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Riccardo Bauer e la Resistenza romana Antonio Conti Intervista di Mario Melino Bauer ereditò Antonio Conti da Pilo Alber- telli, che era un uomo di una intelligenza e di una perspicacia eccezionali. Tali doti gli derivavano da una visione empirica dello svolgersi degli avvenimenti e dei conseguenti atteggiamenti da prendere. Gli elementi che aveva sottomano gli facevano prevedere im- minente la guerriglia antitedesca. Il modo di guardare i suoi interlocutori dava la sensa- zione che egli valutasse attentamente le noti- zie e le parole: le sue risposte perseguivano il filo diretto del suo obiettivo. Dunque di lui ci si poteva fidare e Bauer si fidò. Conobbi Al- bertelli nel 1941, attraverso un professore di latino e greco che incontrai in casa Fiore a Bari. Era Giulio Butticci, col quale ho condi- viso ideali e iniziative fino a qualche anno fa. Appresi da “Proposte Liberal Socialiste” di Pavia nel 1993 la sua morte che mi addolorò, dopo oltre cinquantanni di comune militan- za, anche se non sempre facile. A Roma nel- l’estate del 1941 Butticci mi portò da Pilo. Egli era solo, perché moglie e figli erano al mare. Ci propose di parlare e rifocillarsi con pane e formaggio. Così si fece abbastan- za tardi. Alle 23 circa avevo un treno che do- veva portarmi ad un appuntamento a Firenze con Pippo Codignola. Albertelli propose di accompagnarmi, ma sarebbe sceso prima per evitare la stazione Termini. Quando mancava ancora una fermata ci salutammo: egli scese sul predellino del tram e dopo pochi istanti saltò giù, facendomi un ultimo cenno di saluto. Non lo rividi mai più. Conti apparve ad Albertelli e Bauer come un acquisto di tutto rispetto, sia dal punto di vista professionale, sia dal punto di vista psicologico, stante le delusioni che aveva pa- tito. Conti, mettendosi agli ordini di Bauer, esaltò le sue qualità militari e soprattutto lo spirito di corpo, non tradi la nuova idea al cui servizio si era spontaneamente messo e che in fondo era l’unica che gli veniva offerta in un momento di grande disorientamento, al limite della disperazione derivante dalle con- dizioni del paese. Dopo aver provato tutto il disgusto possibile per la fuga vergognosa del re e l’abbandono totale degli italiani al loro inumano e spietato destino, Conti non ha bi- sogno di essere liberato da precedenti giura- menti, perché è stato tradito nelle sue aspet- tative e nell’onestà imposta dall’onore milita- re, concepito come stile di vita indelebile. Proprio per questo, abituato a ricevere e dare ordini, vede l’esistenza dei partiti come fonte di caos (si veda in proposito la sua propensio- ne per la formazione Bandiera rossa). Si po- trebbe opporre che malgrado la sua rigida educazione sia poi entrato nelle formazioni del Partito d’azione. Certo era stato colpito dall’indomito coraggio dei resistenti di “Giu- stizia e Libertà”, dal decisionismo dei suoi esponenti, dall’ascendente che esercitarono su di lui Albertelli e Bauer. Voleva agire in fa- vore dell’Italia e trovò solidali i nuovi amici nella liberazione e nella sete di eguaglianza e libertà. Italia contemporanea”, giugno 1996, n. 203

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Riccardo Bauer e la Resistenza romana

Antonio Conti Intervista di Mario Melino

Bauer ereditò Antonio Conti da Pilo Alber- telli, che era un uomo di una intelligenza e di una perspicacia eccezionali. Tali doti gli derivavano da una visione empirica dello svolgersi degli avvenimenti e dei conseguenti atteggiamenti da prendere. Gli elementi che aveva sottomano gli facevano prevedere im­minente la guerriglia antitedesca. Il modo di guardare i suoi interlocutori dava la sensa­zione che egli valutasse attentamente le noti­zie e le parole: le sue risposte perseguivano il filo diretto del suo obiettivo. Dunque di lui ci si poteva fidare e Bauer si fidò. Conobbi Al- bertelli nel 1941, attraverso un professore di latino e greco che incontrai in casa Fiore a Bari. Era Giulio Butticci, col quale ho condi­viso ideali e iniziative fino a qualche anno fa. Appresi da “Proposte Liberal Socialiste” di Pavia nel 1993 la sua morte che mi addolorò, dopo oltre cinquantanni di comune militan­za, anche se non sempre facile. A Roma nel­l’estate del 1941 Butticci mi portò da Pilo. Egli era solo, perché moglie e figli erano al mare. Ci propose di parlare e rifocillarsi con pane e formaggio. Così si fece abbastan­za tardi. Alle 23 circa avevo un treno che do­veva portarmi ad un appuntamento a Firenze con Pippo Codignola. Albertelli propose di accompagnarmi, ma sarebbe sceso prima per evitare la stazione Termini. Quando mancava ancora una fermata ci salutammo: egli scese sul predellino del tram e dopo pochi istanti saltò giù, facendomi un ultimo cenno di saluto. Non lo rividi mai più.

Conti apparve ad Albertelli e Bauer come un acquisto di tutto rispetto, sia dal punto di vista professionale, sia dal punto di vista psicologico, stante le delusioni che aveva pa­tito.

Conti, mettendosi agli ordini di Bauer, esaltò le sue qualità militari e soprattutto lo spirito di corpo, non tradi la nuova idea al cui servizio si era spontaneamente messo e che in fondo era l’unica che gli veniva offerta in un momento di grande disorientamento, al limite della disperazione derivante dalle con­dizioni del paese. Dopo aver provato tutto il disgusto possibile per la fuga vergognosa del re e l’abbandono totale degli italiani al loro inumano e spietato destino, Conti non ha bi­sogno di essere liberato da precedenti giura­menti, perché è stato tradito nelle sue aspet­tative e nell’onestà imposta dall’onore milita­re, concepito come stile di vita indelebile. Proprio per questo, abituato a ricevere e dare ordini, vede l’esistenza dei partiti come fonte di caos (si veda in proposito la sua propensio­ne per la formazione Bandiera rossa). Si po­trebbe opporre che malgrado la sua rigida educazione sia poi entrato nelle formazioni del Partito d’azione. Certo era stato colpito dall’indomito coraggio dei resistenti di “Giu­stizia e Libertà” , dal decisionismo dei suoi esponenti, dall’ascendente che esercitarono su di lui Albertelli e Bauer. Voleva agire in fa­vore dell’Italia e trovò solidali i nuovi amici nella liberazione e nella sete di eguaglianza e libertà.

Italia contemporanea”, giugno 1996, n. 203

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Aveva incontrato fin troppi militari pusil­lanimi che avevano un piede alla porta pronti a scappare. Ricordo che nel 1943, ne­gli infausti giorni di settembre, gli ufficiali della IX compagnia di Chieti, che avevano gli uffici al secondo piano della caserma, avevano installato in un vicolo retrostante delle funi dalle quali si facevano cadere al primo accenno di pericolo. Al gonfiore delle loro mani non si aggiunse mai il gonfiore delle bacchettate che sarebbero stati utili per ricordare loro il “dovere” . Ma quale? Quello del re, del principe di Piemonte, del­lo Stato maggiore?

I libri che Conti ha dato alle stampe in questi ultimi anni sono rievocativi di momen­ti importanti della vita militare: frequenza di corsi, caduti per l’idea di patria, decorati. Manca l’epopea della fratellanza d’armi, quegli episodi che rendono umano un “uffi­ciale” , un “soldato” . Ora egli conserva i ri­cordi, li riordina e nel fare questo amministra la giustizia applicando la “ legge dell’espul­sione attraverso la dimenticanza” , quando un minimo dubbio lo tormenta.

Ci fu un nutrito scambio di lettere tra lui e me al momento di dare un titolo al suo ulti­mo volume, Missione Bigelow1, in cui rievoca la sua partecipazione alla lotta di liberazione.

Antonio Conti, erede di una famiglia di fe­deli servitori della patria italiana nelle forze armate, ora è tutto teso a far rivivere politica- mente l’etica di Giustizia e Libertà e i principi del Partito d’azione. Le sorti della sua fami­glia si intrecciano alle aspirazioni risorgimen­tali dell’Italia e al magistero di Giuseppe Mazzini. Il suo avo Angelo, medico condot­to, ebbe tre maschi e sei femmine. Il primoge­nito, avvocato Antonio Conti (1843-1905), nonno ed omonimo dell’attuale Antonio, ri­cevette dal padre una “seria ed austera edu­cazione, orientata all’ideale di una patria li­

bera ed unita” . Nel 1866 partecipò alla terza guerra di indipendenza, che si concluse con la cessione del Veneto all’Italia. Fu adepto di Giuseppe Garibaldi.

Il figlio, Luigi Conti, nato a Borgotaro nel 1886, deceduto a Bergamo il 1963, indi­cò la carriera e la strada maestra dell’etica laica all’attuale Antonio di cui fu padre. Frequentò l’Accademia militare di Modena e partecipò come tenente alla prima guerra mondiale, guadagnandosi una medaglia d’argento. Nel 1882 chiosò il Dizionario uni­versale della lingua italiana di Policarpo Pe­trocchi: rivelatore di un impegno letterario tipico della sua casata. Antonio Conti (1913-1995) vide la luce a La Spezia e ha vissuto a Roma in pensione con il grado onorario di generale di brigata. La sua edu­cazione venne forgiata dalla famiglia, in particolare dal padre e dall’Accademia mili­tare di Modena all’insegna del motto indivi­sibile: disciplina, osservanza del dovere, ob­bedienza pronta, rispettosa, assoluta, spirito di corpo nella fiducia al proprio comandan­te, all’unico scopo di difendere l’onore, l’in­dipendenza e la libertà della patria. Dunque una educazione militare con tutti i crismi: patria e famiglia. Nel volume in cui raccon­ta il tempo e l’impronta educativa ricevuti in Accademia, egli scrive: “ Oggi si crede il contrario, forse è in parte vero, ma è anche calcolata esagerazione per finalità assai so­spette. Sono le conseguenze delle straordi­narie evoluzioni della scienza, della tecnica, dei costumi, delle condizioni di vita e anche di poche collaudate teorie filosofiche” .

Uomo d’ordine e di coraggio, quando eb­be deciso “gittò l’anima oltre l’ostacolo e an­dò a riprenderla” . Tra mille pericoli si mosse in Roma fedele a Giustizia e Libertà e tale ri­mane senza pentimenti.

Mario Melino

Riproduciamo il testo dell’intervista rilasciata dal generale Antonio Conti a Mario Melino a Roma il 21 gennaio 1994.1 Antonio Conti, Missione Bigelow, ORI, Sez. Ani., Roma, Circolo culturale Giustizia e libertà, 1993.

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D. Caro Antonio, Bauer si è sempre mostrato reticente nel raccontare le vicende della lotta par- tigiana a Roma nel periodo dell’occupazione tede­sca. Vogliamo coprire questo periodo con una te­stimonianza diretta, di chi cioè fu suo capo di Sta­to maggiore. Per introdurre la tua testimonianza ti prego di illustrare le tue note autobiografiche.

R. Sono il generale in pensione Antonio Conti, nato a La Spezia il 6 febbraio 1913. Conseguita la licenza liceale classica ed entrato nell’Accademia M ilitare a M odena, frequentai il 74Q corso negli anni 1931-1933. Nel 1933-1934 il 55 corso di appli­cazione a Parma. Alla fine del 1934 venni nomina­to ufficiale in servizio permanente effettivo. Sotto- tenente di prim a nom ina nel 78° reggimento di fanteria “ Lupi di Toscana” , nel 1935 chiesi di par­tire volontario per l’Africa orientale. Inviato pri­ma in Libia, perché Mussolini temeva che gli ingle­si attaccassero dall’Egitto (era governatore della colonia il maresciallo dell’aria Italo Balbo), dopo circa cinque mesi, visto che il problema si risolse con blande sanzioni economiche contro l’Italia fa­scista, fummo trasferiti in Africa orientale. Ero te­nente nel 504° battaglione mitraglieri. D a Mas- saua fummo condotti in autocarro sull’altopiano e poi combattemmo fino ad Addis Abeba. L’Alto com ando era passato dal generale De Bono (un inetto) al generale Badoglio (un traffichino). Rim­patriato, frequentai il 19° corso di osservazione ae­rea, nell’areoporto di Cerveteri; con il grado di te­nente vinsi il concorso per il 69° corso di Stato maggiore nella regia Scuola di guerra di Torino.

D. Che cosa veniva rimproverato a De Bono? Di aver ottenuto la nomina per essere stato mem­bro del quadrumvirato della marcia su Roma?

R. Indubbiamente. M a v’è dell’altro. Cose che poi ha rivelato la storia: era una faida fra generali. Badoglio tramava da tempo per assumere la carica di capo di Stato maggiore generale ed il comando di questa operazione africana, estremamente red­ditizia e facile. Si prostitu ì al duce, in gara con Graziani.

D. Quanti mesi sei rimasto in Etiopia e quali le tue impressioni?

R. Sono rimasto in Etiopia fino alla fine delle operazioni, dopo la conquista di Addis Abeba: al- l’incirca 15 mesi. Ricordo in modo particolare l’at­tacco all’Amba Alagi, nel febbraio 1936.

D. Si tra tta naturalm ente dell’alto massiccio montuoso (3.000 metri) nel cuore del Tigrai, dove

quaran t’anni prim a si era consum ata la disfatta degli italiani comandati dal maggiore Toselli.

R. Così fini l’ambiziosa spedizione di Crispi, con la vittoria di Menelik in Africa e la caduta a Rom a del suo governo. Ricordo che, mentre ero con il battaglione mitraglieri nella piana ai piedi dell’Am ba Alagi, andai nel territorio degli Aze- bù-Galla per trovare un mio compagno di scuola e di corso, il tenente Emilio d ’Astolfo, che lì poi cadde eroicamente. Egli mi presentò il sottotenen­te Italo Pietra della com pagnia Alpini. N acque una reciproca sim patia e stima. Ambedue criti­cammo il bom bardam ento su Am ba Alagi con proiettili di artiglieria esplosivi, che facevano una nube giallastra: caricati ad iprite! Questa fu la pri­ma cosa che a me, giovane ufficiale, fece grande impressione negativa e colpi moltissimo Italo Pie­tra, poi grande partigiano nell’O ltrepò pavese e grande giornalista, direttore de “ Il G iorno” a Mi­lano e de “ Il Messaggero” a Roma. Dopo l’attac­co all’Amba Alagi l’azione verso Addis Abeba fu molto facile. La cosa più difficile fu invece sgom­brare le strade dalla resistenza nemica. In tanto Graziani, che comandava le truppe del sud prove­nienti dalla Somalia, raggiunse la capitale. Bado­glio rientrò subito a Roma per cogliere i frutti del­la vittoria. Graziani venne eletto governatore, poi viceré. Term inate le operazioni dì guerra, conti­nuarono le feroci azioni di “ polizia coloniale” contro partigiani abissini ribellatisi all’occupazio­ne indegna ed inopinata del loro paese.

D. Era a vostra conoscenza allora che molti com andanti militari e capi tribù, i cosiddetti ras, erano stati deportati in Italia e qualcuno fucilato?

R. N on era a mia d iretta conoscenza, anche perché io non partecipai alle operazioni di “polizia coloniale” . Ricordo che contro i rastrellam enti della Pai (Polizia Africa italiana) venne organizza­to dai partigiani etiopici il famoso attentato a G ra­ziani che, gravemente ferito ad Addis Abeba, sca­tenò una reazione ferocissima ed indegna: torture e fucilazioni di cittadini etiopici, deportazioni di molti ras in quelle stesse isole dove erano incarce­rati numerosi antifascisti, reazione incivile di puro stile nazista.

D. Rientrato in Italia, a quale reparto fosti as­segnato?

R. Sono rientrato alla fine del 1936 nel batta­glione, di cui, quale ufficiale in servizio permanen­te effettivo, avevo il comando. Molti ufficiali era­

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no rimasti in quello che si chiamò “ Impero” . D o­po breve licenza fui destinato a Caraglio di Cuneo, sulla strada per Centallo dove alle 7 del mattino del 3 dicembre 1944 fu trucidato Duccio Galim­berti. Li rimasi fino a quando feci domanda per es­sere trasferito, come istruttore, alla Scuola di ap­plicazione di fanteria in Parm a, dove com andai un plotone di sottotenenti allievi. Nel 1938 si apri­rono le domande per il 19° corso di osservatore ae­reo nell’areoporto di Cerveteri. In quel periodo vi fu la famosa visita di Hitler (primavera 1938) per esaminare il grado di addestramento dell’esercito italiano. Ci ordinarono cose incredibili: per esem­pio, dovemmo simulare il bombardamento di una nave disegnata per terra col gesso. Poiché non ave­vamo bombardieri con bombe da esercitazione, si lanciavano dei candelotti che, arrivati a terra, esplodevano. Era molto facile centrare il bersaglio perché il disegno della nave era immobile.

D. Come sappiam o la guerra scoppiò l’anno dopo, nel 1939, con l’occupazione della Polonia per iniziativa della Germania. Che ne è stato di te?

R. Finito nel mese di luglio il corso di osserva­zione, feci immediatamente domanda per frequen­tare la Scuola di guerra a Torino. Fui ammesso agli esami alla fine del 1938 e frequentai il 69° cor­so di Stato maggiore, che durò due anni. Era scop­piata la guerra che, diceva la propaganda, sarebbe stata una “guerra lampo” . Frequentavo il 2° anno quando, alla fine del 1940, ci fu la crisi militare con le dimissioni del capo di Stato Maggiore generale dell’esercito non capivamo perché il maresciallo Badoglio cosi onusto di guerra, onori, villa a Ro­ma, stipendi enormi venisse allontanato. Questo ci turbò, perché non sapevamo nulla di politica. Fi­nii la scuola di guerra quando la Germania aveva già incorporato la Polonia.

D. D unque la guerra “ lam po” (Blitzkrieg) continuò. L ’Italia si era unita alla Germania. Ti chiedo quale era il tuo stato d’animo e dove fosti impiegato.

R. Term inato il secondo anno di Scuola di guerra, fui destinato, per l’esperimento di Stato maggiore, al II corpo d ’arm ata in Alessandria. Fu allora che Mussolini decise l’intervento dell’I­talia perché prevedeva una guerra brevissima e aveva bisogno di qualche centinaio di m orti per trattare al tavolo della pace. Con il II corpo d ’ar­m ata, com andato dal generale Zanghieri, fui in­viato sul fronte occidentale contro la Francia, nel­

la notte del 21 giugno del 1940. Partecipai alle ope­razioni quale ufficiale in servizio di Stato maggio­re e restai amaramente sorpreso dal perché doves­simo attaccare la Francia. E ra la mia serconda esperienza di guerra, ancor meno comprensibile della prima in Etiopia.

D. Fu dunque questo il momento in cui tu fosti coinvolto nella seconda guerra mondiale. E stata questa esperienza drammatica ad aprirti gli occhi sulla situazione del fascismo in Italia o vi furono altre occasioni?

R. N o, non fu questa. Devo prem ettere che, mentre frequentavo il secondo anno della Scuola di guerra, entrando un giorno in aula vidi che al posto di ogni ufficiale c’erano due fogli di carta: uno schema che avrei dovuto riempire e che termi­nava con il giuramento al duce; il secondo foglio diceva che ero obbligato a firmare quel giuramen­to, pena la mia espulsione dall’esercito. Fui sor­preso! Non sapevo nulla di politica. A scuola mi avevano iscritto come “ avanguardista” e non mi andava il fatto di firmare il giuramento di fedeltà a Mussolini, quando pochi anni prima avevo pre­stato giuramento di fedeltà al re d ’Italia. Presi un foglio di carta e scrissi: “Posso firmare solo a patto che sia sciolto per iscritto il giuramento prestato a Sua M aestà” . Il mio gesto fece scandalo fra i col­leghi che si affrettarono ad avvertirmi: “Sarai cac­ciato. Scrivendo questo biglietto hai detto che sei contro il fascismo” . Io del fascismo non compren­devo quello che veramente fosse e quello che era stato. Avevo fatto un giuramento al re e per farne un altro a persona diversa chiedevo di essere sciol­to dal primo. Il mio com andante della Scuola di guerra, generale Mentasti, non mi chiamò, né ebbi alcuna noia o disturbo. Credo che il generale M en­tasti abbia fatto scomparire quel mio foglio.

D. Fu dunque questo il tuo prim o atteggia­mento di dissenso nei confronti del fascismo. Qua­le fu la tua destinazione dopo la guerra contro la Francia?

R. Term inata la cosiddetta guerra contro la Francia feci dom anda di partire per la Russia. Era stato inviato in Russia, anche se non richiesto e malvolentieri accettato da Hitler, il Csir (Corpo di spedizione italiano in Russia) com andato dal generale Giovanni Messe. Quale ufficiale in servi­zio di Stato maggiore la dom anda fu immediata­mente accolta e partii a metà ottobre 1941. Rag­giunsi il Csir in località Krivoj Rog, sull’asse che

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porta dalla Rom ania al basso Don: Krivoj Rog, D niepropetrovskj, Staiino (Donez), Voroscilov- grad fino a Stalingrado sul Volga. Mi è d’obbligo parlare dei fatti di Krivoj Rog. Una m attina sentii che si sparava vicino al comando, a ritmo molto frequente. Ebbi la sensazione che qualcuno si di­vertisse. Andai a vedere: soldati tedeschi lanciava­no in aria bambinelli poco più che neonati e tira­vano su di loro. Stravolto da questa orrenda sco­perta assistetti personalmente, urlando, alla fase finale delle esecuzioni. Lo scempio mi sconvolse. Penso che sia stato l’elemento che più influì sul mio spirito, sul mio ethos morale, sul mio credo di ufficiale e di uomo. Perché questo tiro al piccio­ne contro quei bam binetti neonati lasciò in me, anche se non ben definito, uno strascico di rivolta.

D. Quali erano i tuoi rapporti con gli alleati te­deschi e quali con la popolazione russa?

R. Dopo Krivoj Rog andammo a Dnieprope­trovskj e poi a Staiino. Colà trascorremmo, nel ba­cino del Donez, l’inverno 1941-1942 al comando di Messe. Fu uno dei peggiori inverni della Russia: arrivam mo a 43-44 gradi sotto zero. Io parlavo quasi correntemente il russo, perché mi erano state impartite molte lezioni in Accademia, dove avevo frequentato i corsi di lingue slave. Ciò mi consentì di avere ottimi rapporti con la popolazione locale, che stimo moltissimo, perché è gente ospitale ed um ana che ha sim patia per l’Italia, soprattu tto nel campo della musica e dell’arte: la Traviata di Verdi era conosciuta come non lo è mai stata in Italia, così pure i grandi del Rinascimento. Invece i miei rapporti con i tedeschi, fino a tutto l’inver­no, furono normali, perché abbastanza rari. Il ge­nerale Messe fu un ottimo comandante, fermo nel­le decisioni sapeva come trattare con loro.

D. Mi risulta però che ci sono state divergenze di vedute sul modo di condurre la guerra. E vero?

R. Durante l’inverno 1941-1942, nel bacino del Donez, ci furono delle divergenze, in quanto l’or­dine di Hitler era quello di non arretrare di un me­tro dalle posizioni raggiunte. Il generale Messe, che fu poi nom inato maresciallo in Tunisia, pur dipendendo dal comandante del gruppo di armate, generale Fedor von Bock, si oppose a tale ordine, spiegando che tenere una linea in campo aperto, con quella temperatura, non aveva senso: bisogna­va arretrare gli uomini di qualche chilometro per accantonarli in paesi, in isbe ecc., in modo che po­tessero costruire dei fortilizi per viverci. I rapporti

con i comandi superiori tedeschi furono piuttosto difficili, ma il generale Messe tenne duro e noi non patimmo perdite eccessive in quel terribile inver­no. Nella primavera-estate successiva, la seconda avanzata dal bacino del Donez (Staiino), portò le truppe italiane, che intanto si erano trasformate da Csir in Armir (88 armata, comandante generale Italo Gariboldi), fino alla sponda destra del non placido Don. All’ala sinistra era schierato il corpo d’arm ata alpino ed alla destra la divisione Celere; più a sinistra l’A rm ata rumena. Fortunatam ente l’inverno 1942-1943 fu meno rigido del preceden­te. Però vi fu la grande controffensiva russa che circondò le truppe tedesche com andate da Frie­drich von Paulus, riliberando Stalingrado dalla morsa (31 gennaio 1943). Successivamente fummo attaccati sul Don. La grande offensiva russa del­l’inverno 1942-1943, dal 20 novembre 1942 alla metà di febbraio 1943, consentì all’alto comando sovietico di isolare e battere separatam ente ben sei armate avversarie: un’arm ata corazzata tede­sca; la 68 armata motorizzata tedesca; la 38 arm ata rumena; l’88 arm ata italiana; la 28 arm ata unghe­rese; la 28 arm ata m otorizzata tedesca. Il 2 feb­braio 1943 la 68 arm ata di von Paulus fu costretta alla resa. Ero all’Intendenza, ufficiale di Stato maggiore. Nell’ufficio operazioni Armir, era mag­giore di S tato maggiore G iovanni Di Lorenzo, giunto in Russia da pochi mesi. Divenne poi famo­so per il “piano Solo” , fu comandante generale dei carabinieri, del Sid, capo di Stato maggiore dell’e­sercito. Ebbi con lui un primo gravissimo urto per­ché, sul fronte del D on in corrispondenza dello schieramento delle divisioni Cosseria e Ravenna, furono lasciate due teste di ponte in mano ai russi. Segnalai a Di Lorenzo che era un errore colossale, perché saremmo stati attaccati là dove, oltre al campo di tiro del Don gelato, i russi avrebbero avuto l’appoggio dai loro fortissimi sciatori sibe­riani, appostati esattam ente da quelle due teste di ponte lasciate loro. Infatti i russi attaccarono dove avevo previsto. Il corpo d ’arm ata alpino non venne attaccato dai russi perché ritenuto mol­to forte, mentre fu travolta l’arm ata rumena che, lento pede, tornò a casa. Poi venne sfondata la no­stra fronte dove avevo previsto e fummo costretti al ripiegamento. Ho visto con i miei occhi soldati italiani aggrapparsi agli autocarri tedeschi per es­sere trascinati o per montare sugli stessi. Venivano picchiati dai tedeschi col calcio del fucile sulle ma­

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ni, cadevano a terra e si può immaginare in quale stato. Fu questo secondo episodio, dopo quello del tiro al piccione, che m aturò in me la sfiducia verso la correttezza della guerra tedesca, per il “ tradim ento” dell’alleato italiano che episodi di quel tipo dim ostravano. Ebbi la conferma che il fascismo non fosse un governo idoneo e conve­niente per l’Italia. Il comando dell’Armir, col ge­nerale Gariboldi ed il suo Stato maggiore, si portò a Gomel, città in posizione molto arretrata. G ari­boldi mi ordinò (ero ferito alla mano destra per una scheggia) di assumere il com ando della base di Dniepropetrovskj a circa 800 km ad ovest del Don, dove era intatto l’ultimo ponte, sul quale po­teva transitare quanto era rim asto del nostro schieramento dell’8* arm ata Armir. Il corpo alpi­no da nord sarebbe poi retrocesso a Karkov com­battendo duramente. Avevo l’autorità di dare or­dini operativi perché l’ufficiale di Stato maggiore, anche se ha il grado di capitano, può impartire or­dini ed organizzai il ripiegamento dei resti delle nostre divisioni. Prima di assumere tale comando, chiesi al generale Gariboldi che mi dicesse se rite­neva la guerra già perduta ovvero se avevamo an­cora speranze per il futuro: ma egli non capì la do­manda. Gli spiegai che se la guerra era perduta, avrei tentato di salvare più uomini possibile, ab­bandonando il materiale: se la guerra non era per­sa, avrei dovuto rallentare il ripiegamento per gua­dagnare tempo e contemporaneamente recuperare e spedire in Italia im portanti materiali ed arm a­menti ancora utilizzabili. A Dniepropetrovkj ave­vamo grandi quantità di materiali, comprese Offi­cine F iat, Lancia, Alfa Romeo ed inoltre grossi quantitativi di munizioni di ogni calibro. La rispo­sta fu: “Voi andate e regolatevi secondo le circo­stanze” . A rrivato alla base di Dniepropetrovskj ebbi grossi contrasti con il com andante tedesco, generale Meinhold, che poi nella lotta partigiana fu il comandante tedesco in Liguria e in Piemonte (ho la documentazione della sua resa incondizio­nata ai partigiani all’atto dell’insurrezione).

D. A bbandonata l’idea di una continuazione della difesa, ebbe corso la ritirata. Come raggiun­gesti l’Italia? Quali incarichi ti furono assegnati?

R. Restai comandante di quella base per circa cento giorni, fino a metà maggio 1943. I comandi superiori erano già rientrati in Italia ed anch’io ebbi l’ordine di rientrare. Avevo sgomberato uomini e materiali mentre le avanguardie dell’Armata rossa

stavano entrando nella periferia della grande città. Con i miei ufficiali andai ad Odessa in autocarro, quindi in treno da Bucarest a Tarvisio. Raggiunsi poi Trieste dove mi attendeva mia moglie, M aria Vittoria Borolani, che avevo sposato il 19 dicembre 1939, già alunna di Pilo Albertelli al liceo Umberto I di Roma. Dopo breve licenza, fui destinato al IV reparto del Comando supremo in Soriano del Cimi­no; alla mensa veniva il capitano dei granatieri Ala­dino Govoni, figlio del poeta Corrado. A Govoni feci avere delle armi dal deposito di riparazioni. Col consenso di Bauer unimmo le nostre forze a Porta S. Paolo e alla Cecchignola. Nello Stato mag­giore pensarono che gli ufficiali distintisi in Russia potessero cambiare, non si sa come, le sorti di una guerra già perduta. Ha inizio la mia militanza anti­fascista. Mi domando perché, partendo da Odessa portai con me delle armi (ne è testimone il console italiano Maurilio Coppini): m itra russo con carica­tore a tramoggia da 36 colpi, 10 bombe a mano rus­se, 5 pistole e munizioni di cui non ricordo il cali­bro. Questa roba poi mi servì quando assunsi, alle dipendenze di Riccardo Bauer e di Pilo Albertelli, la carica di capo di Stato maggiore del Comando militare del Partito d ’azione. Avevo in mente che Mussolini avesse portato l’Italia a un punto tale che ne saremmo usciti soltanto con le armi. Quel maledetto “8 settembre 1943” ! Sono stato criticato per averlo chiamato “maledetto” , ma per me lo fu, perché l’8 settembre l'Italia venne tradita da tutti: dal capo dello Stato, dal Com ando supremo, dai comandanti di ogni livello, dai ministri. Scapparo­no tutti, lasciando una metà dell’esercito dislocata fuori dal paese in ambienti ostili e nei campi di la­voro delle Todt e tutti i reparti in Italia senza ordi­ni, senza comandanti, senza direttive: alla mercè dei tedeschi che diedero corso alle prime carneficine. Si può anche sostenere che F8 settembre fu benefico perché aprì la porta alla Repubblica.

D. Quali furono, in quel momento, i tuoi rap­porti con l’esercito ed a quali conseguenze dettero luogo?

R. Il 10 settembre ebbi dal Comando supremo un pezzo di carta che diceva: “ A seguito sciogli­mento di questo Comando supremo la S.V. è in li­bertà a tem po indeterm inato” . Ero capitano di Stato maggiore ormai prossimo al grado di mag­giore, mi guardai atto rno , m a non capii nulla: ero smarrito. Mia moglie, come ho già detto, era stata alunna di Pilo Albertelli. Uscendo di casa

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lo incontrammo per caso e lui riconobbe la sua al­lieva, che mi presentò. Albertelli mi guardò fissa­mente e mi chiese quale attività svolgessi. Risposi che provenivo dal Com ando supremo e che ora ero libero cittadino, volenteroso di fare qualche cosa poiché l’Italia andava verso il baratro. Pilo Albertelli mi disse, con parole sfumate, che stava cercando di organizzare una prim a formazione di volontari. Allora gli dissi delle armi che avevo portato dalla Russia e che un ’organizzazione di uomini nuovi, audaci, onesti e ben preparati ad af­frontare tempi durissimi, faceva proprio per me. Così, dopo altri incontri, ci trovammo rapidamen­te su posizioni identiche. Come prima cosa portai tutta la famiglia a Massa M arittima, dove già era­no i miei suoceri e misi a disposizione di Pilo l’ap­partamento di via Tirso 47. Iniziò la mia collabo- razione col Pda.

D. Mentre Albertelli si dava da fare per orga­nizzare la prima formazione militare del Pda, dove si trovava Bauer?

R. Bauer era a Firenze per il congresso semi­clandestino del neonato Pda (3-4-5 settembre 1943), a cui parteciparono tra gli altri Ragghianti, La Malfa, Codignola, Parri, Ginsburg. Venne de­ciso2 di form are due nuclei per l’organizzazione politica, uno centrale ed uno periferico, uno a nord ed uno a sud, poiché era prevedibile la divi­sione del territorio nazionale già in atto, dopo gli sbarchi in Sicilia ed a Salerno, oltre alla incorpora­zione (10 settembre 1943) del litorale Adriatico da parte tedesca.

D. Dunque la realtà era che tedeschi ed alleati avevano già diviso ITtalia in due o tre parti.

R. N on solo avevano diviso l’Italia, ma dal Brennero e da Tarvisio discendevano divisioni del Führer, che si era già impadronito, come detto, della zona: Brennero, Bolzano, Udine, Gorizia, Trieste e Istria divenute terre tedesche con un Gauleiter che applicava leggi tedesche. Era il tra­

dim ento di H itler verso l’I ta lia3. G ià prim a del 25 luglio numerose divisioni tedesche erano transi­tate dai valichi ricordati, dirette a sud, per fronteg­giare l’avanzata alleata a seguito dello sbarco in Sicilia del 10 luglio 1943. Non solo per questo mo­tivo, ma anche per sostare sulla Cassia e sulla Fla­minia a nord di Roma: pronti ad occuparla.

D. Bauer ottenne dal congresso di Firenze l’in­carico di occuparsi del Pda nel Centro-sud. Si tro­vava a Firenze e doveva raggiungere Roma. Che cosa accadde a Roma in quel frattempo e quando tu entrasti in contatto con lui?

R. Nel frattempo a Roma avevo preso contat­to con Pilo Albertelli, con Vindice Cavaliere (pre­sto messo fuori circolazione perché arrestato, con la moglie, dai tedeschi il 27 novembre 1943) e con Cencio Baldazzi. Term inato il congresso, Bauer prese un treno per Rom a, treno che ad O rte fu bloccato dai tedeschi. A mio giudizio Bauer com­mise l’errore di restare sul treno, rinviato a Firen­ze, mentre ad Orte poteva scendere. Qui avrebbe raggiunto Roma con automezzi italiani, che abi­tualmente davano il passaggio4. R itornato a F i­renze, Riccardo con Ragghianti, Codignola ed al­tri si diede da fare per organizzare una rete di dife­sa partigiana in Toscana. Circa la data precisa del suo arrivo a Rom a non c’è accordo tra diversi autori. Credo di non sbagliarmi dicendo che Pilo mi presentò a Riccardo il 29 settembre e nei giorni seguenti egli fece u n ’atten ta ricognizione in via Tirso 47: constatate le tre vie di accesso e la via di possibile fuga, approvò che fosse la sede del co­mando militare del Pda. Così cominciammo l’or­ganizzazione militare, con Pilo, instancabile, e con Cavaliere, caduto troppo presto in mano tede­sca. Constatam m o che si doveva “ inventare tu t­to ” . Fortunatam ente Cencio Baldazzi, Chierici e Latini in città, Lorenzo D ’Agostini in zona Aric- cia-Castelli Rom ani, Arm ando Bussi nel settore di ponente fino a Fiumicino, furono i primi e più

2 Un resoconto dettagliato sul congresso di Firenze è stato pubblicato da Enzo Enriques Agnoletti, II convegno di Fi­renze (settembre 1943), in Federazione italiana associazioni partigiane, Il Partilo d‘Azione dalle origini all’inizio della Resistenza armata, Teramo, Edigrafital, 1985, p. 629.3 Nel settembre 1943, subito dopo la caduta di Mussolini, passarono sotto la diretta amministrazione tedesca l’Alpen- vorland (Trento, Bolzano, Belluno) e l’Adriatischeskùstenland (Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume, Lubiana), nei qua­li vennero inviati due Gauleiter. Nella seconda area fu preposto il Gauleiter Friedrich Rainer, col titolo di commissario supremo. Capo delle SS era Odilo Globocnik, noto seviziatore.4 Quanto all’errore che Conti gli attribuisce, seppi da Bauer che era obbligato dalla necessità di sottrarsi ad una even­tuale perquisizione tedesca, perché Ivan Matteo Lombardo lo aveva pregato di portare a Roma e consegnare al suo partito, Psiup, 3 milioni in contanti.

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attivi organizzatori delle prime squadre partigiane cittadine. Avevamo poche armi, ma due grandi ra- strellatori furono Ugo Baglivo e Vittorio Gabriel­li, aiutati da Edoardo Volterra. Le armi furono una mia grossa preoccupazione per la loro custo­dia: se qualcuno veniva ferm ato e perquisito in strada e trovato con una qualsiasi arma, veniva fu­cilato sul posto. Fortunatam ente trovammo quat­tro “ depositi clandestini” dove potevano essere accantonate e prelevate le armi, anche con l’aiuto di ufficiali e sottufficiali della Guardia di finanza. Incontrai, per caso, il capitano Aladino Govoni, conosciuto al Com ando supremo, col quale ero entrato in confidenza in occasione di una sua lun­ga visita negli uffici del IV reparto. Mi parlò del suo bisogno di materiali bellici per l’organizzazio­ne che capeggiava, denom inata Bandiera rossa. Ne riparlammo molto attentamente in una secon­da occasione.

D. Che cosa è questa formazione Bandiera ros­sa di cui tu parli?

R. Bandiera rossa era una formazione militare voluta dal giornalista Enzio Malatesta, poi truci­dato dai nazisti a Forte Bravetta, redattore capo del “ Giornale d ’Ita lia” , assieme al capitano dei granatieri Govoni, figlio del noto poeta, che, come ho detto, era venuto a trovarmi al Com ando su­premo e mi aveva confidato i suoi ideali patriotti­ci. Avevano bisogno di armi e mi chiese se avessi la possibilità di fornirgliele. Bandiera rossa non ave­va fini politici e, per statuto, era una formazione apartitica, apolitica, costituita per la difesa di Ro­ma, ormai prevedibile a breve tempo; si sarebbe sciolta il giorno dopo la liberazione della città. Perché Bandiera rossa? Perché, quando la nave sta per affondare, si alza la bandiera rossa, come la si alza negli stabilimenti balneari, quando il ma­re è grosso e rappresenta un pericolo. Questo no­me diede enorme fastidio ai com unisti, che non ne vollero mai sentir parlare.

D. I rapporti con voi del Pda quali furono?R. I rapporti con noi furono ottimi, per merito

di Govoni e di Malatesta, i quali venivano spesso a trovarmi in via Tirso 47. Pilo ne era informato, an­che Riccardo, che mi disse: “Abbiamo bisogno an­che del diavolo, se si batte con noi” . Nello statuto di Bandiera rossa vi sono principi bellissimi: il pri­

mo stabilisce che chi partecipa alla formazione de­ve sapere che essa sarà sciolta dopo la liberazione di Rom a (e così avvenne); il secondo impone ai com battenti di Bandiera rossa sopravvissuti di non chiedere nessuna onorificenza al valore né pri­vilegi, in quanto cittadinicombattenti per la patria e per la loro città.

D. Bandiera rossa non dipendeva da nessuno partito. Quali azioni ha compiuto in quel periodo, che si possono senz’altro attribuire ad essa?

R. Essa ha avuto le massime perdite nella dife­sa di Roma. Combattè con popolani, donne e uo­mini di quartiere, militari sbandati, partigiani che ne avevano condiviso gli scopi. La figura più nota è il capitano Raffaele Persichetti, del 1° granatieri. Le azioni principali furono al mattatoio, a porta S. Paolo, sulla via Appia, in posizioni molto avanza­te e dove ebbero a fianco i nostri con Lussu, G a­brielli, Comandini e Cencio. T ra i componenti di Bandiera rossa, 22 furono presi dai tedeschi, rin­chiusi a forte Bravetta e fucilati. Il 2 maggio 1944 fu preso l’anziano eroico operaio di Tor Pi- gnattara Tigrino Sabatini, che scrisse su un pezzo di carta: “N on dimenticate perché siamo m orti, non sfruttate la nostra m orte” . Complessivamente i caduti in combattimento di Bandiera rossa tra il 9 settembre 1943 ed il 5 giugno 1944, tenuto conto che molti dei nostri si unirono a loro, fuorno 128, tra uomini e donne: molti di estrazione popolare. I deportati in Germania furono più di 220. Al capi­tano Govoni ed al giornalista Malatesta sono inte­state due strade di Roma, così come al capitano Persichetti: tutti e tre sono stati decorati con me­daglia d ’oro al valor militare per decisione del Cln.

D. Nelle sue memorie Bauer parla dell’impre­videnza dei comandi badogliani e cita un tuo in­contro con loro. Puoi dirci qualcosa di più?

R. Ricevetti ordine da La M alfa d’incontrare i rappresentanti dei badogliani. Mi accom pagnò Edoardo Volterra. Bauer nelle sue memorie5 attri­buisce questo episodio solo a me; invece, ero con Volterra: prassi normale per simili missioni l’esse­re sempre in due. L’appuntam ento era fissato al- l’Hotel Genio, di fronte al palazzo di Giustizia. Suggerii a Volterra di recarci armati di pistola e di trovarci sul posto mezz’ora prima dell’appunta­mento (che era per le ore 11, se non sbaglio), poi-

Riccardo Bauer, Quello che ho fatto. Trent’anni di lotti e di ricordi, Roma-Bari, Laterza, 1987.5

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ché non avevo fiducia in riunioni tenute in alber­ghi. Girammo in zona, io in un senso e lui nell’al­tro, per studiare la situazione, non volendo fare la fine del piccione. Visto che, apparentemente, era tutto regolare, entrammo; appena entrati, un in­serviente, con giacca a righe gialle e rosse, che pu­liva l’androne, ci guardò e disse: “Al terzo piano, stanza n . ...” . Questo mi meravigliò molto e dissi a Edoardo che avevo voglia di andarmene. Però era im portante tra ttare l’unione delle nostre forze e concordare un piano operativo comune nell’even­tualità che i tedeschi, nella inevitabile ritirata dopo lo sbarco alleato in Anzio, resistessero in città; ov­vero per attaccarne le retroguardie sulle vie conso­lari. Salimmo al terzo piano a piedi, senza utilizza­re l’ascensore per evitare una trappola. Entrammo nella stanza indicata, dove erano il generale Ro­berto Bencivenga, zoppicante, il generale Quirino Armellini ed il maggiore G iovanni Di Lorenzo, quello stesso della divergenza di opinioni operati­ve in Russia. Appena mi vide, esclamò: “Ah, Con­ti, ci ritroviamo dopo rincontro sul D on” . Ed io: “ Se la situazione è come quella, litigherem o di nuovo” . Compresi i loro aiutanti, erano sei perso­ne. Armellini disse di cominciare ed io chiesi se erano state controllate le stanze attigue. Loro assi­curarono che ci trovavamo in un albergo sicuro, poiché “ è dei nostri” . Che fosse “ dei nostri” o “dei vostri” , suggerii ad Edoardo di andare a con­trollare la stanza di destra, mentre io andavo in quella di sinistra, pistole col colpo in canna a por­tata di mano. Con stupore Edoardo trovò un tizio che leggeva il giornale tenendolo alla rovescia e che aveva una faccia poco rassicurante. L ’apostro­fò per sapere se era un cliente dell’albergo; l’altro rispose che non lo era e che stava soltanto leggen­do il giornale. Edoardo, pistola in mano, gli indicò la via dell’uscita e quello filò. Chiudemmo le porte portando via le chiavi. Rientrati per la riunione, invitai ad essere brevi perché il collega aveva già trovato qualcosa di sospetto nella stanza di destra. Di rimando mi chiesero perché noi del Pda avessi­mo chiesto la riunione. Risposi che non avevamo forze ed armamenti sufficienti per contrastare i te­deschi in ritirata, neanche unendoci ai comunisti. “I quali sono vostri amici” , mi interruppero. Ri­battei che erano nostri amici soltanto quando si doveva com battere l’invasore tedesco. Chiedeva­mo la collaborazione e l’unione delle forze, nel ca­so che i nazisti decidessero la resistenza in città op­

pure l’attraversassero ed allora fosse logico aggre­dirne le retroguardie. Com unicai che avevamo piani, già preparati nei particolari, che prevedeva­no l’attacco alle retroguardie in ritirata oltre le pe­riferie di Rom a. Mi rispose soltanto il generale Bencivenga: “ Gli ordini precisi di Badoglio sono di non sparare un solo colpo dentro o nei dintorni di Rom a” . Conclusi che allora non v’era più nien­te da discutere. Augurai a tutti buona fortuna e ce ne andammo. Questo, nei particolari, fu il contat­to con i badogliani, che disponevano di maggior arm am ento di tu tte le formazioni romane messe insieme.

D. A proposito di formazioni, vuoi dirmi ora quali e quante erano le formazioni del Pda e quali azioni svolsero?

R. Il Comitato militare del Pda si costituì gros­so modo nel settembre del 1943, subito dopo la fu­ga del re, favorito da Ugo La Malfa e Stefano Si- glienti, a cui diedero una mano Edoardo Volterra e Aldo Garosci. Bauer non ebbe come capo di Sta­to maggiore Vindice Cavaliere, perché arrestato il 17 novembre. Capo di Stato maggiore divenne Pi­lo Albertelli, ma dopo il suo arresto Bauer “ mi” ereditò. Il Comando militare del Pda aveva come segretario Lorenzo D ’Agostini. La città era divisa in tre zone che facevano capo tutte al Com ando militare di via Tirso 47. Il tu tto era costituito da Gap. U no com andato da Cencio Baldazzi, uno da M ario Chierici, uno da Angelo Latini (quello com andato da Arm ando Bussi, dopo l’arresto di questi, si fuse con gli altri tre). Dai quattro Gap principali dipendevano inoltre cinque sotto zone. È difficile dire quante fossero le formazioni e come agissero: era un principio della guerriglia non ac­centrare, ma decentrare. La prima formazione in­titolata a “Giustizia e Libertà” era comandata da Cencio Baldazzi, leggendaria figura degli arditi del popolo che aveva organizzato le sue forze al Quar­tiere Trionfale, al Testaccio e a Trastevere, dove aveva operato Vittorio Gabrielli. Sui Colli Albani operava Lorenzo D’Agostini; nel Basso Lazio Ar­mando Bussi, trucidato poi alle Fosse Ardeatine. Gli scontri più duri al comando di Cencio avven­nero nei pressi della Piramide e al M attatoio; qui parteciparono anche i gruppi organizzati sotto il nome di Bandiera rossa. A queste operazioni di Baldazzi parteciparono con grande valore Carlo Muscetta, M ario Chierici e Federico Comandini. Su suggerimento e con la partecipazione di D ’A­

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gostini furono organizzati i Gap di Ariccia, Nemi, Genzano e contemporaneamente, suggerite da Al- bertelli, operazioni con armi ed esplosivi contro convogli ferroviari tedeschi sulla linea Roma-Col- leferro-Frosinone-Cassino. In fa tti fu scelto un viadotto tra Valmontone e Colleferro per il primo attacco avvenuto il 10 dicembre 1943. Furono di­velti i binari e un treno deragliò, ma al secondo convoglio i tedeschi reagirono col fuoco, cui rispo­sero le forze Gap.

Al comando di via Tirso fecero capo, in tempi e per motivi diversi. Pilo Albertelli, Giorgio Amen­dola, Ernesto Argenziano, Ugo Baglivo, Cencio Baldazzi, Luigi Bianchi d ’Espinosa, Guido Bon- net, Giuseppe Bruno, Franco Bugliari, Armando Bussi, Guido Calogero, Federico e Laura Coman- dini, Guido De Ruggiero, Cono Di Lena, France­sco Fancello, Emma Lano, Vittorio Foa, Natalia Ginzburg, Vittorio Gabrielli, Alberto Giordano, Ugo La M alfa, Carlo Levi, Emilio Lussu, Aldo Garosci, Angelo M aconio, Carlo Pirzio Biroli, Oronzo Reale, M anlio Rossi Doria, Stefano Si- glienti, Altiero Spinelli, Bruno Visentini, Edoardo Volterra e molti altri. Posso aver omesso qualche nome e chiedo scusa. La tipografia del giornale clandestino del Pda, già al 30 ottobre 1943, aveva fatto uscire 12 numeri, con la dichiarazione che nessun’altra possibilità rimaneva alle forze milita­ri dell’opposizione se non la lotta arm ata. In via Basento 55, a pochi passi da via Tirso 47, venne catturato Leone Ginzburg, collaboratore di G iu­stizia e Libertà e di “ Italia Libera” e trasportato morente il 5 febbraio 1944 nel carcere di Regina Coeli. La ricerca più difficile fu quella dei depositi delle armi e in un primo momento fu ritenuta sicu­ra l’abitazione vuota dei suoceri di Albertelli, dove ebbe sede il covo Comando, anche questo, come il covo di via Tirso, molto ben protetto da tre accessi indipendenti, e che fu presidiato da militari della Guardia di finanza comandata dal generale Filip­po Crimi tramite il capitano Argenziano, che col- laborò con Bauer in modo particolare. A Bauer, noto alla polizia fascista e a quella hitleriana, il Com ando centrale impose estrema prudenza, tra l’altro il divieto di dormire due volte consecutive nello stesso luogo. Fu in quell’epoca che Bauer eb­be l’idea di spargere chiodi a quattro punte sulle principali vie consolari, causando gravi danni ai mezzi gommati tedeschi. Il fabbro, cui era affidato l’incarico di fare i chiodi, era Enrico Lerola, con

officina in via Trastevere; chiodi che poi furono utilizzati dalle altre forze partigiane romane. D o­po la cattura avvenuta il Io marzo 1944 e malgrado i tentativi di Bauer di sottrarlo alle torture da par­te delle SS, Albertelli fu fucilato alle Fosse Ardea- tine. Si scoprì nel frattempo che c’era qualcuno vi­cino al Comando militare del Pda che aveva tradi­to. Si trattava di uno spione che fece arrestare in casa loro Armando Bussi e, il 4 marzo, Ugo Bagli­vo. Intanto da Furio Lauri, insieme al tenente Fe­derico De Pan, venne installata una stazione radio R-19, sintonizzata su una corrispondente stazione inglese. Si riuscì così a stabilire il primo contatto con la Special Force n. 1 britannica, con cui suc­cessivamente l’organizzazione Ori collaborò per il lancio di partigiani al Nord. Nel settembre del 1943, su ordine del feldmaresciallo Albert Kessel- ring, le SS si impadronirono del tesoro aureo della Banca d ’Italia; inoltre la Repubblica sociale italia­na pagava un forte contributo mensile a Hitler per le spese m ilitari in Italia. Le ideologie predom i­nanti a ll’interno del Com ando m ilitare del Pda erano nettam ente di sinistra e antimonarchiche e malgrado le difficoltà operative di coordinam en­to, la lotta delle nostre formazioni continuò senza sosta sino alla liberazione di Roma, tanto che, rie­vocando quel periodo l’avvocato Franco Bugliari si domanda come abbia potuto “un esercito popo­lare, senza uniform e, senza mezzi logistici e con poche arm i” , tener testa alle preponderanti forze tedesche ed egli attribuisce questa capacità alla ri­sorta tradizione e vocazione garibaldina e risorgi­mentale. Il coordinamento comunque avveniva at­traverso il Cln, com posto da Bauer, Amendola, Pertini, Spataro e Cevolotto, che consentiva di te­nere sotto accorta sorveglianza i ben noti luoghi di tortura di via Tasso, di via Principe Amedeo, della pensione Jaccarino e del III del IV e del VI, brac­cio di Regina Coeli e che sfociò dopo la liberazio­ne di Roma nell’arresto e nella condanna a morte del questore Pietro Caruso e nell’arresto e nel lin­ciaggio del direttore del carcere di Regina Coeli, Carretta. M algrado ciò Pietro Koch continuò le torture a Forte Bravetta (che poi si susseguirono in tu tte le città fino alla Risiera di San Sabba: via Rovello e Villa Triste a Milano, Palazzo Giusti a Padova, Casa dello Studente a Genova e ancora Villa Triste a Trieste) e in tu tto questo orrore di caccia spietata perse la vita anche don Giuseppe M orosini, fucilato a F orte Bravetta il 3 aprile

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1944. Nella lista fo rn ita dal questore Caruso a Herbert Kappler dopo l’attentato di via Rasella, vengono aggiunti cinquantacinque nomi da fucila­re alle Fosse Ardeatine. Bauer dette ordine a M a­rio Chierici di contrastare qualsiasi avanzata tede­sca nella zona di M adonna del riposo, m entre i gruppi leggeri di Lorenzo D ’Agostini avrebbero protetto il fianco sinistro tra Casal M orena e Tor­renova. Quella notte, tra F l l e il 12 settem bre 1943, ebbe luogo con grande spargimento di san­gue la lotta popolare per la difesa di Roma. Il Co­mando militare del Pda emanò una direttiva fon­damentale della lotta clandestina classica: mordi, fuggi, spostati. Bauer si oppose a che le formazioni del Pda cittadine e regionali fossero collegate con le forze badogliane e pose come condizione all’ese­cutivo del Pda che, ove non fosse accolta la sua proposta, avrebbe ritirato il m andato proponendo assoluta autonom ia operativa. La proposta venne approvata e fu poi appoggiata da Giorgio Amen­dola e Pertini, costituendo un tu tt’uno tra le forze gielliste e le brigate garibaldine del Pei. Fu l’occa­sione per il Comando militare del Pda di prendere contatti più stretti con le forze comuniste, che col- laborarono sempre con grande lealtà ed intelligen­za. Non vanno sottaciute le collaborazioni offerte da G iorgio C andeloro e da Leone Ginzburg. Quando si dice che la guerra partigiana in Italia si distinse da tutte le altre com battute in Europa si dice il vero, ma non si aggiunge che non aveva un condottiero come De Gaulle; il nostro movi­mento popolare fu spontaneo e fu guidato da Fer­ruccio Parri e da Riccardo Bauer. In questo spirito dal covo di via Tirso partirono ordini per mettere in atto episodi dim ostrativi come l’esplosione di una bomba in una caserma della Milizia o quella, ben più potente, alla Stazione tiburtina. Ormai gli alleati erano vicini e da Aldo Garosci, paracaduta­to alla periferia di Roma prima dell’arrivo della V Armata Usa, com andata dal generale M ark Way- ne Clark, si concretò l’idea di un distaccam ento operativo per l’invio di missioni al Nord. La città di Roma fu divisa in zone e ad ognuno dei coman­danti Gap vennero emanate precise disposizioni e fornite armi. Per le zone IV, V e VI furono pro­mulgate disposizioni segretissime, in cui si diceva che solo i capi zona potevano prenderne visione e che dovevano essere bruciate immediatamente o ingoiate “ se in pericolo” . Nelle disposizioni era fatto divieto di agire entro la cerchia urbana a me­

no di essere attaccati; bisognava difendere ad ol­tranza ponti e viadotti senza mai affrontare il ne­mico vis à vis; non abbandonarsi mai a fuga preci­pitosa a meno di essere circondati; le armi e le mu­nizioni erano sufficienti per tre, quattro attacchi a fuoco continuo; se la lotta si svolgeva corpo a cor­po, usare coltelli, pugnali e bombe a mano annien­tando il nemico senza pietà. La disciplina doveva essere ferrea. Si doveva procedere all’arresto di chi fosse sorpreso a rubare o compiere atti di vio­lenza. Sia che il colpevole fosse dell’arm ata di libe­razione o che appartenesse alle fila del nemico, do­veva essere, comunque, passato per le armi sul po­sto; ogni azione bellica doveva essere preventiva­mente comunicata alla popolazione a mezzo mani­festi o con megafoni per ottenere l’aiuto di essa e se qualcuno si fosse opposto sarebbe stato denun­ciato ed arrestato. La zona assegnata al Pda era la più importante di Roma, perché la prima ad essere investita dalle truppe tedesche in ritirata. Con un successivo docum ento si prendeva in esame il com portam ento dei tedeschi in caso di ritirata e si consigliava alle organizzazioni di ricorrere a campane, fischietti, altoparlanti o segnali ottici, senza usare mai sirene d’allarme aereo; inoltre si potevano affiggere manifesti e lanciare volantini con scritte propagandistiche in tedesco, per invita­re il nemico in ritirata a disertare o a nascondersi nelle case; durante la ritirata nazista si doveva cambiare la direzione dei cartelli indicatori della viabilità per disorientare il nemico. Tutti i tedeschi isolati ed i piccoli reparti dovevano essere circon­dati e disarmati; bisognava proteggere le porte ro­mane con automezzi minati, a loro volta difesi con armi automatiche per impedirne la rimozione; si dovevano cospargere di chiodi le grandi strade di ritirata e difendere le opere d ’arte. I tecnici per il disinnesco delle mine o dei campi minati dovevano vigilare a che non fossero presidiati da sentinelle; appena term inata l’operazione dovevano correre a rinforzare altri compagni com battenti. Questi gli obiettivi immediati in caso di ritirata delle trup­pe tedesche. Dovevano comunque essere protetti la stazione Termini, l’arco di Santa Bibbiana, l’ar­co di San Lorenzo e il suo scalo e bisognava agire con violenza sugli alberghi di via Cavour e via Gioberti; in particolare si segnalava la difesa di porta San Giovanni, di porta Santa Croce e di porta Maggiore, il ponte del cavalcavia della fer­rovia in via Tusculano e il deposito dei tram in

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piazza Ragusa; porta Vetronia doveva essere sbar­rata con tram, cosi come il ponte San Sebastiano, il ponte Latina, il ponte di via Prenestina, il ponte di via del Pineto e il ponte di via del Mandrione. Venivano inoltre date altre disposizioni sull’op­portunità di azioni veloci e silenziose. Ai partigia­ni, facenti parte delle organizzazioni Giustizia e Libertà, vennero concesse 21 medaglie d’oro al va­lor militare; tra essi Pilo Albertelli, Armando Bus­si, Corderò Lanza di Montezemolo, don Giuseppe Morosini, Raffaele Persichetti ed altri. Alle Fosse A rdeatine caddero molti del Pda e altri ancora m orirono nell’eccidio della S torta il 4 giugno 1944 tra cui Bruno; altri ancora vennero trucidati a Forte Bravetta, tra cui gli appartenenti a Bandie­ra Rossa6, con Enzio Malatesta. Voglio però fare la storia delle perdite che abbiamo avuto nella di­fesa di Roma, soprattutto nel massacro delle Fos­se Ardeatine dove abbiamo perso Pilo Albertelli, Ugo Baglivo, Armando Bussi, Aldo Eluisi, Enrico Ferola, Gioacchino Gesmundo, Aladino Govoni, Ferdinando Norm a, Vincenzo Saccotelli, Alessan­dro Sarfatti. A ltri furono ca ttu rati dalla banda Koch e dalle SS e ridotti ad ammassi di carne. Ed in precedenza era m orto a Regina Coeli sotto tortura Leone Ginzburg, che non si può dimenti­care. Devo mettere in luce che, per merito di Ric­cardo, avemmo sempre la sicurezza di un appog­gio da parte della Guardia di finanza nelle persone del generale Filippo Crimi, del capitano Ernesto Argenziano, del tenente Augusto De Laurentis, del tenente Angelo Maconio ed di alcuni sottuffi­ciali dei quali non ricordo il nome. Particolarmen­te efficace è stata l’attività di Angelo Maconio, og­gi alto magistrato in pensione.

D. Dopo la difesa di Rom a a porta S. Paolo, Emilio Lussu ebbe ancora incarichi di carattere militare?

R. Rapporti militari operativi con Lussu non ne avemmo. Io conosco quelli con Aldo Garosci, che era nel Comitato militare e veniva in via Tirso; Lussu è venuto due o tre volte di sfuggita, ma è stato molto vicino a me quando scrivevo su “ L’I­talia Libera” . Lussu partecipava alle riunioni po­litiche, alle quali io non partecipavo, così come non partecipavo a quelle del C om itato militare del Cln e a quelle della direzione del partito; cosi

anche D ’Agostini. C ’era una netta divisione di competenze tra direzione politica e direzione mili­tare: Riccardo Bauer era il grande coordinatore. Vorrei sottolineare i rapporti tra Bauer e gli allea­ti, dopo la liberazione di Roma, sempre tenuti con estrema dignità: Bauer è stato maestro di dignità oltre che grande educatore nelle situazioni più dif­ficili, cui mi riferirò ora. Fummo avvisati dal con­troam miraglio Gerard Holdsworth (comandante della N. 1 Special Force) nell’autunno del 1944, che era a Roma una delegazione del governo om­bra inglese. Non comprendeva Attlee, ma era una delegazione ad alto livello che desiderava incon­trare uomini qualificati del Pda. Il comitato politi­co dette disposizioni perché all’incontro parteci­passe Bauer accom pagnato da A ntonio Conti, per non dare un accento politico all’incontro. Noi non sapevamo con esattezza quali fossero i rapporti tra governo ombra e governo ufficiale in­glese. La riunione si svolse al Grand Hotel di via delle Terme, oggi via Vittorio Emanuele Orlando. N otai subito l’assenza di Holdsworth e dissi tra me che ciò era strano. Gli inglesi si m ostrarono estremamente misurati e chiesero cosa fosse, come fosse nato e cosa volesse il Pda, che coagulava i migliori cervelli della cultura italiana antifascista, che, pur essendo neonato, operava al N ord con i loro ufficiali ed al quale l’esercito inglese forniva armi ed equipaggiamenti di ogni sorta.

D. Allora hanno ragione i comunisti a dire che il Pda aveva i maggiori aiuti dagli alleati?

R. Questo non sta a me dirlo. Oggi vi sono do­cumenti storici a disposizione di chiunque. I miei rapporti con la N. 1 Special Force furono ottimi proprio perché essa aveva constatato che le mis­sioni da noi proposte erano tra le migliori. U na dom anda insidiosa venne posta da un membro della delegazione inglese sui nostri rapporti con i com unisti, al m om ento della vittoria. Bauer fu prontissimo ed acuto nel rispondere. Ritengo che Bauer, come uomo politico, fosse dotato di una lu­cidità e di una prontezza di riflessi eccezionali e fosse stato il cervello più organizzato, tra tu tti i grandi uomini ed i grandi intellettuali che aderiro­no o fecero finta di aderire al Pda. Bauer fu abilis­simo. Iniziò col dire che desiderava chiarire subito la questione dei rapporti con i comunisti: “Noi ab­

Per maggiori ragguagli cfr. A. Conti, M is s io n e B ig e lo w , cit.6

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biamo un nemico che è nemico nostro come vo­stro: i tedeschi. Voi li com battete, frontalmente, linea contro linea; noi li affrontiamo nelle condi­zioni peggiori, paracadutando i nostri migliori elementi — generalmente con i vostri ufficiali — dietro le linee del Gruppo Armate C, comandato da Albert Kesselring, che vi ha quasi ributtato a mare, sia a Salerno sia ad Anzio. Noi riteniamo che il nemico debba essere com battuto uniti, qua­le che sia il berretto che portiam o in testa. Non facciamo distinzione di colori politici e, se fossero con noi dei sacerdoti, noi saremmo felicissimi di vederli con un m itra in mano schierati accanto a noi. Questo è il primo punto sul quale non transi­giamo. Secondo punto: circa la nostra fedeltà, ba­sti ricordare Mazzini e tutti gli uomini del Risor­gimento che in Inghilterra hanno trovato ospitali­tà e che l’Inghilterra ha sostenuto ed aiutato nelle loro battaglie. Se noi abbiam o un rim brotto da farvi è quello che non ci rifornite a sufficienza!” . R isata generale! L ’intervento di Bauer cambiò l’atmosfera e si iniziò a parlare di azioni militari con vari ammiccamenti di approvazione. Fu fatto entrare Holdsworth e gli fu subito ceduta la paro­la, chiedendogli di esprimere il suo parere sulla collaborazione, con la Ori, sezione A ntonio, e con la direzione del Pda. L’ammiraglio disse che era soddisfatto così come lo erano i suoi ufficiali e che la collaborazione non aveva mostrato alcu­na incrinatura. I ragazzi del Pda erano stati adde­strati dai loro servizi, finora con ottimi risultati. Aggiunse: “Dirò di più. Hanno, e non capisco co­me l’abbiano messa in piedi, una organizzazione per la dotazione a chi partiva di documenti perso­nali falsi, talmente perfetta che ci fa invidia; sicché noi, quando necessario, ricorriamo a loro” . Altra risata generale, ed uno della delegazione inglese disse: “ Ma questo depone a suo sfavore!” . L’in­contro si concluse con le solite barzellette e chiac­chiere varie e venne servito un drink per brindare alla comune vittoria.

D. A tuo parere la delegazione del governo ombra inglese perché venne in Italia? Quali i mo­tivi che l’avevano portata a Roma? Per controllarecosa?

R. Secondo me il primo motivo è che, in Inghil­terra, fece impressione il famoso detto “ il vento

del nord” , proclamato da Pietro Nenni. Temeva­no che, alla fine della guerra, i partigiani di ogni colore potessero rivolgere le armi fornite da loro contro gli stessi alleati, in una rivoluzione solleci­tata da Togliatti e dai russi. La seconda ragione, sempre a mio giudizio, è che fossero privi di esatte informazioni sul Pda. Il nostro Alberto Tarchiani era stato in America per tanti anni esule, ma non in Inghilterra. Max Salvadori, sebbene ufficiale in­glese, era di famiglia italiana e non era facile stabi­lire se fosse più inglese o più italiano, cosi come non è possibile dire se fu più intellettuale e scritto­re ovvero uomo d ’azione e combattente indomito.

D. La politica di Churchill, da quanto tu dici, non era facilmente digeribile neanche in G ran Bre­tagna da parte laburista. Churchill fece sempre op­posizione ai partigiani italiani. Pertanto tu non pensi che la delegazione inglese venuta in Italia per “annusare” avesse l’incarico di controllare la politica del primo ministro?

R. Può essere benissimo. Proprio in quei giorni Churchill aveva ricevuto Tito a Napoli, m ostran­dosi favorevole ad intese con i partigiani iugoslavi, nei confronti dei quali aveva molta considerazio­ne. Non nascose la sua ostilità alla strategia ame­ricana di puntare su Berlino col massimo delle for­ze e, per questo, di far sbarcare in Provenza la 1- arm ata Usa del generale A lexander M cCarell Patch sottraendo ad Alexander dieci divisioni e le forze aeronavali. Sbarcata il 15 agosto 1944 a est di Marsiglia, la 7S in meno di 30 giorni prese contatto con la 33 arm ata di Patton, dando sicu­rezza al fianco destro di Eisenhower (fu questa l’o­perazione chiamata in codice Anvil-Dragoon). Si tra tta del problem a strategico che ci porterebbe a discutere il famoso “proclama Alexander” , del quale parla anche Bauer nelle sue memorie. Io so­no in grado di dimostrare, con documenti storica­mente indiscutibili, che quello fu un ordine giusto. Infatti, come ho testé detto, alle due armate di Ale­xander in Italia erano state sottratte dieci divisioni e quasi tutte le forze aeronavali, per costituire l’ar­m ata di Patch. Anche Roberto Battaglia, amico carissimo, cade in errore nel suo poderoso volume, poiché molti documenti sono venuti alla luce dopo la sua morte, oppure perché ebbe una visione di­storta dei fatti7.

Roberto Battaglia, Storia della Resistenza (8 settembre 1943-25 aprile 1 9 4 5 Torino, Einaudi, 1953.

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D. Ti chiedo ancora una cosa: hai fatto cenno alla Ori. Io ne ho sentito parlare, per la prima vol­ta, da Craveri, genero di Croce. Puoi precisare quante furono le Ori e cosa fecero?

R. Ori significa: Organizzazione resistenza ita­liana, nome suggerito da Benedetto Croce. Le truppe alleate in Italia furono di due schiatte di­verse, anche nel delicato servizio di “ intelligen­ce” : una americana e l’altra inglese. Quella ame­ricana era com andata dal generale Donovan, un tipo impulsivo, brillantissimo, che voleva sempre vincere. Raimondo Craveri, coniugato con Elena Croce, è stato insigne antifascista. Parlava benis­simo l’angloamericano e fu avvicinato subito da­gli statunitensi che gli offrirono di essere a capo della Ori legata alla Oss [Office of strategie Servi­ces], Gli inglesi erano l’altra schiatta: Ori, collega­ta con N. 1 Special Force, che era una branca del­lo Special operation executive (Soe), organizzato e com andato dal generale Colin G ubbins, che perse l’unico figlio nella battaglia di Anzio. Tutti sappiamo che gli inglesi, per loro mentalità, non concepiscono i servizi di spionaggio, perché non sono né signorili né leali. Tuttavia hanno organiz­zazioni formidabili, tra le quali il Soe, che costituì le Special Forces in vari paesi; dalla N. 1 Special Force è nata la collaborazione con la Ori sezione Antonio. Bauer teneva le due fila: quella di Cra­veri e quella di Antonio, perché la direzione poli­tica del Pda voleva evitare che le due organizza­zioni fossero concorrenti. Esisteva una differenza notevole in fase operativa: gli americani inviava­no a N ord missioni composte da 10-12 elementi, che rifornivano con le loro ampie disponibilità; gli inglesi arrivavano a 3-4 elementi, di cui sempre uno almeno inglese. La missione Bigelow, che dà il titolo al mio libro, fu l’unica missione com­posta da tre italiani8. Il comandante Holdsworth mi disse confidenzialmente: “Gli americani hanno abbondanza di materiali, direi quasi esuberanza; noi dobbiam o pensare ai partigiani italiani a quelli iugoslavi: Churchill guai a toccarglieli;

dobbiamo anche pensare a Varsavia, perché sia­mo stati noi dall’Italia ad inviare il maggior nu­mero di aiuti, molto più di quanto inviato dall’In­ghilterra. Ho avuto un contatto con D onovan e gli ho chiesto dei materiali. Sa che mi ha risposto Donovan? — Se il mio presidente sapesse che ho dato agli inglesi anche una sola confezione, non farei più carriera. Mi dispiace, ma da me non avrete niente — ” . Si ebbe un periodo di crisi; quando Holdsworth chiamò me e Bauer per dirci che, dopo gli sforzi che aveva fatto, avendogli il Comando supremo alleato (Afhq) tagliato i fondi in denaro, non era più in condizioni di aiutarci: non aveva più un bilancio! Bauer saltò su tutte le furie e si arrivò quasi alla ro ttu ra, pur espri­mendo ambedue rincrescimento per questa situa­zione. Il taglio dei fondi fu sicuramente opera di Churchill.

D. Sai se Churchill mise il veto a che Bauer rag­giungesse il Nord?

R. Io portai Riccardo a Milano e si fece tappa a Bologna e si dormì a casa di Franco Borsari, un caro collega vivente che può testimoniarlo. Questo perché non vollero dargli i mezzi per arrivare al Nord.

D. E non è tutto. Poi fu portato il 26 aprile da De H ahn, in deroga agli ordini ricevuti, in jeep, correndo sulle traversine delle linee ferroviarie per guadagnare tempo9. Il veto di Churchill tenne lontano Bauer e le sue organizzazioni Ori dall’in­surrezione al Nord, disposizione concordata an ­che per iscritto con l’am m iraglio H oldsworth. Churchill tenne lontano Bauer dalla G ran Breta­gna anche dopo la guerra.

R. Poiché si era arrivati quasi alla ro ttura nel colloquio con Holdsworth, io molto emozionato dissi: “Avete esplorato se c’è una via di com pro­messo che eviti questa dolorosa elisione? I ragaz­zi arruolati sono al N ord con ufficiali inglesi ed io cosa dirò loro?” . Allora ram m iraglio suggerì di parlarne con Bonomi per ottenere uno stanzia­mento di fondi, considerando che si tra ttava di

A. Conti, Missione Bigelow, cit.9 “Mentre stavo organizzando il mio trasferimento, gli avvenimenti precipitarono e il 25 aprile Milano fu libera, mentre10 il 26, accompagnato dal colonnello De Hahn, partivo in macchina da Roma ed in una volata non priva di incidenti e di ruzzoloni sulla strada sconvolta (facemmo dei tratti tra Firenze e Bologna correndo sulle traversine della ferrovia dove le rotaie erano state divelte) giungevo la sera nella città lombarda col mio accompagnatore, che aveva voluto, con quel viaggio per lui abusivo, dimostrare verso di me una stima che sfidava anche le strane paure politiche del suo governo” (R. Bauer, Quel che ho fatto. Trent’anni di lotte e di ricordi, cit., p. 198).

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“ am lire” , carta straccia. Solo così si potevano avere i fondi per i materiali, per istruire le missio­ni, per i piloti, per le assicurazioni ecc., mentre sarebbero rimaste a carico dell’Italia le paghe ai nostri agenti, i quali ricevevano: 150 lire al gior­no nel periodo in cui stavano a M onopoli, 300 li­re al giorno nel periodo in cui erano in missione. Al capo della missione veniva dato, per esigenze della missione stessa, un milione di allora e ad ognuno dei com ponenti una sterlina d ’oro, per­ché nel lancio potevano disperdersi ed una sterli­na d ’oro serviva per vivere dovunque. Bauer af­ferrò immediatamente il consiglio di un accomo­damento. Mi chiese di portarlo subito da Fenoal- tea, sottosegretario della Presidenza del Consi­glio, al Viminale. Usammo una Balilla che aveva­mo requisito ad un fascista. D urante il percorso da via Barnaba Oriani, cioè dai Parioli, al Vimi­nale ci scambiammo alcune opinioni. Bauer disse che, essendo m olto amico di Sergio Fenoaltea, avrebbe chiesto a lui di intervenire su Bonomi (le relazioni fra Bauer e Bonomi non erano molto buone) per ottenere i fondi per sostenere le spese relative alle missioni che m andavam o al Nord. Fummo subito ricevuti da Fenoaltea, che afferrò la situazione, andò subito da Bonomi e dopo un quarto d ’ora tornò con la promessa dei fondi a disposizione, credo una trentina di milioni. Rag­giunto lo scopo, con l’ansimante Balilla, tornam ­mo a via Barnaba Oriani e Bauer comunicò che il governo italiano avrebbe fornito i mezzi finan­ziari.

D. Tu hai sollevato qualche riserva sull’atteg­giamento di Bauer di fronte al proclam a di Ale­xander. Tu sai che, quale m em bro del P atrio t Branch, anch’io ricevetti il proclam a in bozza a Chianciano, perché facessi le mie osservazioni. Le feci naturalm ente al C om ando interalleato. Le mie osservazioni poi coincisero con quelle che Bauer aveva già fatto. Il problema grave per i no­stri partigiani era quello di abbandonare la mon­tagna, le armi pesanti e di scendere in pianura, do­ve sarebbero facilmente stati preda delle SS o delle brigate nere: oltre naturalmente alla notizia, per le truppe tedesche, dell’allontanarsi di un ’offensiva. Tu credi che questa stasi invernale valesse la pena del sacrificio di tanti uomini che sarebbero stati presi in pianura?

R. Innanzitu tto precisiamo: il cosiddetto fa­migerato proclam a Alexander è invece da a ttri­

buire al generale Wilson, com andante supremo del bacino del M editerraneo con sede a Caserta, mentre Alexander era il com andante del fronte italiano. H o copia di un messaggio scritto da un pastore protestante, aiutante del servizio delle pubbliche relazioni (Pwb). Il messaggio fu trasmesso dalla stazione radio “ Italia C om bat­te” , che andava in onda a Bari tutte le mattine. Ecco quanto sono riuscito a ricavare ricostruen­do la vicenda: “ Dal Q uartier generale, 13 no­vembre 1944. La campagna estiva è term inata e si inizia quella invernale. La pioggia, la neve, il fango inevitabilm ente significano un ra llen ta­mento nel ritmo della battaglia. Quindi le istru­zioni sono come ora segue: cesserete per il m o­m ento operazioni organizzate su vasta scala, conserverete le arm i e m unizioni e vi terrete pronti per nuovi ordini. Ascolterete il più possi­bile il program m a Italia Com batte trasmesso da questo Q uartier generale, in m odo da essere pronti a nuovi ordini per cambiamenti di situa­zioni. Caso per caso esaminerete l’opportunità di continuare nelle azioni di sabotaggio, senza esporvi a rischi troppo gravi. F .to Alexander” . Vedi, è diverso da quello che è stato pubblicato: “Cesserete e ve ne andrete a casa” . Nello stesso giorno dal Quartier generale parte questa infor­m ativa: “ 13 novem bre 1944. Al M aresciallo Henry M aitland Wilson. Al momento, il contri­buto che le attività partigiane possono dare alla sconfitta del nemico in Italia è seriamente ridot­to a causa dei rifornimenti. Considero im portan­te che sia fatto il possibile per aum entare il lan­cio di rifornimenti ai partigiani italiani, in modo da consentire loro il massimo sforzo in appoggio alle mie operazioni offensive, di inizio non lonta­no. F .to gen. Alexander” . Questo è il messaggio che contem poraneam ente A lexander m anda a W ilson. Quello che B attaglia, responsabile di aver divulgato il primo messaggio, non ha consi­derato, perché non poteva saperlo, è che ad Ale­xander erano state sottratte le dieci divisioni e le forze aeronavali per lo sbarco in Provenza. Ale­xander era nell’impossibilità di continuare un’of­fensiva invernale contro i tedeschi. D ’altra parte Kesselring, che è stato forse il miglior generale tattico per le ritirate, non avrebbe mai attaccato dalla Linea gotica d ’inverno perché si sarebbe suicidato. Questa è la situazione. Tu sai che con­tem poraneam ente muore a W ashington il rap ­

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presentante di Churchill presso gli americani; al­lora Churchill m anda Wilson in America come suo rappresentante, nom ina Alexander com an­dante del M editerraneo ed il generale Clark co­m andante del settore italiano. Clark, più brillan­te, m anda un altro messaggio che attenua quelle che erano sembrate disposizioni di brusco arre­sto. Il testo viene letto il 2 gennaio 1945 a Radio Bari: “ Patrioti, in questo periodo di estremo ri­gore invernale e di conseguenti difficoltà di tra ­sporti e di rifornimenti per via aerea e terrestre, le istruzioni riguardanti le vostre operazioni de­vono seguire, in generale, criteri di guerriglia. In questo periodo di com battim enti invernali non perm etterem o di elim inarvi” . Il messaggio continua invitando le forze partigiane al sabo­taggio e alla guerriglia. Riconosce l’im portanza dei rifornimenti e sottolinea come essi siano stati più abbondanti negli ultimi tempi. Promette ap­poggi e consiglia di distruggere le vie di com uni­cazione del nemico; invita a sabotare trasporti e depositi; dissuade daH’organizzare “ offensive az­zardate” , ma, se mai, “ imboscate” ; consiglia di non sprecare munizioni, di raccogliere inform a­zioni sulla consistenza ed i movimenti del nemi­co, sui campi m inati, riferendo a chi di dovere. Così stanno le cose.

D. Siamo alla fine di questa lunga chiacchiera­ta e vorrei sapere le tue impressioni sull’uomo po­litico Bauer. Tu sai che egli ha rifiutato di fare il m inistro ed io ebbi anche a lam entarm ene con lui stesso e con La M alfa, al quale presentai le mie preoccupazioni per un governo che, per la pri­ma volta, si costituiva a Rom a liberata sotto la presidenza di Parri, senza Bauer. La Malfa si ar­rabbiò molto con me, addirittura urlando che il partito aveva posto come condizione sine qua non la sua presenza, ma Bauer aveva decisamente declinato l’incarico. Invece al suo posto entrò, co­me tu sai, Cianca. Come fu accolta questa decisio­ne negli ambienti partigiani? Cosa ne pensasti tu in particolare?

R. Gli ambienti partigiani o meglio tutti i par­tigiani autentici che, nella lo tta di liberazione, ebbero contatti o dipendevano da Riccardo, con­servano per lui stima e considerazione immense. Lo affermo senza esagerazioni. Io personalmente

ho avuto sempre grande rispetto per l’uomo, per il com andante, per il suo integerrimo senso m o­rale, per le sue capacità di educatore civile e “maestro di democrazia” , come fu definito. T ut­to ciò non per simpatia o per amicizia (seppur fi­sicamente lontani e su strade diversissime, mai venne meno il contatto epistolare o lo scambio di telefonate), ma piuttosto perché ho sempre vi­sto in Riccardo Bauer il cittadino esemplare e la persona do ta ta di capacità superiori. Declinò l’incarico per sfiducia verso i politicanti. Riccar­do rifiutò cariche ed onori, che pur gli spettava­no, non volle il riconoscim ento di partig iano com battente ed il conseguente “ grado” , seppur onorifico. Silenziosamente, direi con um iltà, si dedicò alla ricostruzione della Società U m anita­ria. Se ne staccò, per le note vicende, con dolore struggente, ma subito riprese l’indefessa attività di educatore civile. Alla mia ultima telefonata a M ilano rispose la sorella Adele: “ N on sta mai fermo un m inuto; non riesco a fargli tenere le gambe sotto al tavolo, caro A ntonio” . Bauer eb­be solo una breve esperienza alla Consulta. Deve essere ricordato per la sua cultura, per il suo in­domito ma controllato coraggio, la straordinaria forza morale, la grande personalità intellettuale e civile: forse unica in Italia. Cosa penso io? Penso che tutti noi abbiamo appreso da lui qualcosa di buono e lo ripeto oggi con profonda e sincera commozione: conserviam o il ricordo e non d i­m entichiam o i suoi am m aestram enti. Le forze cieche del male correvano libere e feroci in tu tta Europa: noi le abbiamo com battute con purissi­ma fede, convinti che la libertà, il diritto, la giu­stizia e l’onestà avrebbero sconfitto sopercheria, violenza e malcostume politico. Mi sembra im­portante riportare i dati ufficiali sulle perdite to­tali tedesche (gruppo arm ate C) nella lotta in Ita­lia contro le armate alleate (5a americana e 88 bri­tannica) e le forze partigiane: dall’8 settem bre 1943 al 25 aprile 1945 in totale 336.650 vittime. Secondo uno studio recente10 è impossibile estra­polare le perdite inflitte al nemico direttam ente dalle formazioni partigiane.

M a la grande importanza della lotta partigiana contro il gruppo C tedesco è riconosciuta dallo stesso feldmaresciallo Albert Kesselring: “ le for-

10 Willis Jackon, History of the Second World War, vol. VI, London, 1988.

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inazioni tedesche contro le bande partigiane ven­nero da me costituite con truppe di élite, di soldati dotati del maggior spirito combattivo convenien­temente istruiti a questo tipo di com battimento.

La guerra partigiana fu cosa molto seria e ci pro­curò forti perdite” 11. Quando leggemmo queste ri­ghe con Riccardo, ricordo che mi disse: “Caro An­tonio il nostro lavoro non fu inutile” .

11 Albert Kesselring, Memorie di guerra, Milano, Garzanti, 1954.

STUDI ECONOMICI E SOCIALISommario del n.1, gennaio marzo 1996

Articoli

A. Fazio, Risparmio e sistema finanziario; Sabino Cassese, Autonomia delle Università e rinnovamento delle istituzioni; Nicola Cabibbo, Economia ed energia in Italia; Luciano Corradini, Stato e legalità; Franco Frattini, Pubblica amministrazione e servizi al cittadino;Mananr\a De Luca, / sistemi di relazioni industriali; Donato Marra, Il caso italiano nel confronto europeo; Andrea Margheri, Territorio ed emergenza lavoro

Note e rassegne

A. Cremonesi, L’Arci presenta il primo rapporto sulle fondazioni bancarie; Rosario Sitari, Economia e scienze ambientali; Vittorio Campetti, Arte e cultura al festival delle nazioni