DAL LIBRO DELLA SAPIENZA La proverbiale sapienza di Salomone.
Riccardo Salomone, Il collegamento tra il fatto del colpevole e la responsabilità dell'ente ex art....
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Transcript of Riccardo Salomone, Il collegamento tra il fatto del colpevole e la responsabilità dell'ente ex art....
IL COLLEGAMENTO TRA
IL “FATTO DEL COLPEVOLE” E
LA RESPONSABILITÀ DELL’ENTE
EX ART. 185 DEL CODICE PENALE
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AVV. RICCARDO SALOMONE
STUDIO LEGALE SALOMONE
SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Il collegamento tra il colpevole e il fatto di reato. – 3. Il caso specifico delle società
straniere. – 4. La solidarietà passiva.
1. Introduzione. – Il responsabile civile, ai sensi dell’art. 185 c.p., è obbligato in solido
con l’imputato al risarcimento e alle restituzioni del danno: cosicché “ogni reato, che abbia
cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le
persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui”. Per questo
motivo è meglio definito “corresponsabile”; alcuno (1) parla, poi, di “solidarietà passiva” col
colpevole e di sussistenza ontologica della responsabilità per fatto altrui ex art. 185 c.p.
derivante da quella principale del reo.
Quindi, “l’azione contro il responsabile civile nel processo penale è consentita solo se vi
sia responsabilità civilistica con l’imputato e solo per il fatto di questo” (2).
La dottrina si è chiesta quale rapporto intercorra fra l’art. 185 c.p. e l’art. 2043 c.c., che
pone la disciplina generale della responsabilità civile: si tratta di stabilire se l’art. 185 c.p. abbia
il mero ruolo di norma riproduttiva di quella civilistica oppure se sia dotata di un suo ruolo
autonomo. La chiave per comprendere il significato dell’art. 185 risiede probabilmente nel
comma 2, dove la lettera della legge distingue chiaramente i due elementi della fattispecie
risarcitoria: il reato che dà origine al danno e il risarcimento cui il colpevole è tenuto. Mentre il
primo elemento, che rappresenta uno di quei fatti dolosi o colposi cui l’art. 2043 c.c. riconduce
la responsabilità per danni, appartiene al ed è disciplinato dal diritto penale, il secondo
appartiene al diritto civile e da esso è disciplinato (3).
In ordine all’ambito di tutela delle situazioni che autorizzano la chiamata del
responsabile civile, si è registrata un’estensione a seguito della pronuncia della Corte
Costituzionale (n. 112/1998) (4), con la quale si è dichiarato “illegittimo l’art. 83 c.p.p. nella
parte in cui non prevede che, nel caso di responsabilità civile derivante dalla assicurazione
obbligatoria prevista dalla L. n. 990/1969, l’assicuratore possa essere citato nel processo
penale a richiesta dell’imputato”. In dettaglio, si è riscontrata la lesione del principio di
(1) VANNI, voce “Responsabile civile”, in Enc. Giur., XXVI, Roma, 1991, 1. (2) CHILIBERTI, Azione civile e nuovo processo penale, Milano, 1993, 269. (3) BARBIERI, in Codice penale commentato, a cura di Dolcini e Marinucci, Milano, 2011, 2127. (4) Corte Cost. n. 112/1998, in Cass. Pen., 1999, 2465, con nota di CATALANO .
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uguaglianza a causa della mancata previsione, in campo penale, dell’analoga facoltà per
l’imputato di chiamare in garanzia l’assicuratore, come avviene per il convenuto in sede civile.
Il ragionamento parte da un’interpretazione lata del termine “garanzia” ex art. 106 c.p.c.
(5), che riconosce al convenuto la facoltà di chiamare in garanzia qualsiasi obbligato in via
solidale; orbene, questo iter logico e deduttivo potrebbe essere esteso a una gamma di
situazioni più ampia rispetto all’oggetto della pronuncia.
In merito all’individuazione del soggetto che deve rispondere solidalmente con il
colpevole ovvero all’indicazione della fonte sottostante l’obbligo restitutorio, si rinvia alle leggi
civili. Il particolare rapporto che lega il reo con il terzo deve trovare la fonte in una disposizione
normativa o regolamentare. Si consente, allora, al danneggiato di agire anche nei confronti
delle persone che, pur non potendo essere ritenute colpevoli nell’accezione penalistica,
“devono rispondere delle conseguenze dannose del reato” (6).
La natura della responsabilità per fatto altrui va desunta dal rapporto particolare,
specificatamente previsto dalla legge, fra chi dipende o è sottoposto ad altri e chi a quello è
sovraordinato, nonché tra chi agisce nella sfera di diritti altrui e il titolare di quei diritti a
garanzia dei fatti commessi dal sottoposto (7). Questo particolare rapporto di “garanzia” fa sì
che si estenda l’obbligazione riparatoria derivante dalla commissione del reato al soggetto che
è tenuto, ex lege, a garantire i terzi dai comportamenti del colpevole (8).
In sostanza, la necessaria sussistenza dello speciale rapporto di garanzia fra imputato e
responsabile civile impone che quest’ultimo si identifichi con il soggetto tenuto per legge a
rispondere, unitamente all’accusato, per le restituzioni e il risarcimento dei danni, ovvero con il
soggetto che trae tale obbligo da un contratto fra privati che la legge sancisce come
obbligatorio (es.: r.c.a. ai sensi della L. n. 990/1969).
(5) Art. 106 c.p.c.: “Ciascuna parte può chiamare nel processo un terzo al quale ritiene comune la causa o dal quale pretende essere garantita”.
(6) Cass. pen., Sez. IV, 27/10/2005, n. 39388, in Cass. Pen., 2007, 204: “la denominazione ‘responsabile civile’ è impropria perché dovrebbe parlarsi di ‘corresponsabile civile’ non essendo ipotizzabile un soggetto che debba civilmente rispondere nel processo penale se non in solido con almeno uno degli imputati”. Ciò è confermato dall’art. 538 co. 3° c.p.p., prevedendo che la condanna al risarcimento del danno e alle restituzioni sia pronunciata nei confronti del responsabile civile in solido con l’imputato.
(7) CHIRONI, La colpa nel diritto civile odierno, Torino, 1903, 33. In particolare, tutti coloro che sono ad altri sottoposti e coloro che agiscono nella sfera del diritto altrui restano, nei riguardi dei terzi, garantiti per volontà di legge da coloro dai quali dipendono. I parametri sono la sua non partecipazione psicologica, come concorrente o compartecipe al delitto commesso dal reo, e la relazione intercorrente fra il responsabile civile e l’imputato e la conseguente connessione fra l’illecito e la relazione stessa.
(8) SVARIATI , La legittimazione passiva del responsabile civile (nota a Cass. pen., Sez. IV, 27/10/2005, n. 39388), in Cass. Pen., 2007, 695.
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2. Il collegamento tra il colpevole e il fatto di reato. – Sorge il problema di individuare,
nei casi in cui le strutture societarie siano complesse, ovvero laddove il collegamento organico
tra il reato, l’imputato e la società citata in giudizio non sia di “primo grado”, quale sia la
norma sulla cui base fondare il nesso logico.
Si può discutere circa il riferimento agli artt. 2395 c.c. (“Le disposizioni dei precedenti
articoli non pregiudicano il diritto al risarcimento del danno spettante al singolo socio o al
terzo che sono stati direttamente danneggiati da atti colposi o dolosi degli amministratori”) e
2049 c.c. (“I padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei
loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti”): e questo
poichè, essendo carenti i collegamenti fra l’attività illecita addebitata e la singola società,
viene meno il presupposto della responsabilità in esame, che può essere ravvisato
nell’agevolazione che sarebbe derivata, appunto nella commissione dell’illecito, dalla carica
ricoperta nell’ambito della società (9). Le decisioni pratiche sul punto ritengono che il criterio di
imputazione oggettiva del danno causato dal preposto si giustifica nella teoria del “rischio di
impresa e costituisce espressione di un criterio obiettivo di allocazione dei rischi, per il quale i
danni cagionati dal dipendente sono posti a carico dell’impresa, come componente dei costi di
questa” (10).
Dunque, per effetto della mancanza di un rapporto di occasionalità necessaria, viene
meno la giustificazione (economica prima ancora che giuridica) dell’allocazione del danno nella
sfera patrimoniale della società allorquando l’atto che l’ha provocato esula totalmente
dall’attività d’impresa svolta dall’ente (11).
Di recente, la giurisprudenza ha ribadito che la presenza di una holding personale non
incida sul regime di responsabilità delle singole società anche quando queste siano inserite in
un gruppo, cioè in una pluralità di società collegate o controllate da un’unica società holding,
in quanto, nonostante tale collegamento o controllo, ciascuna di dette società conserva
distinta la propria personalità giuridica ed autonoma qualità d’imprenditore, rispondendo, con
il proprio patrimonio, soltanto dei propri debiti (12).
(9) Cfr. Cass. pen., Sez. III, 2/7/2002, Cerullo, in C.E.D. Cass., 222614; Cass. civ., Sez. III, 14/6/1999, n. 588, in Danno e Resp., 1999, 1022; Cass. civ., Sez. III, 9/7/1998, n. 6691, in Mass. Giur. It., 1998. In dottrina, v. PEDRAZZI, Responsabilità extracontrattuale della banca per truffe di (ex) dipendenti, in Danno e Resp., 1999, 1021.
(10) Trib. Palermo, Sez. III, 9 aprile 2011, in http://www.leggiditaliaprofessionale.it. (11) Cfr. TRIMARCHI, Rischio e responsabilità oggettiva, Milano, 1961; ALPA, Responsabilità dell’impresa e
tutela del consumatore, Milano, 1975, 395; CASTRONOVO, Problema e sistema nel danno da prodotti, Milano, 1979. (12) Cass. civ., Sez. I, 18/11/2010, n. 23344.
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Corollario di tale principio è che, in assenza di addebiti in relazione ad attività illecite
commesse dal socio a capo della holding personale che siano funzionalmente collegate alla
qualifica di amministratore assunta nella singola società, non è possibile, in ragione della
menzionata distinta personalità giuridica dei diversi enti appartenenti al gruppo, addebitare
all’una, piuttosto che all’altra, piuttosto che a tutte le società del gruppo, la responsabilità per i
fatti illeciti del soggetto a capo della holding personale.
3. Il caso specifico delle società straniere. – Nel caso in cui siano coinvolte società
straniere, citate in qualità di responsabili civili, occorre porsi la domanda sulla legge nazionale
da applicare.
Al riguardo, va rilevato che, allorquando il legislatore utilizza, nell’art. 185 c.p.,
l’espressione “leggi civili” al fine di individuare la fonte normativa da cui può discendere la
responsabilità solidale del responsabile civile, egli non intende affatto derogare alle regole di
diritto internazionale privato che individuano i criteri di scelta della legge applicabile ai
rapporti fra privati.
Così, secondo quanto previsto dal comma 2, lett. h), dell’art. 25 L. n. 218/1995, la
responsabilità per le obbligazioni dell’ente viene disciplinata dalla legge regolatrice dell’ente:
“potendo il soggetto straniero, anche persona giuridica, assumere la qualità di socio
illimitatamente responsabile di una società italiana, esso soggiace a tutte le implicazioni
proprie di siffatta qualità, tra cui il fallimento in via di estensione della società italiana,
dichiarato dal competente Tribunale fallimentare italiano. Sotto tale profilo, la giurisdizione
italiana è una mera conseguenza del meccanismo regolato dall’art. 147 della legge fallimentare
(R.D. 16 marzo 1942, n. 267), restando perciò inapplicabile – ove il socio straniero sia una
persona giuridica – la normativa di conflitto dettata, per le società e gli altri enti, dall’art. 25
della legge 31 maggio 1995, n. 218, recante la riforma del sistema italiano di diritto
internazionale privato, alla stregua del quale è disciplinata dalla legge regolatrice dell’ente, tra
l’altro, la responsabilità per le obbligazioni dell’ente stesso” (13).
4. La solidarietà passiva. – Ai sensi dell’art. 187 co. 2 c.p., “i condannati per uno stesso
reato sono obbligati in solido al risarcimento del danno patrimoniale o non patrimoniale”.
(13) Cass. civ., Sez. Un., 6/7/2005, n. 14196, in Mass. Giur. It., 2005.
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Può accadere che agli imputati siano contestati i medesimi reati, ma non in concorso, in
quanto gli addebiti si riferiscano a periodi di effettiva gestione societaria da parte di ciascuno,
con conseguente successione nelle posizioni da cui avrebbe origine la responsabilità.
Se si verte in ipotesi di reato doloso, la responsabilità solidale può essere affermata,
secondo taluni, solo se i compartecipi abbiano voluto la stessa condotta, ciascuno essendo
consapevole di quella dell’altro, e lo stesso evento, concordemente realizzato, non potendosi
trasferire in campo penalistico il disposto di cui all’art. 2055 c.c. (“Se il fatto dannoso è
imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno”).
Tuttavia, la giurisprudenza della Cassazione è di contrario avviso. Al riguardo, si è
osservato che “è certamente vero che alcune incertezze sono ravvisabili in giurisprudenza, ma
che però una interpretazione logico-sistematica dell’art. 2055 c.c. e dell’art. 187 c.p., comma 2,
nonché dell’art. 185 c.p. e degli artt. 1292 e 1294 c.c., porta a conclusioni diverse da quelle
prospettate dalla difesa. Quest’ultima ha sostenuto, fornendo una interpretazione letterale,
ma parziale, della norma citata – art. 187 c.p., comma 2 –, che soltanto nel caso in cui vi sia
condanna per uno stesso reato i condannati sono obbligati in solido al risarcimento del danno.
La soluzione non è corretta. Infatti il legislatore con la norma citata impone un obbligo solidale
tra più persone che siano state condannate per uno stesso reato; si tratta di una norma che
mira a garantire il creditore stabilendo che tutti quelli che abbiano concorso a cagionare un
evento che abbia causato danni debbano, essendo stati tutti condannati, essere obbligati in
solido. In effetti siffatto obbligo non è altro che la trasposizione in campo penale del più
generale principio sancito dall’art. 2055 c.c. secondo il quale se il fatto dannoso è imputabile a
più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno; per esprimere lo stesso
concetto viene usata una terminologia più precisa. La solidarietà ovviamente sussiste sul
presupposto di un concorso di più cause concorrenti in uno stesso evento dannoso e non
anche quando le attività degli asseriti compartecipi siano reciprocamente indipendenti (così
Cass. Civ. 30 gennaio 1987 n. 884 e 13 maggio 1989 n. 2204). In campo penale siffatti principi
sono stati fatti propri da alcune decisioni (Cass. 20 febbraio 1961, Pesaresi, e Cass. 15 gennaio
1964 n. 32) che hanno stabilito che la solidarietà ricorre anche se l’evento sia la risultante di
più condotte illecite, coeve o successive ed anche se le condotte stesse siano tra loro
indipendenti. Ma – si diceva – alcune decisioni sembrano orientate in senso contrario (da
ultimo vedi Cass. 5 dicembre 2000 n. 7671, in CED 218310) e addirittura hanno affermato che è
illegittima, se inflitta in solido, la condanna al risarcimento del danno di persone non
condannate per lo stesso reato, ma per reati diversi. Orbene decisioni come quella da ultimo
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riportata poggiano su un equivoco: l’art. 187, comma 2, impone la solidarietà nel caso di
condanna di più persone per uno stesso reato, ma non esclude esservi solidarietà anche in altri
casi in applicazione del più generale principio dettato dall’art. 2055 c.c. e dagli artt. 1292 e
1294 c.c., norma quest’ultima che, come è noto, stabilisce una presunzione di solidarietà
passiva quando vi sia una pluralità di debitori per un unico debito. Quindi quando vi siano
condotte che abbiano concorso a cagionare un unico evento dannoso non vi è dubbio che il
giudice possa condannare in solido i responsabili. È, invero, il fatto illecito produttivo di danno
che deve essere unico, e non è rilevante se del fatto produttivo di danno possano rispondere
più persone anche a titolo diverso. Insomma se è unico il fatto-reato che ha prodotto danno si
applica il principio di cui all’art. 187 c.p., comma 2, che impone la solidarietà, mentre se il fatto
che produca danno sia unico e ne rispondano più persone, anche se per titoli di reato diversi,
la solidarietà per gli obblighi civili scaturisce dall’art. 2055 c.c. … Del resto, come è stato
giustamente ed autorevolmente affermato, la unicità del fatto illecito, sulla quale si fonda la
responsabilità solidale prevista dall’art. 2055 c.c., va riferita unicamente al danneggiato, e non
va intesa come identità delle azioni dei danneggianti, né delle norme giuridiche violate da
costoro (sul punto vedi anche Cass. Civ. 17 giugno 1980 n. 3833). La interpretazione proposta
consente, infine, di evitare la esistenza di due regimi differenti a seconda se il danneggiato
agisca con l’azione civile in sede penale o se il danneggiato agisca soltanto civilmente, diversità
di regimi che di sicuro il legislatore non ha voluto” (14).
Tale ultima considerazione giustifica il richiamo alla norma dell’art. 2055 c.c., la quale
viene uniformemente interpretata dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento non già
alla condotta, ma al danno.
In quest’ottica, la giurisprudenza civile ha affermato che l’unicità del fatto dannoso
richiesta dall’art. 2055 c.c., ai fini della configurabilità della responsabilità solidale degli autori
dell’illecito, va intesa in senso non assoluto, ma relativo, sicché ricorre tale responsabilità,
volta a rafforzare la garanzia del danneggiato e non ad alleviare la responsabilità degli autori
dell’illecito, pur se il fatto dannoso sia derivato da più azioni o omissioni, dolose o colpose,
costituenti fatti illeciti distinti, e anche diversi, sempre che le singole azioni od omissioni,
legate da un vincolo di interdipendenza, abbiano concorso in maniera efficiente alla
(14) Cass. pen., Sez. V, 15/5/2007, n. 18656.
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produzione del danno, a nulla rilevando, a differenza di quanto accade nel campo penalistico,
l’assenza di un collegamento psicologico tra le stesse (15).
Del resto, anche con una recente sentenza, la Suprema Corte, escludendo la legittimità
della condanna in solido al risarcimento del danno di imputati rispettivamente condannati per
truffa e favoreggiamento reale, ha osservato che “l’unico precedente apparentemente
difforme (16) in realtà riguarda un caso diverso da quello odierno, ovvero si riferisce ad una
ipotesi di unicità dell’evento dannoso anche se posto a carico di più imputati a diverso titolo di
reato” (17).
(15) Cass. civ., Sez. III, 12/3/2010, n. 6041; conformi: Cass. civ., Sez. Un., 22/7/1999, n. 493; Cass. civ., Sez. Un., 11/12/2007, n. 27183; Cass. civ., Sez. III, 17/5/2010, n. 11952.
(16) Cioè proprio la sentenza n. 18656/2007. (17) Cass. pen., Sez. II, 21/4/2010, n. 15285.