto che l'opera non sia mai arrivata alla cappella dell'Immacolata, ma si trovasse

ancora nello studio degli artisti. In particolare Marani sostiene senza mezzi termini che «i pittori

stanno tentando di ricattare i confratelli, chiedendo una maggiorazione del compenso, salvo appunto

trattenere presso lo studio il dipinto». La diatriba tra Leonardo e la Confraternita si trascinò così per

molti anni e fu chiusa nel 1506 da una sentenza con cui l'opera venne dichiarata ufficialmente

"incompiuta". Leonardo era tenuto a portarla a termine entro due anni, ma gli venne riconosciuto un

conguaglio di 200 lire (corrispondenti a 50 ducati, la metà di quanto aveva inizialmenterichiesto).Nel frattempo Leonardo aveva abbandonato Milano, era tornato a Firenze ed aveva

visitato numerose città. La seconda versione della pala, che mitiga alcuni aspetti più rivoluzionari

dell'opera, doveva essere già avviata prima della partenza di Leonardo (1499), venendo poi

completata in occasione del suo secondo soggiorno milanese, nel 1506. Nella seconda versione la

Madonna appare più grande e maestosa, i due bambini sono più riconoscibili e soprattutto è sparito

l'inconsueto gesto della mano dell'angelo, che nella prima versione indicava Giovanni, e il suo

sguardo diretto allo spettatore. I classici attributi della iconografia tradizionale, come le aureole e il

 bastone con la croce del Battista, sarebbero stati aggiunti molti anni più tardi, probabilmente nei

 primi decenni del XVII secolo.Secondo un'ipotesi recente le due versioni della Vergine delle Rocce

sarebbero state realizzate per due diversi luoghi e committenti nella stessa città di Milano: la prima

 per la cappella palatina della chiesa di San Gottardo in Corte, e la seconda per la cappella

dell'Immacolata nella chiesa di San Francesco Grande.

La versione londinese si trovava sicuramente a San Francesco poco prima che la chiesa venisse

demolita nel 1576; trasportata nella sede della confraternita, vi rimase fino alla soppressione del

1785, quando venne venduta al pittore inglese Gavin Hamilton che la portò in Inghilterra.Il destino

della prima versione, quella parigina, è più incerto e nessuna delle diverse ipotesi sull'arrivo

dell'opera in Francia ha ancora trovato una conferma documentale. Nell'ipotesi più accreditata,

durante la lunga disputa legale che vide contrapposti Leonardo e Ambrogio de Predis alla

Confraternita dell'Immacolata, la prima versione sarebbe stata venduta a qualcuno che aveva fatto

generose offerte d'acquisto, forse lo stesso duca Ludovico il Moro che l'avrebbe esposta nellacappella del palazzo ducale, e sarebbe poi caduta nelle mani dei francesi assieme a tutte le sue

 proprietà. Altri studiosi sostengono che la pala oggi al Louvre sarebbe identificabile con la Maestà

inviata in dono da Ludovico il Moro a Massimiliano d'Asburgo in occasione delle nozze

dell'imperatore con Bianca Maria Sforza (1493), e il passaggio in Francia sarebbe avvenuto molti

anni più tardi, in occasione di altre nozze, quelle di Eleonora, nipote di Massimiliano, con

Francesco I di Francia.In ogni caso la prima documentata presenza del dipinto nelle collezioni

francesi risale al 1625, quando Cassiano dal Pozzo, che aveva accompagnato il cardinal Barberini

nella sua legazione in Francia, la vide a Fontainebleau nella galleria delle pitture. Il dipinto si

trovava poi nel catalogo del Musée Royal nel 1830 e ai primi del XIX secolo venne effettuato il

trasporto su tela dal restauratore François Toussaint Hacquin, secondo pratica allora molto

frequente.Dal punto di vista dell'influenza su altri lavori, la fortuna di questa composizione fuenorme: si conoscono infatti innumerevoli copie create da artisti italiani e stranieri. In particolare,

un dipinto ospitato nella chiesa di Santa Giustina ad Affori (Milano) è stato probabilmente eseguito

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da Ambrogio de Predis negli stessi anni in cui i due collaboravano per la realizzazione del celebre

dipinto.Tra le tante derivazioni del tema va segnalata anche la cosiddetta "terza versione" del

quadro (versione Cheramy), custodita in una collezione privata in Svizzera e da alcuni (tra cui Carlo

Pedretti) attribuita alla mano dello stesso Leonardo.

Soggetto: La scena si svolge in un umido paesaggio roccioso, orchestrato architettonicamente, incui dominano fiori e piante acquatiche, descritti con minuzia da botanico; da lontano si intravede un

corso d'acqua. Al centro Maria allunga la mano destra a proteggere il piccolo san Giovanni in

 preghiera, inginocchiato e rivolto a Gesù Bambino, che si trova più in basso, a destra, in atto di

 benedirlo e con il corpo in torsione. Dietro di lui si trova un angelo, con un vaporoso mantello

rosso, che guarda direttamente verso lo spettatore con un lieve sorriso, coinvolgendolo nella

rappresentazione, e con la mano destra indica il Battista, rinviando lo sguardo verso il punto di

 partenza in una carambola di linee di forza. La mano sinistra di Maria si protende in avanti come a

 proteggere il figlio, con un forte scorcio. Già Pedretti rilevava una serie di elementi inquietanti nella

tavola, come la fisionomia ambigua dell'angelo (definito "un'arpia"), mentre Bramly riferendosi

all'inconsueta posizione della mano sinistra di Maria la descrive come "l'artiglio di un'aquila". Due

cavità si aprono ad arte nello sfondo, rivelando interessanti vedute di speroni rocciosi e gruppi dirocce irte, che a sinistra sfumano in lontananza per effetto della foschia, secondo la tecnica della

 prospettiva aerea di cui Leonardo è considerato l'iniziatore. In alto invece il cielo si fa cupo, quasi

notturno, con l'incombere minaccioso della grotta, punteggiata da innumerevoli pianticelle.

Fonti del soggetto: La scena raffigura l'incontro tra il piccolo Gesù e Giovanni Battista, un

episodio che non è narrato nei vangeli canonici ma deriva principalmente dalla Vita di Giovanni

secondo Serapione e, per certi particolari come l'ambientazione in un paesaggio roccioso, da episodi

tratti da vangeli apocrifi e altri testi devozionali, all'epoca fonti molto utilizzate per l'elaborazione

dei soggetti di arte sacra. Nell'apocrifo Protovangelo di Giacomo si legge che Elisabetta, la madre di

Giovanni, seppe che Erode voleva uccidere tutti i bambini, così prese il figlio e fuggì su una

montagna. Guardandosi attorno e non trovando un rifugio, invocò Dio e in quel momento «il monte

si aprì in una cavità e l'accolse (...) e una luce vi traspariva per loro, perché presso di loro c'era un

angelo del Signore che li custodiva». Nella Natività di Maria e Gesù (o Libro dell'infanzia del

Salvatore), secondo il Codice Arundel 404 (A102), troviamo una scena successiva ambientata sulla

montagna: «Giovanni si trovava con sua madre Elisabetta nel deserto, nella fessura del monte

altissimo, e l'angelo di Dio li nutriva. Nel deserto, Giovanni si irrobustiva. Il suo cibo era poi

costituito da locuste di campo e miele selvatico; il suo vestito era fatto di peli di cammello, e

 portava ai fianchi una cintura di pelle». Nella Vita di Giovanni secondo Serapione, si assiste

all'incontro tra i due bambini. Gesù vede Giovanni in lacrime vicino alla madre Elisabetta morta

dopo cinque anni di peregrinazioni tra montagne e deserti e gli dice di non disperarsi perché «io

sono Gesù Cristo, tuo maestro. Io sono Gesù, tuo parente. Sono venuto da te con la mia madrediletta per preparare la sepoltura della benedetta Elisabetta tua madre felice. Ella è parente di mia

madre. Quando il benedetto e santo Giovanni udì questo, si volse. Il signore Cristo e la sua vergine

madre lo abbracciarono». Secondo questo racconto Gesù e la madre si fermano sette giorni; nel

ripartire, vedendo che la madre piange per la solitudine del piccolo Giovanni, Gesù le dice che non

deve preoccuparsi perché questo è il volere di Dio, e aggiunge «Qui c'è pure Gabriele, il capo degli

angeli: gli ho dato l'incarico di proteggerlo e di elargirgli potere dal cielo. Io inoltre gli renderò

l'acqua di questa sorgente dolce e deliziosa come il latte che succhiò dalla madre». Un'altra

versione dell'incontro si trova in un testo dell'inizio del Trecento che riprende ed elabora anche

vicende tratte dagli apocrifi, la Meditaciones vite Christi, per lungo tempo attribuito a san

Bonaventura ma oggi restituito al suo autore, il francescano Giovanni de Cauli. Nel brano dedicato

al ritorno dalla fuga in Egitto leggiamo che Gesù e Maria «incontrarono Giovanni Battista che giàqui aveva cominciato a fare penitenza, pur non avendo alcun peccato. Si dice che il luogo del

Giordano nel quale Giovanni battezzò è quello da dove passarono i figli d'Israele quando vennero

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dall'Egitto per detto deserto; e che presso quel luogo nello stesso deserto Giovanni fece penitenza.

Da cui è possibile che il bimbo Gesù passando da lì nel suo ritorno trovò lui nel medesimo luogo».

Pietro Marani ha sostenuto in più occasioni che il soggetto dell'opera potrebbe invece essere stato

ispirato alla Apocalypsis Nova del Beato Amadeo Mendes da Silva, un francescano che tra il 1454 e

il 1457 fu ospite della Confraternita milanese. Amadeo dava infatti grande importanza a Maria e

Giovanni Battista come nuovi protagonisti della sua interpretazione dei testi sacri, e soprattuttoMaria era vista come ripiena della perfezione e dotata del dono della "scienza totale" assimilata alla

Sapienza, immagine della conoscenza universale. Secondo Marani Leonardo potrebbe aver

 posseduto quello scritto in quanto nel Ms Madrid 8936, fol.3 recto egli registra un "Libro

dell'Amadio". Ma questo è quasi certamente riconducibile a un libro di architettura di Giovanni

Antonio Amadeo, architetto lombardo che in diverse occasioni collaborò con Leonardo e che venne

designato come "arbitro" proprio nella disputa legale che vide l'artista contrapposto alla

Confraternita dell'Immacolata.

Stile: Le figure emergono dallo sfondo scuro, con una luce diffusa tipica dello sfumato leonardesco,

che crea un'atmosfera avvolgente, di "pacata Rivelazione". L'opera sembra celare infatti il mistero

dell'Immacolata concezione, con l'arido scenario montuoso, oscuro e simbolico, che evoca, con lamanifestazione delle viscere della natura in cui la Vergine sembra incastrarsi a perfezione, il senso

del mistero legato alla maternità.I colori sono più cupi di quelli utilizzati da Leonardo nella versione

successiva, ma la luce è decisamente più calda di quella, asettica e tagliente, di Londra.

Simbologie: La caverna rappresenta l'utero materno, il luogo della rinascita ed il passaggio

nell'Aldilà. La roccia è strettamente in relazione con la missione di Cristo sulla terra, sorgente e

 bevanda purificatrice dell'anima. La Vergine è ritratta nella sua funzione protettrice di madre e

nutrice. L'angelo indica Giovanni Battista, messaggero della Redenzione, che si compirà attraverso

il Battesimo e il sacrificio di Cristo. Il dito rivolto verso l'alto indica la dimensione superiore ed

ultraterrena, alla quale Gesù è predestinato.

Vergine delle Rocce (Londra) - Leonardo da Vinci

La seconda versione della Vergine delle Rocce è un

dipinto a olio su tavola (189,5x120 cm) di Leonardo da

Vinci, databile al 1494-1508 e conservato nella

National Gallery di Londra. La prima versione del

dipinto, databile al 1483-1486 circa, è invece al Museo

del Louvre. 

La prima versione, quella parigina, vennecompletata relativamente presto, ma Leonardo e i

committenti non si trovarono d'accordo sui

 pagamenti e, forse, sull'aspetto generale della

tavola, che, come ha notato -tra gli altri- Pedretti,

ha una serie di elementi inquietanti,

dall'ambientazione scura e umida, all'ambiguo

sorriso dell'angelo che guarda lo spettatore, fino

alla mano "rapace" che Maria stende sul Bambin

Gesù. Leonardo quindi si rifiutò di consegnare

l'opera, stando anche alla documentazione

 pubblicata dalla Ottino e pochi anni dopo, forsericevuto un conguaglio soddisfacente, mise mano a

una seconda versione del dipinto, di identiche

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dimensioni (la cornice era dopotutto pronta da tempo) e soggetto, sebbene con alcune varianti

stilistiche e iconografiche.Con molta probabilità la versione definitiva dell'opera venne dipinta in

due fasi distinte: una databile nell'ultimo decennio del Quattrocento, sospesa per la partenza di

Leonardo da Milano nel 1499; una seconda databile ai primi anni del suo secondo soggiorno

milanese, al 1506-1508. Nel 1503 Antonio da Monza trasse infatti una copia del dipinto su

miniatura (Vienna, Albertina), dove l'opera appare ancora incompleta nella parte inferiore. In queglianni la prima versione venne venduta a Luigi XIII di Francia.Alla seconda versione partecipò

 probabilmente anche Ambrogio De Predis, socio milanese di Leonardo fin dal suo primo arrivo, al

quale sono di solito assegnati anche i due angeli laterali che componevano il trittico della pala

d'altare, oggi pure al museo londinese. Alcuni ipotizzano addirittura che l'autore del dipinto sia

interamente il De Predis, che copiò il cartone di Leonardo, ma si tratta di un'attribuzione

minoritaria: nel 2005 gli esperti della National Gallery di Londra hanno analizzato ai raggi

infrarossi il dipinto trovando sotto di questo un disegno precedente, attribuibile allo stesso

Leonardo.

Le aggiunte delle aureole e della croce di san Giovannino sono ritenute apocrife e di epoca

moderna.La versione londinese del dipinto è sicuramente quella che effettivamente venne installatasull'altare in San Francesco Grande, ancora lì al tempo della demolizione della chiesa nel 1576.

Trasportata nella sede della confraternita, vi rimase fino alla soppressione del 1785, quando il conte

di Cicognara, regio amministratore dei beni ereditati dall'istituzione soppressa, la cedette per

centododici zecchini romani al pittore inglese Gavin Hamilton, che la portò in Inghilterra. I suoi

eredi vendettero il dipinto a Lord Lansdowne; l'opera passò poi al conte di Suffolk e nel 1880 alla

 National Gallery, che la pagò duecentocinquantamila franchi.Esiste una terza versione del dipinto

(la cosiddetta Vergine delle Rocce Cheramy), oggi in una collezione privata in Svizzera, attribuita a

Leonardo da Carlo Pedretti, ma rifiutata da altri specialisti del settore tra cui Pietro Marani e

Giovanni Agosti.

Descrizione e stile:

Angelo di sinistra del trittico originale Angelo di destra del trittico originale 

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La composizione è, in generale, identica alla prima redazione del dipinto, con uno sviluppo

 piramidale complesso e numerosi rimandi da un'estremità all'altra del dipinto: al centro si trova la

Madonna, che con il braccio destro scosta il mantello per accordare un gesto di protezione al

 piccolo san Giovanni, a sua volta inginocchiato e in preghiera verso Gesù Bambino, posto in basso

a destra in posizione benedicente; un angelo si trova dietro di lui, mentre Maria stende sul figlio la

mano sinistra, rappresentata in scorcio, in un gesto protettivo. Le quattro figure sono quindicollegate tra loro da gesti e sguardi, che creano triangoli tra le direttrici delle linee di forza, il tutto

racchiuso in una forma circolare che suggerisce completezza ed eternità. Rispetto alla prima

versione si nota una scala più monumentale delle figure rispetto allo sfondo, con una chiarificazione

dei personaggi tramite aureole e attributi, che però potrebbero essere stati aggiunti successivamente.

La figura più modificata è l'angelo, che non guarda più verso lo spettatore "invitandolo" nella sacra

rappresentazione, ma ha un ruolo più gregario; non ha il drappo rosso che lo evidenzia e soprattutto

non fa l'insolito gesto di indicare il Battista. Le espressioni dei volti sono molto studiate e rese

abilmente grazie all'uso di luci ed ombre e all'effetto sfumato; permane la tendenza tipica di

Leonardo a rappresentare profili mascolini e spigolosi. La figura umana, inoltre, non è circoscritta e

isolata, bensì fusa armonicamente con il paesaggio circostante. Molto diversa è invece l'atmosfera

generale, molto più nitida e "asciutta", con una cromia spenta, basata su un azzurro cinerino e suvarie tonalità del bruno, che rimanda alla tradizione lombarda. Maggiore è il senso plastico delle

rocce, con un effetto scenico negli stessi due scorci in cui si aprono vedute "interessanti": una grotta

aperta verso un fiume tra picchi irti a sinistra (sfumati secondo la prospettiva aerea), e uno sperone

roccioso a destra. L'osservatore viene quindi ad essere condotto progressivamente in lontananza,

apprezzando la spazialità dell'opera. L'effetto tridimensionale dipende quindi dall'effetto

atmosferico, in quanto la presenza dell'aria costituisce un velo che offusca la visione. I fiori bianchi

sotto il Battista potrebbero essere giglio o viole del pensiero, simboli di purezza ed espiazione, che

furono studiati accuratamente dall'artista