Riassunto Manuale Storia Greca Domenico Musti

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0. Introduzione - Proporre un panorama generale della storia greca significa presentare una nuova sintesi e dunque una nuova scelta di temi; - Musti è convinto che, entro certi limiti, non sia possibile veramente distinguere una storia politica da una storia culturale nel senso più ampio: i fatti che si succedono al livello del registro politico sono al fondo storia della cultura, delle idee e delle forme mentali; - Bisogna compiere il massimo sforzo di applicare le categorie interpretative e le forme mentali dei greci: tentare di vedere i Greci con gli occhi dei Greci; - Una coppia di categorie che ricorre quasi ossessivamente nei testi di storici, oratori, teorici greci è la coppia pubblico e privato: è il binario lungo il quale procede tutta l’esperienza politica e culturale greca; - La storia greca come una ‘grande parabola’: un processo che muove dagli inizi della storia arcaica, trova il suo culmine nel V secolo avanzato e imbocca quindi una curva che “si stenta a chiamare di declino” ma che certo è di grande trasformazione; - Questa parabola, che tocca l’apice nel V secolo avanzato, è definita sulla base della storia della città, e significa una storia della grecità come storia della pólis [percorso diacronico della parabola]; - In ciascun punto di questa parabola è verificabile l’intreccio tra il politico, il sociale, l’economico, la cultura, il mondo del mentale e dell’immaginario in genere [intreccio sincronico dei punti della parabola]; - La parabola greca rivela in ogni suo momento il nesso stretto che sussiste tra politica e cultura, un rapporto d’interazione dove è difficile distinguere tra la causa e l’effetto, il prima e il dopo; - Nel popolo greco si manifesta il processo per cui la natura si fa cultura, senza mai smettere di essere natura, in una straordinaria congiunzione di realismo e idealismo: la capacità di trasferire tutto sul piano dell’idealità, dell’astrazione, dell’éthos, ribaltando però una base di partenza che è realistica, naturalistica, utilitaristica, passionale, sensuale;

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Riassunto del manuale di storia greca di Domenico Musti

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0. Introduzione

- Proporre un panorama generale della storia greca significa presentare una nuova sintesi e dunque una nuova scelta di temi;

- Musti è convinto che, entro certi limiti, non sia possibile veramente distinguere una storia politica da una storia culturale nel senso più ampio: i fatti che si succedono al livello del registro politico sono al fondo storia della cultura, delle idee e delle forme mentali;

- Bisogna compiere il massimo sforzo di applicare le categorie interpretative e le forme mentali dei greci: tentare di vedere i Greci con gli occhi dei Greci;

- Una coppia di categorie che ricorre quasi ossessivamente nei testi di storici, oratori, teorici greci è la coppia pubblico e privato: è il binario lungo il quale procede tutta l’esperienza politica e culturale greca;

- La storia greca come una ‘grande parabola’: un processo che muove dagli inizi della storia arcaica, trova il suo culmine nel V secolo avanzato e imbocca quindi una curva che “si stenta a chiamare di declino” ma che certo è di grande trasformazione;

- Questa parabola, che tocca l’apice nel V secolo avanzato, è definita sulla base della storia della città, e significa una storia della grecità come storia della pólis [percorso diacronico della parabola];

- In ciascun punto di questa parabola è verificabile l’intreccio tra il politico, il sociale, l’economico, la cultura, il mondo del mentale e dell’immaginario in genere [intreccio sincronico dei punti della parabola];

- La parabola greca rivela in ogni suo momento il nesso stretto che sussiste tra politica e cultura, un rapporto d’interazione dove è difficile distinguere tra la causa e l’effetto, il prima e il dopo;

- Nel popolo greco si manifesta il processo per cui la natura si fa cultura, senza mai smettere di essere natura, in una straordinaria congiunzione di realismo e idealismo: la capacità di trasferire tutto sul piano dell’idealità, dell’astrazione, dell’éthos, ribaltando però una base di partenza che è realistica, naturalistica, utilitaristica, passionale, sensuale;

- La cultura greca è delle più realistiche della storia, ma è altrettanto capace di creare un mondo di valori ideali in piena e lucida coscienza degli impulsi e dei bisogni naturali e materiali dell’uomo;

- Non c’è nessuna massima o posizione ideale espressa nella grecità che non sia stata sofferta, e filtrata, attraverso l’esperienza dell’esistenza reale, di tutte le sue passioni, di tutti i suoi mali, o perfino dei suoi orrori. L’armonia della pólis classica del V secolo è una pura invenzione di alcuni moderni – l’esperienza greca della realtà è totale: il bene e il male, il senso dell’amicizia e gli odi profondi, la capacità della dedizione generosa e quella di tradire, vi si mescolano insieme;

- Una cultura dunque in cui l’armonia appare strettamente intrecciata alla tensione;- Quando i greci parlano di unità politica non intendevano unità territoriale (come noi moderni),

bensì un’unità nella diversità, un rapporto autonomistico, in cui ogni città conservasse la propria identità, i propri usi, costumi, istituzioni: autonomía – questa però si intreccia, realisticamente, con la hegemonía, cioè con la funzione di guida di un’entità più autorevole, a cui tocchi la preminenza in forza del consenso dei molti che, pur restando autonomi, accettano di farsi guidare;

- Physis: ogni essere ha un proprio sviluppo organico, non illimitato, in virtù del quale ciascuno ha e conserva la sua identità, ma segnato dalla stessa ferrea legge del tempo, che fa nascere,

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crescere, maturare ma che piega anche a un inesorabile declino: entro questo pessimismo di fondo c’è pur sempre uno spazio temporale e di possibilità reali perché entro cui ciascuno può esprimere la propria identità; hybris: porsi contro questa concezione è il peccato capitale per i Greci, il disprezzo della misura, prepotenza, che vuole mettere in forse le eterne regole del gioco e sfidare gli equilibri naturali, che immancabilmente si ricostituiscono;

- Nel processo della storia greca che porta dall’età alto-arcaica alla Guerra del Peloponneso, assistiamo a un infittirsi e accelerarsi progressivo delle esperienze, delle innovazioni, delle elaborazioni e distinzioni che, se culminano nello sconquasso della guerra civile, costituiscono di per sé un patrimonio di esperienze di straordinarie dimensioni e immenso valore, per i Greci come per l’umanità intera: un patrimonio costituito, quasi guadagnato, a costo di sofferenze indicibili, a riprova del nesso stabilito una volta per tutte dai Greci tra sapere e soffrire;

- Questo capitale storico, politico e culturale, sarà investito in una quantità di riflessioni, sistemazioni, elaborazioni, caratteristici della grecità del IV secolo e dei secoli successivi;

- Ma è la stessa cultura greca ad avere un’intrinseca propensione a porsi come paradigma, a cominciare dall’épos, il processo si intensifica via via nel corso del tempo, accelerando nel passaggio dal V al IV secolo, quando si aggiunge un netto sentimento dell’avvenuta conclusione di un’epoca, la chiara consapevolezza di uno stacco tra passato e presente, che consolida la già forte funzione paradigmatica del passato, in un imponente processo di recupero di esso;

- Riepilogando: ruolo centrale assegnato alla nozione di pólis; al binomio pubblico-privato, nei rapporti interni alla città, o egemonia-autonomia, nei rapporti esterni; al rapporto tra società/economia e storia; al valore indicativo delle forme mentali come filtro interpretativo tra situazioni sociale e politiche, economiche e culturali.

- Tre grandi periodi della storiografia contemporanea sul mondo greco: dal 1725 alla fine del XVIII secolo; quello dai primi dell’Ottocento fino al 1870; quello tra questa data e gli anni 1914-1918;

- Dal 1725 al 1750 straordinaria stagione di riflessioni critiche e rinnovato interesse archeologico e nuovi scavi (Ercolano, Pompei, si riscopre Paestum); più informazione, più dati particolari più aspirazione alla completezza e sistematicità nel confronto di essi – l’opera di Winckelmann riflette bene l’entusiasmo per le nuove acquisizioni archeologiche, ma rispecchia anche il gusto neoclassico, una visione idealizzante ed estetizzante della grecità;

- Nei primi due terzi dell’Ottocento la ricerca di una posizione unitaria nella descrizione dei fatti della storia greca è evidente, accingendosi a dare una sintesi della storia dei Greci, ricavando un’unità di fondo e una linea di sviluppo: è la generazione quindi dei primi grandi manuali di storia greca;

- Dopo il 1870 (vero spartiacque nella storia umana) molte cose cambiano, è l’età del positivismo, dominata dalla tedesca Altertumswissenschaft (scienza dell’antichità), si sviluppano le cosiddette Hilfswissenschaften (scienze ausiliarie) della storia, che presto però aspirano a una loro autonomia (archeologia, epigrafia, papirologia, numismatica, metrologia), si moltiplicano ricerche, scavi, studi, raccolte a seconda della specializzazione di ogni disciplina; è il periodo delle grandi edizioni critiche e della scoperta di nuovi testi (papiro londinese scoperto da Kenyon contenente gran parte della Costituzione degli Ateniesi di Aristotele; scoperta di Troia di Schliemann); degno di nota il libro Griechische Geschichte di Karlk Julius Beloch: quattro volumi, ciascuno diviso in due tomi, di cui il primo è espositivo e narrativo, e il secondo contiene l’apparato erudito e tutto il bagaglio filologico della ricerca; il

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prodotto storiografico è di altissimo livello, anche se nel suo rigido positivismo Beloch considerava le fonti antiche sempre sospette – moltissime delle sue conclusioni però restano tuttora valide; da segnalare anche Burckhardt e la sua Griechische Kulturgeschichte in cui assumeva un ruolo centrale la categoria dell’‘agonismo’ e l’immagine dell’uomo greco come ‘uomo agonale’

- Finalmente, l’ultima fase della storia della ricerca, cui lo stesso Musti appartiene: moltiplicarsi e infittirsi delle ricerche particolari; massiccio apporti dei più diversi paesi alla storia degli studi; declino dell’egemonia di un particolare metodo d’indagine, quello positivista-ipercritico; l’emergere di tematiche sociologiche, dagli studi sulla famiglia e sulla condizione femminile a quelli sulla guerra e la pace, la diplomazia ecc; progressivo affermarsi di esigenze interdisciplinari, che significano anche la ridiscussione del ruolo delle Hilfswissenschaften di un tempo, e l’impostazione di problemi comuni, a cui le risposte possono solo provenire, se vogliono essere scientifiche, da una solida specializzazione: questioni comuni, dunque, e risposte specializzate e competenti.

I. Preistoria e protostoria Greca. Civiltà micenea. Alto arcaismo

1. Neolitico; età del bronzo- La memoria storica dei greci non si spinge molto oltre la metà del II millennio a.C. (intorno al

1500). Bisogna però precedere alla storia dei Greci una storia della Grecia, una descrizione dell’ambiente in cui essi penetrarono. C’è dunque una Grecia prima dei Greci.

- Nel Neolitico gli abitanti, non ancora indoeuropei (e in questo senso non ancora greci), cominciano a darsi forme organizzate di vita sociale archeologicamente documentabili: sedentarietà, allevamento del bestiame, agricoltura, prime espressioni artistiche.

- In Grecia il Neolitico inizia nel VI millennio a.C., caratterizzato anche per l’avvento della ceramica, prime abitazioni a pianta quadrangolare, prime forme di fortificazione.

- Il discorso però su quest’epoca non può essere compiutamente storico; è un discorso di base archeologica, che indica livelli culturali e forme elementari di organizzazione sociale: perché dall’archeologia si passi alla storia occorre poter delineare meglio il rapporto tra soggetti storici determinati, perciò la presenza di quei soggetti, i loro conflitti, insomma la catena degli eventi che risulta dall’interazione tra soggetti e ambiente: tutte cose per cui le maglie dell’archeologia risultano troppo larghe.

- Questa disciplina, l’archeologia, coglie un tipo di movimento diverso da quello che è oggetto della storia che ricostruisce gli avvenimenti. Le forme culturali rivelano una loro fluidità, vischiosità, interconnessione, una lunga durata, che ha solo in parte ha che fare con quel tipo di movimento in cui consiste la successione degli eventi storici, quelli di cui sono protagonisti i soggetti della storia.

- L’Età del Bronzo in Grecia si estende grosso modo dal 2800 al 1100 a.C., ed è tripartita in Antica, Media e Recente. È caratteristica la diffusione di una ceramica a vernice lucida.

- Tra Antica e Media Età del Bronzo, nel continente, si assiste all’arrivo di un primo movimento di popolazioni indoeuropee, destinate a chiamarsi storicamente greche, avvenuto tra 2000-1800 a.C. Essi costituiscono il nucleo della popolazione ellenica di età pienamente storica e sono tradizionalmente indicati come Achei.

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2. La civiltà minoica- La civiltà minoica è una civiltà non greca presente nell’isola di Creta. Anche la sua storia si

suole suddividere in tre fasi: Antico, Medio e Tardo Minoico, distinguibili principalmente attraverso quella che è la caratteristica architettonica di questa società, i palazzi.

- Il Minoico Antico (2000-1850 a.C per il Levi) è fase prepalaziale, anche se rappresenta una fase vitale per l’uso del metallo e i suoi effetti nell’organizzazione sociale. Il grado di sviluppo economico si manifesta anche attraverso la gioielleria, che raggiunge forme raffinatissime, in cui è facile vedere influenze orientali.

- Con il Medio Minoico I emerge la civiltà palaziale, con quei ‘primi palazzi’ che presentano una struttura semplice, che sviluppa, contornandola di ambienti diversi, la fondamentale struttura dello spazio quadrangolare. Circa il 1900 a.C. sorgono i famosi palazzi di Cnosso e di Festo.

- Con la III fase del Medio Minoico (1700 a.C.) abbiamo l’epoca dei Secondi Palazzi, in cui essi (come quelli di Cnosso e Festo) conoscono un notevole ampliamento, un’articolazione diversa delle funzioni dei diversi ambienti, la creazione di ambienti di rappresentanza e destinati a funzioni sociali elevate. Questa trasformazione può essere dovuta a fatti distruttivi, come un’invasione e la guerra, o un terribile terremoto; ma si deve pensare anche a un’accentuata dinamica sociale, che determinò la nascita di una forma e di un’immagine diversa del potere. Differenze cospicue si avvertono anche nella ceramica, sempre più ricca e fantasiosa.

- All’ultima fase del Minoico Medio e alle prime fasi del Tardo minoico (età neopalaziale) vanno assegnati fatti d’ordine culturale di particolare importanza, come la diffusione della scrittura sillabica – riflesso di un potere che si organizza in maniera sempre più complessa e allo stesso tempo di scambi, economici e culturali, con l’Oriente mediterraneo.

- I Greci quando rievocano questo periodo, che sentono chiaramente distinto dalla loro storia, parlano di talassocrazia di Minosse: talassocrazia non nel senso di pratica del mare o familiarità con la navigazione, bensì dominio sul mare, sottoposto a un rigido controllo, in primo luogo militare, di una determinata entità politica: ha perciò una connotazione quasi territoriale. È concetto dunque da tenere ben fermo, quello della talassocrazia minoica, ben distinto da quello di espansione micenea.

3. La civiltà micenea e la sua espansione nel Mediterraneo. I Fenici- Pure la civiltà micenea si suddivide in base archeologica in tre sottoperiodi, che si considerano

come l’ultimo periodo dell’Età del Bronzo Elladico, dunque: Tardo Elladico I (1600-1500 a.C.), Tardo Elladico II (1500-1425 a.C.), Tardo Elladico III (1425-1100 a.C.). Il rapporto di Creta col mondo miceneo risale al 1450 a.C., dunque al Tardo Minoico II.

- Palazzi micenei scavati in Grecia sono: Micene e Tirinto nell’Argolide, Pilo in Messenia, Tebe e Gla in Beozia, Iolco in Tessaglia; resti di strutture si colgono anche ad Atene (Attica) e Orcomeno (Beozia).

- Se durante il Medio Elladico si coglieva un’avanzata di popolazione indoeuropea (Protogreci) fino al Peloponneso, con l’età dei palazzi, all’incirca tra il 1600-1200 a.C., assistiamo a profonde trasformazioni delle forme dell’organizzazione sociale ed economica e delle stesse forme del potere: passaggio dal nomadismo alla sedentarietà, pratica di attività produttive, sia per sviluppi interni che per influenze cretesi.

- Sul continente spicca l’utilizzazione di luoghi forti, come l’insediamento su acropoli di rispettabile altezza. Dai minoici molti micenei riprendono la scrittura, adattandola da una lingua

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non greca (Lineare A, finora non identificata) a una lingua greca (Lineare B), il dialetto arcado-cipriota.

- Nel 1450 a.C. si ha l’insediamento di un dominio miceneo a Cnosso. L’eredità minoica sopravvive forse a una catastrofe naturale e certo anche a una sovrapposizione di dominio da parte di Micenei (che taluno concepisce come vera invasione, altri come una sorta di rilevamento del sommo potere); ma essa sopravvive ormai come un patrimonio gestito dai Micenei.

- Lo straordinario materiale di testi in Lineare B, che ammontano ad alcune migliaia, presenta due punti di addensamento: Cnosso e Pilo. Nell’insieme sono le tavolette di Pilo che ci forniscono un maggior numero di dati interessanti la struttura della società palaziale di epoca micenea: lista di persone in qualche attinenza col palazzo e forma di subordinazione rispetto ad esso; liste di uomini addetti ai servizi di guardia; razioni di grano e di olio distribuite a singoli; registrazioni di obblighi riguardanti il possesso terriero; affitti di terre, spesso del da-mo (dâmos); liste di tributi vari; liste di oggetti; liste di materiali prestati dal palazzo in cambio di prodotti; ecc.

- Società micenea: economia a fondamento agrario; struttura politica fortemente centralizzata, sottoposta al dominio di un wa-na-ka (wánax, signore), affiancato da un comandante militare, ra-wa-ke-ta (lawagétas); al signore pare nettamente sottoposta un’‘aristocrazia’ di capi militari ma anche, forse, di detentori di ampie porzioni di terra; la base produttiva forse contiene forme di servitù: una produzione comunque in cui la forza-lavoro è composta di personale dipendente inseriti in un’economia verticista, palaziale. Principali prodotti: agricoltura, grano olio vino; allevamento, lana miele; tessile (lino); prodotti artigianali. La relazione che esiste però tra il wánax, il lawagétas, i dâmoi e i vincoli di proprietà che intercorrono tra di loro non sono comunque ancora del tutto chiari.

- Aldilà delle problematiche ancora aperte, il quadro generale della società micenea si può così riassumere: 1) presenza di un vertice, rappresentato dal wánax e dalla struttura palaziale; 2) presenza dei dâmoi, cioè delle singole unità territoriali a vocazione agricola, e di una forza-lavoro dipendente o di tipo servile sul piano della produzione; 3) elementi che complicano e articolano questa apparente dicotomia: il lawagétas, e l’embrionale ‘aristocrazia’ titolare di benefici presso il palazzo.

- Al centro però è pur sempre la struttura palaziale, con un vertice politico, il principe; con un habitat specifico, il palazzo – per l’esercizio del governo e l’amministrazione, per la vita quotidiana, per le funzioni sacre, per le riunioni, per il divertimento – ma anche con un territorio, occupato da villaggi, in cui dei contadini lavorano la terra per il principe e sono in una posizione di dipendenza, che almeno in parte si configura come vera e propria servitù.

- È documentato anche lo scambio di merci, anche se si tratta di scambio tra merce e merce, e non esistono ancora forme di economia monetaria, e principalmente la ricerca di metalli, di cui si avverte l’esigenza e insieme la scarsità. Ci sono contatti a Oriente, in Asia Minore, e in Occidente; non va dimenticato neanche il ruolo di mediatori svolto dai popoli mercanti, come i Fenici.

- Riassumendo: 1) Dopo l’invasione del continente e l’assestamento (Medio Elladico) si raggiungono assetti e nuove forme di organizzazione sociale, economica e politica, che corrispondono alla fioritura dei palazzi nel Tardo Elladico; 2) A metà del XV secolo questo assestamento, politico, economico e anche demografico, ha portato all’espansione anche nell’Egeo, a cui corrisponde l’insediamento di un principato miceneo a Cnosso; 3)

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Successivamente, si verifica un poderoso fenomeno d’espansione commerciale, che segue vie proprie, portando a un’ulteriore grecizzazione della penisola, delineando i contorni di quello vivaio di espressioni diverse che noi chiamiamo ‘mondo greco’, ‘grecità’. Vi si esprime la grande mobilità greca, la straordinaria capacità di spostarsi, adattarsi a situazioni nuove, inserirsi in quadri sociali ed economici diversi. Se si guarda al fenomeno dell’espansione micenea nel suo complesso, la sua matrice ci appare il bisogno, più che la potenza; la potenza era stata invece la matrice dell’espansione minoica.

- Confronto tra espansione greca in età micenea ed espansione greca in età arcaica: Nel II millennio a.C. i Greci cercano soprattutto interlocutori validi, società in grado di accoglierli e di fare uso dei suoi prodotti e tecniche – essi si appoggiano a società evolute insediate sulle coste del Mediterraneo. L’espansione di epoca arcaica invece è caratterizzata dalla capacità delle póleis di programmare una propria espansione, ha un carattere sistematico e una finalità ben precisa, cioè quella di creare vere e proprie nuove póleis, cercando per questo spazi vuoti: non vuole tanto inserirsi in società organizzate preesistenti, quanto contrastarle e sostituirle; cerca spazi vuoti per sé, non spazi occupati, regolati, civilizzati dagli altri.

- I Fenici: Con Phoínikes, alla lettera ‘i rossi’, con probabile riferimento al colore bruno della pelle, i Greci intendevano riferirsi alle popolazioni non greche in generale, intendendo anacronisticamente anche popoli del XIII secolo a.C.; i Fenici però non costituiscono una realtà etnica e politica organizzata prima del XII/XI secolo a.C. Gli scrittori greci tardi proiettano in un passato remoto una definizione e un’immagine valida per il I millennio a.C. Questo sta a dimostrare, comunque, l’esistenza di una corrente commerciale che, dal Vicino Oriente, si muoveva verso il mondo miceneo, in risposta alle correnti commerciali micenee, e che con i nomi Fenici i Greci riassumevano nella loro memoria l’insieme delle presenze commerciali di questi Vicino Oriente, anche nel II millennio a.C.

4. La fine della civiltà micenea e la tradizione sulle migrazioni doriche- Dalla fine del XIII secolo a.C. fino circa a 1150 a.C. il mondo miceneo conosce innegabili

segni di declino. Le evidenze archeologiche sono la distruzione dei palazzi di Micene, Tirinto e Pilo. A queste distruzioni non si accompagna però una scomparsa repentina della civiltà micenea: la ceramica e il livello di vita si rivelano certo inferiori, ma non vanno riportati necessariamente a un cambiamento di popolazione.

- Quanto alle cause della distruzione dei palazzi, potevano essere le più diverse: cause naturali, come terremoti disastrosi accompagnati da incendi, ma anche invasioni e guerre.

- La tradizione epica e storica greca ha invece un nome preciso per i conquistatori dei grandi centri micenei: i Dori nel Peloponneso, e i Tessali in Tessaglia; ma è interessante osservare come nella stessa tradizione antica, i Dori figurino più come conquistatori che come distruttori, e che in varie regioni (Argolide, Messenia, Laconia) diano vita a forme di convivenza o di vera e propria fusione coi popoli precedenti.

- Non è lecito liquidare la tradizione sulle migrazioni doriche con l’argomento di una sua assoluta incongruenza con i dati archeologici. I Dori non appaiono nella tradizione antica né come grandi distruttori né come grandi costruttori: la penetrazione appare come una conquista ora più ora meno veloce, ma nel suo insieme graduale, accompagnata da fatti di penetrazione e di appropriazione di un patrimonio culturale precedente.

- Ci sono segni anche di un malessere che ha investito la rigogliosa civiltà micenea alcune generazioni prima dell’arrivo dei Dori nell’Argolide.

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- La guerra di Troia e il declino della società micenea: Della spedizione contro Troia l’esito apparente, o quanto meno immediato, è la vittoria degli Achei, ma una vittoria che non porta a una stabile conquista della Troade, a un florido insediamento greco sulle rovine della civiltà vinta; è una spedizione punitiva, e riuscita come fatto punitivo, ma pagata a caro prezzo da tutti, nelle case dei prìncipi achei reduci da Troia. Sarà forse una proiezione di un’umanissima nozione, tutta greca, della guerra (un male naturale, sì, ma pur sempre un male per i Greci, che non hanno mai avuto una cinica nozione della guerra come un semplice fatto naturale e necessario, un dato di semplice routine dell’esistenza); sta di fatto che quella dei Greci sui Troiani è una strana vittoria, e l’épos che la celebra, e il complesso dei riecheggiamenti letterari, non hanno nulla di una trionfalistica celebrazione. Al racconto epico della guerra di Troia si accompagna tutta una memoria di fatti di contorno, che parla di ritorni degli eroi, accompagnati da lutti, seguiti da dissidi, esìli, da profonde convulsioni del mondo dei regni micenei: e tutto questo è di circa tre generazioni anteriore all’epoca della presunta invasione dorica del Peloponneso.

- Questo declino della civiltà micenea si svolge in due tempi: 1) Prima dell’arrivo dei Dori, si possono ipotizzare cause interne di conflitti sociali tra strati diversi della popolazione, o tra il sovrano e un’embrionale aristocrazia, accompagnate forse dall’irrompere di fattori distruttivi esterni, tutto questo inserito in un quadro di crescita del mondo miceneo cui però non corrispondono le risorse adeguate; 2) A tutto questo si succede una progressiva trasformazione delle condizioni di popolamento in aree vitali del mondo greco, come il Peloponneso, la Tessaglia e Creta. Vi si accompagna anche un rapporto diverso col territorio, passando dal dominio dei signori e di una società a vertice palaziale dell’epoca micenea, alla proprietà di tribù di invasori, i Dori, organizzate in una forma molto meno gerarchica e verticistica: le pianure, un tempo dominate dai palazzi, diventano l’oggetto di spartizione delle nuove tribù.

- Non si può però considerare tutte le trasformazioni di quest’epoca come cambiamenti ‘importati’ dagli invasori Dori. C’è un grande mutamento nell’area mediterranea che riguarda l’uso dei metalli di particolare (ma non esclusiva) destinazione militare – questo cambiamento segna anche il passaggio dall’Età del Bronzo all’Età del Ferro. Ciò presuppone e produce cambiamenti di ordine economico e di civiltà in genere, e cambiamenti di ordine sociopolitico; vi sono nuove rotte di scambio e traffico, entrando in gioco le regioni dell’Anatolia orientale, ove si estrae e da cui si importa il ferro. La stessa possibilità di un uso più ampiamente diffuso di armi nel nuovo metallo si accompagna a una nuova organizzazione militare. Furono i Dori portatori della cultura che fa uso del nuovo metallo, o di nuovi tipi di armi? Questo sembra una connessione troppo schematica. Certamente ci furono novità di ordine sociale e politico connesse con le istituzioni che i Dori portarono, o si diedero, nella conquista; a queste novità sociopolitiche si adattano innovazioni della tecnica metallurgica, della tattica militare, delle espressioni artistiche, di cui i Dori non furono necessariamente né gli inventori né i soli fruitori. A tutto questo si accompagna un crollo delle precedenti forme di potere, più accentrate, di tipo monarchico e palaziale.

5. Le origini delle póleis- Il passaggio dall’epoca micenea a quell’arcaica è caratterizzato da questi due fatti principali: 1)

la fine dei palazzi micenei e delle società e culture palaziali; 2) la nascita di qualcosa di fondamentalmente nuovo nei secoli bui, la pólis, cioè la realtà sociale e istituzionale intorno a cui ruota tutta la storia della Grecia classica.

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- Nella pólis confluiscono il vecchio, declinante miceneo e il nuovo, che, al solito, non è da intendere come solo dorico, ma è l’espressione di una nuova epoca, di cui un elemento portante in aree vitali è quello dorico: la pólis è il punto di intersezione storica tra la società e la cultura palaziale e le società e le culture di tipo tribale (quanto a organizzazione) e territoriale (quanto a dimensione e forma dell’insediamento).

- La società micenea trasmette al futuro dell’esperienza politica greca il ruolo centrale di un’acropoli, anzi l’idea stessa di un centro che è centro del potere: ma se, nella società monarchica palaziale, l’acropoli è il centro del potere del sovrano (wánax), nell’età greca arcaica e nella struttura cittadina essa sarà il centro latamente simbolico del potere, il centro sacrale e politico, ma di un potere che non si incarna in una persona e nella sua famiglia, che non è confinato all’acropoli, ma è latamente diffuso fra i molteplici suoi detentori. Topograficamente, attorno all’acropoli si colloca l’ásty, o città (ma città bassa), e, intorno a questa, la chóra, o campagna (territorio). Quest’ultima è la proprietà dei detentori del potere. La pólis greca vive dello scambio e dell’equilibro tra ásty e chóra, tra città e territorio: equilibrio che non è solo ambientale e umano, ma sociale, economico, politico. Accentramento del dominio territoriale e distribuzione del potere politico saranno caratteristiche delle póleis in genere.

- La formazione delle póleis è da collocarsi nei secoli immediatamente posteriori all’età micenea, cioè dall’XI al IX secolo a.C. Le póleis hanno origine da diverse situazioni, con diversi precedenti e differenti caratteristiche. Quel che nasce nell’VIII secolo a.C., dunque, è la forma comune delle póleis, quando i diversi rivoli di esperienze cittadine, formatisi e presenti nei secoli XI/X e fino all’inizio dell’VIII secolo a.C., confluiscono in un fiume che è la pólis tipica, cioè essenzialmente la città aristocratica, il cui quadro di riferimento comune, nonostante le diversità, è appunto l’aristocrazia fondamentalmente oplitico-contadina. [Successivamente, col periodo delle tirannidi prima, e poi con gli sviluppi del tardo arcaismo, cioè del VI secolo, si vanno rideterminando e ricostituendo nuovi rivoli dall’alveo comune, fino a sboccare nel V secolo in quella tendenziale dicotomia che si identifica rispettivamente nella forma oligarchica e in quella democratica, un grandioso sviluppo a forbice dunque].

- Possibile divisione in tre frasi: 1) La pólis nasce dalla crisi e dopo la crisi dei palazzi micenei: si ha un atomismo delle singole póleis; 2) Si passa dopo alla koiné della civiltà della pólis, cioè la pólis diventa la forma comune dell’organizzazione sociale greca; 3) Si ha una regionalizzazione delle póleis, principalmente nel VII e VI secolo a.C., che trova riscontro concreto nella nascita delle leghe tra popoli e città circonvicini, ma anche nelle guerre interregionali, che via via (tra VI e V secolo a.C.) si colorano di tinte politiche diverse e di connesse alleanze con le due città egemoni, Sparta e Atene [si crea un’unità culturale e politica nell’ambito ionico intorno ad Atene, nell’ambito dorico intorno a Sparta].

- Riflessione sul rapporto tra Archeologia e Storia: L’archeologia è in grado di cogliere movimenti e mutamenti diversi da quelli che coglie la tradizione storica. La storia coglie il movimento dei soggetti storici; questi movimenti si compiono attraverso eventi che riguardano individui, popoli, Stati, che la memoria storica è in grado di cogliere, fermare nelle sue maglie, trasferire ai posteri. L’archeologia coglie trasformazioni interne, movimenti che hanno una vischiosità che non permette di vedere cesure e passaggi netti, quali sono segnati dagli eventi; coglie l’incessante trasformazione degli oggetti e degli stili, che è insieme e nello stesso tempo punto conservazione e trasformazione. Raramente il tasso di trasformazione contenuto in uno di questi momenti studiati dall’archeologia è talmente alto da corrispondere alla cesura

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rappresentata da un evento. Archeologia e storia parlano perciò spesso di movimenti e mutamenti diversi: di un movimento oggettuale (o oggettivo) la prima, di soggetti la seconda. La prima coglie la lunga durata; la seconda la scansione in eventi. Il movimento dei soggetti storici per lo più non è tale da poter essere fermato e fissato dalle maglie dell’archeologia, troppo larghe per afferrare i mutamenti dei soggetti medesimi.

6. Colonizzazione dell’Asia Minore. Le città ioniche ed eoliche- Per la tradizione antica la colonizzazione delle coste occidentali dell’Asia Minore si colloca

solo dopo la fine dei regni micenei e l’invasione dorica del Peloponneso. Oggi si tende a datare gli stessi insediamenti coloniali greci di Eolide, Ionia e Doride d’Asia in piena epoca micenea. Si devono però fare alcuni considerazioni preliminari: 1) È innegabile la presenza di resti micenei in quella che sarà la zona grecizzata dell’Asia Minore occidentale; 2) In parte queste presenze possono riflettere la naturale circolazione di uomini, prodotti, merci, che nell’Egeo c’è sempre stata (non mancano neanche presenze minoiche); 3) Al 1044 a.C. la tradizione eratostenica riconduce la migrazione ionica, cioè dopo la migrazione dorica e perciò dopo la fine dei regni micenei. Il problema della colonizzazione dell’Asia Minore è strettamente connesso con l’origine della pólis, del quale costituisce anzi una faccia significativa.

- La colonizzazione ionica è l’espressione della decisione di un corpo civico volta a dare sfogo e sbocco a bisogni urgenti per le nuove realtà delle póleis. Dunque, alle precedenti e sporadiche frequentazioni micenee, succede l’impianto di vere e proprie póleis, espressione di una precisa collocazione delle comunità di partenza rispetto ai problemi del bisogno e dell’opportunità di una migrazione.

- La colonizzazione ionica parte principalmente dall’Eubea e dall’Attica per fondare la famosa dodecapoli (12 città) ionica, tra cui le principali colonie sono Mileto, Efeso, Colofone e Samo; la colonizzazione eolica invece parte dalla Tessaglia e, attraverso Lesbo, costituisce la dodecapoli eolica sulla cosa, tra Kane e Smirne; la colonizzazione dorica invece costituisce l’esapoli dorica comprendente alcune località importanti come Rodi, Cnido e Alicarnasso (presto ionizzata). L’elemento più attivo e meglio organizzato è quello ionico.

- Quattro fasi dell’espansione greca nel Mediterraneo: 1) le frequentazioni micenee in aree diverse della penisola greca, a cui fanno seguito significativi fenomeni di migrazione, come esito del dissolvimento della civiltà palaziale; 2) la colonizzazione di epoca arcaica, tra VIII e VI secolo a.C., con la fondazione di vere e proprie città-figlie in tutto il Mediterraneo, in particolare in quello occidentale; 3) l’espansione greca di carattere egemonico (o imperialistico), particolarmente visibile nel IV secolo a.C.; 4) l’espansione e colonizzazione greca nell’Oriente persiano, a seguito della conquista di Alessandro Magno.

7. Le regalità omeriche- I poemi omerici proiettano sull’epoca della guerra troiana (XII secolo a.C.) gran parte

dell’esperienza storica dell’alto arcaismo greco dell’epoca della composizione dei poemi omerici stessi (circa l’VIII secolo a.C.); la proiezione si ricongiunge in parte però con le condizioni reali della monarchia di età micenea.

- Per alto arcaismo Musti intende il periodo che va dalla fine dell’XI secolo al 730 a.C. circa; per medio arcaismo il periodo tra 730 e 580 a.C. circa; e per tardo arcaismo il VI e gli inizi del V secolo a.C.

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- Nell’Iliade il re figura come detentore del comando in guerra, presiede le assemblee, fa da arbitro nelle controversie – egli appare a capo di una coalizione di contingenti di diversi popoli e città. L’esperienza cittadina greca è già presente in questa rappresentazione; è l’idea di un’egemonia compatibile con le tante autonomie che qui è già all’opera. Questo per il profilo dei rapporti esterni;

- Per quanto riguarda i rapporti interni, l’Iliade attesta l’esistenza di un’assemblea dell’esercito, dove vige un’apparente libertà di parola, ma in cui la migliore virtù (e dunque la prassi di fondo) appare quella dell’ascoltare e dell’ubbidire. In essa hanno un ruolo i capi dei contingenti al seguito di Agamennone, che obbediscono alla sua autorità suprema, ma che dividono con lui le qualità di basileús, cioè di capo. Un quadro non molto dissimile è presente nell’Odissea, dove si va definendo l’esistenza di una vera e propria aristocrazia, cioè non una coalizione di capi sotto il capo supremo, bensì un gruppo sociale omogeneo, in cui il comandante è solo un primus inter pares.

- Per quanto riguarda il ruolo del basileús: 1) la filologia micenea ha mostrato chiaramente la modestia e la genericità del termine basileús (qa-si-re-u), che vuol dire ‘capo’; 2) occorre distinguere tra carica del basileús nella forma ereditaria o almeno vitalizia, e carica annuale, o detenuta per un periodo limitato – nel secondo caso, il basileús non identifica un regime monarchico, ma aristocratico-repubblicano; 3) occorre distinguere tra basileîs in contesti etnici e basileîs in contesti cittadini.

8. Regalità di città greche arcaiche- Ancora in età classica troviamo basileîai cittadine vitalizie ed ereditarie a Sparta (nella forma

della diarchia, sino alla fine del III secolo a.C.), ad Argo (fino al tempo delle guerre persiane), in Messenia (al tempo della seconda guerra messenica, VII secolo a.C.) – sono infatti le città doriche del Peloponneso.

- È pur possibile che la forma centralizzata di potere d’epoca micenea abbia esercitato il suo influsso in queste basileîai; certo, però, il basileús nei contesti dorici appare ben inserito in una struttura aristocratica, con al suo interno forti connotazioni ugualitarie.

- Si è ipotizzato che questi capi dorici siano in qualche modo in rapporto con l’esistenza di tre tribù: la presenza in Argo di una triarchia, potrebbero far pensare in un sviluppo del genere; la diarchia spartana verrebbe considerata allora come il risultato di una riduzione a due di un’originaria triade. Per il Musti però i moderni vedono i processi antichi con occhi troppo moderni – vogliono concepire i poteri arcaici come assoluti, e i poteri assoluti come sempre concentrati nelle mani di uno solo.

- Per il Musti, invece, la pólis nasce già aristocratica, benché all’origine si tratti di un’aristocrazia organizzata intorno a una leadership, che si fa valere per vantate origini divine, e che ottiene prerogative riconosciute, in fatto di proprietà terriere, di esercizio di funzioni sacrali o militari, di rappresentatività della comunità politica, in un quadro sociale ed economico di forte omogeneità. Progressivamente l’aristocrazia si libera anche da questo bisogno di leadership, quando l’intero strato aristocratico vuole esercitare il potere politico. È del tutto plausibile, per il Musti, che a Sparta la diarchia corrisponda alla funzione di garantire un equilibrio di leadership, tenere in scacco eventuali propensioni ad un eccessivo accentramento di potere, realizzare anche nella regalità la ‘parità’ degli hómoioi [hómoios, simile, pari, è concetto più pertinente a un’aristocrazia ristretta; ísos, uguale, equo, si adatta di più a un regime ugualitario di tipo democratico].

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- Ad Atene la basileía ereditaria e vitalizia è seguita, secondo la tradizione storica, dall’arcontato (prima forse arcontato a vita, ma non più carica ereditaria, poi arcontato decennale, quindi magistratura annuale); anche qui modelli micenei e insieme nuove realtà comunitarie (le quattro phylaí, tribù, e i rispettivi phylobasileîs) possono aver favorito il formarsi di un’aristocrazia a guida basilica, e il suo perdurare per circa quattro secoli. In Macedonia la basileía è molto meno imbrigliata in un contesto aristocratico: qui l’aristocrazia è più di tipo iliadico (piccoli capi attorno al grande capo) che non odissiaco (l’aristocrazia come gruppo sociale, ma anche come consesso, che esprime, circonda, controlla costantemente il primus inter pares).

9. Géne, fràtrie, tribù- Fràtria: per il Musti la fràtria si può concepire soltanto come una ripartizione di un’entità più

vasta, e che potrebbe aver avuto funzione militare, ma soltanto appunto accanto alla tribù, cioè come sua ripartizione. Ad Atene per esempio la fràtria assume piuttosto le funzioni del moderno registro civile (ognuna delle 4 tribù ioniche era suddivisa in 3 fràtrie); altrove, come a Locri, è suddivisione fondamentale della pólis per lo svolgimento di funzioni amministrative e finanziarie. La fràtria, tuttavia, non si lascia agevolmente concepire come un’entità autonoma: l’idea di fratellanza che essa contiene serve appunto a creare nessi più stretti fra membri di un corpo più vasto – la tribù.

- Tribù: eventualmente solo la tribù potrebbe essere chiamata in causa come entità che abbia avuto una sua vita autonoma prima della nascita della pólis. Le tribù che noi conosciamo all’interno del mondo greco, secondo il modello dorico (Illei, Dimani e Pànfili) o ionico/attico (Opleti, Argadei, Egicorei, Geleonti), diventano parte integrante ed essenziale dell’organizzazione cittadina: lo sviluppo della pólis potenzia le tribù, come suddivisione della comunità [le tribù mancano però presso le stirpi eoliche, ma anche in Eubea e in Beozia].

- Effettivamente la tribù mostra in determinate città e regioni del mondo greco una vitalità e una chiarezza e specificità di funzioni che non ha altrove: si tratta ancora una volta delle zone doriche (in Sparta i membri delle singole tribù avanzano separatamente brandendo le loro lance). Meno chiara è la funzione delle tribù ad Atene, che del resto furono soppiantate con la riforma di Clistene nel 508/507 a.C. dalle dieci tribù territoriali. Si può ipotizzare che il rapporto tribù-città doriche è più stretto che altrove, e forse è proprio qui originario, ed altrove è un lato riflesso, in quel processo di riorganizzazione della vita politica greca, che segue alla crisi dei regni micenei, e in cui l’apporto dei Dori è vitale.

- Le fràtrie si possono ben concepire come originaria ripartizione delle tribù, in àmbito dorico. Non sorprende che in àmbito attico, ove altra è la funzione delle tribù, diversa sia anche la funzione della fràtria. Come ripartizione del corpo civico, costituito su base aristocratica, è naturale che la fràtria, per struttura, carattere, culti, appaia come una cellula vitale del tessuto delle società e della cultura aristocratica. Tuttavia ben poco chiari sono i rapporti tra fràtrie e géne, le grandi famiglie o consorterie nobiliari.

- Géne: i géne però hanno un carattere artificioso e secondario – in quanto attribuivano a se stessi capostipiti eroici comuni e vantavano un patrimonio di memorie che li distingueva dalla gente qualunque e fra loro stessi, i géne appaiono propriamente come l’esito storico della stratificazione sociale presto impiantatasi all’interno delle póleis. Il richiamo ad antenati mitici significa in un certo qual modo lo sforzo di appropriarsi il passato miceneo, giá preistorico per i Greci di età arcaica, facendone una mitica premessa, un titolo di nobiltà: il carattere artificioso

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dei richiami consentiva un’ampia diffusione della struttura del génos – il mondo miceneo era lì come un arsenale di miti, a disposizione di chi volesse servirsene. Per quanto riguarda il rapporto tra géne e tribù, dove la tribù era più vitale e determinante, è probabile che i le tradizioni dei géne si sviluppassero all’interno di quelle delle tribù – in altri termini, che i géne fossero parti, parti eminenti, delle tribù stesse. Dove invece le tribù sembrano avere un carattere più artificiale, la realtà dei géne sembra svolgere un ruolo maggiore dell’altra struttura.

10. Altre realtà regionali dell’alto e medio arcaismo- Beozia e Tessaglia in età arcaica avanzata, cioè nel VII e nel VI secolo a.C., sono regioni vitali

e potenti. In Tessaglia nei secoli dell’alto arcaismo si ha un processo di organizzazione del territorio che comporta lo sviluppo di una grande proprietà terriere, e perciò la formazione di saldissimi poteri aristocratici e, corrispondentemente, di un cospicuo strato di servitù rurale. I signori della terra sono anche signori della guerra, fondata sulla cavalleria. I Tessali, se davvero erano Dori, non riuscirono però a imporre il loro dialetto, che in età storica, in Tessaglia, è l’eolico, segno che la popolazione preesistente rimase sul luogo in quantità cospicua. La Tessaglia non conosce grandi sviluppi urbani prima del V secolo, così come non consce quelle forme di vita e organizzazione collettiva che sono proprie di Sparta: il privato delle grandi famiglia aristocratiche (che si riflette nella poesia di VI e V secolo a.C., da Simonide a Pindaro) appare assolutamente dominante - la comunità politica appare poco più che l’espressione della stessa società aristocratica.

- Beozia: la storia di Tebe nel periodo dell’alto arcaismo è quella della ricostituzione del suo ruolo egemone nella regione (dopo il declino alla fine dell’età micenea). Nell’alto arcaismo già si configura in Beozia tutta la dinamica della sua storia, nelle sue rivalità e antagonismi interni, nelle tensioni unitarie che la percorrono, nella maggiore capacità di Tebe di assicurarsi una posizione egemone.

- Eubea: a Calcide in età arcaica si conosce una forma di società aristocratica a caratterizzazione equestre, che si ispira anche nei comportamenti militari a regole ‘cavalleresche’ disdegnando l’uso delle armi da getto e preferendo il rischio diretto della spada.

Note Integrative

b) La monarchia in Omero- La basileía è un momento della storia dell’aristocrazia, la quale passa appunto da una forma a

vertice monarchico ad una a vertice espanso, oligarchico. Il vero passaggio è dunque da una monarchia palaziale, di epoca micenea, alle strutture aristocratiche di epoca alto-arcaica.

- L’armata greca nell’Iliade è la grande metafora della città greca. Dopo il crollo dei palazzi micenei, le strutture aristocratiche si caratterizzano dall’accentuata stratificazione sociale e dalla formazione di piccole cerchie di leaders ereditari, chiamati basileîs (ma non esistono basileîs-re).

- Tra l’Iliade e l’Odissea c’è soprattutto la differenza, per l’aspetto della basileía, che al vasto strato di basileîs dell’epoca dell’Iliade, si contrappone il numero determinato, e certo correlato con forme di suddivisione della città, dei 12 basileîs dei Feaci (cui si aggiunge Alcinoo come tredicesimo). La novità dell’Odissea è anche nel ruolo diverso dell’assemblea, che nell’Iliade era un ‘personaggio’ che di norma dovrebbe tacere, e che a fatica, ma nella norma, veniva ricondotto a un ordinato e silenzioso sedere.

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c) Omero, la vita cittadina, la tecnica- Lo scudo di Achille: Attenzione particolare merita nell’Iliade nel libro XVIII la descrizione

dello scudo fabbricato per Achille dal dio Efesto. Qui il mondo è visto come città e la città, con i suoi annessi, sta per il mondo (il confine esterno del campo figurativo è lo stesso fiume Oceano). La descrizione è fondamentale per capire il ruolo della pólis nelle concezioni greche, in particolare dell’VIII secolo. Tutto lo spazio figurativo qui è occupato dalla città (la città in pace e la città assediata da nemici); il movimento dall’interno verso l’esterno dello scudo è tutto costruito sulla nozione di interno ed esterno alla città. Si va dalla rappresentazione di ciò che avviene all’interno dello spazio urbano (una pace fatta di nozze, ma anche – alla greca – di liti, che si concludono comunque nell’armonia della giustizia, anzi di una gara per la giustizia), a una difesa, piena di astuzie, dall’assedio nemico, nell’immediato suburbio (con scene stagionali, di aratura, mietitura, vendemmia), fino alla fascia estrema dei pascoli, della caccia, del territorio selvatico. Queste scene non sono solo raffigurate sullo scudo, ma di fatto avvengono, si svolgono, agli occhi dell’osservatore dello scudo, per effetto della virtù animatrice del dio Efesto (non è solo dunque un ricadere del poeta in moduli narrativi: è una sorta di cinema).

h) Sulla nascita della scrittura alfabetica- È un problema storico fondamentale quello della nascita della scrittura alfabetica in Grecia. La

scrittura sillabica è rappresentata nell’epoca micenea (Lineare B). Con il crollo dei palazzi scompare anche quello strumento di registrazione contabile e archivistico. La scrittura alfabetica, di origine fenicia, con l’integrazione di alcuni segni, la variazione del valore fonetico d’altri, l’esclusione (diversa a seconda delle diverse località greche) di altri ancora, viene adottata in àmbito greco, dove è per la prima volta sicuramente documentata nell’VIII secolo a.C.; forse il IX a.C. secolo è una data approssimativa accettabile per un inizio congetturale.

l) Sulla diarchia a Sparta- Sull’origine della diarchia a Sparta esistono tre tipi di spiegazione: 1) il primo parte dal numero

delle tribù doriche, tre, e nella diarchia vede l’esito di un processo riduttivo; 2) il secondo vi scorge un compromesso tra due località confluite nel sinecismo di Sparta, una di origine dorica l’altra di origine achea; 3) il terzo vi riconosce il risultato dell’ascesa di un secondo magistrato accanto al re.

- Dobbiamo sottrarci alla falsa suggestione della mentalità moderna, che non riesce a concepire la regalità se non come vertice unico. La parità (qualitativa, e perfino numerica) dei vertici regali dell’aristocrazia corrisponde al carattere delle monarchia aristocratiche, o aristocrazie a vertice monarchico, dei secoli bui.

m) Il pántheon greco- Nel corso dell’età arcaica si va costituendo, entro i confini del politeismo greco, una sorta di

canone delle dodici divinità maggiori, un dodekátheon, comprendente sei divinità maschili (Zeus, Posidone, Ares, Efesto, Apollo, Ermes) e sei femminili (Era, Atena, Demetra, Afrodite, Artemide, Estia). Attorno ad essi, una folla di divinità minore, qualcuna delle quali destinata a

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guadagnarsi un posto nel dodekátheon a scapito di qualche altra, meno dotata di tratti personali definiti e di un contesto mitologico adeguato (ad es. Dioniso al posto di Estia).

- Zeus è dio della luce, ma anche quintessenza della sovranità, vista, soprattutto nel mondo indoeuropeo, al maschile. Posidone rappresenta anch’esso una versione della sovranità – la diversità del nome potrebbe dipendere all’origine solo da tradizioni locali o specificare l’àmbito di sovranità, terra o mare; Era significa la condizione matrimoniale della donna; Demetra la meternità; Estia la stabilità del focolare; Atena è figlia della mente di Zeus – questo rapporto privilegiato con la sovranità ne rivela una funzione che risale almeno ad età micenea; di Ares e di Afrodite, soprattutto della seconda, si colgono le origini straniere alla grecità indoeuropea – Ares ha caratteristiche di divinità della Tracia, Afrodite è divinità dell’area siro-mesopotamica, fenicia: è la femminilità come natura, è la dea dell’amore, con cui è collegata la divinità della guerra, Ares, che le è insieme antitetica (amore-odio) e congenere (aggressività); Efesto è dio del fuoco e delle tecniche artigianali, il cui inaspettato matrimonio con Afrodite potrebbe essere ulteriore segno dell’estraneità originaria di Afrodite al pántheon greco; Apollo presenta caratteristiche indoeuropee di divinità solare e saettatrice, portatrice di pestilenze come di miracolose guarigioni, divinità simbolo dell’adolescenza vincente, e via via diventa divinità della bellezza, dell’ispirazione invasante, collegata agli oracoli e alle Muse; in un rapporto polare con la divinità solare vi era una divinità femminile, associata alla luna, e che rappresenta, accanto al notturno, anche il selvatico e l’esterno, Artemide, che i Greci sentono come divinità della caccia; Ermes, figlio di Zeus e di una ninfa, è fra le divinità maggiori quella più singolare, cui competono funzioni dalle quali gli dèi non possono che asternersi – gli appartengono funzioni che attengono alla sfera della promiscuità, dello scambio: dio del commercio, come del connesso furto, della parola e della comunicazione, messaggero fra dèi e uomini, accompagnatore di anime (psychopompos) verso la nuova vita dopo la morte.

- La tesi dell’origine micenea della religione e della mitologia greca vale senz’altro per alcune divinità; meno certo che miti e culti eroici abbiano avuto già la loro compiuta definizione in epoca micenea. Le tavolette in Lineare B contengono menzione di Atena e Posidone, di Zeus ed Era; c’è dunque già un sistema politeistico, che però si presenta con gerarchie non in tutto corrispondenti a quelle di epoca greca arcaica (a Pilo per esempio su Zeus predomina Posidone). Quello che l’età delle città greche porta con sé è forse il completamento del pántheon, e una sistemazione definitiva dei rapporti interpersonali fra le divinità, con assunzione del primato da parte di Zeus e della divinità femminile più collegata alla sovranità, Atena (che per i micenei era la dea del palazzo). Al dodekátheon si arriva attraverso l’incontro, la sommatoria dei diversi culti cittadini, in ciascuno dei quali diversa è la prevalenze dell’uno o dell’altro dio. Anche nella storia religiosa, dunque, tra miceneo ed alto arcaismo v’è continuità ma anche innovazione, soprattutto sul terreno dei rapporti interni al sistema, e si verifica il passaggio da molteplici e distinte esperienze, con lunghissime radici, ad una forma communis che si definisce fra VIII e VI secolo a.C.

2. La Grecia delle città. Legislazioni, colonizzazione, prime tirannidi (tra secolo VIII e VII a.C.)Ci sono tre aspetti sotto i quali gli eventi della storia greca tra secolo VIII e VII sono considerati: la colonizzazione (particolarmente quella in Occidente); le grandi figure dei legislatori cittadini (Licurgo di Sparta, Fidone di Argo, Draconte di Atene ecc.); l’avvento di regimi tirannici in molte città greche (dell’Istmo peloponnesiaco o dell’Asia Minore). La colonizzazione è certamente una risposta allo squilibrio determinatosi nel rapporto tra le risorse e i bisogni alla fine dei secoli bui. Al

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fenomeno migratorio si accompagna certo la diffusione di una più risentita coscienza politica. Ma lo stesso deve dirsi per le legislazioni e per le stesse tirannidi: entrambi i fenomeni sono espressione di sviluppi politici interni, e rappresentano spesso soluzioni alternative fra loro, nell’evoluzione delle aristocrazie greche. Si tratta, nel caso delle legislazioni, di forme di adattamento, di autocorrezione o di autocensura dell’aristocrazia al potere, forse anche sollecitate da strati più modesti e inquieti della popolazione. Nel caso delle tirannidi, il movimento storico assume forme più traumatiche, ma è all’interno delle strutture oplitiche che l’aristocrazia si è data, e quindi è dal cuore stesso dell’aristocrazia che nascono le tirannidi, naturalmente attraverso una catena di azioni e reazioni, che configurano una presa di coscienza, da parte dell’aristocrazia, della necessità di revisione del campo dei rapporti sociali, che non conduce però a una vera e propria rivoluzione di questi rapporti.

1. Legislazioni e forme politiche- Per il Musti le notizie sulle legislazioni vanno studiate all’interno della storia delle singole città,

o quanto meno delle singole aree storiche greche. Tuttavia è possibile considerare le legislazioni in una prospettiva d’insieme sotto due punti di vista d’ordine generale: 1) le legislazioni come un momento della storia delle trasformazioni e della crisi (in senso lato) delle aristocrazie greche, affiancato dai temi della colonizzazione e delle tirannidi; 2) il rapporto tra legislazione e scrittura: in Sparta le leggi di Licurgo non furono scritte (c’erano infatti espliciti divieti), ma scritte furono le leggi di Zaleuco di Locri o di Caronda di Catania o dell’ateniese Draconte, scritte furono anche le leggi di Solone (che già appartengono però al VI secolo a.C.); ciò sta a dimostrare come già l’aristocrazia sappia fare un uso pubblico della scrittura, anche se è altrettanto vero che solo la democrazia determina un particolare sviluppo della scrittura e delle sue funzioni; ma già un primo passo è compiuto dalle aristocrazie.

- Non sorprende che l’autore della prima legislazione scritta (nomografía) del mondo greco sia considerato un uomo della grecità coloniale, come Zaleuco di Locri. Benché aristocratiche nelle loro origini e nei loro sviluppi, le società coloniali, proprio perché comunità allo stato nascente, sono immediatamente disposte a forme di controllo sociale e a princìpi latamente ugualitari; d’altra parte, proprio in quanto comunità nuove, dispongono in misura assai minore di efficaci o vincolanti tradizioni orali: la codificazione per iscritto è, dunque, favorita.

- I casi che vengono considerati nei codici legislativi attengono ai reati contro le persone (omicidi, ferimenti, ratti) e contro la proprietà; le pene sono particolarmente severe, proprio perché scritte e quindi fissate in una maniera che la stessa scrittura rende rigide.

2. La costituzione di Sparta- Qualunque cosa si debba pensare della storicità, dell’epoca e dell’origine di un legislatore che

si sia chiamato Licurgo, egli viene a caricarsi di tutto il lavorio di formazione dell’insieme delle leggi spartane, come si è compiuto nei secoli dell’alto e soprattutto del medio arcaismo. Licurgo sta alla legislazione spartana come Omero alla tradizione epica: se ci sono stati storicamente personaggi di questo nome, essi sono solo un momento di un processo assai complesso, che investe più individui, tutti presenti nel corso della tradizione orale.

- L’ordinamento politico di Sparta, che, per la sua singolare staticità e compattezza, ebbe sui Greci di spiriti conservatori l’effetto di un miraggio, non era presente nella città sin dalle origini. Anzi, stando a Tucidide la città fu turbata da stáseis, cioè da conflitti civili, in una misura sconosciuta agli altri Stati greci; ne uscì infine, circa quattrocento anni prima della

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guerra del Peloponneso, senza dover imboccare la strada della tirannide, con una costituzione severa e stabile, che fu considerata un modello di eunomía, cioè di ‘buon governo’.

- L’equilibrio raggiunto da Sparta riflette in parte le premesse proprie del mondo dorico: l’importanza che in Sparta ha l’apélla, l’assemblea dei cittadini soldati, si ricollega probabilmente al ruolo dell’esercito presso i dorici, come provato dalla conquista; nel numero 30 degli anziani (gérontes) si riflette l’esistenza delle tre tribù, e così via di seguito; e, soprattutto, lo spirito di uguaglianza che circola all’interno di questa oligarchia è il riflesso di condizioni originarie. È però altrettanto plausibile che l’ordinamento vigente a Sparta nel VI secolo non sia puramente e semplicemente quello dorico originario, ché altrimenti dovremmo poter ritrovare anche nelle altre città doriche: la diversità di Sparta sarà dunque da concepire come acquisita storicamente, come risposta a conflitti, che però non hanno snaturato condizioni originarie – queste trovano in Sparta solo una versione peculiare e più rigida.

- Struttura politica: 1) la Diarchia, il potere dei due re, uno della famiglia degli Agiadi, che si dicevano discendenti dalll’eraclide Euristene, e uno della famiglia degli Euripontidi, che si dicevano discendenti del fratello Procle; è possibile che la presenza di due re appartenga al numero degli espedienti volti a garantire all’interno del corpo civico spartano condizioni di stabilità e di equilibrio; 2) la Gerousía di trenta membri, cioè, composta da 28 anziani con più di sessant’anni (eletti per acclamazione) e in più i due re; 3) l’Apélla, composta da tutti i cittadini (cioè dagli uomini che avevano terminato il periodo di allenamento militare), si riuniva stagionalmente e, nonostante non avesse potere di controproporre le decisioni della gerousía, probabilmente aveva diritto di parola e di moderata discussione. Questi tre organi cittadini sono sanciti dalla Grande Rhétra, il responso delfico, che Licurgo avrebbe ricevuto e messo in atto, forse agli inizi dell’VIII secolo a.C., il quale tra l’altro conserva le tre originarie tribù doriche ma istituisce cinque tribù territoriali nuove. Questa legge detta, non scritta, non menziona un altro organo importantissimo nella struttura cittadina Spartana, 4) l’Eforato, costituito da 5 efori, magistrati eletti per un solo anno tra tutti gli Spartiati, e che avevano diverse funzioni amministrative (la principale di esse, con il passare degli anni, sarà quella di sorvegliare l’attività dei re); la storia spartana fa risalire la magistratura degli efori come minimo all’anno 754/753 a.C.

- Struttura sociale: 1) gli Spartiati, gli unici veri cittadini di Sparta, il cui numero era fisso e calcolato dalla tradizione in 9000; gli spartiati erano padroni di altrettanti klêroi, cioè lotti, appezzamenti di terreno, nei quali gli spartiati però non lavorano direttamente: il lavoro agricolo infatti era vietato ai cittadini, i quali dovevano invece attendere obbligatoriamente (ad eccezione del primo figlio dei re) l’agogé – essa era la forma caratteristica dell’educazione a Sparta, completamente volta alla formazione del cittadino militare: i ragazzi vivevano insieme, dai 7 ai 20 anni, allenandosi costantemente alla vita militare, lontani dall’ambiente familiare; a partire dai 20 anni era permesso ai ragazzi di sposarsi, anche se dovevano comunque continuare a vivere nell’accampamento militare con gli altri compagni, fino ai 30 anni di età; a questo punto si aspettava che essi appartenessero a una delle syssítia, mense di pasto comune, composte da circa 15 membri, e che rimaneva la stessa per tutta la vita del cittadino: tutto questo era intento a sviluppare forme di familiarità e solidarietà maschile, particolarmente importanti in una società il cui scopo principale era la formazione militare del cittadino. 2) agli Iloti invece era affidato il lavoro agricolo nei singoli klêroi; essi erano infatti servi rurali, probabilmente residui dell’antica popolazione dominata dai dori, vincolati alla terra dei loro padroni spartiati e ridotti in una condizione di quasi schiavitù; 3) i Perieci invece erano liberi

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abitatori delle periferie di Sparta, sottoposti ad obblighi militari, ma dediti probabilmente anche ad attività artigianali e mercantili, le quali erano vietate agli Spartiati, ma comunque importanti in una società che aveva bisogno del lavoro del metallo, principalmente per scopi di guerra.

- Una così articolata struttura sociale e politica può forse non essere tutta maturata entro l’VIII secolo; le notizie circa le riforme introdotte dall’eforo Chilone, detentore della magistratura nel 556/555, hanno anche fatto pensare che la data di nascita del kósmos spartano sia da trasferire alla metà del VI secolo. Conseguenza di queste riforme sarebbe stata non solo la sempre maggiore valorizzazione della funzione degli efori, messi ormai con grande evidenza al fianco dei re, ma anche un cambiamento radicale del clima culturale e dello stile di vita a Sparta, che spiegherebbe come la Sparta aperta all’esercizio della musica e della poesia, o all’ingresso di poeti e artisti forestieri, come forse Alcmane o Terpandro, si chiudesse in quella sorta di caserma, che essa sembra diventata nei secoli VI e V. Ora, per ciò che riguarda l’accrescimento di potere degli efori, il ruolo storico di Chilone può essere stato molto significativo; ma non è facile credere che tutto il kósmos licurgheo sia da riportare al VI secolo e meno ancora che ne sia responsabile l’opera di un solo magistrato. In realtà, già nel corso dell’VIII e VII secolo, nei conflitti con i Messenii e con gli Arcadi, gli Spartani hanno avuto modo di mettere a frutto la loro struttura, organizzazione e singolare disciplina; già i versi di Tirteo riflettono quel senso di struttura compatta, che è l’ideologia stessa dell’oligarchia militarista spartana.

- Ma nell’VIII e VII secolo questa rigida organizzazione militare è anche nella sua fase più attiva e vitale: Sparta è in fase di espansione e conquista. La città, dove i ruoli cittadini tendono già alla fissità, non partecipa a quelle imprese coloniali, che costituiscono una prova della mobilità sociale e mentale degli altri Greci – l’unica colonia spartana d’Occidente nota è Taranto, con la quale Sparta cerca di risolvere quei problemi di ordine demografico ed economico che altre città, nello stesso Peloponneso, risolvono, almeno in parte, con la migrazione. Una Sparta conquistatrice però è ancora una Sparta in ascesa e a suo modo vitale, aperta, anche se aggressivamente, all'’esterno. Successivamente, e già nel VI secolo, la stessa capacità espansionistica di Sparta si va esaurendo; la città diventa l’essenza stessa di una statica conservazione. È allora che essa diventa la gendarme della propria costituzione e delle aristocrazie in genere, spesso così diverse da quella spartana. Ciò nondimeno Sparta è la loro tutrice e garante (anche attraverso lo strumento della Lega peloponnesiaca), e diventa sempre di più il loro modello ideologico, il loro (di fatto, così diverso) ‘dover essere’. Essa si sente chiamata a una responsabilità di difesa contro tutto il nuovo che turba gli ordinamenti politici e sociali greci: le tirannidi prima, la democrazia ateniese dopo. Il maturare di tutte queste nuove condizioni, interne ed esterne, fissa ed esalta il ruolo ideologico di Sparta, che si riflette anche al suo interno: di qui la xenofobia e il senso di profonda chiusura, in cui si ibernano valori di un kósmos, che è ragionevole ammettere però costituito già tra VIII e VII secolo.

3. La conquista spartana della Messenia- Ancora fin verso gli inizi dell’VIII secolo Sparta era stata impegnata, secondo la tradizione

storica, nel completamento della conquista della Laconia. Stando alla tradizione, intorno alla metà dell’VIII secolo gli Spartani aggirano verso occidente la fortissima barriera del Taigeto e conquistano la Messenia o almeno la sua parte centro-orientale (è la I guerra messenica, durata 20 anni, dal 743 al 724 per Pausania, o dal 757 al 738 per Apollodoro). Due generazioni dopo esplode la rivolta contro le condizioni di durissimo sfruttamento imposte ai vinti: è la II guerra messenica, combattuta da Sparta (dal 684 al 668 secondo Pausania)

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contro una coalizione di Messeni ribelli, del re dei Pisati Pantaleone e del re dell’arcadica Orcomeno Aristocrate; dopo anni le ultime fortezze cadono in mani spartane e i Messenii si dispersero nel Peloponneso e in Occidente.

- Più incerto il profilo dei fatti del lungo conflitto di Sparta con Argo. L’unica data ben definita nella tradizione è quella della vittoria di Isie, conseguita dagli Argivi sugli Spartani nel 669/668 a.C.; meno chiaro quali conquiste spartane di territorio un tempo argivo si collochino di massima prima di quella data o dopo di essa. È certo che agli inizi del VI secolo gli Spartani posseggono la costa occidentale del golfo Argolico (da Zarax a Prasie) e hanno l’isola di Citera. I conflitti continuano nel VI secolo per ragioni di confine tra Laconia e Argolide.

4. L’Atene arcaica e aristocratica- Geografia: il territorio dell’Attica, una penisola di circa 2600 km², si presenta articolato in

poche, significative pianure; il resto è collina o montagna: un territorio dunque naturalmente predisposto alla formazione di poteri locali separati e distinti. D’altra parte un territorio non privo né di risorse agricole (frumento, vite, ulivo), né di risorse minerarie, e soprattutto strategicamente proiettato sull’Egeo, perciò destinato a uno sviluppo marinaro in termini commerciali come militari.

- Le origini: nella tradizione mitica un ruolo particolare spetta alla figura di Teseo, il re famoso sia per l’azione svolta nella civilizzazione dei luoghi dell’Attica (è un eroe civilizzatore, come lo è Eracle per l’àmbito dorico), sia, e soprattutto, per il sinecismo, cioè l’unificazione dell’Attica, intorno a un centro, quello di Atene. La tradizione ricorda però per il periodo miceneo anche altri eventi anteriori a Teseo: si ricordano i nomi di quattro re, Cecrope, Erittonio, Pandione e, il padre di Teseo, Egeo. A Teseo poi sarebbero succeduti almeno altri sette re, fino a Medonte o Acasto; segue la dinastia dei Medontidi, in parte considerata una serie di re, in parte invece una serie di arconti a vita. Al periodo degli arconti a vita (1049? – 753 a.C.) sarebbe seguito quello di sette arconti decennali (753 – 683) e quindi quello degli arconti annuali, che rappresentano anche il cardine del sistema magistratuale dell’Atene classica e la cui lista ha inizio appunto col 683/682, con Creonte, il nome del primo degli arconti annuali.

- Abbiamo detto come l’opera dei legislatori (ma anche l’avvento delle tirannidi) sia espressione del travaglio politico delle aristocrazie greche arcaiche e una risposta alle esigenze emergenti: Atene, insieme con Sparta, è l’esemplificazione di questo rapporto. A Sparta il processo sembra essersi compiuto, e in un certo senso bloccato, già nell’VIII secolo. Atene invece emerge un po’ più tardi sul piano della storia delle forme politiche e del potere: nel VII secolo si ha il tentativo di Cilone (genero del tiranno di Megara, Teagene) di impadronirsi dell’acropoli e di instaurare una tirannide; il tentativo fallisce per l’opposizione e l’intervento violento della famiglia aristocratica degli Alcmeonidi. Ciò sarà circa il 636 a.C.

- Di poco dopo invece, circa il 624 a.C., l’opera del legislatore Draconte, di cui la tradizione ricorda la particolare durezza e severità delle pene. A Draconte spetta la legislazione sui delitti di sangue. È chiaro che la legislazione di Draconte sottraeva alla sfera privata la punizione di delitti fino ad allora appartenenti, se non del tutto, almeno in gran parte all’iniziativa dei familiari della vittima. Draconte considera prioritaria l’iniziativa e la denuncia da parte dei parenti, e crea una carica giudiziaria apposta, gli ephétai, che decidono

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delle pene riguardo ai delitti di sangue. È già dunque all’interno dell’aristocrazia ateniese che si vanno determinando le premesse di quello sviluppo politico avanzato che farà di Atene la città-guida della Grecia dal punto di vista delle strutture e dei diritti politici.

- Struttura politica: la ricerca di un accorto bilanciamento dei poteri ad Atene traspare dalla composizione del collegio degli arconti. C’è un arconte per eccellenza, detto eponimo, perché col suo nome si indica l’anno (che ad Atene va all’incirca da luglio a luglio); c’è un basileús, addetto più che altro alle funzioni sacrali; c’è un polemarco, che andrà progressivamente perdendo le funzioni militari che il suo titolo sta ad indicare, ma continuerà ad esercitare la gestione dell’‘esterno’ sul piano giudiziario, cioè gestiva le questioni giudiziarie relative agli stranieri; ci sono finalmente 6 tesmoteti, legislatori e custodi delle leggi: in totale, dunque, un collegio di 9 arconti, il cui carattere fondamentale è il principio dell’equilibrio dei poteri. Gli arconti erano scelti tra l’aristocrazia (dall’assemblea di tutti gli uomini ateniesi adulti) e svolgevano la carica per il periodo di un anno. Scaduto l’anno di carica, gli arconti entravano a far parte dell’Areopago, il consiglio dell’Atene aristocratica; esso si riuniva sulla collina di Ares, sita a poca distanza dall’Acropoli. Lo ‘Stato’ aristocratico ateniese del medio arcaismo, cioè dell’VIII-VII secolo, pare dunque privo di una struttura consiliare che provenga immediatamente dal basso: l’unica sembra quella degli ex-arconti, dei notabili, che si riuniscono sull’Areopago.

5. Le anfizionie- Nel quadro degli assetti territoriali e delle ripartizioni regionali del mondo greco vanno

considerate quelle caratteristiche associazioni, che definiamo come anfizionie: le anfizionie sono leghe di popoli o di città costituite intorno ad un santuario, una lega sacrale fra popoli abitanti in uno spazio geografico coerente – alcuni esempi sono quelle di Delfi, di Delo, che sono santuari di Apollo, e quelle di Calauria e di Onchesto, santuari di Posidone.

- L’anfizionia di Delfi è sicuramente la più famosa e autentica, e il suo inglobamento nel VII secolo corrisponde a un momento di particolare prestigio e potenza dei Tessali. Gli anfizioni in prima istanza sono i popoli membri della lega; nel sinedrio ciascuno dei popoli dispone di due delegati, cioè di due voti. Il numero complessivo dei popoli anfizionici è di dodici (un numero tipico nell’universo greco): di questi già sette sono Tessalici, se presi insieme con i loro sei popoli perieci (Tessali dunque e Magneti, Perrebi, Dolopi, Achei Ftioti, Eniani, Malii); accanto a questi ci sono ancora i Beoti, i Locresi, i Focesi, gli Ioni, e i Dori. Dei due voti ionici, l’uno spetta agli Euboici, l’altro agli Ateniesi; dei due voti dorici, l’uno spetta ai Dori del Peloponneso, l’altro ai Dori della Metropoli (le tradizioni sull’appartenenza di Sparta a uno dei due gruppi variano). Due volte all’anno si hanno le riunioni ordinarie dell’anfizionia, a primavera e in autunno.

- Prima guerra sacra: nel primo decennio del VI secolo la prima guerra sacra vede Tessali, Ateniesi, guidati da Alcmeone e consigliati da Solone, e il tiranno di Sicione, Clistene, alleati fra loro e impegnati contro i Focesi di Crisa, che disturbano i pellegrini diretti al santuario: di qui la distruzione di Crisa, la consacrazione al tempio del corridoio verso il mare (divenuto ormai porto di Delfi), la proibizione di coltivare la terra sacra, che colpisce particolarmente i Focesi, nel cui territorio sorge Delfi (il santuario dovrà costantemente difendere la sua autonomia e ruolo internazionale da quella provincializzazione eccessiva che comporterebbe la sua riduzione a santuario dei Focesi). La vittoria anfizionica significò il rafforzamento dei Tessali nella Grecia centrale, comportò l’ammissione di Atene

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nell’anfizionia, e la riorganizzazione degli agoni pitici (da Pythò, l’antico nome di Delfi) nel 582 a.C. La prima guerra sacra costituisce un momento significativo per la storia di tutto il versante orientale della Grecia: è un segnale della crescita di Atene, come è un momento di ulteriore rafforzamento dei Tessali, che prelude però ad altri, ad essi meno favorevoli, sommovimenti nell’area.

6. Tirannidi arcaiche- Vi furono forme storiche ed esiti diversi di tirannidi, a seconda delle diverse situazioni e dei

diversi contesti storici. La diversità dei casi, delle forme, degli sviluppi nulla toglie comunque alla legittimità di una considerazione sotto un profilo unitario delle tirannidi arcaiche, cioè di VII-VI secolo. Si potrà certamente distinguere tra le cosiddette tirannidi ‘istmiche’, di città più o meno gravitanti intorno all’istmo di Corinto (Corinto stessa, Sicione, Megara), altre, sempre nella madrepatria greca, come quella di Atene o quella, diversa, di Argo; e tirannidi di città ioniche o egee, per noi un po’ più evanescenti, come quelle di Mitilene a Lesbo o di Mileto ed Efeso in Asia Minore.

- La parola: tiranno e tirannide sono parole presenti nel vocabolario greco già dal VII secolo: Archiloco, nel VII, Alceo, tra VII e VI, Solone nel VI ne fanno già uso. Il significato di týrannos è ‘signore’: questa parola indica un potere personale assoluto, superiore a quello tradizionale dei basileîs, soprattutto perché non definito in prerogative (géra) concordate dalla comunità e perciò non basato sul consenso. La parola týrannos non è di origine greca - gli antichi parlano di un’origine lida; si deve pensare comunque a un’origine microasiatica.

- Se per crisi si intende la trasformazione accelerata in un determinato periodo, allora la tirannide è un momento di crisi dell’aristocrazia, che si determina nel seno stesso dell’aristocrazia: il tiranno è un aristocratico che viene in conflitto con i suoi compagni di gruppo sociale. Sul terreno dello sviluppo delle forme politiche, sembra difficile sottrarsi a una concezione dialettica della genesi della tirannide dall’oplitismo e dalla stessa aristocrazia. Aristotele nella Politica afferma che i tiranni di epoca arcaica erano generali passati alla politica o alla demagogia, nel senso lato di politica in favore del dêmos. Aristotele considera anche il caso di una degenerazione verso la tirannide di una regolare magistratura o carica, come la pritania a Mileto: anche questo un esempio di evoluzione interna dei vecchi regimi che è all’origine della tirannide. Aristotele, finalmente, afferma anche che “per il fatto che allora non erano grandi le città, ma il popolo abitava nei campi, intento ai lavori, i campioni del mondo, quando fossero bravi soldati, aspiravano alla tirannide” – confermando, dunque, la base socioeconomica della tirannide come quella di una popolazione contadina che si lascia rappresentare da un capo.

- Si può affermare inoltre che esiste una stretta connessione della tirannide con lo sviluppo demografico ed economico della Grecia tra VIII e VII secolo: esso ha come conseguenza un ampliarsi del campo dei bisogni e dei conflitti sociali, a cui le vecchie strutture aristocratiche non rispondo più. La tirannide è dunque espressione di movimenti significativi nell’economia e nella società antica e, in quanto tende a interpretarli e guidarli nelle forme del potere personale (cioè familiare), li sollecita e promuove a sua volta. Sul piano socio-economico il tiranno tende ad esercitare una funzione propulsiva, diffusa su tutte le attività, nella prospettiva di un equilibrio nuovo, che consenta di dare qualche risposta ai bisogni elementari degli strati più poveri, senza però farli entrare ancora nella sfera del potere, che resta personale e, nonostante tutto, fortemente condizionato da una concezione aristocratica

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del potere. Come sul terreno sociopolitico il tiranno occupa progressivamente il campo mediano dello spazio sociale, così sul terreno economico egli si pone come fattore propulsivo delle più diverse attività produttive, con incremento anche di quelle meno tradizionali, che possono rispondere all’accresciuto e aggravato bisogno economico complessivo, già per il fatto che costituiscono ulteriori fonti di sostentamento.

- Gli sbocchi e gli esiti delle tirannidi: in molti casi si è operato un indebito trasferimento, verso la fase iniziale di una tirannide, di quelle caratteristiche che essa assume invece solo in una fase avanzata, o addirittura finale, della sua storia, comunque ad opera di un tiranno diverso dal fondatore del regime. I principali dati nuovi che la tirannide comporta, e che trovano un compiuto sviluppo nella democrazia (anche se la tirannide non è sempre l’anticamera della democrazia), sono: la formazione di un potere al di fuori e al di sopra della semplice somma dei cittadini; lo sviluppo della fiscalità; l’elaborazione e articolazione della stessa forma e idea di città; e comunque, come risultato minimo, la produzione di una aristocrazia moderata, cioè più temperata rispetto a quella precedente la tirannide.

- Il rapporto della tirannide con la società: più volte si legge che la tirannide risulta dall’alleanza tra la classe oplitico-contadina (intesa come totalmente estranea e contrapposta all’aristocrazia) e il proletariato urbano, nei termini schematici di un’alleanza tra ceto medio e popolo. Ma, a guardar bene, questa è proprio la formula sociopolitica della democrazia classica, la quale nella sua forma storicamente più avanzata è l’esito di un’alleanza tra ceti medi (quelli che proprio la democrazia ha sviluppato e potenziato come tali, cioè quantitativamente e politicamente) e proletariato dei teti, quindi tra medi e piccoli proprietari terrieri ed eventuali imprenditori, da un lato, e braccianti salariati dall’altro. Ora, la diversità della tirannide rispetto alla democrazia è proprio nel suo conservare gli originari legami con l’aristocrazia oplitica, nonostante tutte le frizioni, gli attriti, i contrasti, i conflitti. Come quel nesso originario è, nonostante tutto, presente, la tirannide, nel suo esito complessivo, viene a realizzare una posizione di equilibrio fra i diversi ambienti sociali; e, pur nascendo dalla classe oplitica e dall’aristocrazia, il tiranno viene ad occupare la posizione mediana del campo sociale complessivo, sì che riflette nel contempo le sue origini dalla società oplitica e la sua attenzione alle esigenze del popolo minuto. La funzione di equilibrio però viene meno via via che si va avanti nel tempo e si passa ad un’ulteriore generazione, via via quindi che si accentuano gli aspetti personalistici o le forme di violenza del potere tirannico, caratteristiche che finiscono con l’isolarlo dalla società che esso ha contribuito a creare. Non è dunque un caso che le tirannidi arcaiche non riescano a completare facilmente più di due generazioni di permanenza al potere: già Aristotele sottolineava la durata eccezionale di 100 anni per gli Ortagoridi di Sicione.

- Corinto: Corinto era retta dalla dinastia dei Bacchiadi, un’oligarchia con caratteristiche abitudini endogamiche, discendente da re avevano regnato a Corinto dal 1074 fino all’891 a.C., per poi prendere con Bacchiade la basileía e detenerla fino al 747 a.C. Successivamente il clan aveva dato vita a una forma ‘repubblicana’, in cui al vertice della comunità non era più un re, ma un principe, cioè un magistrato annuale, scelto però sempre all’interno di quella ristretta oligarchia. A instaurare la tirannide a Corinto, privando del potere politico quest’aristocrazia assai esclusiva dei Bacchiadi, è Cipselo, figlio di Labda, una donna zoppa dello stesso clan dei Bacchiadi, e di un uomo di nome Eezione, del dêmos di Petra. Il conflitto con questa oligarchia non fa di Cipselo un nemico dell’aristocrazia in generale, tanto meno della classe oplitica: è infatti in virtù della sua funzione di polemarco,

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cioè di capo degli opliti, che egli si mette in luce e può aspirare a rovesciare il precedente regime. Il peggioramento è evidente con Periandro, che si circonda di 300 guardie del corpo, impedisce ai cittadini di acquistare schiavi (li impedisce perciò nella loro libertà economica), spoglia dei loro gioielli le donne di Corinto, compie nefandezze di ogni genere, anche verso i suoi famigliari (uccide la moglie e commette necrofilia col suo cadavere; perseguita un figlio), insomma, tutte cose che ovviamente il suo padre non faceva e che realizzano quella solitudine totale che diventerà uno dei topoi del destino umano del tiranno. Il governo di Cipselo appare dunque, nella tradizione erodotea e ancor di più nella tradizione storiografica successiva, come un governo mite, o comunque meno immite di quello del successore, Periandro: è solo nel corso della seconda generazione che si accentua la lacerazione tra il tiranno e l’ambiente aristocratico da cui egli proviene. - Economia: A Corinto l’artigianato è fiorente e il commercio marittimo importante, ma la tirannide nasce invece dall’interno contadino, e di questo è geneticamente il frutto. È innegabile però l’interesse dei Cipselidi, e in particolare di Periandro, all’espansione commerciale, sia in Occidente sia in Oriente, confermata dalla fondazione di nuove colonie, come Potidea nella penisola Calcidica. – Esiti: Socle, alla fine del VI secolo, è in definitiva il portavoce proprio di quella forma politica che a Corinto era risultata dalla tirannide e poi dal suo abbattimento: non una democrazia (che è in quegli anni l’innovazione politica di Atene), ma un’aristocrazia, certamente però più moderata di quella dei Bacchiadi; un regime per il quale Erodoto suggerisce un neologismo quale isocrazia, una parola che opponendosi a tirannide, sembra unificare in un più vasto concetto politico sia la forma democratica (che gli Spartani paiono voler abbattere ad Atene, per favorire il rientro di Ippia) sia la forma non democratica, ma certamente anche non tirannica, che ormai nel VI secolo avanzato Corinto conosce (un’aristocrazia allargata e temperata, come abbiamo detto).

- Sicione: Anche nella storia della tirannide degli Ortagoridi a Sicione c’è un peggioramento del regime politico e dei comportamenti del tiranno, via via che si procede nel tempo. Secondo una tradizione, Ortagora sarebbe figlio di un cuoco, di nome Andrea – Ortagora, arruolatosi nel servizio militare prima come guardia territoriale e poi via via fino alla carica suprema di polemarco (ancora dunque in virtù di una carriera oplitica), conquistò il potere. Il più illustre degli Ortagoridi è Clistene (la sua figlia Agariste sposò l’ateniese Megacle degli Alcmeonidi, dei quali uno dei figli fu il famoso riformatore Clistene di Atene, che ha dunque il nome del nonno): Clistene aveva sentimenti anti-dorici e per questo organizzò una guerra contro Argo; ha abolito tutti i rapsodi di Omero, perché si celebravano i cittadini di Argo; ha riformato il sistema tribale tipicamente dorico (a tre tribù), aggiungendone una nuova, e cambiando il nome di quelle doriche in nome di animali; per gli sposalizi di sua figlia, Agariste, si dice che abbia organizzato una competizione, dalla quale appunto uscì vittorioso Megacle. Per il Musti questa caratterizzazione razziale della politica dei tiranni di Sicione è da prendere in considerazione, però si deve intenderla essenzialmente come una contrapposizione politico-sociale contro l’aristocrazia dorica, e sola a livello ideologico e simbolico come una contrapposizione razziale.

7. Colonizzazione greca di età arcaica- Nella madrepatria sono principalmente interessate al moto coloniale dei secoli VIII e VII le

città dell’Istmo, Corinto e Megara, quelle euboiche tra Eubea e Attica, cioè Calcide ed Eretria, e anche alcune città dell’Acaia; in Asia Minore, Rodi, Lesbo e Mileto. Un ruolo

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particolare esercitano in Occidente Corinzi e Calcidesi: la loro espansione coloniale non dà luogo a competizione, ma piuttosto a una sorta di distribuzione di aree e a reciproca integrazione. Va notato che i Greci che vanno a fondare colonie lontane dalla madrepatria tendono a ‘riprodurre’ il paesaggio, la cornice ambientale e le opportunità strategiche della città di partenza: i Corinzi, che risiedono su un istmo, e che perciò godono almeno di due porti, dispongono nella loro più famosa colonia d’Occidente, Siracusa, di due porti, e fondano un’altra colonia, Potidea, sull’istmo della Pallene nella Calcidica.

- Alcune date di fondazione: Siracusa 733 a.C. (Corinto) ; Nasso 734 a.C. , Lentini e Catania 728/727 a.C. (Calcide) ; Crotone ~733 a.C. (Achea).

- Da Crotone a Sibari a Metaponto si crea un’area achea, che ovviamente non sbocca nella creazione di un’unità territoriale e politica, ma in cui le póleis, seppur autonome, costituiscono nel corso del tempo forme di solidarietà che sono di natura culturale, cultuale, economica e politica. Il concetto stesso di Megále Hellás, nelle sue diverse accezioni, ricopre comunque e sempre lo spazio occupato dalle colonie achee – benché certamente non limitata a queste, in queste la nozione ebbe la sua humus fecondatrice.

- Al loro arrivo in Sicilia i Greci trovavano già stanziate varie genti non greche – davano il nome all’isola e l’aspetto culturale preminente i Siculi e i Sicani. Per quanto riguarda l’ellenizzazione di questi popoli, se per essa si intende la permeazione di elementi di cultura greca, cioè la presenza di oggetti archeologici ed espressioni culturali greche, sembra potersi affermare che qualcosa del genere ci fosse per i Siculi, ma forse anche per i Sicani; se però per ellenizzazione si intende controllo del territorio, è facile affermare il contrario. Ancora per larga parte del VI secolo i nativi potettero esercitare una resistenza contro alcune città greche, che però venne meno nei secoli successivi. Il rapporto di Siracusa con la popolazione del territorio appare caratteristico – questa viene asservita, e costituisce uno strato di particolare rilievo, riproponendo nei confronti della popolazione indigena quel tipo di rapporto socioeconomico che le città doriche in Grecia realizzavano verso le popolazioni del contado (la metropoli di Siracusa era Corinto, città dorica).

- Gli sviluppi politici interni alle colonie, tra la fondazione e il VI secolo, costituiscono uno dei capitoli più difficili della storia della grecità coloniale. Le stesse origini sociali sono spesso avvolte nel buio: in particolare quelle di Taranto e di Locri, per le quali parte della tradizione parla della partecipazione, diretta o indiretta, di elementi servili: figli di iloti e di donne spartiate a Taranto, chiamati Partenii, cioè figli di parthénoi, di donne legalmente vergini; servi unitisi con le loro padrone a Locri. Anche se bisogna distinguere tra la forma leggendaria e la sostanza storico-sociale del racconto, sta di fatto che nelle tradizioni più antiche è presente il dato scabroso della commistione di servi, anche se la tradizione prova a espungere dalla storia delle origini delle città questa imbarazzante presenza (Antioco per esempio attesta la nascita di Partenii a Taranto da iloti, presentati tuttavia come Spartiati declassati per inadempienze di obblighi militari). Dai primi due secoli di vita delle colonie trapela qualcosa dell’attività di legislatori, come Zaleuco di Locri o Caronda di Catania; ma del contenuto reale della loro opera ci impediscono di farci un’idea precisa le molte interferenze e sovrapposizioni e soprattutto la manipolazione pitagorica, che di essi ha fatto altrettanti discepoli del maestro venuto in Italia solo intorno al 530 a.C.

- La tradizione greca insiste sugli aspetti territoriali e perciò agrari del fenomeno coloniale; ma per il rapporto tra madrepatria e colonia va tenuto conto anche della creazione di un’area di tensione commerciale, cioè di una direttrice preferenziale di scambi (così è per esempio

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tra Corinto e Siracusa). I primi due secoli di vita delle colonie occidentali sono anche quelli in cui da un regime sociale tendenzialmente ugualitario, quale si postula per le prime due o tre generazioni di coloni, succede una sempre maggiore stratificazione sociale, e quindi si determina la possibilità di conflitti (stáseis), con conseguenti espulsioni o secessioni di una parte del corpo civico. In taluni casi il conflitto non sboccava nella sola espulsione di una parte e affermazione di quella rimasta in patria, ma addirittura cambiavano anche le forme del regime. Le prime tirannidi a noi note in Sicilia sono quelle di Panezio a Leontini e di Falaride ad Agrigento.

- La colonizzazione greca in Italia e Sicilia è solo quella di maggiore addensamento della presenza greca fuori della madrepatria. Ce ne sono però altre regioni che furono raggiunte dai greci: intorno al 600 a.C. Coleo di Samo giungeva in Iberia a Tartesso, vicino alle colonne d’Ercole, richiamato dalla disponibilità d’argento della regione; verso la stessa data i Focei d’Asia Minore fondavano Massalia (attuale Marsiglia in Francia); nell’Egeo i Calcidesi d’Eubea colonizzano diverse isole, e la penisola Calcidica, che da loro prese il nome, nella quale i Corinzi fondano Potidea; ad Abdera impianta una colonia Clazomene, distrutta dai Traci, ma successivamente ricolonizzata da Teo; i Lesbi colonizzarono gran parte della Troade; i Milesi diverse città nella regione degli Stretti, ma anche regioni nell’attuale Crimea e Russia; Megara fonda Bisanzio – l’ellenizzazione dell’area del Ponto non è comunque, sul piano culturale e politico, paragonabile a quella d’Italia o Sicilia. In Egitto non si ha una vera colonizzazione, ma degli stanziamenti estremamente dipendenti dal potere locale; più ad occidente si trova una fondazione coloniale a pieno titolo – la colonia di Cirene, dovuta a gente di Tera (a sua volta fondazione spartana): è infatti una colonia che controlla un vasto territorio, di suolo fertile e perciò fiorente coltura del grano.

Note integrativea) Aspetti della società e della cultura di Esiodo- La Teogonia è documento fondamentale dei vari strati di cui si compone l’esperienza

religiosa greca: da un mondo di divinità primordiali, viste e colte in un processo di generazione e trasformazione di entità inquietanti e immani, alla stabilità del regno di Zeus, del nuovo pántheon. Il divenire di questo mondo divino, la sua storia, risente dell’apporto orientale: è ormai dato acquisito che le genealogie e i miti di successione delle diverse generazioni divine esiodee – da Urano a Crono al dio del cielo Zeus – corrispondono alla perfezione a miti di successione divina (in particolare, mito di Kumarbi) di ambiente hurrico (perciò mesopotamico), come rifluito in testi ittiti e fenici, ed entrati nella cultura dei Greci per mediazione della cultura cretese o, più tardi, attraverso quella micrasiatica e ionica. Del resto, tradizione orientale e patrimonio culturale greco si fondono anche nella rappresentazione della storia genealogica dell’umanità, nel mito delle cinque età, narrato da Esiodo negli Érga. Di queste età la prima, seconda, terza e quinta sono metalliche (oro, argento, bronzo e, al quinto posto, ferro); la quarta è etichettata come età degli eroi: nella successione dei metalli è l’apporto orientale; nell’inserimento tra l’età del bronzo e quella del ferro dell’età degli eroi (del ciclo argivo-beotico e del ciclo troiano, cioè della memoria mitica relativa al mondo miceneo), è un peculiare e inconfondibile correttivo greco.

b) Le feste panelleniche

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- Con il ruolo della Grecia peloponnesiaca e centrale, quale risulta dagli sviluppi dell’architettura templare nel VII secolo, concorda l’ubicazione delle quattro grandi feste e gare panelleniche, di periodicità più che annuale.

- Le Olimpie, che si celebravano ogni quattro anni nel santuario di Zeus ad Olimpia, definendo così dal 776 a.C., secondo la tradizione, l’olimpiade, il quadriennio-base della religiosità panellenica. Le Olimpie si svolgevano in tempo di luna piena, tra agosto e settembre: corse ed esercizi ginnici costituivano l’essenziale delle gare. Durante le gare vigeva, fra i Greci in conflitto, l’ekecheiría (astensione dall’uso delle mani), cioè una ‘tregua sacra’.

- Le Pitiche si celebravano a Delfi nel 3° anno di ogni olimpiade, in origine forse ad intervalli di 8 anni, prima che avesse inizio l’era pitica, ed erano incentrate su gare musicali. Dopo la I Guerra Sacra, le Pitiche si sono arricchite di corse di cavalli e gare ginniche, e avevano luogo ogni 4 anni.

- Le Istmie avevano luogo nel 2° e nel 4° anno del quadriennio olimpico, in onore di Posidone, ad Istmia presso Corinto, tra maggio e giugno.

- Le Nemee, in onore di Zeus, avevano luogo nella valle di Nemea presso Cleone, nell’Argolide, in estate, forse tra luglio e agosto, e si svolgeva pure in anni alterni, nell’inizio (estate) del 2° e 4° anno del quadriennio olimpico.

- Nell’arco dunque di quattro anni si svolgevano dunque 6 celebrazioni di feste panelleniche, e di queste ben 5 nel Peloponneso settentrionale. Il periodo in cui si andò definendo questa koiné cultuale e agonistica in cui si esprimeva la cultura delle póleis nella fase aristocratico-oplitica e delle prime tirannidi va dalla prima metà dell’VIII secolo agli inizi del VI, rivelando ancora una volta l’importanza decisiva del secoli VIII e VII nella formazione di un modello comune e di una cultura comune della pólis.

3. Sviluppi politici del VI secolo

1. Solone- L’opera di Solone, arconte nel 594/593 (secondo Diogene Laerzio) oppure 592/591

(secondo la Costituzione degli Ateniesi di Aristotele), porta a piena maturazione quelle premesse politiche e sociali che si intravedevano nella comunità attica del medio arcaismo. Solone operò sia sul terreno sociale, sia su quello politico-costituzionale; fu riformatore sociale e nomoteta, autore di leggi costituzionali. Complessivamente, egli non appare autore di riforme in grado di stravolgere il vecchio profilo politico ateniese o la realtà socio-economica, cioè l’assetto proprietario, dell’Attica. E tuttavia è chiaro che sul terreno sociale egli incise con azioni innovative, volte quanto meno a sanare i guasti che nel corso del tempo si erano determinati nel corpo sociale e nell’economia dell’Attica; sul terreno politico-costituzionale l’opera di Solone fu quella di un codificatore, capace di portare ordine nelle vecchie e conservate strutture, e di ammodernare qua e là. Non fu il creatore della democrazia, anche se la tradizione antica avverte un filo di sviluppo, tormentato ma continuo, tra l’azione di Solone e il formarsi di gruppi e programmi politici differenziati, con i relativi conflitti, nei decenni successivi, e quindi la tirannide di Pisistrato e dei figli e la democrazia creata dall’alcmeonide Clistene nel 508/507.

- Solone avverte acutamente il divario tra la struttura politica, che va conservata anche se perfezionata e resa stabile, e il rapporto sociale, che è diventato conflittuale e drammatico,

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tra ricchi e poveri, cioè tra i proprietari della terra e i suoi coltivatori. Nell’assetto proprietario dell’Attica è soprattutto in gioco la condizione degli hektémoroi, coloro che lavorano la terra per conto dei ricchi, versando forse come canone 1/6 del prodotto: poiché anche rispetto all’assolvimento di questo obbligo essi risultano spesso in debito, rischiano d’essere venduti schiavi e come tali trasportati fuori dell’Attica.

- La proprietà terriera in Attica: dopo la crisi del potere miceneo, in Attica si accentua la frantumazione della proprietà, che, nelle forme socialmente riconosciute e garantite, non poteva essere altro che proprietà di relativamente grandi dimensioni. Si viene però a creare una tensione tra i diretti coltivatori della terra, che ne sono i possessori di fatto, e i grandi proprietari, che ne sono i possessori di diritto, avendone il titolo legale di proprietà e verso i quali i coltivatori avevano obblighi di tipo tributario, nel VII e VI secolo riscossi prevalentemente in natura.

- Le riforme economiche: Solone proibisce la schiavitù per debiti, cioè la sua premessa, che è la possibilità di contrarre debiti e assumere ipoteche sui propri corpi (epì toîs sómasin). Inoltre attua un’abolizione (o forte riduzione) dei debiti nel pagamento del canone in natura e cambia il sistema monetario, sostituendo alla dracma pesante di Egina la dracma leggera dell’Eubea, il che equivaleva di fatto a una svalutazione di circa il 30%, la quale riduceva i debiti di altrettanto. La moneta, il nuovo strumento economico non era ancora dominante all’epoca di Solone, ma certo affiorante: la riforma monetaria avrà quindi operato in questo settore come strumento significativo di alleviamento, insieme all’abolizione/riduzione dei debiti in natura. La condizione della terra, dunque, dopo questa riforma di Solone, non era profondamente trasformata rispetto al passato, ma si erano parzialmente create le condizioni per un futuro consolidamento del rapporto di possesso stabile della terra.

- Le riforme politiche: sul piano politico-costituzionale Solone conferma le vecchie articolazioni censitarie, le vecchie ‘classi’, definendole però in termini quantitativi: 1) i pentacosiomedimni, coloro che avevano una rendita annua di 500 medimni di frummento (o 500 metreti di vino o d’olio); 2) i cavalieri, a quota 300; 3) gli zeugiti, a quota 200 (forse da identificare con gli ‘opliti’); 4) i teti, o salariati, sotto quota 200. Le cariche degli arconti erano riservate ai pentacosiomedimni (forse estese anche ai cavalieri). Ai teti però la costituzione di Solone garantiva non soltanto la partecipazione all’assemblea (ekklesía), ma anche al tribunale del popolo (heliaía), creato da Solone, una vera e propria corte d’appello, aperta alle richieste di qualunque cittadino ateniese. Forse Solone ha anche istituito un nuovo consiglio, quello dei 400, cento membri per ciascuna delle quattro tribù ioniche.

- Solone aveva rifiutato le sollecitazioni di alcuni e la tentazione, offerta dalla situazione oggettiva, di farsi tiranno. L’opera di Solone, anche se innovatrice, si limita ad articolazioni ulteriori di quello che era l’assetto tradizionale dell’Attica: l’atteggiamento di Solone è fermo, per esempio, nel rifiutare una redistribuzione della terra, che avrebbe significato il rovesciamento dei diritti formali di proprietà, quelli cioè dei grandi proprietari (verosimilmente gli unici a possedere titoli di proprietà legalmente definiti in quelle condizioni storiche). L’agricoltura non riceveva dunque impulsi particolari dalla riforma introdotta da Solone; per quanto riguarda lo sviluppo mercantile, sembra plausibile che Solone abbia favorito alcune sue forme, permettendo l’esportazione d’olio per esempio, anche se vietava altre forme di esportazione; è plausibile che lui abbia favorito pure l’artigianato.

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- Dopo Solone: Finita la sua opera, Solone si trasferisce in Egitto. Ad Atene riprendono le stáseis, i conflitti politici. Dopo cinque anni della riforma un’anarchia (assenza di arconte); dopo altri cinque una nuova anarchia, quindi, per un paio d’anni un arcontato di durata eccezionale di un Damasia. Abbattuto Damasia, si sperimenta un arcontato decemvirale, composto da 5 eupatrídai (nobili), 3 ágroikoi (contadini), 2 demiourgoí (artigiani) – dimostrando che ad Atene si hanno già formazioni politiche di tipo corporativo. Poco dopo però si troverà una diversa articolazione, ancora in tre gruppi politici, formatisi però su base territoriale: 1) i pedieîs, proprietari terrieri del pedíon, cioè le pianure centrali dell’Attica (capeggiati da Licurgo); 2) i parálioi, proprietari delle regioni più costiere e a sud dell’Attica (capeggiati da Megacle degli alcmeonidi); 3) i diákrioi, proprietari delle regioni montuose a nordest dell’Attica (capeggiati da Pisistrato). In questo quadro si collocherà la tirannide di Pisistrato, le cui caratteristiche e vicende possono spiegarsi solo alla luce della particolare temperie politica di Atene e di quel mondo di valori comunitari che l’opera di Solone aveva rafforzato, anche se non messo al riparo dai fermenti dell’epoca e dai gravi elementi di crisi che la società attica aveva accumulato al suo interno.

2. La tirannide di Pisistrato- La carriera di Pisistrato rappresenta un’ampia conferma dello stretto rapporto che sussiste tra

oplitismo e tirannide: Pisistrato crebbe infatti in prestigio e potere dopo aver esercitato la carica di polemarco, ed avere, in quella funzione, conseguito importanti successi contro Megara, a cui furono sottratti l’isola di Salamina e il porto di Nisea.

- Tuttavia vanno aggiunti, a completare il quadro, alcune caratteristiche che riportano l’uomo e la sua vicenda alle peculiari condizioni di Atene. Ad Atene si conosce già un’embrionale forma di organizzazione in partiti politici, che non è elementare e occasionale contrapposizione tra ricchi e poveri, ma già configurazione di interessi, programmi, alleanze, secondo un più complesso schema di ripartizione in tre distinti ‘gruppi’ politici: Pisistrato proviene dalla costa orientale dell’Attica, forse il centro più importante della penisola dopo Atene, ed è connesso col demo dei Filaidi; i successi militari aprono la strada al successo politico di Pisistrato, che diventa il capo dei diacrii – a capo dei pediaci invece era Licurgo dei Butadi, e a capo dei paralii l’alcmeonide Megacle.

- L’ascesa al potere: Non era facile instaurare una tirannide, col grado di coscienza politica e comunitaria maturata ad Atene; le resistenze erano molteplici e provenivano da radicate tradizioni di bilanciata gestione del potere, ulteriormente rafforzate dall’opera politica di Solone, e dall’esistenza ormai di più partiti all’interno della città: diventare tiranno ad Atene significava, come minimo, sconfiggere gli altri partiti. Se da un lato si riscontra nell’Attica un acuto scontro sociale, da un lato è innegabile la riluttanza di una società politica evoluta come quella attica ad imboccare la strada della tirannide: non stupisce dunque che Pisistrato abbia tentato per ben tre volte l’ascesa al potere (nel 561/560; circa il 549; e circa il 534/533) e per ben due volte sia stato sbalzato e mandato all’esilio, per potersi impadronire poi stabilmente del potere solo al terzo tentativo. 1) Ormai conosciuto come generale illustre per le sue imprese contro Megara, Pisistrato ha forza politica sufficiente per suscitare un terzo partito, quello dei diacrii. Nel 561/560 simula un ferimento da parte degli avversari politici e ottiene, dopo aver chiesto al popolo, la prerogativa di una guardia del corpo; dopodiché occupa l’acropoli, però non cambia né magistrature né leggi, ma amministra bene e ordinatamente la città in base alle regole tradizionali: il suo avvento al potere si realizza

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sull’onda dell’emozione suscitata dalle violente contese fra partiti, nel quale contesto Pisistrato sembrava più che altro un arbitro e pacificatore fra i gruppi in lotta. Nel 556/555 però, una spregiudicata alleanza tra Licurgo e Megacle sbalza Pisistrato di sella, imponendogli il primo esilio. 2) Nel 549, dopo sei anni in esilio, Pisistrato stringe alleanza con il gruppo politico dei paralii di Megacle (nel frattempo staccatisi dall’alleanza con i grandi proprietari pediaci), suggellata dal matrimonio di Pisistrato con la figlia di Megacle stesso. A spianare la strada di Pisistrato al potere è un nuovo stratagemma: una donna di altissima statura, vestita come la dea Atena, è fatta montare su un carro, che va in città preceduto da araldi, che annunciano che la dea in persona riconduce Pisistrato al potere. Tuttavia l’alleanza politica con gli alcmeonidi non era destinata a reggere: Pisistrato non adempie ai doveri matrimoniali nei confronti della figlia di Megacle, non volendo, secondo Erodoto, avere figli dalla stirpe sacrilega e maledetta degli Alcmeonidi: certo Pisistrato ragionava ormai in termini di continuità dinastica, pensando anche agli interessi dei figli del precedente matrimonio (Ippia, Ipparco). Dopo sette anni la crisi tra suocero e genero scoppia, e nel 543/542 Pisistrato deve lasciare il potere sotto la pressione dei due gruppi opposti, di nuovo collegati fra loro. 3) Infine, dopo dieci anni, nel 533/532 Pisistrato torna al potere per rimanervi fino alla morte (528/527, dunque per una durata di 5 anni; gli succederà il figlio Ippia, al potere fino al 511/510, anno della sua espulsione). Solo il terzo e definitivo insediamento ha luogo con quei mezzi straordinari e illegali che fanno la sostanza di ogni tiranno: con due quartieri generali fuori della stessa Attica, Pisistrato ottiene aiuti da Tebe ed Eretria, nonché mercenari da Argo, prima di sbarcare nell’Attica, dove sconfiggerà l’esercito regolare ateniese. Il potere è preso e subito rafforzato, sia attraverso reclutando ulteriori mercenari, sia mandando in ostaggio a Nasso i figli degli Ateniesi irriducibili – forse allora gli Alcmeonidi lasciano la città. Solo in questa fase la tirannide è una realtà piena, e solo in questa fase Pisistrato, che come la maggior parte dei tiranni proviene dai ranghi oplitici, si pone in contrasto con gli opliti, disarmando con uno stratagemma gli Ateniesi, cioè ‘disoplitizzandoli’, rinviandoli alla cura delle faccende private. La carriera di Pisistrato rappresenta il distacco della tirannide dalla matrice aristocratico-oplitica che la genera: si pensi all’affermazione di Aristotele, secondo la quale Pisistrato voleva gestire il potere katà toùs nómous (secondo le leggi), e perciò con facilità riconquistava il potere ogni volta che lo perdeva, perché lo volevano al potere al tempo stesso “il più dei notabili e del popolo”. Sulla sua tirannide in generale le valutazioni della tradizione sono positive: non cambiò le leggi esistenti né le magistrature, ma si limitò ad assegnarle ai parenti ed amici; governò la città con moderazione, e più da cittadino che da tiranno secondo Aristotele: questa moderazione è in parte della personalità di Pisistrato, descritto come gioviale e capace di tolleranza e di humour, ma in parte era condizione obbligatoria in una società politicamente evoluta e cosciente, una società difficile dunque, come quella ateniese.

- Il programma politico: Pisistrato ha un programma politico e sociale molto più marcato di quello soloniano, anzi il suo programma è volto, in effetti, a dare soluzione a quei problemi che l’opera soloniana aveva lasciato senza risposta: un autentico sviluppo della piccola proprietà e una politica estera di espansione, cioè di ricerca di punti di appoggio per quelle attività commerciali a cui Solone aveva fornito più stimoli che non occasioni d’esplicarsi in concreto. Pisistrato istituì infatti una forma di credito fondiario per favorire lo sviluppo dell’agricoltura, e probabilmente anche della piccola proprietà terriera, utilizzando le risorse da lui riscosse attraverso l’introduzione di un’imposta diretta sui prodotti (prima estranea

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all’Attica, e al mondo greco in generale) pari al 5% o forse 10%. Queste innovazioni fiscali di Pisistrato serviranno non soltanto alle finalità latamente assistenziali, come il credito fondiario, ma anche a finanziare l’allestimento di una flotta, che in questo periodo consta ancora forse di solo cinquanta navi. A confermare ulteriormente la politica di sviluppo di Pisistrato nei confronti della popolazione di campagna è la creazione dei ‘giudici itineranti’, che percorrevano i dêmoi dell’Attica, offrendo la possibilità ai cittadini della campagna di fare le loro richieste giuridiche a un’istituzione apposta, senza dover andare ad Atene, viaggio piuttosto impegnativo per gli abitanti di località distanti.

- Esiti della tirannide di Pisistrato: Paradossalmente la tirannide, un potere personale, favorisce, anche contro le intenzioni, un processo di formazione di valori statali, persino attraverso vie anomale, che rafforzano però l’idea della comunità come sede di un potere distinto da quello dei suoi singoli membri e ad esso superiore: matura insomma, come in un doloroso travaglio, il processo di separazione e distinzione tra società e Stato. Ciò si può osservare innanzitutto nella nuova nozione della fiscalità (si pensi all’introduzione delle imposte), ma anche nell’idea di un potere armato supremo, distinto e incombente sui singoli cittadini (si pensi alla guardia del corpo, ma anche agli eserciti mercenari con funzione di vera e propria polizia, oppure la creazione di un numero di ufficiali superiori, gli strateghi, destinati a svolgere un ruolo fondamentale nelle guerre).

- Il Peloponneso nel VI secolo: Nel VI secolo assistiamo al definirsi di un ruolo egemonico di Sparta nel Peloponneso. Il confronto di Sparta con gli altri popoli del Peloponneso può essere scandito in due fasi, la prima delle quali consiste nel conflitto con i Messenii, dopo che Sparta aveva già assestato il proprio dominio nella Laconia; dopo la guerra contro i Messenii, i conflitti successivi mettono Sparta a confronto con la composita realtà della montuosa regione dell’Arcadia, oltre che con il dominio di Argo, che verosimilmente aveva già raggiunto dimensioni ragguardevoli lungo tutto il fianco orientale del Peloponneso. Il conflitto di Sparta con Argo sembra essere stato di lunga durata, se si pensa a due termini alquanto evidenti che ne delimitano lo svolgimento tra il periodo delle guerre messeniche e l’età delle guerre persiane: la battaglia di Isie nel 669/668, dove gli Spartani subivano una dura sconfitta da parte degli Argivi giusto alla fine della II Guerra Messenica; e invece la vittoria di Sparta, sotto Cleomene I, nel 494 a Sepeia, non priva di ferocia da parte spartana (Argivi bruciati in un bosco sacro) ed eroici da parte argiva (difesa della città, sguarnita di uomini, ad opera di donne e servi). Fra queste due date, uno scontro tra corpi scelti (di 300 uomini) spartani e argivi, risoltosi poi, secondo la leggenda, in un eroico duello, in cui emergerebbe la figura dello spartano Otriade, unico spartano rimasto in campo, ignorato però dai due argivi sopravvissuti, che vanno ad Argo annunciare la vittoria; dalla disputa sulla pertinenza della vittoria seguirebbe un’altra battaglia e la sconfitta, presso Parparo, degli Argivi. La data di questa guerra spartano-argiva del VI secolo non è facile da determinare. Certo è che tra VII e VI secolo, cioè tra Isie e Parparo, la pressione di Sparta su Argo si fa sentire sempre più forte e da vicino. Il contrasto con gli Arcadi invece aveva già avuto una manifestazione nella II Guerra Messenica, quando i Messenii avevano avuto l’aiuto (poi dimostratosi infido) del re arcadico di Orcomeno, Aristocrate. La crisi della regalità arcadica di Orcomeno (forse prima metà del VI secolo), potrebbe aver avuto come conseguenza l’accordarsi di Orcomeno, Mantinea e della maggior parte delle città d’Arcadia a Sparta. Il resto però dell’Arcadia era una preda poco appetibile, o comunque difficile: più

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desiderabile per gli Spartani la piana di Tegea, la cui posizione (punto di passaggio obbligatorio per chi da Sparta dovesse andare in Messenia) era strategica per gli Sparta. La guerra di VI secolo contro Tegea passa per almeno due fasi, stando ad Erodoto: una al tempo del re spartano Leonte (ca. 560), l’altra al tempo del suo successore Anassandrida (ca. 520). Importante anche l’intervento di Sparta in favore degli Elei nella guerra contro i Pisati, per il controllo della Pisatide, e perciò del santuario di Olimpia, voltasi storicamente a vantaggio di Sparta, di cui gli Elei divennero i fidi alleati. Questo rapido profilo della storia spartana del VI secolo permette di delineare il contesto della formazione della Lega peloponnesiaca (“gli Spartani e i loro alleati [sýmmachoi]”). La Lega presenta un rapporto egemonico lasso – in essa vige il principio dell’autonomia: niente tributi, o tributi fissi, niente guarnigioni spartane nelle città alleate; rappresentanza dei membri nel sinedrio federale; decisioni a maggioranza. È un organismo che si pone come un coordinamento di fatto, in graduale sviluppo, tra città che conservano, pur intorno alla guida spartana, un ruolo notevole, in un contesto dunque in cui i rapporti non sono di puro dominio: insomma, la nascita della Lega corrisponde agli effettivi risultati, diretti e però anche indiretti, delle guerre spartane di VI secolo – in senso lato dunque, la metà del secolo è un contesto cronologico adeguato per situare la sua nascita. Si accosteranno a Sparta non solo le città dell’Arcadia o del Peloponneso, ma anche quelle dell’Akte argolica, come Ermione, e inoltre anche Egina, Corinto, ecc. Nella Lega Sparta sperimentava uno strumento di difesa, ben diverso dunque dal semplice dominio ferreo esercitato nei confronti dei Messenii.

3. La tirannide dei Pisistratidi. La politica estera di Sparta- Nel 528/527 a Pisistrato succedono i figli, che Aristotele conosce in numero di quattro: Ippia

e Ipparco, nati dalla moglie legittima; Iofonte e Egesistrato (Tessalo), nati dalla coniuge argiva (già moglie di un Cipselide): è da sottolineare lo stretto rapporto con Argo, che sarà non ultima fra le cause dell’ostilità di Sparta verso la discendenza di Pisistrato al potere ad Atene. Il potere formale è nelle mani del maggiore dei figli, Ippia, politico migliore degli altri. Ipparco è l’intellettuale della famiglia, che pratica un mecenatismo verso i poeti (Anacreonte, Simonide, ed altri), che dà luogo al fenomeno di una poesia di corte.

- L’accentuarsi di una pratica personale del potere e dei connessi abusi determina la crisi della tirannide dei Pisistratidi, che, comunque, esplode solo quattordici anni dopo la morte di Pisistrato, cioè nel 514/513. A creare il caso è l’irregolare e violento della famiglia, Ipparco (secondo alcuni invece è Tessalo): invaghitosi del giovane Armodio, ma da lui respinto, egli passa a comportamenti persecutorii, infamandolo per i suoi costumi e negando alla sorella il diritto di fare da canèfora (‘portacanestre’) alle feste Panatenee, in quanto parente di un corrotto. Armodio era invero amico di Aristogitone: da un fatto personale nasce così la prima grave crisi della tirannide e una congiura che dovrebbe eliminare Ippia e Ipparco durante la processione delle Panatenee. L’impressione di essere stati scoperti sconsiglia però i congiurati dal dar seguito all’attentato contro Ippia, che accoglieva la processione sull’acropoli, e li induce però ad uccidere almeno Ipparco, che presiedeva alla partenza della processione medesima. Ipparco viene ucciso, i due congiurati catturati e trucidati: Armodio subito, e solo successivamente, nel corso di una tumultuosa inchiesta sull’accaduto, il più anziano Aristogitone. I due tirannicidi erano destinati a figurare nella convinzione corrente del popolo atenise come restauratori della libertà e fondatori della democrazia, occupando nell’affetto del popolo un posto che la propaganda degli Alcmeonidi ancora in età periclea

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cercherà di contestare, non senza buona parte di ragione, per dare spazio a meriti più squisitamente politico-militari guadagnati dal génos nell’instaurazione della democrazia.

- Che la famiglia degli Alcmeonidi e i paralii facessero opposizione e tentassero il rientro in Atene e l’abbattimento della tirannide è naturale che accadesse, ed accadde. Gli Alcmeonidi, esuli a seguito del terzo avvento di Pisistrato, si erano creati una base a Delfi, dove assunsero l’appalto della ricostruzione del santuario, devastato da un incendio nel 548 a.C. Tramite la Pizia e in forza dei radicati rapporti tra Sparta e Delfi, gli Alcmeonidi riuscirono ad avere l’aiuto degli Spartani, nel VI secolo i grandi nemici delle tirannidi. Prima di ciò però si ha un primo tentativo degli Alcmeonidi di abbattere la tirannide, da soli, circa il 513, ma essi subirono una dura sconfitta. Nel 511/510 invece intervengono gli Spartani: la prima volta si ha il fallimento del tentativo di una piccola schiera di opliti; la seconda invece interviene con un esercito il re, Cleomene I, che assedia Ippia arroccatosi sull’Acropoli e in pochi giorni ne ottiene la resa.

- Ma c’era anche un’opposizione interna: di questa, anche se motivata da fatti di natura personale, è espressione la congiura del 514/513 di Armodio ed Aristogitone; inoltre, la presenza di un’opposizione interna si dimostra anche dagli eventi che seguono la cacciata di Ippia nel 510, quando ad Atene si apre un aspro scontro politico tra l’alcmeonide Clistene, fautore di un profondo rinnovamento politico-costituzionale (che fu poi la democrazia), e Isagora, che voleva invece un’oligarchia, un esito gradito anche a Sparta.

- Poiché, come si è visto, l’abbattimento della tirannide dei Pisistratidi avvenne in due tempi (514/513 e 511/510), è del tutto comprensibile che, nell’opinione corrente degli Ateniesi, si esprimessero diverse valutazioni circa la maggiore importanza dell’uno o dell’altro dei due momenti: nel cuore della gente comune era fermo il sentimento di gratitudine e ammirazione per i due tirannicidi, Armodio e Aristogitone, a cui fu del resto presto dedicato un gruppo statuario, opera di Antenore, portato via da Serse nel 480 e appena qualche anno più tardi sostituito da quello di Crizio e Nisote. Non si può comunque negare che, dal punto di vista politico, infinitamente più creativa fu l’azione degli Alcmeonidi. Non c’è da sorprendersi che l’ambiente pericleo produca una propaganda e una letteratura volta a ridimensionare, se non anche in parte a denigrare, l’impresa dei due amici tirannicidi.

- Va sottolineato che, durante il primo intervento di Sparta, dalla parte di Ippia combatterono dei cavalieri tessali. Con le aristocrazie tessaliche i Pisistratidi avevano del resto tenuto costantemente buoni rapporti; e a Ippia, deluso, circa il 506, nell’attesa di veder restaurata la sua tirannide ad Atene ad opera di quegli stessi Spartani che l’avevano abbattuta, i Tessali provarono ad offrire, come dominio sostitutivo, Iolco. La linea protessalica dei Pisistratidi era naturalmente maturata in un atteggiamento antibeotico, o più specificamente antitebano; infatti da tempo i Beoti avevano contrastato vittoriosamente l’egomonia tessalica nella Grecia centrale. Quando Platea chiese ad Ippia sostegno e protezione contro Tebe, Ippia gliela concesse, marciando anche contro i Tebani, sui quali conseguì una vittoria (519?). Si apriva così un capitolo di rapporti strettissimi tra Platea e Atene, di segno antitebano, che praticamente durerà o farà sentire i suoi effetti in tutto l’arco della storia greca.

4. Policrate tiranno di Samo- La tirannide di Policrate a Samo appartiene a quel tipo di tirannidi di fase arcaica avanzata,

che più rapidamente sboccano in un conflitto con l’aristocrazia locale, e che giungono, per vie traverse, a porre le premesse per l’instaurazione della democrazia. Non è un caso che

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qui, dopo la morte di Policrate, il suo ex-segretario Meandrio potesse instaurare un regime isonomico, che, se avesse avuto stabilità e durata, sarebbe stato un antecedente per la stessa democrazia ateniese. Anche nel caso di Policrate il cliché della genesi delle tirannidi arcaiche è ampiamente rappresentato: 1) Egli è di origine aristocratica, figlio del nobile Eace, ed è uno di tre fratelli, che si dall’inizio si considerano destinati a detenere il potere a Samo e che con lui lo dividono per qualche anno; 2) È fuori dubbio anche che Policrate sia venuto in conflitto con l’aristocrazia: lo dice la durezza dell’opposizione che gli si solleva contro, opposizione che finirà col provocare nel 524 l’intervento di Sparta; lo dice anche la figura e l’orientamento del suo più celebre antagonista, Pitagora, e lo stesso nome della colonia fondata in Italia dagli esuli samii (Dicearchia, “dominio del giusto”); 3) Gli inizi oplitici anche per lui, attestati dalla conquista del potere con 15 opliti; egli sembra d’altronde, come Pisistrato, aver disarmato, cioè ‘disoplitizzato’, i concittadini, governando perciò con l’aiuto di mercenari.

- Viceversa, la tirannide samia si segnala per caratteristiche che le sono proprie: 1) Ambizioni tassalocratiche, che si esplicano, in particolare, in una temibile attività piratesca; 2) Esistenza di una corte e di poeti di corte (Anacreonte, presente a Samo come poi anche ad Atene; Ibico); 3) la tirannide samia scatena una dura reazione negli ambienti cittadini, che è accompagnata dal favore dell’opinione greca, tanto che nel 524 ha luogo una spedizione di Spartani e Corinzi contro Samo, che però, dopo quaranta giorni d’assedio, si conclude con un nulla di fatto.; 4) la tirannide samia appartiene a quel tipo di tirannidi, proprie della Ionia, che costituiscono altrettanti regimi fiduciari della Persia: il tiranno è in questi casi l’agente del gran re.

- Le circostanze e la data della morte di Policrate sono ben note: la sua politica era troppo autonoma nei confronti del re di Persia e dei suoi satrapi, per non suscitare il sospetto e la gelosia; per conseguenza, il satrapo di Lidia, Orete, lo attirò con l’inganno a Magnesia sul meandro, lo fece gustiziare come traditore del sovrano e ne crocifisse il cadavere, poco prima della morte di Cambise, perciò nel 522. Sappiamo che la talassocrazia samia è durata 15 anni, e dunque possiamo fissare l’inizio della tirannide di Policrate ca. 537.

Note integrative

a) Sul ruolo storico della Ionia- Quando neghiamo la priorità della Ionia nello sviluppo politico-costituzionale greco, non

intendiamo certo negarle un ruolo di avanguardia o una funzione propulsiva per fondamentali aspetti della storia della cultura letteraria, dell’arte, delle tecniche, del pensiero. Si potrebbe anzi dire che le società ioniche abbiano precorso le altre società presenti nel mondo greco proprio in tutte quelle espressioni culturali che, pur dovendo passare attraverso il filtro della società e dell’esperienza cittadina, non attengono tuttavia alle funzioni fondamentali della pólis, rappresentando riflessioni e atteggiamenti critici verso le concezioni tradizionali, sviluppando funzioni non immediatamente connesse con la cultura della comunità cittadina. Non è dunque vero che la pólis nacque in Ionia; sembra invece assai più accettabile l’affermazione secondo cui in Ionia nacque moltissimo di quel che, pur sorgendo nel quadro della pólis, si distacca dalla cultura corrente della comunità.

- Nei secoli dell’arcaismo alto e medio, la cultura ionica aveva prodotto l’épos, l’elegia, sul piano letterario; prime esperienze di architettura templare (lo Heraion di Samo tra IX e VIII

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secolo, l’Artemision di Efeso nel VII): espressioni di vitalità di quelle póleis, in un periodo di grande e generalizzata crescita delle città greche. Al VI secolo appartengono quelli che vengono spesso considerati come gli albori del pensiero greco, gli inizi della riflessione filosofica. I naturalisti milesii, osservatori della natura, dotati di un’esperienza e di interessi di tipo tecnico, e impegnati in attività politiche: Talete è capace di speculazioni di carattere tecnico, come propriamente finanziario (sui torchi delle olive); è informato della geometria egiziana e sembra non aver scritto nulla, pur se formula teorie generali, come quella che fa dell’acqua il principio di tutte le cose. A un più alto livello teorico, cui corrisponde tra l’altro l’uso della scrittura, si colloca Anassimandro, la cui concezione della natura ruota intorno al concetto di ápeiron (indefinito), definisce la realtà come un gigantesco processo di trasformazione e compensazione nel tempo, ed è autore di un pínax (tavola) geografica del mondo conosciuto. Anassimene mette fondamentalmente in gioco la nozione di “soffio vitale”, per rispondere ad analoghi quesiti. Naturalmente la riflessione dei naturalisti ionici non è solo sperimentazione e rottura critica con la tradizione: nasce anzi nel solco della stessa tradizione cosmogonica e teogonica che parte da Esiodo (VII sec.?).

- La critica sferzante delle rappresentazioni religiose tradizionali, come dei comportamenti dell’aristocrazia della sua città, caratterizza la poesia di Senofane di Colofone (circa 570-480?), che, dopo l’avvento del dominio persiano nella Ionia, lascia la sua città per l’Occidente, cioè per una città, Elea, fondata anch’essa da fuggiaschi intolleranti del dominio persiano. Si verifica dunque, dopo il 546, una significativa diaspora di importanti personaggi della cultura ionica, che sarà decisiva per la storia culturale della grecità d’Occidente, quando si pensi ai rapporti tra la riflessione di Senofane, nella ricerca dell’unità di fondo delle rappresentazioni umane, e quella di Parmenide sull’essere per esempio.

- Altra notevole espressione della cultura ionica, pur se con sue particolarissime caratteristiche, è Pitagora: ancora una volta fuga di matrice politica, anche se in questo caso si tratta di ribellione alla tirannide di Policrate. Di lui si conoscono l’arrivo a Crotone (circa il 530 a.C.); la creazione di uno o più gruppi di ‘amici’, dapprima a Crotone e forse anche a Metaponto; una riflessione teorica e politica, ma anche pratica e tecnica, che investe la sfera della società e dell’economia, l’aritmetica, la geometria, la musica, la medicina, la dietetica. Gran parte della sapienza di Pitagora gli deriva dall’Oriente, cioè dall’Egitto come dalla Mesopotamia e dalla Persia: si può dire che a Oriente egli impari, mentre ad Occidente egli insegna. Pitagora si fa anche interprete di stimoli di matrice mistica e irrazionale, che nell’ambiente ionico più razionalisticamente improntato suscitano l’accusa di una sinistra propensione al falso. La sua concezione politica fu aristocratica, ispirata all’idea del gruppo chiuso, anche se non aliena da concezioni rigorosamente ugualitarie, di marca spartana. In Occidente il pitagorismo rivela un’incredibile vitalità, che conosce una forte rivitalizzazione in Platone e nel platonismo.

- In significativa e alternativa contemporaneità con l’esperienza pitagorica, si colloca la nascita della storiografia ‘critica’ (non dunque pura memoria celebrativa), anch’essa riconducibile, nelle sue primissime espressioni, ad area ionica (Ecateo di Mileto). Essa ha tuttavia paralleli importanti nel continente (Acusilao di Argo, Ferecide di Atene), una prosecuzione di grande respiro nell’opera di Ellanico di Mitilene, e un decisivo salto di qualità in quella di Erodoto di Alicarnasso. Tipico apporto ionico è la vastità dell’orizzonte geografico e storico dell’opera dei prosatori (logografi) di matrice ionica e, più in generale,

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egea. La logografia ionica appare del resto come un momento decisivo nella presa di coscienza del ruolo della scrittura, nei confronti della tradizione orale: in questa luce ben s’intende il valore latamente rivoluzionario dell’opera di Ecateo, che nel fr. 1 delle Genealogie esordiva con un grápho: “scrivo le cose, come sembrano a me vere, poiché i lógoi (discorsi) dei Greci sono molti e risibili”. Nello stesso filone critico s’iscrive, e a un gradino più rilevato, Eraclito di Efeso (fine VI-inizio V secolo), con le sue veementi bordate contro Esiodo, Senofane, Pitagora e lo stesso Ecateo (segno del fatto che lo spirito critico equivale a un nuovo tipo di rapporto intellettuale fra gli uomini, che opera in una molteplicità di direzioni).

b) Popoli d’Asia e Greci fino al VI secolo- La storia dei popoli orientali interferisce variamente con quella greca, con grado diverso di

certezza, verificabilità, intensità nei diversi periodi. Con l’impero ittita vi saranno stati rapporti dei Micenei: molto dipende dall’interpretazione del nome di Ahhijāwā che ricorre nei testi ittiti, e della sua riferibilità al mondo miceneo. I rapporti tuttavia non dovettero essere profondi, ove si tenga presente il fondamentale silenzio della tradizione greca sul potente regno dominante la parte centrale dell’Asia minore, durato in vita fino al 1200 circa a.C.

- Di carattere ostile furono i rapporti dei Frigi col mondo greco, anche se, sul piano religioso, i Greci ne furono influenzati: il re frigio Mida costituisce la tipica figura di re barbarico, connotata con l’oro, simboleggiante una ricchezza che per i Greci fu sempre estranea e inaccessibile.

- Con gli Assiri, in piena ascesa nel IX secolo, i rapporti furono in definitiva marginali, e alla crisi assira della prima metà dell’VIII secolo non corrisponde uno sforzo di penetrazione greca nelle regioni del vicino Oriente; i Greci furono più direttamente interessati dall’avanzata dei popoli delle steppe scitiche, che raggiunsero regioni diverse dell’Asia Minore: circa il 675 a.C. i Cimmerii saccheggiarono l’Artemision di Efeso; nel 612 a.C. i Medi distruggevano la grande Ninive. Gli Assiri restano un popolo del passato remoto, che la storiografia greca stenta a mettere in rapporto con le vicende dei Greci. Certo, arrivava fino alla coscienza dei Greci l’immagine di grandiosità di alcuni regni stranieri o l’impressione per le grandi catastrofi storiche che li avevano riguardati: ma queste reazioni dell’opinione greca poco cambiano della fondamentale estraneità delle storie.

- Ben altra evidenza hanno fatti profondamente penetrati nel tessuto della storiografia erodotea e da questa adeguatamente illuminati. Alla fine del VII secolo il popolo iranico dei Medi avanzava verso la Mesopotamia. Nel momento in cui l’impero dei Medi si estende anche verso occidente, in Asia Minore, esso viene a collisione con il regno dei Lidi, governato dalla dinastia dei Mermnadi, fondata da Gige. Nel 585, dopo una battaglia, tra le due potenze si stipulò un accordo, destinato a garantire al regno di Lidia un altro quarantennio di prosperità, fino allo scontro con i Persiani di Ciro il Grande e alla sconfitta del 546. Il regno dei Lidi è dunque la prima realtà storica orientale di cui i Greci abbiano una compiuta esperienza e, principalmente, memoria.

- L’ascesa dei Persiani: all’interno stesso della dinastia dei Medi si determinano le condizioni per il rovesciamento del dominio dei Medi stessi: ed è l’ascesa di Ciro il Grande, figlio di una figlia del re dei Medi, discendente di un Ciro (Ciro I) capostipite della dinastia degli Achemenidi, che era stato suddito degli Assiri a metà del VII secolo. Ciro II (il Grande), in

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un trentennio di regno (559-530), viene a capo di tutte le situazioni politiche costituitesi dopo la scomparsa dell’impero assiro (che nel massimo splendore si estendeva dalla Mesopotamia, all’Anatolia, all’Egitto). Dopo l’abbattimento della potenza assira, Ciro il Grande conquista la Babilonia (539), impone la sua sovranità sulle città fenicie; il figlio Cambise conquista l’Egitto nel 525 a.C., e dopo la sua morte nel 522, in Persia si svolge un’aspra lotta per il potere, tra elemento sacerdotale e aristocrazia iranica, alla fine della quale si impone però Dario, riaffermando il potere monarchico. Erodoto riporta un fittizio dibattito fra i Grandi di Persia sui pregi e difetti delle tre costituzioni tipiche (la monarchia, l’oligarchia e la democrazia) – probabilmente una trascrizione in termini greci di un conflitto reale tra forze sociali e politiche diverse presenti nel mondo persiano, come ad esempio gruppi sacerdotali e gruppi dell’aristocrazia militare e fondiaria, conflitto che poteva mettere in forse le basi stesse del potere monarchico.

- L’impero persiano, nella coscienza e nella rappresentazione dei Greci (in primis in Erodoto), diventa il modello storico dello stato barbarico potente e in grado di minacciare i Greci, di suscitarne i timori ma anche l’ammirazione; un modello anche per la sua sistematica politica di espansione; per la sua struttura di efficienza organizzativa (ripartito com’era in 20 satrapie con funzioni amministrative e fiscali, rigorosamente definite); per la sua ricchezza, la cui quintessenza agli occhi dei Greci, l’oro, si identifica con il mondo persiano, e insieme lo connota barbarico.

c) Religiosità greca e orfismo- Le esigenze religiose dell’uomo greco non si esauriscono nelle pratiche cultuali di carattere

pubblico: accanto a queste ne sussistono altre, più segrete, o circondate di un velo di mistero, nelle quali gradualmente si fa strada l’esigenza di un rapporto più personale ed intimo con la divinità, e si dà spazio alla preoccupazione di assicurare al singolo la salvezza, in questo mondo o in un altro, anche indipendentemente dai destini della comunità cittadina. Ma misticismo non significa nel mondo greco, fin dall’origine, rottura con la comunità. I misteri che si celebrano annualmente nel santuario di Demetra ad Eleusi sono un’esperienza iniziatica valida per tutta la città di Atene, di carattere perciò ufficiale e squisitamente cittadino: questo almeno è il carattere del culto come riordinato da Pisistrato nel VI secolo. Il culto di Dioniso invece conserva, nonostante tutti i processi ‘normalizzatori’ messi in atto dalla città greca in generale, una sua irriducibilità di fondo, cioè una riducibilità soltanto parziale alla norma.

- Ma per un’esperienza mistica individuale o di gruppo ristretto, spesso antagonistico rispetto alla comunità cittadina, servì l’orfismo. Le sue origini sono forse da rintracciare nell’esperienza eleusinia, come arricchita dall’apporto del culto e del mito di Dioniso, dei suoi riti iniziatici, delle prospettive di morte e di resurrezione con quel mito connesse. L’ambiente eleusinio sembra perciò il naturale terreno d’incubazione di questa concezione e pratica della salvezza. Un terreno di diffusione particolarmente propizio si rivelò presto, fra altre regioni, l’ambiente della Magna Grecia: il carattere di quelle società di impronta aristocratica era in effetti già di per sé propizio alla costituzione di gruppi chiusi: l’affine, e pur distinta, esperienza pitagorica lo conferma. La pratica orfica però rappresenta, rispetto al pitagorismo, uno stadio ben più avanzato di distacco dalla città, che originariamente si determina proprio negli ambienti aristocratici, e che semmai solo col IV secolo, e in età ellenistica, investe strati sociali più bassi e alla fine sfocia in forme associative, atte ad

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esprimere inquietudini o forme di ribellione sociale, a cui dà stimolo e supporto la diffusa pratica di riti bacchici.

3. La fine dell’arcaismo. L’avvento della democrazia, le guerre persiane

1. Clistene e la fondazione della democrazia- Gli Alcmeonidi, rientrati ad Atene con l’aiuto di Sparta, posero presto mano a una radicale e

grandiosa riforma delle istituzioni politiche. Clistene escogita tutta una nuova geografia e geometria dei rapporti politici. Al posto delle quattro tribù genetiche degli Ioni egli introdusse le dieci tribù territoriali: l’appartenenza alla tribù non dipendeva più dal rapporto personale e familiare, ma dalla residenza. I demi, piccole comunità e villaggi, dispersi su tutto il territorio dell’Attica, preesistono alla riforma clistenica: ma con essa essi si trasformano nelle cellule vitali della nuova struttura politica: le tribù sono state concepite in modo tale da avere più o meno lo stesso numero di persone – per questo il territorio di una tribù può essere ora composto da un grande demo, ora dall’unione di più demi. I demi infatti erano la base naturale, storicamente parlando, della struttura dell’Attica, in un numero fra 100 e 200. Su questa base però si innesta la costruzione di Clistene: il numero dieci, che rievoca la passione dei greci per una ‘aritmetica politica’, opera nella costruzione delle dieci tribù territoriali: Eretteide, Egeide, Pandionide, Leontide, Acamantide, Oineide, Cecropide, Ippotoontide, Aiantide, Antiochide: dieci nomi di eroi sorteggiati dalla Pizia fra cento scelti anteriormente dagli ateniesi. Della vecchia struttura filetica (delle phylaí, le tribù) tuttavia permane l’articolazione in tre sezioni (trittýes) di ciascuna tribù, che adesso fanno dunque non 12 fràtrie come prima, ma 30 trittýes. Questa tripartizione rispecchia caratteri geografici, constando ciascuna tribù di una tritýs dell’ásty (città), di una della mesógaia (interno), e di una della paralía (costa): in un certo qual modo rispecchiando l’antica divisione dell’Attica dei partiti (ásty = pedíon; mesógaia = diakría; paralía), ma frantumandola tra le dieci tribù.

- Al vecchio frazionamento politico-territoriale si sostituisce una rappresentazione del territorio secondo fasce che, in astratto, possono essere considerate concentriche, estendendosi dal centro urbano all’interno e alla costa. Naturalmente la costruzione non è totalmente astratta, conoscendo adattamenti alle condizioni reali del territorio e delle sue singole parti. Vale dunque, in generale, il principio della discontinuità tra le varie trittýes di una medesima tribù, anche se, in almeno quattro casi a noi noti, appartenenti alla costa orientale dell’Attica, le due trittýes extraurbane sono contigue fra loro, certo per le caratteristiche del territorio e della sua viabilità. Il principio è quello di riunire nella stessa trittýs, e dunque nella stessa tribù, demi che un tempo facevano blocco con altre località confinanti, e costituivano la base della divisione dell’Attica in gruppi politici regionali fra loro contrapposti, capeggiati in genere da una delle grandi famiglie (géne). Ora però ogni tribù contiene di tutto – e gli organi magistratuali rispettano proporzionalmente, e secondo una rotazione, la struttura di collegamento che è la tribù.

- La parola d’ordine della riforma di Clistene, dunque, è “mescolare”, contrastare i regionalismi, rendere impossibile o inutile la ricerca delle origini familiari, classificando ciascun cittadino secondo il demo, la cellula vivente dello ‘Stato’ – che, attraverso lo strumento intermedio della tribù (costruita col massimo di astrazione possibile da vincoli

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familiari e rapporti d’interesse), costituisce il quadro organizzativo fondamentale della nuova pólis.

- È costituito un consiglio dei Cinquecento (boulé), i cui membri sono sorteggiati in numero di cinquanta per ciascuna delle dieci tribù: ciascun membro di questo consiglio popolare è chiamato prýtanis (primo, principe), titolo che fuori di Atene si addice solo a un alto magistrato cittadino. Molto in uso anche il termine prytaneía, che si riferisce sia ai cinquanta consiglieri (buleuti) che appartengono a una stessa tribù, rappresentanti dunque 1/10 della boulé; sia a una frazione di 1/10 dell’anno (dunque 35/36 giorni). Ogni delegazione di ciascuna tribù governa dunque l’Attica per un periodo di 35 giorni, dopo il quale, in un sistema di rotazione, assume la funzione rappresentativa la tribù successiva – in un arco di un anno, dunque, tutte le 10 tribù avranno rappresentato la città per il periodo di una pritania.

- [[[Sotto le riforme di Clistene, attuate nel 508/7 a.C., la boulé è stata ampliata a 500 uomini, 50 da ciascuna delle dieci tribù create da Clistene. I 500 uomini erano scelti per sorteggio a livello dei demi, essendo sorteggiato da ciascun demo un numero di seggi proporzionale alla sua popolazione. L’accesso in quest’epoca era ristretto ai pentacosiomedimni, cavalieri e zeugiti (escludendo dunque i teti) e ai cittadini con più di trent’anni. La prima restrizione (esclusione dei teti), anche se mai cambiata ufficialmente, non era più seguita nella pratica verso la metà del V secolo. I membri della boulé avevano la carica per un anno, e nessuno poteva avere la carica più di due volte nella vita. I membri in carica della boulé (pritania) constavano di 50 delegati della stessa tribù, scelti tra i 500; e una nuova pritania era eletta ogni 35 giorni. Il posto di ‘presidente’ della pritania era cambiato ogni giorno, sorteggiandolo tra i 50 delegati. La boulé si riuniva tutti i giorni, eccetto nei giorni di festività religiose.]]]

- Non sono abolite nella costituzione clistenica, né saranno mai abolite (e fino all’età periclea, più precisamente fino al 457 a.C., continueranno ad avere efficacia reale), le distinzioni censitarie presenti nella costituzione di Solone e in parte certo anche prima. L’opera di unificazione, redistribuzione, astrazione compiuta da Clistene era diretta contro le spinte corporative d’interessi locali, espressi o difesi dall’aristocrazia regionale, non contro il principio dell’efficacia politica della condizione economica e del censo come parametri generali. Permane dunque la distinzione in pentacosiomedimni, cavalieri, zeugiti, teti; e le massime cariche, quale l’arcontato, sono ancora eleggibili e non sorteggiabili (e tali resteranno fino al 487 a.C.): il peso del censo si fa certo ancora sentire nelle scelte operate dai cittadini.

- Per la riforma clistenica, il nemico da battere è la tirannide, la quale significa in sostanza l’emergere di un uomo forte dall’interno stesso delle aristocrazie locali e della carriera oplitica. Combattendo la tirannide, la democrazia clistenica combatteva dunque al tempo stesso le ambizioni e le tentazioni di prevaricazione dei gruppi nobiliari; non si può negare però che la sua preoccupazione politica fondamentale fosse l’uguaglianza dei diritti politici e perciò la guerra dichiarata a forme di potere personale, centralizzato, autoritario.

- In questo quadro si può ben capire come Clistene escogitasse un sistema preventivo contro il pericolo della tirannide, istituendo l’ostracismo, cioè la procedura, molto semplice e democratica, attraverso cui si denunciava, in due tempi (nelle assemblee principali della 6° e dell’8° pritania), il timore che qualcuno (dapprima, dunque, solo in termini generali) e poi semmai un determinato personaggio politico (questa volta il nome veniva scritto su un

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coccio qualunque, di un vaso rotto e ormai inutile) costituisse un pericolo di tirannide per la democrazia. La procedura fu applicata per la prima volta circa il 487, contro Ipparco di Carmo, della famiglia dei Pisistratidi.

- Alla luce di tutto questo, è comprensibile che la nascita della democrazia trovasse subito oppositori: Clistene probabilmente aveva già elaborato gran parte della sua riforma costituzionale quando gli si oppose Isagora, spalleggiato da Cleomene I, re di Sparta. Il primo scontro fu vinto da Isagora: la potenza delle armi spartane fece sì che questi ottenesse l’arcontato (per il 508/7); Isagora stabilisce un consiglio dei Trecento, composto da soli aristocrati; inoltre, ai suoi ordini, settecento case di partigiani della democrazia sono bandite, fra di esse naturalmente la famiglia degli Alcmeonidi. Ma ecco la risposta popolare, guidata da una boulé, che potrebbe essere quella dei Cinquecento, se già insediata: Isagora e Cleomene, assediati sull’Acropoli, si arrendono, a patto di potersene andare incolumi; nello stesso anno Clistene rientra e si può ritenere che abbia allora completato e reso definitiva la sua opera di rinnovamento.

- Dal 506 gravi minacce si addensano sul capo della neonata democrazia ateniese. Vecchi rivali si coalizzano contro Atene: Beoti e Calcidesi invadono l’Attica, ma sono respinti e si vedono poi sottoposti a un vigoroso contrattacco ateniese, che culmina in una clamorosa sconfitta di Beoti ed Euboici. Poco dopo, gli Spartani premono sulla Lega peloponnesiaca per un intervento contro il nuovo regime politico di Atene e per la restaurazione della tirannide di Ippia; ma i Corinzi si oppongono, invitando gli Spartani a una riflessione storica sui mali della tirannide. L’opera di dissuasione ha successo: la democrazia ateniese respira e guadagna ormai il tempo per consolidarsi. La restante Grecia accetta, un po’ rassegnata, che una forma politica del tutto nuova abbia diritto di cittadinanza e libero corso storico: in pratica rinuncia ad interferire e si acconcia alla nuova situazione creatasi.

2. La politica espansionistica dell’impero persiano (durante il regno di Dario)- Con le conquiste di Ciro il Grande e del figlio Cambise l’impero persiano aveva raggiunto

dimensioni vastissime: dalle coste occidentali dell’Asia minore, al Caucaso, al confine con l’India, all’Egitto. A Dario invece la tradizione attribuisce l’organizzazione amministrativa e fiscale dell’impero in venti satrapie, che consente introiti annui di 14.560 talenti d’argento euboici.

- Dario organizza spedizioni contro i Traci, i Geti e gli Sciti, avendo di mira non tanto la conquista del territorio scitico, ma piuttosto il consolidamento dei confini dell’Impero.

- Niente lascia pensare che in questa fase i Persiani abbiano progettato un attacco alla Grecia continentale. È giusto osservare che, per una serie di felici circostanze storiche, i Greci hanno goduto sempre di un libero dominio sia della penisola sia delle isole dell’Egeo: il versamento di un tributo non fu mai richiesto ai Greci del continente.

3. Dall’insurrezione ionica alla battaglia di Maratona- Le origini del conflitto greco-persiano vanno ricercate nelle condizioni dei Greci della Ionia,

nei loro rapporti con i dominatori persiani, nei loro malumori e in certe iniziative in parte infelici, come lucidamente vide e descrisse Erodoto (consapevole di risultati ben diversi di conflitti greco-persiani di anni più recenti).

- La rivolta degli Ioni d’Asia ha come premessa l’episodio di Nasso (500 a.C.): Aristagora, il nuovo tiranno di Mileto (successore di Isteo, che il gran-re aveva chiamato a Susa per

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tenerlo sotto controllo) propone al satrapo di Sardi, Artaferne, una spedizione contro l’isola di Nasso, fiorentissima tra le Cicladi, col pretesto di lotte civili e l’intento di ricondurvi gli aristocratici schiacciati. La spedizione, dopo quattro mesi d’assedio, fallisce. Aristagora allora teme le conseguenze del fallimento di una spedizione da lui suggerita e, per meglio garantirsi, dà inizio alla rivolta. Da tutto questo, dunque, si evince: che l’idea dell’estensione del dominio persiano alle Cicladi nasce su suggerimento di un greco, ed è così nuova rispetto alla politica persiana nella zona da renderne responsabile delle conseguenze l’autore stesso (Aristagora); si evince anche che nella Ionia doveva esserci già un sotterraneo fermento contro i Persiani, dato che Aristagora considera subito la rivolta come la migliore possibilità di scampo per sé stesso.

- La rivolta degli Ioni d’Asia contro la Persia è motivata dall’insofferenza per lo sfruttamento economico risultante dal tributo versato ai persiani, sia da un desiderio di libertà: anzi, per I greci le due motivazioni sono strettamente intrecciate fra di loro, e il desiderio di libertà comporta anche libertà dal tributo, in cui si materializza la sopraffazione.

- Aristagora si rivolge dapprima a Sparta per aiuto, ma ha da Cleomene un fermo diniego, quando quello gli prospetta le dimensioni dell’impero persiano e di una eventuale guerra da avviare contro di esso. Migliore accoglienza egli riceve da Atene, segno che si hanno richiami di natura ideologica (Atene come modello di regime antitirannico e popolare) e si rafforzano legami culturali, come l’origine ionica comune (anche per la presenza di legami culturali si spiega l’intervento della città euboica di Eretria, che con Mileto aveva avuto rapporti particolarmente stretti).

- Atene invia, dunque, venti navi in aiuto, ed Eretria ne invia cinque. I tiranni sono abbattuti in tutte le città ioniche, e Ioni, Ateniesi ed Eretriesi attaccano e danno alle fiamme alcuni quartieri periferici di Sardi; presto anche Caria, Licia e Cipro si uniscono alla ribellione. (498). L’impegno degli ateniesi e degli eretriesi si conclude una volta ottenuto il fine della liberazione dalla Persia.

- Nel 497 i ribelli sono battuti a Cipro dai persiani. Nel 494 una flotta fenicia attacca Mileto; all’apparire della flotta fenicia le città dell’isola di Rodi e inoltre Cnido e Alicarnasso, cioè i Greci della costa meridionale dell’Asia Minore occidentale, fanno pace col re; gli Ioni invece solidarizzano con Mileto ma, nello scontro navale che si svolge nell’estate del 494 presso l’isoletta di Lade prospiciente la città, sono sconfitti: Mileto, assediata per mare e per terra, è conquistata, una parte degli abitanti è deportata in Babilionia, il tempio di Apollo a Didima è dato alle fiamme (pensare alla tragedia Presa di Mileto, di Frinico). Nel 493 la flotta fenicia tornava in possesso di Chio, di Lesbo e dell’Ellesponto – Milziade II, tiranno del Chersoneso tracico trovava scampo ad Atene.

- Nel 492 il re Dario inviò il genero Mardonio con un esercito e una flotta in Tracia: la spedizione fu descritta da Erodoto e sentita dai Greci come una prima spedizione contro la Grecia – certamente essa fu la logica continuazione della reazione alla rivolta ionica, che aveva trasferito il suo centro di gravità verso l’area egea settentrionale e tracica. I risultati furono positivi per la Persia: assoggettamento di tutte le città greche della regione e riconoscimento dell’autorità formale della Persia da parte della Macedonia. I Persiani però subirono alcune gravi perdite – lo stesso Mardonio fu ferito, e gran parte della flotta fece naufragio nella circumnavigazione dell’Athos (autunno 492).

- Il 491 fu un anno di preparativi per la spedizione punitiva dei Persiani contro Ateniesi ed Eretriesi. Quindi, nella primavera del 490, Artaferne (nipote del re) e il medo Dati

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conducevano una flotta che doveva seguire dapprima verso le Cicladi, poi verso l’Eubea e l’Attica. Nasso fu, questa volta, piegata e distrutta; le Cicladi si sottomisero; a Delo, isola sacra ad Apollo e Artemide, Dati celebrò un solenne sacrificio; infine, fu la volta di Eretria, presto conquistata e data alle fiamme, mentre i cittadini venivano trapiantati presso Susa.

- Da Eretria il passaggio in Attica è rapido e facile, nella parte nord-orientale della regione, quella in cui, tra l’altro, aveva avuto le sue basi politiche principali Pisistrato: non dimenticare, infatti, che appunto Ippia era con i Persiani nella spedizione, guidandone i movimenti e sperando in un restauro della sua tirannide. A Maratona sbarcarono circa 20.000 Persiani; ad Atene si decise, seguendo il consiglio di Milziade, di uscire dalla cerchia delle mura e di affrontare il nemico a Maratona: 6000-7000 opliti ateniesi, al comando del polemarco Callimaco e dei dieci strateghi, fra cui Milziade. I due eserciti si fronteggiarono per alcuni giorni; furono poi gli ateniesi ad attaccare, percorrendo di corsa, nonostante le pesanti armature, l’ultimo tratto che li separava dai Persiani. Dei Persiani morivano sul campo 6400 uomini; dei Greci, solo 192, che furono sepolti nel celebre sorós (tumulo): fra di essi il polemarco Callimaco. Nel frattempo, l’altra parte dell’esercito persiano si indirizzava ad Atene, sperando in colpo di Stato nella città, probabilmente per parte di gente dei Pisistratidi: quando arrivarono però gli Ateniesi di Maratona erano già tornati e schierati sotto le mura: i Persiani non poterono che prendere la via del ritorno. [[[ Gli Spartani erano stati sollecitati dagli Ateniesi ma sono arrivati solo a battaglia avvenuta: alcune versioni dicono che c’era una ‘guerra messenica’ in atto; altre invece che non sono potuti uscire prima per una festività religiosa della loro città: fatto sta che non sono arrivati in tempo e la gloria della vittoria sopra i Persiani è andata tutta agli ateniesi]]]

4. Dopo Maratona: nuove guerre e riforme politiche ateniesi- Dopo la battaglia Atene si trovava nella posizione di conquistatrice (o liberatrice) delle

regioni greche anteriormente passate in mano ai Persiani: nel 489 Milziade II riuscì a riprendere le Cicladi occidentali, ma andrò ad urtare contro la resistenza di Paro, che rimase fedele ai Persiani (quando ebbe desistito dall’assedio, Milziade fu accusato di corruzione da Santippo, il padre di Pericle, costretto a pagare una multa, per morire poco dopo di cancrena per effetto di una ferita procuratagli durante l’assedio).

- Nel 488 si apre invece per Atene un altro conflitto, quello con Egina (preceduto da una guerra, combattuta forse dalla neonata democrazia circa il 506 a.C.). La spedizione contro Egina si risolse in un disastro: le truppe ateniesi, sbarcate nell’isola, dovettero rapidamente riprendere il mare, e quattro navi caddero nelle mani degli Egineti, di nuovo padroni del golfo Saronico.

- Con gli inizi della guerra contro Egina coincide una serie di innovazioni importanti nella politica interna: prima applicazione dell’ostracismo, contro Ipparco, nell’anno 488/7 (seguirà l’espulsione di Megacle nel 487/6, e di un altro non nominato ‘amico dei tiranni’ nel 486/5; Santippo, il padre di Pericle, sarà colpito dall’ostracismo nel 485/4); l’adozione della procedura del sorteggio, in luogo dell’elezione, degli arconti (487/6). Emerge anche la figura di Temistocle, che sembra essere già stato arconte nel 493, ma che comunque solo dopo il 484 assurge a un ruolo politico decisivo, e di tipo diverso, rispetto ai capi politici di un passato recente: la lotta politica ad Atene, infatti, si muove sempre di meno lungo i binari della contrapposizione tra amici e nemici dei tiranni, e sempre di più invece lungo quelli di

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un diverso modo di concepire l’uso della nuova forma politica, la democrazia, sia all’interno della pólis, come verso l’esterno.

5. La politica navale di Temistocle- Quando nel 482 a.C. si scoprono nuovi filoni argentiferi a Maronea, a una proposta di

stampo democratico, sì, ma tradizionale, di distribuire cento talenti di surplus fra i cittadini, Temistocle ne oppone una diversa, che è di spirito imprenditoriale e di finalità difensiva e imperialistica: una proposta che conta su un nuovo tipo di solidarietà dei cittadini, presi nel loro insieme, verso le strutture della pólis: i cento cittadini più ricchi dovevano ricevere in prestito un talento ciascuno; con esso allestire una trireme; e restituire il denaro solo se la città fosse insoddisfatta del lavoro compiuto con quel prestito – nasceva così la prima rispettabile flotta di Atene, esigenza giustificata dai vari fallimenti nella guerra contro Egina, ma anche, come il tempo dimostrerà, dai pericoli di una nuova invasione persiana.

- Fra le ‘vittime’ politiche dell’ascesa di Temistocle è Aristide, ostracizzato ca. il 482. È probabile che i termini del dissenso siano quelli che la tradizione presenta, cioè: che uso fare di un’eccedenza di entrate? Adottare, nelle nuove dimensioni della pólis democratica, la vecchia pratica clientelare delle liberalità aristocratiche, in forme blande, non richiedenti sacrifici da nessuno? O introdurre una nuova logica solidaristica e faticosamente dinamica, dove la capacità di realizzazione dei ricchi concorre con la volontà, propria della massa democratica, di darsi uno strumento di potenza?

- Ritroveremo comunque Aristide ad Atene nel 478/7, favorendo la creazione della Lega navale e definendo gli aspetti della sua organizzazione tributaria, contribuendo dunque alla costruzione della potenza navale ateniese. La politica di Aristide, dunque, non è antinavale in senso assoluto: in gioco erano una concezione di rapporti, e degli obblighi e diritti dei cittadini, all’interno della pólis, cioè una maggiore attenzione al privato di tipo tradizionale (che in quel contesto giocava contro la legge navale di Temistocle), e la concezione di Temistocle, orientata verso un’idea di preminenza di quello che per lui era l’interesse pubblico. La guerra contro i Persiani modificherà l’atteggiamento di Aristide, con la sua forza di fatto ineludibile.

6. La spedizione di Serse e Mardonio contro la Grecia- Nel 485 Dario era stato colto dalla morte nel corso dei preparativi per una spedizione

punitiva rivolta alla Grecia interne; Serse però ne ereditava il disegno: si trattava in primo luogo di far valere la specifica qualità militare di una grande potenza territoriale come l’impero persiano, doveva perciò essere una grande spedizione di terra, affiancata e sostenuta dalla flotta. Nell’autunno del 481 le truppe di terra sono raccolte in Asia Minore, e vi tengono i quartieri d’inverno; nel giugno del 480 Serse fa loro varcare l’Ellesponto su due pinti di barche e, procedendo lungo la costa, raggiunge Terme in Macedonia.

- Da parte greca, nello stesso lasso di tempo, all’Istmo si era tenuto un congresso degli Stati greci decisi a resistere ai Persiani. Si proclamò una pace generale fra i Greci; si richiamarono in patria gli esuli politici (così, tra l’altro, Aristide rientrò ad Atene); gli inviati di Serse, che chiedevano sottomissione ai Greci, riservando la punizione soltanto agli Ateniesi e agli Spartani, furono rimandati indietro (e a Sparta addirittura messi a morte). Tuttavia nel Peloponneso il re poteva contare sulla solidarietà della nemica di Sparta, Argo; Corcira promise un aiuto navale che inviò solo con ritardo; Gelone di Siracusa rifiutò di

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associarsi alla resistenza greca, senza il conferimento di una posizione di comando almeno parziale, che i Greci tuttavia gli negarono.

- Le prime misure adottate dai greci sono ovviamente difensive: prima ancora che i Persiani varcassero l’Ellesponto, Peloponnesiaci, Ateniesi e Beoti sperimentarono lo sbarramento dei passi dell’Olimpo, ma verificarono l’impossibilità della difesa e l’aggirabilità dell’Olimpo; la prossima strozzatura della strada verso la Grecia erano le Termopile, ma cioè comportava l’abbandono della Tessaglia – ai Tessali non restò che arrendersi al re persiano, con cui però avviavano già da tempo trattative segrete.

- Le Termopile costituivano uno stretto varco tra il mare (che certo doveva essere presidiato da una flotta greca) e le pendici dell’Eta, i cui passaggi potevano permettere un aggiramento della posizione sulla sinistra, solo se mal sorvegliati. A difendere il passo furono inviati 4000 opliti peloponnesiaci al comando di Leonida, cui si congiunsero le forze dei popoli della Grecia centrale, Focesi, Locresi e Beoti; la flotta greca si attestò presso il tempio di Artemide sulla costa settentrionale dell’Eubea.

- Intanto la flotta persiana, mentre Serse giungeva (fine luglio del 480) alle Termopile, moveva da Terme, per raggiungere dal mare la medesima posizione: al capo Sepia però un’improvvisa e violenta tempesta provocò l’affondamento di molte navi. Qualche giorno dopo le navi persiane potevano ancorarsi ad Afete, proprio di fronte all’Artemisio; in due scontri, un discreto numero di navi nemiche finirono nelle mani dei Greci; l’attacco successivo, da parte persiana, si scontrò con una durissima resistenza e si concluse con gravi perdite.

- Molto più fortunata per i Persiani invece l’avanzata dei barbari per via di terra; essi tentarono l’aggiramento del passo sulla sinistra e vi riuscirono grazie alla negligente difesa da parte focese di un sentiero, una via (la famigerata Anopea), la cui presenza era stata del resto segnalata ai barbari da un disertore greco. Fra i Greci che erano a difesa del passo si diffuse il panico; la fuga fu generale: i 300 opliti Spartani, lì presenti al comando del re Leonida, sacrificarono la loro vita “per obbedire agli ordini della città”; con loro si sacrificarono 700 Tespiesi, ma in totale perirono circa 4000 Greci. Ormai per la flotta greca la posizione dell’Artemisio diventava indifendibile, e ne seguiva l’abbandono dell’Eubea e il rientro dei diversi contingenti navali greci.

- Allo sfondamento della posizione delle Termopile faceva seguito il dileguarsi dei Focesi, e la resa dei Beoti e dei Locresi Opunzi. È illuminante ai fini dell’intero problema della qualità della coscienza nazionale greca, che la spedizione persiana mette in luce diversità di comportamenti nell’àmbito del mondo greco e il formarsi di una solidarietà forte piuttosto fra i Greci delle regioni meridionali della penisola, che sono anche quelli in cui la forma cittadina ha avuto un maggiore sviluppo. È insomma vero che si forma una solidarietà nazionale greca, ma è anche vero che questa solidarietà nazionale è assai lontana dall’identificarsi con l’intera area della grecità culturale e politica – ha invece l’asse portante in Atene e, per il momento, in Sparta: una situazione, questa, che prelude all’altra, in cui Atene diventerà la punta avanzata di tale coscienza, senza che vi si accompagnino reali progetti di unificazione politica della Grecia intera.

- Ad Atene viene presa la decisione di abbandonare la città, di trasferire le donne, bambini e suppellettili o animali a Salamina, ad Egina e soprattutto a Trezene, nel Peloponneso. Torna utile a Temistocle un oracolo che consiglia di affidarsi alla difesa di uno xýlinon teîchos, un

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“muro di legno”, che egli interpreta come metaforica allusione alle navi. Atene è dunque abbandonata (circa agosto 480) alle devastazioni dei Persiani.

- La flotta greca si concentra a Salamina, al comando dello spartano Euribiade; quella nemica, dalle acque dell’Eubea, raggiunge il Falero. Ateniesi, Egineti e Megaresi ottengono che i Greci affrontino i Persiani nel canale tra Salamina e l’Attica, e non all’altezza dell’Istmo, che avrebbe garantito la sicurezza del solo Peloponneso. Una sera di settembre del 480 la flotta persiana, che contava contingenti fenici e ionici, forza il canale, mentre truppe persiane sbarcano a terra, nell’Attica, e nell’isoletta di Psittalia, sita nel canale. Lo scontro avvenne al mattino, sotto gli occhi del re, che aveva fatto installare il suo trono sulla costa ateniese: agilità, capacità di manovra, esperienza dei luoghi giocarono in favore della flotta greca, che riuscì a sospingere quella persiana verso la costa attica, producendo in essa gravissime perdite; un corpo di opliti ateniesi, che si trovava a Salamina, sbarcava ora a Psittalia, facendo strage della guarnigione persiana.

- Nella guerra di mare la sconfitta subita a Salamina era di rilevantissime dimensioni e l’umiliazione per i Persiani cocente. Ma l’impero persiano era una potenza territoriale, la sua forza militare nazionale era quella di terra e, non avendo subìto per terra una qualunque sconfitta da parte greca, Serse poteva pensare di avere da giocare ancora la sua migliore carta. Prova ne è il fatto che la flotta rientra in Asia pochi giorni dopo la battaglia, mentre l’esercito è ricondotto dal re negli accampamenti invernali in Tessaglia, quindi affidato al comando di Mandornio, in previsione di un nuovo attacco, questa volta per via di terra, contro i Greci: Serse stesso si trasferisce a Sardi, in attesa degli eventi.

- I Greci, intanto, recuperano posizioni nelle Cicladi e in Tracia; ma solo all’anno successivo (479) è riservata la ripresa dello scontro militare diretto. Mandornio, dopo aver sollecitato gli Ateniesi alla resa, invade la Beozia e poi devasta nuovamente Atene (giugno 479), mentre la città è evacuata per la seconda volta.

- Le forze peloponnesiache si riuniscono intanto all’Istmo, al comando dei reggenti Eurianatte e Pausania; un’avanguardia riesce a mettere Megara in salvo dalla minaccia dei Persiani che, passando per Decelea, si ritirano in Beozia, poco oltre le pendici settentrionali del monte Citerone; alle sue pendici vengono invece ad attestarsi i circa 50.000 Greci raccolti ormai a Megara, e procedenti verso la Beozia (12.000 opliti dal Peloponneso, 8.000 da Atene, Megara e Platea e, per il resto, truppe leggere), contro un nemico di forze doppie.

- La dinamica della battaglia di Platea presenta due fasi ben distinte. Dapprima le forze si fronteggiano; più in alto sono i Greci, i quali poi, senza rinunciare alla posizione dominante, eseguono una manovra di accostamento al nemico, trasferendosi sui colli che delimitano verso sud la valle dell’Asopo, e occupando così lo spazio che va da Platea fino ad una altura che si erge al di sopra della fonte Gargafia. In una seconda fase, Pausania fa arretrare il suo centro e trasferisce l’ala destra allo sbocco di un passo del Citerone, lasciando gli Ateniesi all’altezza di Platea; nel corso di questa manovra si sviluppa l’attacco persiano contro uno schieramento ormai disarticolato. Pausania riesce però a tener fronte all’attacco, fino alla ricostruzione di un solido fronte, costituito dal sopraggiungere di Corinzi e di altri, e nel contrattacco travolge i Persiani, soprattutto dopo che lo stesso Mardonio è caduto sul campo. Nelle mani dei Greci finisce ora l’accampamento persiano, ma il luogotenente di Mardonio, Artabazo, riesce a portare in salvo circa 40.000 soldati sopravvissuti allo scontro.

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7. Dopo Platea- Sul campo di battaglia fu eretto un altare a Zeus Eleutherios (della libertà), presso il quale

annualmente si celebrava un sacrificio, ed ogni quattro anni si avevano agoni panellenici, che continuarono a restare in vita fino ad epoca romana; la decima dell’ingente bottino fu dedicata a Delfi, ad Olimpia e al santuario di Posidone sull’Istmo. Si provvide anche alla punizione di Tebe, costretta alla resa dopo un assedio di 20 giorni; il capo dei filopersiani, Attagino, riuscì a fuggire, altri furono giustiziati all’Istmo; la lega beotica fu sciolta.

- Da Delo la flotta greca, al comando (nel 479) del re spartano Leotichida, raggiungeva Chio e Samo per sollecitazione degli stessi Ioni; i resti della flotta persiana, in sosta presso Samo, abbandonavano l’isola per raggiungere il continente; le navi venivano tratte in secco, non lungi dal promontorio di Micale. Nei fatti, quella di Micale (agosto 479) non fu tanto una vittoria navale dei Greci, quanto una battaglia navale mancata: l’azione militare e la vittoria greca consistettero piuttosto nell’assalto delle fortificazioni persiane e nella loro distruzione; le navi persiane furono così date alle fiamme dai Greci, come testimonia Erodoto.

- Gli eventi che si seguono sono storicamente dei più significativi. Da un lato si verifica la ribellione di tutti gli Ioni, l’abbattimento delle tirannidi filopersiane e l’inserimento delle isole di Samo, Lesbo e Chio nella Lega greca: in definitiva, nel 479 si realizzano i fini della rivolta di Aristagora del 499. Ma, insieme, un importante passaggio verso l’esito imminente ed epocale del 478/7 (cioè, verso la fondazione della Lega delio-attica) è costituito dall’andamento delle operazioni, e dai diversi tipi di comportamento tra i Greci, nei mesi successivi alla battaglia di Micale. Sull’Ellesponto, Abido e Sesto erano ancora nelle mani dei Persiani – la flotta grecasi dirige verso la zona degli Stretti, ottenendo subito la defezione di Abido; ma con l’arrivo dell’autunno i Peloponnesiaci se ne tornano a casa, lasciando il campo agli Ateniesi, che assediano e poi prendono per fame Sesto (primavera 478), con la cooperazione degli Ioni, che già in questa campagna risuscitano quel rapporto privilegiato con Atene che avevano avuto agli inizi della rivolta del 499.

- Nella primavera del 478, comunque, una forza navale peloponnesiaca al comando di Pausania torna ad operare, insieme con Ateniesi e Ioni, sulla costa caria, a Cipro (di cui parte è sottratta alla Persia) e nell’area degli Stretti, dove finalmente è conquistata anche Bisanzio, dopo un lungo assedio. Il rapporto degli Ioni con gli Spartani, già in qualche modo attenuatosi per le vicende prima dette, si deteriora ormai per il comportamento duro, quasi tirannico, tenuto nei loro confronti da Pausania, che, sospetto anche di filomedismo, è richiamato in patria dalle autorità cittadine (477), mentre al converso si rafforza, anche in virtù dei vantati vincoli di sangue, il rapporto degli stessi Ioni con Atene. Il sostituto di Pausania, Dorci, non trova migliore accoglienza; sicché non gli resta che tornarsene a casa, privato di fatto di ogni autorità sulla Lega ellenica, che ormai ha rapidamente cambiato composizione e il vertice.

- Più congeniale a Sparta il compito di ‘gendarme’ dei doveri nazionali greci, che essa si assume con la spedizione punitiva guidata (forse nello stesso 477) dal re Leotichida in Tessaglia; contro gli Alevadi di Larissa il re spartano non poté però cogliere significativi successi; e così, più tardi, Leotichida, accusato a Sparta d’essere stato corrotto dagli Alevadi, fu condannato e dové andare in esilio a Tegea.

- In definitiva, dopo gli anni 481-477 in cui aveva esercitato un ruolo fondamentale nella storia nazionale greca, Sparta, pur forte di grande prestigio fra i Greci, rientra in una

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dimensione politica quasi regionale (che però è nella storia greca il dato più costante e caratteristico).

- Atene invece procedeva, in una lega di cui deteneva l’egemonia, per libero e autonomo consenso degli alleati Ioni, ad un’organizzazione sistematica dei rapporti che si erano andati rapidamente annodando intorno alla città, in un processo che sembra presentare i caratteri di un fenomeno spontaneo e improvviso, ma che affonda invece le sue radici in tradizioni ben più remote nel tempo e nella stessa comunanza di vicende, saltuaria ma non casuale, tra Atene e il mondo ionico durante la rivolta dell’inizio del V secolo, con tutte le conseguenze che ne erano derivate alla città e alla Grecia intera.

8. Le città di Magna Grecia e Sicilia fino alla tirannide dei Dinomenidi a Siracusa- Il VI secolo rappresenta il periodo di massima fioritura della Magna Grecia – al quale

corrispondono spinte espansionistiche, volte a modificare le delimitazioni territoriali originarie. Se la nozione di Megále Hellás ha avuto realmente corso in epoca arcaica, il periodo a cui questa denominazione più si attaglia è certamente quello in cui le città achee si impegnarono a costituire un’area unitaria e a cancellare ogni traccia di intrusione: ‘grandezza’ al tempo stesso culturale e politica, secondo una concezione arcaica che non conosce ancora l’opposizione di valutazioni materialistiche e spiritualistiche.

- L’espressione (Megále Hellás) ebbe una rinnovata diffusione in epoca pitagorica, quando alla fama delle città dell’Italia meridionale, in particolare di Crotone e di Metaponto, molto contribuì la presenza, la dottrina, l’opera, l’influenza culturale e politica del Maestro (Pitagora) e dei suoi discepoli. Quando comparirà nei testi futuri, la definizione ‘Magna Grecia’ sarà solo un’espressione di nostalgia di una perduta e forse anche mitizzata grandezza: Megála Hellás diventa presso gli autori del II e I secolo a.C. una denominazione che evoca il passato, e che al passato appartiene: la celebrazione nostalgica di una grandezza che è stata e che ora non è più. Così si concluderà la storia di una regione che all’origine (nel VI-V secolo a.C.) era stata un ‘oggetto del desiderio’, e che alla fine (nel II secolo a.C.), soprattutto a seguito dell’invasione dell’Italia da parte di Annibale, e per le connesse distruzioni e rovine, era quasi completamente deleta, pur avendo ospitato una civiltà capace di grandezza, dal punto di vista culturale, materiale e anche politico.

- Lo scontro tra Crotone e Sibari, che culmina nella presa e distruzione di Sibari e nell’acquisizione del territorio, si arricchisce rispetto a quei precedenti conflitti più arcaici di un motivo ideologico. A Sibari l’aristocrazia è oppressa dalla tirannide di Telys; 500 suoi rappresentanti chiedono e ottengono asilo a Crotone; ma Telys ne chiede a sua volta l’estradizione: da parte di Crotone, concederla significa acquiescenza, negarla significa la guerra. Pitagora, che è ormai da anni il grande consigliere dell’aristocrazia crotoniate ed ha promosso il riarmo morale e materiale della città (impartisce lezioni a uomini, donne, giovani; ha formato un’associazione di trecento giovani eletti), spinge e convince alla guerra. La reazione di Pitagora è certo ideologicamente motivata: il suo gruppo è evidentemente aristocratico, il che però non equivale a dire che di fosse una assoluta uniformità di vedute con l’aristocrazia proprietaria, ‘reale’, di Crotone: quella pitagorica è una aristocrazia ideologica, che mira a un regime de proprietà comunitaria (koinà tà tôn phílon, “sono in comune le cose degli amici”), che in sopraggiunta risente molto del modello spartano. Sibari viene assediata e distrutta dopo un assedio di 70 giorni. La città, con una popolazione di 300.000 persone è vinta dalla più piccola, ma moralmente e materialmente

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più sana, Crotone. Il grande successo e incremento territoriale ottenuto con la vittoria si ripercuote negativamente su Pitagora e i suoi: alla tesi degli estremisti, di tendenza oligarchica o popolare, della necessità di distribuire le terre strappate ai Sibariti, si contrappone la tesi pitagorica di una gestione comunitaria della terra (‘terra indivisa’). Apparentemente Pitagora aveva dalla sua parte la città: ma il sostegno non doveva essere né convinto né efficace, poiché la sede di Pitagora e dei suoi, il synhédrion, viene data alle fiamme, e Pitagora è costretto alla fuga a Metaponto, dove morirà.

- Secondo Tucidide, in Sicilia i tiranni epì pleîston echóresan dynámeos, “si spensero al massimo della potenza”, espandendo i propri territori, diversamente da quello che occorreva nella madrepatria, dove i tiranni tendevano ad assicurare a sé e alla propria famiglia soltanto il dominio della propria città: le tirannidi in Sicilia invece si rivelano come la forma di governo più adatta alle prospettive di un incremento territoriale di alcune città. Così, Cleandro governa tirannica Gela per 7 anni (505-491) e poi per altri 7 anni gli succede il fratello Ippocrate (498-491), che cerca di costituire, a danno dei Greci e dei Siculi, un dominio territoriale. La sua politica, con sensibili varianti, è proseguita da Gelone, capo della cavalleria, della stirpe dei Dinomenidi – un aristocratico dunque, con esperienza e potere militare. Nelle tirannidi siceliote di V secolo i progetti espansionistici e le prospettive di ordine territoriale e militare prevalgono su eventuali scelte sociali antiaristocratiche: questo è evidente dagli sviluppi successivi e dal rapporto tutto positivo di Gelone con i proprietari terrieri.

- Quando il modello espansionistico viene assunto anche dall’agrigentino Terone, in un’area molto vicina a quella del dominio cartaginese, si capisce la reazione di Cartagine: questa volta l’attivismo cartaginese in Sicilia appare già in larga misura come una risposta all’atteggiamento ormai veramente nuovo dei Greci verso il territorio. La nuova politica trovava espressione anche in alleanze che, sebbene non fondavano diverse unità statali, tuttavia costituivano nuove forme di coesione territoriale, e che rappresentavano una possibile minaccia per gli occupanti della Sicilia: così Terone diede in moglie a Gelone la figlia Damarete, mentre sposava la figlia di Polizalo, il più giovane fratello di Gelone.

- Il movimento unitario dei Greci di Sicilia non poteva lasciare indifferente Cartagine: perciò quando Terillo, tiranno di Imera, cacciato da Terone, si rivolse per aiuto ai Punici, questi intervennero con un esercito di cittadini cartaginesi, di sudditi libici e di mercenari, trovando come alleati Reggio e la stessa Selinunte. L’esercito punico mosse all’assedio di Imera, controllata ormai da Terone; l’intervento di Gelone sotto le mura della città significò lo scontro, e produsse l’annientamento dei Cartaginesi, avvenuto secondo la tradizione nello stesso giorno della battaglia di Salamina (estate del 480). Ai Cartaginesi fu concessa la pace, contro il pagamento di 2000 talenti; Reggio e Selinunte dovettero obbligarsi a seguire Gelone in guerra. Questi eventi danno la misura della gradualità che Gelone, pur interessato a un’espansione territoriale, impose però a questo processo.

- Morto Gelone nel 478 (due anni, dunque, dopo il trionfo di Imera, quando ormai era tiranno non solo di Gela, ma anche di Siracusa), essendo il suo figlio troppo piccolo, gli successe il fratello Ierone. Con Ierone si accentuano gli aspetti personali del potere: intorno a lui si costituisce una vera corte, a cui partecipano i più grandi poeti greci come Simonide, Pindaro, Eschilo e Senofane; la spinta espansionistica di Gelone viene ripresa, con la caratteristica gradualità ed eterogeneità delle soluzioni, a seconda dei territori in questione e della loro distanza da Siracusa. Come già Gelone, Ierone osteggia le città calcidesi (Gela era

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colonia rodo-cretese): assoggetta Catania, ne trasferisce gli abitanti a Leontini, mentre ne sostituisce la popolazione con nuovi cittadini, ridenominandola Etna (dopo la morte di Ierone, 467/6, gli antichi abitanti torneranno a Catania, mentre gli Etnei dovranno migrare all’interno fondando una nuova città chiamata ancora Etna) – l’intento era concentrare l’elemento calcidese a Leontini, più vicina a Siracusa e perciò più facilmente controllabile.

- Il fenomeno storico della tirannide di Sicilia non si caratterizza solo per le spinte all’espansione territoriale e per i trasferimenti di popolazione, ma anche per l’insediamento in Sicilia di mercenari di varia origine, che costituiscono una caratteristica della tirannide dei Dinomenidi, e un problema dopo l’abbattimento e la cacciata dell’ultimo di essi, Trasibulo (465 a.C.). Gelone aveva insediato a Siracusa più di 10.000 mercenari – alla fine della tirannide ne restavano più di 7.000. Sotto Ierone Siracusa appariva come una caserma: mercenari in città; una flotta da guerra nell’arsenale; e per di più, con Ierone, l’installazione nella città di un regime poliziesco. La tirannide perde in popolarità anche per effetto dei contrasti nella famiglia dei tiranni (riprova dell’accentuarsi dei caratteri personalistici del regime): conflitto tra Ierone e Polizalo, che, cacciato da Gela, si rifugia presso Terone di Agrigento; dopo la morte di Terone (472) scoppia la guerra ad Agrigento tra il figlio e successore di Terone, Trasideo, e lo stesso Ierone, il quale (Ierone) conseguì su di lui la vittoria, a costo di gravi perdite. Dopo la morte di Ierone nuove discordie minarono la tirannide siracusana: a Trasibulo, succeduto al fratello, si opponeva un partito di seguaci del figlio ormai adulto di Gelone. Siracusa insorse contro il tiranno che, dopo solo 11 mesi di governo, battuto per mare e per terra dagli insorti, dové lasciare la città, per trasferirsi a Locri (in buoni rapporti con Siracusa tradizionalmente e, in particolare, nel periodo dei Dinomenidi).

Note integrativea) La rivolta ionica- Come tutte le rivolte fallite, quella della Ionia contro la Persia ha avuto nella letteratura

storica giudici severi, a cominciare da Erodoto, che ne ha ricavato, o almeno visto confermata, la sua convinzione del velleitarismo degli Ioni; pure la personalità di Aristagora appare la più esposta a una critica demolitrice. Riguardo il coordinamento della rivolta, la coesione dei rivoltosi e la chiarezza sui fini da raggiungere, la ribellione mostrava gravi carenze: lo dimostra la profonda disparità di opinioni fra i più illustri Greci della stessa Ionia, o fra gli stessi Milesii – Ecateo ad esempio era palesemente contrario alla rivolta.

- È in discussione anche il tema della responsabilità, rispettivamente di Greci e di Persiani, nello scoppio dei conflitti che seguirono, tra 492 e 479, alla repressione della rivolta. Che la Persia ambisse ineluttabilmente all’annessione della Grecia è tesi giustamente contestata, anche se alcune conquiste dei Persiani, in effetti, pregiudicavano il traffico commerciale dei Greci per via marittima. Altro comunque è il problema dell’aggressività dei Persiani verso il mondo greco in generale: è chiaro, dalla disponibilità all’emigrazione anche di uomini (come Ecateo) non favorevoli al conflitto con la Persia, che il dominio persiano sui Greci di Ionia, impiantatosi dopo la caduta del regno di Lidia, doveva apparire sempre più intollerabile.

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b) Aspetti della lirica del tardo arcaismo- Il confronto fra democrazia e oligarchia durò per tutto il V secolo, e si risolse nella guerra

del Peloponneso. Nella prima metà del V secolo le aristocrazie greche dovevano sentirsi certo minacciate, ma non necessariamente dovevano ritenere persa la partita. Per tutti questi aspetti importanza fondamentale riveste l’opera di Pindaro (520-445). Pindaro sembra esprimere il sentimento di un’aristocrazia che, pur consapevole delle sue difficoltà e delle novità che la premono da ogni parte, non crede tuttavia ancora esauriti né i suoi compiti né, in particolare, il suo mondo di valori; sa naturalmente di dover compiere adattamenti e adottare cautele, ma non si dà ancora per vinta. Pindaro, d’altra parte, rappresenta un caso di estrema consapevolezza dei suoi doveri, come anche dei suoi diritti verso la committenza (e i suoi diritti risiedono innanzi tutto nella ricompensa che egli si attende). Egli è il cantore professionale di miti e di virtù che assumono il valore di un grande referente e indice storico sui destinatari delle sue odi. Sono conservati per intero gli epinici, per le vittorie nei grandi agoni panellenici; i personaggi onorati appartengono alle aristocrazie di Egina, di Beozia, di Corinto, di Rodi, di Cirene, di Tessaglia, di Magna Grecia, ma in gran parte sono gli esponenti delle potenti e ricche tirannidi di Sicilia, dei Dinomenidi a Siracusa e degli Emmenidi ad Agrigento, il cui mondo di valori è del resto mutuato da quello delle aristocrazie arcaiche. Pindaro può ben rappresentare, complessivamente, la cultura e l’etica aristocratica; dai suoi versi non traspare un sentimento di irrimediabile sconfitta. Gli non conosce gli scoramenti dell’elegiaco Teognide di Megara, che registrava con assai più amarezza l’emergere di nuovi ceti nella sua città. La difesa, dunque, dei valori e dei miti della variegata aristocrazia greca, quella greca centro-occidentale, che va dalla Grecia centrale al Peloponneso dorico alla grecità d’Occidente. Che in questo mondo di miti abbia un gran ruolo Eracle non sorprende; e nemmeno che lo pervadano l’etica del santuario delfico, che è l’asse culturale portante di tutto il mondo pindarico nei termini geografici sopra accennati.

c) Gli inizi della storiografia greca- È innegabile che quei processi che in àmbito greco condussero alla nascita della storiografia

siano stati nella Ionia d’Asia più intensi che altrove. Dei dodici archaîoi syngrapheîs, “antichi storici”, fioriti prima della guerra del Peloponneso, elencati da Dionisio d’Alicarnasso, ben nove provengono da città dell’Asia minore o isole vicine, due sono nativi delle Cicladi, e solo uno, Acusilao di Argo, è originario di una città (dorica) della penisola greca. All’ambiente ionico appartiene Ecateo; di una città prima dorica, ma poi ionizzata, dell’Asia Minore, Alicarnasso, è nativo Erodoto, il pater historiae della celebre definizione ciceroniana. Comunque, una caratterizzazione della storiografia greca come un prodotto esclusivo della cultura ionica va evitata.

- Con il termine ‘logografi’ sono frequentemente indicati, nella letteratura moderna, gli autori di storie e di cronache fioriti anteriormente a Tucidide, gli storici cioè del VI e V secolo a.C., fino a Ellanico di Mitilene, con esclusione di Erodoto. È stato più volte osservato che in Tucidide logográphoi indica semplicemente i ‘prosatori’ in quanto distinti dai poeti, e fra essi Tucidide sembra voler comprendere anche Erodoto. ‘Logografo’ non sta dunque a caratterizzare uno scrittore, che faccia uso di una tecnica particolare o che pratichi un ‘genere letterario’ realmente distinto da quella che potremmo chiamare la ‘grande

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storiografia’ del V secolo a.C., la storiografia ‘non locale’ (altro invece è il significato di logográphos nel IV secolo come ‘autore di discorsi giudiziari’).

- La relativa genericità del termine ‘logografo’ è comunque significativa della difficoltà di definire l’oggetto della storiografia in quanto tale. Viste nel loro insieme, le opere dei logografi (da Ecateo di Mileto, Acusilao di Argo, Ferecide di Atene a Carone di Lampsaco, Xanto di Lidia, Ellanico di Lesbo) hanno per argomento genealogie e miti, storie di popoli e storie di fondazioni (ktíseis) di città, cronache e schemi cronografici. In definitiva, per ciò che attiene alla vastità dell’oggetto narrato, anche Erodoto potrebbe essere considerato un logografo, proprio come sembra considerarlo Tucidide. È vero tuttavia che Erodoto si differenzia dagli altri storici pretucididei, e innazi tutto da Ecateo, per il diverso modo in cui egli si pone e risolve il problema della ricerca del materiale della narrazione: mentre i suoi predecessori paiono limitarsi a raccogliere materiale tràdito, quasi passivamente, esercitando nel migliore dei casi uno spirito critico verso questo materiale, Erodoto ne trova, ne ‘inventa’ di nuovo, attraverso un’opera di attiva ricerca, di tradizioni soprattutto orali e di curiosità da vedere e riferire svolta anche in paesi lontani, dove la sua passione per i viaggi lo portò.

- Di che tipo di materiale facevano uso i ‘logografi’? Si trattava soprattutto di tradizioni orali o di testi scritti? La nascita della storiografia è certo un momento della storia della cultura scritta. Il primo verbo usato da Ecateo nelle sue Genealogie è grápho: “queste cose scrivo, come a me sembrano vere, poiché i lógoi dei Greci sono molti e risibili”; il verbo è, in certa misura, in antitesi con la parola lógoi, “dicorsi, racconti”, termine ambivalente, che indica innanzitutto i racconti orali, ma che per sé potrebbe anche indicare il contenuto narrativo di testi scritti. Ciò che noi cogliamo in primo luogo nei frammenti conservati dei ‘logografi’ è la rielaborazione di tradizioni mitiche, genealogiche, etnografiche, che in larga parte, anche se non esclusivamente, erano mediate dalla tradizione epica e poetica in genere; il pieno affermarsi della scrittura comunque appartiene solo ad epoca più tarda, cioè alla fine del V secolo a.C.

- Le opere di Erodoto e di Tucidide, pur così radicalmente diverse fra di loro per il metodo storiografico e i criteri di scelta del contenuto, presentano almeno un punto in comune, cioè entrambe sono il risultato del reperimento di un materiale in larga misura nuovo, cioè non depositato precedentemente in cronache o tradizioni locali in qualche modo codificate; tramite è la tradizione orale, in Erodoto anche quella di origine e provenienza remota, in Tucidide quella più direttamente verificabile, e relativa in prevalenza a fatti contemporanei. La preferenza data da entrambi gli storici alla tradizione orale comporta nell’uno e nell’altro uno scarso gusto per il reperimento del documento, della pezza scritta d’appoggio, su cui si fonda invece per lo più il metodo storiografico moderno. Del resto, una storiografia come quella erodotea ispirata ai criteri della historíe, la ‘ricerca critica’, è programmaticamente disancorata da tradizioni locali scritte, da cronache locali, dalla documentazione d’archivio. La ‘grande storiografia’ greca, la storiografia non locale, quella che potremmo definire alla meglio come la storiografia ‘dei grandi conflitti’ (anche se questa definizione, proprio per Erodoto, va integrata e modificata), farà scuola su questo punto. La cultura greca esprimerà il gusto per il documento e per la ricerca d’archivio solo nel IV secolo, soprattutto per effetto delle ricerche svolte in ambiente peripatetico, e poi nei grandi centri di cultura ed erudizione dell’ellenismo; ma ancora Polibio, il più insigne storico di età ellenistica, criticherà un Timeo per la scissione tra interesse per l’informazione documentaria ed

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esperienza militare e visione diretta dei luoghi da descrivere (due momenti che nella metodologia storiografica di Polibio devono precedere lo studio dei documenti). Infatti, lo scarso interesse dei grandi storici del V secolo per la documentazione scritta è l’altra faccia della loro esigenza di esperienza diretta delle cose narrate: Erodoto, che pur tiene conto delle tradizioni orali, considera però tanto più valida la loro testimonianza quanto più fondata su un’esperienza diretta.

d) Guerre Persiane e sentimento nazionale- Si parla spesso delle guerre persiane come fattore decisivo nella formazione del sentimento

di unità nazionale presso i Greci; queste proposizioni sono frutto però di indebiti trasferimenti di nozioni moderne, come gli stessi avvenimenti successive della storia greca confermano: l’esplosione, poco dopo, del conflitto tra Sparta e Atene, e che coinvolse tutti i Greci; l’uso da parte di Sparta dell’aiuto persiano contro Atene nella guerra del Peloponneso; l’influenza della Persia nelle vicende greche per ancora vari decenni del IV secolo. Certo, di volta in volta alcuni Greci combatterono contro i Persiani, ma mai tutti i Greci contro i Persiani.

- Vero è che le guerre persiane furono un eroico combattimento: in favore della libertà greca, che in quegli anni era minacciata da una politica persiana sempre arrogante e allora divenuta invadente. Le condizioni per la coscienza di un Hellenikón, dell’ellenicità, però, si erano date già molto prima, come somma globale della coscienza di parentele culturali: si pensi al periodo della colonizzazione e della nascita del concetto di Megále Hellás; al concepimento del Catalogo delle navi; al periodo stesso delle tirannidi (e la gara, quasi panellenica, di pretendenti alla mano di Agariste); ai giochi panellenici e all’importanze per tutti i Greci di alcuni santuari, particolarmente quello di Delfi. Sono tutti indizi dell’esistenza di una ‘coscienza ellenica’, che le guerre persiane ribadirono (e non senza eccezioni e spaccature), ma non crearono per la prima volta né in forme radicalmente nuove.

[Democrazia ad Atene – dal Corso Online di Yale]

- Eurymedon Battle (469): great victory on sea and land over the persians, by general Cimon- Rebellion of Thasos (465): quarrels about gold and silver mines on the mainland opposite

Thasos, both Athens and Thasos claimed those mines. The Athenians had stablished a colony in that region, called Ennea Hodoi (nine roads), which would later become Amphipolis. Thasos rebelled, and the war against them took two years. At the end the Athenians took down Thasos’ walls, took control of theirs ships and mines, and required a tribute in cash to the League every year (conditions applied to subject states, like Naxos for example). This was the first time Athenians used the force of the league to achieve advantages only for themselves, i.e. they were using the power of the League for their own purposes.

- After the end of the Persian Wars, which had seen Themistocles as the great leader, there is a change in the leadership of the Athenian fleet: amazingly enough Themistocles wouldn’t be the Commander of the Delian League – instead the leadership was taken over by the relatively young son of Miltiades, Cimon. Cimon was very successful on his raids in the Persian territory, as the Eurymedon Battle illustrates. In those years Cimon was very popular among the people and he becomes the dominant politician in Athens from 479 until 462.

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The Athenian democracy had evolved to this new situation in which the generals were the leading figures of politics; the generals had to be elected every single year, and this shows how popular Cimon had to be in order to be elected every single year for a period of time of 17 years. Cimon was filo-spartan and supported a foreign policy in which Athens and Sparta should be allies, as in the Persian Wars. Aristotle calls the political period of time in which Cimon was the leading figure ‘Areopagite Constitution’, because the council of the Areopagus regained effectively a lot of influence in Athens, although no laws had been changed.

- Cimon was the leader of the expedition against Thasos. The enemies of Cimon took advantage of the the discontet the rebellion was causing to launch an attack on Cimon. The main opponent of Cimon was Ephialtes, followed by his deputy, Pericles. Ephialtes supported changes in favour of the poor people, specially because in those years the power of the fleet was based upon the poors, and he was also very anti-spartan. Pericles accused Cimon of being bribed by the king of Macedonia in order no to conquer Macedonia, which probably was a pretext, but Pericles loses and Cimon is assolved.

- Probably in the year 464, a terrible earthquake hit the Peloponneso and disrupted life in Spartan territory, thereby incouraging a great helot rebellion in Messene. Sparta sent out to their allies of the Greek league a request of help. There was a great debate in Athens on whether Athens should answer to Sparta’s request, and Cimon proposed that Athens should send a very big army to help the Spartans against the helots (4000 hoplits), arguing that Athens should not abbandon their former allies. Athens sends their army, but the Spartans, after a while, ask the Athenian force to leave the Peloponneso because they didn’t need their help anymore. Athens was insulted, because none of the other allies was asked to go away. According to Thucydides, the Spartans were afraid that the Athenians would join the helots in order to take down the aristocracy of Sparta. Because of this, having supported the expedition in the first place, Cimon was ostracized in 461 a.C.

- This put an end to a whole period and brought about a new devolopment towards a fuller democracy. First, the Athenians completely renounced to their former alliance with Sparta in the Greek League; then, they made an alliance with Argos, the great enemy of Sparta in the Peloponnese, and with the Tessalians. Shortly after, Ephialtes was murdered (the only murder we know of in the entire history of Athenian democracy). In the following years there would be a great change in Athenian democracy pari passu with the ascension of Pericle as the new leading figure.

- The access to the political process was granted to all citizens (adult males of native parentage): the citizens had full and active participation in every decision of the State, without regard to the wealth or the class of the citizen. In the 450’s, under Pericles’ leadership, the Athenian assembly passed a series of laws that gave direct and ultimate power to the citizens in the assembly and in the popular law courts, where the people made all decisions by a simple majority vote; it provided for the selection of most public officers by allotment, for the direct election of a very special few and for short terms of office and close control over all public officials.

- The Legislative: at the heart of what we would call the legislative power there was the assembly, the ekklesía: it was open to all male citizens of Athens (during Pericles’ lifetime that would have been probably 40 thousand, maybe 50 thousand citizens). Most Athenians lived very far from the city, so attendance required a very long walk to town (very few

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owned horses) – so the number of men that actually took part frequently on the assembly was about 6 thousand (that was the minimum quorum for some actions to take place). Each pritany had 4 fixed meetings of the ekklesía (so, something like 4 meetings a month), and further were held if it was necessary. The topics were: approval or disapproval of treaties; making declarations of war; assigning generals to campaigns; deciding which forces and resources they should command; confirming officialis or removing them from offices; deciding whether or not to hold an ostracism; questions concerning religions and inheritance; and pretty much anything that someone would like to bring up as a topic to be discussed. The citizens would debate and then make their decisions by raising their hands in a vote determined by a simple majority. Some decisions would be made by the Council of 400, which was chosen by lot from all Athenians citizens – that is because some decisions would be more efficiently made by a smaller counsil; however, the main function of the Council was to prepare legislation for consideration by the assembly: the Council was the serve of the Assembly.

- The Executive: what we would call the Executive was severly limited in extent, in discretion and power. There was no public official responsible for the management of the state in general, for formulating or proposing a general policy (as our President). The chief elected officialis were 10 generals voted for a one-year term: they were basically military officials that commanded the army and the navy; they could be re-elected without limit (and some, indeed, like Cimon and Pericles, were elected almost every year) – the political power such men exercized was limited to their personal ability to persuade their fellow citizens in the assembly to follow their advices; they had no special political or civil authority, and except on military campaigns, they could not give orders to anybody. The leaders of the campaigns, and also the number of the force they would lead, were determined by vote on the assembly. Only a few public offices were chosen by election: the military officials, the naval architects and some of the treasurers and the superintendent of the city water supply; all other officials were chosen by lot – allotment was the characteristic device by which the Athenians chose their officials; their office lasted for one-year, and one was allowed to hold the same office only once in his lifetime (except for the Council of 400, where a man could serve twice in his life). Generals, however, could be re-elected forever, mainly because issues of skill and ability such as war tatics were vital in such an office (anyway, as skillful as a general could be, he had to be re-elected again every single year in order to keep his office).

- The Judicial: the Athenian judicial system was based on a pannel of 6 thousand juries, who inlisted to serve in the courts each year; on any given day the juries would show up to accept an assignment to a specific court or to a specific case; the usual size of a jury seems to have been of 501 men (the number though could vary a lot, depending on the importance of the case to be judged). The Athenians devolped a very complicated system (described by Aristotle in his Constitution of the Athenians) which made pretty much impossible for anyone to know which people would be in the jury, making thereby bribery pratically impossible. As far as the legal procedure is concerned, there are many differences between Athenian law system and ours: there weren’t any public prosecutors or lawyers – the complaints were registered and argued by private citizens themselves (people could hire a logográphos to help them out with the discourse to be said in the court, but it would still be them those who would declare it the day of the trial). Besides, there was no judge: the jury was everything – the Athenian democracy, in fact, put very little faith in experts: this was

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one of the most important democratic aspects of the Constitution: the assumption that all citizens had enough sense to make important judgements. No trial could last more than a single day – there were officers who controlled with a water clock the amount of time each one could use. Then, the jury would vote to decide whether the defendant was guilty or not. If the majority decided he was guilty, both the plaintiff and the defendant would propose each one a penalty. The jury then had to vote for one of them – he could not propose a third one. This process of course led both sides to suggest moderate penalties. In order to prevent the proliferation of the cases, the plaintiff’s complaint was required to reach a certain amount of votes; if it didn’t, the complainant had to pay a heavy fine.

- Women in Athens: Women were excluded from most aspects of public life: they could not vote; they could not take part in the political assemblies; they could not hold public offices nor take any direct part in politics. In the private aspects of life, women were always under the control of a male guardian – a father at first; a husband later, or, failing these, an appropriate male relative designated by the law. Women married young – usually between the age of 12 and 18; husbands, at the other hand, would be usually in their 30’s. Marriages were arranged and women probably had no choice of their husbands. The main function and responsability of a respectable athenian woman was to produce male heirs for the household of her husband; women would stay home, to raise the children, cook, weave, and oversee the management of the household. Women though would participate in public religious festivals, playing very important roles.

- Slavery in Athens: The main source of slaves in Athens were war captives (or pirate captives), who were sold by slave traders. Thereby, most slaves were foreigners (although greeks did enslave other greeks sometimes). Slaves were mainly employed in agriculture, working side by side with their owners – small proprietaries though probably couldn’t afford to maintain even one slave; upper classes, on the other hand, had larger farmers, worked probably by a few slaves. Slaves were also used in the manufactory ‘industry’, working as craftsman alongside their masters. A significant proportion of slaves, though, were domestic servants. People would frequently free their slaves on their own death.

[Tornando al Musti]

5. Il cinquantennio dall’età di Temistocle all’età di Pericle

1. Tucidide e la storia della pentecontaetía- Per pentecontaetía i moderni intendono il periodo di circa 50 anni che intercorre tra la fine

delle guerre persiane (con la conseguente formazione della Lega navale delio-attica) e l’inizio della guerra del Peloponneso. L’idea di considerare unitariamente quegli anni ricchi di eventi diversi e complicati, che investono teatri storici disparati, configurabili in fasi realmente distinte tra loro, è di Tucidide.

- Per Tucidide il periodo è un’ampia premessa alla narrazione della guerra del Peloponneso, la lunga gestazione dello scontro tra Sparta e Atene. Il modo in cui Tucidide rappresenta le vicende e le responsabilità storiche del cinquantennio di preparazione alla guerra del Peloponneso è alquanto chiaro – in esso si mescolano due nozioni fondamentali: 1) l’una è quella secondo cui gli Stati tendono a crescere (auxánesthai) come esseri organici – se perciò in un determinato spazio storico, geografico, politico coesistono e concrescono due

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realtà di questo tipo, è anche una sorta di dato naturale, fisiologico, che esse si scontrino; ed è appunto quello che è inevitabile accada fra Sparta e il mondo peloponnesiaco da un lato, e Atene e il suo impero dall’altro. Con questa concezione naturalistica di fondo, piuttosto fatalistica, si intreccia 2) una concezione, più critica, delle responsabilità di ciascuna di queste realtà: Sparta è la città che psicologicamente si configura come il mondo della conservazione, dell’avversione al nuovo, del timore di ciò che è diverso, distante, in movimento; Atene è la città del coraggio, dell’audacia, dell’iniziativa, dell’intraprendenza che sconfina nel gusto del rischio, dell’avventura, del nuovo e del grande, spesso del troppo grande.

- Sulla responsabilità di fondo e primaria di Atene, e della sua crescita imperialistica, nello scoppio della guerra del Peloponneso Tucidide non ha dubbi; ma questo vale appunto per le cause e responsabilità profonde e remote dell’insorgere di quel terribile conflitto che devastò la Grecia per quasi un trentennio; così come egli, però, attribuisce invece la responsabilità immediata, dell’apertura cioè della guerra, ai Peloponnesiaci: la guerra ‘del Peloponneso’ è definibile così perché l’aprirono (nel senso dell’avvio delle ostilità) i Peloponnesiaci, e perché così furono essi a “portare guerra” contro Atene e i suoi alleati.

- La psicologia in Tucidide è un segno – la rappresentazione psicologica quindi un linguaggio storiografico: l’opposizione paura-coraggio, che riassume l’opposizione Sparta-Atene, è appunto una rappresentazione simbolica, che tutte le altre contiene e riassume (politiche, sociali, economiche ecc.) – dovendo dare un segno complessivo a quegli eventi e a quei comportamenti, Tucidide ricorre a rappresentazioni psicologiche, che sono da prendere come grandi metafore storiche.

- Il periodo della pentecontaetía in Tucidide è tutto all’insegna di una crescita (aúxesis) della potenza di Atene. La ricostruzione delle mura cittadine è realizzata da Temistocle a dispetto delle diffidenze di Sparta e dei suoi interessati tentativi di dissuasione. Ma Atene rivendica ormai pienamente a sé la consapevolezza, perciò la tutela, dei suoi interessi, e così avvia anche la fortificazione del Pireo. Agli anni di Pericle è riservata invece la costruzione delle Lunghe Mura, dalla città al Pireo e al Falero.

2. Fondazione della Lega delio-attica (477 a.C.)- Il momento decisivo nella presa di coscienza da parte di Atene del nuovo ruolo della città

all’interno del mondo greco è nell’assunzione dell’egemonia della Lega ellenica. Vi contribuiscono all’inizio fondamentalmente gli Ioni, ma non tutti a condizioni identiche: i più pagheranno un tributo in denaro (phóros), che in totale ammonta a 460 talenti annui; con navi contribuiscono città insulari (Lesbo, Chio, Samo), che hanno la funzione di sentinelle sul fianco orientale dell’impero egeo che sta nascendo.

- Sede del tesoro e delle riunioni del sinedrio federale sarà Delo, l’isola tradizionalmente teatro delle grandi panegýreis (‘assemblee’) ioniche – è una località abbastanza distinta da Atene, perché la scelta non sia sentita come una mortificazione della dignità degli altri Ioni; ma abbastanza vicina e tradizionalmente in stretto rapporto con la città egemone, perché resti soddisfatta l’esigenza di Atene di esplicare il suo ruolo di città guida.

- La finalità dichiarata, e di fatto a lungo perseguita sotto la spinta di Cimone, è quella della continuazione della difesa dai Persiani, e di un regolamento dei rapporti nell’Egeo soddisfacente per i Greci, cioè per la loro sicurezza e i loro interessi. La cerimonia solenne

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del giuramento della Lega, con il contemporaneo affondamento in mare di barre di ferro, sancisce l’impegno di questi Greci di avere sempre “gli stessi amici e gli stessi nemici”.

- Su questo programma ad Atene non si vedono vere e proprie contrapposizioni; le voci discordi sembrano poche e isolate. Ne conosciamo certamente una, quella di Temistocle, ormai assai meno interessato a un conflitto con la Persia e ben più sensibile al maturare di un conflitto con Sparta; ma egli fu ostracizzato nel 471 a.C., in un momento di predominio politico di uomini come Cimone (sul piano strategico) e come Aristide (sul piano politico e diplomatico), nonché di generale prestigio dell’Areopago, cioè, una politica più incline alla conservazione, che in quegli anni per Atene significava il predominio sul mare.

3. Temistocle e Pausania il reggente- L’ostracismo porterà Temistocle dapprima nel Peloponneso, naturalmente in città ostili a

Sparta, e poi in Epiro, in Macedonia e finalmente (dopo il 465, anno della morte di Serse) presso il re persiano Artaserse, che gli assegnerà dei possedimenti in Asia Minore occidentale, dove l’eroe di Salamina morirà, forse suicida, poco dopo. Non è facile determinare il motivo dell’ostracismo – nella tradizione domina, più accreditato degli altri, il motivo del medismo.

- Sospetto e accusa di medismo gravano anche sull’altro grande protagonista delle guerre persiane, il reggente spartano Pausania. Rientrato con iniziativa personale a Bisanzio, Pausania ne fu sloggiato da Cimone; non potendo consolidare il suo dominio nella regione, finì col rientrare a Sparta, dove (circa gli anni 471-469) fu inquisito, e accusato di tentare con gli iloti una sovversione contro lo stato spartano e in particolare contro l’eforato. Pausania si rifugia allora nel tempo d’Atena Calcieco, dove viene tenuto chiuso, e da dove è fatto uscire solo all’avvicinarsi della morte, sopravvenuta per inedia.

- Il destino politico e umano di Temistocle e di Pausania conserva parecchi aspetti oscuri; forse l’unico dato veramente evidente è l’isolamento di ciascuno dei due personaggi nelle rispettive póleis: una città di democrazia areopagitica, quale è tra il 478 e il 461 Atene, rifiuta l’innovatore Temistocle, che non si adatta ai vincoli che la pólis costituisce e impone come comunità; altrettanto vale e si verifica, in una forma più marcata e traumatica, nei confronti di Pausania in una città come Sparta, ormai sotto il forte controllo degli efori, di una magistratura cioè che, dall’eforato di Chilone e poi dal regno di Cleomene I, ha rafforzato il suo potere sia verso i re sia verso la stessa apélla e il corpo civico spartano in generale. Custode delle leggi l’Areopago ad Atene, custodi della costituzione a Sparta gli efori: è contro questo più marcato spirito della pólis che si vanno a scontrare le impazienze e le imprudenze dei vincitori di Salamina e di Platea.

4. Democrazia nel Peloponneso- Molto incerti sono i fondamenti delle affermazioni riguardo all’impegno esplicato da

Temistocle nell’alimentare, diffondere e sostenere il cosiddetto ‘moto democratico’ nel Peloponneso, cioè le trasformazioni politiche che nella prima metà del V secolo si possono ammettere in città del Peloponneso diverse da Sparta e magari ad essa ostili: ad Argo, in Elide, in Arcadia.

- Appare invero molto difficile parlare di una pura e semplice esportazione del regime democratico da Atene in altri Stati. Nello stesso àmbito della lega navale il processo non sembra essere stato né così precoce né così automatico (come dimostrano i casi di Mileto e

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di Samo). In alcuni casi poi, come quello dell’Arcadia, non siamo neanche in grado di affermare che nel V secoli vi fosse una forma politica democratica generalizzata (Mantinea sembra rappresentare un caso di democrazia, comunque moderata, ma solo nel 421 a.C.)

- Ad Argo ed Elide, non è facile dare la preminenza all’importazione di un modello, rispetto allo sviluppo, in larga misura autonomo, di condizioni interne. Ad Argo dopo la sconfitta di Sepeia del 494 ad opera degli Spartani si instaura provvisoriamente un governo di servi, e i perieci sono ammessi nella cittadinanza – si ha quindi un’evoluzione verso forme democratiche che si realizza attraverso un assorbimento nelle strutture politiche di quella popolazione rurale, che invece a Sparta permane stabile nella forma e condizione dell’ilotia. Naturalmente a questi sviluppi democratici di Argo si accompagna l’attenzione, la benevolenza e la simpatia di Atene, che sboccherà nel trattato di alleanza del 462 circa. La stessa letteratura ateniese sembra registrare l’evoluzione politica argiva: nelle Supplici di Eschilo (463-461?), che contengono una precoce attestazione della parola demokratía (anche se in forma di perifrasi), è rappresentata un’assemblea di cittadini ad Argo, presieduta dal re Pelasgo, che decide, all’unanimità, e con alzata di mano (la “dominante mano del popolo”, démou kratoûsa cheír), di concedere asilo alle Danaidi in fuga – Eschilo, mentre fa spazio a una procedura tipica della sua città, allude accortamente al regime al suo tempo vigente ad Argo: forma democratica, con un vertice monarchico privo di particolari poteri.

- In Elide gli sviluppi verso la forma democratica, che si compiono nel V secolo, sono il risultato storico, certo anch’esso probabilmente favorito dall’affermazione della democrazia ad Atene, della condizione e organizzazione del territorio: una campagna libera popolata da centri dotati di forte autonomia, che insieme producono e promuovono un centro urbano, sede delle decisioni politiche (Elide).

5. Cimone o il lealismo dei conservatori- Ad Atene è il momento dell’ascesa di Cimone, il figlio di Milziade – Cimone è infatti il

generale delle prime operazioni della Lega navale. L’azione militare della Lega comincia nell’area egea settentrionale, liberando dalla residua presenza persiana Eione (476); non è certo invece se egli sia il generale che asservì l’alleata Nasso (contro tutte le regole vigenti) circa il 471 a.C. L’asservimento di Nasso rappresenta, nel resoconto di Tucidide della pentecontaetía, un salto di qualità, in senso deteriore, nel rapporto fra gli Ateniesi e gli alleati, questi ultimi sempre più in balia degli umori della città egemone, a sua volta sempre più addestrata ed egemone sul piano militare.

- L’acme della carriera di Cimone è senza dubbio nella battaglia dell’Eurimedonte del 470/69: una duplice battaglia, navale e terrestre, che ha visto battuti i persiani, indeboliti ancora di più nella loro influenza in Asia minore. L’acclamazione degli strateghi, incluso Cimone, a giudici delle Dionisie del 468 (il concorso che diede la vittoria a Sofocle contro il vecchio Eschilo), in seguito a una non prevista rissa fra spettatori nel teatro, attesta l’alto prestigio di Cimone in quegli anni.

- Ben noto anche il ruolo di Cimone nella spedizione ateniese contro Taso, un’isola prospiciente le coste della Tracia e l’area mineraria del Pangeo: qui Taso possedeva e sfruttava miniere d’oro e aveva allestito degli emporii. Nel 465 Taso defezione dalla Lega, e da quell’anno al 463 si svolge il lungo assedio dell’isola, di cui con fatica si doma la ribellione. La miniera e i possessi del continente passano nelle mani degli Ateniesi, che nel

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frattempo (465) avevano anche tentato di colonizzare Ennéa Hodoí sul sito della futura Anfipoli. La guerra di Taso rappresenta, in maniera e con dimensioni ancor più evidenti dell’episodio di Nasso, un salto di qualità nella politica ateniese verso gli alleati: è chiaro che ormai Atene interferisce nello stesso assetto economico delle città alleate.

- In questo periodo però esiste già un’opposizione ad Atene nei confronti di Cimone. I gruppi radicali democratici ormai emergenti, capeggiati da Efialte e Pericle, intentarono un processo contro Cimone, che fu addirittura vinto, benché rimasto senza seguito di condanna: Cimone fu denunciato per il sospetto che fosse stato corrotto da Alessandro I il Macedone, al fine di evitare una spedizione ateniese, che avrebbe dovuto punire Alessandro per aver aizzato i Tasii alla ribellione e mostrato un troppo vivo interesse a quell’area mineraria del Pangeo a cui ora rivolgeva le sue mire Atene.

- Ma Cimone doveva ancora commettere il suo maggiore errore politico: nel 462, Cimone impegnò Atene in una misura imprudentemente eccessiva al fianco degli Spartani, che avevano richiesto l’aiuto di Atene e di altre città nella guerra che conducevano contro Messenii e iloti ribelli, la III guerra messenica, detta anche “del terremoto” (464-455 circa). Il terremoto che distrusse Sparta e produsse molte vittime fra gli Spartiati avvenne durante la guerra di Taso. Dovette trattarsi di una lunga sequenza di eventi sismici, che fu lì per mettere in ginocchio Sparta: ne approfittarono per ribellarsi dapprima gli iloti della Laconia e soprattutto della Messenia e un paio di comunità perieciche dell’area del Taigeto. Presto ne nacque una guerra di rivolta e di resistenza dei Messenii, arroccatisi sull’Itome, nella parte orientale della Messenia (circa 800 m.). L’intervento ateniese, voluto da Cimone, non risultò efficace come sperato; viceversa, esso alimentò negli Spartani il timore di collusioni con gli insorti derivanti da una qualche solidarietà ideologica antiaristocratica. Di qui la brusca decisione di rinvio a casa del contingente ateniese; lo smacco, oltre che una svolta in senso apertamente antispartano della politica estera ateniese (alleanze con Argo, con i Tessali, e anche con Megara, in funzione anticorinzia, perciò antipeloponnesiaca in genere), segnò anche un crollo del prestigio e della credibilità politica di Cimone, che dell’intervento era stato fervido fautore: ne seguì il suo ostracismo (461 a.C.), certamente motivato dal fatto che Cimone aveva fatto pericolosamente prevalere una sua convinzione personale sull’interesse dello Stato – ma l’arma dell’ostracismo veniva ormai chiaramente usata non con un fine corrispondente al senso originario dell’istituto (un’arma contro potenziali figure tiranniche), bensì allo scopo di regolare i conti col partito avverso, nel clima di frontale contrapposizione politica che si va ormai determinando all’interno della democrazia ateniese.

6. Le riforme di Efialte e la conclusione della III guerra messenica- Liquidato Cimone, era ormai facile portare avanti le riforme costituzionali di Efialte e di

Pericle: abolizione dei poteri politici dell’Areopago (cioè la sorveglianza sulla costituzione e forse anche la custodia dei testi delle leggi) e riduzione dei poteri di quel consiglio alla sfera giurisdizionale dei delitti di sangue (omicidi volontari).

- È questo anche il clima in cui maturano i progetti di creazione di una sorta di stato assistenziale, che si doveva realizzare attraverso la remunerazione dei magistrati, dei buleuti e soprattutto degli eliasti, cioè dei giudici delle giurie popolari.

- Nel frattempo, la ribellione messenica era destinata a durare – circa dieci anni: dopo i primi tempi e prima degli ultimi assalti, la guerra si sarà diluita in una serie di scaramucce e di

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piccoli scontri senza effetto. Alla fine, un buon numero di Messenii lasciò il Peloponneso, a patto di non più tornarvi, e fu aiutato dagli Ateniesi a raggiungere e colonizzare Naupatto, sul golfo di Corinto.

7. Pericle uomo di Stato- Pericle, nella storia greca, fu il massimo fautore di quel processo di formazione dello Stato,

cioè del consolidamento di un sistema di funzioni e valori pubblici, che si forma attraverso il separarsi della sfera del pubblico da quella del privato – processo attuato per mezzo di una serie di decisioni e innovazioni politiche significative. La rigorosa distinzione e decantazione tra pubblico e privato appaiono dunque come il segno più caratteristico e l’aspetto storicamente più produttivo delle qualità di statista di Pericle.

- Dal punto di vista della politica estera invece, Pericle appare come un personaggio di più discutibile profilo: il suo periodo di governo ingloba il momento della maggiore espansione della Lega delio-attica, ma anche momenti di grave crisi interna, connessi con le ribellioni di Mileto, dell’Eubea (Calcide ed Eretria), di Samo, e con l’avvio di un conflitto, la guerra del Peloponneso, che doveva produrre la scomparsa dell’impero medesimo: se da un lato la strategia di Pericle, di contenimento e logoramento dell’avversario, ebbe pochissimo tempo per esplicarsi, dato il rapido sopravvenire della morte dell’uomo politico nel 429 nel corso della peste scoppiata ad Atene nell’anno anteriore; dall’altro resta la responsabilità di Pericle di aver voluto o aver fatalisticamente accettato lo scontro globale con Sparta, che non il merito di una conclusione politicamente buona.

8. Pubblico e privato nella democrazia periclea- Il rapporto tra pubblico e privato, come visto da Pericle, si coglie molto bene nell’Epitafio

per i caduti ateniesi riportato da Tucidide: qui il discorso pericleo è fortemente costruito sulla distinzione tra privato e pubblico, distinzione che però Pericle presenta in chiave di un equilibrio, che, va notato, non è un equilibrio statico, ma un equilibrio carico di tensione, che Pericle, cioè lo Stato democratico pericleo, si incarica di comporre.

- Non si può davvero affermare che quest’equilibrio sia realizzato attraverso una totale subordinazione del privato e del privilegio al pubblico: questo non è infatti l’apporto e la caratteristica della democrazia nell’Atene classica – in più luoghi del discorso pericleo si legge invero lo sforzo di garantire il privilegio, al riparo dalla contestazione e dal conflitto sociale. Il privato, l’economico, si presenta insomma, nella costruzione del compromesso pericleo, più bilanciato e coordinato al pubblico che non ad esso vincolato e subordinato. È anche vero però che la democrazia periclea rappresenta, nel campo delle riforme politiche realizzate nella storia dei Greci, una delle esperienze più avanzate in quelle condizioni: tant’è vero che nemmeno la successiva democrazia radicale dei dirigenti politici di estrazione non aristocratica rappresentò qualcosa di radicalmente nuovo sul terreno sociale (Cleone e i suoi successori non chiesero né una ridistribuzione delle terre né un’abolizione dei debiti, tanto per fare degli esempi).

- E tuttavia va detto qualcosa di più, poiché il predominio del politico effettivamente c’è nella pólis del V secolo – ma solo a livello ideologico. Infatti, l’àmbito del privato si configura come il regno dell’individuale (o familiare) e del diverso, e anche della divergenza; così come il pubblico si presenta come il regno dell’uguaglianza e dell’omologia. Due cose distinte e diverse, dunque, in prima istanza: eppure due cose che devono essere messe in

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rapporto e d’accordo fra loro, nella visione periclea. Ed è qui, solo qui, solo a questo punto che appare il famoso ‘predominio del politico’. Infatti, il problema storico che si pone per Pericle è quello di conciliare, di armonizzare; ma poiché il luogo privilegiato dell’accordo, della concordia, dell’omologia è per definizione (di Pericle) quello del politico, per questo il risultato complessivo porterà il segno del politico. In parole povere: le leggi, nello Stato pericleo, consentono di essere ricchi e di arricchirsi; ma sono appunto le leggi che lo consentono.

- Tuttavia, bisogna attenuare l’impressione che il valore del pubblico proprio della democrazia periclea sia storicamente qualcosa di radicalmente nuovo: lo è, in quanto a sua volta ‘liberato’ dal sociale, cioè dalle vecchie distinzioni aristocratiche secondo connessioni familiari e rango economico, e in quanto definito in nuove istituzioni; ma è anche vecchio, perché esso è anche l’estensione e lo sviluppo del vecchio valore ugualitario dell’isótes, e di valori omogenei, prodotti dalle precedenti comunità aristocratiche.

9. Gli inizi di Pericle- Pericle nasce da Santippo, il vincitore della battaglia di Micale del 478, e da Agariste, figlia

di un fratello del legislatore Clistene – per parte di madre, dunque, la discendenza dal ghénos più illustre ad Atene nel VI secolo, gli Alcmeonidi: alle spalle una tradizione che sembra incarnare l’intera storia sociale di Atene. Apparso sulla scena politica come accusatore di Cimone circa il 463 a.C., Pericle avrà avuto allora intorno ai 30 anni. Prima di ciò, sappiamo che è stato corego della rappresentazione dei Persiani di Eschilo (472 a.C.), e allora avrà avuto almeno 20 anni – Pericle si segnalava in questa prima uscita pubblica come corego legando la sua persona alla celebrazione di un tema largamente sentito, quello della guerra contro i Persiani, e destinato ad ispirare, almeno fino agli anni ’60, la politica estera della corrente radicale non meno di quella dei conservatori.

- Quando Cimone, dopo la resa di Taso agli Ateniesi (463 a.C.), mancò di trasferire la guerra sul continente contro Alessandro I di Macedonia e di assicurare ad Atene un più esteso dominio nel distretto aurifero del Pangeo, Pericle gli intentò un processo – l’accusa rimase, ma il tono di Pericle fu nei fatti estremamente moderato e Cimone fu assolto. Il successivo e definitivo colpo non tardò a venire, dopo lo smacco inferto dagli Spartani al contingente ateniese durante la III Guerra Messenica – la gradualità e razionalità dell’agire politico di Pericle non significano affatto assenza di asprezza nel confronto politico: al contrario, se è vero che la democrazia ateniese in generale non presenta aspetti di violenza fisica, appare tuttavia come la ribalta storica su cui si sperimenta ogni altra forma di durezza; e nel momento in cui s’introduce nella scena politica la contrapposizione frontale si avverte con lucidità la presenza dell’opinione pubblica. L’opinione pubblica è un personaggio in qualche modo nuovo della storia, nella misura in cui essa ha trovato canali istituzionali (dall’assemblea al teatro ai vari contesti politici e militari) in cui esprimersi; e di questo ‘nuovo personaggio’ l’ambiente pericleo certamente tiene conto.

- Pericle sposò una donna già imparentata con lui, da cui ebbe due figli, che morirono durante la stessa epidemia di peste in cui trovò la morte il padre. Intorno al 450 Pericle deve aver iniziato la sua relazione con Aspasia, l’etera di Mileto, da cui ebbe un figlio, di consueto indicato come Pericle il giovane, che sarà fra gli strateghi condannati a morte e giustiziati a seguito del ‘processo delle Arginuse’ nel 406.

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10. Pericle e la politica estera degli anni Cinquanta- Secondo Plutarco, il dominio politico di Pericle durò circa quarant’anni, il quale distingue

tuttavia tra due fasi diverse: una prima, nella quale Pericle primeggiò fra gli Efialti, i Leocrati, i Mironidi, i Cimoni, i Tolmidi e i Tucididi, e una seconda, successiva all’abbattimento della posizione e all’ostracismo di Tucidide (il figlio di Melesia, genero di Cimone, nuovo capo dei conservatori) nel 444/3, in cui egli tenne la strategia per non meno di quindici anni consecutivi. Prima di quella data Pericle svolse certamente un ruolo politico di prim’ordine; è tuttavia probabile che si debba distinguere fra il rilievo avuto da Pericle in politica estera, da un lato, e il suo contributo nella politica interna, per il profilo sociale della democrazia, dall’altro: in quest’ultimo campo le innovazioni portano la cifra di Pericle più delle iniziative di politica estera.

- La fase più dinamica e aggressiva dell’imperialismo ateniese riflette l’opera, e forse anche l’iniziativa, di personaggi come quelli sopra ricordati: Leocrate, generale nella guerra condotta nel golfo Saronico contro Egina (459-457); Mironide, vincitore della battaglia di Enofita, nel 457, contro gli Spartani; Tolmide, protagonista del vittorioso periplo attorno al Peloponneso, concretatosi in numerose incursioni nel 455. Cimone, fino all’ostracismo del 461, aveva contribuito al rafforzamento dell’impero navale non meno dei suoi avversari politici (in Tracia, Eurimedonte e Taso in particolare); questo dimostra che, sul terreno della politica estera, almeno sotto il profilo del rafforzamento dell’impero, non ci fossero veri dissensi nel gruppo dirigente ateniese, per tutti gli anni Sessanta, o almeno per gran parte di essi.

- Le iniziative ateniesi di politica estera in qualche modo ricollegabili con gli esordi di Pericle sono da riconoscere nelle alleanze strette con Argo, i Tessali, Megara, dopo lo smacco inferto agli Ateniesi dagli Spartani, col rinvio del contingente attico, nel corso della guerra “del terremoto” (III guerra messenica). Nell’alleanza con Argo si intravede anche una motivazione ideologica: Argo aveva trasformato il suo regime in democratico; assai meno coerente invece l’alleanza con le aristocrazie tessaliche e con la dorica Megara, che si riveleranno poi inconsistenti (i cavalieri tessali tradiscono Atene sul campo di Tanagra nello scontro tra Ateniesi e Spartani del 457; nel 446 Megara compie una definitiva ribellione ad Atene).

- Tra il 460 e il 454 si ha la famigerata spedizione in Egitto, cui di solito si attribuisce una finalità economica – la conquista di un paese produttore di grano. Tuttavia, in questo caso, la dinamica del conflitto sembra diversa: Inaro, principe dei Libii ai confini con l’Egitto, invita a intervenire in Egitto gli Ateniesi, che si accingevano ad attaccare Cipro con 200 navi – in primo luogo, dunque, la spedizione d’Egitto fu determinata da un’occasione presentatasi in un contesto diverso: l’attacco a Cipro rientrava nel quadro di una liberazione del Mediterraneo dai Persiani, e la rivolta dell’Egitto offriva innanzi tutto l’occasione per completare l’opera. Nella rappresentazione tucididea la spedizione in Egitto fu una megále strateía, un’espressione di megalomania (di stampo non molto diverso da quello impresso sulla spedizione siciliana degli anni 415/413).

- Per qualche tempo gli Ateniesi occupano la zona del Delta e Menfi; i Persiani nel frattempo inviano, inutilmente, Megabazo con denaro a Sparta, perché intervenga in Attica, e quindi spediscono il generale Megabizo in Egitto, dove gli Ateniesi restano ormai bloccati d’assedio nell’isola Prosopitide. Per un anno e mezzo gli Ateniesi resistono all’assedio; poi i Persiani prosciugano le acque intorno all’isola – la guerra navale si trasforma in una guerra

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terrestre; seguono ormai la cattura della flotta ateniese e la fuga degli Ateniesi verso Cirene, dove giungono solo in pochi. Intanto una nuova flotta ateniese di 50 navi, sopravvenuta in piena disinformazione del disastro toccato ala prima spedizione, subisca la stessa sorte.

- Il duro colpo inferto ad Atene in Egitto viene indicato da Plutarco come la causa del trasferimento del tesoro della Lega da Delo ad Atene: il motivo addotto fu quello di una minaccia persiana. Che si trattasse in parte di un pretesto, è possibile, o comunque di un’occasione colta; si sbaglierebbe tuttavia chi non ritenesse che i Persiani potessero davvero rappresentare una minaccia e che il timore dei Persiani fosse una mera finzione – una concreta minaccia persiana insomma non ci fu, ma il timore di essa ci poteva essere e non era del tutto ingiustificato.

- Accanto alla megále strateía, Atene combatté altre importanti guerre nella penisola. Il conflitto in questi anni è in primo luogo con Corinto, che si sente provocata dall’alleanza tra Megara e Atene, e presenta un succedersi di alterne vittorie. Poi ha inizio il conflitto con Egina, che cederà dopo tre anni di guerra, nel 456. È l’inizio di quella che i manuali spesso indicano come prima guerra del Peloponneso; l’espressione però è impropria e fuorviante, rispetto al vero significato della guerra del Peloponneso per eccellenza, l’unica guerra nota con questa definizione alla tradizione antica. Il significato di quel complemento di specificazione (“del Peloponneso”) è che si trattò della guerra portata dai Peloponnesiaci contro Atene: quel genitivo è un genitivo soggettivo, diversamente per esempio dal genitivo oggettivo di “Guerra di Troia” (una guerra cioè che ebbe Troia come oggetto e teatro degli scontri. Parlare di una prima guerra del Peloponneso per una serie di conflitti tra Atene e Sparta (459-446), che per la massima parte ebbero come teatro il Peloponneso, significa pregiudicare, e in senso improprio, il significato autentico dell’espressione Peloponnesiakós pólemos (definizione per la guerra scoppiata nel 431 a.C. che trae origine dall’impostazione di Tucidide, per il quale, a parte il complesso problema delle responsabilità ultime, non sussiste dubbio sul fatto che ad aprire le ostilità nell’immediato fu la Lega peloponnesiaca capeggiata da Sparta – la guerra del Peloponneso è insomma per lui una guerra che viene portata dal Peloponneso contro l’Attica).

- Progressivamente (e in contemporanea con la spedizione d’Egitto e il suo stallo) la guerra navale di Atene si estende nella penisola: fino al 456 essa si esplica nel golfo Saronico, tra Attica e Argolide; nel 455 Tolmide effettua incursioni contro Gizio, l’arsenale di Sparta, contro Metone, sulla costa messenica occidentale, in Acaia e Corinzia – un vero periplo, che aggira il Peloponneso in senso orario.

- Anche sulla terraferma il conflitto tra Atene e i Peloponnesiaci presenta momenti di scontro territorialmente coerenti fra loro. L’inclusione di Megara nell’alleanza di Atene favorisce anche il controllo ateniese sui due porti della città confinante col territorio attico – Nisea sul golfo Saronico, e Page sul golfo Corinzio: una presenza navale ateniese a nord dell’Istmo che spiega la dinamica della spedizione di Pericle nel 454/3 – ecco, tra l’altro, un anno di strategia di Pericle estraneo al quindicennio di strategie continuative (443-429) – e non è, dal punto di vista militare, un trionfo, risolvendosi alcune battaglie in un nulla di fatto.

- Un intervento spartano in favore dei Dori della Metropoli contro i Focesi, nel 458/7, blocca tentativi di espansione della presenza politica di Atene nella Grecia centrale. Ad Atene, per la prima volta (e anche l’ultima, prima del 411) si ha un complotto contro la democrazia: c’è chi vuole fermare la costruzione delle Lunghe Mura, che uniscono la città al Pireo, e il connesso processo di sviluppo di una democrazia a base navale fondata sul sostegno delle

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masse marinare – ma i conservatori, all’interno della democrazia, restano leali. Nel frattempo, gli Spartani rischiano di restare bloccati nella Grecia centrale, per effetto della nuova situazione determinata dall’alleanza di Sparta con Megara – per gli Spartani non sembra vi sia via di scampo né per terra né per mare. Tuttavia, con la vittoria conseguita a Tanagra (457), gli Spartani si mettono in condizione di forzare il blocco ateniese e rientrare nel Peloponneso.

- Poco dopo gli Ateniesi, al comando di Mironide, si prendono una rivincita ad Enofita, sui Beoti, alleati degli Spartani. Alla vittoria consegue un periodo di forte ingerenza ateniese negli affari della Beozia (ingerenza, beninteso, non dominio diretto): viene sciolta la Lega beotica e si procede a una correzione di confini tra Beozia ed Attica; la situazione durerà così all’incirca fino al rovescio subito dagli Ateniesi a Coronea nel 447.

- Insomma, gli anni Cinquanta presentano marcati caratteri di espansionismo esasperato da parte di Atene, con imprese dirette anche verso regioni lontane dall’Attica, come l’Egitto e la Sicilia, due sogni grandiosi, che danno la misura di una ricerca del ‘grande’, nello spazio come nella mole dell’impresa, in piena corrispondenza con quel clima di esaltazione della democrazia ateniese, che si avverte nella politica come nella psicologia di massa – nonostante lo scossone risultante dalla sconfitta in Egitto del 454, i piani grandiosi non vengono ancora meno, come dimostra l’impresa di Cimone contro Cipro: sulla politica d’impero si poteva, nonostante tutto, trovare ancora una base che unificasse, in aspirazioni e progetti comuni, l’intero popolo ateniese.

11. La pace di Callia- Nel 449, anno della morte di Cimone, la tradizione colloca la stipula di un accordo di pace

tra Atene e Persia, che chiudeva ai Persiani l’accesso al mare Egeo e interdiceva all’esercito persiano di avvicinarsi alla costa occidentale dell’Asia Minore, l’area cioè delle città greche. Probabilmente però non si arrivò mai, nella forma, a un compiuto trattato bilaterale: un accordo che impegnasse il re persiano a una tale capitolazione poteva essere concepito soltanto, dalla parte del re, come una intesa de facto. Se la Persia cedeva sulla Ionia, Atene rinunciava ai sogni espansionistici, di cui sono prova le imprese dell’anno 459 – dieci anni dopo, dunque, era già cominciato un certo ripiegamento dell’imperialismo ateniese.

12. Nuovi toni dell’imperialismo ateniese- La politica estera degli anni Quaranta è pur sempre in direzione di una funzione-guida, dal

punto di vista religiosa e internazionale e di esigenze greche generali. I Focesi avevano occupato il santuario panellenico di Delfi (II guerra sacra), aspirando a un ruolo ben più ampio, quale il suo inserimento nell’Anfizionia. Gli Spartani intervengono a favore dell’autonomia del Delfi; Pericle restituisce ai Focesi l’amministrazione del santuario – ancora una volta Atene-Focesi da un lato, Sparta-Delfi dall’altro.

- Ancora in quegli anni Pericle prende l’iniziativa, senza successo, di convocare un congresso panellenico di tutti i Greci viventi a est del mar Ionio, per decidere 1) della ricostruzione dei templi distrutti dai Persiani e dell’esecuzione dei voti pronunciati durante la guerra; 2) della libertà della navigazione; 3)del mantenimento della pace. In questa iniziativa si fondono motivi politici ed economici, nonché lo sforzo di assolvere un ruolo ideologico rispetto al patrimonio religioso tradizionale – è chiaro che Atene vuole esercitare ancora un ruolo panellenico.

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- In Beozia, dopo la vittoria degli Ateniesi, forse le tradizioni politiche locali hanno rivolto ad Atene un atteggiamento di rispetto, seguita probabilmente da alcune trasformazioni di governo in senso democratico: saranno gli esuli di questi governi ad occupare la Cheronea e altre località, provocando l’intervento di Tolmide, che riesce a espugnare Cheronea, ma nella marcia di rientro, a Coronea, viene attaccato da Beoti esuli da Orcomeno, da Locresi e da esuli Euboici e da altri alleati con le stesse idee politiche – alla sconfitta segue la liberazione della Beozia dall’interferenza politica ateniese.

- Dello stesso segno la rivolta dell’Eubea, che segue subito dopo; Pericle si reca nell’isola, ma gli giunge la notizia della defezione di Megara, sostenuta da una coalizione peloponnesiaca. L’attacco ad Eleusi si ferma per il pronto intervento di Pericle, che sembra aver corrotto con denaro il re spartano Plistoanatte, nonché Cleandrida, il generale che lo accompagna (i due saranno puniti ed esiliati dagli Spartani). Parata la minaccia spartana, con la cessione di Megara e dei suoi porti (che sarà ratificata però soltanto nella pace trentennale stipulata nel 446/5), Pericle ritorna in Eubea, doma la ribellione, e caccia gli abitanti di Istiea, sostituendoli con una cleruchia ateniese. Calcide ed Eretria sono vincolate a trattati che menomano fortemente l’autonomia delle città.

- Atene diventa ormai la portatrice dell’idea democratica: un atteggiamento che accentua il conflitto ideologico e la creazione di fronti contrapposti nel mondo greco. Non bisogna però immaginare che Atene esportasse la democrazia univocamente in tutte le direzioni. Le distanze contano, e con esse le coerenze geografiche: in Eubea (con maggiore intransigenza) come in Beozia, come forse a Megara, Atene ha cercato, già negli anni tra Enofita e Coronea, di esportare il regime democratico. A maggior distanza l’irradiazione è meno sistematica, ma i tentativi (o le tentazioni) non mancano: lo dimostra la complessa vicenda della ribellione (sarebbe meglio dire ‘delle ribellioni’) di Samo tra il 441 e il 439. Ma è anche la seconda metà degli anni Quaranta il periodo in cui si consolida la politica sociale di Pericle, l’attività nel campo dell’edilizia pubblica, la costruzione dello Stato sociale, la democrazia nautica, la ricerca di una centralità per Atene nel mondo greco.

- Con il rafforzamento del modello, l’opposizione interna cresce; ma Pericle è ancora in grado di vincere: di qui l’ostracismo di Tucidide figlio di Melesia del 444/3. Le iniziative di politica estera sono meno ispirate a mania di grandezza: nel 444/3 viene fondata, sul sito dell’antica Sibari, la colonia panellenica di Turi – composta da dieci tribù (quattro ioniche, tre del Peloponneso non-dorico, due della Grecia centrale, e una della Doride, probabilmente rappresentando i Dori di Metropoli, non quelli del Peloponneso).

- Riassumendo: fino alla pace trentennale del 446/5 si ha un imperialismo più duro all’interno dei confini dell’impero, e ideologicamente più connotato, caratterizzato da un espansionismo che agli antichi (e talora anche a noi) appare alquanto megalomane e dissennato. Si vanno determinando le condizioni di una spaccatura netta, politica e ideologica, all’interno del mondo greco; entro l’impero navale i contorni della politica di dominio, della lotta ideologica, dell’immagine nuova di Atene da proiettare verso l’esterno e verso l’interno, si fanno più netti. In termini di storia culturale, questo è anche il vero periodo ‘classico’ della storia greca: il momento del ‘classico’ coincide, nei suoi pregi e nei suoi costi, nel bene e nel male, con quello delle grandi divaricazioni e delle rigorose decantazioni.

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[Riassumendo ancora, voce dall’wikipedia]

La battaglia di Coronea ebbe luogo nel 447 a.C. tra la Lega Delio-Attica, comandata da Atene, e la Lega Beotica, nell'ambito dei conflitti che precedettero la guerra del Peloponneso.

Dopo la vittoria conseguita nel 457 a.C. nella battaglia di Enofita, che diede ad Atene il controllo della Beozia, gli Ateniesi diressero i loro sforzi al consolidamento della Lega Delio-Attica. Nel 454 a.C. una flotta ateniese venne distrutta durante un tentativo di supporto ad una ribellione egizianacontro l'Impero Persiano; temendo rivolte da parte di altri membri della lega, Atene spostò il tesoro dall'isola di Delo all'interno della città nel 453 a.C., e firmò con l'Impero Persiano la pace di Callia attorno al 450.

Nel 447 a.C. alcuni degli uomini che Atene aveva esiliato dalla Beozia dopo la vittoria di Enofita tornarono, e ripresero il controllo di alcune città. Gli Ateniesi risposero inviando circa 1.000 opliti al comandi di Tolmide per ricatturare le città perdute; questa forza fu in grado di riprendereCheronea, ma subì una sconfitta a Coronea, e gli Ateniesi furono costretti ad abbandonare la Beozia. La sconfitta portò l'Eubea e Megara alla ribellione, cosa che portò a ulteriori conflitti conSparta, contribuendo allo scoppio della guerra del Peloponneso.

13. Riorganizzazione e crisi della Lega navale ateniese- L’impero si va organizzando meglio al suo interno: nel 443/2 si ha la ripartizione dei paesi

della Lega in 5 distretti – Ionico, Ellespontico, Tracico, Cario, Insulare- Un nuovo salto di qualità nei rapporti interni alla Lega navale si ha con l’intervento ateniese

a Samo, tra 441 e 439: in un primo momento un conflitto per il possesso del territorio di Priene tra Mileto e l’isola di Samo (due membri della Lega); Mileto chiede aiuto ad Atene, e Pericle interviene con una flotta di 40 triremi, s’impadronisce di Samo e vi instaura una democrazia (estate 441). L’anno successivo (marzo 440) una rivolta riporta al potere gli oligarchici, sostenuti da Bisanzio e dal satrapo di Sardi – Pericle interviene ancora, con 60 triremi, presto raddoppiate di numero: l’isola resiste a lungo, aspettando in aiuti provenienti da Sparta e dalla Persia, che non arrivano; nel 439, al nono mese d’assedio, Samo si arrende: l’isola perde l’autonomia e il dominio su Amorgo; la flotta è consegnata ad Atene e i capi della ribellione esiliati; le mura sono abbattute e Samo deve pagare le spese di guerra. Incerto se Pericle abbia nuovamente instaurato una democrazia nell’isola, la discussione rimane aperta. Certamente, dunque, un salto di qualità: più in quell’area determinata, lontana dall’Attica, che non della politica ateniese in generale.

14. L’opposizione a Pericle alla vigilia della guerra del Peloponneso- Il sistema fondato da Pericle portava in sé i suoi rischi e le sue contraddizioni, anche se è di

ogni vera democrazia il saper correre il rischio delle proprie contraddizioni. La parabola politica percorsa da Pericle è quella di un leader democratico in grado di controllare il dêmos, in quel rapporto bilanciato dei pubblico e privato: contiene il rischio di un declino del favore popolare, quando, come è nel 430, Pericle chiede al popolo ateniese vistosi sacrifici in guerra, senza evidenti vantaggi o sbocchi positivi.

- Ma già prima della guerra del Peloponneso Pericle conosce un’opposizione di cui si citano tradizionalmente almeno tre episodi, cioè tre processi intentati contro persone della cerchia di Pericle (Anassagora, Aspasia, Fidia), e contro Pericle stesso – strumentalizzazioni in

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qualche modo, ad opera di oppositori di parte conservatrice, degli atteggiamenti tradizionalistici della grande massa.

- 1) In questo potrebbe risiedere la genesi delle accuse di empietà (asébeia) rivolte ad Anassagora, il filosofo di Clazomene, teorico del noûs come principio universale, amico e maestro di Pericle e degno rappresentante di quell’impulso razionalistico che il secolo della democrazia conosce. A muovere le accuse fu un chresmológos, un raccoglitore e interprete di oracoli, degno rappresentante di una religiosità popolare delle più tradizionaliste e retrive, Diopite. Le accuse sono assai simili a quelle che circa il 400 a.C. saranno mosse a Socrate. Anassagora si sottrasse alla condanna abbandonando Atene e ritirandosi a Lampsaco. A lui, nativo di una città dell’impero (Clazomene), Atene aveva aperto le porte, in quel clima di larga circolazione di uomini e di idee, che l’impero ateniese aveva creato.

- 2) Empietà e mezzaneria furono le accuse rivolte alla compagna di Pericle, Aspasia: solo con un’accorta mozione degli affetti Pericle poté salvarla. 3) Allo scultore del Partenone, Fidia, fu mossa l’accusa di essersi appropriato di oro e avorio destinati alla statua della dea Atena: e Fidia morì in carcere ad Atene, prima della condanna. Il meteco Menone, autore dell’accusa, ottenne per decreto popolare l’esenzione dalle imposte.

- Se in tutte queste circostanze il popolo operò, o fu sollecitato ad operare, contro Pericle, non si può affermare che lo facesse per punire un demagogo: le accuse mosse agli amici di Pericle sono infatti di quelle che una democrazia, intesa e spinta fino in fondo, può comportare; e se dietro le accuse ci sono gruppi conservatori (questi erano gli anni 433-432, immediatamente successivi al rientro di Tucidide di Melesia dall’ostracismo), si può solo dire che quei gruppi portano alle estreme conseguenze, e proprio contro Pericle, le possibilità offerte dalla democrazia stessa: è un’opposizione per linee interne; ed era il rischio congenito al sistema obiettivamente democratico da Pericle promosso. Se dunque la parte popolare crea dei problemi a Pericle, paradossalmente ciò accade non per un’opposizione ideologica, ma semmai proprio in virtù di un’affinità coerente fino in fondo. E dello stesso stampo sono le accuse rivolte a Pericle di malversazione di fondi. Se, d’altra parte, Pericle avesse subìto una vera opposizione popolare, nel segno di una contrapposizione ideologica, e questa si fosse sommata con l’opposizione conservatrice, egli non avrebbe continuato ad essere eletto annualmente stratego, come fu invece anche dopo il ritorno dall’ostracismo di Tucidide di Melesia (433/2). Il primo vero conflitto col popolo si produrrà solo nel 430, quando i ‘sacrifici’ della guerra faranno individuare (e neanche del tutto a torto) un capro espiatorio in Pericle, che viene deposto dalla strategia, per essere però subito rieletto stratego nel corso del 430/429. La peste lo stroncò nell’esercizio di una ormai pluriennale funzione.

15. Crisi e trasformazioni politiche nell’Occidente greco- Gli aspetti salienti del periodo post-tirannico in Sicilia sono la restaurazione democratica, di

cui parla Diodoro, e che è da intendere alla luce di un’accezione un po’ sbiadita di demokratía, come ‘forma repubblicana’, regime politico non soggetto a un monarca o a un tiranno, più che forma di regime popolare da paragonare a quello ateniese contemporaneo; e la questione dei mercenari, che in questa fase sono ancora mercenari greci, di Sicilia o del Peloponneso.

- I mercenari sono espulsi da Gela, Agrigento e Imera, ma si insediano, rispettivamente, ad Omphake e Kakyron, Minoa, e quelli di Imera si coinvolgono nelle vicende di Messina.

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Messina aveva condiviso fino al 461/0 le sorti di Reggio, dove dopo la morte di Anassila un parente del tiranno, Micito, aveva assunto la tutela dei figli minorenni dello scomparso. Micito accentuò la politica di dinamismo espansionistico che aveva caratterizzato la tirannide di Anassila, colonizzando Pissunte e aiutando i Tarentini contro gli Iapigi, condividendone però una terribile sconfitta ad opera dei barbari.

- Per i Tarentini il disastro militare fu, come spesso accade, l’occasione per la ricerca delle responsabilità e per una decisa trasformazione politica. A Reggio ne seguirono l’esilio di Micito e l’avvento al potere del tiranno Leofrone nonché la ribellione di Reggio e Messina, che recuperavano la loro libertà (461/0). È a questo punto che a Messina intervengono i mercenari espulsi da Imera, che si impadroniscono della città. Nel frattempo, Imera, aiutata da Gela, da un lato, e dall’altro Agrigento, che, con l’aiuto di Siracusa, riesce almeno a cacciare da Minoa i mercenari là rifugiati. Una pace generale consentì finalmente ai mercenari di andarsene a casa; gli esuli furono richiamati nelle città, le terre furono restituite o redistribuite.

- Con la fine degli anni Sessanta possono dirsi in generale conclusi i sussulti politici interni alle città di Sicilia. Si riacutizza invece la questione sicula, che di fatto non era mai scomparsa come realtà demografica, sociale, militare e in larga misura anche culturale. Ducezio, capo dei siculi, nativo di Menai, riunì in una sola confederazione tutte le città sicule (tranne Ibla); raccolse un esercito notevole; trasferì Menai dalle alture in pianura; interviene contro la fondazione di Ierone (Etna-Catania) – ormai Ducezio, che aveva cominciato a inserirsi abilmente nel contenzioso creatosi fra i Greci stessi, poteva concepire un programma sistematico e organico di conquista delle località interne della Sicilia: battuti gli Agrigentini e i Siracusani in campo aperto, Ducezio si impadronì infatti per qualche tempo del Motyon, una fortezza in territorio agrigentino (451?); l’anno successivo, sconfitto dai Siracusani a Nomai, abbandonato dai suoi, il capo siculo si rifugiò come supplice presso gli altari dell’agorá di Siracusa: la sua sorte fu decisa dalla parte più benevola della cittadinanza siracusana, che lo relegò a Corinto (dei rapporti tra Siculi e Siracusani, che fanno dei Siculi una realtà rispettabile con cui un Siracusano può trattare, ci sono testimonianze in Diodoro).

- Ormai Siracusa si riprendeva Morgantina, Inessa e Menai; qualche anno dopo scoppia il conflitto tra Siracusa ed Agrigento, con una vittoria di Siracusa al fiume Imera. Molti aspetti della vicenda di Ducezio dimostrano che l’opposizione tra Siracusa e Siculi non era radicale; e certamente i Siculi dovevano essere alquanto permeati di cultura greca e soprattutto capaci di intessere un rapporto che è in parte di subordinazione, in parte però di collusione e comunque di non totale assoggettamento – Siracusa ormai poteva contare su una notevole estensione della sua influenza sull’area sicula. Ducezio tornerà da Corinto in Sicilia qualche anno dopo per forza di un oracolo, ma sarà stroncato da una malattia poco dopo l’arrivo. Con la fine di Ducezio la volontà di resistenza politica dei Siculi si affievolisce, ma sarebbe errato credere che sia scomparsa del tutto. I Siculi diventeranno ormai oggetto di protettorati esterni; e alcune delle linee politiche seguite dai tiranni e dalla successiva democrazia saranno ricalcate e sviluppate da un tiranno, come Dionisio I, più crudamente coerente nel progetto di creazione di un dominio territoriale continuo ed esteso. Ma significativo della vocazione politica e dell’acculturazione al mondo greco che le borgate sicule rivelano è il fatto che nel trattato tra Dionisio e i Cartaginesi del 405 ai Siculi sia garantita l’autonomia, non meno che alle città greche di Leontini e di Messina.

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Note integrativea) Teatro tragico e storia politica fino a Sofocle- Nel dramma, tipica espressione della cultura attica, si è cercato di ritrovare l’eco degli eventi

politici o perfino la traccia di un qualche tentativo di influenzarli – la ricerca è del tutto legittima, in espressioni letterarie così immediatamente correlate alla città come pubblico. È stato giustamente osservato che l’identificazione del referente politico è più facile nella commedia che nella tragedia – del resto, per sua natura, il comico è convenzionale, cioè è convenzione di un gruppo che riconosce qualcosa come abnorme e ridicolo.

- Fanno naturalmente eccezione tragedie che già nel titolo e nell’argomento-base rinviano a fatti di ordine politico. Così il tragico Frinico destina alla Pressa di Mileto dopo la battaglia di Lade una tragedia, che gli Ateniesi colpirono con un’ammenda, poiché rammentava loro una grave sciagura; e nel 476 alla sconfitta navale persiana di Salamina destinava un’altra tragedia, le Fenicie, fatte rappresentare con la coregia di Temistocle. I drammi di argomento storico di Frinico cadono nel clima di quella prima democrazia, preefialtea, che vede la gran massa degli Ateniesi unita su due temi dell’opposizione alla Persia e dell’opposizione ai tiranni.

- Alla luce di questo consenso di fondo su alcuni grandi temi si può tentare di affrontare anche i problemi del significato politico delle tragedie di Eschilo (524-455). Nei Persiani (472) il grande evento di Salamina è rappresentato con un sentimento misto di orgoglio per la vittoria nazionale e di pietà per i vinti; nei Sette contro Tebe Eschilo sembra elogiare Aristide in un implicito paragone con il giusto Anfiarao; le Supplici si spingono avanti nella celebrazione sia delle procedure democratiche sia della nuova intesa con Argo, di spirito antispartano; il problema storico-politico del ruolo dell’Areopago dopo la riforma di Efialte compare nella trilogia Orestea, in cui Eschilo sembra voler esaltare la tremenda dignità del residuo ruolo dell’Areopago di tribunale giudicante i casi di omicidio volontario. L’arco di vita di Eschilo, se gli si sottrae l’ultimo periodo trascorso in Sicilia (egli muore ed è sepolto a Gela nel 455), lambisce appena l’autentico periodo pericleo. Alla luce di una democrazia, ancora caratterizzata soprattutto come opposizione alla tirannide, si spiega forse anche il Prometeo incatenato, sugli aspetti tirannici del governo di Zeus.

- L’associazione del nome di Sofocle a quello di Pericle rischia a un’analisi più attenta di apparire poco più che un’associazione cronologica. Nonostante le alte cariche politiche rivestite da Sofocle (stratego con Pericle nel 441/0 e con Nicia nel 428/7), il poeta non sembra particolarmente versato in questioni politiche. Nell’Antigone si è voluto riconoscere uno spiccato sentimento antipericleo: la figura tirannica di Creonte, autore di leggi che vanno contro gli ágrapta nómima, le norme non scritte, sarebbe semplice metafora per Pericle; ma il richiamo alle norme non scritte può ben trascendere i termini del dibattito politico e significare una posizione etico-religiosa di validità più generale. Che nell’Edipo Re si debba riconoscere un’allusione alla figura di Pericle o a quella di Alcibiade è ancora più problematico. È verificabile piuttosto, in Sofocle, una lievitazione dell’interpretazione etico-religiosa del mito, che, se portata più avanti con rigore intellettuale, può sfociare – come accade in Euripide – nella ridiscussione degli stessi fondamenti religiosi tradizionali. L’Aiace, come le Trachinie, l’Edipo re come l’Elettra e il Filottete, impegnano il poeta sulle aporie di fronte a cui pongono i comportamenti e gli interventi degli dèi, come rappresentati nel mito tradizionale; Sofocle non ne cambia i dati essenziali, e adopera lo strumento della tragedia proprio al fine della rappresentazione della condizione dolorosa degli uomini, come

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connessa con quelle aporie; la sua è una poesia più di riflessione e di partecipazione che non di proposta, che modifichi il mito o ne contesti radicalmente le ragioni.

b) Le Arti nel V secolo- Ad Atene si segnala, negli anni del predominio di Cimone, l’esecuzione di una serie di opere

pubbliche, in parte dovute proprio alla munificenza dell’illustre politico, come per esempio la stoá Poikíle nell’agorá (cioè portici dipinti).

- Tra il periodo di Cimone e Pericle si scaglionano i grandi capolavori della statuaria cultuale di Fidia, fra cui contano, accanto allo Zeus di Olimpia, le tre Atene, di cui comprensibilmente preferisce adornarsi la città attica: l’Atena Prómachos; l’Atena Parthénos, per il tempio Hekatómpedon (che si chiamerà, dal IV secolo a.C., Partenone); l’Atena detta Lemnia.

- Il programma pericleo di opere pubbliche si sviluppa dapprima nel senso delle opere difensive, atte a rafforzare la realtà e l’idea della città marinara: costruzione delle Lunghe Mura, tra Atene e il Pireo e tra Atene e il Falero; e successivamente, dopo la pace di Callia, quando ormai è venuto meno il giuramento di non ricostruzione dei templi, il programma politico pericleo è quello di lanciare Atene come capitale culturale della Grecia – il programma di Pericle allora si dirige verso il riassestamento dell’Acropoli e nuovi lavori ad Eleusi, cioè i grandi nuclei religiosi ateniesi. Tra il 447 e il 438 viene costruito, al di sopra del ‘vecchio’ Partenone e del vecchio Hekatómpedon del VI secolo, il Partenone di Ictino e Callicrate, grandioso nelle dimensioni e che fonde, nella struttura, i diversi stili espressi dall’architettura greca (‘dorico’ e ‘ionico’), fornito inoltre di una ricca decorazione in marmo, nonché di un fregio continuo e di sculture nei due frontoni. Dentro, la cella è destinata ad ospitare la grandiosa statua con decorazione criselefantina, opera di Fidia: un’Atena guerriera, armata e nikephóros, cioè con in mano la statua della Vittoria, anzi, presentandosi già nell’atteggiamento di chi ha già vinto, e con richiami evidenti, nello scudo appoggiato al suolo, al caratteristico mito attico dell’autoctonia.

- In tutte le arti figurative, Atene è punto di richiamo di grandi personalità di artigiani e di artisti, provenienti da città della Lega e poi via via, negli ultimi decenni del secolo, anche dall’esterno di essa. Polignoto di Taso dipinge la stoá Poikíle, la sua opera più celebre; Alcamene di Lemno, scolaro di Fidia, scolpisce l’Afrodite ‘dei Giardini’; Zeusi di Eraclea porta innovazioni tecniche significative – lo sappiamo autore di una pittura realistica e impressionistica, che rappresentava gradazioni di toni ed effetti prospettici illusionistici di grande rilievo. La pittura greca è andata quasi per intero perduta, e quel che ne conosciamo è solo tenue riflesso in opere di altre arti che la riecheggiano o la rappresentano (dalla ceramica, in epoca più antica, ai mosaici, in età ellenistica o romana).

c) Migrazione intellettuale verso Atene- Dopo la diaspora di eminenti personalità della cultura ionica verso Occidente avvenuta per

effetto della conquista persiana della Lidia (546), o della restaurazione seguita alla repressione dell’insurrezione ionica (494/3), il movimento di migrazione culturale più cospicuo è quello dell’afflusso di intellettuali ad Atene, quale si determina dopo le guerre persiane e soprattutto nel clima della democrazia efialteo-periclea. Atene diventa un centro capace di richiamo per gli uomini e le espressioni culturali più diversi, un ambiente

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intrinsecamente cosmopolita, dove l’intellettuale viaggiatore sa di poter trovare ascolto, e occasioni di incontro e confronto.

- Le provenienze sono le più disparate: da Clazomene giunge, intorno agli anni Sessanta, Anassagora, il teorico del noûs – la sua riflessione rappresenta il punto d’arrivo e insieme il superamento del naturalismo ionico nella direzione di un intellettualismo e di un razionalismo che contribuisce, e allo stesso tempo corrisponde, alle caratteristiche culturali di fondo della democrazia periclea. L’ultima fase periclea e il periodo della guerra archidamica sono caratterizzati dall’arrivo dei grandi sofisti: Protagora, dalla vitale Abdera in Tracia, da cui proviene anche Democrito; da Elea, intorno agli anni Cinquanta, vengono Parmenide e Zenone, i teorici dell’essere; qualche decennio più tardi da Leontini verrà Gorgia; da Ceo, Prodico; dall’Elide, Ippia. È un vitale afflusso, incontro, proliferare di idee intorno al ruolo dell’uomo come misura di tutte le cose (Protagora), ai modi e all’efficacia della persuasione retorica (Gorgia), alle infinite possibilità di distinzione che il linguaggio consente (Prodico), alla necessità di scansioni cronologiche di validità generale (Ippia). Il clima della democrazia periclea e post-periclea è però idoneo allo scontro non meno che all’incontro delle idee: alla riflessione critica verso la religione tradizionale di un Anassagora di Clazomene, di un Diagora di Melo (Diagora l’ateo), dello stesso Socrate, fa riscontro da un lato il tradizionalismo battagliero di un Tucidide di Melesia o di un Diopite, e dall’altro, semmai, l’introdurre di nuovi culti dall’Oriente o la crescita e la diffusione di culti greci che nel passato erano stati minori (come rispettivamente la tracia Bendis, e il greco Asclepio).

d) Beni di prestigio ed etica attivistica- Pericle sembra avere piena consapevolezza dell’esistenza di un’ideologia della ricchezza

come bene di prestigio: egli però la respinge, per ciò che riguarda la società ateniese, opponendole l’ideologia di una ricchezza impegnata negli érga, naturalmente, in primo luogo le opere destinate alla comunità; non è affatto escluso però che per érga Percile non intenda solo un uso munifico della ricchezza (come l’esercizio di una liturgia, o una distribuzione di denaro, ecc.), ma anche (e soprattutto) un uso del denaro volto a stimolare attività produttive. Affiora qui dunque l’ideologia dell’investimento, pur nel senso limitato di attività produttive, ponendosi in esplicito contrasto con l’ideologia del bene di prestigio, connaturata a ogni mentalità tesaurizzatrice. A questa etica attivistica Atene non arriva di colpo; la tradizione dello stimolo alle attività artigianali risale a Solone e a Pisistrato.

[Appunti Guerra del Peloponneso – Corso Yale]

- The Origins of the War: The whole first book of Thucydides is about the causes and responsabilities of the Peloponnesian War. Thucydides concludes that the “truest explanation, although it has been the least often advanced, I believe to have been the growth of the Athenians to greatness, which brought fear to the Lacedaemonians, and forced them to war ”. The War became inevitable at a certain point, when the Athenian Empire reached such a point as to allarm the Spartans enough to start a war. Thucydides doesn’t believe that an explanation that considers only the immediate events of 431 are enough: he goes back up to the years following the end of the Persian Wars in order to give a whole picture of the situation between Sparta and Athens before the outbreak of the war: he emphasizes the role

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of the Delian League, which was to become the Athenian Empire in the following years, and the increasing distrust between Sparta and Athen, which turned in a great division of the Greek world itself.

- Lead up to the War - Corcira: the crisis that eventually will lead to the Peloponnesian War begins in Epidamnus, a very distant town from any other important greek city on the west shore of the peninsula; Epidamnus had been founded by Corcira, an island not very far from there to the south, next to the Epiro’s coast. Corcira itself though was a colony of Korinth – a very unusual one: there had been many wars in the past between Corcira and Korinth, despite their metropolis-colony status. Some time around 436 a civil war breaks out in the city of Epidamnus, caused by a dispute for power between oligarchs and democrats: the democrats manage to expell the oligarchs; those, then, besiege the town with the help of the barbarians that live nearby; the democrats in Epidamnus decide to ask for help and send messenger to Corcira – Corcira, though, doesn’t help. The democrats then turned to Korinth for help: Korinth decides to send help to the besieged Epidamnians, by sea and land. There does not seem to be any tangible economic benefits for Korinth engaging in this battle – Epidamnus after all was an irrelevant town far from any greek center or any sea route: the best explanation, therefore seems to be that of Thucydides, who says the cause of the engagement of Korinth in these events is the hatred that existed between the two cities, Korinth and Corcira. The Corcirians then decide to intervein in the ribellion, supporting the oligarchs, and finally manage to take control of Epidamnus, beating the first Korinth troops. Corcira sure feels dishonored by the possible takeover of their former colony by Korinth; but they also feel fear, not only because Korinth is a great naval power, but also because it is one of the most important allies of Sparta – Corcira fears then that the Peloponnesian League could get involved in the dispute. As Korinth in the next years intensifies the sending of forces to the region, aided by Peloponnesian fleets, Corcira decides to turn to Athens for help, in 433. Athens couldn’t allow a change in the balance of naval power, something that would surely happen if Korinth succeeded in taking over Corcira’s fleet. Athens however, in order to “respect” the 30-years Peace, had to invent a new status for this alliance, which wasn’t the typical symmachía, but was called epimachía – an only-defensive alliance: Athens would help Corcira only if Korinth took the initiative to attack them. The Athenians send a fleet of only 10 triremes – which was really more than anything else a diplomatic message; afterwards they would send other 20 (anyhow, that was still a small number considering the dimensios of the Athenian fleet). The Korinthians do attack Corcira’s ships, and thereby the Athenians have to get involved in the fight: the Korinthians dominate the battle at the beginning, but when the other (20) Athenian ships appear in the horizon, they panic and withdraw from battle. The battle ends and things are left up in the air – surely, though, the hatred of Korinth towards Athens grew stronger.

- Lead up to the War - Potidaea: shortly after, in 433/432, fearing that Potidaea (a Korinthian colony, very connected to the mother city) would rebell against the Athenian domain in the region, sent a fleet to stop by at Potidaea, and to take down the defensive walls of the city. When the fleet arrived, Potidaea was already in ribellion; the Athenian fleet blocked the city and started a siege against the city; the Korinthians sent some hoplits to Potidaea to help with the defense, in an unofficialy way (they were ‘volunteers’) – that is because, according to the 30-years Peace treaty, Athens had all the right to supress rebellions in its own empire.

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- Lead up to the War – Megarian decree: in the same year, Athens passed a decree in the assembly that forbad the Megarians from using the harbour of Piraeus and using the agorá of Athens, or any of the ports of the empire – that is, an embargo. That was a fatal move against a city which depended almost entirely on commerce by sea, and it was clearly a signal to all the other allies of Sparta that Athens could harm them without even engaging in open war.

- The imminence of War: the Korinthians in reaction to all these events (Corcira, Potidaea, Megarian decree) pressed the Spartans to take action and call a meeting of the Peloponnesian League. The Korinthians were asking of course for a breach of the 30-years Peace; the Assembly voted and decided that the Athenians had broken the treaty and, therefore, the Peloponnesian League should go to war against them (july 432). The Spartans though don’t go marching into the Athenians until probably march 431. Missions were sent to Athens: the first one demanded that Athens should get rid of the ‘course’ of the Alcmeonidae – that is, Pericles; the Athenians of course refuse to do so. Then, a second mission is sent, asking Athens to withdraw their troops from Potidaea, to leave Agina autonomous and to withdraw the Megarian decree; the Athenians refuse again, and the course of War was clearly set. There was a last mission, which asked Athens to “free the Greek”, that is, to renounce to its Empire in the Egean sea – of course Athens refused again.

- The start of the War: the first move of the War though was an attack of Thebes against Platea (an ally of Athens close to the border with Attic), a very strategical region if one is considering to invade Attica; shortly after, the Spartans joined the attack and proceeded with the invasion of Attica itself. Athens was confident that even if the Spartans invaded Attica, the Athenians would be able to live off behind the walls they had built, which protected their two harbours and Athens itself – even though the farms of the north would be burnt by the Peloponnesians, Athens would be able to survive counting on the grain and the money that would still arrive bye sea from the Delian League.

- The Historian of the Peloponnesian War – Thucydides: Thucydides was an Athenian aristocrat, born maybe in 460 – he was not yet 30 when the great war broke out: a war that would last 27 years and would see Greece shattered, improverished, and permanently weakened – never again would be the Greeks master of their fates. Why should we still study such an ancient war today? The answer can be found in the definition Thucydides gave to his own task: “It may well be that my history will seem less easy to read because of the absence in it of a romantic element; it will be enough for me however if these words of mine are judged useful for those who want to understand clearly the events that happened in the past and which, human nature being what it is, will at some time or other, in much the same ways, be repeated in the future: my work is not a piece of writing designed to meet the tastes of an immediate public – my work is a possession for ever.” – history as a possession for ever, κτήμα ες αεί. Thucydides believed in the pratical importance of history – he is eager to set straight any errors of facts and interpretations that he find. He seems also to have been the first one to consider in a global vision all the battles that happened between 431 and 404, calling them the Peloponnesian War; but he has also the merit to have looked for the mediate motives of the conflict much before than these dates: he actually describes the 50 years that came before the War, not only to explain why was it that the War broke out, but also to continue the History from the point Herodotus had stopped (478).

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- Pericles as a General: We are inclined to think of Pericles primarily as a great political leader, a brilliant orator, a patron of the arts and sciences, the man whose work in the peaceful arts shaped what is often called the Golden Age of Athens; so it is useful to us to remember that the office to which the people elected him almost every year for some thirty years and from which he carried on all of these activities was that of strategós, general, whose responsability was to lead armies and navies into the battle. During the first year of the Peloponnesian War, Pericles strategy was that to hold back behind the walls of the city while the invading Peloponnesian army ravaged their lands in Attica – Thucydides says that the city was angry with Pericles because, as their general, he was supposed to lead them out to battle and so they held him responsible for all their sufferings. In the next year, after the second invasion of Attica, with the destruction of the land, and the epidemy of the plague struck the city, Thucydides says that again the people blamed Pericles for persuading them to go to war and they held him responsible for their misfortunes. Regarding Pericles’ policy during the War, Thucydides says: “As long as he led the State in peace time, he kept to a moderate policy and kept it safe, and was under his leadership that Athens reached her greatest heights; and when the war came, it appears that he also judged its power correctly. Pericles lived for two years and six months after the war began; and after his death, his foresight about the war was acknowledged still more, for he had said that if the Athenians stayed on the defensive, maintained their navy and did not try to expand their empire in war time, thereby endangering the State, they would win out – but they acted opposite to his advice in every way; and when their efforts failed, they harmed the State’s conduct of the war. So more than abbondant were Pericles’ reasons for his own predictions, that Athens would have won a war against the Peloponnesians alone”. Pericles’ plan did not work: the element of chance, the unexpected and incalculable interveined against Pericles and against Athens in the form of the terrible plague that ultimately killed a third of the Athenian population, including Pericles himself. After his death, in 429, the Athenian treasury was running and his plan lay in ruins - there was no prospect for victory.

- Only when his successors turned to a more aggressive strategy did the Athenians level the playing field and achieve a position, which allowed them to hold out for twenty-seven years, and indeed on more than one occasion, almost brought victory.  In the spring of 425, the brilliant and daring general Demosthenes, conceived and executed a plan to seize and fortify the promontory of Pylos at the southwestern tip of the Peloponnesus. From there, the Athenians could launch raids at will and encourage the escape or rebellion of the helots, Sparta's enslaved population. His success panicked the Spartans who allowed several hundred of their troops to be trapped and captured on the Island of Sphacteria, just off Pylos. Spartans immediately proposed a peace, which the Athenians then refused. Later in the same spring, the Athenians seized and garrisoned the Island of Cythera just off the southeastern tip of the Peloponnesus, and immediately they began to launch raids against the mainland. About the nervous reaction of the Spartans, Thucydides says: "The Spartans sent garrisons here and there throughout the country, deciding the number of hoplites by what seemed necessary at each place. In other respects, they were very much on guard for fear that there would be a revolution against the established order, and from every direction a war rose up around them which was swift and defied precaution. In military affairs they now became more timid than ever before since they were involved in a naval contest outside their

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normal conceptions of preparation for war, and in this unaccustomed area they fought against the Athenians”.

[Riprendendo il Musti]

6. La guerra del Peloponneso come guerra civile dei greci

1. Il problema delle cause- La pace del 446/5 tra la Lega Peloponnesiaca e gli Ateniesi, prevista per trent’anni, ne durò

assai meno. Si può dire che già gran parte degli anni Trenta siano percorsi dai sintomi del conflitto che lacererà il mondo greco (pur con una grande pausa) dal 431 al 404: la guerra del Peloponneso. È una guerra che, pur avendo come oggetto il potere, ha in più una fortissima connotazione ideologica, corrispondente alla radicalizzazione delle scontro politico in Grecia. È la ‘guerra civile’ dei Greci, combattuta dalle póleis; è la contrapposizione di due tendenze politiche, cui aderiscono le molteplici entità del variegato mondo greco, le póleis appunto – anche se, ovviamente, anche all’interno di queste, c’è un riflesso di questo scontro interstatale: ci sono, dunque, città democratiche e città oligarchiche e inoltre, all’interno di molte singole città, i due partiti contrapposti.

- La dinamica della guerra però va perseguita un paio di decenni più in alto, sulla scorta, del resto, di Tucidide, che nella pentecontaetía dà una rappresentazione complessivamente unitaria, anche se non statica, dei processi che conducono allo scoppio del conflitto nel 431. Si assume come data d’inizio l’invasione dell’Attica da parte dell’esercito peloponnesiaco, guidato dal vecchio re di Sparta Archidamo II – onde il nome, esteso un po’ impropriamente a tutto il primo decennio di guerra (431-421), di guerra archidamica (nonostante il re spartano sia già morto nel 427).

- Nel I libro Tucidide dà una forte caratterizzazione del rapporto tra Sparta e Atene, e Corinto e Atene: è la storia di un’ostilità (échthos) degli Ateniesi verso Sparta e di un odio veemente (sphodrón mîsos) dei Corinzi per Atene, che divisero le due città peloponnesiache da Atene a cominciare dai primi anni Cinquanta. La storiografia psicológica di Tucidide e degli storici in generale non significa affatto depauperamento dela dinâmica reale o reductio ad unum di fenomeni complessi, che sono e restano di ordine politico, sociale, econômico, culturale ecc. La psicologia ha però una evidente funzione simbolica, in quanto riassuntiva di tutto questo, e idonea a tracciare linee unitarie dei processi in cui sono coinvolti i diversi soggetti storici.

- Le guerre greche nascono, nella genesi immediata, come guerre territoriali. Alla guerra del Peloponneso si attribuiscono, sempre sulla scorta di Tucidide, come cause reali, tre o quattro grandi fatti: 1) l’intervento di Atene nel conflitto scoppiato tra Corinto e la sua colonia nel mar Ionio, Corcira, per il comportamento da tenere nel conflitto civile tra i democratici e gli oligarchici ad Epidamno (a Corcira si rivolgono gli esuli oligarchici, a Corinto i democratici che si sono impadroniti del potere); 2) la ribellione di Potidea, colonia corinzia sull’istmo della penisola Pallene, la più occidentale della Calcidica, contro la pretesa ateniese di indebolirne i rapporti con Corinto; 3) il decreto ateniese contro i diritti commerciali di Megara, sita appunto tra Atene e Corinto. Sono le colonie di Corinto, dunque, il bersaglio diretto di Atene – che presto dimostrerà, indirettamente negli anni Trenta, direttamente più tardi, un’analoga ostilità contro la colonia corinzia d’Occidente, Siracusa. La matrice corinzia di queste cause immediate della guerra del Peloponneso è dunque evidente, non

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meno del profilo di contrapposizione tra Sparta e Atene che il conflitto assume. Sono i due piani sui quali occorre situare il conflitto, che da conflitto territoriale, non privo di connotazioni ideologiche (eppure le costellazioni Corinto-democratici di Epidamno da un lato, e Atene-Corcira-oligarchici di Epidamno dall’altro, nel 436 a.C., non sono ancora di questo segno), diventa presto conflitto fra due gruppi di Stati, due schieramenti, due ideologie.

2. Aspetti territoriali- 1) La prima fase della questione corcirese è tutta interna al mondo corinzio. Nel 435 i

democratici prendono il potere ad Epidamno; i possidenti, scacciati, chiamano gli Illiri contro la città, che si rivolge a Corcira, madrepatria diretta, mentre comune capostipite è Corinto. Corcira respinge le richieste dei democratici di Epidamno, che perciò si rivolgono a Corinto. Questa interviene ad Epidamno prima con una guarnigione, poi con una flotta, che però viene battuta dai Corciresi presso il promontorio di Leucimma, con il risultato della resa di Epidamno a Corcira che l’assediava. Due anni dopo (433) Corinto cerca la rivincita con altro spiegamento di forze. Corcira si vede costretta a rivolgersi per aiuto ad Atene, che cerca di aggirare le clausole limitative della pace dei trent’anni, stipulando non un’alleanza tout court (symmachía), ma un'alleanza sui generis anche nel nome (epimachía), confinata a una funzione difensiva: una flottiglia di 10 triremi ateniesi doveva dunque soddisfare l’obbligo contratto verso Corcira, senza caricare Atene della responsabilità di una più grave rottura con i Peloponnesiaci. Lo scontro tra le 60 triremi di Corcira e le 80 della flotta corinzia volse male per i Corciresi, ma l’intervento di altre 20 triremi ateniesi indusse i Corinzi a desistere dalla battaglia quel giorno, come anche il giorno successivo, e a rifiutare lo scontro offerto dagli alleati corciresi e ateniesi. Delusi nella loro certezza di successo, e umiliati, i Corinzi si ritirarono meditando vendette.

- Atene era interessata a un’azione provocatoria di portata solo limitata, che lasciasse percorrere l’ultimo tratto verso la guerra con Corinto (e perciò con la Lega Peloponnesiaca) agli avversari, facendo quindi cadere su di essi la responsabilità morale, ragionando cioè in termini di opinione pubblica greca: il fine è di far maturare lo scontro, senza determinarne l’avvio diretto, ma lasciando al nemico il compito compromettente di provocare lo scoppio delle ostilità.

- 2) Dello stesso segno è la dinamica del caso di Potidea, colonia corinzia entrata nella Lega navale ateniese con una funzione anti-persiana e in generale di controllo dell’area settentrionale dell’Egeo e di contenimento di Traci e Macedoni (semmai anche di penetrazione in quei territori ricchi di foreste e miniere). Atene ingiunge di recidere il cordone ombelicale costituito dall’epidamiurgo (un supermagistrato) inviato annualmente da Corinto alla sua colonia (la quale assolveva da oriente per Corinto quel ruolo di testa di ponte verso l’interno balcanico, che ad occidente assolvevano Apollonia, Corcira, Ambracia, Anattorio e Leucade). Potidea doveva anche abbattere le mura verso la Pallene: una specie di resa incondizionata, che Atene propone quando il confronto con Corinto per Corcira le ha ormai mostrato quanto forte sia la sua potenza, e come essa possa agire con la parvenza di muoversi entro i confini del legittimo (Potidea alla fine apparteneva alla Lega Delio-attica, e un intervento di Atene era teoricamente legittimo). Nel 432 giunge però il rifiuto di Potidea, e la sua disdetta degli obblighi di città alleata di Atene; essa è sostenuta dal re macedone Perdicca II.

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- Gli interventi ateniesi furono numerosi, e lo furono a causa delle insufficienze volta per volta dimostrate dai corpi di spedizione (prima 30 triremi con 1000 opliti, poi 40 triremi con 2000 opliti), e della necessità di contrattaccare e fronteggiare Perdica II di Macedonia.

- 3) Di fronte a una Lega Peloponnesiaca sempre più disposta a controazioni, Pericle compì un passo che doveva riverlarsi decisivo, ma anch’esso dello stesso spirito politico delle precedenti misure – una decisione ostile, che colpisce nei fatti una città della Lega Peloponnesiaca, ma che si presenta come una decisione interna alla Lega navale attica: proibizione a Megaresi di frequentare l’agorá attica e i porti dell’impero (432/1). Questo significava strangolare l’economia di una città che, come Megara, viveva delle esportazioni di tessuti e vesti di lana, in un’economia che ponteva contare molto poco su terra da coltivare.

3. Il problema delle responsabilità- La tradizione antica ha talora attribuito a Pericle la responsabilità della guerra, individuando

nelle sue scelte strategiche l’intento di creare un diversivo per le difficoltà suscitategli dall’opposizione interna ad Atene, e un suo desiderio di tutelare il proprio potere – quadro talora accolto anche da alcuni moderni. Questa non è l’unica decisione di Pericle che subisca un’interpretazione personalistica, forse neanche destituita completamente di fondamento, ma tuttavia fortemente riduttiva della portata politica della decisione medesima – anche, per esempio, dell’istituzione dei misthoí (indennità), così centrale nell’ideologia periclea e nella sua concezione dello Stato, fu data dalla tradizione una motivazione personalistica: crearsi col denaro pubblico quella popolarità che non ci si poteva dare con i modesti mezzi finanziari privati.

- Un’interpretazione ben più complessa e rispettosa delle forze storiche in movimento, dei processi storici in atto, è quella che fornisce Tucidide. Questi vede nello scontro tra Atene e i Peloponnesiaci l’esito ineluttabile di un processo naturale, quello della crescita (aúxesis) di un organismo in piena espansione, qual era l’impero ateniese; l’intraprendenza storica che questo processo esibisce, il puntuale riscontro dell’audacia, fa contrasto con i timori di parte peloponnesiaca, timori che proprio quel fenomeno di crescita va ad alimentare fino alla reazione finale. Il giudizio di Tucidide è chiaro: nella dinamica dei fatti l’iniziativa della guerra è dei Peloponnesiaci (e in questo senso la guerra è del – cioè dal – Peloponneso); nelle cause ultime la responsabilità è dell’espansionismo ateniese. Dunque l’espansionismo e il dinamismo ateniese da un lato, la dura volontà di difesa, che a un certo punto si rovescia in offesa e cerca di togliere l’iniziativa all’avversario, dall’altro, descrivono bene, nell’insieme, il sistema di cause che determina lo scoppio della ‘guerra civile’ dei Greci.

- I due casi di Potidea e di Megara determinarono a Sparta un graduale orientamento verso la guerra, che però passò attraverso gradi successivi e talune incertezze. Gli eventi si svolgono tra la primavera e l’estate del 432. I Potideati, subito dopo la ribellione ad Atene, ottengono dagli efori spartani una promessa di aiuto; ma solo il caso di Megara fa sì che l’assemblea spartana prima, e l’assemblea federale peloponnesiaca poi, riunita anch’essa a Sparta, dichiarino che Atene ha violato la pace, e decidano la guerra. Passarono vari mesi prima che le ostilità si aprissero, con la buona stagione: l’intervallo di tempo fu speso in contatti diplomatici, che hanno un’evidente funzione propagandistica, di appelli all’opinione pubblica interna ateniese e greca comune. Una prima ambasceria spartana ad Atene chiede l’espulsione ‘del sacrilegio’, cioè di Pericle, che appartiene alla famiglia enaghés, sacrilega,

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degli Alcmeonidi; Pericle replica facendo chiedere la rimozione del ‘sacrilegio’ del Tenaro, compiuto con l’uccisione di Pausania il reggente. Una seconda ambasceria chiede di rinunciare a Potidea e ad Egina, e di abrogare il decreto contro Megara; la terza mira alla formulazione di un principio generale: gli Spartani vogliono la pace, ma questa può esserci solo a patto che gli Ateniesi lascino autonomi i Greci – il che era di fatto un invito a sciogliere o almeno a modificare profondamente la Lega navale.

- La guerra scoppia all’inizio della primavera del 431. Nasce con un incidente a Platea, città della Beozia meridionale, stretta alleata di Atene. Con la complicità di oligarchi plateesi, una notte della primavera del 431, aal primo sonno, irrompono in città 300 Tebani: il ritardo nell’arrivo dei rinforzi e l’inesperienza dei luoghi da parte degli invasori ne determinano la sconfitta; 180 Tebani caduti prigionieri sono giustiziati. Ormai la pace è violata in maniera lampante, e le ultime ricerche di alleanza definiscono gli schieramenti: sono con Sparta tutti i Peloponnesiaci, tranne gli Argivi e quasi tutti gli Achei, che restano neutrali (col tempo però anche gli Achei sceglieranno il partito spartano); con la maggior parte dei Peloponnesiaci sono i Megaresi, i Beoti, i Locresi, i Focesi, e le colonie corinzie; sono con Atene invece i Chii, i Lesbii, i Plateesi; nella Grecia nord-occidentale, i Messenii stanziati a Naupatto, la maggior parte degli Acarnani e, nei pressi, Corcira e Zacinto; nonché le città dell’impero navale sparse dalla Caria alla Doride d’Asia, alla Ionia, all’Ellesponto, alla Tracia, alle isole ad oriente di Creta e del Peloponneso, alle Cicladi (tranne, per ora, Melo e Tera) – partecipano con la flotta le notevoli potenze navali di Chio, Lesbo, Corcira; con fanti e contributi in denaro gli altri.

4. Aspetti cronologici- La periodizzazione della guerra in due grandi fasi (431-421 e 413-404) è quella determinata

dalla pace detta ‘di Nicia’, del 421; e questa è solo la ripartizione più macroscopica ed evidente. Tucidide, o quanto meno la struttura in libri assunta dalla sua opera nella tradizione, tende a graggruppare la narrazione degli eventi, fatta per estati e inverni, in gruppi di tre anni (fino al 428 nel II libro; fino al 425 nel III libro; fino al 422 nel IV libro). Alla durata ventisettennale allude il cosiddetto ‘secondo proemio tucidideo’. Di fatto, con la fine del V libro si è percorso un periodo di altri 6 anni; il VI e il VII narrano la spedizione ateniese in Sicilia, compresi i suoi preparativi, dall’inverno del 416/5 al disastro dell’autunno del 413; il ritmo dei triennii sembra riprendere, ma un po’ imperfettamente, con l’VIII libro (inverno 413/2-fine 411, con prospettiva, in un’aggiunta dell’editore di Tucidide, sull’inverno 411/0).

- Nonostante le affermazioni di studiosi moderni sull’avvicendamento al potere, ad Atene e a Sparta, di partiti della guerra o della pace, occorre dire che, per i primi cinque-sei anni di guerra, i due schieramenti si fronteggiano con un’aggressività che non dà segni di debolezza o di ripensamenti: i Greci si abbandonano con foga al desiderio di fare i conti gli uni con gli altri; e si può anche dire che i moduli strategici permangano fondamentalmente quelli che erano stati all’inizio – Atene, però, mostra di volerli in parte variare: ed è naturale che sia così, per la novità comportata dalla scomparsa di Pericle già nel 429, per la complessità dei rapporti all’interno della Lega navale, e per la stessa disposizione di Atene di allargare il campo delle ostilità, cioè a concepire la possibilità di una vittoria come collegata ad un ampliamento, a proprio vantaggio, del conflitto, con lo scopo di colpire lontano, nelle basi che servono da supporto effettivo o prevedibile all’avversario.

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5. Dall’inizio della guerra alla morte di Pericle- Due mesi dopo l’attacco fallito a Platea, circa 20.000 opliti peloponnesiaci, al comando del

re spartano Archidamo II, presto rafforzati da 5.000 Beoti, invadono l’Attica settentrionale. L’invasione dura appena un mese: il suo effetto è quello di devastare i campi, mentre gli Ateniesi si tengono chiusi, giusta la strategia periclea, in città, e tra la città e il Pireo. Archidamo si ritira in Beozia e poi all’istmo di Corinto. Non molto rilevanti le controazioni ateniesi sulle coste del Peloponneso, ma vengono guadagnate l’isola di Cefalenia e la colonia corinzia Sollio in Acarnania. Gli abitanti di Egina, d’altra parte, accusati di tramare con gli Spartani, vengono sloggiati in favore di cleruchi ateniesi, e i profughi sono accolti dagli Spartani a Tirea, al confine con l’Argolide (sempre nel 431).

- L’anno successivo (430), è identico lo schema dell’invasione peloponnesiaca, che però penetra più in profondità nel territorio attico, cioè questa volta giunge anche a sud di Atene, con un’azione di circa 40 giorni, che viene bloccata dalla diffusione della peste, venuta dall’Etiopia e dall’Egitto, risalita per le isole e coste asiatiche fino a Lemno, di qui passata in Attica. Le controazioni ateniesi riguardano Epidauro, attaccata invano con un forte contingente di 150 navi e 4.000 opliti, e Potidea, dove gli Ateniesi hanno l’infelice idea di trasferire il contingente già contagiato e portatore di contagio: inevitabilmente segue la ritirata, quando già mille erano le vittime. È anche il momento più critico per Pericle (che nell’inverno 431/0 aveva ancora potuto pronunciare l’epitafio per i caduti del primo anno di guerra, mirabilmente ricostruito da Tucidide): il popolo vuole l’accordo con gli Spartani – Pericle viene privato dalla carica di stratego e condannato a una multa (autunno o inverno del 430).

- Nei mesi successivi il confronto fra Sparta e Atene si svolge più a distanza: Potidea cade nelle mani ateniesi nell’inverno 430/29, anche se il successo è contrabilanciato dalla sconfitta subìta dagli stessi Ateniesi nella Botia, regione a ridosso della Calcidica. Pericle è rieletto alla strategia (per il 429/8) all’incirca nel febbraio del 429: il momento critico è dunque superato, ma la peste lo uccide (estate del 429) poco dopo avergli strappato i figli legittimi, Santippo e Paralo. Nel 429 la peste aveva comunque dissuaso i Peloponnesiaci dal tornare ad invadere l’Attica; essi diressero invece gli sforzi su Platea, iniziando un assedio che si concluderà con la resa della città e dure esecuzioni di rappresaglia, su 200 Plateesi e 25 Ateniesi, nell’estate del 427.

- La morte di Pericle comporta certamente a tutta prima un tono più opaco nell’azione di Atene. Non poteva invero considerarsi un suo vero erede, né sul piano politico né sul piano militare, il Lisicle a cui egli affidava morendo Aspasia, e che comunque muore nel 428/7 durante una spedizione in Caria. Nel 427 è tuttavia già maturata una situazione diversa: sul versante radicale emerge come leader Cleone, il commerciante di cuoio del dêmos Kydathenaieús, la cui prima iniziativa significativa sarà la proposta di una durissima punizione alla ribelle Mitilene; sul fronte dei conservatori viene ormai decisamente alla ribalta il ricchissimo Nicia, figlio di Nicerato.

- Nel 429 era stato realizzato, da parte ateniese, il blocco dell’entrata del golfo corinzio, con l’invio di una squadra a Naupatto; i Peloponnesiaci reagivano col tentativo di staccare l’Acarnania da Atene con un attacco per terra da Ambracia, ma erano poi costretti dagli stessi Acarnani (un valido sostegno per Atene) alla ritirata, mentre per mare venivano battuti due volte dallo stratego ateniese Formione.

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6. Crisi e ripresa ateniese dopo la morte di Pericle (428-425)- Nel 428 i Peloponnesiaci sembrano avere decisamente l’iniziativa ed essere anche favoriti

da uno sviluppo del tutto nuovo del conflitto. In primavera essi ripetono, dopo la pausa del 429, la consueta spedizione in Attica; dopo il loro rientro si ribellano ad Atene le città della ricca isola di Lesbo: a capeggiare la rivolta è la principale delle città, Mitilene – i Peloponnesiaci l’accolgono nella loro Lega. Atene reagisce energicamente, inviando dapprima una flotta di 40 triremi sotto Cleippide, e poi una ben più efficace, che trasporta 1000 opliti, posti al comando dello stratego Pachete: comincia quindi, nell’estate del 428, l’assedio di Mitilene per terra e per mare. Da parte peloponnesiaca è inviata, solo nella primavera del 427, una flotta di 42 triremi, che arriva in Ionia quando ormai Mitilene si è arresa. È adesso che Cleone propone una punizione esemplare, consistente nell’esecuzione di tutti gli adulti e nella vendita in schiavitù di donne e bambini, nonché nella distribuzione del territorio cittadino fra cleruchi ateniesi: la sua proposta è approvata, ma, il giorno dopo, una provvidenziale metánoia (ripensamento) induce a più miti consigli. Tucidide rappresenta, in un celebre agón oratorio, il conflitto di opinioni tra Cleone, che insiste sui compiti ineluttabili di chi detiene l’impero, e Diodoto, che dissuade dall’adottare misure eccessive, che avrebbero assai mal compensato la resa dei più remissivi e soltanto incoraggiato gli irriducibili. Comunque, le mura di Mitilene furono abbattute, la sua flotta sequestrata, e 2700 cleruchi ateniesi ottennero la proprietà di altrettanti lotti di terreno mitilenese.

- Atene aveva così cominciato a reagire al relativo torpore del dopo-Pericle. Ma, poco dopo (estate del 427), i Peloponnesiaci ricevevano la resa di Platea, ottenendo buoni frutti nella loro ‘strategia territoriale’ a ridosso dell’Attica. Il 427 è, però, un anno di risveglio dell’attivismo ateniese: a Corcira scoppia un violento conflitto tra democratici ed oligarchici – l’intervento di 12 triremi ateniesi è decisivo per la vittoria dei democratici; ancora di più l’invio di un ulteriore flotta di 60 navi, in risposa all’arrivo di 55 triremi peloponnesiache, comandate dall’incerto navarco Alcida: quando la squadra ateniese arriva, i Peloponnesiaci si ritirano. A Corcira segue un bagno di sangue per gli oligarchici fatti prigionieri – 500 riescono a fuggire sul continente e poi a rientrare di nuovo nell’isola, dove furono domati e massacrati nel 425. Le lotte civili degli anni 427-425 a Corcira rappresentano, per Tucidide, un salto di qualità nella storia della lotta e della violenza politica in Grecia – sono un gradino ulteriore nel processo di radicalizzazione e ideologizzazione del conflitto politico in Grecia: nel 435 Atene era potuta intervenire con Corcira contro i democratici di Epidamno, nel 427 essa s’impegna con tutte le sue energie per il successo, cruento, della parte democratica a Corcira.

- L’intervento ateniese a Corcira conferma la validità della motivazione anticorinzia del conflitto ancora nel 427; e la conferma anche l’invio della prima fra le spedizioni ateniesi in Sicilia: essa ha luogo con la missione di Lachete e Careade, al comando di 20 triremi, nell’autunno del 427, contro il rinascente espansionismo siracusano. Nel 426 Lachete guadagna Messina alla parte ateniese.

- È del tutto comprensibile che, fra le due grandi rivali, sia Atene a impostare piani ispirati a grandiosità di iniziative e di progetti, alla capacità di muoversi su uno spazio assai ampio, di condurre guerre a distanza. In un primo momento la nuova strategia sembra rendere bene: i Peloponnesiaci stentano ancora a seguire gli avversari su questa strada. La situazione è destinata a rimanere senza grandi mutamenti fino al 424, quando, con Brasida, gli Spartani

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si metteranno su una strada simile, ma alla prova dei fatti un po’ più fruttuosa. Per il momento le strategie grandiose si presentano ancora ricche di promesse: deve passare qualche tempo affinché la lentezza dell’adeguamento dei fatti e dei risultati getti in Atene una luce di sospetto sulle stesse linee strategiche, e perché gli avversari imparino la lezione. Ma tra il 427 e il 425 l’idea della guerra deve aver ottenuto in Atene una nuova popolarità.

7. Sintomi di nuove strategie- Nel 426, l’annuale spedizione dei Peloponnesiaci contro l’Attica si arresta all’istmo di

Corinto, a causa di terremoti: l’intenzione di Sparta è quella di condurre una guerra terrestre più sistematica; tuttavia, quest’anno, come il successivo (425), rivelano segni di stanchezza e di disorientamento. Ad Atene, segno del dinamismo collegato con l’affermarsi di Cleone, l’interesse attivo si sposta in zone occidentali: sia del vicino occidente della stessa penisola greca, sia del più lotano occidente rappresentato dalla Sicilia. Rovesci e successi si alternano in queste iniziative: nell’estate del 426 lo stratego ateniese Demostene subisce una grave sconfitta nel tentativo di impadronirsi dell’Etolia, partendo dalla base di Naupatto, ma salva l’Acarnania da un analogo tentativo operato dai Peloponnesiaci. Che si servivano a loro volta di Ambracia come base.

- Nella primavera del 425 gli Ateniesi decidono di rafforzare il contingente presente in Sicilia, inviando una prima flotta di 40 navi, sotto i generali Sofocle ed Eurimedonte, e successivamente una nuova squadra sotto Demostene, con un incarico militare assai ampio: raggiungere la Sicilia costeggiando il Peloponneso, pronti ad operare eventuali colpi di mano, ove se ne presentasse l’occasione. Con poche navi e pochi uomini Demostene siattestò dunque a Pilo, in Messenia, all’entrata della baia, che la lunga isola di Sfacteria chiude verso il mare Ionio. Pilo doveva diventare, nelle intenzioni di Demostene, una spina nel fianco del territorio peloponnesiaco controllato dagli Spartani: se il tentativo del 425 si fosse consolidato, esso avrebbe potuto dar luogo a un rivolgimento nella strategia di Atene. Parve opportuno agli Spartani bloccare la testa di ponte ateniese a Pilo sia dall’interno della Messenia, sia occupando la selvaggia isola di Sfacteria, strategicamente così importante: vi installarono perciò 420 opliti fra i quali 180 Spartiati. Ma l’intervento di una nuova flotta ateniese modificava ancora una volta la situazione – gli Ateniesi divenivano al tempo stesso assediati e assedianti, non meno, anzi in posizione più vantaggiosa, degli stessi Spartani. Furono perciò questi ad aprire le trattative per un armistizio, che consegnava agli Ateniesi la flotta peloponnesiaca radunata davanti a Pilo, ma consentiva agli Spartani di rifornire il presidio di Sfacteria.

- L’armistizio non approdò a una pace perché, su suggerimento di Cleone, l’assemblea ateniese bloccò le trattative. Il trascorrere del tempo e l’avvicinarsi della cattiva stagione rendevano necessaria una decisione: l’arrivo dell’inverno avrebbe comportato la vanificazione del blocco ateniese a Sfacteria, perciò bisognava o catturare il presidio spartano o rinunciare. È un altro grande scontro politico e oratorio in cui appare coinvolto Cleone. Questa volta l’avversario (incauto, a guardare i risultati) è Nicia, rappresentante dell’ala moderata, eletto stratego per il 425/4: all’accanimento con cui Cleone richiede un’azione rapida e risolutiva da condurre in non più di venti giorni, Nicia risponde offrendo il comando della spedizione, che Cleone, politico senza esperienza né cariche militari, ebbe la prontezza di accettare. Così egli guidò a Pilo i soccorsi richiesti da Demostene; il giorno dopo, ci fu lo sbarco ateniese a Sfacteria: ad effettuarlo furono 10.000 uomini, reclutati alla

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meglio (fra di essi però 1000 opliti). Lo scontro con i Lacedemonii fu comunque deciso dall’attacco a distanza operato da arcieri e peltasti, che bersagliarono i nemici, fino ad ottenerne la resa: i superstiti, 292, furono portati prigionieri ad Atene. Cleone ottenne onori altissimi (méghistai timaí): pasti a vita nel pritaneo e un posto d’onore al teatro.

- Non potrebbe risultare più chiaro, dal seguito degli eventi, come sia improprio distinguere rigidamente tra un partito della pace e un partito della guerra: almeno agli inizi, è più un succedersi di comportamenti più o meno bellicisti, più o meno pacifisti, che non di partiti, nonostante l’innegabile propensione di fondo di ciascuno dei soggetti. Nella primavera del 424 è proprio Nicia a togliere agli Spartani l’isola di Citera, a sud-est della Laconia: la nuova strategia, decisamente post-periclea, di attacco diretto alle basi nemiche, sembra essersi ormai imposta.

- L’episodio di Pilo e Sfacteria aveva ormai fondato una nuova strategia, di maggiore movimento, e rivolta non solo a bersagli distanti (che solo mediatamente avrebbero potuto contribuire a una svolta della guerra), ma anche direttamente al cuore dell’avversario. Cleone gioca carte politiche importanti, portando verosimilmente a 1460 talenti l’ammontare complessivo del tributo versato dagli alleati, e quindi elevando da 2 a 3 oboli giornalieri l’indennità per i giudici dell’eliea. Eletto stratego per il 424/3, con Demostene, naturalmente, e anche con Ippocrate di Colargo, Cleone fu certamente fautore dell’iniziativa di Atene contro l’alleata di Sparta, Megara. Nella primavera del 424 Demostene e Ippocrate conducono un esercito di 4600 opliti e 600 cavalieri contro Megara, chiamati dalla parte democratica di questa città; la guarnigione peloponnesiaca, rifugiatasi nel porto di Nisea, fu costretta alla resa, con il risultato dell’insediamento degli Ateniesi almeno in questo porto, che si affaccia sul vitale golfo Saronico. Nel 424, anche per effetto del dato nuovo della prigionia di 292 Lacedemonii, di cui 120 Spartiati, in mani ateniesi, non ha luogo la ormai quasi annuale invasione spartana dell’Attica.

8. Sparta e la nuova strategia- Sotto l’effetto della nuova strategia di movimento, impostata dagli Ateniesi e imposta dai

fatti, gli Spartani attaccano Atene in una zona lontana, ma raggiungibile con un esercito di terra, e ciò ancora in linea con le tradizioni militari peloponnesiache. L’ideatore, o almeno il realizzatore, di questa nuova strategia spartana è Brasida. Pochi uomini formano il nucleo del suo esercito (700 iloti liberati e 1000 mercenari arcadi), che presto però, ingrossa, rafforzato da soccorsi peloponnesiaci (da Corinto, Sicione e Fliunte) e beotici, fino a 8.000 effettivi, che riescono a fermare la pressione ateniese su Megara. Successivamente, nella tarda estate del 424, Brasida raggiunge la Tracia, passando per la Tessaglia (più disposta verso Atene) e per la Macedonia di Perdicca II, che si schiera al suo fianco. All’inizio dell’inverno del 424/3 lo spartano sferra l’attacco ad Anfipoli, affidata alla diretta sorveglianza dello stratego ateniese Eucle, ma certo anche in qualche misura a quella dell’altro stratego del settore tracico, lo storico Tucidide, che aveva la sua squadra di 7 triremi presso Taso. Avendo puntato su Anfipoli alla notizia dell’attacco di Brasida, Tucidide riuscì solo a salvare la fortezza di Eione, la quale rischiava altrimenti di cadere, come egli stesso sottolinea, nelle mani degli Spartani. Ciò gli costò l’esilio ventennale, che probabilmente egli cominciò proprio in questa regione, dove d’altronde possedeva miniere d’oro. Brasida era del resto uomo capace di adottare anche una politica della ‘mano tesa’, se agli stessi Anfipoliti aveva offerto, per favorirne la resa, di restare nella loro città con pieni

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diritti, o di andarsene entro cinque giorni, includendo fra loro sia i pochi Ateniesi presenti sia il nucleo di coloni di diversa origine – a queste condizioni la città si era arresa. Tra l’altro, il rapporto della città con Brasida dovette essere eccellente, se alla sua morte, avvenuta in combattimento contro gli Ateniesi guidati da Cleone nel 422, gli fu eretto un monumento sull’agorá cittadina e gli furon tributati onori eroici (come apprendiamo, significativamente si diribbe, da Tucidide stesso).

- Quasi contemporaneamente, in un anno assai difficile per Atene (424/3), questi subiscono un durissimo rovescio presso il Delio, cioè il santuario di Apollo delio che sorgeva nel territorio della città beotica di Tanagra. Dopo l’attacco contro Megara, riuscito solo a metà, essi avevano rivolto le loro mire alla Beozia, dove un’azione combinata di esuli beoti filoateniesi e degli ateniesi Demostene, a capo di truppe acarnane, ed Ippocrate, a capo di un poderoso esercito ateniese, avrebbe dovuto portare all’occupazione di Cheronea da parte dei Beoti fuoriusciti, di Sife da parte di Demostene, e ad un confronto, che sembrava divenuto di tanto più facile, dell’esercito ateniese con le forze federali beotiche (7.000 opliti, più di 10.000 fanti armati alla leggera e 1.000 cavalieri). Ma i primi due piani furono prevenuti da decise operazioni delle forze beotiche e Ippocrate, nella marcia di rientro intrapresa per evitare di dover affrontare da solo lo scontro col grosso delle milizie beotiche, fu attaccato e sconfitto: con lui perdettero la vita 1.000 opliti, un colpo durissimo per Atene.

- Il 424 è per la città anche l’anno del rientro dall’impresa siciliana. Richiamato (426/5) Lachete, che fu processato ma assolto, il nuovo stratego Pitodoro dovette, già nel 425, registrare la perdita di Messina. L’arrivo della flotta ateniese al comando di Sofocle e di Eurimedonte, che solo per un certo tempo era stata trattenuta in Grecia dalla questione di Sfacteria, preoccupò i Sicelioti al punto da indurli a lasciar cadere le discordie interne e a decidere che le questioni di Sicilia fossero cosa di tutti i Sicelioti, secondo la formulazione del siracusano Ermocrate nel congresso di Gela (estate del 424), che raccomandava la pace con gli Ateniesi nel senso della conservazione dello status quo ante. Per Atene, a parte il rafforzamento di legami affettivi e politici con le città di origine calcidese (ionica), questa prima spedizione siciliana si risolveva in un complessivo nulla di fatto.

9. Verso la pace ‘di Nicia’- Nel 423 si ha perciò un primo reale cambiamento di rota, il primo emergere di un vero

‘partito della pace’: proprio Lachete, fautore e autore della spedizione di Sicilia e amico di Nicia, riesce a far stipulare, nel febbraio del 423, un armistizio della durata di un anno – il bellicista è divenuto ora fautore della pace.

- Intanto in Tracia e in Calcidica si espande la ribellione contro Atene – Scione, nella Pallene, a sud di Potidea, defezione dalla Lega: da Anfipoli a Potidea – è quasi il percorso obbligato per chi voglia assicurarsi il dominio nell’area traco-calcidica, contestando le tradizionali presenze ateniesi. Gli Ateniesi intendono punire Scione in maniera esemplare ed inviano, al comando (si badi bene) de Nicia, una flotta di 50 triremi con 1000 opliti e truppe leggere, e iniziando l’assedio. Allo spirare della tregua, nel febbraio del 422, gli spiriti non sono disposti alla pace; la tregua di Lachete perciò non è prorogata. Rieletto stratego per il 422/1, Cleone assume l’iniziativa di un attacco diretto alle posizioni di Brasida, con un esercito di 1200 opliti e 300 cavalieri, e con molti alleati: riprese alcune città, egli si attesta ad Eione, e di qui fa una ricognizione sotto Anfipoli, durante la quale viene attaccato da Brasida. Cleone cade, insieme con 600 altri Ateniesi; ma fra i pochi caduti peloponnesiaci c’è anche Brasida.

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- Problemi interni al Peloponneso (agitarsi di Mantinea e dell’Elide) favoriscono la disposizione degli Spartani alle trattative, così come sugli Ateniesi influiscono le varie sconfitte subite: lo spirito delle trattative è quello del ripristino dello status quo ante bellum, operate le debite, reciproce, restituzioni (Pelo e Citera agli Spartani, Anfipoli agli Ateniesi). Intorno a questa ipotesi si lavora tutto l’inverno, fino alla conclusione della pace e alla sua ratifica da parte del consiglio e del popolo dopo le Grandi Dionisie, nell’aprile del 421.

10. I trattati del 421- La pace ‘di Nicia’ si presenta come un accordo di tregua di 50 anni, stipulato fra gli Ateniesi

e gli Spartani e i rispettivi alleati. Di fatto, essa fu rifiutata, per la parte peloponnesiaca, da Corinzi, Elei, Megaresi e dagli stessi Beoti, cioè da una parte cospicua dell’alleanza antiateniese. Le clausole furono giurate da 17 personalità per parte: le stesse che, poco dopo, giureranno un nuovo trattato, questa volta di alleanza militare bilaterale tra Sparta e Atene. Non deve sorprendere che l’aspro scontro tra le due città si concluda con la formazione di una specie di asse preferenziale tra di esse. Sparta e Atene assolvono, nelle dimensioni del mondo cittadino greco, il ruolo di grandi potenze, in grado certo di fare complessivamente prevalere la loro volontà, ma anche, tutto sommato, più capaci degli altri Stati di decisioni responsabili, almeno nella stessa misura in cui, viceversa, quando esse accendono conflitti o intervengono in conflitti già in corso, la loro presenza dà una dimensione ben più ampia e toni più aspri alle guerre. Può capitare, dunque, che le due città trovino punti d’accordo, persino a dispetto dell’ostilità dei rispettivi alleati; insomma, esse configurano nel mondo greco un classico caso di bipolarismo.

- L’intesa del 421 tra Atene e Sparta non trae origine soltanto dalla psicologia di grande potenza che anima ciascuna delle due città, ma anche dalla volontà di singoli individui: è facile indicare, fra i pacifisiti, per la parte spartana il nome del re Plistoanatte, per la parte ateniese almeno quello di Nicia e di Lachete, tutti compresi fra i firmatari dei due trattati del 421. L’accordo di principio fra le due grandi potenze garantisce una condizione fondamentale di pace; tanto quanto, però, la vocazione la struttura autonomistica del mondo greco (in particolare del campo peloponnesiaco) conferisce allo stato di pace un contesto inquieto e una sostanziale fragilità.

- La pace di Nicia si ispira al principio delle restituzioni, o delle compensazioni obbligate ove le restituzioni non siano possibili – ad esempio, Atene rinuncia a Platea, ma conserva Nisea. Dopo aver garantito la libertà di tutte le espressioni cultuali tradizionali e aver segnatamente riconosciuto l’autonomia del santuario delfico di Delfi stessa, il trattato di pace prevede che fra i due schieramenti non siano posti in essere atti di ostilità di nessun tipo, e che le controversie siano risolte in base ai princìpi del diritto e ai giuramenti. Ad Atene verrà restituita Anfipoli (un impegno però che gli Spartani non potranno mantenere: né Atene occuperà mai più la città in tutta la sua storia); ma tutte le altre città ribelle della Calcidica devono essere autonome, pur pagando agli Ateniesi il tributo ‘del tempo di Aristide’: alla Lega ateniese esse aderiranno solo se lo vorranno. In altre aree gli Ateniesi avranno, al confine attico-beotico, Panatto; gli Spartani, Pilo e Citera – otterranno inoltre la restituzione dei prigionieri di Sfacteria. Ma poi il trattato torna sul tema della Calcidica: gli Ateniesi potranno fare quel che vorranno di Scione, Torone e Sermilia (città che hanno ormai sotto controllo), a patto di rilasciare Spartani e alleati che siano in loro mano – altrettanto vale per i prigionieri ateniesi in mani spartane. Il trattato, da riconfermare con giuramento ogni anno,

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sarà pubblicato, su steli di pietra, nei grandi santuari panellenici – a Olimpia, a Delfi, all’Istmo – e in santuari delle due grandi città: ad Atene sull’Acropoli, a Sparta nell’Amyklaion.

- Il trattato di symmachía (alleanza militare) tra Sparta e Atene è anch’esso cinquantennale. L’occasione immediata è lo scadere nel 421 della pace trentennale tra Argo e Sparta, e il timore di quest’ultima che si formi un’alleanza tra Atene e la tradizionale rivale di Sparta nel Peloponneso (cosa che puntualmente accadrà, per iniziativa di Alcibiade, appena un anno dopo). L’alleanza è concepita in termini di mutua difesa e di eventuale comune rappresaglia contro aggressioni rivolte all’una o all’altra città; gli Ateniesi poi aiuteranno gli Spartani in caso di rivolta della servitù ilotica di questi ultimi. Anche questo accordo viene solennemente pubblicato sull’Acropoli di Atene e nel santuario di Apollo ad Amicle presso Sparta.

- Funziona ancora in questi accordi lo schema della Grecia “su due gambe”, quale aveva avuto corso durante e dopo le guerre persiane: una teorizzazione del bipolarismo che, nell’àmbito della democrazia ateniese, era stato lo schema dei rapporti intragreci gradito alla parte conservatrice, da Cimone giù fino a Nicia. A contrastarlo, più in un atteggiamento negativo, che non con un chiaro e definito progetto unificatore, erano stati di fatto i democratici radicali ad Atene (almeno da Pericle a Cleone) da un lato, e forse un’ala politica innovatrice a Sparta. A Sparta l’estremismo in politica estera si poteva presentare dunque come aspirazione all’associazione dell’egemonia navale con quella terrestre; la spinta corrispondente ad Atene era dunque quella tesa a guadagnare l’egemonia terrestre accanto a quella navale. Ma la tensione si determina sul terreno, così classicamente greco, dell’egemonia, non dell’unificazione territoriale della Grecia, e semmai intorno all’assolvimento di un ruolo culturale determinante (l’Atene “Scuola dell’Ellade” di Pericle: scuola in primo luogo sul terreno della forma politica).

- Con la guerra decennale, Atene non aveva fatto un solo passo avanti, dal punto di vista territoriale, rispetto allo stato del 413 a.C.; ma certo otteneva che fosse, almeno da Sparta, riconosciuta, come un dato storico e di diritto acquisito e irreversibile, la consistenza e la struttura del suo impero. Le gravi perdite umane ed economiche subìte erano fortemente controbilanciate dall’acquisizione di una maggiore autorità storica da parte di Atene, nel riconoscimento concesso da parti cospicue e assai rappresentative dell’‘altra’ Grecia. Se il dinamismo ateniese si fosse attenuato, e quel magma in movimento anche soltanto solidificato, c’era per Sparta ragione di temperare i propri timori; ma il mondo greco – e Atene e il nuovo mondo democratico da essa suscitato – era ancora in fermento. Al confronto e al conflitto i Greci tornano immediatamente dopo la stipula degli accordi del 421. Il mondo greco non conosce ancora a questa data quei meccanismi di raffreddamento che, solo dopo il disastro del 404 e le convulsioni di vari decenni, cominceranno a imporsi alla coscienza dei Greci, caricandosi però assai presto dei toni dell’utopia.

11. La quadruplice alleanza antispartana (420-418)- Appena stipolata la pace di Nicia, cominciò a farsi avvertire la difficoltà di realizzarne i

complicati meccanismi. Il nuovo generale spartano del settore tracico, Clearida, non fu in grado di assicurare la restituzione di Anfipoli, non voluta dai Calcidici; perciò Atene non restituì né Pilo né Citera, né (in un primo tempo) i prigionieri di Sfacteria. Corinzi e Beoti si

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sentivano d’altra parte frustrati nelle loro attese, per non essere stata prevista la liberazione di Potidea o Corcira, o di altre città.

- A questo punto Elide, Mantinea, Corinto e i Calcidici stringono alleanza con Argo, libera ormai dagli obblighi del patto trentennale con Sparta: una nuova consistenza e prospettiva ha questa alleanza di alleati insoddisfatti e inquieti verso la città loro egemone, o addirittura verso la stessa idea di una doppia egemonia da spartire tra le due Grandi, ora rappacificate.

- Con i suoi alleati, dunque, Sparta cerca di riannodare i rapporti, sollecitando anche l’attuazione del trattato di pace, ad esempio la distruzione della fortezza di Panatto, al confine attico-beotico. Ma per il 420 sono eletti, fra gli efori spartani, alcuni ostili alla pace. E da parte ateniese si aggiunge l’elezione di Alcibiade alla strategia, nella primavera del 420, per l’anno 420/19: subito segue la stipula di un’alleanza difensiva di Atene con Argo, Mantinea e l’Elide e, nell’inverno 419/8, Atene denuncia la violazione della pace da parte spartana.

- Nella primavera del 418 la rielezione di Nicia non comporta un cambiamento radicale della politica di Atene come impostata ormai da Alcibiade. Nell’estate dello stesso anno il re spartano Agide II penetra in Arcadia e poi, con gli alleati Beoti e con altri, blocca il passo di Nemea, mentre con l’esercito lacedemonio si spinge fin sotto Argo. Venuto a trovarsi in una posizione pericolosa, tra la città e l’esercito argivi, Agide chiede e ottiene dallo stratego argivo Trasillo una tregua di quattro mesi.

- Ma è solo il primo atto, non felice per Sparta, di uno scontro che si riaccende subito dopo: e a soffiare sul fuoco è Atene, che invia 1000 opliti e 300 cavalieri al comando di Lachete e Nicostrato, con il supporto di Alcibiade, presente, in teoria, solo come ambasciatore. Dapprima i collegati avanzano in Arcadia, prendendo Orcomeno. Quando poi gli Elei vogliono che sia soddisfatta la loro aspirazione alla conquista di Lepreo, nascono contrasti; gli Elei si ritirano e gli Spartani, con i Tegeati e gli altri alleati, attaccano i nemici sotto le mura di Mantinea: ed è la battaglia combattuta dagli eserciti greci più numerosi che si fossero mai affrontati in campo, 8-10.000 uomini per parte. Durissime le perdite di Ateniesi e Argivi (1100; degli Ateniesi muoiono in battaglia anche gli strateghi Lachete e Nicostrato), contro gli appena 300 caduti dello schieramento spartano (agosto del 418).

- Sparta riprende così in mano le redini del Peloponneso: Argo torna al regime oligarchico (anche se per poco, solo fino al 416); Mantinea e l’Elide firmano con Sparta una pace che equivale alla rinuncia alle rispettive pretese di egemonia (in Arcadia) e di conquista (di Lepreo).

- In Atene l’effetto è quello di una forte inquietudine della massa cittadina, che si sfoga in forme impreviste, non contro chi era più responsabile di quella politica e di quegli insuccessi (come Alcibiade e, in questa fase, lo stesso Nicia), ma contro Iperbolo, il demagogo fabbricante di lampade, che è ostracizzato quasi a sorpresa e si ritira a Samo, donde non tornò più in patria; Nicia e Alcibiade invece sono eletti strateghi per il 417/6 e per il 416/5.

12. Nicia e la spedizione di Melo (416)- Il comportamento di Nicia nei due nuovi anni di strategia mostra quanto semplicistico

sarebbe il catalogarlo come pacifista a oltranza: perché egli stesso guidò una flotta in Tracia, per riconquistare Anfipoli, con l’aiuto di Perdicca II di Macedonia (il quale però non mantenna la promessa di intervenire a fianco degli Ateniesi). D’altra parte ad Argo veniva restituita la democrazia, in chiave antispartana, e si arrivò persino a progettare la costruzione

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di lunghe mura tra la città e il mare, sul modello della sistemazione territoriale realizzata dalla democrazia nautica in Attica (ad Arco però il progetto fu bloccato dall’intervento di Sparta nell’inverno 417/6).

- Ed ecco che, nell’estate del 416, Nicia riprende un progetto aggressivo contro una delle isole doriche delle Cicladi, Melo, che egli aveva già inutilmente tentato di assoggettare nel 426, quando però gli era almeno riuscito di rendere tributaria l’altra isola di tradizioni spartane, Tera. Dall’estate del 416 all’inverno del 415 si svolge il lungo assedio di Melo, che finisce con una durissima capitolazione degli assediati: sterminata la popolazione maschile adulta, gli altri abitanti vengono venduti in schiavitù, e nell’isola è insediata una cleruchia ateniese di 500 unità. Tucidide descrive in un famoso dialogo il crudo contrapporsi delle ragioni della tradizione e della giustizia, quali esprimono i Melii, e delle ragioni della logica di potenza, quali esprimono cinicamente gli Ateniesi.

- Nicia, il generale di questa spedizione punitiva, crede che bisogna assoggettare i ribelli e quelli che obbediscono in modo dubbio, senza andarsi a cercare altrove nuove guerre: una politica, dunque, definibile non tanto come pacifista, ma piuttosto come ostile all’allargamento del conflitto a macchia d’olio, e tuttavia, all’interno di quei confini che di volta in volta si pone, capace di estrema durezza, come illustra l’episodio di Melo.

- Va anche osservato che a Sparta si può più facilmente ammettere un significato politico immediato della composizione del collegio degli efori, poiché l’elezione collettiva registra a sua volta stati d’animo collettivi; ad Atene invece il sistema di elezione degli strateghi, uno per tribù, dà spesso risultati che rispecchiano situazioni specifiche, interne alle stesse tribù, determinando giochi d’equilibrio che non sboccano nell’affermazione di un ‘partito’ della guerra o della pace.

13. La spedizione ateniese in Sicilia degli anni 415-413- La complessa situazione ateniese, e l’assenza di un vero ‘partito della pace’, o almeno di una

sua autorevole rappresentanza, spiegano la dinamica della nuova spedizione ateniese in Sicilia, la più famosa e disastrosa, quella degli anni 415-413.

- La richiesta d’aiuto da parte di Segesta e degli esuli di Leontini contro Selinunte (fondazione di Megara Iblea) e contro Siracusa (la potente colonia corinzia) mette in moto la macchina di guerra ateniese. Si fa balenare ad Atene l’idea dell’esistenza di grandi ricchezze da mettere a disposizione per la guerra; si fa leva sul timore che i Dori di Sicilia possano intervenire a fianco di quelli del Peloponneso. Ad Atene la sollecitazione e i timori hanno l’effetto voluto. Invano Nicia fa presente il vantaggio di un timore reverenziale prodotto da lontano, rispetto a una minaccia insufficiente portata da vicino; inutilmente egli ricorda il gran numero e la potenza delle città da combattere. Senso di sicurezza, mania di grandezza (Alcibiade parla di conquista della Sicilia e della stessa Cartagine), voglia di nuovo (vivissima, come sempre, ad Atene, soprattutto fra i giovani) hanno la meglio. Atene si conferma come la città che osa, come Tucidide l’ha già rappresentata nei capitoli del I libro della pentecontaetía; e, soprattutto, osa per inesperienza di un’isola vasta, abitata da popoli diversi e da tante vecchie e potenti colonie greche.

- Dal confronto-scontro con Alcibiade, Nicia non esce vincitore. Egli non ha fino in fondo la logica del pacifista; la sua opposizione all’avventura siciliana ricalca fatalmente la stessa logica bellicistica di Alcibiade, e perciò può ottenere soltanto il risultato di impegnare Atene in un rilevantissimo sforzo bellico, proprio nel momento in cui Nicia, con un malcalcolato

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espediente di dissuasione, rincara il prezzo della spedizione: “se questa si deve fare, si deve fare con grande dispendio di mezzi”: e il popolo approva. La flotta della Lega conterà 134 triremi, di cui 100 ateniesi (60 da battaglia, 40 per trasporto di truppe), e trasporterà 5.100 opliti (fra cui 1500 Ateniesi di rango oplitico, 700 di rango tetico, e 500 Argivi).

- Fra la fase dei dibattiti e delle decisioni strategiche e l’avvio della spedizione si colloca l’episodio del danneggiamento delle erme, statue-pilastrini di Ermes, che adornavano slarghi e strade di Atene, i cui elementi anatomici più compiutamente rappresentati erano la testa e il sesso. Anche se complesso, appaiono comunque ben comprensibili sia i destinatari del gesto vandalico, sia gli effetti che se ne volevano ottenere. Restano nell’ombra gli autori; ma quando si tenga presente che l’episodio aveva come destinatario Alcibiade, si ha già una prima risposta. Autori, dunque, i nemici di Alcibiade; ma già in astratta ipotesi è ben possibile che ci sia una singolare collusione di nemici di vario tipo: cospiratori di idee antidemocratiche, che in Alcibiade vedevano pur sempre un capo democratico, e dei più attivi; democratici di stampo conservatore, come Nicia, che si sentivano spinti a una guerra di un tipo che non gradivano (e a giudicare dagli esiti avevano ragione); forse finanche democratici radicali, che eventualmente non volessero perdonare ad Alcibiade la strumentale alleanza stretta con Nicia al momento della ‘verifica’ dell’ostracismo del 417, quando i due avevano individuato una comune, e comoda, vittima politica nel demagogo Iperbolo.

- Primo tempo, mutilazione delle erme, turbamento pubblico e presagi negativi per la spedizione che sta per partire: il primo, più elementare, colpo contro Alcibiade è così già assestato. Ma intanto la coscienza civica e religiosa è toccata e turbata: si cercano gli autori di questo crimine, come di altri dello stesso tipo; comincia, usando un’immagine anacronistica, la caccia alle streghe. Alcibiade, che è la vittima prima del gesto degli ermocopidi (tagliatori di erme), e che non può certo considerarsi fra gli autori di quell’episodio, viene coinvolto direttamente nell’accusa di sacrilegio in quello che è il prevedibile secondo tempo del complotto, il tempo cioè della caccia alle streghe. Si cerca l’empio e lo si trova proprio in Alcibiade, accusato di aver parodiato, in casa sua, i misteri di Eleusi, di aver cioè celebrato, per continuare con le anacronistiche metafore, una nefanda messa nera. Alcibiade chiede di essere giudicato subito, con l’impazienza di chi vede sorgere intoppi giudiziari e burocratici a un’impresa che sta realizzando: ma, e anche questo sembra un terzo tempo ben calcolato, sulla sua testa è lasciata pendere l’accusa, lo si spedisce in Sicilia – troppo forti erano i rischi connessi con la presenza di un’armata pronta a partire ed impaziente – e si rinvia solo a un secondo momento il suo richiamo.

- La spedizione parte nell’estate del 415, rotta Egina, poi Corcira; quindi, tagliando il mar Ionio, raggiunge l’Italia. A capo di essa erano stati messi e confermati Nicia, Lamaco, Alcibiade. Quest’ultimo aveva la linea strategia apparentemente più prudente, ma di fatto più ispirata a idee di grandezza: costruire in Sicilia una vasta alleanza e poi attaccare Siracusa; più che una spedizione in soccorso di alleati in difficoltà, dunque, la creazione di un assetto politico diverso in funzione anti-Siracusana. Lamaco invece era favorevole a un attacco immediato; Nicia a un’interpretazione rigorosamente limitativa dei fini della spedizione: sostenere Segesta, attaccare o intimidire Selinunte, inducendola a riconciliarsi com la città elima, fare eventualmente qualcosa in favore degli esuli Leontini.

- La flotta aveva costeggiato l’Italia, senza riscuotere simpatia fra le città greche della regione; Taranto e Locri rifiutano persino l’ormeggio e l’acqua. Ma anche Reggio vieta

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l’ingresso degli Ateniesi in città e, con forte coerenza, Messina tiene un comportamento analogo. Anche le città calcidesi in Sicilia, tranne Nasso, mostrano notevole freddezza nei confronti di Atene. A Catania tuttavia gli Ateniesi, veduta cadere una speranza dopo l’altra, devono forzare la situazione e irrompere in città; e qui il loro esercito si trasferisce dal territorio di Reggio, dove era rimasto attestato.

- A questo punto si ha il richiamo in patria di Alcibiade, la cui posizione, riguardo alla parodia dei misteri, era nel frattempo peggiorata a seguito delle denunce e delle inchieste. A Catania giunse la nave di stato Salaminia, per riportarlo ad Atene; egli l’accompagnò con la sua propria nave fino a Turii, ma qui fece perdere le sue tracce, per riapparire poi nel Peloponneso, prima in territorio argivo, poi a Sparta, dove consigliò l’intervento, e l’invio di Gilippo a Siracusa (inverno 415/4).

- In Sicilia la prima stagione di guerra (autunno 415) si consumava in un’azione ateniese per sé fortunata, ma senza seguito: nella pianura del santuario di Zeus Olimpo, a sud-ovest di Siracusa, si svolse una battaglia contro l’esercito siracusano, che ne uscì battuto. Seguì il trasferimento dell’esercito ateniese nei quartieri d’inverno di Nasso e Catania; e furono fatti tentativi di guadagnare alleati in Sicilia – era così in definitiva adottato, benché forse con scopi più limitati, lo schema di Alcibiade. I risultati furono magri: Messina rimase neutrale; più favorevoli i Siculi, nell'area che gravitava intorno a Siracusa. Meno deludente la neutralità di Camarina e di Agrigento.

- Ancora larga parte della buona stagione del 414 fa registrare successi agli Ateniesi. La guerra assume certo i tempi lunghi dell’assedio, ma gli Ateniesi sembrano assicurarsi le posizioni vincenti. Ricevuti rinforzi di cavalleria da Atene e dagli alleati siculi, l’esercito invasore approfitta di alcune incertezze dei Siracusani: mentre i Siracusani cingevano la città di fortificazioni, gli Ateniesi si impadronivano delle alture delle Epipole, che dominavano la città da ovest e nord-ovest. Al sistema di fortificazioni siracusano gli Ateniesi intendono contrapporne uno più vasto, grandioso, ma anche più temerario: delle Epipole essi vogliono chiaramente fare il perno di un sistematico blocco, di cui le parti artificiali sono costituite da un muro estendentesi circa 5 km., tutt’intorno alla città, dal porto Grande a sud, fino al Trogilo a nord – buona parte del porto Grande così sarebbe restata accessibile alla flotta ateniese, mentre l’esercito si accampava fin nelle sue vicinanze. Gli scontri, con i quali i Siracusani cercarono di impedire l’opera (di cui in realtà la parte più settentroniale, dalle Epipole in su, restò incompiuta), furono altrettanti insuccessi per i Sicelioti, ache se nel corso di essi trovò la morte lo stratego ateniese Lamaco.

- Ma questo è anche il momento più alto della parabola della spedizione ateniese in Sicilia, ché subito cominciano i rovesci. Sparta e Corinto, sollecitate da Alcibiade, oltre che dagli ambasciatori siracusani, inviano aiuti. Lo spartano Gilippo raggiunge con sole 4 triremi la Sicilia, sbarcando ad Imera, da dove, con aiuti imeresi, e anche di Selinunte e Gela e dei Siculi dell’interno, per un totale di circa 3000 uomini, raggiunge per via di terra Siracusa, passando per la zona che gli Ateniesi avevano lasciato ancora non fortificata: Gilippo prende con un attacco a sorpresa l’altura delle Epipole, e dà avvio alla costruzione di un muro, incrociando la linea di sviluppo della fortificazione ateniese e compromettendone il completamento, vanificando in tal modo l’accerchiamento totale della città progettato dagli Ateniesi; ora si trattava di minare le posizioni ateniesi più a sud, nella zona del Porto Grande.

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- Ivi Nicia aveva, dopo l’arrivo di Gilippo, fortificato il capo Plemmirio, che chiude il porto a sud-est. Tra l’autunno del 414 e la primavera del 413 erano arrivati aiuti ai Siracusani (altre 12 triremi da Corinto, quasi 4000 fanti tra Siculi, Spartani, Beoti ed altri): ne seguirono due scontri navali, uno sfavorevole ai Siracusani, l’altro agli Ateniesi – nel frattempo però Gilippo da terra si impadroniva delle fortificazioni del capo Plemmirio. Da questo momento in poi tutto peggiora per Atene: infatti, la spedizione in Sicilia ha già maturato contro di Atene i timori e i risentimenti delle città del Peloponneso. A muovere le acque erano stati sia gli ambasciatori siracusani inviati a Corinto e a Sparta nell’inverno 415/4, sia lo stesso Alcibiade, che aveva enfatizzato i piani ateniesi di conquista, attribuendo loro quella dimensione grandiosa che egli stesso aveva forse un giorno sognato: assoggettare i Sicelioti e gli Italioti, e Cartagine stessa, e poi, con i barbari dell’Iberia e con altri particolarmente bellicosi, assalire il Peloponneso e dominare perciò su tutta la Grecia.

- In Grecia, già al momento dell’invio di Gilippo (414), gli Spartani avevano progettato di occupare e fortificare Decelea in territorio attico, circa a 20 km a nord-est di Atene; nel corso dell’anno ci furono scontri di breve respiro tra Spartani e Argivi, dapprima con incursioni nei rispettivi territori, seguite poi dall’intervento ateniese e da una serie di sbarchi sulle coste orientali della Laconia: la pace di Nicia era ormai palesemente violata, con lo scontro diretto tra le due grandi città; perciò nella primavera del 413 il re Agide II invadeva l’Attica e dava inizio all’occupazione stabile di Decelea, adottando una strategia diversa da quella delle incursioni periodiche degli anni 431-425.

- Atene non poteva certo dimenticare il suo esercito in Sicilia. Già nell’inverno aveva inviato soccorsi: 10 navi a Siracusa, 20 a Naupatto per una missione di disturbo (mal riuscita invero); ma, soprattutto, durante l’estate del 413 inviava una nuova flotta e una nuova armata in Sicilia, 73 navi con 5.000 opliti e molti armati alla leggera, al comando di Demostene. Durante il viaggio, gli Ateniesi raccoglievano le adesioni di Metaponto e di Turii, due città che, a causa di rivolgimenti politici interni, avevano preso il coraggio di contrastare Taranto.

- Appena sbarcato nel porto Grande di Siracusa, Demostene si dedica alla ripresa del progetto di blocco già in parte realizzato, e interrotto dalla vittoria di Gilippo. La premessa è la riconquista delle Epipole: in uno scontro notturno gli Ateniesi, dopo un primo successo, subiscono una durissima sconfitta (fine di luglio del 413). Demostene aveva sin dall’inizio saputo che la vittoria in quel settore era la condizione indispensabile per la prosecuzione della guerra: ormai non aveva più senso continuarla e non c’era altro da fare che tornarsene in patria. La strategia di tempi rapidi portata avanti da Demostene si spiega d’altronde assai bene con la situazione di guerra in casa, in cui ormai è ricaduta Atene: l’impresa di Sicilia doveva concludersi subito, o con una vittoria o con una ritirata, perché in patria imcombevano altri pericoli.

- La sera del 27 agosto 413 la flotta ateniese è pronta a salpare dal porto Grande di Siracusa, ma un’eclisse di luna consiglia a Nicia, superstizioso quanto i suoi marinai, il rinvio della partenza. Decisione fatale: i Siracusani cercano di bloccare l’uscita del porto, e in due scontri navali raggiungono il loro intento; nel primo muore lo stratego Eurimedonte (che aveva accompagnato Demostene) e cadono nelle mani nemiche 18 navi ateniesi; nel secondo gli Ateniesi, pur con una flotta nmericamente superiore a quella nemica, sono ancora battuti, perdono altre 50 navi, e sono ricacciati nelle loro basi di terra. Ora essi possono solo cercare lo scampo in una fuga per via di terra, ma non verso nord e verso l’amica Catania (ché di

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mezzo ci sono le fortificate Epipole), o verso l’interno ad Acre, ma lungo la costa, verso Camarina.

- I Siracusani inseguono implacabili l’esercito nemico che si allontana in fuga indisciplinata; troppo forte è il desiderio di impartire all’invasore una lezione esemplare, di portata ed efficacia storica. Nella marcia, l’avanguardia, guidata da Nicia, procede troppo velocemente per poter essere seguita da Demostene, che conduce più della metà dell’esercito: perduto il contatto, Demostene diventa il primo bersaglio degli inseguitori siracusani e presto si arrende. Nicia prosegue a marce forzate verso sud, ma, giunto al fiume Assinaro, subisce l’ultimo attacco del nemico, perde del tutto il controllo della situazione, e cade con tutto l’esercito nelle mani dei Siracusani. Contro la volontà di Gilippo, Nicia e Demostene sono giustiziati; gli altri prigionieri vengono trattenuti nelle Latomie, le cave di pietra di Siracusa, per un paio di mesi: una sosta in condizioni durissime, preludio alla vendita come schiavi di quelli che non fossero di Atene o di città alleate di Sicilia o d’Italia, cioè i Siculi fondamentalmente. Pochi, ci racconta Tucidide, rientrarono dalla spedizione ad Atene, in parte forse per essersi sottratti alla fuga del grosso dell’esercito guidato da Nicia e Demostene, ed esser stati capaci di trovare una via di salvezza verso Catania. La libertà della Sicilia era salva, come aveva promesso lo spartano Gilippo prima della battaglia decisiva nel porto Grande: e Sparta ne aveva il merito di fronte all’opinione pubblica greca.

14. La guerra di Decelea e la guerra ionica (413-411)- Nel fitto susseguirsi di eventi, intrecciarsi di situazioni, sovrapporsi di piani diversi di azioni

politiche che costituiscono il secondo grande spezzone della guerra del Peloponneso (413-404), iniziatosi con l’occupazione spartana di Decelea, possono individuarsi almeno quattro aspetti fondamentali, in parte nuovi rispetto alle caratteristiche della guerra archidamica (431-421).

- 1) In primo luogo spicca il ruolo di Alcibiade, di una personalità politica, che tra il 415 e il 411 determina in senso negativo le vicende di Atene, sia in Sicilia, con i consigli di intervento rivolti agli Spartani, sia in Egeo, con l’intesa da lui promossa tra Sparta e la Persia, sia in patria, con l’ideazione, che a lui in prima istanza risale, del cambiamento di regime da democratico ad oligarchico nel 411. Se un Pericle e un Cleone aveva rappresentato, con fondamentale coerenza, un punto di vista e una linea politica e di comportamento, in Alcibiade si vede all’opera una personalità che assoggetta (o crede di assoggettare) ai suoi disegni, e alla sua idea di rapporto col popolo, comportamenti e politiche in fiero contrasto fra di loro: e, fatale per Atene, i disegni che più andarono ad effetto furono proprio quelli più avversi alla sua città. Segno di contraddizione in Atene e nella Grecia intera, al centro di amori e di odii violenti, che si scontrano intorno alla sua persona, uomo di fondamentale formazione democratica, nonostante i rinnegamenti occasionali e strumentali, ma assai meno capace di Pericle di tenere quella linea divisoria tra pubblico e privato, tra la realtà politica e la sua persona, a cui lo zio e tutore aveva ispirato la sua propria visione e azione politica, Alcibiade rappresenta l’esplodere della personalità in un contesto in cui i valori comunitari erano stati finora decisivi.

- 2) Ad Alcibiade si devve l’avvio di quei contatti con i governanti persiani dell’Asia Minore, che dovevano procurare l’intervento di questi nella guerra greca e l’appoggio del Gran-re a Sparta (seconda caratteristica della nuova fase di guerra). Che poi nel corso delle trattative egli abbia cambiato posizione, e cercato di sfruttare a vantaggio di Atene il patrimonio di

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relazioni che aveva accumulato e imbastito, se da un lato rivela la vera propensione di Alcibiade, dall’altro toglie però assai poco al fatto che l’idea, nata nella mente dell’ateniese, abbia poi preso corpo e marciato per conto suo: i trattati spartano-persiani del 412/1 sono la distante ma logica premessa della fervida intesa tra il viceré persiano di Sardi, Ciro il giovane, e il generale spartano Lisandro dal 408 in poi.

- 3) Ad Alcibiade si devono ancora iniziative, presto rinnegate, per modifiche nella costituzione ateniese, ed è questo il terzo motivo caratteristico del periodo. I primi indizi sono da riconoscere nel clima di complotto rivelato dall’episodio delle erme del 415; primi sviluppi di aspetto legalitario sono nell’istituzione, nel 413, di una commissione di 10 próbouloi (consiglieri che ‘istruivano’ le varie questioni), presto portata a 30 membri; infine, nel 411, il colpo di stato oligarchico. È nel senso di quanto si è già sopra osservato il fatto che Alcibiade avviasse il processo oligarchico, sostenendo che esso sarebbe stato gradito alla Persia (al momento in cui aveva deciso, in un nuovo revirement, di trasferire a beneficio di Atene le sue aderenze persiane), ma che poi si decidesse a rientrare a vele spiegate nel campo democratico, che era in definitiva quello della sua vera vocazione politica, pur se adulterata e resa inquietante da marcate componenti personalistiche.

- 4) Un quarto aspetto da sottolineare risiede nelle dimensioni e nel ruolo che assume in questa nuova fase della guerra greca il problema degli alleati di Atene – certamente il meno nuovo, visto che tutta la storia dell’impero navale ateniese è percorsa da tensioni fra Atene e i suoi sýmmachoi. Il precedente episodio di ribellione ad Atene da parte di Mitilene, tutto sommato un evento isolato, ora si moltiplica e diventa sistematico; vi si intrecciano la rivolta spontanea degli alleati ionici di Atene, la sollecitazione e la presenza spartana e, ancora una volta, dello stesso Alcibiade, lo scontro fra le flotte dei due grandi schieramenti greci e gli interventi finanziari, militari, politici dei Persiani. Del resto, la fine della guerra del Peloponneso si deciderà soprattutto qui, nell’Egeo settentrionale e orientale, fra le isole prospicienti le coste e presso le stesse coste dell’Asia Minore occidentale. Abido, Cizico, Notion, le Arginuse, Egospotami, sono tutti nomi di luoghi ‘asiatici’ o di aree vicinissime all’Asia Minore, connessi con svolte e con fatti decisivi della guerra del Peloponneso: per gli antichi non vi era dubbio che la vittoria di Lisandro, nell’estate del 405, ad Egospotami sull’Ellesponto, fosse, in senso lato, la diretta premessa della resa di Atene, avvenuta solo otto mesi dopo.

- Si può dunque dire che tutta la politica praticata dagli Ateniesi, fino alla seconda spedizione di Sicilia inclusa, cominci a produrre contraccolpi dal 413 in poi. Sul terreno politico v’è l’innovazione della commissione istruttoria di 10 próbouloi (tra i quali vi è anche Agnone, padre di Teramene), espressione dell’esigenza di un qualche controllo preventivo dell’attività della boulé. Sul terreno finanziario si ha la sostituzione del vecchio tributo con uno nuovo, consistente in una quantità fissa pari al 5% del valore delle merci in arrivo e in partenza, un criterio forse più equo, ma certamente fonte di ancora maggiori entrate. Tucidide colloca la riforma subito dopo l’occupazione di Decelea, sottolineando gli svantaggi d’ordine economico che conseguivano all’occupazione spartana – i rifornimenti dall’Eubea ora dovevano fare il costosissimo giro di capo Sunio.

- La rivolta degli alleati di Atene scoppia in Eubea, a Lesbo, a Chio, che mandano ambasciatori a Sparta, per sollecitarne l’intervento. Un convoglio peloponnesiaco al comando di Astioco riesce a forzare il blocco ateniese e arrivare all’isola di Chio a metà dell’estate del 412. La rivolta si allarga a macchia d’olio: Eritre, Clazomene, Teo, Mileto,

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Lebedo, Metimna e Mitilene defezionano da Atene. È certamente opera anche di Alcibiade il coinvolgimento della Persia: è giusto però ricordare, ma solo come dovuto contesto all’iniziativa di Alcibiade, che il coinvolgimento dei Persiani era innanzi tutto il portato del tutto naturale, di mero ordine geografico-politico, del trasferimento nella Ionia dell’asse del conflitto. Vi era naturalmente una comprensibile ambiguità del comportamento degli Ioni, i quali erano a metà strada tra il desiderio di liberarsi da Atene e quello di non cadere del tutto nelle mani dei Persiani.

- Dopo la presa di Mileto da parte peloponnesiaca, comincia la serie dei trattati di Sparta con la Persia, che Tucidide riporta come se fossero tre, ma che probabilmente sono ulteriori precisazioni di un unico trattato: la materia dello scambio è la rinuncia, da parte spartana, alla difesa dell’autonomia dei Grecia d’Asia dal re di Persia e la concessione di aiuti finanziari per la guerra, da parte persiana.

- Nell’estate del 412 il contrattacco ateniese consegue lo scopo di riconquistare Lesbo e Clazomene e bloccare Mileto: qui gli ateniesi effettuano alla fine dell’estate uno sbarco, reso vano dal sopraggiungere di una flotta peloponnesiaca di 55 triremi, fra cui 22 da Siracusa e Selinunte. Mileto è ormai la base della flotta peloponnesiaca, capeggiata dagli spartani Pedarito e Astioco. La base della flotta ateniese invece è la ormai fedele Samo.

- Una dopo l’altra, le città della Lega sono perdute da Atene. All’inizio del 411 gli Ateniesi hanno, oltre Samo e Notion, Lesbo a nord, Cos e Alicarnasso a sud, e l’isolata posizione di Clazomene; punti chiave come Chio, Efeso, Mileto, sono ormai perduti.

15. Il colpo di stato del 411 ad Atene- Sono ormai date le condizioni per una svolta politica in senso oligarchico, come logico

sviluppo di precedenti avvisaglie, come reazione agli insuccessi della politica estera democratica, come maturazione delle trame più o meno occulte tessute da Alcibiade con gli ufficiali ateniesi della flotta di Samo. Secondo Alcibiade, la situazione nell’Egeo orientale si poteva ribaltare mutando il regime da democratico in oligarchico: Pisandro, trierarco a Samo, raggiunge Atene, latore di queste proposte. In realtà, per gradi, Alcibiade sta tentando di rientrare nel gioco politico ateniese: quando il disegno sarà maturo, il suo interlocutore sarà, come agli inizi della sua carriera, il regime democratico.

- Ostacoli al nascente regime oligarchico potevano venire, e di fatto vennero, dalla stessa flotta di Samo, da cui erano partiti gli ufficiali istigatori del completto (Pisandro e altri). Erano infatti numerosi i cittadini impiegati negli equipaggi; e questi vennero presto a trovarsi nella condizione di contrastare gli sviluppi politici ateniesi.

- Occorre comunque tenere distinte le vicende della città di Samo e quelle della flotta e degli equipaggi della flotta ateniese che erano a Samo. Nell’estate del 412 c’era stata nell’isola una rivoluzione democratica, che aveva fatto strage dei capi oligarchici e privato gli altri di diritti politici e di proprietà. Nel 411 sono gli oligarchici a tentare di rovesciare la situazione, contando sugli ufficiali cospiratori, e uccidendo Iperbolo. L’intervento degli equipaggi ateniesi democratici e dei nuovi strateghi da essi eletti, tra cui Trasibulo di Stiria e Trasillo, è decisivo per soffocare il tentativo oligarchico.

- Preoccupati per i fatti di Samo, gli oligarchici di Atene – fra cui spiccano Antifonte, Frinico e Teramene – cercano di ammansire gli uomini della flotta, sforzandosi di mostrare che, una volta passati effettivamente i poteri ai Cinquemila, nulla praticamente sarebbe stato diverso

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dal passato: ad Atene sarebbero i cinquemila di norma a frequentare l’assemblea. L’argomento passava evidentemente al di sopra di tutte le questioni di principio e di diritto.

- Un fatto che va sottolineato con forza è il ruolo politico particolarissimo che assume l’assemblea dei marinai ateniesi a Samo. Si assiste a una vera e propria scissione nella cittadinanza ateniese; la spaccatura ideologica all’interno di Atene è diventata fisicamente evidente, quasi tangibile. La parte della cittadinanza ateniese che serve nella flotta di Samo intende incarnare la legittimità democratica, intende valere come la vera città di Atene. Alcibiade, che nel frattempo ha preso le distanze, pur con opportune lentezze, dagli oligarchi, è il lontano ‘garante’ dell’operazione. L’assemblea dei marinai ateniesi a Samo lo richiama dall’esilio; loro stessi sono fuori di Atene, ma, poiché si sentono come la vera Atene, pongono fine all’esilio di Alcibiade, chiamandolo fra loro. E Trasibulo liquida in un’assemblea con un duro intervento tutto il sottile discorrere che si fa della “costituzione patria”: per questo schietto e rude democratico, le “patrie leggi” non sono altro se non quelle che c’erano fino a ieri ad Atene (interpretazione del tutto legittima) e che gli oligarchi avevano abolito.

- Dopo appena quattro mesi di oligarchia dei Quattrocento, il tentativo di fortificare il nord del Pireo, certo con l’intento di impedire uno sbarco di quelli di Samo, suscita il sospetto che si stia costituendo una base d’appoggio per uno sbarco spartano – sospetto propalato ad arte da Teramene, che ormai prende le distanze dal gruppo oligarchico, e che in questa occasione si guadagnerà il nome di ‘coturno’, la calzatura per tutti gli usi, la scarpa ambidestra. Frinico fu ucciso in piazza; il potere si disse essere esteso ormai ai Cinquemila (agosto del 411).

- Intanto riprendeva l’attività della flotta ateniese di Samo. Della zona dell’Ellesponto gli Ateniesi conservavano ancora il controllo: è perciò qui che si rivolge lo sforzo peloponnesiaco. Azioni di Dercidilla contro Abido e Lampsaco nella Troade, e defezioni di Bisanzio, Calcedone, Selimbria, Perinto, Cizico, compromettono nell’estate del 411 le posizioni ateniesi nella zona degli Stretti. Nel vicino Egeo settentrionale, in autunno, seguono l’esempio dei ribelli l’isola di Taso e la città di Abdera in Tracia. Circa lo stesso periodo una flotta peloponnesiaca di 42 navi, al comando di Agesandrida, batte gli Ateniesi presso Eretria, e la vittoria procura la defezione di tutte le città dell’isola d’Eubea, così vitale per il rifornimento di Atene.

16. La continuazione della guerra ionica e il ritorno della democrazia ad Atene- Nella primavera del 410 la flotta ateniese, comandata da Alcibiade e rafforzata da una

piccola squadra condotta proprio da Teramene, sconfiggeva davanti a Cizico il nuovo navarco spartano Mindaro, che trovava la morte in battaglia: tutta la flotta peloponnesiaca era catturata.

- Ora anche nelle operazioni di terra Atene riprende l’iniziativa: il re Agide, spintosi da Decelea fin sotto Atene, si trova di fronte a un esercito, comandato da Trasillo, ma rifiuta la battaglia. I tempi sono ormai maturi per una piena restaurazione democratica, e il personaggio che si mette in luce nel 410 è Cleofonte, un fabbricante di lire. È il ritorno del consiglio dei Cinquecento e della democrazia delle indennità, abolite col colpo di stato del 411.

- Tra il 409 e il 408, Alcibiade coglie nuovi successi nell’Ellesponto contro i Peloponnesiaci e contro Farnabazo, il satrapo persiano della Frigia, e quasi tutte le posizioni perdute nell’area degli Stretti e nell’Egeo settentrionale sono recuperate da Atene.

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- Nella democrazia ateniese si creano ora le condizioni di una rivalità politica, che per il momento non dà ancora luogo a un conflitto. Infatti Alcibiade è eletto alla strategia nella primavera del 408; il rientro trionfale in patria, nell’estate di quello stesso anno, coincide con l’assunzione della carica. Atene si stringe commossa intorno al prediletto d’un tempo, da cui si aspetta soprattutto la liberazione dai mali presenti. Alcibiade, che era andato in esilio per l’accusa di aver parodiato i misteri eleusinii, è lo stesso a cui è consentito guidare per via di terra ad Eleusi la processione, che in quegli anni aveva potuto svolgersi solo per mare, per timore di attacchi spartani da Decelea.

17. L’ultima fase della guerra (407-404)- Ma è nell’Egeo orientale che si va preparando la svolta decisiva per la guerra. L’invio a

Sardi del quindicenne Ciro, figlio di Dario II, nel 408, con poteri di capo delle forze persiane in Asia Minore, determina un decisivo avvicinamento tra la Persia e Sparta, per l’intesa piena che si istituisce tra Ciro e Lisandro.

- Lisandro, uno stratega del tempismo, rifiuta una provocazione di Alcibiade alla battaglia nell’estate del 408, e invece accetta quella che gli offre il luogotenente di Alcibiade, Antioco, di sua sola iniziativa nella primavera del 407: Antioco è sconfitto e muore in battaglia. Ora gli eventi assumono quella repentinità e quella rapidità che sono caratteristiche di tanti sviluppi politici ad Atene: nella primavera del 407 Alcibiade, che era stato rieletto stratego per il 407/6, è deposto e sostituito con Conone, e si ritira nelle sue fortezze sull’Ellesponto.

- Dopo il durissimo colpo subìto a Cizico, gli Spartani avevano provveduto a ricostituirsi una flotta. Nel quadro dell’impegno spartano per la ripresa della guerra navale, da dirigere contro l’Egeo settentrionale e gli Stretti – dove Atene ancora resiste, anzi mostra capacità di ripresa fortissima, per merito di Alcibiade – va collocato il riavvicinamento tra Sparta e la Persia, avvenuto a seguito dell’allontanamento di un Tissaferne già orientato a favore di Atene e dell’insediamento di Ciro al posto di comando di Sardi. Nel 406 a Lisandro succede Callicratida: questi, con una flotta di 140 triremi, conquista la postazione ateniese del Delfinio a Chio, poi si spinge fino a Lesbo, dove prende Metimna e sconfigge una flotta ateniese dislocata, al comando di Conone, davanti a Mitilene, bloccandola poi nel porto.

- Ad Atene si corre ai ripari con misure eccezionali: promettendo la cittadinanza ai meteci e la libertà agli schiavi e fondendo, per coniarne denaro, oggetti preziosi consacrati nei templi, si riesce a mettere insieme equipaggi e navi. Una flotta di 150 triremi affronta ora una flotta spartana di 170 triremi, guidata da Callicratida, presso le isole Arginuse, situate tra Lesbo e il continente asiatico. Il comandante spartano muore nella battaglia, che costa a Sparta 70 triremi (tarda estate del 406). Ma gli Ateniesi ne perdono a loro volta 25: la vittoria è quindi pagata a caro prezzo, tanto più caro in quanto gli strateghi, per le cattive condizioni del mare, avevano omesso di soccorrere i naufraghi. Per questo, quanti di essi erano rientrati in patria, furono sottoposti a giudizio di fronte all’assemblea popolare; ssei, su otto che avevano esercitato il comando alle Arginuse – due si sottrassero infatti al giudizio con la fuga; gli altri, tra cui Pericle il giovane, figlio di Pericle e Aspasia, e Trasillo, leader della rivolta samia, furono condannati a morte. Suscitò l’opposizione di Socrate (e suscita ancora oggi fortissime riserve) la procedura sommaria adottata: non si fecero infatti distinzioni fra le responsabilità individuali, e giuridicamente questo è l’aspetto più sconcertante del processo delle Arginuse. La colpa c’era, e grave: l’omissione di soccorso era infatti palmare,

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anche se potevano esserci delle attenuanti. Il processo non fu tanto un atto di follia della democrazia ateniese, quanto l’espressione di una esasperata e implacabile coerenza, che non volle sanare un comportamento colpevole, neanche con gli allori di una vittoria. Certo, delle responsabilità vi erano, salvo che andavano meglio definite e delimitate. Gli strateghi volevano in definitiva salvare tutti dalla condanna, diluendo le responsabilità fra se stessi e i trierarchi a loro subordinati (cioè i capitani di vascello, tra i quali Trasibulo e Teramene); ma è proprio Teramene che, ad evitare anche ogni possibile sviluppo negativo, parte all’attacco, calcando la mano sulla responsabilità degli strateghi, i quali finiscono necessariamente schiacciati tra il furore del popolo e le accuse del subordinato.

- Nel frattempo, alla navarchia spartana torna di fatto Lisandro – di fatto, non di diritto, perché la carica a Sparta non poteva rivestirsi due volte. Come epistoleús, cioè come comandante in seconda agli ordini di Araco, Lisandro riprende le operazioni nell’area degli Stretti e nell’Egeo settentrionale (405/4). Lampsaco, nella Troade, è ripresa agli Ateniesi: qui le 200 triremi peloponnesiache fronteggiano le 180 triremi ateniesi, ancorate alla rada di Egospotami. Gli Ateniesi offrono invano la battaglia per quattro giorni; al quinto, quando sono dispersi a terra per colazione, Lisandro li attacca e li sgomina. La flotta ateniese cade nelle sue mani; solo Conone riesce a scappare con 20 navi. Fra i prigionieri, Lisandro fa uccidere a Lampsaco 3000 Ateniesi.

- È sùbito un crollo di tutte le posizioni ateniesi da Sesto a Bisanzio a Mitilene; presto Lisandro compare con 150 navi di fronte al Pireo, mentre da terra il re Pausania II congiunge le sue forze con quelle di Agide II, attestate a Decelea, e, avendo marciato su Atene, si apposta presso l’Accademia, poco fuori di Dipylon. Dopo qualche tempo gli eserciti spartani rinunciano all’assedio; resta la flotta a bloccare i rifornimenti. Le proposte di pace di Sparta, non così gravi come quelle che dovranno alla fine essere accettate, sono respinte da Cleofonte, divenuto campione di una resistenza ad oltranza che ormai, senza l’impero, senza l’Eubea, senza la flotta, e col nemico al Pireo, era divenuta priva di senso.

- Decisiva, ancora una volta, l’iniziativa di Teramene: dapprima egli si offre come ambasciatore presso Lisandro, e vi resta ben tre mesi – durante i quali la stessa penuria di rifornimenti raccomanda agli Ateniesi il cedimento, e si coglie l’occasione per condannare a morte Cleofonte con la motivazione di non aver compiuto il suo dovere di ufficiale. Rientrato quando ormai la temperatura era quella giusta, Teramene ottiene i pieni poteri come ambasciatore (un caso eccezionale nella democrazia ateniese).

- Ed ecco che, alla fine della guerra del Peloponneso, riappaiono i due fili che abbiamo distinto all’inizio: Corinzi e Tebani volevano la distruzione di Atene e la dispersione, con la vendita in schiavitù, dei suoi cittadini; ma il governo spartano si oppose, nonostante l’orientamento estremistico di Lisandro e Agide II. Le condizioni furono: rinuncia di Atene a tutti e possedimenti esterni, anche le cleruchie di Sciro, Lemno e Imbro (cioè, il vitale corridoio ateniese verso l’Ellesponto); abbattimento delle fortificazioni del Pireo e delle Lunghe Mura; consegna della flotta da guerra, tranne 12 triremi; richiamo degli esuli; revisione della costituzione, che doveva tornare ad essere quella ‘patria’.

- Il 16 Munichione del 404 Lisandro entrava con la flotta nel Pireo; l’abbattimento delle Lunghe Mura era avviato al suono dei flauti: quel giorno sembrava l’alba della libertà, degli Ateniesi all’interno di Atene e dei Greci tutti verso la città che li aveva dominati. Qualche mese ancora resisterà Samo, che alla fine dovrà arrendersi e subire un nuovo mutamento di regime, questa volta in senso oligarchico.

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- Anche ad Atene gli sviluppi politici saranno nel senso dell’oligarchia: per la seconda volta, in pochi anni, la democrazia era abolita, dopo aver esibito un grado notevolissimo di stabilità, dal 508 al 411. Una comissione di trenta “costituenti” (syngrapheís) è instaurata e incarata di redigere le “leggi patrie”, la “costituzione patria” (pátrioi nómoi, pátrios politeía). Presto Crizia e Teramene diventeranno protagonisti di un conflitto che sarà fatale per entrambi. Alla fine della guerra del Peloponneso qualcuno, come Crizia, può credere seriamente di poter trasformare Atene in una nuova Sparta: un paradosso storico, che costituisce un’emblematica conclusione del periodo storico qui trattato, e un’ideale formula di passaggio alla considerazione delle spinte e situazioni che fermentano nella nuova epoca storica dischiusa dalla disfatta di Atene.

Note integrative

a) Aspetti della commedia antica- La commedia archaía è per definizione ‘politica’ e dotata, per lo più di iambiké idéa, cioè di

un attitudine aggressiva, in cui si esprimono l’opinione pubblica, il conflitto tipicamente democratico delle idee e la velenosità dell’attacco personale. Complessivamente, la commedia esprime posizioni conservatrici, ostili ai personaggi della democrazia radicale. Ma niente è così istruttivo, circa il carattere relativo di tali distinzioni, quanto il fatto che di generazione in generazione la commedia cambi bersaglio, e quel che era il capro espiatorio di un tempo diventi, per la legge del tempo, il segno e l’oggetto della nostalgia per il buon tempo andato.

- L’unico poeta della commedia antica di cui ci siano pervenute commedia intere è Aristofane. Tutto il nuovo della democrazia viene passato al setaccio della sua critica pungente ed estrosa. Aristofane (ca. 455-388) nelle sue prime commedie (Banchettani, Babilonesi, Acarnesi) sottopone a critica la politica estera ateniese, per il suo bellicismo e i comportamenti ingiusti verso le città alleate: il poeta vuol essere portavoce, o anche promotore, di un’opinione pubblica cittadina (o anche intracittadina, con riferimento agli alleati), potenzialmente esistente.

- Il demagogo conciapelli Cleone è il bersaglio già delle prime commedie, ma in modo particolarissimo dei Cavalieri, in cui la scelta di Aristofane è inequivocabile, in favore della élite stessa del dêmos ateniese e del popolo di proprietari e contadini, e contro i demagoghi nuovi ricchi. Non è solo il nuovo sociale della democrazia ad attirare gli strali di Aristofane; lo è anche il nuovo sul terreno della cultura e dell’educazione, nelle Nuvole, al cui centro è un Socrate sofista, studioso delle cose trascendenti e di quelle sotterranee, ancora fortemente anassagoreo. Il nuovo del regime democratico, consistente nell’assistenzialismo (corruttore, agli occhi di Aristofane) dell’elargizione delle indennità (misthoí) per i giudici, è rifiutato nelle Vespe, che trattano il tema dell’‘isterismo giudiziario’ dell’uomo comune della democrazia ateniese, smanioso di esercitare funzioni di eliasta e di percepire il relativo soldo (scarso e umiliante, sempre per Aristofane). E contro il bellicismo della democrazia radicale, e in favore dell’ampia base rurale della democrazia ateniese, si pronuncia la Pace, che nel 421 precede di pochissimo la stipula della pace di Nicia.

- La serie delle commedia successive conservate si apre con gli Uccelli, e continua con la Lisistrata, le Tesmoforiazuse, le Rane, le Donne all’assemblea e il Pluto. È ben difficile negare il cambiamento complessivo di tono: se nelle commedie della prima fase della guerra

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del Peloponneso il poeta si era impegnato in una lotta politica, che lo vedeva ancora determinato e fiducioso nella contrapposizione e contestazione diretta del nuovo della democrazia, già con gli Uccelli egli sceglie le vie dell’evasione – sempre nella misura possibile a un autore che continua pur sempre, fino in fondo, ad occuparsi della vita reale. Non viene certo meno né lo spirito polemico né l’orientamento suo proprio, ma sembra appannarsi la fiducia nel senso stesso della battaglia da svolgere; la polemica del poeta aggira in qualche misura lo scontro politico diretto, non è più semplice i immediato rovesciamento del dato esistente: è il suo aggiramento realizzato mediante l’invenzione fantastica di una realtà in tutto e per tutto diversa.

- Un’altra città, in un altro tempo, in un altro mondo, in un altro dove, fuori dei confini e magari dello stesso linguaggio dell’umanità, è la città degli Uccelli. Nella Lisistrata è l’utopia di una pace panellenica, realizzata con una trovata fuori del comune, lo sciopero dell’amore, da quella parte delle città in guerra che meno conta, nella guerra come nella politica, le donne. Ancora dal contesto delle donne, sorta di segno convenzionale del carattere utopico della proposta, il progetto di riforma ugualitaria e comunistica presentato ne Le donne all’assemblea. Utopia e attesa del miracolo sono segno dei nuovi tempi, nei quali si assiste, con solo apparente contraddizione, a un affievolirsi dell’impegno politico del cittadino comune e contemporaneamente a una partecipazione interessata, per il percepimento di gettoni di presenza, alle assemblee politiche.

b) Tucidide- Lo storico ateniese nacque circa il 460-455 e morì intorno al 400 a.C. Poco di certo

sappiamo della sua vita, eccetto le notizie che si ricavano dalla sua opera stessa: l’incarico dell’autore, durante la guerra del Peloponneso, di salvare Anfipoli, o almeno Eione, dagli attacchi dello Spartano Brasida; l’esilio ventennale dopo il fallimento di tale impresa.

- Le Storie di Tucidide, in 8 libri (la ripartizione però è di epoca alessandrina), hanno per principale oggetto la guerra del Peloponneso: la narrazione però giunge solo fino al 411. Vari furono i continuatori di Tucidide: Senofonte nelle Elleniche, Teopompo, Cratippo – ma l’unica conservataci per intero è quella di Senofonte.

- Una “questione tucididea” fu fondata da Ulrich nel 1845. L’opera di Tucidide fu tutta redatta dolo l’anno (404) della catastrofe di Atene? O passò attraverso più fasi di redazione e quindi più progetti di composizione? L’indagine sul vario significato dell’espressione “questa guerra”, ricorrente nelle Storie, e sul cosiddetto secondo proemio, induceva Ulrich ad ammettere due fasi fondamentali di redazione, l’una da datare dopo il 421, l’altra dopo il 404.

- Nella dimensione del tempo, la storiografia greca, dagli inizi a Tucidide, opera una continua riduzione del periodo narrato, una progressiva contrazione verso il periodo cui appartiene lo storico. Così, mentre i ‘logografi’ espongono le tradizioni greche sul passato ‘mitico’ e sul più remoto passato ‘storico’, già Erodoto concentra prevalentemente la sua attenzione sul periodo di storia orientale e greca che va dalla generazione di Creso e Pisistrato fino a quella delle guerre persiane, grosso modo gli anni 560-478 a.C., pur se si sofferma anche, e in diversa misura, su ‘fatti’ assai più remoti, che si tratti della guerra di Troia o della più antica storia egiziana, persiana o lidia. Tucidide, in nome di un’esigenza di verità e di utilità, e in antitesi ad una concezione storiografica che gli sembra far troppo posto al mito e concedere troppo al piacere del narrare e del sentir narrare, rinuncia a una particolareggiata narrazione

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della storia più remota, innazi tutto di quella anteriore alle guerre persiane, e riduce ulteriormente il campo d’osservazione (anche se con sporadiche e limitate eccezioni), scegliendo come argomento della sua storia la contemporanea guerra tra Atene e Sparta, narrata però, come si è detto, fino al 411, dopo un’introduzione sugli aspetti generali delle condizioni di vita proprie della Grecia antichissima e un consistente excursus sulla pentecontaetía (478-431).

- Per via di Tucidide si inizia anche una tradizione storiografica per cui uno storico continua (o integra) l’opera dello storico che l’ha preceduto. In Tucidide, alla riduzione del campo storico nella sua dimensione temporale come in quella spaziale, si affianca anche una particolare scelta del contenuto. Un posto privilegiato è fatto agli aspetti politico-militari della storia e, dunque, ai conflitti. L’attenzione di Tucidide è concentrata sugli aspetti ‘dinamici’ della storia umana, sulla potenza e i conflitti di potenza, lasciando in ombra gli aspetti ‘statici’, le ‘costanti’, cioè le istituzioni, le tradizioni religiose, i costumi, il mondo dei nómoi, insomma tuto quello che tanto stimolava la curiosità di Erodoto. Si configura perciò nell’opera di Tucidide un tipo di storiografia selettiva, concentrata sugli aspetti politico-militari, che è in forte contrasto con la varietà del tessuto narrativo dell’opera di Erodoto: in questa occupavano un larghissimo posto gli aspetti geografici ed etnografici, la curiosità per usi e costumi singolari, il gusto per l’aneddoto e per il meraviglioso, insoma le mille cose raccontate con l’autentica e trascinante gioia di ridire ciò che la propria mai sazia curiosità è riuscita a scoprire. Alla ‘struttura larga’ dell’opera erodotea Tucidide contrapponeva una pretesa di tipo monografico: la rinuncia compiuta da Tucidide a tanta ricchezza di temi era il prezzo pagato in nome di un ideale di ‘oggettività’, di ‘verità’, di ‘utilità’, che avrebbe dovuto realizzarsi attraverso una approfondita, e perciò necessariamente limitata, indagine sui fatti storici e sulle loro connessioni causali.

- Con una schematizzazione non priva di utilità, si possono distinguere nella storia della storiografia greca due grosse correnti: quella della storia politico-militare, o ‘pragmatica’, che ha i suoi massimi rappresentanti appunto in Tucidide e Polibio, e quella che evita la rigida selezione che la storiografia ‘pragmatica’ comporta, e dà rilievo alla rappresentazione di caratteristiche e curiosità etnologiche e individuali, accanto alla narrazione dei conflitti: la corrente, insomma, etnografica, descrittiva. Tra le due correnti non ci sono comunque nette barriere di separazione, e in diversa misura, secondo il temperamento, la qualità, la coerenza con le istanze metodologiche dei vari scrittori, l’un tipo di storiografia è permeato dalle esigenze e dagli apporti dell’altro.

7. Crisi e ricomposizione della pólis dopo la guerra del Peloponneso

1. L’idea di crisi. Pubblico e privato tra V e IV secolo

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- Una cesura importante nella storia della pólis classica è la fine della guerra del Peloponneso, con la sconfitta di Atene da parte di Sparta e della Lega Peloponnesiaca (404). Nel V secolo Sparta e Atene rappresentano non solo città diverse e nemiche, ma modelli di società, di economia, di culture diverse. La guerra del Peloponneso coincide con il momento più alto della classicità, ed è anche il momento del più consapevole divario all’interno del mondo greco: ne risulta lo scontro e il disastro, la trasformazione non solo per i vinti ma anche per i vincitori.

- Subito dopo la sconfitta, l’Atene democratica produce un’oligarchia dai tratti tirannici; poi, dopo il suo abbattimento, si instaura una nuova democrazia, per lo più identica con la precedente sul piano formale, ma sicuramente non più la stessa: si avrà infatti una democrazia fondamentalmente più moderata, nella sostanza politica. D’altra parte, questa democrazia attenuata diventerà la forma politica più diffusa, che investirà la struttura anche delle città che anteriormente si erano coalizzate con Sparta contro Atene durante la guerra del Peloponneso.

- Le due città, dunque, che prima si sono affrontate, combattute e danneggiate a vicenda, finiscono poi per diventare, proprio attraverso il conflitto, ciascuna un po’ più simile all’altra. Si vede, per esempio, dai cambiamenti economici a Sparta: se Atene rappresentava la forma più avanzata di economia, in cui accanto all’attività agraria aveva largo sviluppo quella artigianale e mercantile; ben presto però queste trasformazioni investiranno anche le città nemiche di Atene, e addirittura persino Sparta, anteriormente roccaforte dell’economia agraria e antimonetaria.

- Nel IV secolo inizia a profilarsi un nuovo scenario politico: emergono i centri di minore urbanizzazione – è caratteristica in questo senso l’egemonia tebana, che culmina negli anni 371-362 a.C., tra le battaglie di Leuttra e Mantinea. Questa nuova egemonia non fa che riproporre quel policentrismo che sarà di nuovo (ma con aspetti diversi da quello di epoca arcaica) la caratteristica della Grecia nel suo insieme. Ne segue l’appiattimento del ruolo politico e della funzione di aggregazione, e insieme disarticolazione del mondo greco, propri delle città egemoni, e perciò l’emergere di nuovi poli, il formarsi e l’assestarsi di una facies politica e culturale, policentrica da un lato e insieme ormai relativamente omogenea al suo interno: sono le novità del IV secolo, sul piano dei rapporti interstatali, che preparano l’assetto della Grecia di età Ellenistica e Romana. Al tempo stesso si verifica una depressione complessiva della Grecia sul piano internazionale, rispetto a fattori interferenti, o perfino dominanti, come la Persia in una prima fase, e la Macedonia e i regni Ellesntici poi.

- L’idea di una forte trasformazione avviatasi intorno al 404, data della sconfitta di Atene e della fine dell’impero navale e della democrazia radicale, resta valida in relazione ai fatti politici e militari successivi. Sul terreno istituzionale, attraverso e al di là dell’oligarchia dei Trenta, si passa a una democrazia di stampo moderato, o meglio più moderato; nel IV secolo, aspetti particolari del radicalismo pericleo e post-pericleo si vanno attenuando. Trasibulo è il restauratore della democrazia dopo aver abbattuto i Trenta costituenti, che abbozzavano l’idea di limitare a 3.000 i cittadini ateniesi (una fortissima limitazione, se i liberi maschi adulti erano circa 30.000 all’epoca). Trasibulo, esule dall’Attica, dapprima con altri 70 a File, fortezza alle falde del Parnete, si trasferisce al Pireo e si batte a Munichia, nel 403, in uno scontro in cui muore Crizia; solo nel settembre del 403 gli oligarchi si

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ritireranno ad Eleusi, creandovi uno Stato altamente improbabile, che chiude la sua esistenza già nel 401/0. Nel marzo del 399 Socrate è condannato.

2. Cultura e politica: portata e limiti della ‘separatezza dell’intellettuale’- Socrate esercità il suo insegnamento nell’epoca post-periclea, nella democrazia degli

artigiani, dei bottegai. Socrate appartiene per formazione all’epoca periclea: fu visto dai contemporanei come uno dei Sofisti – Protagora di Abdera, Gorgia di Leontini, Prodico di Ceo, Ippia di Elide: tutti stranieri ad Atene. Socrate, dunque, si differenzia già perché puro ‘animale di città’: è ben nota la difficoltà di Socrate ad allontanarsi dall’ormai urbanizzata Atene. È in questo ambiente urbana che si svolge l’interrogare di Socrate: il suo gusto per il rapporto dialettico, e i destinatari del suo ‘insegnamento’, si spiegano con la città e nella città.

- Per quanto riguarda l’istruzione elementare e media ad Atene, nel V secolo possiamo dire che la città ne sancisca i princìpi, ne definisca in parte i contenuti e forse riservi spazi comuni per un insegnamento che non è più soltanto quello del pedagogo (pur permanendo in classi aristocratiche). Sembra però che in età classica non ci fossero né remunerazione pubblica degli insegnanti, né scuole pubbliche: di queste si facevano carico invece i privati. Un regime dunque a carattere misto quello dell’istruzione elementare e media, fino ai 18-20 anni.

- Un nuovo terreno si determina però per l’educazione impartita dal privato per quanto riguarda un’etá più avanzata. Questo rapporto educativo, che chiameremo educazione superiore, va visto in termini di scambio; c’è l’offerta di una nuova educazione, la filosofia e la retorica. Sofisti, oratori, maestri di vita, si presentano alla ribalta offrendo questa materia nuova, la loro saggezza, la loro capacità di insegnare l’arte del dire, capacità di rendere forte un debole con la parola: è una merce nuova, e la domanda di istruzione superiore c’è. Prima, a vent’anni ci si dedicava all’attività militare, o si rientrava nell’attivitá familiare, o ci si divertiva, se se ne aveva la possibilità. Ma ora si è come resa autonoma la funzione intellettuale, che comincia a rappresentare un momento distinto nella vita dell’individuo.

3. Crizia, Teramene e il regime dei Trenta Tiranni- Crizia, procugino di Platone, capo dei trenta costituenti, che vanno il nome di Trenta

Tiranni, è una figura di politico intellettuale – e come intellettuale egli appartiene a tutti gli effetti alla storia della letteratura greca, come autore di poesie esametriche ed elegiache, nonché di tragedie e di costituzioni. Vi è una grande somiglianza, e anche familiarità, tra Crizia e Alcibiade, i quali, tra l’altro, furono entrambi allievi di Socrate. Nell’ultima fase della sua vita, nel periodo dei Trenta Tiranni, Crizia matura una posizione filolaconica al cento percento, fino ad ipotizzare una riduzione di Atene nei termini politici di Sparta: diversamente da altre figure ateniesi filospartane, quale Cimone, l’ammirazione per Sparta di Crizia lo condusse sicuramente alla rottura con la stessa tradizione Ateniese.

- Teramene, che aveva contribuito all’instaurazione del nuovo regime prima e dopo la sconfitta, ne divenne presto vittima, non volendo avallarne tutti gli eccessi. Spogliato dei diritti politici e sottoposto a processo di fronte alla boulé, fece un’auto difesa tanto appassionata quanto inutile. “Non sono mai stato con i demotikoí, o con i tyrannikoí, non sono mai stato contro i kaloì kaì agathoí”. Nonostante il suo discorso faccia un’impressione

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positiva, nessuno muove un dito per lui, e soprattutto Crizia conta sull’effetto intimidatorio dei giovani che assistono con i pugnali sotto le ascelle.

- Trasibulo, che nel 403 restaura la democrazia ad Atene, ha parecchi punti di merito verso il regime democratico: lo troviamo nel 411 a Samo, fra i protagonisti di quello scisma democratico, che ha avuto forti conseguenze, mentre Teramene regge, fino a un certo punto, il gioco dei Quattrocento. Nel 404 Trasibulo è esule; è fra i ‘grandi esuli’ ricordati dallo stesso Teramene nel suo discorso di replica a Crizia: “I veri traditori sono coloro che hanno fatto in modo che lasciassero la città personaggi come Trasibulo, Anito e Alcibiade”.

- La riforma della costituzione operata dal regime dei Trenta Tiranni vede ancora la contrapposizione di Crizia e Teramene. Teramene propone la riduzione del numero dei cittadini al numero orientativo di 5.000; orientativo perché, in realtà, Teramene inclina verso una costituzione ‘oplitica’, cioè una costituzione in cui i pieni diritti siano nelle mani degli opliti, restandone esclusi i teti (cioè, in pratica i marinai). La posizione di Crizia invece può definirsi oplitica in senso stretto, anzi strettissimo, tanto è vero che non comprende neanche tutti gli opliti – è una posizione estrema: 3000, forse 4000 cittadini (su un totale di 30.000). Tra le molte riforme, c’era anche la soppressione delle indennità periclee (i misthoí).

- Questi progetti non passeranno. Di fatto, la democrazia restaurata da Trasibulo, da Archino, da Anito, si presenta formalmente come um ritorno alla vecchia costituzione. In realtà molte cose cambiano. Ci sono alcuni cambiamenti nei meccanismi di controllo, oltre che cambiamenti nella distribuzione della ricchezza. Operava l’idea di una selezione all’interno dei nómoi – bisognava scegliere quelli che, fra i più recenti, somigliavano maggiormente alla pátrios politeía. La ricerca delle tradizioni ha dunque questo senso: ricercare e valorizzare le norme tradizionali che si sono conservate fino a un certo periodo, a esclusione della democrazia radicale di Efialte e di Pericle. Non si esclude tutta la vicenda della democrazia, ma solo una parte di essa, operando una cernita all’interno delle strutture costituzionali e legislative, in quanto le leggi sono concepite com un fascio che si è troppo ingrossato, e di cui solo il filo risalente alle fasi più lontane viene conservato.

- Aristotele delinea, nella Costituzione degli Ateniesi, un quadro della situazione politica dopo il 404, distinguendo: un’oligarchia estrema, rappresentata dalle eterìe; una democrazia tradizionale, che è quella di Trasibulo (che poi si affermerà); e la posizione mediana di coloro che ricercano la pátrios politeía. A conti fatti, le posizioni contrapposte si scioglieranno nella democrazia del IV secolo; la democrazia greca deve passare attraverso questa fase per diventare (nella concezione di un conservatore come Polibio) la forma positiva del regime popolare.

4. Il rientro dei democratici con Trasibulo- I democratici, capeggiati da Trasibulo, si erano insediati a File, dove avevano costruito una

fortezza, preparandosi per l’abbattimento del governo dei Trenta. Ad Atene, invece, i Trenta Tiranni decidono di mandare una spedizione con lo scopo di distruggere i ribelli: una nevicata imprevista però vanifica il loro piano. Tre settimane dopo si ha la battaglia del Pireo: i democratici assalgono il porto; Crizia e Carmide, i capi del regime, vengono uccisi in battaglia: gli oligarchi sono forzati a percorrere le vie della pace, rimettendo il potere a un nuovo collegio di magistrati, incaricato della riconciliazione.

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- Senofonte racconta che il giorno dopo lo scontro del Pireo, i superstiti dei Trenta, ormai privi delle loro guide (Crizia e Carmide), si riuniscono in sinedrio, soli e abbandonati, perché i Tremila, che avrebbero dovuto essere il loro naturale supporto, si riunivano in luoghi diversi, per discutere la situazione: “Quanti avevano commesso qualche violenza, e per questo avevano ragione di temere, dicevano con forza che non bisognava cedere a quelli del Pireo; ma quanti erano convinti di non aver commesso alcun torto, consideravano per sé, e agli altri facevano presente, che non c’era nessun bisogno di tutti questi mali, e dicevano ancora che non bisognava obbedire ai Trenta, né permettere che la città andasse in rovina. Da ultimo, decisero di metter fine al loro governo, e di eleggerne altri; e ne elessero dieci, uno per tribù”.

- I Trenta, dopo la sconfitta del Pireo, si ritirano ad Eleusi; i Dieci sono molto preoccupati, e Senofonte descrive la diuturna guardia esercitata dai cavalieri per il timore di attacchi da parte di quelli del Pireo. Anche quelli del Pireo, intanto, si vanno organizzando e vanno promettendo l’isotelia agli stranieri che continuino a combattere dalla parte dei democratici (l’isotelia è la una categoria privilegiata di meteci, che forse erano immuni dal pagamento del metoíkion).

- Segue l’intervento spartano, condotto da Lisandro, che protegge gli oligarchici, e dal re Pausania II, che, per ragioni personali, oltre che per intima convinzione, contrasta i disegni di Lisandro, e in un primo momento deve attaccare, e sconfigge, quelli del Pireo; poi però Pausania invita segretamente i democratici del Pireo a mandargli ambascerie di pace, e fa opera di convincimento anche con ‘quelli della città’ – ambascerie delle due parti arrivano a Sparta. La pace è fatta, con un’amnistia (Aristotele parla del principio del mé mnesikakeîn, il “non recriminare”) – che esclude solo i Trenta, gli Undici (di giustizia) e i Dieci del Pireo; gli oligarchi invece che lo vogliano possono ritirarsi ad Eleusi.

- Ad Archino, uno dei capi dei democratici appena rientrati, rappresentante del filone moderato della rinata democrazia e della pátrios politeía, vengono attribuite da Aristotele tre misure: 1) l’opposizione al decreto di Trasibulo che finiva col premiare, fra i combattenti per la restaurazione democratica, anche degli schiavi con la concessione della cittadinanza; 2) la fermezza nel volere la condanna a morte di un cittadino che aveva osato “recriminare”, cioè contravvenire al principio della amnestía; 3) l’abile riduzione del tempo concesso per l’opzione della residenza ad Eleusi (con lo scopo di trattenere in città gli incerti).

5. La condanna di Socrate- L’integrale unitá della pólis, che si voleva ricostruire al prezzo della rinuncia alle vendette,

sarebbe stata frantumata dal lógos di Socrate e dal suo daímon – la riconquistata unità esigeva che si eliminassero gli autori di azioni dissolvitrici, come Socrate. Vi erano anche dei motivi personali, come le gelosie di Anito nei confronti di Socrate (a causa di Alcibiade), che però non emergono come fattori di primo piano.

- Socrate, certamente legato all’esperienza della cultura democratica, non rappresenta però l’ala democratica stessa. Egli ebbe un continuo contatto con l’ambiente degli artigiani e, probabilmente per questo, era convinto che si dovesse riformare il sistema elettorale ateniese, eliminando il sorteggio perché “quando ci affidiamo a un timoniere, o a un falegname, o a un flautista, non lo scegliamo col sorteggio; invece i governanti li scegliamo col sorteggio” (Memorabili, Senofonte). Quindi, c’era in lui l’interesse a modificare i sistemi elettorali nel senso della scelta non con il sorteggio, ma con un voto di designazione,

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che premiasse le competenze reali nel campo politico. Egli vuole trasformare la politica in una téchne, cioè in un’attivitá di ‘competenti’.

- Le accuse a Socrate furono fondamentalmente due nella formulazione definitiva, riportata da Diogene Laerzio: la prima era il theoùs ou nomízein (‘non onorare gli dèi’, estremizzato da Socrate nel ‘non credere negli dèi’, più facilmente smentibile); la seconda, quella di avere “corrotto” i giovani (diaphtheírein toùs néous). È comunque evidente il peso che ebbe il richiamo alla responsabilità di Socrate come maestro di Crizia e di Alcibiade. “I nostri mali sono stati uomini come Crizia”, può dire la parte oligarchica, che Meleto rappresenta da posizioni moderate; e Alcibiade è stato la “rovina”, per la parte democratica che Anito rappresenta: va eliminato Socrate che è stato maestro di entrambi – egli sembra il padre degli opposti estremismi. Ora che Eleusi è riassorbita, che l’unità si è ricostruita compiutamente, che l’amnistia si è fatta compiutamente, si condanna l’uomo che potrebbe continuare a produrre uomini come Crizia e Alcibiade; Anito e Meleto rappresentano la gente ‘di mezzo’, che trova il capro espiatorio nell’uomo che ha prodotto delle forti alterazioni all’interno della città: Socrate diventa la vittima designata; la sua morte il suggello della nuova concordia (homónoia).

- Socrate ha percorso l’intero cammino che la democrazia attica aveva reso possibile con la creazione della realtà politica e urbana che fa posto alla libertà dell’individuo, consentita e vissuta fino al rischio estremo di un distacco dalla stessa città democratica. Socrate ha percorso, dunque, fino in fondo la strada resa possibile dalla democrazia, finendo in una situazione di rischio e di estraneità agli occhi della città stessa, che lo porta alla condanna. Ma tutta la sua storia appare iscritta in quella della città.

6. Tensioni a Sparta- Come in tutti i grandi scontri di natura ideologica, alla fine della guerra del Peloponneso, i

due antagonisti somigliano molto più di prima l’uno all’altro. A Sparta, all’incirca nel 399, ha luogo la congiura di Cinadone, il quale vuole estendere i diritti di cittadinanza all’interno di Sparta. A Sparta sono dunque impiantati germi di fermento, di inquietudine. È proprio così che si determina quel tendenziale livellamento, all’interno del mondo greco, caratteristico della storia del IV secolo. La congiura di Cinadone fallisce, ma è il segno di questa inquietudine.

- Ci sono a Sparta altri fermenti sul terreno socio-economico: si introduce, ad esempio, con la legge di Epitadeo, la libertà di lasciare e di donare i propri beni, quindi una forma di alienabilità della proprietà – e ne conseguirà presto un accentramento di proprietà. Si introducono inoltre i primi elementi di economia monetaria. Sparta reagisce insomma, in un certo senso, in maniera speculare ad Atene: Atene conserva formalmente la vecchia democrazia periclea, ma ne avvia l’interna trasformazione; Sparta reagisce, conservando la diarchia e anche i fermi limiti (che poi le saranno fatali) dela cittadinanza – ma anch’essa registra un fermento che, sul piano economico, è soprattutto visibile sul terreno della proprietà.

- Lisandro è un personaggio chiave per interpretare questi cambiamenti. Lisandro è l’uomo politico più spartano e insieme più antispartano che si possa immaginare – emblematico il giudizio che Plutarco dà di lui: “È caratteristico di Lisandro il fatto che egli sopportasse bene la povertà, e che mai si lasciasse domare, né corrompere con il denaro; riempì, però, la patria di ricchezze e di amore della ricchezza”. Padrone della Grecia dopo la vittoria del

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404, Lisandro aveva ricevuto molti doni, ed era venuto in possesso di bottini e offerte, che trasferisce a Sparta, ove si svolge un dibattito: proibire l’ingresso in città della moneta corruttrice, o accettare un compromesso? Vince il compromesso, per cui sarà possibile accogliere la moneta pubblicamente, cioè farne oggetto di tesoro pubblico, con severissimo divieto di possesso privato. Intorno al 400 a.C. fa dunque il suo ingresso la moneta d’oro e d’argento (moneta straniera, in gra parte ateniese o degli alleati di Atene), che viene depositata in un tesoro pubblico – che si costituisce solo adesso, perché prima Sparta non conosceva una tesaurizzazione pubblica: le uniche fonti da cui si poteva attingere, in guerra, erano le grandi sedi di santuari tradizionalmente collegati con Sparta, o con l’ambiente peloponnesiaco (Olimpia, Delfi).

- Questa era la situazione prima di Lisandro. Con Lisandro molto cambia: Plutarco riflette sul fatto che, una volta introdotto l’amore per il denaro a Sparta, si doveva prevedere che i privati seguissero l’esempio. E proprio Gilippo è il primo a cadere nella rete dell’avidità: incaricato da Lisandro di portare a Sparta i sacchi contenenti le monete, Gilippo ricorre a un espediente, veramente spartano nella sua ingenuità, per prendersi un po’ dei soldi: scuce il dal basso i sacchi e da ciascuno toglie un certo numero di monete, trascurando però il fatto che all’interno di ciascun contenitore ci fosse una tavoletta a indicare l’esatta quantità del denaro contenuto. Quando gli efori eseguono i controlli, si accorgono degli ammanchi. Gilippo va in esilio, ma il risultato storico è un’attenzione diversa alla moneta.

- Sparta e l’eleuthería: La demokratía non può certo essere la parola d’ordine della politica spartana, e perciò la libertà politica interna dell’uomo greco non può essere il fine di tale politica e, meno che mai, di quella di Lisandro. Tuttavia, per quanto riguarda l’ indipendenza dei Greci nei confronti della Persia, con le campagne di Tibrone, Dercillida e Agesilao in Asia Minore (che si svolgono tra il 400 e il 394 a.C.), Sparta tenta di assolvere il ruolo di patrona della grecità in generale: il risultato ultimo di questa politica sarà nei fatti la pace di Antalcida (386 a.C.), che certamente non sancirà la libertà per le città greche d’Asia, anzi sarà una rinuncia da parte spartana alla funzione di patronato nei confronti dei Greci d’Asia. Tuttavia Sparta si era mossa realmente, da Tibrone ad Agesilao, nel senso di una difesa dell’eleuthería delle città greche d’Asia. Della libertà politica Sparta non poteva, per ragioni di principio, farsi propagandista: la politica di Lisandro semplificava ovunque i termini dei conflitti politici, risolvendoli con i governi dei Dieci o dei Trenta, con le guarnigioni, con le occupazioni vere e proprie. Chinque può capire quanto poco potesse durare una forma di controllo politico di questo tipo nel mondo greco.

- Lisandro era anche il creatore del culto della personalità, e ciò è non poco sorprendente nel cittadino di una città fondata sul principio della parità dei membri del ristretto corpo civico (hómoioi = pari): Lisandro erige una sua statua di bronzo a Delfi; Duride di Samo dice anche che sia stato il primo dei Greci a cui da vivo furono dedicati altari e sacrifici – addirittura la festa più importante di Samo, in onore di Era, sarebbe stata ribattezzata Lysándreia. Questo dà l’idea di tendenze individualistiche e personalistiche a Sparta, che, per la sicurezza con cui si affermano e per il fatto che restano impunite, sono il segno di nuovi tempi; è il corrispettivo delle personalità, forti, abnormi, eterodosse, contemporaneamente apparse in Atene, da Crizia ad Alcibiade. Il culto della personalità avrà risvolti anche nella politica istituzionale di Lisandro, che tenterà di abolire la basileía a Sparta: lui infatti vorrebbe rendere elettiva la regalità. Fino ad allora la diarchia era stata eriditata solo nelle due famiglie degli Agiadi e degli Euripontidi, entrambe eraclidi. Per

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Lisandro invece le due famiglie regali non erano le uniche rappresentanti degli eraclidi a Sparta – pure Lisandro era un eraclide, ma non apparteneva alla discendenza diretta; egli proponeva quindi di estendere la scelta dei re agli Eraclidi o addirittura a tutti gli Spartiati. Tutto questo va datato a epoca dello scontro con Agesilao, che era succeduto ad Agide II circa il 400-398 a.C., contro la norma, che avrebbe favorito Leotichida, ufficialmente figlio di Agide II (ma correva ed era accreditata la voce che Leotichida fosse in realtà figlio di Alcibiade con la moglie di Agide II). Un oracolo metteva in guardia gli Spartani dall’adottare una regalità zoppa; essendo Agesilao zoppo, gli avversari suoi e partigiani di Leotichida, insistevano su un’interpretazione letterale dell’oracolo – Lisandro riuscì a far valere però un’altra interpretazione, secondo cui la regalità zoppa sarebbe stata quella di uno spurio come Leotichida. Il sospetto si convalida e così Agesilao diventa re. Sorgono però dissapori durante la campagna d’Asia di Agesilao, nel 396, quando il re umilia in vari modo Lisandro, che era fra i Greci d’Asia troppo popolare per il suo glorioso passato per non suscitare la gelosia del sovrano. Lisandro rientrò a Sparta, e prese quindi parte alla guerra beotica, morendo sotto le mura di Aliarto nel 395. La storia e la figura di Lisandro mettono in luce le tendenziali contraddizioni insite nella società spartana.

7. Gli Spartani a difesa dei Greci d’Asia- Finché Ciro è káranos a Sardi, egli tiene comportamenti leali verso il potere centrale

persiano e le relazioni spartano-persiane sono buone. Ma sono proprio gli Spartani a dare man forte a Ciro, quando egli decide di procurarsi un esercito di mercenari, per marciare contro il fratello, Artaserse II, succeduto sul trono achemenide, cui Ciro aspira: è la spedizione dei Diecimila (in realtà, circa 13.000 uomini), che Senofonte ha raccontato nell’Anabasi, e si svolge fra il 401 e il 400 a.C. Essa culmina nella battaglia di Cunassa, località sita un po’ a nord di Babilonia, dove arriva l’esercito dei mercenari greci, in cui gli Spartani hanno un ruolo preminente. Ciro aveva chiesto agli Spartani, come compenso per l’aiuto fornito durante la guerra del Peloponneso, il sostegno nell’invio di truppe e nel reclutamento di truppe mercenarie per la sua impresa. A Cunassa (401) Ciro combatte valorosamente e vittoriosamente, ma muore nello stesso scontro; e ciò naturalmente trasforma la spedizione dei Diecimila in una tragica ritirata, lungo il Tigri, per l’Armenia, fino alle coste del Mar Nero; segue un rientro, almeno parziale, attraverso la Tracia, e di nuovo per l’Asia minore, fino a Pergamo. Una parte dei Diecimila continuerà a combattere al fianco degli Spartani.

- Morto Ciro, naturalmente viene presentato il conto a Sparta da parte dei vincitori, cioè il governo legittimo di Susa e i suoi rappresentanti; Sparta, per gratitudine e lealtà nei confronti dell’alleato Ciro, si è lasciata dunque in qualche modo attirare nella trappola asiatica. Ora i vincitori reclamano, dell’Asia minore occidentale tutte le posizioni che avevano prima del governatorato di Ciro il Giovane e della sua ribellione al fratello Artaserse. Tissaferne viene inviato a sostituire Ciro come satrapo di quelle regioni su cui già prima egli aveva esteso la sua autorità: Tissaferne recupera i suoi domini particolari in Caria e chiede subito che tutte le città ioniche siano a lui soggette. Scrive però Senofonte: “Ma le città ioniche, da un lato volendo essere libere, dall’altro temendo Tissaferne, per il fatto che avevano a lui preferito Ciro, quando era in vita, non lo volevano accogliere nelle loro città, ma inviavano ambasciatori agli Spartani e chiedevano loro che, come prostátai (campioni) di tutta la Grecia, si curssero anche di loro, Greci d’Asia, affinché non fosse devastata la

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loro terra, ed essi fossero liberi”. Ecco come nasce tutto l’intrigo dell’intervento spartano in Asia negli anni 400 e seguenti. Bisogna dire che gli Spartani prendono molto a cuore il loro compito: in Asia vengono dunque a pagare anche quel conto, che loro impone la coerenza con le premesse generali della loro politica estera, e con la funzione che essi intendono svolgere nel mondo greco dopo la sconfitta di Atene.

- Nel 400 in Asia sbarca Tibrone, con un certo numero di soldati (1000 neodamòdi, 4000 Peloponnesiaci, 300 cavalieiri ateniesi [che la città invia volentieri per sbarazzarsi di gente compromessa con il regime dei Trenta]). La campagna di Tibrone rivela l’intento di affrontare direttamente il vero nemico, Tissaferne; dall’altro però mette in luce una certa difficoltà a muoversi degli Spartani, con le scarse risorse finanziarie a disposizione (Tibrone viene messo sotto accusa a Sparta perché permette all’esercito di depredare gli ‘amici’; ma questi aveva un esercito da nutrire, perciò lasciava saccheggiare anche città alleate – accade dunque che l’esercito spartano susciti l’irritazione proprio di quegli che è venuto a difendere). Tibrone viene in possesso di alcune località nelle regioni della Troade e dell’Ellesponto; poi scende a Efeso, dove progetta di marciare in Caria, cioè contro i diretti domini di Tissaferne. A questo punto però è sostituito da Dercillida, nel 399, che mette in atto una strategia diversa: stipula un armistizio con Tissaferne, e inizia a dirigere i suoi sforzi verso le regioni dominate da Farnabazo, cioè l’area più settentrionale, ove consegue un certo numero di successi: qui la movimentazione era certo più facile, il che è confermato dai successi di Dercillida, però l’attacco lì avrebbe potuto essere utile solo come preludio all’attacco contro Tissaferne, la vera minaccia per le città greche che si sentivano più premute dai Persiani. Segue un armistizio con Farnabazo, esteso poi a Tissaferne, mentre un’ambasceria spartana viene inviata al gran re per chiedergli l’autonomia delle città greche. Nel frattempo Dercillida si spinge verso il nord, creando una linea di fortificazione contro i Traci. A questo punto le città della Ionia inviano ambasciatori a Sparta, per illustrare agli Spartani come dipendesse da Tissaferne, ove l’avesse voluto, lasciare autonome le città greche – se fosse colpita la Caria, egli sarebbe stato disposto a condere loro l’autonomia.

- È una guerra al fondo di cui non si può venire a capo senza soluzioni drastiche: da un lato c’è l’esigenza di autonomia dei Greci, che coincide con il desiderio di liberarsi dalla paura di una minaccia sempre incombente; dall’altro il che re persiano non rinuncia all’affermazione della sua sovranità fino alla linea della costa. Le città greche temono la grande potenza territoriale alle loro spalle e invocano l’aiuto dei confratelli della madrepatria, in questo momento gli Spartani, che, avendo distrutto l’impero di Atene, ora devono coerentemente subentrare allo scomparso patronato ateniese delle città della Ionia. Ma che cosa dovrebbero fare a rigore gli Spartani per tranquillizzare del tutto i Greci d’Asia? Ciò che farà solo Alessandro Magno, cioè distruggere l’impero persiano. Questo richiede però grande forza militare e finanziaria, due condizioni che si verificheranno alcuni decenni più tardi per i Macedoni.

- L’arrivo di Agesilao in Asia nel 396 sembra cambiare la strategia spartana: in quell’anno egli sconfigge l’esercito di Tissaferne sotto Sardi. A questo punto il gran visir persiano, Titrauste, è inviato per le trattive con Agesilao, proponendo (invano) che i Greci d’Asia conservino l’autonomia, ma paghino i tributi alla Persia; Titrauste ottiene però (a pagamento) che Agesilao si rechi a fare spedizione contro i possedimenti del satrapo Farnabazo. Così nel 395 Agesilao ritorna alla Troade e si prepara per una nuova spedizione nell’Asia minore interna – ma era ormai troppo tardi: le cose in Grecia avevano già preso un

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verso, che costrinse Sparta ad impegnare tutte le sue forze nella madrepatria e a rinunciare a un’ulteriore offensiva in Asia. A mettere in moto nel 395 la ribellione della Grecia a Sparta fu lo stesso Titrauste: questi, ritenendo di capire che Agesilao disprezzava il re e non pensava più di andarsene dall’Asia, inviò Timocrate di Rodi in Grecia, avendogli dato oro da distribuire tra i personaggi più importanti delle città greche, ottenendone però garanzie nella prospettiva della guerra a Sparta. Venuto in Grecia Timocrate dà il denaro ai capi del partito ‘democratico’ tebano, ai corinzi e agli argivi.

8. La guerra corinzia- L’agosto del 394 a.C., Conone vince con la flotta persiana sui Peloponnesiaci a Cnido

(battaglia di Cnido), in pratica ponendo fine, per sempre, al predominio spartano nel mare Egeo. Poco dopo la battaglia di Cnido Agesilao è richiamato dall’Asia in patria, combattendo e vincendo la battaglia di Coronea in Beozia. È questo forse il fatto d’arme più importante della guerra corinzia, già avviata di fatto nel 395 da quel conflitto che Diodoro chiama “guerra beotica”.

- Il conflitto si apre con scaramucce tra Focesi da una parte e Locresi dall’altra, per questioni di confini e di elemetari razzie: quanto basta per consentire ai Beoti d’intervenire in favore dei loro amici locresi e indurre Sparta ad assumersi a sua volta la responsabilità di un intervento armato. Nell’autunno del 395 Lisandro e Pausania II attaccano la Beozia: il sicronismo però dei due eserciti non riesce; Lisandro, spintosi coraggiosamente sotto le mura della beotica Aliarto, vi trova la morte; Pausania II, sospettato di tradimento, è condannato a morte e si sottrae all’esecuzione con l’esilio in Arcadia.

- La guerra sposta ora il suo centro di gravità nel Peloponneso, nell’area dell’Istmo: qui gli Spartani vincono i collegati nello scontro di Nemea; segue poi la vittoria navale di Cnido sulla flotta peloponnesiaca ad opera della flotta persiana, comandata da Conone; e Agesilao, rientrato in tutta fretta dall’Asia minore, raggiunge la Beozia, dove vince i collegati a Coronea (agosto del 394). Nel frattempo Conone, affiancato da Farnabazo, continua la sua attivitá in Asia, nell’Ellesponto; nel 393 egli compie operazioni contro Melo e Citera; a Corinto, porta la sua solidarietà politica e finanziaria al sinedrio della lega antispartana (ancora sostenuto da Farnabazo, in funzione ovviamente antispartana). Nel 393 Conone rientra ad Atene, lui che era lontano dalla città sin dalla battaglia di Egospotami (405): per impulso di Conone si ha la ricostruzione delle Lunghe Mura e del Pireo, con l’ausilio dei sussidi persiani, che vengono destinati anche ai Corinzi, i quali allestiscono una flotta.

- Si verifica un nuovo ribaltamento della politica spartana nei confronti della Persia; un ribaltamento che sarà contraddetto soltanto da qualche fatto episodico di segno diverso. Il protagonista di questo rovesciamento di fronti è Antalcida, che ancora per buoni 25 anni continuerà a praticare una politica di intesa strettissima con la Persia. Per quanto riguarda Agesilao, lui certo era stato impegnato nella sua campagna antipersiana in Asia; però ad esercitare una costrizione sui Beoti e sugli Argivi e i Corinzi, con minaccia di intervento, perché accettino la pace del re (o pace di Antalcida), sarà, nel 386 a.C., proprio Agesilao. È Antalcida a denunciare, nel 393, al governatore di Sardi Tiribazo il fatto che gli Ateniesi con i soldi ricevuti da Farnabazo ricostruiscano le Lunghe Mura e si dotino di una flotta, determinando dunque un cambiamento di rotta anche nella politica estera Persiana, che presto passerà dalla parte degli Spartani. Senofonte denuncia in maniera obiettiva la

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grettezza di Sparta che, per la sua rivalità con Atene, non esita a rinunciare a una politica cui aveva dedicato impegno, forze e vite umane: Sparta cambia quindi direzione.

- Seguono le trattative di pace di Sardi (392/1). Antalcida, dopo aver fatto le sue denunce, offre dunque al governatore persiano la rinuncia alla tutela dell’autonomia delle città greche d’Asia. Come si diffonde la voce di questa intesa persiano-spartana, vengono a Sardi anche i rappresentanti degli Ateniesi, degli Argivi e dei Tebani. Il compenso per Sparta, il principio su cui Tiribazo e Antalcida possono intendersi, è quello dell’autonomia delle città greche non d’Asia. Quelle d’Asia sono dunque rimesse alla sovranità del re di Persia, quelle della madrepatria dovranno regolarsi e organizzarsi secondo il principio dell’autonomia. Ma l’autonomia è concetto polivalente, che può usarsi contro i Persiani (e, sotto questo aspetto, gli Ateniesi continuano a difendere i Greci d’Asia, mentre gli Spartani vi rinunciano); può valere però, in quanto applicato al mondo greco e ai suoi rapporti interni, contro Atene e contro tutti quelli che vogliono costituire coalizioni regolate da un rapporto egemonico, e opposte a Sparta. Sparta è interessata ovviamente alla seconda faccia del principio dell’autonomia, e quindi a un regime di autonomia interna al mondo greco, che possa frenare le pretese egemoniche di Atene, o quelle di Argo (concretatasi nell’annessione di Corinto), o quelle dei Tebani sull’intera Beozia. Di fronte al rischio di vedere frustrate le proprie aspirazioni egemoniche, Ateniesi, Argivi e Tebani rifiutano la proposta di Tiribazo di una pace fondata da un lato sulla rinuncia alla difesa dell’autonomia dei Greci d’Asia, dall’altro sull’estensione generalizzata del principio di autonomia ai rapporti intragreci.

- Ma la guerra riprende. Nel marzo del 392 veniva annessa ad Argo Corinto; nell’agosto del 392 seguono colpi e contraccolpi da una parte e dall’altra: gli Spartani conquistano il Lecheo, il porto corinzio sul golfo di Corinto. In Asia Tiribazo è richiamato a corte, al cui posto è inviato Struta, un satrapo filoateniese; Sparta allora ricomincia gli attacchi, non contro la Persia, ma contro Struta (ancora i comandanti Tribone e Dercillida). Atene invece, nonostante il satrapo filopersiana, non cambia la sua politica antipersiana: nel 390 gli Ateniesi inviano aiuti ad Evagora di Cipro, che vengono catturati dal navarco spartano. Di fatto però dal 392 gli Spartani agiscono ormai, nonostante episodiche smentite, come alleati e gli Ateniesi come nemici della Persia.

- La guerra corinzia nella penisola: Nel 390, dal Peloponneso, ha luogo una nuova campagna di Agesilao contro Argo e Corinto, e una marcia in profondità attraverso l’Istmo, fino quasi a Megara; gli Spartani occupano parti del golfo Saronico. Del 390 però è anche la gloriosa vittoria del generale ateniese Ificrate, noto per le sue innovazioni tattiche, come creatore del corpo di fanteria leggera dei peltasti e di una tattica più mobile della fanteria oplitica. Il corpo dei peltasti comandato da Ificrate consegue presso Corinto na schiacciante vittoria sulla mora spartana (uno dei sei reggimenti dell’esercito di Sparta). È uno dei grandi traumi della storia militare di questa città (accanto a quelli delle Termopili nel 480, di Sfacteria durante la guerra del Peloponneso, di Leuttra nel 371). Segue l’occupazione ateniese delle posizioni spartane nel golfo Saronico. Segue l’attacco di Agesilao contro gli Acarnani (389/8); la guerra si trascina lentamente; Atene subisce attacchi da forze regolari e da pirati, partite dall’isola di Egina, nel golfo Saronico, ma riesce ad ottenere una vittoria in quelle acque per opera del generale Cabria. Nel frattempo Antalcida si posizionava nell’Ellesponto con una flotta che, coi rinforzi di parte persiana, ammontava ormai a più di 80 navi: Antalcida era ormai in grado di bloccare il passaggio delle navi ateniesi attraverso l’Ellesponto, essenziali per i rifornimenti alimentari della città (387/6).

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- Questo è la premessa immediata della pace di Antalcida, che è da attribuire probabilmente alla primavera del 386. Gli Ateniesi temono ormai di essere sconfitti quando constatano l’efficacia del blocco degli Stretti da parte di Antalcida. Sono preoccupati soprattutto per l’operatività dell’alleanza del re, che si manifesta, tra l’altro, nell’invio di una cospicua flotta; inoltre Atene, e il Pireo in particolare, sono esposti ad attacchi da Egina. Tutti questi motivi contribuiscono ad alimentare il desiderio di pace degli Ateniesi. Ma della pace sentono il bisogno anche gli Spartani, costretti dalla prosecuzione della guerra a tenere in piedi una guarnigione di un reggimento a Lecheo, il porto corinzio, e insieme un’altra mora a Orcomeno in Beozia. Temono anche che alcune città alleate possano defezionare. Intorno a Corinto si ha un andirivieni di azioni militari, di attacchi e contrattacchi, che si susseguono senza efficacia: sotto la minaccia di un intervento armato spartano, sono ormai disposti ad accettare la pace anche gli Argivi:

- Il re Artaserse “ritiene giusto” che siano sue le città d’Asia, e insieme Cipro e Clazomene (entrambe oggetto dell’attivismo ateniese negli ultimi anni). Diverso è il discorso per le altre città greche: in Europa esse possono, anzi devono, essere autonome. Il re sancisce l’autonomia di città piccole e grandi, tranne Lemno, Imbo e Sciro – le cleruchie dovranno essere ateniesi, come già prima. Se qualcuno si opporrà a questa pace, o non l’accoglierà, il re gli muoverà guerra su tuttii fronti e con tutti i mezzi. Tutti i Greci accettano e giurano: salvo che i Tebani vorrebbero giurare per i Beoti, con questo mettendosi già in conflitto con la pace che stanno giurando, perché non vogliono evidentemente riconoscere l’autonomia alle città beotiche. A ciò si oppone Agesilao; gli ambasciatori tebani tornano per consultazioni a Tebe; ma Agesilao nel congedarli annuncia loro un intervento militare, se non accetteranno la pace soltanto a nome di Tebe, senza quindi invocare l’egemonia sulla Beozia e la sua rappresentanza. In effetti, egli non si limita a minacciare la spedizione, ma già la organizza, e stabilisce il quartier generale a Tegea in Arcadia; quando a Tebe si sa dell’imminenza dell’attacco spartano, si accetta la condizione di ‘firmare’ a solo proprio nome, e non in nome di Beozia. A Corinto c’è un certo ritardo nella esecuzione degli impegni: la parte democratica al potere teme che, una volta rimossa la tutela argiva, gli oligarchici rientrati possano farle pagare le stragi che nel 392 essa aveva compiuto, perciò trattiene la guarnigione di Argo; a una nuova minaccia spartana segue l’attuazione degli impegni anche da parte corinzia. A questo punto, Sparta ha finalmente ottenuto ciò che voleva: ha abolito l’egemonia tebana in Beozia, ha reso autonoma Corinto, ponendo fine all’annessione argiva, ed ha ottenuto, almeno in linea di principio, da parte di Atene, il riconoscimento che i rapporti interstatali nel mondo greco si debbano regolare sul principio dell’autonomia (il che comporta almeno una certa remora alla ricostituzione di un suo impero navale).

Note integrative

a) Senofonte- Nacque ad Atene, secondo l’opinione prevalente tra il 430 e il 425, e morì verso o poco

dopo il 354 a.C. Nel 404 pare militasse per i Trenta Tiranni contro Trasibulo. Fu discepolo di Socrate. Partecipò alla spedizione dei Diecimila al seguito di Ciro il Giovane e contro Artaserse II di Persia; prese parte alla battaglia di Cunassa del 401, e assunse fra i superstiti della sfortunata spedizione funzioni di comando, che tenne fino alla primavera del 399.

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Forse rimase in Asia tra il 399 e il 396, anno in cui lo troviamo al seguito del re spartano Agesilao. Quest’amicizia si spinse al punto che nel 394, nella battaglia di Coronea, egli si trovò dalla parte dei nemici di Atene e forse combatté contro la sua città. Ne seguirono la condanna all’esilio da parte ateniese e invece onori da quella di Sparta, che concesse a Senofonte un possedimento in Trifilia. Il riavvicinamento progressivo tra le due città, in vista del pericolo tebano, tra il 375 e il 369, condusse a un miglioramento dei rapporti di Senofonte con la madrepatria: Senofonte ottene il richiamo in patria, ma non sappiamo se vi rientrasse davvero.

- Le vicende personali e i rapporti con l’ambiente spartano influenzarono le idee politiche di Senofonte, in cui alle riserve verso la democrazia, quella ateniese in particolare, si associa l’ammirazione per l’oligarchia spartana e una forte disponibilità per l’ideale monarchico, che prepotentemente si introduce nel pensiero politico greco del IV sec.

- Il corpus senofonteo è vastissimo e comprende opere storiche e pedagogiche, e di memorie socratiche. Le opere di carattere storico si presentano in parte come la narrazione di vicende personali (l’Anabasi, parzialmente l’Agesilao), in parte come la continuazione dell’opera tucididea (i 7 libri delle Elleniche, che coprono il periodo 411-362, fino alla battaglia di Mantinea). Diversa per profondità critica e per aspetti della struttura narrativa da quella tucididea, l’opera di Senofonte è comunque nella linea del tipo di storia politico-militare e contemporanea, proposto da Tucidide. Da ricordare anche libri come i Memorabili, che costituiscono la principale testimonianza che abbiamo della vita di Socrate, dopo Platone.

8. Dall’egemonia spartana al nuovo policentrismo greco

1. Errori politici di Sparta- La pace di Antalcida non risolveva di colpo tutti i problemi né dissipava tutti i conflitti. Ciò

vale per i Greci come per lo stesso impero persiano, provato da ribellioni e spinte centrifughe nelle sue regioni di frontiera (re Akoris in Egitto, Evagora a Cipro). Dalla parte era certamente avvantaggiata Sparta, cui si devono nuove e traumatiche iniziative nel Peloponneso; ma anche Atene si rimise presto all’opera per guadagnarsi, all’interno della nuova situazione, tutto lo spazio politico possibile.

- Nel Peloponneso, il primo conflitto in cui Sparta fu coinvolta fu quello con la città arcadica di Mantinea, roccarforte democratica nel Peloponneso e alleata di Atene. Il re spartano Agesipoli dopo un primo, inutile assedio, viene in possesso della città, per averla allagata con il disarginamento del fiume Ophis – la città viene frazionata nei primitivi cinque villaggi di cui era composta. Nessuno degli alleati e simpatizzanti si era mosso in soccorso della città d’Arcadia.

- Gravido di più pesanti conseguenze fu invece l’intervento spartano contro la Lega calcidica, ai confini con la Macedonia. Gli Olintii erano intervenuti a sostegno di un pretendente (Argeo) nelle lotte dinastiche seguite all’assassinio del re macedone Archelao; avevano anzi sconfinato in territorio macedone fino ad occuparne la capitale Pella. D’altra parte gli Olintii inglobarono Potidea e facevano pressioni su altre città loro confinanti, le quali perciò chiesero (d’intesa col re macedone Aminta III) l’intervento spartano. Quest’ultimo ebbe luogo con l’invio di un esercito di circa 2.000 uomini al comando di Eudamida, che ottenne alcuni risultati, come la defezione di Potidea. Risolutivo però avrebbe dovuto essere l’arrivo di un secondo contingente, al comando del fratello di Eudamida, Febida.

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- Durante la marcia però, Febida sostò a Tebe e, approfittando del conflitto in corso tra partiti filospartano e antispartano, si impadronì della Cadmea (l’acropoli di Tebe) e vi insediò una guarnigione (382). Il governo spartano, secondo una parte della tradizione, condannò Febida (che aveva agito per conto proprio), sotto la pressione della protesta greca suscitata dal proditorio atto volto all’asservimento di una delle più importanti città di Grecia (tra l’altro in palese contrasto con il principio di autonomia della pace di Antalcida). Ma la pena si limitò a una multa di 10.000 dracme, e la guarnigione spartana non fu ritirata.

- Nel frattempo Teleutìa, fratello di Agesilao, continuava l’assedio ad Olinto, dove trovò la morte sul campo nel 381. In seguito fu il re Agesipoli ad assumere il comando della guerra, che si concluse con la resa di Olinto (ridotta alla fame nel 379), ma anche con la morte dello stesso sovrano. La Lega calcidica veniva sciolta e gli antichi confini della Macedonia ripristinati. Un altro lungo assedio, condotto questa volta dall’infaticabile Agesilao, contro la città di Fliunte, nel Peloponneso settentrionale, consegnava a Sparta la città, che accoglieva una guarnigione e mutava in oligarchia la forma politica.

- Ad Atene la situazione politica presenta nuove articolazioni rispetto al passato: gli oltranzisti della guerra su due fronti, contro Sparta e la Persia, come Agirrio, sono condannati a morte. Fra gli altri politici, duttili e realisti, anche se non rinunciatari, emergono Callistrato di Afidna e, come generali, Cabria e Ificrate, e il figlio di Conone, Timoteo (allievo di Isocrate e in contatto con Platone).

- Ora la linea politica dominante ad Atene sembra essere quella di un contenimento di iniziative di guerra, dove che possano essere sollecitate e dirette (verso l’Egitto ribelle, la Persia, a Mantinea o in Calcidica), e di una preparazione, invece, di intese politiche e di alleanze, con un’insistenza più sugli aspetti positivi, connessi col tornare a tessere la tela di una posizione di prestigio per Atene, che non su quelli negativi dell’apertura di nuovi conflitti nell’immediato. Naturalmente Atene non poteva però rinunciare all’iniziativa là dove le norme fossero state troppo palesemente infrante: una rapida normalizzazione della situazione a Tebe, una rivitalizzazione nella città beotica del partito democratico, era un passaggio obbligato per la ripresa di una politica attiva di Atene.

- Atene dà asilo agli esuli tebani dopo la presa della Cadmea, e nell’inverno 379/8 truppe ateniesi sostennero il tentativo di rientro di Pelopida ed altri esuli tebani: il traditore che aveva consegnato Tebe a Febida, Leontiada, fu ucciso, e successivamente il presidio della Cadmea dovette capitolare. Sparta inviò un esercito al comando del re Cleombroto che, trascorsi alcuni giorni, senza aver conseguito alcun risultato, si ritirò.

- Poco dopo, Sfodria, uno spartano che deteneva il comando a Tespie, ancora per conto proprio, tentò da questa posizione di occupare il Pireo, con la marcia di una notte; ma al mattino egli si trovava ancora presso Eleusi. Il colpo era scoperto e sventato; contro le aspettative di tutti però (anche di Sfodria), i re Cleombroto e Archidamo, lo assolvono: per Atene fu un chiaro segnale della necessità di una svolta verso una nuova politica.

2. L’ascesa di Tebe e la crisi delle egemonie tradizionali- Il periodo che segue è un’epoca di grande movimento: è il periodo (378-371, cioè fino alla

battaglia di Leuttra) in cui Sparta cerca in vario modo di contrastare i fatti nuovi emersi dopo la pace di Antalcida, cioè la ribellione e l’ascesa di Tebe da un lato, la ricostituzione dell’impero navale ateniese e la sua rapida espansione (in acque di recente venute sotto il controllo di Sparta) dall’altro; ma alla fine del periodo Sparta si troverà ad aver perduto la

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posizione di forza che aveva al suo inizio. Per Tebe invece quegli anni rappresentano il momento della resistenza a Sparta fino alla vittoria epocale di Leuttra e alla fondazione di una sia pur effimera egemonia. Atene in quegli anni rafforza la sua potenza con il consolidamento della Lega navale; d’altra parte, la sua politica estera cambia radicalmente nel corso degli anni Settanta: decisamente protebana e antispartana all’inizio di essi, diventa, dal 375 e soprattutto dal 372, più ricompatta con Sparta, fino al pieno accordo del 369. A tutto questo si accompagna, nel Peloponneso, una diffusione di forme democratiche, anche in tradizionali roccheforti dei regimi oligarchici.

- Fra tutti questi dati, quello più rilevante è la crisi dell’egemonia spartana, a cui non corrisponde però una rinascita dell’egemonia ateniese. Atene ricostituisce certo un suo notevole ruolo politico nel ondo greco, ma esso non è comparabile con quello del V secolo, ed è sempre più un ruolo culturale. Si può parlare di una crisi delle egemonie nel mondo greco, affermazione che non sarebbe smentita dal fatto che Tebe sia riuscita ad imporne una sua per alcuni anni, a partire dal 371: troppo evidente è la diversità di spessore e di qualità di questa egemonia rispetto a quelle esercitate in passato da Sparta e Atene. È questo un segno dell’esaurirsi della capacità di potenza e di dominio delle singole póleis: toccherà ai re di Macedonia dare una risposta all’esigenza, che ormai si pone all’interno del mondo greco, della creazione di un nuovo centro di gravità.

- Sparta non accettò il nuovo stato di cose maturato in Beozia dopo la liberazione della Cadmea. Nel 378 Agesilao invase la regione e giunse quasi fin sotto Tebe, dove i Tebani però contavano con l’aiuto di un corpo di spedizione ateniese al comando di Cabria. Altrettanto penetrante, ma in definitiva infruttuosa, la spedizione nel 377 di Agesilao, caduto malato sulla via del ritorno; sostituito nel 376 dal re Cleombroto nel comando della spedizione, questa volta essa non riesce a forzare i passi tra Megaride e Beozia. Ancora nel 376, Sparta subiva un altro rovescio, per opera dell’altra protagonista, Atene: Cabria, in una battaglia in cui rifulgono le sue grandi qualità strategiche, riesce ad affondare nelle Cicladi metà della flotta peloponnesiaca. La spedizione navale spartana rispondeva alla costituzione di una nuova Lega navale attica, cui si è già accennato.

3. La seconda Lega navale attica dal 377 al 375- Il testo del decreto della “carta di rifondazione della Lega navale ateniese”, proposto da

Aristotele di Maratona nel 377, e che indica, innanzi tutto, le finalità della symmachía: che gli Spartani lascino vivere in pace i Greci “liberi e autonomi”; e che venga fatta salva la “pace generale”, che i Greci e il re avevano giurato. La pace di Antalcida (e il principio di autonomia) vengono dunque abilmente utilizzati dagli Ateniesi contro gli Spartani.

- Le premesse della nuova alleanza, che doveva procurare ad Atene da 70 a 75 alleati (molti di meno invero dei circa 400 che aveva contato, nel periodo di massima espansione, la Lega attica del V secolo), sono da riconoscere nei trattati bilaterali che Atene aveva stipulato con Chio (384/3) e, successivamente (in un periodo che si estende fino al 378) con città dell’isola di Lesbo (come Mitilene e Metimna), con Bisanzio, con Rodi, infine con la stessa Tebe. Questa politica di alleanze bilaterali era l’unica consentita ad Atene, sotto il vincolo della pace di Antalcida, e del principio di autonomia su cui questa era fondata. Nel 377 Atene, con gli alleati sopra ricordati, lancia il ‘manifesto’ della costituzione di una vasta alleanza, che fa propri i princìpi della pace del re e non è intesa a contrastare la Persia, ma impone a se stessa forti limitazioni, al fine di rispettare il principio di autonomia, e si

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dichiara diretta contro Sparta. La città procede anche a ricostituirsi la flotta, che dalle circa 100 triremi del 377, passeranno in venti anni a 383 nel 357/6. In poco tempo alla Lega partecipano le città libere dell’Eubea, le isole Cicladi, le isole dell’Egeo settentrionale, Corcira, Acarnania e Cefallenia (a seguito anche di battaglie condotte da Timoteo e Cabria).

- Nell’autunno del 375 gli Spartani, ormai alle corde su diversi fronti, dovevano accettare una pace con Atene. Questa pace però era destinata a rimanere un documento di scarsa efficacia. Timoteo si ritira da Zacinto ma la lascia alla parte democratica, nonostante le proteste spartane. Presto cominceranno anche i tentativi di Sparta contro Corcira: uno fallito nel 374, e un altro, sventato dall’intervento ateniese, nel 373. Ificrate nel 372 libererà definitivamente Corcira dall’assedio spartano e acquisirà le città dell’isola Cefallenia che erano ancora legate a Sparta.

- Contemporaneamente consolidava le sue posizioni in Beozia l’altra città protagonista di questi movimentati anni, Tebe, che assoggettava Tanagra e Tespie e distruggeva con un attacco improvviso Platea (373?, i cui abitanti furono accolti da Atene).

4. Tebe verso l’egemonia; la battaglia di Leuttra (luglio 471)- Nell’estate del 371 un congresso a Sparta vide riuniti i principali Stati greci, nonché

rappresentanti di Dionisio I di Siracusa, di Aminta III di Macedonia e, soprattutto, del re di Persia. La pace che ne scaturì consisté soprattutto nel riconoscimento di fatto della Lega navale attica, e in quello esplicito dei diritti ateniesi sull’area tracica ed egeo-settentrionale (Anfipoli, Chersoneso tracico). Come già quindici anni prima al momento del giuramento della pace di Antalcida, la prima e fondamentale contestazione dello schema politico su cui la pace era fondata fu mossa dai Tebani, che volevano ora quello a cui, nel 386, avevano dovuto giocoforza rinunciare: giurare non come Tebani, ma come Beoti; la richiesta, presentata da Epaminonda (che ora, all’età di 35-40 anni appare per la prima volta sulla scena della storia tebana) fu respinta, e ciò comportò l’esclusione di Tebe dalla pace.

- Se questo rifiuto sanciva da un lato la nuova intesa tra Sparta e Atene, e allontanava in qualche misura da Tebe la stessa Atene, dall’altro esso era anche il preludio della sfida che Tebe lanciava a Sparta, sentendosi forte ormai anche di un certo supporto del nuovo tago di Tessaglia, Giasone di Fere (che produsse però più una benevola neutralità che non un reale intervento al fianco di Tebe).

- Il re spartano Cleombroto, nel tentativo di imporre la rinuncia alla rappresentanza dei Beoti, diede inizio all’attacco contro la Beozia. A Leuttra, in una piana fra colline dolcemente digradanti, a 11 km da Tebe, avvenne il contatto col nemico, forte di 7.000 uomini. Al combattimento delle cavallerie seguì la fase decisiva dello scontro tra le fanterie. Fu qui che Epaminonda mise in atto per la prima volta la ‘tattica obliqua’, organizzando appunto una falange obliqua: al vecchio schema tattico dell’attacco della destra sulla sinistra del nemico, con intento di aggiramento, si sostituisce l’attacco da sinistra. La novità è ben piu forte del semplice cambiamento del fianco più attivo: al vecchio modello delle battaglie greche come tentativo di aggiramento dell’armata avversaria, Epaminonda sostituisce un nuovo schema, che dà all’ala sinistra una notevole profondità (50 uomini), destinandola all’attacco dell’ala destra nemica, cioè quella più forte, con l’intento di una preliminare e immediata operazione di sfondamento della posizione forte del nemico, riservando poi a una seconda fase la liquidazione delle parti residue, e più deboli, dello schieramento avversario. Insomma, la falange obliqua equivale all’adozione di un tattica d’urto e di sfondamento.

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- La sconfitta fu per Sparta un colpo durissimo, che segnò l’inizio del suo pur molto lento declino storico, come avvertiva già Aristotele. Sul campo restarono Sfodria, lo stesso re Cleombroto, e in totale 400 su 700 Spartiati presenti: era un tributo di sangue fatale per la città dalle poche migliaia di cittadini (quasi 3.000 in quest’epoca).

5. L’egemonia tebana e la spinta autonomistica in Grecia- Intanto Tebe si rafforzava nell’area a sud della Tessaglia, costringendo Orcomeno ad aderire

alla Lega beotica e piazzando guarnigioni a Nicea presso le Termopili. Così, dopo Leuttra, la Tessaglia entrava nel campo dell’interesse attivo di Tebe, con un significativo ribaltamento dei ruoli tra le due regioni, conseguenza della morte di Giasone.

- In aree lontane dalla Beozia, Tebe sosteneva spinte e tendenze autonomistiche, principalmente nell’area del Peloponneso. In Arcadia si costituiva una confederazione, con un’assemblea generale di 10.000 (mýrioi), un collegio di strateghi e uno di magistrati federali, nonché una milizia stabile. Un’intervento di Agesilao per l’autonomia Tegea, ove il partito democratico era stato portato al successo dai Mantineesi, si risolse in una ritirata e in un nulla di fatto. A portare aiuto alla neonata Lega arcadia, dunque, non fu Atene, ma Tebe. Comincia così la serie delle spedizioni tebane nel Peloponneso (ve ne furono quattro), sempre guidate da Epaminonda, che assunse la regione come settore di suo particolare impegno.

- Nel solo anno 370/69 furono due le discese di Epaminonda nel Peloponneso. Nella prima, i Beoti intervengono per replicare al vano attacco di Agesilao contro Mantinea; poi avanzano fino in vista di Sparta, ma per difficoltà di attraversamento dell’Eurota e il sopraggiungere di soccorsi alleati, proseguono, oltre Sparta, verso la Messenia, dove la defezione tocca la maggior parte delle località e si dà avvio alla costruzione della città di Messene al monte Itome. Atene e Sparta serrano ora i ranghi e stipulano un trattato di mutua difesa, su basi paritarie, un trattato che segna la svolta storicamente decisiva nei rapporti tra le due città, che ormai avranno un buon numero di occasioni d’intesa e collaborazione. In aiuto di Sparta interverrà Dionisio I, con l’invio di navi e mercenari, quando Epaminonda calerà per la seconda volta nel Peloponneso, limitando però la sua azione al nord della penisola e a Sicione e Pellene, dopo essersi congiunto con gli Argivi, gli Elei e gli Arcadi.

- Al compito di rafforzare la presenza e l’influenza beotica nel nord greco (Tessaglia e Macedonia) provvede invece l’altro protagonista dell’egemonia tebana, Pelopida. In Tessaglia (369) egli libera Larissa, e poi interviene da paciere nelle contese dinastiche macedoni, tra il re Alessandro II e il cognato, Tolomeo di Aloro. Nel 368 Pelopida interviene di nuovo in Macedonia, dove il momentaneo accordo tra Tolomeo e Alessandro II si era già rotto: Alessandro fu assassinato, Tolomeo assunse la reggenza per il fratello di Alessandro, Perdica III. L’arrivo di Pelopida ristabilisce l’influenza tebana in Macedonia, mediante un nuovo accordo con Tolomeo e la consegna di Filippo (il futuro re Filippo II), fratello di Perdicca III, e il suo trasferimento a Tebe come ostaggio.

- Intanto nel Peloponneso la Lega arcadica si estendeva e consolidava i rapporti con i popoli nemici di Sparta, dagli Argivi ai Messenii: la nuova lega si rafforzava politicamente e si creava una capitale federale, Megalopoli, nell’Arcadia occidentale. L’impianto fu pensato in termini grandiosi, del tutto corrispondenti al significato del nome, con l’intento anche di fungere da città rifugio (368/7). Nel 367 una terza spedizione nel Peloponneso guadagnava l’Acaia come alleata a Tebe. Epaminonda avvia il suo programma di armamento e di

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politica navale. L’imitazione competitiva nei confronti di Atene è evidente e dichiarata. Si avviò così la costruzione di una flotta di 100 triremi: con le prime navi disponibili, Epaminonda raggiunse Bisanzio, che indusse ad uscire dalla Lega navale ateniese, e Chio, Rodi e Cos, con cui strinse buoni rapporti. Ma la politica navale si fermò lì: Tebe non solo mancava di una tradizione di pratica marinara e mercantile, ma più che altro non aveva il ruolo di guida ideologica che aveva Atene nei confronti del mondo greco d’Asia.

- Nel 364 i Tessali richiedevano l’intervento tebano contro il tiranno Alessandro di Fere: Tebe concede un aiuto limitato, 300 cavalieri capeggiati da Pelopida: esso ottiene la vittoria, ma resta morto sul campo lo stesso Pelopida. L’anno successivo le forze Beoti sconfiggevano definitivamente quelle di Alessandro di Fere, di cui si riducevano drasticamente i dominii. Circa lo stesso periodo i Tebani procedevano a regolare storici conti con Orcomeno: la città venne distrutta, la popolazione maschile esterminata, le donne e i bambini venduti schiavi.

6. Il significato della battaglia di Mantinea del 362- Nell’estate del 362 Epaminonda scende ancora una volta nel Peloponneso, prendendo a

base Tegea per un’azione contro Sparta, subito interrotta per il controattacco di Agesilao. Ma da Tegea Epaminonda poté invece inviare contro Mantinea la cavalleria beotica e tessalica, che si trovò però di fronte la cavalleria ateniese, e poi gli opliti ateniesi e gli Spartani insieme con i loro alleati, in un grande spiegamento di milizie. Forti del sostegno dei loro alleati (Sicionii, Argivi, Arcadi e Messenii), i Beoti accettarono la battaglia campale sull’altopiano di Mantinea. La battaglia seguì lo schema tattico di Leuttra: attacco concentrico della cavalleria, movimento d’urto dell’ala sinistra della fanteria. Gli Spartani cedettero, ma nello scontro Epaminonda rimase ferito a morte; l’esito militare e politico fu quello della più grande incertezza, che investì il sistema di rapporti all’interno del mondo greco. La conclusione delle Elleniche di Senofonte, che si chiude con questa battaglia, è appunto che dopo la battaglia di Mantinea in Grecia vi fu più confusione e disordine di prima.

- In effetti, in Grecia non vi era più spazio per l’egemonia di una pólis. L’egemonia tebana aveva prodotto quel che poteva produrre l’ultimo tentativo di questo genere: lo smantellamento, appunto, dell’idea stessa di egemonia. Una pace generale, da cui si tenne però fuori Sparta, sanciva lo status quo, l’indipendenza della Messenia e l’esistenza di due leghe arcadiche, l’una intorno a Tegea e Megalopoli, l’altra intorno a Mantinea; fondamentale comunque il fatto che l’Arcadia confinante con la Laconia fosse anche quella antispartana.

- Ciò non significa che le prospettive egemoniche fra le póleis cessassero di colpo: a suo modo, ciascuna delle tre maggiori città di Grecia continuava a perseguirle, ma con più incertezza, minore slancio e minore coesione interna, quindi con un’efficacia storica sempre più limitata. Sparta non intendeva rinunciare alla Messenia e al suo ruolo nel Peloponneso; Atene manteneva, e forse momentaneamente accentuava, la sua posizione egemone all’interno della Lega navale; Tebe continuava a tener viva la propria ostilità verso Sparta e anche, benché in minor misura, verso Atene, ma soprattutto cercava di conservare un ruolo fondamentale nella Grecia centrale e nella stessa Tessaglia.

- Lo scontro tra queste ormai sempre più inefficaci ambizioni creò, nei fatti, le condizioni per il conflitto accesosi nella Grecia centrale intorno al santuario di Delfi, non a caso nelle vicinanze e per iniziativa stessa dei Tebani: una nuova guerra sacra (la terza della storia del

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santuario delfico), che si apriva come conflitto regionale, rigorosamente contenuto all’interno del mondo delle póleis, e però doveva svilupparsi e chiudersi (segno, questo, di un’epoca veramente nuova) come conflitto coinvolgente anche i Macedoni, e con una pace, quella di Filocrate (346), in cui Filippo II era parte determinante, anzi già dominante.

7. L’intervento cartaginese in Sicilia (409-405) e l’ascesa di Dionisio I di Siracusa- Durante la grande spedizione ateniese in Sicilia degli anni 415-413, Cartagine era stata a

guardare, certamente decisa a impedire che i sogni di conquista che si attribuiscono ad Alcibiade diventassero realtà, ma non del tutto sfavorevole alla spedizione ateniese, che colpiva una sua nemica, Siracusa: e proprio dallo strascico della recente spedizione ateniese deriva l’intervento cartaginese del 409, che provocò la distruzione di Selinunte e di Imera e il conseguente massacro delle popolazioni (particolarmente nella prima città) e a cui seguì, tra il 406 e il 405, la distruzione e annessione di Agrigento, Gela e Camarina da parte cartaginese. Fu il riaccendersi di controversie territoriali tra Segesta e Selinunte a provocare l’intervento di un forte esercito punico di cittadini, sudditi libici e mercenari. Il comando era nelle mani di Annibale, che distrusse le mura di Selinunte, le case e i tempi, facendo strage di 16.000 persone, mentre 5000 cadevano prigioniere e solo 2300 riuscivano a trovare scampo nella fuga. L’intervento di un contingente siracusano al comando di Diocle fu reso vano dalla rapidità con cui Selinunte fu messa in ginocchio (nove giorni); sorte analoga poi toccò a Imera, dove però si riuscì a mettere in salvo almeno una parte della popolazione, che si rifugiò a Messina; 3000 uomini catturati da Annibale furono da questo sacrificati ai suoi Mani.

- A Siracusa, una prima ripercussione politica è il tentativo di rientro di Ermocrate, che sbarcato a Messina compì una serie di imprese di grande effetto propagandistico, ma di scarsa efficacia, poiché nel frattempo l’armata cartigese sotto Annibale era rientrata in patria. Nella primavera dell’anno successivo (406) i Cartaginesi riprendono l’offensiva in Sicilia, con manifeste intenzioni di allargare l’area del proprio dominio mediante l’acquisizione dell’intera costa occidentale. Il primo attacco è rivolto contro la ricchissima e popola Agrigento, che, nonostante le difficoltà, fu conquistata dagli Cartaginesi. Questa volta i Siracusani, rafforzati da un gran numero di Greci di Sicilia e d’Italia, accorsi contro un pericolo cartaginese ormai chiaramente emerso in tutta la sua entità, riescono a entrare ad Agrigento, ma non a liberarla per intero – comunque alla popolazione furono risparmiati i massacri similia quelli di Selinunte; si dovette intanto attuare lo sgombero di Gela.

- A Siracusa intanto, un valoro ufficiale del partito di Ermocrate, Dionisio, mise sotto accusa la conduzione della guerra, ottenendo la destituzione dei precedenti strateghi e la nomina di un nuovo collegio, in cui fu eletto egli stesso. Egli ottenne nel contempo il rientro degli esuli e si appoggiò decisamente alla parte popolare. Fu solo il primo atto dell’ascesa di Dionisio. Recatosi a Gela, Dionisio intervenne in favore del dêmos contro i proprietari; a Siracusa accusò i suoi colleghi di intelligenza col nemico – questi furono deposti e Dionisio divenne stratego con pieni poteri. Nell’estate del 405 i Cartaginesi attaccano Gela; Dionisio non riuscì ad espugnare l’accampamento del nemico e fallì, proprio come i suoi predecessori ad Agrigento: Gela e Camarina furono perciò evacuate. L’esito deludente diede spazio a un ultimo tentativo dell’aristocrazia della città di abbattere la nuova tirannide; ma Dionisio sopravvenne da Camarina, uccise alcuni dei cavalieri e altri cacciò dalla città. Anche da parte cartaginese il pericolo veniva meno, non da ultimo per l’effetto deterrente

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dell’epidemia che ne aveva decimato le truppe. Verso la fine del 405 si stipulava la prima pace tra Dionisio e i Cartaginesi. Selinunte, Imera, Agrigento appartenevano a Cartagine; i cittadini di Gela e Camarina diventavano tributari di questa, che esercitava la sua autorità anche su Elimi e Sicani, e assumeva di fatto la tutela dell’autonomia dei Siculi; a Dionisio però veniva riconosciuto il dominio su Siracusa.

8. Lo stato territoriale di Dionisio I- Dopo il primo trattato coi Cartaginesi, Dionisio provvide a rafforzare strategicamente e

politicamente la sua tirannide: fortificò l’isola di Ortigia, e vi insediò amici e mercenari; fece demagogiche concessioni di terre e di cittadinanza, anche a schiavi liberati. Quindi si mise all’opera per correggere gli effetti del primo trattato, volendo ricostituire l’area de influenza siracusana, partendo dai Siculi: comincia nel 404 l’assedio della sicula Erbesso. Già in quest’anno comincia l’ostilità a Dionisio di Reggio, che con Messina invia la sua flotta a sostegno degli insorti. Vinti i nemici senza neanche versare molto sangue, e raforzata la sua posizione militare e politica a Siracusa, Dionisio riprende i suoi piani di espansione, questa volta contro Nasso, che viene distrutta, e il cui territorio è ceduto ai Siculi; Catania è conquistata e ceduta ai mercenari campani; così anche Leontini, la cui popolazione si trasferì a Siracusa.

- Dionisio è il creatore del ‘più grande dominio d’Europa’ prima di quello macedone, e quindi una delle tappe miliari nello sviluppo dell’idea stessa di Stato territoriale nel mondo greco; lo scopo e il risultato delle sue conquiste è la creazione di un dominio continuo, ma non omogeneo al suo interno (quanto a tipo di rapporto con Siracusa), che si estenderà, nel 386, dopo la vittoria dell’Elleporo e la presa di Reggio, sino all’attuale Puglia e che includerà: 1) aree annesse a Siracusa, dove è praticata una politica di depoliticizzazione e disurbanizzazione (area etnea); 2) Messina, che resta città, per opportunità geografica e strategica, ma in posizione di stretta dipendenza politica; 3) Reggio, che sarà distrutta; 4) Locri, che è la fida alleata, la sentinella degli interessi e del dominio di Dionisio. Oltre questi confini, Dionisio cerca solo posizioni di egemonia, di prestigio, di controllo: ma il dominio ‘continuo’ non risulta essersi esteso oltre quell’istmo. Affidato al limitato respiro di un uomo e della sua discendenza, questo impero si sgretolerà già sotto Dionisio II: ma esso è, se non un modello, certo un sicuro antecedente degli stati territoriali creati da una città nel mondo mediterraneo. Lo stesso dominio di Roma sarà un sistema non meno complesso e in definitiva analogo; la differenza fondamentale è che Roma concepisce l’impero come un compito che va al di là del respiro di uno o di pochi individui, di una o due geenrazioni, come il compito storico di una intera classe dirigente, che se lo trasmette di generazione in generazione, in una continuità di secoli.

- In Sicilia lo sbocco non potrà essere che un nuovo conflitto con i Cartaginesi, in vista del quale sulle Epipole, già nei primi anni della tirannide, Dionisio costruisce il poderoso castello Eurialo, modello di architettura militare. Verso gli Italioti egli tenta le armi dell’intesa. Messina esce dall’alleanza con Reggio e si accorda con il tiranno, entrando nel ruolo assegnatole da Dionisio di sentinella sull Stretto, per bloccare eventuali aggiramenti della flotta cartaginese; con Reggio Dionisio tenta un’alleanza matrimoniale, chiedendo in moglie una fanciulla di nobili natali – secondo la tradizione Reggio gli avrebbe offerto la figlia di uno schiavo; diverso il comportamento dei Locresi, che concessero al tiranno Doride, la figlia del più insigne cittadino: il tiranno la sposò lo stesso giorno che contrasse le

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nozze con una nobildonna siracusana: non c’è ragione di dubitarer della bigamia; era una condizione eccezionale che corrispondeva in pieno alla duplicità del campo d’interesse di Dionisio. Reggio, in definitiva, rappresentava nel conflitto che si profilava col tiranno siracusano, il principio cittadino e autonomistico, contro il principio dello Stato territoriale costituito intorno a Siracusa, che Dionisio da parte sua perseguiva e rappresentava.

9. Dionisio I tra l’epicrazia cartaginese e l’autonomia delle città italiote- Ma il confronto con Reggio (più volte avviato da Dionisio) era di fatto accantonato, visto

che comunque l’alleanza di Locri assicurava al tiranno una solida posizione sul continente, rispetto a cui Reggio si riduceva ad una fastidiosa ma fragile enclave. Ora era più urgente il consolidamento delle posizioni in Sicilia e perciò la guerra contro Cartagine.

- Rapidamente Dionisio affermò la sua autorità nella Sicilia interna, andando a cozzare contro lo zoccolo duro del dominio cartaginese. Nel 396 sbarcava in Sicilia ancora una volta Imilcone, alla testa di un grande esercito punico. La controffensiva di Imilcone è invero un seguito di successi e si svolge in senso ‘orario’ lungo il perimetro della Sicilia: cadono Terme e Messina, che viene completamente distrutta; i Siculi defezionano da Siracusa, e i Cartaginesi putano su Catania, dove la flotta di Dionisio subisce una durissima sconfitta (con la perdita di più di 100 navi e 20.000 uomini). Cominciava ora l’assedio della stessa Siracusa da parte dell’esercito di Imilcone. Durante l’estate del 396 una squadra peloponnesiaca interveniva in favore di Dionisio. La situazione non sarebbe tuttavia facilmente mutata a favore dei Siracusani senza un evento catastrofico per i Cartaginesi, una peste che ne decimò le truppe. L’esercito punico era da questa sciagura reso incapace; Imilcone cercò di salvare il salvabile, utilizzando le residue possibilità di fuga per mare; gli altri soldati si arresero ai Siracusani. Dionisio recuperava Catania, Lipari e Terme, provvedendo inoltre alla ricostruzione di Messina. Nel frattempo, in Italia, alcune cittá fondano la Lega italiota, che aveva come obiettivo di resistere ai Lucani e di opporsi a Dionisio. Nel 392, dopo ancora qualche spedizione punica che non ottennero successi, è pace fra i Cartaginesi e Dionisio, il quale ottiene la rinuncia di Cartagine ad esercitare il suo protettorato sui Siculi, e il riconoscimento, almeno di fatto, del dominio del tiranno in Sicilia.

- Ora Dionisio, l’árchon Sikelías, può puntare a perfezionare il suo dominio sull’estremo lembo dell’Italia; dapprima egli rivolge il suo sforzo contro Reggio, ma una tempesta risolve in un disastro la spedizione navale. Dionisio stabilisce allora una sorta di tacita intesa con i Lucani, che compiono incursioni periodiche nei tel territorio di Turi; più che di un’alleanza attiva tra Dionisio e i barbari, si trattava di una coincidenza strategica.

- Nel 388 il tiranno passava all’azione contro la Lega italiota, iniziando l’assedio a Caulonia. Mentre egli assediava la città, da Crotone moveva un esercito federale italiota, forte di 25.000 fanti e 2000 cavalieri; Dionisio sospese l’assedio di Caulonia e marciò verso il nord per intercettare il nemico; presso il fiume Elleporo ebbe luogo la battaglia, che gli diede la vittoria decisiva sulla Lega; Dionisio costrinse a rifugiarsi su un colle la massa dei soldati italioti, che infine si arresero per sete, e che tuttavia, dopo essere stati fatti prigionieri, vennero rimandati nelle rispettive patrie senza riscatto. Era l’atto più generoso compiuto dal tiranno nella sua vita, un atto che, da un lato, sembra suggellare la costruzione e delimitazione del dominio territoriale siracusano (poco dopo iniziava la costruzione di un muro nell’istmo calabro), dall’altro doveva solo lasciargli le mani più libere per l’azione

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decisiva contro Reggio, che per sé non poteva non suscitare l’indignazione dei Greci: col comportamento dopo l’Elleporo, Dionisio pagava anticipatamente ammenda per quel che stava per fare ai Reggini. Caulonia era intanto conquista – il suo territorio annesso da Locri, e la popolazione trasferita in Sicilia.

- Reggio, isolata, dapprima trattò col tiranno e gli versò 300 talenti e consegnò ostaggi. Poi Dionisio chiese ‘mercato’ ai Reggini, con l’intento di ridurli senza viveri; i Reggini, capito il suo piano, si rifiutarono di rifornilo ulteriormente; Dionisio allora pose un assedio che durò 11 mesi e costò sofferenze enormi alla città, ridotta all’isolamento e alla fame. Au superstiti, ridotti ormai a cadaveri ambulanti, fu consentito di riscattare la vita con il pagamento di una mina; quello che non potevano pagare, furono venduti schiavi a Siracusa. Sulle rovine della città Dionisio eresse un pazzo. Solo Dionisio II ricostruirà il nucleo di una nuova Reggio chiamata, dal nome della cinività più cara alla città, Febìa.

10. La politica imperiale di Dionisio I- Dionisio incentiva anche la fondazione di colonie nella costa Illirica dell’Adriato, nonché

nella stessa Italia, riprendendo in grande stile dunque le colonizzazioni corinzie. Presenze siracusane si hanno anche nel Tirreno, contro gli Etruschi, e addirittura in Corsica, dove si alleano con i Celti nella lotta contro gli Etruschi.

- Tra 379 e 374 si ha una terza guerra cartaginese, e la pace che seguì sancì l’appartenenza a Cartagine di alcuni territori ad occidente, come Selinunte e Terme; in una quarta guerra contro cartagine, nel 367, Selinunte è ripresa, ma il tiranno muore nell’inverno, all’età di 63 anni.

- Scompariva con lui un personaggia che aveva irradiato, da Siracusa e dal suo dominio costruito intorno allo Stretto, presenza e potenza e capacità di intervento in tutte le direzioni. In Grecia stessa egli aveva più volte interferito militarmente, sempre in favore degli Spartani, già durante la guerra corinzia; poi, nel 372, aveva partecipato all’assedio di Corcira, contro gli Ateniesi, e ancora era intervenuto dopo Leuttra, per contrastare Epaminonda e gli Arcadi ostili a Sparta. Ma dopo Leuttra, con il riavvicinamento tra Atene e Sparta, si erano anche create le condizioni per la ricostituzione di buoni rapporti tra Atene e l’árchon Sikelías.

- La vicinanza ideale a Sparta e la notorietà del personaggio ad Atene, sommate insieme, spiegano in misura non trascurabile i primi due dei tre viaggi di Platone in Sicilia: a questi due dati ne va aggiunto un terzo, la consapevolezza, che ha il mondo greco, della relativa facilità con cui in Sicilia si poteva procedere a operazioni di ingeneria politica, disfacendo vecchie città e costruendone di nuove. A un riformatore e sognatore di un nuovo stato, come Platone, doveva sembrare la terra promessa.

11. Dionisio II, e gli intellettuali nella politica- Dionisio II, figlio della moglie locrese del primo Dionisio, successe al padre, a dispetto dei

tentativi contrari della discendenza di Aristomache, e del fratello di questa, Dione. La sua politica fu, rispetto a quella del padre, di contenimento: accordo con Cartagine, intervento in favore degli Italioti contro i Lucani, fondazione di due colonie contro i pirati in Apulia. All’interno, il governo del giovane Dionisio fu caraterizzato da qualche misura sociale e politica (ridotte le tasse, richiamati gli esuli).

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- Il secondo viaggio di Platone in Sicilia (367/6) appare come il nodo storico in cui si annodano diverse premesse: oltre alla disponibilità intelletuale del tiranno, il complesso gioco politico dello zio Dione che mirava a crearsi una posizione di potere a Siracusa, estromettendo, o almeno fortemente condizionando, il giovane Dionisio. Terzo fattore in goco, per questo come per il successivo viaggio di Platone (361) in Sicilia è il ruolo politico di Archita di Taranto, amico di Siracusa, ma anche dei Dionisii; nel rapporto stretto che si instaura tra Archita e Dionisio II vai riconosciuta la condizione primaria per l’avvento di una lata unità politico-culturale, alla cui luce diventa più comprensibile l’attenzione di Platone alla grecità occidentale nel suo insieme.

- Poco doveva durare l’intesa tra Platone e Dionisio II. La rottura è da iscriversi in primo luogo nel conflitto tra il tiranno e Dione, che più s’era adoperato, anche con i buoni uffici d’Archita, per far tornare Platone in Sicilia, e che invece fu costretto all’esilio, perché sentito dal tiranno come una minaccia; Dione s’insediò ad Atene, in attesa dell’occasione per spodestare Dionisio. Inutile fu il terzo viaggio di Platone a Siracusa, intrapreso nel 361 allo scopo di metter pace fra i due. Con il sostegno di allievi di Platone (Callippo, Eudemo, Timonide) e la connivenza dei governi di Atene e di Corinto, Dione organizzò un corpo di spedizione contro Dionisio. Dionisio II riuscì a resistere agli attacchi condotti per terra da Dione e a sopravvivere alla sconfitta navale; fuggì però a Locri. Nel campo degli avversari scoppiava intanto la discordia: Dione veniva cacciato e fuggiva a Locri. Seguirono nuovi successi delle truppe di Dionisio; tuttava poco dopo Dione era richiamato a Siracusa come strategós autokrátor. Cominciava una nuova tirannide, connotata da comportamenti autoritari o violenti. In questo clima matura la ribellione dell’accademico Callippo, che fece assassinare Dione dai suoi mercenari, nel 354, e assunse il potere, venendo a sua volta ucciso poco dopo. Dopo qualche anno Dionisio riusciva a ritornare a Siracusa.

Note integrative

a) Sulla retorica del IV secolo a.C.- La rhetorikè téchne si sviluppa innanzi tutto come tutela di interessi privati in cause civili;

ambiente di nascita, la Siracusa democratica di età post-dinomenide: Corace e Tisia (ma, secondo una tradizione, lo stesso Empedocle di Agrigento) sono gli iniziatori di un’arte, di cui grande maestro e tramite verso il mondo ateniese è Gorgia di Leontini. L’oratoria politica si sviluppa accanto a quella giudiziaria, ed ora è oratoria di discorsi assembleari, ora è solo oratoria fittizia, cioè declamazione che svolge temi generali, destinata a un pubblico raggiungibile con la scrittura e con l’ormai diffuso commercio librario.

- Il fenomeno è ancora una volta di quelli che maturano nel clima della democrazia, culla della isegoría e della parrhesía. Il canone degli oratori attici comprende nomi che si dispongono nell’arco degli ultimi decenni del V e larga parte del IV secolo: Antifonte, Andocide, Lisia, Isocrate, Iseo, Eschine, Licurgo, Demostene, Iperide, Dinarco. Rhétores è il nome dei nuovi politici, attivi sul terreno della parola e della proposta pubblica; una retorica che si serve dello strumento della scrittura, che vive nella e della civiltà democratica della scrittura.

- Ancora una volta, decisivo appare il concorso del ‘privato’ e del ‘pubblico’: dei dieci oratori del canone, alcuni (Antifonte, Lisia, Isocrate, Demostene) hanno cominciato come logografi, cioè come scrittori di discorsi giudiziari, redatti in nome e per conto degli attori in

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giudizio, riguardanti questioni del diritto patrimoniale e civile, e della sfera del privato in generale. Il ‘privato’ si configura come momento di passaggio verso il ‘pubblico’, cioè verso l’oratoria a carattere politico.

b) Banche private, investimenti, scambi- Presso l’agorá di Atene, nel V secolo, al tempo del sofista Ippia e di Socrate, c’erano delle

banche, e il posto resta come punto di ritrovo per tutto il secolo successivo. Tra la metà e la fine del V (o l’inizio del IV) secolo a.C. le banche di Atene diventano, da banche di cambio, banche di deposito e di credito. Anche in altre città greche a grande sviluppo commerciale, le tendenze tesaurizzatrici potranno essere state messe precocemente in scacco dall’espansione delle tendenze allo scambio.

- Come banche di deposito e di credito funzionano nel V secolo i santuari, fra cui spicca Delfi. Mentre la fioritura delle banche templari si colloca in etá classica, quella delle banche private si data all’età ellenistica, e sembra conseguenza della creazione di un vasto mercato, risultato della conquistamdi Alessandro Magno e, più specificamente, della monetizzazione di 130.000 talenti del tesoro persiano.

c) Aspetti di pauperismo nel IV secolo- Un diffuso pauperismo è caratteristico dell’economia del IV secolo, nonostante gli aspetti di

crescita economica appenna accennati. Si è cercata una spiegazione a questo fenomeno nella crisi dell’agricoltura, ma i fenomeni di devastazione delle campagne, che si verificano durante le guerre, tendono a risarnarsi rapidamente e non spiegano una crisi di ben più lunga durata, quale è quella del IV secolo, cui risponderà positivamente, anche se non definitivamente, la creazione dei regni ellenistici, cioè dei regni orientali a dominanza sociale greco-macedone, capaci di istituire, attraverso il mercenariato militare e altre forme di migrazione, un mercato del lavoro che verrà incontro alla crisi sociale del mondo delle città greche.

- Le ragioni dell’impoverimento vanno dunque cercate altrove. Atene, ad esempio, non riesce nel IV secolo a ricostituire un impero del tipo di cui aveva goduto nel secolo precedente: sotto l’aspetto finanziario ed economico in genere, come del resto sotto l’aspetto politico, la Lega attica del IV secolo non è comprabile con quella del V. Ciò comporta necessariamente una crisi dell’artigianato interno, in primo luogo di quello legato al grande sviluppo edilizio di epoca periclea. Ma anche l’artigianato che produce per l’esportazione conosce nel corso del secolo un declino. Questo è solo un campione di un fenomeno più generale, che si potrebbe definire come la ‘crisi degli imperialismi greci’ nel IV secolo a.C. La rappresentazione classica della storia delle più brevi egemonie succedentisi nei primi decenni del secolo, da quella spartana, a quella tebana (che non dura un decennio), altro non è se non il riscontro, sul piano politico-militare, di un fenomeno più ampio che consiste nell’esaurirsi delle forme imperialistiche, politiche ed economiche insieme, nell’àmbito delle città greche. Del secolo e dei suoi problemi sociali è caratteristica la diffusione del mercenariato militare, ma anche, e per converso, la diffusione di uno spirito d’impresa, che si affida di più ad iniziative individuali, sostenuto in particolare dal diffondersi del credito, specie quello nautico.

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d) Sulle finanze delle póleis- I Greci non conoscevano, di norma, imposte ordinarie dirette sul reddito e perciò sul

patrimonio dei cittadini: una imposta diretta e ordinaria veniva tradizionalmente sentita come imposizione tirannica. D’altra parte i tiranni, con gli espedienti fiscali che mettevano in atto, mostrano forse non soltanto avidità personale, ma anche l’esistenza di esigenze proprie dello Stato, sì che la loro azione configura un momento significativo nella storia della fiscalità e perciò di questa funzione particolare dello Stato.

- Le esigenze di spesa della città riguardavano aspetti pubblici essenziali, come l’organizzazione di culti e feste, della difesa, talora dell’approvvigionamento essenziale. Nell’Atene del V e IV secolo è noto il sistema delle liturgie. Il termine in generale sta a indicare un servizio del cittadino per la città, più specificamente una prestazione di ordine finanziario, a cui si sottoponevano i più ricchi fra i cittadini e i meteci: ve ne erano di ordinarie, cioè per esigenze di spesa ricorrenti (come la coregia per l’allestimento dei cori nelle rappresentanzioni teatrali); straordinaria era invece la trierarchia, cioè la spesa per l’allestimento e il mantenimento di una trireme per un anno. Il sitema delle liturgie, che formalmente e teoricamente si presentano come prestazioni spontanee, andavano prendendo sempre di più l’aspetto di contribuzione forzose, aprendo la strada ad Atene per l’avvento di un sistema di tassazione diretta.

- Il IV secolo è dunque percorso da una tensione tra una struttura statale democratica, che raffina i suoi strumenti fiscali, e che conserva o addirittura incrementa forme di beneficenza sociale di impronta pubblica, e le difficoltà e i malumori crescenti di contribuenti ricchi, che si sentono tartassati.

9. La Macedonia dalle origini al regno di Filippo II

1. Le origini dei Macedoni e il loro rapporto con la grecità- Il territorio macedone è circondato da varchi diversi, che in epoche diverse devono aver

consentito l’afflusso di popoli dalle regioni illiriche e da quelle epirotiche, come anche dalla Tracia o dalla Frigia. Queste condizioni territoriali favorivano senza dubbio una qualche mistione etnica – e non v’è dubbio che nella lingua, nella toponomastica, oltre che naturalmente nella controversia che divide i Greci circa la realtà, o almeno il grado, della grecità di quel popolo, traspaia qualcosa di questa mistione etnica e culturale.

- Tuttavia gli stessi tipi di evidenza possono anche essere addotti per sostenere che, nonostante l’apporto di aree culturali diverse, un fondo cospicuo di grecità sia da riconoscere al popolo macedone. La storiografia greca riconosce la dinastia degli Argeadi come greca, più specificamente argolica (quindi dorica), in quanto il primo dei re macedoni (Perdicca per la tradizione più antica; il leggendario Carano per la tradizione successiva) discenderebbe da un ramo degli Eraclidi, quello dei Temenidi (dal mitico bisnipote di Eracle, Temeno, fondatore della Argo dorica): si riconosceva dunque una qualche misura di grecità alla realtà macedone presa nel suo complesso, e ciò nel senso di una connessione dei Macedoni col mondo dorico.

- Nel nome Makedónes è del resto da riconoscere, con ogni verosimiglianza, un riferimento all’altezza, non tanto delle persone, ma dei luoghi che esse abitavano. Abitanti dunque dei luoghi alti, “montanari”; e già l’accezione così indeterminata di quel nome incoraggia alla conclusione che i Macedoni si presentino come una realtà etnica mista. I ‘macedoni’, cioè i

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‘montanari’, identificavano dunque agli occhi dei Greci un popolo dell’interno, con tutto il relativo carico di connotazioni di ordine culturale ed economico, un popolo tenuto distinto dai Dori della Grecia centrale, ma anche sentito in una suggestiva contiguità con essi, come risulta da Erodoto.

2. I re di Macedonia fino ad Alessandro I- Erodoto ci fornisce la lista dei re all’incirca dall’inizio del VV secolo fino alla prima metà

del V: Perdicca I, Argeo, Filippo I, Aeropo, Alceta, Aminta I, Alessandro I detto il Filelleno; a lui, che regna forse dal 498 al 454, succedono i figli Alceta, Filippo e Perdicca II; a quest’ultimo segue Archelao (413-399). È Tucidide che completa la lista fino ad Archelao, confermando implicitamente con le sue indicazioni la lista di Erodoto.

- La dinastia macedone e le vicende di essa cominciano ad assumere contorni storici solo a cominciare da Aminta I, il padre del Filelleno, e dal Filelleno stesso, il che corrisponde perfettamente ai tempi della storiografia greca: è naturale che la dinastia macedone entri in piena luce di storia solo in quell’epoca – già i fatti storici in cui essa è coinvolta contribuiscono a trarla dall’oscurità che l’avvolge per l’epoca precedente. Sono infatti le spedizioni persiane, quella scitica di Dario I circa il 513 a.C., e poi quella di Serse contro i Greci nel 480, a interessare, anche se solo marginalmente, la Macedonia e perciò ad attirare l’attenzione di Erodoto, e della storiografia successiva, sul popolo, tra barbaro e greco, che i Persiani trovarono, ora meno ora più direttamente, sulla loro strada nelle due occasioni.

- Nel corso della spedizione in Scizia, del 513 circa a.C., Dario invia suoi uomini al re di Macedonia, Aminta I, per ottenere il riconoscimento della sua sovranità formale sulla regione confinante con la Tracia. Il racconto erodoteo, in questo caso di matrice macedone, maschera il riconoscimento della condizione di vassallaggio della Macedonia verso la Persia dietro l’episodio della strage di alcuni intemperanti nobili persiani alla corte di Aminta, avvenuta per iniziativa del figlio Alessandro I; l’episodio si conclude comunque con un matrimonio ‘politico’ della sorella di Alessandro con un nobile persiano.

- Il lunghissimo regno di Alessandro I (498-454) si segnala sotto l’aspetto culturale, politico, militare, economico. Sotto l’aspetto culturale, esso significa il riconoscimento definitivo, da parte greca, della grecità della dinastia regnante in Macedonia, per influenza forse di Argo e Corinto, ma sicuramente anche di Atene. L’occasione immediata del riconoscimento dell’origine greca di Alessandro fu, secondo Erodoto, la partecipazione alle gare di Olimpia, dapprima contrastata dai concorrenti, poi ammessa. Pindaro dedica ad Alessandro I un encomio (“oh omonimo degli opulenti Dardanidi”) – nel sottolineare l’omonimia tra il re macedone e il troiano Paride Alessandro, Pindaro risolveva elegantemente il dilemma sul tema della grecità dei Macedoni. Alessandro è detto omonimo dei Dardanidi, cioè della stirpe nata ‘da Dardano’ (per i Greci, un greco d’Arcadia), non ‘dei Dardani’, non cioè dei Troiani: e infatti nella Troade la tradizione greca immagina una dinastia di origine greca, ma regnante su un popolo barbaro, proprio lo stesso schema che veniva fatto valere per i Macedoni! Sul piano politico, a parte le prime incertezze nei confronti della Persia e della causa nazionale greca, il comportamento posteriore di Alessandro I a Platea e la ricusazione di fatto del rapporto di vassallaggio verso la Persia, segnarono l’inizio dell’ascesa della Macedonia. Questa si concretò in una spinta espansionistica che, dirigendo anche l’attenzione verso est, veniva a interferire nell’area degli interessi di Taso, prima, e poi della stessa Atene, rischiando con essa uno scontro diretto, per cui comunque la Macedonia non

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era ancora matura. Sul piano militare va forse attribuita ad Alessandro I una riorganizzazione dell’esercito, attraverso la creazione di un’armata di pezeteri (o eteri appiedati), una fanteria cioè che veniva ad affiancarsi alla cavalleria degli eteri. Liberazione progressiva dal vassallaggio verso la Persia e prima collocazione culturale e politica nel mondo greco possono considerarsi come gli apporti principali del regno di Alessandro I.

3. Perdicca II tra Atene e Sparta- Il regno del figlio e successore di Alessandro, Perdicca II, che regnò da solo almeno dal 437

fino al 414/3, si segnala per un più attivo inserimento della Macedonia nello scontro di potere che si determina all’interno del mondo greco, e che ha i suoi poli in Atene e Sparta. La Macedonia non sfugge a una condizione e a una sorte che riguardano l’intero mondo greco – il grande duello politico e ideologico, che si svolge fra le due città; e i comportamenti di Perdicca II hanno molto dell’abile altalena e del furbesco barcamenarsi. Comunque, nell’incertezza della Macedonia di Perdicca II tra Sparta ed Atene, si capisce che il vero problema politico e storico della Macedonia è Atene: nel bene e nel male, questo è il suo referente; l’altalena di Perdicca II è tra l’accettazione dell’egemonia di una città, il cui ruolo culturale è vitale per la Macedonia, e il rifiuto di forme di dominio che contrastino troppo direttamente con gli interessi della Macedonia e dei suoi vicini.

- Questa difficile partita tra Atene e Macedonia si gioca principalmente nell’area della Calcidica. Mentre la fondazione di Anfipoli alla foce dello Strimone da parte ateniese nel 437/6 avviene senza l’ostilità, e forse con il favore, della Macedonia, quest’ultima però sostiene a ripetizione, pur con frequenti ripensamenti,la ribellione della Calcidica alle pretese egemoniche di Atene, che aveva incluso nella Lega navale e nel suo sistema tributario vari centri della regione. Dietro la ribellione di Potidea ad Atene e dietro la costizuione del nuovo stato dei Calcidici centrato su Olinto, c’è la mano di Perdicca II. È comprensibile che Atene gli scateni contro un’invasione di Traci nel 429 – una “grande paura”, che però si conclude con un matrimonio politico tra la sorella di Perdicca II e un nobile trace.

- Sull’aiuto spartano Perdicca II conterà al momento della spedizione tracia di Brasida (424-422), sia nei suoi poco efficaci tentativi di assoggettarsi la Macedonia interna, sia per contrastare la presenza di Atene nell’Egeo settentrionale, e in particolare ad Anfipoli. Qui la sua politica fu più fruttuosa: nonostante gli impegni presi dagli Spartani nella pace di nicia (421), Anfipoli dopo il 424 non tornò mai più nelle mani di Atene (ancora al tempo di Filippo II e di Demostene sarà un ricorrente, ma sistematicamente delusa, rivendicazione ateniese). La Macedonia, da Perdicca II almeno fino ai tempi di Filippo II, pratica nei confronti della penisola Calcidica una politica di ‘buon vicinato’, e semmai di lata e diffusa influenza, non proponendosi, a quell’epoca, il fine di un dominio diretto – se così non fosse non si spiegherebbe l’azione di Perdicca II volta a potenziare Olinto con il sinecismo del 432: Olinto, e la Calcidica in generale, svolgevano una funzione di grandi intermediarie del commercio delle materie prime macedoni verso il mondo greco.

4. La politica macedone da Archelao a Perdicca III (413-360/59)- Il regno di Archelao, figlio e successore di Perdicca II, il cui regno dura soltanto 14 anni

(414/3-399 a.C.), fu traumaticamente interrotto da un assassinio, per mano di un suo favorito, Krateuas. Ne seguì un periodo di convulse lotte dinastiche, la cui conclusione è il

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passaggio di mano da un ramo ad un altro della dinastia degli Argeadi (con l’ascesa al trono di Aminta III nel 393).

- Dal punto di vista della crescita culturale della Macedonia, che non può che significare una sua crescente ellenizzazione, il regno di Archelao è di fondamentale importanza. Alla sua corte giungono poeti ateniesi, come i tragici Agatone, Cherilo e soprattutto Euripide, che alla corte del re compose le Baccanti, l’Archelao e i Temenidi: segno dell’importanza del dramma, e al suo interno particolarmente della tragedia, come veicolo di cultura. In Macedonia Euripide, secondo il racconto tradizionale, avrebbe trovato la morte, perché sbranato dai cani molossi di Archelao.

- Tucidide attesta che Archelao provvide ad una migliore organizzazione del territorio macedone, come del resto anche ad una migliore organizzazione sia della fanteria sia della cavalleria. In politica estera poi non parleremo di rinuncia ad una iniziativa verso la Calcidica, che lo stesso Perdicca II aveva contenuto entro i limiti della promozione di una migliore organizzazione dei suoi vicini; andranno invece rilevate le interferenze di Archelao nelle cose di Tessaglia, verso cui la Macedonia assume sempre di più un ruolo protettivo, esercitato in favore dell’aristocrazia di Larissa, mentre tende a trasformare gli interventi protettivi in forme di più stabile presenza.

- Aminta III dové affrontare seri problemi. Sotto questo sovrano la Macedonia conobbe una vera grande crisi, risultante dall’assassinio di Archelao e dalle convulse lotte dinastiche che ne seguirono. Egli dovette fronteggiare una Lega calcidica ormai divenuta ostile e intraprendente verso la Macedonia, al punto di occupare, se pur solo temporaneamente, la capitale Pella. Aminta III invocò l’aiuto di Sparta, che debellò e sciolse la Lega calcidica dopo una guerra durata tre anni. La Lega calcidica presto si ricostituì e riprese i buoni rapporti di prima con la Macedonia.

- Aminta III d’altra parte, circa il 375, aderiva alla Lega navale ateniese, come anche Giasione di Tessaglia: costellazione significativa del particolare momento politico che vive la Grecia, dove a una rinnovata egemonia ateniese si accompagna un’egemonia tessalica nella Grecia centrale e un sostanziale accodarsi della Macedonia; eppure nel regno di Aminta III (padre del grande Filippo II) si coglie l’intera parabola della crisi macedone, fino al suo primo superamento, del quale può considerarsi come un segno ancora ambiguo ma non trascurabile la collocazione a pieno titolo nel quadro della nuova organizzazione politica intragreca creata da Atene con la nuova Lega navale.

- Alla morte di Aminta III si hanno nuove lotte dinastiche, durante le quali però sul trono macedone rimangono insediati sempre dei figli dello stesso Aminta, garantendo così la continuità dinastica (diversamente dalla crisi seguita all’assassinio di Archelao nel 399). Alessandro II regna solo un anno, assassinato dal cognato Tolemeo di Aloro, che assume quindi la reggenza per il fratello di Alessandro, Perdicca III.

- È il periodo in cui l’egemonia tebana fa sentire la sua influenza anche in Macedonia. Qui era intervenuto infatti in sostegno di Alessandro II il tebano Pelopida; successivamente questi aveva prestato il suo aiuto a Tolemeo di Aloro. Gli Ateniesi non potevano stare a guardare: si spiegano così le campagne di Timoteo nella Calcidica e sulla stessa costa macedone. Atene d’altro canto sostiene nelle lotte dinastiche il figlio di Aminta III, Perdicca III, che tuttavia, dopo essere stato aiutato dagli Ateniesi, contesta i loro diritti su Anfipoli, inviandovi e installandovi una guarnigione nel 360; ma l’anno successivo perisce in una spedizione contro gli Illiri.

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5. Stato territoriale e póleis nell’età di Filippo II- A Perdicca III succedeva, dapprima come reggente per il nipote minorenne (Aminta IV),

Filippo II, con il quale la Macedonia comincia una grande ascesa storica, che del paese farà, nella tradizione antica, uno degli imperi universali succedutisi nella storia delle regioni mediterranee.

- La storia dei rapporti tra Filippo II, la Macedonia e la Grecia ha subìto negli ultimi decenni una radicale revisione rispetto alle impostazioni ottocentesche del problema. È stata soprattutto la cultura tedesca dell’Ottocento e del primo Novecento a proporre un’interpretazione nazionalistica dello scontro tra Macedonia e Grecia al tempo di Filippo II e di Demostene, interpretato alla luce delle vicende dell’unificazione della Germania nel XIX secolo da parte della Prussia. L’applicazione di una chiave di lettura nazionalistica allo scontro Macedonia-Grecia è inadeguata però sia sul versante macedone sia sul versante greco.

- La Macedonia di Filippo II non si pose il problema di una unificazione politica indifferenziata e centralizzata del restante del mondo greco intorno alla Macedonia; così come neanche il mondo dele città greche riuscì realmente a produrre un’idea di unità nazionale, ma al massimo, e anzi con particolare fervore, produsse un programma panellenico, che di fatto non andava oltre uno schema politico associativo e confederativo di stati autonomi, stretti intorno all’egemonia di uno di essi.

- La politica egemonica perseguita da Filippo II presenta moduli diversi di politica estera di forme di predominio, a seconda delle diverse aree e delle diverse regioni a cui quella politica espansionistica è destinata. Se è vero che nell’area macedone e trace, e in generale nell’Egeo settentrionale, Filippo II perseguì una politica di espansione e annessione territoriale, di unificazione territoriale secondo princìpi di continuità e compattezza di dominio, nelle restanti regioni del mondo greco egli perseguì moduli diversi, i quali ricalcano fedelmente le tradizioni di potere di quelle stesse regioni: in Tessaglia, ad esempio, Filippo II assunse la carica di tago, cioè il ruolo di generalissimo, investito di ampi poteri non solo militari ma anche finanziari nell’àmbito delle città tessaliche; a sud delle Termopile invece, là dove incomincia il vero vivaio delle città greche, fra cui allora spiccano Tebe, Atene, Sparta ed Argo, la politica di Filippo II non poteva che essere di egemonia, cioè di controllo dall’esterno, dapprima attraverso l’utilizzazione di organismi panellenici preesistenti (come l’Anfizionia delfica) e poi, quando quelli non basteranno più allo scopo, attraverso nuove forme associative e federative, improntate al principio dell’autonomia (certo coronata dall’egemonia, cioè, dal preminente ruolo militare di Filippo II). Quel che risulterà dalla battaglia di Cheronea del 338 non sarà la morte della democrazia in assoluto; non sarà neanche la morte della libertà greca; sarà soltanto la premessa a una situazione nuova, nella quale il mondo delle città greche si sarebbe trovato a confrontarsi con una realtà politica nuova, quella degli stati territoriali ellenistici a vertice monarchico. Naturalmente questo accentramento significava anche un formidabile strumento di condizionamento per le ‘libere’ città greche. Il problema storico resta quello del reale grado di autonomia che le città greche, vecchie e nuove, riuscirono a garantirsi nei confronti degli stati territoriali: è innegabile che sul piano formale il rapporto fu di autonomia, ma, sul piano sostanziale, esso cambiò a seconda degli uomini, dei tempi, delle condizioni.

- I primi anni del regno di Filippo II sono contrassegnati da azioni dapprima diplomatiche, poi militari, e sempre più decisamente militari, rivolte a contenere e successivamente a

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respingere la pressione degli Illiri, dei Peoni, dei Traci sui confini della Macedonia. La fase successiva (dal 357 in poi) del regno di Filippo II rappresenta il periodo in cui si pongono le premesse dello scontro con Atene. In un trattato stipulato segretamente con Atene, il re macedone si era dimostrato disponibile a conquistare per Atene medesima Anfipoli e a consegnargliela, in cambio della città macedone di Pidna. Ma nel 357 Filippo II procedeva all’annessione di Anfipoli. Il gesto di Filippo, che inizia una serie di conquiste nell’àmbito dei possedimenti o delle località di influenza ateniese nell’area traco-macedone (Pidna e Potidea nel 356; Metone nel 354), e che inaugura la politica dell’unificazione territoriale delle Macedonia e delle contigue aree, si inserisce in un momento di grave crisi per Atene.

6. La guerra sociale della nuova Lega navale attica (357-355)- Quando nella conquista di Anfipoli si indica l’inizio della politica di provocazione di Filippo

II, non bisogna dimenticare che c’è una forte e significativa coincidenza storica tra l’espansionismo di Filippo e il declino dell’imperialismo di Atene, che è un declino non soltanto di fatto ma anche di volontà e di orientamento politico generale.

- La presa di Anfipoli si colloca nel periodo in cui la Lega navale ateniese subisce una prima grave crisi a seguito della ribellione delle città alleate di Chio, Rodi, Cos, cui presto si aggiunge Bisanzio, per sollecitazione del satrapo di Caria, Mausolo (guerra sociale). Da parte ateniese si reagisce con l’invio di una flotta al comando di Carete e di un’altra al comando di Cabria; ma nell’attacco intrapreso contro il porto di Chio (357) il generale ateniese Cabria trovò la morte. Prendevano intanto l’iniziativa gli alleati ribelli, mettendo sotto pressione Samo.

- Nuovi preparativi militari ateniesi conducono a un rinnovato tentativo nei confronti dell’isola ribelle di Chio (356) – si riproducono in qualche modo le condizioni verificatesi cinquant’anni prima con la battaglia delle Arginuse: in un giorno di tempesta, i generali ateniesi Ificrate e Timoteo (figlio di Conone) non volevano attaccare il nemico; Carete prese da solo l’iniziativa dell’attacco ma poco dopo fu costretto dalle gravi perdite a interrompere la battaglia; ne seguirono un’accusa e un processo, mossi da Carete contro i suoi due colleghi, considerati colpevoli della sconfitta per non aver collaborato. Si rinnovò lo spirito delle Arginuse: Timoteo fu condannato al pagamento di cento talenti e perciò si recò esule a Calcide, dove poco dopo morì; Ificrate, benché assolto, non riotteneva la sua carica e moriva qualche anno dopo. Carete ebbe a questo punto il comando generale della flotta in seguito alla eliminazione dei due colleghi e rivali; egli interverrà contro il re persiano in Frigia, a sostegno del satrapo ribelle Artabazo, ma successivamente, in seguito alla reazione decisa del re di Persia, si verificò un cambiamento di fronte e di politica in Atene, e l’avventura persiana si concludeva con un nulla di fatto.

- Ormai Atene, nel 355, anche a causa del ripiegamento compiuto in Asia, non poteva più contare su un recupero degli alleati; la Lega si vedeva privata di Chio, di Cos, di Rodi, di città dell’isola di Lesbo, e persino di Corcira nel mar Ionio. Ormai la confederazione si limitava alle Cicladi, all’Eubea e al settore dell’Egeo settentrionale che comprendeva le isole del mar Egeo e alcune città sulla costa tracica. In ogni caso, Atene poteva contare ancora sull’entrata annua di circa quattrocento talenti e sulle circa trecentocinquanta tritremi stazionate al Pireo.

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7. La terza guerra sacra (356-346) e la guerra di Olinto (349/8)- Si era intanto aperto, qualche tempo dopo l’inizio della guerra sociale, un decisivo capitolo

della sotria non solo della Grecia centrale, ma della Grecia in generale: la III guerra sacra, che già nel suo nome dichiara che essa si svolge intorno al santuario di Delfi e alle sue ricchezze. Da un punto di vista politico la guerra sacra nasce come espressione del tentativo di Tebe di assicurare la continuità della sua egemonia (di fatto compromessa dalla battaglia di Mantinea del 362 a.C.).

- I prodromi della guerra sacra risultano proprio dal desiderio di rivalsa dei Beoti nei confronti sia dei Focesi sia degli Spartani: agli uni e agli altri vengono inflitte multe altissime, da versare al santuario delfico, per responsabilità di ordine diverso: agli Spartani veniva imputato di aver occupato la Cadmea nel 382 a.C., ai Focesi di aver coltivato la terra sacra di Cirra. L’imposizione di una multa troppo forte per la coltivazione di un territorio assai piccolo suscita la ribellione dei Focesi: Filomelo occupa il santuario, sostenendone l’originaria appartenza ai Focesi e limitandosi in un primo momento a riscuotere contributi dai cittadini della città di Delfi, astenendosi dalla ricchezze del santuario.

- Immediata la reazione dei Locresi, con una battaglia presso Delfi, a cui però risponde una irruzione dei Focesi in territorio locrese. I Beoti non si lasciarono sottrarre la funzione la funzione di tutori del santuario, che appartaneva loro come ad autorevoli membri dell’Anfizionia: perciò essi inviarono ambasciatori ai Tessali e agli altri Anfizioni, invitandoli a prendere le armi contro i Focesi usurpatori. Scoppia dunque la guerra, che è sacra in quanto proclamata dagli Anfizioni contro i Focesi; ne segue una spaccatura all’interno del mondo greco: per il santuario, e contro i Focesi, si schierano i Beoti, i Locresi, i Tessali; ai Focesi prestano il loro aiuto gli Ateniesi, gli Spartani e alcuni altri peloponnesiaci.

- Nel 354 a.C. i Tessali irrompono nella Locride e combattono contro i Focesi presso il colle Argola, ma ne sono sconfitti; successivamente, l’intervento dei Beoti raddrizza progressivamente la situazione, fino alla sconfitta di Filomelo nella battaglia di Neon (354 a.C.). La sua carica fu assunta da Onomarco, che sfrutta di più le ricchezze del santuario, aumentando l’impegno militare e riuscendo a corrompere i Tessali, e quindi a escluderli dalla guerra anfizionica, conquistando nel frattempo posizioni sia in Locride sia in Beozia.

- Nel frattempo i Tessali chiedono a Filippo II di Macedonia di sostenerli contro il tiranno Licofrone di Fere. Filippo interviene una prima volta nel 354 a.C. contro Licofrone; ma con il tiranno di Fere si schierano i Focesi. In due successivi scontri Filippo II, seguito dai Tessali, viene sconfitto da Onomarco. È l’anno più critico (353) nella storia dell’ascesa politica di Filippo II e dell’espansione della Macedonia. Ne seguì una ritirata strategica; ma nel 352 Filippo II rientra per attaccare Licofrone di Fere, che ricorre all’aiuto dei Focesi – all’appressarsi di un esercito focese di 20.000 fanti e 500 cavalieri, Filippo induce i Tessali ad associarsi a lui, con un esercito che supera i 20.000 fanti e 3000 cavalieri. In uno scontro ai Campi di Croco, Filippo consegue una straordinaria vittoria su Onomarco: dei Focesi e dei loro mercenari periscono più di 6000, fra cui lo stesso generale; non meno di 3000 i prigionieri. Filippo impicca Onomarco già morto e fa annegare gli altri come profanatori del tempio. Nel 352 Filippo II ha dunque ormai una posizione preminente, e di tutta legittimità, nel conflitto greco. Pur non essendo ancora intervenuto a sud delle Termopile, egli aveva battuto e punito il profanatore del santuario.

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- Dopodiché Filippo cerca di forzare il passaggio delle Termopile, ma qui lo bloccano gli Ateniesi che, in numero di 5000, insieme con 2000 Achei e 1000 Spartani, erano venuti in soccorso dei Focesi. Filippo rinuncia ad attraversare il passo. In questa decisione è da vedere non soltanto una sorta di pragmatismo militare, ma anche un’oculata scelta politica. Al di là delle Termopile gli si sarebbe aperto il campo più vasto e complesso dei rapporti diretti con le principali città greche: il mondo delle póleis, seppure ben rappresentato anche a nord delle Termopile, era infatti la facies storica dominante nelle regioni greche a sud di quel passo. Superandolo, Filippo si sarebbe venuto a trovare di fronte a nuovi problemi, a nuove scelte, in un mondo entro il quale egli non voleva entrare in quel momento e in quel modo, e soprattutto non poteva entrare con gli stessi metodi, lo stesso tipo di rapporto, le stesse prospettive di dominio che aveva perseguito in Macedonia e, in forma diversa, persino nella Tessaglia. Di là delle Termopile, si apriva il campo per una politica nuova.

- In compenso, nel 351 Filippo diresse il suo attivismo militare ed espansionistico verso l’Egeo settentrionale, e precisamente verso la regione tracica, ancora controllata nei suoi lembi estremi da Atene. Qui forse egli avrebbe raggiunto, ancora in quell’anno, il confine dell’Ebro, minacciando l’area degli Stretti, fondamentale per Atene, se non altro per il commercio di grano con il Mar Nero.

- Quanto Filippo II intendesse la decisione di non varcare le Termopile nel 352 come una decisione politica, dirottandone altrove la spinta espansionistica e le mire strategiche, risulta dallo svolgimento degli eventi successivi, nei quali l’attenzione del re macedone appare ancora una volta rivolta a nord dell’Egeo. Tra il 349 e il 348 si svolge la guerra tra Filippo II e Olinto, cioè contro quella Lega calcidica alla quale ancora nel 356 Filippo aveva attribuito il territorio di Potidea. Questa fu anche l’occasione storica per la precisazione del ruolo politico di Demostene quale antagonista di Filippo II.

- Durante la guerra di Olinto si verificano ben tre interventi ateniesi, guidati rispettivamente da Carete, da Caridemo e di nuovo da Carete, e con un sempre maggiore impegno di Atene sul terreno dell’utilizzazione di forze oplitiche cittadine, da schierare contro il nemico accanto ai mercenari. Tuttavia di questi interventi furono inefficaci i primi due e addirittura tardivo il terzo: quando l’ultima spedizione giunse, la città era già caduta. Filippo ne volle la distruzione; e fu definitiva nella storia.

- Nel 347, logorati dal confronto con i Focesi, i Beoti chiedono l’aiuto di Filippo. Questi invia pochi soldati – secondo le fonti, per non favorire troppo i Beoti. Ce ne sarebbe un’altra spiegazione, del tipo che sopra abbiamo proposto per il mancato passaggio delle Termopile nel 352: Filippo non voleva ancora un coinvolgimento diretto nelle questioni che si ponevano per il mondo greco a sud del passo. Finalmente, nel 346 i Focesi incominciano ad accusare una notevole stanchezza e Filippo riuscirà in quell’anno a domarli, smilitarizzando poi le città e consentendo la partenza delle forze mercenarie, comandato dall’ultimo capo focese, Faleco. La resa definitiva dei Focesi si ebbe però soltanto dopo che in Grecia fu raggiunto un accordo tra i Macedoni, gli Ateniesi e gli altri Greci, con la cosiddetta pace di Filocrate. I Macedoni volevano l’esclusione dei Focesi dal trattato, ma gli Ateniesi riuscirono a farli rinunciare almeno formalmente a questa pretesa. Filippo II ne usciva pienamente legittimato nel quadro di quello che era all’epoca lo strumento panellenico per eccellenza, il sinedrio anfizionico, nel quale i due voti dei Focesi passavano ormai a Filippo II. Così Filippo aveva realizzato il disegno di intervenire nel mondo delle città greche nella posizione e forma più legittima possibile, e addirittura prefigurava, rispetto all’Anfizionia

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delfica, quella posizione di capo militare (hegemón), che egli perfezionerà, dopo la battaglia di Cheronea, con la creazione della Lega di Corinto. A Filippo fu anche attribuita la molto onorifica presidenza dei giochi pitici.

8. La strategia politica di Filippo II verso Atene e Tebe (346-336)- Gli anni successivi mostrano quanto siano diversi il modulo della politica di Filippo II verso

Atene e verso la stessa Tebe, nella Grecia centrale e meridionale, da un lato, e quello valido per altre regioni. Nell’area delle póleis, in Eubea e nel Peloponneso, Filippo dispiega un’attività, che è di tipo più squisitamente politico. In Eubea favorisce tirannidi; nel Peloponneso ricalca la vecchia politica tebana di intesa con gli stati avversi a Sparta. Ancora gli eventi del 341 mostrano come le azioni militari Filippo le concentrasse in aree ben diverse da quelle della Grecia centrale o dell’Attica, dell’Eubea o del Peloponneso. Verso Atene egli sembra aver costantemente adottato una politica di ‘guerra limitata’, limitata appunto alle aree di diretta frizione tra Macedonia e Atene, lontane dall’Attica, che il re sentiva come appartenenti alla sfera di interesse macedone, e macedoni di diritto.

- Questo spiega il tentativo di espugnare sia Perinto sia la stessa Bisanzio: tutto si svolge nella zona del Mar di Marmara e del Bosforo. Il re giunse addirittura a catturare nel Bosforo una flotta ateniese per il trasporto del grano: Demostene a questo punto (autunno 340) considerò rotto il trattato della pace di Filocrate; ma è chiaro che la condizione di guerra tra Filippo e Atene è affermata da Demostene, ma non realmente riconosciuta da Filippo II. Questi mostra invece di continuare a sentirsi in guerra con Atene soltanto in regioni molto lontane dalla Grecia centrale e da Atene stessa: dalle sue prospettive politiche niente di più lontano di una guerra globale con la città principale della Grecia.

- A sud delle Termopile il vero problema, per un Filippo che voleva tutta la Grecia dietro di sé, era quello di una scelta tra Tebe e Atene, proprio in considerazione dei conflitti che da sempre dividevano le due città. Si può affermare con buone ragioni che Filippo perseguisse di preferenza un disegno panellenico, volto a non scegliere tra gli interessi opposti di queste città: ma, realista come era, naturalmente conosceva l’ostilità ateniese verso Tebe e, quando avesse dovuto rischiare una contrapposizione e fare una scelta, certamente egli l’avrebbe fatta in favore di Atene stessa.

- Per Demostene perciò contrastare Filippo significava da un lato operare in modo che Filippo non scegliesse in favore di Tebe, dall’altro avere Tebe al fianco di Atene nell’opposizione comune a Filippo. Se per Filippo l’opzione ottimale era dunque quella di vedere allineate al suo fianco sia Atene, in posizione dominante, sia Tebe; altri politici, favorevoli alla causa macedone come Eschine, perseguivano una politica di più stretta intesa tra Atene e Filippo II, oltre che di scontro con Tebe e di eliminazione di questa dal gioco politico.

- Un’accorta analisi della nuova guerra anfizionica (a rigore una quarta guerra sacra) che si accese in Grecia tra il 339 e il 338, e che condusse alla battaglia di Cheronea tra Macedoni da un lato, e la lega delle leghe costituita da Demostene, dall’altro, mostra come Filippo fino all’ultimo perseguisse il disegno politico di avere Atene legata al suo carro politico, alla sua posizione egemonica, già garantita dal suo ingresso nell’Anfizionia delfica, senza arrivare a uno scontro cruento: in un certo senso la politica di Filippo II non aveva bisogno della battaglia di Cheronea. Se nel gioco diplomatico, nella schermaglia che precede la guerra sacra, entrano in gioco i Locresi di Anfissa, essi sono in qualche modo le vittime designate, sulla cui testa dovrebbe passare il progetto politico di Filippo II.

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- Una volta tanto la guerra sacra scoppia senza l’apporto diretto dei Focesi, che dal 346 sono fuori gioco. I Locresi di Anfissa muovo ad Atene l’accusa di aver offerto scudi votivi nel santuario delfico non ancora riconsacrato dopo le violazioni focesi; Eschine di Atene replica accusando i Locresi di aver coltivato terra sacra – da qui la necessità della guerra anfizionica. L’accusa di Eschine dovrebbe servire al disegno di Filippo: quello di avere Atene dalla sua in una guerra sacra contro i Locresi di Anfissa. Quale sarebbe stato però l’atteggiamento di Tebe? I rapporti tra Beoti e Locresi erano molto stretti, e quindi l’azione anfizionica contro i Locresi non doveva trovare il consenso di Tebe: ma era quello invece che Filippo sperava, e che avrebbe nei suoi intenti determinato appunto l’auspicata costellazione politica, quella cioè di un’Atene alleata di un Filippo riconosciuto egemone, che si trascinasse però dietro anche nella guerra guerra sacra, obtorto collo, la riluttante Tebe. In ipotesi subordinata, Filippo sperava di avere con sé almeno Atene, e Tebe contro.

- Il capolavoro politico di Demostene fu quello di rovesciare le aspettative di Filippo, allineando su una identica posizione ostile Tebe e Atene. Il compito di Demostene non era facile verso la stessa cittadinanza ateniese, poiché i risentimenti verso i Beoti erano molto forti. Poiché la propaganda filomacedone eschinea enfatizzava l’ostilità di Filippo per Tebe, Demostene doveva da un lato premere sul pedale dell’ostilità popolare contro Tebe, mettendo sotto accusa il re macedone proprio per non essere tanto antitebano quanto andava dichiarando (in modo sottile però, dato che Demostene pur aveva bisogno in futuro dell’aiuto beotico); dall’altro, egli doveva augurarsi e fare in modo che Filippo non desse mai seguito del tutto ai conclamati propositi antitebani su sollecitazione ateniese, perché appunto, in prospettiva, Tebe appariva un’alleata necessaria, e non soltanto per ragioni di ordine strategico. L’associazione di Tebe alla politica e all’azione ateniese contro la Macedonia nell’autunno del 339 fu però solo il coronamento del lungo e intensissimo sforzo prodotto da Demostene nell’organizzare un campo di resistenza all’azione, spesso blanda e diplomatica, ma talora più aggressiva e d’intervento, dispiegata da Filippo II. L’alleanza con Tebe fu il capolavoro politico di Demostene, cui però non seguì il successo militare.

- Negli ultimi anni prima di Cheronea lo scontro fra Atene e la Macedonia assume quindi sempre di più i contorni di un conflitto personale di dimensioni titaniche fra Demostene e Filippo. In realtà, al di là della passione per il potere che muove Filippo, non si può fare a meno di notare che sono all’opera due intelligenze politiche di prima grandezza, che raccolgono, riassumono, interpretano eredità storiche che vanno assai oltre le loro personali passioni, e che soprattutto appaiono impegnate nella costruzione di sistemi di alleanze contrapposte, intese a raccogliere dall’una o dall’altra parte il massimo di ‘grecità’ possibile, con il massimo di coerenza territoriale. Al principio del 340 Demostene era riuscito a stringere intorno ad Atene l’Eubea (con l’espulsione dei tiranni ivi insidiati con l’appoggio di Filippo), inoltre Megara, Corinto, Corcira, l’Acaia e l’Acarnania. Filippo aveva insediato sul trono di Epiro il proprio cognato, ed era riuscito a fronteggiare le crociate diplomatiche di Demostene nel Peloponneso, che avevano fruttato ad Atene alleanze con Argo, Megalopoli e Messene (destinate però a rimanere infruttuose al momento della resa dei conti con Filippo, perché bilanciate da precedenti e mai annullate alleanze delle medesime città col re macedone); egli poteva inoltre contare sul controllo di fatto della Tessaglia, sulla sua autorevole presenza nell’Anfizionia, e sulla possibilità di azione politica da esercitare verso la debellata Focide, le due Locridi e soprattutto la Beozia, ormai così violentemente e contraddittoriamente contesa fra i due grandi rivali.

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- Per Filippo, nel 340, dopo i fallimenti delle campagne di Perinto e Bisanzio, si era ormai creata una situazione di stallo: difficile avanzare nella zona degli Stretti; difficile consolidare alleanze e possedimenti nel Peloponneso, nell’area del golfo Corinzio, in Eubea; lo strumento che ora egli poteva attivare era l’Anfizionia e il ruolo da lui detenuto in quel sinedrio: e così fece, con quel gioco politico sottile e penetrante che egli spinse fino alla dichiarazione della guerra sacra contro i Locresi di Anfissa (339/8).

- Filippo intervenne con la rapidità del fulmine: raggiunse la Doride e quindi Elatea nella Focide; la notizia suscitò sgomento in Atene, che si riteneva in stato di guerra con Filippo: correre ai ripari significava per gli Ateniesi in primo luogo frapporre tra sé e Filippo la resistenza di una Beozia alleata. Filippo cercava però un’intesa politica con Tebe, facendo balenare concessioni, in cambio dell’alleanza militare contro Atene, o del permesso di attraversare il territorio. Ma le pressioni dell’ambasceria ateniese ebbero la meglio: a Tebe, Atene dovette cedere il comando generale delle operazioni di terra e metà del comando per mare, mentre la città beotica avrebbe provveduto solo per un terzo alle spese di guerra.

- Mentre l’esercito ateniese si spostava in Beozia e poi, con i Tebani, in Focide, un esercito mercenario al comando di Carete infliggeva due sconfitte al Macedone presso il Cefiso, non lontano da Anfissa. Nella primavera del 338 Filippo si prese la rivincita, sconfiggendo duramente Carete, attaccò quindi Anfissa, che si arrese e dovette abbattere le mura e mandare in esilio i responsabili. Ora, assolti i suoi doveri anfizionici, Filippo occupava Delfi, e successivamente Naupatto sulla costa; quindi ritornava in Focide, costringendo i confederati nemici a ritirarsi in Beozia, a Cheronea. Qui il 7 Metagheitnione del 338, ebbe luogo l’epocale battaglia: tra le alture di Cheronea e il Cefiso si disponevano gli alleati (a destra i Beoti, al centro i Corinzi gli Achei ed altri, a sinistra gli Ateniesi al comando di Carete Lisicle e Stratocle). I Macedoni attaccarono da sinistra la destra nemica: una decisione che da un lato riprendeva la ‘tattica obliqua’ della battaglia di Leuttra, dall’altro aveva forse anche il fine di togliere alla battaglia il significato di uno scontro frontale con Atene. Sulla sinistra, infatti, il figlio di Filippo, Alessandro (diciottenne), attacca e sfonda, travolgendo il ‘battaglione sacro’ tebano; sulla destra, il re dapprima fronteggia gli Ateniesi e poi si ritira su ‘terreni più alti’ presso il Cefiso, fino al momento che il centro dei nemici confederati si allarga e scompone: a questo punto il contrattacco macedone produce l’accerchiamento degli Ateniesi.

- Della vittoria Filippo fece un accortissimo uso politico. Tebe dovette accogliere una guarnigione macedone sulla Cadmea, consentire la rinascita di Platea e di Orcomeno, richiamare gli esuli e condannare gli avversari di Filippo. Ad Atene invece ci si disponeva a un’ultima difesa da un attacco militare (che Filippo però mostrò proprio in quella circostanza di non aver mai realmente progettato): furono chiamati alle armi i cittadini di età fino a 60 anni, fu promessa la libertà agli schiavi e la cittadinanza agli stranieri, fu previsto il ritorno degli esuli. Ma rapidamente il partito pacifista, con alla testa Focione ed Eschine, riprese in mano la situazione. Presto si arrivò all’accordo: Atene doveva cedere alla Macedonia il Chersoneso tracico, ma otteneva in compenso Oropo (sempre contesa ai Tebani); ess scioglieva inoltre la Lega navale, e aderiva alla Lega panellenica, che Filippo si accingeva a fondare; riotteneva i prigionieri di Cheronea senza pagamento di riscatto: in cambio, Filippo s’impegnava a non varcare con l’esercito i confini dell’Attica.

- Nel momento della vittoria si confermano tutti i caratteri fondamentali della politica estera di Filippo II e in particolare della stessa politica seguita verso Atene: intransigente

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costruzione di un coerente dominio territoriale nel nord (in Macedonia e Tracia); buona disposizione verso Atene (che equivale a un rigorosa valutazione del suo insostituibile ruolo politico e culturale), anche, e in particolare, nel confronto con Tebe (a cui si assestano più volentieri colpi duri, anche se non ancora mortali, come farà Alessandro a distanza di pochi anni); tenace volontà di non distruggere Atene, ma di aggregarla al proprio disegno panellenico: di inserirla nel gioco politico macedone, non di farne la vittima designata. Al re fu eretta una statua nell’agorá di Atene, al figlio Alessandro, che riportava in città i resti dei caduti ateniesi di Cheronea, fu concessa la cittadinanza.

- Nell’autunno del 338, Filippo in persona entrava con un esercito nel Peloponneso, invadeva e devastava la Laconia, pur senza entrare in Sparta. Argivi, Arcadi, Messenii si schieravano ormai decisamente dalla parte macedone; i confini della Laconia venivano rintoccati a vantaggio di Argo, della Messenia e dell’Arcadia. Seguì il congresso di tutti ‘i Greci a sud delle Termopile’, cui rimase estranea Sparta. Fu dapprima proclamata una pace generale (koinè eiréne), e l’autonomia di tutti gli stati greci: non vi dovevano essere mutamenti violenti né nei regimi né nei rapporti di proprietà. Si creò un consiglio comune di tutit i Greci (koinòn synhédrion), con sede a Corinto, con voto ‘ponderato’ attribuito ai partecipanti; in caso di guerra il comando generale per terra e per mare sarebbe spettato a Filippo: tutto era ormai pronto sul versante greco per la grande impresa contro la Persia.

- A Filippo fu dato di inviare soltanto un’avanguardia sul territorio asiatico come premessa della guerra contro la Persia; l’assassinio del re, per mano del suo ex-favorito, Pausania, doveva porre quasi uno storico schermo tra l’opera del padre, il politico che alla fine era riuscito a legare la Grecia al suo carro, pur lasciando in vita tanta parte delle condizioni preesistenti, e quella del figlio, il conquistatore di un immenso impero. Pur senza immaginare diversità assolute, possiamo tentare di dare dell’uno e dell’altro una caratteristica di massima. Del primo era stata l’azione instacabile, che alternava e fondeva l’iniziativa militare con l’abile tessitura politica, così opportunamente e duttilmente calibrata sulla diversità delle singole situazioni storiche proprie del mondo greco; dell’altro fu la conquista fulminea di spazi immensi, l’impresa straordinaria che sembrava forzare le strettoie della storia, per sconfinare nella favola, ma che in realtà soltanto creava una nuova storia, e condizioni profondamente diverse dal passato, per il mondo greco e tutt’intorno ad esso.

10. Alessandro il Grande e le origini dell’Ellenismo

1. L’eredità di Filippo II- Tra l’estate del 336, data dell’assassinio di Filippo II, e l’autunno del 335, quando

Alessandro Magno distrugge Tebe (che si era ribellata alla Macedonia), mentre la stessa Atene era minacciata dagli eventi, la storia della Macedonia sembra ripercorrere itinerari consueti: il regno sembra stentare a ritrovare il livello di potenza e di efficienza a cui Filippo lo aveva portato. Ma si trattava solo di fatti transitorii, in definitiva di mere apparenze: gli inizi di Alessandro furono faticosi e per tanti aspetti foschi, ma le speranze dei Greci a lui ostili e dei Persiani impegnati in un’ultima azione difensiva dovevano rivelarsi vane.

- Intorno ai primi mesi del 337 la symmachía greca, riunita a Corinto, aveva eletto Filippo II generale con pieni poteri per la guerra contro i Persiani – la richiesta che motivava la guerra era che il re di Persia lasciasse libere le città greche d’Asia; la richiesta fu ovviamente

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respinta dai Persiani. A quel punto, un’avanguardia di 10.000 uomini, al comando di Parmenione e del suo genero Attalo, varcò l’Ellesponto nella primavera del 336, costituendo una testa di ponte in territorio asiatico. In Persia era asceso al trono Dario III; di fronte all’iniziativa macedone la reazione del potere centrale persiano fu pressoché nulla, il che spiega come l’avanguardia degli invasori potesse ivi tranquillamente sostare per un paio d’anni, prima di venire a colpo o di affrontare reazioni dall’impero invaso.

- Una triste impressione di ripetitività accompagna la considerazione dei primi atti di Alessandro Magno dopo la morte del padre (estate del 336): Alessandro eliminò il cugino Aminta IV, figlio di Perdicca III, e la stessa dura sorte tocca ad altri personaggi della casa reale che avevano sostenuto i diritti di Aminta. Il modo drammatico del trapasso dei poteri in Macedonia non poteva non suscitare nel mondo greco reazioni che sembravano mettere in forse i risultati storici della battaglia di Cheronea. Da Ambracia, in Epiro, fu cacciata la guarnigione macedone; a Tebe, e soprattutto ad Atene, si registrava un vivo fermento nazionalistico e antimacedone – la posizione di un Iperide e di un Demostene, che si poteva pensare definitivamente compromessa dopo la storica sconfitta del 338, andava invece rapidamente riassestandosi. Alla notizia dell’assassinio di Filippo, Demostene andò in consiglio col capo coronato e compì un sacrificio di ringraziamento agli dèi, pieno di disprezzo per quello “stupido ragazzo” succeduto a Filippo sul trono di Macedonia – prova palmare dunque di quanto le vicende drammatiche della Macedonia nel 336 sembravano ripetere agli occhi dei Greci, per la loro soddisfazione, uno scenario tradizionale per molti passaggi di mano in quella dinastia, vanificando le posizioni acquisite da Filippo II.

- Ma subito doveva risultare chiaro come Alessandro avesse ben presente il significato di oguna delle tappe dell’itinerario politico di Filippo II verso l’egemonia in Grecia e intendesse ribadirne la definitiva acquisizione, come suo erede a tutti gli effetti: in Tessaglia gli è confermata, quasi posizione ereditaria, la tagía; alle Termopile egli ottiene il rinnovato riconoscimento di protettore del santuario delfico; Tebe e Atene sono indotte a formali tributi d’ossequio; a Corinto si rinnova il trattato stipulato fra Greci e Filippo, e Alessandro ne eredita la posizione di strategòs autokrátor. Tutti i punti del complesso disegno egemonico di Filippo sono fermamente ribaditi.

- C’era tuttavia qualcosa di vero nella sensazione diffusa che la storia macedone ripercorresse vecchi itinerari. Alessandro doveva ancora difendersi all’interno del contesto familiare e dinastico; lo fece con quella durezza sanguinaria, che complessivamente lo distingue dal padre, più incline, pur nei limiti dei comportamenti dell’epoca, a soluzioni politiche e diplomatiche di compromesso. Attalo, che era nemico di Alessandro e che aveva trescato con il partito ateniese antimacedone, fu fatto uccidere a tradimento, e con la complicità del suocero di quello, Parmenione, il quale sembrava anteporre ai sentimenti familiari ed umani la devozione alla dinastia; una delle spose di Filippo, Cleopatra, fu indotta al suicidio da Olimpiade, e la sua prole assassinata.

- Un altro scenario consueto degli inizi di un regno macedone è la campagna al nord contro i popoli minacciosi. Partito da Anfipoli nella primavera del 335, Alessandro affrontò successivamente i popoli dell’area tracica, danubiana, peonica e illirica. La lontananza del re macedone, il diffondersi della notizia della sua morte in battaglia e della distruzione del suo esercito, unitamente all’opera di sobillazione antimacedone che svolgevano in Grecia gli agenti del re persiano (divenuto più attento alla minaccia imcombente), determinarono un moto di rivolta in Grecia. Ad Atene furono assassinati i capi del partito filomacedone; a

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Tebe veniva assediata nella rocca Cadmea la guarnigione macedone. Si ricostituiva l’alleanza di Cheronea, e la reazione di Alessandro fu, sotto il profilo politico, simile (anche se più dura sotto ogni altro aspetto) a quella di Filippo II: bisognava concentrare la reazione su Tebe, e dare ad Atene una risposta ferma, ma, per necessità storiche che non sfuggivano neanche ad Alessandro, differente. In quattordici giorni il re, informato della rivolta tebana, raggiunse la capitale beotica. A nulla valsero le linee di fortificazione costituite dai Tebani, che respinsero ogni invito alla resa da parte di Alessandro. Cadmea e città furono prese dai Macedoni con un’azione decisa, che consegnò nelle loro mani la pólis ribelle, nell’ottobre del 335. C’erano stati circa 6000 morti negli scontri; un giudizio del tribunale federale diede sfogo a storici odii dei Greci contro la città che aveva, qualche decennio prima, distrutto Platea e Orcomeno, da poco ricostruite: tutta la popolazione di Tebe fu deportata in Macedonia o venduta in schiavitù.

- Ora sembrava dovesse toccare analoga sorte ad Atene. Qui si organizzarono, da un lato, preparativi di difesa, dall’altro si provvide ad inviare ad Alessandro un’ambasceria guidata dal filomacedone Demade, la cui posizione politica poteva tornare a questo punto utile alla città compromessa. Alessandro pose dapprima condizioni dure, quale l’estradizione dei numerosi rifugiati Tebani e dei politici antimacedoni, fra cui Demostene, Iperide, Licurgo e altri ancora; contro queste richieste si schierò quasi tutta la città, e uomini irriducibili, come Caridemo e Carete, preferirono andare in esilio.

2. Il confronto con la Persia fino alla battaglia del Granico (334)- La resistenza persiana veniva intanto organizzata dal greco Memnone di Rodi, nel comando

delle truppe della fascia costiera; i suoi sforzi riuscirono meglio nell’area meridionale (Caria) e fino ad Efeso; le regioni settentrionale dell’Anatolia apparvero subito più permeabili all’azione dei Macedoni.

- Nella primavera del 334 Alessandro lasciava il governo della Macedonia ad Antipatro, e varcava l’Ellesponto con circa 40.000 uomini: di questi, 32.000 erano fanti, tra Macedoni (12.000), alleati e mercenari greci, armati alla leggera, Traci ed altri ancora; della cavalleria facevano parte 1800 hetaîroi macedoni, 1200 cavalieri tessali ed altri da diverse regioni greche e balcaniche, posti al comando di Parmenione. La spedizione di Alessandro si caratterizzava nel suo insieme come l’impresa di un grande stato continentale – la flotta di 160 navi, al comando del macedone Nicanore, era costituita soprattutto da navi greche ed era certamente inferiore a quella persiana. Il sogno di Isocrate, di una impresa che unificasse il mondo greco in una spedizione punitiva contro l’Asia, la rivale di sempre dalla guerra di Troia ai conflitti con i Persiani, sembrava dunque avere una prima realizzazione.

- Fra i primi atti di Alessandro in terra asiatica vi furono la visita di Troia e gli onori resi alla tomba di Achille. Da parte di Alessandro tutto ciò equivaleva a conferire un tratto personale in più a quel riaffiorare di livelli culturale ‘omerici’ nella storia del mondo greco, che aveva connotato l’ascesa di uno stato come la Macedonia. Era il risultato dell’intreccio tra obiettive caratteristiche della società macedone e le scelte soggettive, culturali, del giovane Alessandro, a cui non era estranea l’influenza di Aristotele, di Callistene e della stessa tradizione di pensiero isocratea.

- I satrapi di Lidia, Frigia e Cappadocia con un concitato sforzo raccolsero le truppe disponibili e affrontarono Alessandro presso il fiume Granico (Mar di Marmara). Lo scontro fu deciso dal valore delle cavallerie macedone e tessalica; molti i morti persiani, fra di essi

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gli stessi satrapi di Lidia e Cappadocia; poche le perdite macedoni (maggio-giugno 334). Quanto a volontà e capacità di resistenza persiana all’invasore, si constata una facile avanzata di Alessandro nella Ionia, fino ad Efeso – solo Mileto oppose una qualche resistenza. Più Alessandro si spingeva a sud però, più doveva piegare la resistenza dei Persiani e del loro comandante rodio.

3. Alessandro, i Greci, l’Asia fino alla battaglia di Isso (333)- Una scelta politica obbligata, per quanto riguarda i regimi interni, fu quella di restaurare la

democrazia a Efeso e altrove, visto che le oligarchie locali erano quelle tradizionalmente più legate al Persiano, che del resto, ancora dopo il Granico, era presente e capace di resistenza nella parte occidentale dell’Anatolia.

- Alessandro prendeva, nell’autunno del 334, la decisione di rinviare a casa la più gran parte della già modesta flotta, decisione nient’affatto soprendente per chi capisce il senso della conquista macedone dell’Asia: vittoria di uno stato continentale su uno stato continentale. Nell’avanzata verso sud egli doveva affrontare la resistenza di Alicarnasso, che cinse d’assedio e di cui riuscì a conquistare la città bassa, dopo qualche tentativo andato a vuoto e il ritiro nottetempo del rodio Memnone, che trasferì le sue forze nell’antistante isola di Cos.

- Dopodiché Alessandro avanza ancora in Licia e Panfilia e poi nel cuore della Frigia fino a Gordio. Ivi, realizzando un’antica profezia, tagliò di netto il nodo che legava un giogo a un carro, il cui scioglimento, realizzato dal macedone con drastica decisione, doveva, in virtù della profezia, assicurargli il dominio dell’Asia. Dunque già ora, circa l’inizio del 333, Alessandro comincia a mandare segnali e cercare conferme del suo disegno di conquista dell’Asia, sia nel senso di una conquista in assoluto, sia nel senso dell’acquisizione di un’eredità storica (e già questo è qualcosa di diverso dall’idea iniziale, quella del ‘vendicatore della grecità’ sull’Asia).

- Dall’Anatolia centrale Alessandro raggiunge la Cilicia, dove è colto da una grave infermità, riprendendo poi però la sua attività, sottomettendo Soli e Mallo. Intanto da Babilonia Dario III si sposta nella Siria settentrionale, cioè in direzione delle basi avversarie. La battaglia di Isso dell’autunno del 333 si articola in due fasi: 1) Dapprima Alessandro, attraversati i passi tra Cilicia e Siria, prende posizione presso Miriandro, in faccia al re persiano, che nel frattempo era giunto nella piana di Sochoi. A questa prima fase di irresoluto fronteggiamento, segue 2) il tentativo di aggiramento del macedone da parte di Dario: attraversato i passi montuosi, il persiano punta a chiudere alle spalle l’esercito nemico, attestandosi a nord di esso, nella piana di Isso. Questa volta ad Alessandro, che rischiava di cadere in una trappola senza scampo, non restava che prendere l’iniziativa dell’attacco: nella piccola piana di Isso l’ala destra dello schieramento macedone (cavalleria e fanteria, personalmente guidate dal re) travolse l’ala sinistra e il centro dello schieramento persiano, risolvendo al tempo stesso a proprio vantaggio la situazione di difficoltà in cui era venuta a trovarsi, sulla sua sinistra, la cavalleria tessalica e peloponnesiaca al comando di Parmenione. A questo punto lo schieramento persiano crollò. Dario fuggiva con parte dei suoi uomini verso l’interno e oltre l’Eufrate; una parte si salvò in Fenicia e quindi a Cipro; nelle mani del vincitore restavano l’accampamento del re, con la madre Sisigambi, la moglie Statira e i figli.

- La notizia dell’inattesa vittoria di Alessandro placò momentaneamente i fermenti ostili dell’opinione pubblica greca: alle feste Istmie del 332 i rappresentanti della Lega di Corinto

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decretarono per il re una corona d’oro. Nell’Egeo intanto (332) i Persiani perdevano una posizione dopo l’altra; gli equipaggi fenici e ciprioti disertavano la flotta per raggiungere le regioni di provenienza; navi macedoni liberavano, a cominciare dal nord, Tenedo, Chio, Lesbo, la Caria, mentre Rodi era già passata spontaneamente dalla parte di Alessandro. Gli oligarchi di Chio e i tiranni di Lesbo saranno puniti, rispettivamente, con la deportazione in Egitto e con esecuzioni capitali.

4. Alessandro in Fenicia e in Egitto; la battaglia di Gaugamela (332/1)- Alessandro procedeva intanto dalla Siria in Fenicia, dove conquistava in successione le

principali città. Mentre procedeva a quest’impresa, egli ricevette richieste di pace da Dario, con l’offerta dell’Asia ‘di qua dall’Eufrate’ e di un risarcimento di 10.000 talenti, nonché la mano di una delle figlie del re sconfitto. Alessandro ha sin dall’inizio respinto un compromesso, che avrebbe reso precari gli effetti di una vittoria che egli, con le azioni dopo Isso, mostrava in tutti i modi di voler rendere piena e definitiva.

- A questo programma si ispira la strategia di conquista preliminare di tutte le regioni costiere, seguita da Alessandro dopo la vittoria in Siria: si trattava di tagliare la Persia fuori dal Mediterraneo, per trasformare definitivamente il conflitto in una guerra di conquista continentale, a cui il macedone si sentiva adeguato. Alessandro rinunciò quindi ad inseguire Dario (che intanto si era ritirato nel cuore della pianura assira), e s’impegnò nella conquista della Fenicia e dell’Egitto. In Fenicia Alessandro s’imbatté in una fortissima resistenza da parte di Tiro, protetta dalla sua posizione insulare – furono spesi ben sette mesi nella conquista di questa città, il che le costò ovviamente una dura vendetta da parte di Alessandro (strage di 8.000 abitanti, vendita in schiavitù di altri 30.000).

- Sulla via dell’Egitto Alessandro non ebbe altri ostacoli oltre Gaza, che occupata da una guarnigione persiana resisté per due mesi. La campagna di Alessandro in Egitto (inverno 332/1) era favorita dal fatto che l’elemento indigeno aveva fresco il ricordo del periodo dell’indipendenza dai Persiani, conservata fino ad appena dodici anni prima. Naturale dunque che Alessandro fosse accolto come un liberatore, e trovasse anche il modo di visitare l’oasi di Siwah, ove sorgeva il santuario oracolare di Zeus Ammone – ivi i sacerdoti proclamarono Alessandro figlio di Ammone, in quanto signore dell’Egitto; ma dal canto suo egli poteva trovarvi la conferma di quel che la stessa madre Olimpiade aveva detto di lui: che fosse figlio di Zeus, e non di Filippo II. E sempre in Egitto, entrato ormai per la prima volta a tutti gli effetti nel ruolo di signore riconosciuto di un paese straniero, Alessandro poteva dare vita a una fondazione cittadina, sorta col suo nome (Alessandria), presso il delta del Nilo.

- Dopo la fondazione di Alessandria il re ripartì dall’Egitto, raggiunse la Fenicia e poi la Mesopotamia, attraversando l’Eufrate e successivamente anche il Tigri. Addentratosi per qualche giorno in territorio nemico, prese infine contatto con l’esercito di Dario presso il villaggio di Gaugamela, nella regione di Arbela. La battaglia di Gaugamela (1° ottobre 331) presenta alcune peculiarità tattiche, come la creazione di una seconda linea per un intervento di emergenza, che gli occorse di fare; per altri aspetti però essa replica il consueto cliché: attacco di cavalleria e fanteria dalla destra e, dopo una fase di difficoltà e l’intervento della linea di riserva, vittoria sulla sinistra del nemico. Difficoltà invece vi furono per l’ala sinistra dello schieramento macedone, comandata da Parmenione, a cui solo con ritardo l’ala destra,

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con Alessandro vincente, poté portare aiuto, quando comunque Parmenione aveva ribaltato la situazione.

- Lo scontro si chiude con la fuga del re sconfitto, e un vano inseguimento da parte del re vittorioso, Alessandro, che però viene in possesso dei magazzini e del tesoro del nemico ad Arbela, e di decine di migliaia di prigionieri. La conquista di Babilonia (una ‘liberazione’ per la popolazione indigena), di Susa, con il suo tesoro di 50.000 talenti, e di Persepoli, con i suoi 120.000, furono le tappe successive.

5. Il grande inseguimento- Nell’inverno 331/0 Alessandro sostò in Perside, dove aveva dato alle fiamme il palazzo di

Persepoli; in primavera (330) mosse ancora verso l’interno. Dopo Gaugamela la sua avanzata ha ormai le motivazioni, ma anche la velocità e il tratto romanzesco di un lungo inseguimento, in cui il fuggiasco stesso sembra fatalmente segnare ed aprire la strada all’avanzata e alla conquista dell’inseguitore. Dario fugge in Media e poi nelle estreme regioni orientali, in Battriana (Afghanistan); Alessandro lo incalza in Media, raggiungendo Ecbatanam dove lascia Parmenione, e continua nella sua avventurosa marcia attraverso regioni impervie, dietro un nemico che sembra solo confessare la propria debolezza e la strepitosa grandezza di Alessandro, fuggendo, su un territorio così vasto, come un uomo braccato e senza scampo. La storia, in questi vasti spazi, riempiti dalla fuga dello sconfitto e dall’implacabile caccia che gli dà il vincitore, sembra ridursi a un tragico duello, a un dramma e a un’epopea individuali. Mentre Parmenione resta a Ecbatana (in Media) con metà dell’esercito, con Traci e mercenari, Alessandro continua l’inseguimento con la cavalleria e pochi fanti.

- Nel frattempo Dario è deposto dai suoi stessi generali, e il comando è assunto da Besso, satrapo di Battriana, appartenente alla casa degli Achemenidi. E ormai l’inseguimento di Alessandro, che è informato degli ultimi sviluppi, non ha più come scopo la cattura di un rivale, ma di una persona la cui sopravvivenza sta invece a cuore all’inseguitore: il più spietato nemico di Dario a questo punto è diventato proprio Besso, che lo uccide per non lasciarlo vivo nelle mani di Alessandro (luglio del 330), riuscendo poi a rifugiarsi nella sua satrapia di Battriana, dove si proclama finalmente re col nome di Artaserse.

- Ormai i ruoli tra il macedone e il satrapo di Battriana sono completamente rovesciati, nel rapporto con il potere monarchico persiano. Alessandro s’impadronisce della salma di Dario e la trasferisce in Perside, per una solenne sepoltura nella necropoli regale di Persepoli. Tutto, negli atti di Alessandro, è inteso a presentarlo come il legittimo successore di Dario III, e questo ha una serie di conseguenze: 1) l’obbligo morale di continuare nell’inseguimento di Besso, che di fronte ad Alessandro, come già di fronte a Dario, è ormai scaduto al ruolo di usurpatore; 2) la spinta a completare la conquista delle regioni orientali dell’impero persiano, fino ai suoi confini storici e naturali; 3) la forte ideologizzazione dell’ulteriore conquista di Alessandro, le cui iniziative e i cui gesti si caricano ormai tutti di densi valori simbolici; 4) il progressivo entrare del re macedone nel ruolo e nei panni del re persiano, di cui egli è legittimo successore; 5) il formarsi di una opposizione macedone (e poi greco-macedone) ad Alessandro, nel suo stesso entourage, il prodursi cioè di congiure, o quanto meno il costituirsi di una humus ad esse propizia e perciò di un clima di sospetto nella cerchia di Alessandro, a cui risponde la vendicativa ira del re.

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- Una dopo l’altra vengono a tiro, in questa velocissima avvanzata di inseguimento e di punizione, le diverse regioni a sud del Caspio e nell’area centro- e sud-orientale dell’Iran. Spesso i satrapi del distrutto regno persiano facevano atto di sottomissione; quelli che vi si rifiutavano cercavano scampo e sostegno nella Battriana di Besso o nell’India dell’Indo: comunque, la Battriana di Besso si rivelava come il vero fulcro della resistenza.

- Alessandro svernò ai piedi del Paropamiso, tra la fine del 330 e la primavera del 329, quando, attraversati i passi dell’imponente catena montuosa e sceso nell’altopiano battriano, poté proseguire il suo tenace inseguimento: occupò Battra abbandonata da Besso, e inseguì la sua preda fin oltre il fiume Oxos. L’usurpatore fu consegnato a Tolemeo dai suoi stessi generali e, trasferito a Battra e poi ad Ecbatana, fu giustiziato. Alessandro aveva agito e vinto anche come tutore dei legittimi diritti della dinastia achemenide.

6. Congiure e repressione- Nel 330 si era comunque svolta, nell’entourage del re, una prima tragedia: uno dei figli di

Parmenione, Filota, comandante della cavalleria pesante macedone, avendo omesso di denunciare al re una congiura organizzata dagli ufficiali dell’esercito (irritati per l’introduzione del cerimoniale di corte persiano), viene accusato di alto tradimento, condannato a morte e giustiziato, mentre il fratello Nicanore, capo della guardia speciale, moriva per gli strapazzi affrontati nell’inseguimento di Dario. La posizione di Parmenione, che deteneva il comando di metà dell’esercito in sosta ad Ecbatana, risultava così parecchio indebolita, ma la stessa eliminazione violenta di Filota raccomandava di per sé ad Alessandro di prevenire qualunque reazione del padre. Alcuni ufficiali di Parmenione ricevettero dal re l’ordine di eliminare proditoriamente il loro comandante: il fedele e valorosissimo Parmenione veniva così trucidato per allontanare la paura che Alessandro riteneva di doverne ormai avere.

- Tra il 328 e la primavera del 327 Alessandro fronteggiò la rivolta di Spitamene e degli abitanti della valle dell’Oxos. I Macedoni subirono scacchi a Maracanda e nella stessa Battra; finalmente Spitamene fu vinto e ucciso: il confine del regno di Alessandro coincideva ormai con quello del regno persiano, cioè col fiume Iaxartes.

- Nello stesso periodo altri due drammi si erano svolti nella cerchia di Alessandro: a Maracanda, nel 328/7, durante una lite, che aveva a motivo l’esaltazione incautamente fatta da Clito di Filippo II, come di un modello di comportamento autenticamente macedone in confronto ad Alessandro, il re, nei fumi dell’alcool, ma anche nel trasporto di un’ira che aveva motivazioni ben più che personali, trafisse con una lancia e uccise il suo troppo loquace amico. E quando Alessandro volle imporre a tutti, non solo asiatici, ma anche macedoni e greci, il bacio con la mano, accompagnato da genuflessione davanti all’ossequiato (proskýnesis), la risposta fu la congiura dei ‘paggi’, cioè dei giovani nobili macedoni destinati al servizio personale del re, alla quale non fu estranea l’aspra opposizione di Callistene di Olinto, nipote di Aristotele e storico ufficiale della spedizione. Il capo della congiura era Ermolao, discepolo e amico di Callistene; la responsabilità morale dell’intellettuale greco era agli occhi del re inequivocabile, e ne seguì la condanna a morte (327).

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7. La costruzione del confine: la campagna d’India e la spedizione nel Golfo Persico(327-325)- Raggiunti ormai i confini (o meglio una parte del confine complessivo) del caduto regno di

Persia, Alessandro poteva in teoria pensare alla conquista dell’India. A questo proposito si apre un problema riguardo alle autentiche finalità e intenzioni di Alessandro al momento della campagna indiana (estate 327 – estate 325), sulla quale gravano a avviso del Musti molti equivoci. Secondo lui ci si lascia spesso suggestionare dalle tradizioni antiche che parlano dell’impulso di Alessandro verso una marcia senza sosta e senza confini, volta alla conquista di sempre nuovi mondi, di un Alessandro, dunque, di irrazionalità e sogno. Secondo il Musti però, considerando più attentamente sia l’esito e la consistenza storica della campagna indiana di Alessandro, sia le parti dello stesso racconto degli storici antichi riguardanti gli atti concreti di Alessandro e la loro effettiva concatenazione e motivazione, si deve convenire che, sul terreno dei fatti, la spedizione indiana di Alessandro abbia molto meno di romanzesco e irrazionale di quanto si immagina e si costruisce sulla base di scarse indicazioni degli scrittori antichi. Alessandro sembra aver mirato, secondo il Musti, a ricostituire l’intera struttura del confine naturale e storico dell’impero persiano, cioè del fiume Indo, compresi ovviamente i poteri dei dintorni, il cui completo controllo era la condizione perché si potesse esercitare un controllo effettivo del fiume stesso. Questo è dunque il terreno dei comportamenti reali, tutti riconducibili a un disegno di ricostruzione e consolidamento di un confine, che si muove sul piano della razionalità.

- Altro è il terreno delle aspirazioni, delle intenzioni, dei vagheggiamenti e dei sogni: essi appartengono ad una sfera individuale e psicologica, certo esistente ma per noi del tutto irrecuperabile, o che comunque non incise profondamente nelle azioni concrete di Alessandro. Qualcosa di analogo si può affermare per l’imitazione di Eracle e di Dioniso, che certamente orientò e guidò il re, e che doveva condurlo almeno alla Battriana (non necessariamente anche all’India); ma essa operò solo come impulso ulteriore, che andò solo ad aggiungersi a motivazioni di altro tipo (militare, politico, e così via di seguito).

- Superato nuovamente il Paropamiso nell’estate del 327, e assoggettati gli abitanti della valle del fiume Kabul, Alessandro attraversò l’Indo nella primavera del 326. La sua politica era volta, come si è detto, a un’opera di consolidamento del confine fluviale, con tutte le varianti politiche che un’opera siffatta potrebbe comportare. Tra l’Indo e l’Idaspe Alessandro conta sull’alleanza del re Taxila, che egli aiuta contro il vicino re Poro, che viene sconfitto e fatto prigioniero, ma resta come principe vassalo del suo proprio dominio. Con i regni a est dell’Indo, dunque, Alessandro procede nella politica di creazione di una barriera di stati vassalli: la politica del macedone si rivela, dunque, fin dall’inizio della spedizione indiana razionalisticamente orientata a considerare l’Indo come un confine estremo, da non valicare per nuove avventure. Le colonie militari di Nicea e di Bucefala servono allo stesso scopo. Altri popoli e città, realtà politiche assaiu più disperse e difficili da controllare che non quelle affidate all’intermediazione di sovrani amici e vassalli, venivano assoggettati, ma si tratta di popoli e città della regione più esterna del dominio macedone, tra l’Idaspe e l’Ifasi.

- Superare l’Ifasi in direzione del Gange sarebbe stato veramente l’atto che avrebbe rotto con lo schema della ‘politica dell’Indo’, e significato la presenza di una spinta indifferenziata alla conquista, da protrarre fin dove possibile. Ma il malumore dell’esercito e l’esito dei diabatéria (sacrifici per la traversata), naturalmente negativo, determinano un’inversione della rotta di marcia, non senza che sulla riva dell’Ifasi fossero eretti dodici altari, alti come torri di città, simbolo sacrale e monumentale di un confine fluviale consolidato.

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- Dopo la consacrazione dell’Ifasi a soglia ultima dell’impero (in quanto gravitante nel sistema fluviale dell’Indo), comincia la marcia di rientro, segnata da altrettante tappe, volte a garantire la sicurezza dell’Indo stesso come confine. L’esercito si ritira all’Idaspe, dove viene completata la costruzione di una flotta; due parti dell’esercito marciano sulle rive, una parte si imbarca, seguendo l’Idaspe fino alla confluenza con l’Indo, con un’opera che è di vera verifica e consolidamento del confine medesimo. In generale le popolazioni della regione si assoggettano, ma alla presenza di una organizzazione politica di tipo cittadino corrisponde anche una maggiore resistenza, o addirittura aggressività, da parte indiana, come è il caso dei Malli: nell’assalto di una loro città (fine 326 o inizio 325) Alessandro, spintosi con incauto eroismo troppo avanti ai suoi e perciò scopertosi al nemico, viene ferito gravemente al torace e subisce lesioni polmonari (che potrebbero essere state una delle cause remote della precoce morte di Alessandro nel 323). Limportanza strategica della confluenza con l’Indo è sottolineata dalla fondazione di molte colonie, fra cui un’altra Alessandria, e dalla creazione di un porto a Pattala. Due macedoni e un indiano erano incaricati del governo delle tre satrapie create da Alessandro nel territorio a est dell’Indo.

- Anche l’operazione di rientro, terrestre e navale, presenta due piani diversi di lettura, entrambi realmente esistenti, e dei quali nessuno va sacrificato all’altro: da un lato, c’è il dichiarato intento di verificare la sicurezza dell’Indo dalla parte della foce, dall’altro certamente anche il desiderio di conoscere nuove realtà geografiche o di definire vecchi problemi (come quello del rapporto, che ormai si rivelava insussistente, dell’Indo col Nilo), ma questo desiderio naturalmente non esclude affatto l’intento della sicurezza militare e quindi politica. Al cretese Nearco viene affidato il comando della flotta che dalla foce dell’Indo deve prendere il mare, attraverso l’Oceano Indiano sino alla foce del Tigri; l’esercito invece viene diviso tra Cratero e Alessandro stesso, per due itinerari diversi di rientro: le fatiche e le perdite umane delle traversate terrestri furono notevolissime. In Carmania ci fu il ricongiungimento delle tre forze, che anche per queste vie avevano esplorato e consolidato le regioni di confine dell’impero.

8. Un anno di grandi scelte (324)- Il re giungeva a Susa nella primavera del 324, un anno in cui Alessandro dovette

confrontarsi con problemi di carattere organizzativo del regno, che erano ormai cresciuti all’altezza di grandi temi politici: quelli del rapporto tra Greco-Macedoni e Persiani, che potevano avere una risposta nei termini della cogestione, fusione o assimilazione, o invece della netta separazione. Il sistema organizzativo delle satrapie persiane era per Alessandro un dato storico da conservare, adattandolo alla nuova situazione solo sul piano dell’attribuzione dei posti di comando. In Anatolia e Siria il potere, sia militare sia civile, fu semplicemente assegnato a un ufficiale macedone (solo in Caria l’amministrazione civile fu affidata alla sorella di Maussollo, mentre a Tolomeo fu attribuito il potere militare; soluzione analoga riguardò l’Egitto). Diversamente si dispose per l’amministrazione finanziaria, che fu organizzata non secondo satrapie, ma secondo distretti che ne comprendevano più d’una.

- Nelle province che avevano costituito il nucle dell’impero persiano fin dai tempi di Ciro il Grande, cioè in Mesopotamia e Iran, la politica di Alessandro fu, dopo Gaugamela (331), fondamentalmente diversa. Da quella data il macedone opera come erede legittimo del trono achemenide e adotta, perciò, la politica dell’affidamento a satrapi persiani

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dell’amministrazione civile delle regioni conquistate. Questa politica organizzativa non dette sempre i risultati sperati di ‘collaborazione’ delle regioni assoggettate; d’altra parte, Alessandro affidava comunque la difesa di alcuni punti forti a contingenti macedoni.

- Accanto a questa organizzazione territoriale, e spesso al suo interno, esisteva un gran numero di città greche, per le quali la scelta del regime democratico, in luogo di quello oligarchico, era in parte imposta dall’atteggiamento filopersiano dei gruppi oligarchici, ma in parte era il riflesso di un’esperienza della cultura politica greca che il re macedone portava con sé, e che si lascia scorgere anche nelle gradazioni e nei ‘distinguo’ verificabili all’interno della politica verso i Greci come praticata da Filippo II e dallo stesso Alessandro.

- Negli anni del grande inseguimento e della spedizione indiana (331-325) si era andata accumulando una gran quantità di problemi e di pericoli per l’unità e solidità organizzativa del nuovo impero: ne erano prove significative le ribellioni degli stessi Greci in regioni periferiche, che esibiscono cronicamente la loro nativa vocazione separatista, le ribellioni dei mercenari, le rivolte di satrapi persiani (via via sostituiti da Alessandro con ufficiali macedoni). Il caso più clamoroso di defezione dal nuovo ordine istituito dal macedone fu quello del ‘tesoriere generale’, l’ateniese Arpalo.

- Già una volta Arpalo si era reso colpevole di malversazione poco prima della battaglia di Isso (333) e aveva cercato rifugio in Grecia; ma una seconda, più clamorosa fuga, che diede luogo a un vero complicato ‘affare’ di corruzione, connivenze, intrighi politici, processi, condanne, fughe e finali tragici, fu quella con cui Arpalo si salvò dalla rappresaglia del re (324), dopo il ritorno di questo dall’India. Con 5000 talenti e 6000 mercenari, Arpalo giunse ad Atene; l’esercito non vi fu accolto, ma le porte della città furono aperte al tesoriere e finanziere infedele. Alla richiesta di estradizione presentata da parte macedone, gli Ateniesi arrestarono Arpalo e gli sequestrarono 700 talenti, di cui, alla verifica da parte delle autorità, eseguita qualche tempo dopo, risultarono mancanti 350. Tra gli altri, fu accusato di averne ricevuti 20 Demostene; condannato al risarcimento di una ingente somma (50 talenti), riuscì a sottrarsi alla prigione, cui lo condannava l’insolvenza, con una fuga che fu favorita dai suoi stessi carcerieri, e che lo portò a rifugiarsi ad Egina, e poi a Trezene nel Peloponneso. Arpalo intanto, fuggito da Atene e recuperati i suoi mercenari in Laconia, si trasferiva a Creta, che in questo periodo appare come una terra di nessuno, del tutto aperta alle imprese degli avventurieri; ma a Creta egli trovò la morte per mano di uno dei suoi stessi ufficiali.

- L’anno 324 segna dunque per Alessandro, dopo il lungo periodo di movimento e di conquista, quello dell’esplosione dei vari problemi organizzativi, l’anno in cui si mette in luce il nodo che tutti li lega, cioè il problema dei rapporti fra le diverse nazionalità. Una risposta programmatica e simbolica è quella data dal re con le nozze in massa, celebrate a Susa, l’antica capitale degli Achemenidi, nella primavera di quell’anno. Già sposato alla battriana Rossane, Alessandro ora prendeva come mogli Statira, una figlia di Dario, e Parisatide, figlia di Artaserse Oco; Efestione sposò Drypetis, un’altra figlia di Dario; 80 ufficiali si unirono ad altrettante nobili persiane; fu anche l’occasione per una premiazione ufficiale dei numerosi soldati macedoni che avevano sposato donne iraniche.

- Queste celebrazioni non furono accolte di buon grado dai Macedoni; ma ancora più gravi sembrano essere state le conseguenze della riforma dell’esercito, portata avanti da Alessandro all’insegna di una ‘politica di fusione’, che dovette presto cedere il passo alla creazione di ‘strutture parallele’, che ribadivano nel fondo il principio dell’apartheid. Alla fine delle conquiste, l’entità dell’esercito di Alessandro doveva aggirarsi sui 100.000

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effettivi: era cioè più che raddoppiata, e con forte dispendio di mezzi, rispetto alla partenza. Ora il re, per rispondere nella maniera al tempo stesso più politica e più economica alle esigenze di rafforzamento del dispositivo militare, istituì un corpo di 30.000 giovani persiani (epígonoi), educati e addestrati alla macedone; ma elementi iranici furono inseriti anche nella falange macedone e nella stessa guardia del corpo. Soprattutto egli costituì una serie di corpi persiani ‘paralleli’, in cui non si verificavano commistioni iranico-macedoni.

- A Opi, sul Tigri, il re affrontò, e assai male, il problema dei veterani desiderosi, dopo dieci anni di ininterrotte campagne, di tornare in patria: egli propose dapprima di dimettere gli invalidi, il che era congedo umiliante per chi veniva rimandato in patria e non soddisfacente per chi era trattenuto. L’esercito si ammutinò, invitando il re a ricorrere ormai ai servigi dei suoi “cari Persiani”. Alessandro venne a capo della rivolta, sia facendo valere di fronte ai soldati i meriti storici della dinastia, in particolare del padre Filippo e di lui stesso nello sviluppo civile del popolo e del paese, sia congedando, contemporaneamente, tutti i veterani (ma fece giustiziare anche, con dura determinazione, i capi della rivolta). I veterani, in numero di 10.000, premiati ciascuno con un talento, che l’accaparramento dei tesori persiani consentiva di pagar loro, si misero in viaggio per la Macedonia sotto il comando di Cratero. La morte di Alessandro avverrà durante la loro marcia di trasferimento e, al loro arrivo in Europa, i veterani saranno in gran parte usati per reprimere quella rivolta di molti Greci, che va sotto il nome di ‘guerra di Làmia’. Cratero veniva anche investito della funzione di ‘stratego d’Europa’, cioè della successione di Antipatro che, nei dieci anni di assenza del re dal suo paese, era divenuto agli occhi di questo troppo potente, e soprattutto era venuto a duro conflitto con la madre di Alessandro, Olimpiade. Antipatro, secondo le disposizioni di lessandro, doveva semplicemente dare le consegne a Cratero e portare nuovi soldati in Asia al posto di quelli rientrati.

- Anche per altri aspetti il 324 si rivela come anno di grandi svolte, tutte forse riconducibili alla figura di ‘re universale’, cui Alessandro sembra ormai voler dare corpo: richiesta degli onori divini rivolta ai Greco, o almeno segnalazione della sua aspirazione a riceverne da parte loro – in Ionia, in Arcadia, nella stessa Atene furono tributati onori divini ad Alessandro (altrove la consacrazione di un sacro bosco o di un tempio, ad Atene l’inclusione di Alessandro come nuovo Dioniso fra gli dèi cittadini). Anche la decisione di far rientrare nelle città di appartenenza tutti gli esuli politici greci, annunciata di fronte all’assemblea dei soldati di Alessandro, e poi semplicemente comunicata dall’inviato del re, Nicanore di Stagira, ai Greci riuniti a Olimpia per la celebrazione delle feste dell’estate del 324 (‘decreto di Nicanore’) rispondeva da un lato a una scelta politica di pacificazione del mondo greco, dall’altro alla concezione di una monarchia universale che irradia i suoi benefici sull’umanità intera.

- Ancora nello spirito di quegli atti simbolici, di cui ormai è sempre più pieno il comportamento di Alessandro, è da leggere la decisione del re di passare la stagione calda del 324 nella capitale d’estate degli Acheminidi, la meda Ecbatana. E qui morì Efestione, per le sregolatezze del bere, che egli aveva trasferito incautamente in Asia dal più idoneo clima di Macedonia; a lui furono tributati onori divini, ormai all’insegna del culto dello stesso Alessandro quale divinità fra gli uomini.

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9. L’impero “universale”- Da Ecbatana il re si trasferì nell’inverno 324/3 a Babilonia, dove l’attendevano ambascerie

proveninenti da stati greci e dalla stessa Italia. Alessandro, secondo una discussa tradizione, si accingeva alla conquista dell’Occidente. Ma la concezione della monarchia universale in Oriente non era mai andata, storicamente, oltre la costituzione reale di un grande dominio e la proclamazione, di principio e solo potenziale, del dominio sugli altri popoli (il primo vero dominio universale nella storia mediterranea resta quello di Roma, come ben comprese Polibio). Gli atti compiuti nel 323 da Alessandro (allestimento di una spedizione terrestre e navale di conquista dell’Arabia, tra Indo e golfo Persico, da un lato, ed Egitto, dall’altro) non vanno al di là di quel razionale progetto di consolidamento e perfezionamento del confine (in questo caso un confine interno, data la posizione dell’Arabia), che abbiamo visto all’opera nella campagna dell’Indo, qualunque fosse la portata dei sogni o delle remote intenzioni. Da buon greco, Alessandro non rinunciò mai, per quanti ideali e idealità gli si possano attribuire, a tener ben fermi i piedi sul terreno della realtà.

- Quando già tutto era pronto per la spedizione arabica, il re cadde malato: una febbre, probabilmente dovuta a un male che Alessandro si portava da anni, lo consumò in appena dodici giorni. La conservazione di tracce delle efemeridi reali (il “diario”, la cronaca ufficiale delle giornate del re), nella storiografia su Alessandro, consente di aver nozione dell’avvicinarsi giorno per giorno della morte, che giunse il 13 giugno del 323.

10. La successione- Si apriva un problema di successione gravissimo per vari e concorrenti motivi: l’età ancora

giovane del re, la vastità e complessità dell’impero conquistato, la confusa situazione familiare ed ereditaria, la difficoltà di istituire, sul piano politico, in sostituzione del vertice monarchico improvvisamente venuto meno, una rigorosa gerarchia tra le funzioni diverse che lo stesso Alessandro aaveva creato intorno a sé, più per distribuire ed equilibrare poteri e funzioni che non per designare (condizione sentita sempre come troppo pericolosa) un vero delfino.

- Alessandro non aveva figli legittimi al momento della morte: Eracle, figlio di Barsine, era un illegittimo, in quanto nato da una concubina; e tuttavia un figlio legittimo stava per nascere da Rossane (e nascerà qualche mese dopo la morte del re). Aumentando ulteriormente la tensione e confusione vi era l’avversione dei soldati della fanteria macedone nei confronti del figlio nascituro della barbara, che favorivano invece la scelta legittimista in favore di Filippo Arideo, il figlio mentalmente minorato di Filippo II. I generali macedoni erano invece più favorevoli ad attendere il parto di Rossane, anche perché quest’attesa, nonché la necessità di mettere il neonato sotto tutela, poteva tornare a loro vantaggio, come poi fu. Qual era il rapporto gerarchico però tra la carica di rappresentante del regno, attribuito a Cratero, in marcia per la Macedonia con i veterani, e quella che da tempo deteneva il vecchio Antipatro, ormai reggente da dieci anni nella sede del regno macedone? A questi interrogativi presto se ne aggiungerà un altro, più concreto e drammatico: queste cariche centrali erano da intendere come sovrordinate ai poteri regionali delle diverse satrapie dell’impero, attribuite ai diversi generali; oppure quelle cariche dovevano valere solo come centri di coordinamento fra quei poteri, che per sé stessi si profilavano non solo come distinti ma anche come assai più fondati di quelle posizioni centrali, proprio in quanto legati alle realtà regionali? Si apriva insomma il conflitto fra il principio unitario, che si

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presentava sotto diverse forme e in differenti versioni, e il principio particolaristico, destinato a prevalere storicamente in meno di venti anni.

11. In Occidente: l’intervento di Corinto in Sicilia (Timoleonte)- La crisi del regime di Dionisio II, il frantumarsi di un forte potere accentratore in diversi

poteri locali (si insediano tiranni in diverse città: Iceta a Leontini; Mamerco a Catania; Ippone a Messina; Andromaco a Tauromenio), il vuoto di potere che ne deriva, nonché il progressivo spopolamento dei centri greci dell’isola, suscitano ovviamente l’interesse di Cartagine a una rinnovata espansione in Sicilia. È il perdurante conflitto tra Iceta e Dionisio il Giovane, oltre alla minaccia di Cartagine, a provocare l’appello dello stesso Iceta a Corinto, per l’invio di aiuti.

- Corinto interviene (344), inviando un esercito di mercenari, e milizie cittadine e delle stesse colonie corinzie del mar Ionio, nello spirito pancorinzio che caratterizzerà tutta l’impresa, al comando di Timoleonte. Fin dalla giovinezza, Timoleonte era stato un fiero nemico dei tiranni, sì da uccidere il fratello Timofane, che, per aver assunto il patronato dei più poveri della città, era stato accusato di volere la tirannide: la ‘democrazia’ di Timoleonte va dunque letta alla luce del suo opposto, che non è più l’aristocrazia, ma semma una politica democratica radicale; Timoleonte è perciò fin dall’inizio un moderato.

- Timoleonte raggiunge la Sicilia dopo essere passato per Metaponto e Reggio (ormai rinnata come città). A Tauromenio lo accoglie Andromaco, padre dello storico Timeo, l’unico fra i tiranni di Sicilia che avrà la benevolenza del corinzio. Iceta, che aveva invocato l’intervento corinzio e occupato la terraferma siracusana, contendendola a Dionisio, preferisce cambiar fronte e passare dalla parte dei Cartaginesi (cominciando un’altalena che gli riuscirà fatale), mentre Dionisio si consegna a Timoleonte e ottiene di potersi trasferire a Corinto, dove vivrà vari anni facendo apprezzati racconti e confidenze sulla sua amara esperienza politica. Timoleonte ha quindi sotto controllo Siracusa; con l’aiuto di rinforzi corinzi egli riesce a tenere in scacco i Cartaginesi, e a riguadagnare l’ubbidienza dei volubili tiranni e di varie città dell’interno. Il massiccio reclutamento di forze da parte di Cartagine porta alla battaglia campale del fiume Crimiso, presso Segesta, in cui i Cartaginesi sono battuti con gravi perdite, anche di forze cittadine; poco dopo sono battuti Iceta di Leontini e Mamerco di Catania, che avevano ancora una volta cambiato fronte a favore dei Cartaginesi. L’alleanza punico-calcidese, che più volte nel corso della storia siceliota si era presentata come una possibilità di opposizione a Siracusa, è ormai battuta.

- In Sicilia comincia quindi il ripopolamento delle città ad opera di Timoleonte, con coloni provenienti da tutte le parti del mondo greco. Non va perduto comunque per intero, nell’azione di Timoleonte, quello che era stato il filo conduttore della politica di Siracusa sin dall’epoca dei Dinomenidi, cioè il potenziamento demografico della città, con facilitazioni nella concessione della cittadinanza agli immigrati, in particolare a quelli di Leontini. Per il resto, la prassi timolontea è di puro stile cittadino: le risorte città debbono fondersi in una lega, di cui Siracusa è città egemone, ed entro cui vige il principio dell’autonomia. A Siracusa stessa Timoleonte instaura, in armonia con le premesse di tutta la sua vita, un regime di oligarchia moderata, con un sinedrio di 600 consiglieri; contro i barbari, Siracusa si impegna a chiedere all’occorrenza un capo militare a Corinto, da affiancare agli strateghi cittadini. Nel 337, conclusa la sua opera, Timoleonte, divenuto nel frattempo cieco, depone la carica di strategós autokrátor, da lui detenuta per quasi otto anni; resterà però a Siracusa,

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dove morirà e, secondo una tradizione frequente nelle città doriche, riceverà l’onore di una tomba nell’agorá.

12. Il ruolo di Taranto fra mondo greco ed entroterra italico- Sul piano militare, l’intervento corinzio è da considerare come uno sviluppo della III guerra

sacra, perché mercenari focesi, sloggiati da Delfi e dalla Focide con la pace del 346, furono utilizzati nella spedizione di Timoleonte, così come poi in quella del re spartano Archidamo III, figlio di Agesilao; questi intervenne in aiuto di Taranto, che aveva richiesto il sostegno della madrepatria contro Iapigi e Lucani, e portò con sé anche mercenari focesi. Ma Archidamo in una battaglia fu sconfitto e ucciso (338).

- Ormai, e già dal secondo quarto del IV secolo a.C., Taranto è la città egemone della Lega italiota, dell’Italia greca in generale: ma la sua è un’egemonia su una grecità che, malgrado non trascurabili manifestazioni di vitalità, è entrata in crisi (sicché, e contrario, anche di più spicca la potenza e la ricchezza della cittá egemone). Dopo Archidamo, il successivo condottiero, da cui Taranto e la grecitá d’Italia otterranno aiuto contro gli ormai attivissimi Lucani, è Alessandro il Molosso (334-331/0): Sparta, impegnata contro la Macedonia, non avrebbe avuto infatti forze da dirottare verso Taranto, e forse quest’ultima considerava realisticamente i vantaggi che potevano derivarle dal collegarsi con il re epirota, zio di Alessandro il Grande, nel momento in cui la Macedonia era ormai diventata la prima potenza del Mediterraneo. Alessandro affronterà uno dopo l’altro i popoli barbari dell’Italia meridionale; libererà Siponto ed Eraclea, ed da Paestum farà una sortita per affrontare e sconfiggere in battaglia Sanniti e Lucani. Egli stringe anche un patto con i Romani.

- Presto però si incrinano i rapporti con Taranto, e questo ha motiviazioni sia contingenti sia di più vasta portata: da un lato l’istinto di autodifesa della città dall’autorità del sovrano, dall’altro però l’ampliarsi troppo rapido dell’orizzonte delle ambizioni del Molosso, che investono l’intera Italia meridionale, in una prospettiva che scavalca lo stesso orizzonte politico di Taranto; infine, a Taranto prende sempre più piede una linea politica che è sì di competitività, ma anche di possibile intesa, sul lungo periodo, con le popolazioni italiche, in virtù di un riassestamento delle alleanze della città greca verso gli stessi vicini Lucani, dopo la I guerra romano-sannitica. Taranto sembra interpretare sempre di più il suo ruolo come quello di una città egemone dell’intera Italia, greca e indigena, decisa semmai a contrastare l’avanzata di un altro, più distante e più temibile, popolo ‘barbaro’, il romano. Il Molosso invece, e con lui le città greche che gli restano devote (Turii e Metaponto), è più legato alla tradizione politica di opposizione all’elemento barbarico lucano-brettio, che è al momento il più attivo e geograficamente il più vicino. Alessandro cerca di sfruttare a suo vantaggio i conflitti interni al mondo lucano, che in quest’epoca è in fase al tempo stesso di espansione e di fermento; ma sarà ucciso a tradimento a Pandosia proprio da un esule Lucano (330 a.C. circa).

- La condizione dei Greci in Italia nel settantennio tra le due date in esame (400 e 330 a.C.) può descriversi come uno ‘stato di sofferenza’, esattamente come la rappresenta per Siracusa e la Sicilia greca l’autore della VII e dell’VIII lettera platonica: condizione di tryphé, di opulenza e benessere economico, ma anche di crisi morale, avvertita nel rischio di perdita dell’identità ‘nazionale’, linguistica e politica, pur in un periodo in cui si conserva ancora l’indipendenza politico-militare, tuttavia minacciata, in senso lato, dal punto di vista culturale.

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13. Vicende del regno bosporano (l’ellenizzazione nel Mar Nero)- L’acquisizione alle forme della cultura greca di regioni adiacenti alle póleis,

l’ellenizzazione, è un fenomeno che nel IV secolo a.C. raggiunge livelli di solido assestamento non solo in Occidente, ma anche in Oriente. Paradigmatico, e perciò degno di particolare menzione, il caso della costituzione, a partire dal 438/7, del regno bosporano, nella zona del Bosporo Cimmerio, ad est della penisola di Crimea. Le città di fondazione milesia, come Panticapeo e Teodosia, venogno invero assoggettate a una dinastia di origine tracia, quella degli Spartocidi: essa regnerà fino alla fine del II secolo a.C.

- Le figure più illustri, anche e soprattutto per il loro rapporto con il mondo greco-egeo, e in particolare con Atene, sono Leucone I (389-348) e Pairisade I (349-310). L’ellenizzazione consiste nel fatto che le città greche costituiscono il nucleo del regno, anche se esso ha una dinastia di origine tracia, che si sostituisce alla stirpe milesia degli Archanattidi, e risulta composito di popolazioni locali, quali gli Sciti e i Maiti. La forma politica del regno rivela un carattere composito, ma appunto anche una decisa presenza di forme greche: il dinasta spartocide si chiama perciò árchon Bospórou kaì Theodosías e in questo tende a presentarsi come un magistrato cittadino e al tempo stesso un re delle popolazioni ricordate. Nella sostanza si tratta di una monarchia militare, che regna su di uno stato territoriale, dove esistono tradizioni cittadine, benché la funzione della pólis sul piano politico sia molto ridotta: non a caso è stato evocato il parallelo delle monarchie-tirannidi siciliane.

- L’ellenizzazione è rilevante, ma resta pur sepre un fenomeno di acculturazione, un capitolo suggestivo della storia della grecità di frontiera, con tutta la sua complessità storica. L’area ha scambi significativi col mondo greco-egeo, e più in particolare con Atene, che ne importa grano, pesce salato, schiavi, e vi esporta olio, e prodotti artigianali varii. A una certa distanza, restano indipendenti e latamente collegate alla vicenda storica greca, le città greche di Chersonaso, di origine megarese, in Crimea, e Olbia, di fondazione milesia, alla foce dl fiume Ipani.

Note integrativea) Il termine “Ellenismo”- Ellenismo è parola fondamentalmente già presente nel greco antico, sviluppo del verbo

hellenízein, che significa “parlare alla maniera dei Greci” (e forse anche, più in generale, comportarsi alla loro maniera), secondo un processo di formazione del tutto familiare ai Greci (verbi in –ízo hanno ad esempio in greco il senso di parteggiare politicamente per qualcuno: philipízzo e il derivato philippistaí). In un papiro tolemaico il puro senso linguistico è del tutto evidente: οὐκ ἐπίσταμαι ἑλληνίζειν significa: “non so il greco”. Gli hellenízontes sono dunque coloro che, non essendo di origine greca (in questo caso si tratta di un egizio), dall’esterno si adeguano all’espressione linguistica greca. Un qualche passaggio è ancora verificabile tra hellenízontes e hellenistaí, che, rispetto al primo termine, identifica già un gruppo con caratteristiche o atteggiamenti culturali stabili. Il termine ricorre, come è noto, in un passo degli Atti degli Apostoli, 6,1, in cui si ricorda la tensione tra hellenistaí e Hebraîoi nel periodo della formazione della comunità cristiana di Gerusalemme, quando Paolo discuteva con degli infidi Hellenistaí.

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11. L’Alto Ellenismo

1. Concezioni statali a confronto nelle lotte dei Diadochi- L’ampia portata delle conquiste di Alessandro, la preesistente organizzazione di quei

vastissimi territori, l’assenza di un erede che fosse all’altezza del sovrano scomparso o nell’età giusta per succedergli, condizionarono fortemente gli eventi successivi alla sua morte, che vanno sotto il nome di guerre dei Diadochi (successori) e degli Epigoni (la seconda generazione di successori), ed occupano complessivamente un quarantennio, dal 323 fino alla battaglia di Curupedio, nel 281 a.C.

- Il primo ‘ventennio’ (323-301) è il periodo di maggiore tensione, quando tutto è rimesso in discussione, il potere centrale nelle regioni conquistate, come la stessa egemonia macedone in Grecia. Con la battaglia di Ipso (301), cioè con la sconfitta di Antigono Monoftalmo, l’assetto complessivo, che comporta una netta distinzione tra Egitto, Asia ed Europa macedone, può dirsi ormai consolidato.

- Nel 323 si era posto innanzi tutto il problema della forma del potere centrale, che aveva ricevuto una soluzione complessa: a Cratero (assente dalla Babilonia, perché in marcia con i veterani verso la Macedonia) era affidato il ruolo di prostátes tês basileías, cioè del regno di Arideo: la monarchia era sottoposta a una sorta di procuratela, se non di tutela vera e propria; al trono erano destinati Filippo Arideo, fratellastro di Alessandro il Grande, e il nascituro figlio di quest’ultimo e di Rossane, se di sesso maschile (divisione dunque del potere tra chi regna, il basileús, o chi lo rappresenta come prostátes; e chi invece governa, il chilíarchos, “capo dei mille”, che detiene il potere operativo militare).

- A un gradino, dunque, teoricamente più basso del basileús o del prostátes si collocava il chilíarchos Perdicca, che aveva di fatto sotto di sé i territori asiatici. E infatti già ora si profila la dicotomia nettissima tra parte originaria (europea) e parte acquisita (asiatica e libica) dell’impero macedone, visto che ad Antipatro resta affidata la funzione di stratego d’Europa.

- Senza l’esistenza formale ed effettiva della regalità macedone, era del resto poco giustificato l’esercizio di un dominio unitario di tutti i territori conquistati. Il dramma della successione ad Alessandro è tutto qui. Già quando il conquistatore era in vista, si era posto il problema di affidare l’amministrazione dei singoli territori a governatori, forse già allora indicati come satrapi. Per lo più si era trattato di Macedoni o di Greci; ma non erano mancati casi di utilizzazione di Persiani collaborazionisti. Con la morte di Alessandro il principio della ripartizione territoriale si estende, ma si applica anche in maniera complicata, che va molto al di lá delle stesse ripartizioni tradizionali, rese plausibili dalla geografia come dalla storia: salvo per l’Egitto, di cui Tolemeo ebbe l’acume politico di garantirsi il controllo, che mai più (caso unico fra tutti i Diadochi) perderà.

- Per il resto, è la nascita di una geografia politica bizzarra e velleitaria: ad Eumene vanno i territori, da conquistare, di Paflagonia e Cappadocia; ad Antigono, Panfilia, Licia e Frigia maggiore, nell’Asia minore meridionale e occidentale; a Leonnato, la Frigia ellespontica; a Lisimaco la Tracia, formalmente sotto l’autorità dello stratego d’Europa, Antipatro. La confusa serie di eventi può essere ricostruita secondo la logica degli sviluppi necessariamente conseguenti a queste premesse, e raccordata intorno a periodi distinguibili almeno in parte fra loro.

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- Negli anni 323-321 le personalità dominanti e più attive nei due grandi troconi dell’impero macedone sono Antipatro in Europa e Perdicca in Asia. Come è chiaro, Perdicca aveva un nemico alle spalle, verso Occidente, in Antigono (che fuggì in Europa), ed uno al di là del territorio asiatico da lui controllato, in Egitto (Tolemeo). In un’astratta logica territoriale, è verso l’Egitto che egli doveva rivolgere (e di fatto rivolse) il suo sforzo di conquista, tanto più che in Asia minore continuava a sostenerlo Eumene. L’inimicizia di gran parte della dirigenza macedone era tuttavia assicurata a Perdicca dai suoi progetti di sposare Cleopatra, la sorella di Alessandro Magno (già vedova di Alessandro il Molosso), e di porsi perciò come erede legittimo della dinastia degli Argeadi, con la naturale conseguenza dell’ostilità di Antipatro. Perdicca cadde vittima di un attentato, nel 321 a.C., alle porte dell’Egitto, a Pelusio.

2. I Greci e la morte di Alessandro: la guerra lamiaca- Intanto la vocazione europea di Antipatro è quasi paradossalmente confermata dallo scoppio

in Grecia della ‘guerra lamiaca’, detta così dal nome della roccaforte tessalica presso il golfo di Làmia, dove Antipatro fu per qualche tempo, dal tardo 323, bloccato dai Greci ribelli.

- Protagonisti della ribellione furono gli Ateniesi, in particolare l’oratore Iperide e lo stratego Leostene; quest’ultimo arruolò un esercito di mercenari raccolti in Laconia; la Lega ellenica di Corinto si sciolse; alla rivolta presero parte anche gli Etoli; fu allora che Demostene, in esilio a seguito dell’affare di Arpalo, poté rientrare in patria.

- La battaglia navale di Amorgo, nell’estate del 322, segnò la vittoria del macedone Clito sulla flotta ateniese; poco dopo, Antipatro, raggiunto dai soccorsi di Cratero, sconfiggeva per terra gli Ateniesi a Crannone in Tessaglia.

- Gravissime le conseguenze interne per Atene: nel 322, per la terza volta nella sua storia, dopo gli eventi del 411 e del 404, la democrazia ateniese subiva il contraccolpo di un radicale cambiamento di regime, che diveniva di tipo timocratico, cioè basato sul censo, che era definito nella misura minima di una proprietà di 20 mine. Ne seguì la condanna a morte e l’esecuzione di Iperide, mentre Demostene, rifugiatosi nel santuario di Posidone nell’isola di Calauria, si tolse la vita, quando era ormai braccato da zelanti emissari di Antipatro (322).

- L’anno successivo raccorda momentaneamente fra loro le vicende d’Europa e d’Asia: Antigono era sbarcato già nel 322 ad Efeso, recuperando quel suolo asiatico che, per la parte occidentale, era passato piuttosto sotto il controllo di Eumene. Nella primavera del 321 Cratero e Antipatro varcano l’Ellesponto e, mentre Antipatrro avanza verso la Cilicia, Cratero si fa incontro ad Eumene, ma è sconfitto, soprattutto per merito della soverchiante cavalleria del nemico, e trova la morte sul campo.

3. Antigono protagonista- La scomparsa dei due grandi rappresentanti del potere regale (Cratero e Perdicca) impone un

riassetto dell’impero, che è attuato nel convegno di Triparadiso, in Siria, forse nel 321: questa volta rappresentante ‘dei re’ è nominato Antipatro, che si ritira in Europa con Filippo Arrideo, Euridice e Alessandro IV, figlio di Alessandro il Grande e di Rossane. Contro Eumene, il vecchio fautore di Perdicca (e dell’idea di un impero unitario centrato sui dominii dell’Asia), fu emessa una sentenza di morte, di cui doveva essere esecutore Antigono, che ormai si poneva come l’erede del progetto di impero asiatico di Perdicca (senza ancora però avere formalmente rinunciato ad un ancor più ambizioso disegno

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unitario. Già Triparadiso prefigurava la grande tripartizione ellenistica (Europa macedone, Asia, Egitto), pur includendo, per la parte più vasta e complessa, cioè l’Asia, tutte le incognite possibili degli sviluppi delle posizioni individuali.

- Gli accordi del 321 provvidero in effetti a una nuova ripartizione delle satrapie, in generale, e già con essa minarono ulteriormente il principiò dell’unità dell’impero; essi avevano messo in gioco anche personalità destinate a un grande futuro, come Seleuco, che ottenne la satrapia di Babilonia. Questi accordi mettono in luce anche una notevole chiaroveggenza in Antipatro, in quanto riflettono il suo tentativo di scongiurare un conflitto che poi si rivelerà, per un ventennio, come centrale, anzi come il filo conduttore della dinamica dei conflitti fra i Diadochi: quello che opporrà il figlio Cassandro, da un lato, e Antigono e Demetrio, dall’altro – un contrasto di personalità, ma anche di princìpi politici e concezioni statali.

- A scopo di conciliazione, Antipatro metteva Cassandro accanto, e subordinato, ad Antigono (stratego dell’Asia), come comandante della cavalleria: ma prestò dovrà richiamarlo in Macedonia, per l’impossibilità di accordo fra i due. D’altro canto, Antipatro tentava di rinsaldare i rapporti con il matrimonio tra la figlia Fila, vedova di Cratero, e Demetrio, figlio di Antigono. All’interno della prospettiva storica aperta dai Macedoni, Antipatro rappresenta un caso di saggezza politica, volta a conservare, se non un’unità formale dell’impero, che diveniva ogni giorno più teorica, almeno l’armonia tra le diverse parti in causa. I fatti successivi non assecondarono le intenzioni del vecchio macedone, che nondimeno vanno ben considerate.

- Le decisioni prese da Antipatro prima della morte (319) sono delle soluzioni interlocutorie, in cui alla preminente intenzione legittimistica si mescola il riconoscimento di fatto della ricostituita dicotomia tra Europa ed Asia: il vecchio generale, morendo, non lasciava al figlio Cassandro le sue stesse posizoni di potere, ma nominava ‘reggente del regno’ il veterano Poliperconte, conferendogli però allo stesso tempo la carica su cui egli stesso aveva per anni fondato il suo effettivo potere, quella di ‘stratego d’Europa’; Cassandro era solo chiliarco.

- Dopo la morte di Antipatro si crea contro Poliperconte una naturale coalizione tra i quattro personaggi più importanti del momento: Antigono, stratego dell’Asia dal 321; Tolemeo, rimasto saggiamente satrapo d’Egitto, rifiutando offerte maggiori nei territori extra-europei conquistati; Cassandro, rientrato già nel 321 in Macedonia col padre; e Lisimaco, saldamente insediatosi in Tracia.

- Antigono in Asia è il più attivo: sconfigge in Pisidia il fratello di Perdicca, Alceta, che viene assassinato dai suoi (319), e costringe Eumene a rinchiudersi nella fortezza di Nora, ai confini tra Cappadocia e Licaonia.

- In Europa, morto Antipatro e tenuto a freno Cassandro, è dominante la figura di Poliperconte, che già aveva partecipato alle campagne d’Asia di Alessandro, come capo di una parte della falange. In Asia, Antigono, accantonata per il momento la resa dei conti con Eumene, procede ad eliminare gli ostacoli minori, attaccando la Frigia ellespontica di Arideo e la Lidia di Clito; così egli s’impadronisce di Efeso e di una cospicua somma di denaro, 600 talenti, che erano destinati al tesoro macedone: ormai la rottura fra i due principali protagonisti, Antigono e Poliperconte, è consumata; Cassandro abbandona la Macedonia e raggiunge Antigono.

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4. La politica dei generali macedoni in Europa- Ormai Poliperconte entra sempre di più nel suo ruolo di ‘governatore dell’Europa’, anche se

per conto della dinastia argeade; solo, capovolge le linee della politica verso i Greci, mettendo in luce una delle due anime che caratterizzano l’atteggiamento macedone verso i regimi politici interni alle città greche. Egli emetto così nel 318 un celebre decreto, con cui si restaurano i regimi già vigenti sotto Filippo, si richiamano gli esuli, si ritirano le guarnigioni macedoni, si restituisce Samo ad Atene: un programma dunque di libertà e di autonomia, che di fatto significa per Atene democrazia (restaurata nel 318 appunto).

- Ma nello stesso 318 cominciano i rovesci per Poliperconte: Clito, che si appoggia a lui, è sconfitto da Antigono sul Bosforo; ad Atene Cassandro, installatosi al Pireo, impone il governo di Demetrio del Falero, un peripatetico allievo di Teofrasto – fu restaurata ancora una volta la costituzione timocratica, con abbassamento del censo però a 10 mine: Demetrio, nominato epimeletés tês póleos, governerà la città per ben 10 anni.

- Ora Cassandro rientra in forze in Macedonia e affronta Poliperconte, a cui non resta che abbandonare il campo portandosi dietro Alessandro IV e Rossane, a causa delle numerose defezioni in favore del figlio di Antipatro; è adesso che nasce l’alleanza formale tra Cassandro ed Euridice; la donna sostituisce di fatto il marito, Filippo Arideo, debole di mente, nell’esercizio del potere politico. In Grecia si schierano per Cassandro le regioni centro-orientali, dalla Tessaglia alla Locride alla Beozia e all’Eubea; gli Etoli e la maggior parte dei Peloponnesiaci tengono invece per Poliperconte.

- Mentre Cassandro è impegnato nell’assedio di Tegea in Arcadia, avviene il rientro di Olimpiade dall’Epiro in Macedonia, dietro sollecitazione di Poliperconte: Euridice la affronta al confine fra le due regioni, ma le truppe macedoni l’abbandonano per passare dalla parte della prestigiosa madre di Alessandro Magno, che prende allora tutte le sue vendette, facendo Uccidere Filippo Arrideo ed Euridice, il fratello di Cassandro Nicanore, e un altro centinaio di nemici (estate-autunno 317).

- Alla notizia di questi avvenimenti Cassandro lascia l’assedio di Tegea per la Macedonia; Olimpiade si chiude in Pidna, con Alessandro IV e Rossane, ma nella primavera del 316 è costretta a capitolare, anche a seguito delle numerose defezioni. Le condizioni della resa le garantivano salva la vita, ma non fu possibile per Cassandro resistere alla richiesta dei parenti delle vittime dell’ira sanguinaria di Olimpiade, di sottoporla a un processo di fronte al tribunale del popolo macedone; ne seguì la condanna a morte. L’orgogliosa regina non accettò di fuggire ad Atene su una nave che Cassandro sembra averle offerto; Alessandro IV fu comunque trasferito ad Anfipoli sotto la custodia di Cassandro. Questi, da canto suo, fondava nel 316 una città che prendeva il suo nome, Cassandrea, sul sito di Potidea (distrutta da Filippo II nel 356), e forse nello stesso anno anche Tessalonice, presso l’antica Terme. Certamente, sempre nel 316, Cassandro richiamava in vita Tebe, tra il giubilo di tanti Greci: una politica dunque, verso i Greci, cauta sul piano dei regimi politici interni, ma aperta e sensibile sul terreno dell’insopprimibile esigenza greca di tenere in vita o rivitalizzare le póleis e le loro tradizioni.

- In Asia continuava intanto il confronto tra Antigono e i suoi nemici vecchi e nuovi. Eumene, che Poliperconte aveva nominato ‘stratego d’Asia’ (in opposizione ad Antigono), rotto ormai il blocco di Nora, aveva raggiunto la Fenicia e poi la Siria. In Mesopotamia si era formata un’alleanza tra Seleuco, satrapo di Babilonia, e Pitone, già satrapo di Media. Quando Eumene raggiunge la Mesopotamia, chiede invano a Seleuco e a Pitone il

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riconoscimento della sua autorità sull’Asia; ottiene però di poter varcare il Tigri, mentre già Antigono è impegnato nel suo inseguimento: dopo diverse campagne la sconfitta definitiva di Eumene avviene a Gabiene; le sue truppe defezionano e si uniscono a quelle di Antigono; Eumene e i suoi collaboratori sono uccisi (316). Ma neanche a quelli che non avevano collaborato con Eumene andò troppo bene: Antigono represse un tentativo di ribellione di Pitone, che fu giustiziato, e si mosse verso Babilonia per chiedere a Seleuco i rendiconti della sua amministrazione come satrapo della regione; quest’intenzione provocò la fuga di Seleuco, che presto raggiunse Tolemeo in Egitto.

- Il secondo periodo delle lotte dei Diadochi (321-316) è dunque caratterizzato da una progressiva assunzione del ruolo di erede di Alessandro in Europa da parte di Cassandro, e di erede in Asia da parte di Antigono; restano sullo sfondo residui progetti legittimistici, di cui sono protagonisti Eumene, Poliperconte, Olimpiade. Il realismo della politica di spartizione è già presente nell’azione politica di diversi personaggi, ma non riesce a conseguire subito tutti i suoi risultati. Contro le ambizioni imperiali di Antigono si determina, come già un tempo contro le posizioni legittimistiche di Poliperconte, una coalizione di quei sostenitori del principio particolaristico che ormai, dopo i drammatici eventi del 316, escono pienamente allo scoperto: Tolemeo, Lisimaco e lo stesso Cassandro.

- Padrone dell’Asia di là dal Tauro, Antigono rivolge ora il suo sforzo di conquista, nella stessa esaltata logica territoriale e politica di Perdicca, verso i dominii di Tolemeo. La sua marcia contro l’Egitto comporta l’invasione di Siria, Fenicia e Palestina: egli conquista Ioppe e Gaza, pone l’assedio a Tiro (315), cerca di sottrarre a Tolemeo il possesso dell’isola di Cipro e a tutta prima vi riesce per la maggior parte delle città dell’isola (fa eccezione Salamina, soggetta a Nicocreonte); subito però Tolemeo riprende il controllo della situazione.

5. La politica greca di Antigono e di Tolemeo (315-313)- Antigono cerca di guadagnare a sé la Grecia: il primo passo è un’alleanza con Poliperconte,

che diventa ‘stratego del Peloponneso’ in nome del re Alessandro IV; a Tiro è convocata un’assemblea dell’esercito macedone, che proclama Antigono reggente del regno, dichiarando Cassandro come nemico, salvo che non consegni Alessandro IV e la madre Rossane e lasci i Greci autonomi e liberi da guarnigioni e tributi.

- È così ripetuto nel 315 il proclama di Poliperconte sulla libertà dei Greci, una tema che non entra certo solo allora nella storia dell’azione e propaganda politica macedone, essendo già fra le pieghe della politica di Filippo II e di Alessandro Magno. Non si trattava di un semplice espediente retorico e propagandistico, ma di un grande tema politico, che tanti protagonisti della storia ellenistica dovranno negli anni successivi tener presente, così come era stato ben presente alla generazione di uomini politici che aveva creato il nuovo assetto delle regioni del Mediterraneo orientale.

- A tutta prima Antigono ottiene in Grecia solo il favore degli Etoli, mentre l’intervento di Cassandro nel Peloponneso impedisce alla parte avversa di registrare particolari successi; anzi ne segue la defezione, da Antigono a Cassandro, dello stesso Poliperconte e di suo figlio Alessandro (ucciso poco dopo dai democratici di Sicione).

- Nel 314, con una flotta composta di navi rodie, cilicie e fenicie, Antigono può conseguire alcuni grandi risultati: conclusione dell’assedio di Tiro; attacchi alle posizioni di Atene (allora sotto il controllo di Demetrio del Falero) nell’Egeo, e acquisizione di Lemno e di

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Imbro; liberazione di Delo. Tra la fine del 314 e la primavera del 313 egli estende il suo dominio anche in Asia minore, nella parte cistaurica della penisola, eliminando il satrapo di Caria, e acquisendo alla sua parte Mileto, che divenne libera e autonoma per volere di Antigono, tra l’altro restituendole la democrazia – un’applicazione coerente del programma di Alessandro Magno e dello stesso Poliperconte in tema di rapporti con le vecchie città greche e di assetti politici interni. In Tracia invece i suoi sforzi furono vani, e le truppe di Antigono venivano battute da quelle di Lisimaco.

- Il 313 portava però significativi successi in Grecia per Antigono, che raccoglieva evidentemente i frutti della sua politica filoautonomistica e filodemocratica: il Peloponneso, la Beozia, l’Eubea passavano dalla sua parte o resistevano agli attacchi di Cassandro, al quale presto restarono solo il Pireo, Megare, Opunte nella Locride e alcune cittá focesi; vacillava anche il dominio di Cassandro in Acarnania e Illiria.

- Oltre a Cassandro, e in parte anche Lisimaco, il bersaglio principale di Antigono, in questa lunga terza guerra dei Diadochi (315-311), era evidentemente Tolemeo. Questi andava d’altronde consolidando il suo dominio nel Mediterraneo orientale, dominio che, pur avendo il suo fulcro nell’Egitto, aveva come necessarie aree di appoggio e di espansione Cipro, la Cilicia, la Siria. A Cipro un intervento personale di Tolemeo doma una rivolta dei re delle diverse città: il fedele Nicocreonte di Salamina è fatto stratego dell’isola; in Cilicia Tolemeo prende temporaneamente Mallo.

6. Verso un assestamento: da Gaza (312) alla pace del 311- Ma lo scontro principale con la parte antigonide doveva avvenire in Celesiria, dove il figlio

del Monoftalmo, Demetrio, subiva a Gaza una dura sconfitta nella primavera del 312 a.C., nonostante la superiorità che gli avrebbero dovuto garantire i 40 elefanti che poté mettere in campo. Demetrio dovette per il momento ritirarsi fin oltre Sidone.

- La conseguenza più decisiva più decisiva della sconfitta di Gaza fu il rientro in Babilonia dell’ex-satrapo Seleuco, rifugiatosi qualche anno prima presso Tolemeo. Seleuco fu accolto trionfalmente dalla popolazione locale, e mostrò subito intraprendenza e fermezza nel consolidare ciò che aveva riconquistato, nell’estendere i suoi dominii e nel venire a capo di ripetuti tentativi di Antigono di ribaltare la situazione: tolse al satrapo Nicanore la Susiana e la Media, ottenne da parte degli altri satrapi il riconoscimento della sua sovranità fino alla Battriana e all’India, tornò in possesso di Babilonia (che Demetrio aveva precedentemente conquistata).

- Anche l’offensiva antigonide in Grecia subiva una decisiva battuta d’arresto, dopo la sconfitta di Gaza; le posizioni di Cassandro si rafforzavano un po’ dovunque (Atene, Epiro). Antigono reputò opportuno stipulare un accordo di pace con Cassandro e Lisimaco, a cui presto si aggiunse Tolemeo; Seleuco non sembra (nonostante autorevoli pareri contrari) avervi preso parte. Ad Antigono veniva di fatto riconosciuto il controllo di tutta l’Asia, e i Greci dovevano essere autonomi: alla completezza della sovranità di Antigono sull’Asia era d’ostacolo la costituzione del vastissimo dominio di Seleuco, che evidentemente Antigono non intendeva riconoscere come definitivo. Più definite, e anche più sicure, le acquisizioni di Tolemeo in Egitto e nelle regioni confinanti di Libia e di Arabia, e quelle di Lisimaco in Tracia; Cassandro invece doveva restare ‘stratego d’Europa’ fino alla matura età di Alessandro IV: la clausola fu però solo premessa all’assassinio di questo e della madre Rossane nel 310/9 ad opera di Cassandro. Con la pace del 311 nasceva forse, come spesso si

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è affermato, il sistema dei cinque regni ellenistici, ma più come ripartizione di fatto che non come stato di cose definitivamente accettato dal maggiore protagonista, Antigono: la crudele ingenuità della clausola sull’assunzione dei pieni diritti da parte di Alessandro IV sta a dimostrare, se non altro, la persistenza in Antigono di illusioni ambiziose, ma anche generose (la vasta unificazione sotto la dinastia degli Argeadi). Fra tutti i Diadochi, egli è quello che più agita idee, sbandiera princìpi, nutre sogni e illusioni.

7. Tra la pace del 311 e la nascita delle nuove basileîai- Gli anni immediatamente successivi alla pace furono anche quelli della fondazione di grandi

capitali, che rafforzavano l’irreversibile processo in atto, verso la costituzione di regni indipendenti: Lisimachia sull’istmo del Chersoneso tracico, Antigonea sull’Oronte (dove più tardi Seleuco I fonderà Antiochia), Seleucia sul Tigri – tutte città che prendono nome dal fondatore e signore vivente, mettendo in luce il ruolo della personalità politica nelle vicende dell’epoca, che è quella di personaggi che dispongono di un rilevante potere militare.

- L’assassinio di Alessandro IV e di Rossane ad opera di Cassandro (310/9) mise in moto reazioni a catena sul territorio greco; protagonisti ne furono, il vecchio e sempre attivo Poliperconte, il nipote di Antigono, Polemeo, Tolemeo stesso e infine nuovamente, e con gli esiti più rilevanti, Antigono e il figlio Demetrio.

- Poliperconte tentò nel 309 il rientro in Macedonia, facendosi tra l’altro scudo del figlio illegittimo di Alessandro Magno, Eracle di Barsine, allora nell’età dell’adolescenza; ma Cassandro parò la minaccia riconoscendo a Poliperconte la strategia del Peloponneso; il patto ebbe come prezzo, troppo facilmente pagato da Poliperconte, l’assassinio di Eracle.

- Tolemeo era divenuto particolarmente in questo periodo, e nel 309 metteva piede in Licia, in Caria e nell’isola di Cos; si candida alle nozze con Cleopatra, figlia di Filippo II, ma Antigono la fa uccidere. D’altra parte, l’indebolimento del prestigio di Poliperconte dopo l’uccisione di Eracle di Barsine, induce Tolemeo a dirigere i suoi piani verso la Grecia: un accordo con Antigono, siglato con l’assassinio di Polemeo (nipote di Antigono che aveva tramato contro lo zio insieme a Tolemeo), apriva al Sotère (Tolemeo) la strada della Grecia, dove lui insediava le proprie guarnigioni a Corinto, Sicione e Megara. Presto però Tolemeo preferì accordarsi con Cassandro e ritornare nei binari, provvisoriamente abbandonati, di una politica realistica, e prudentemente fondata sull’idea di centralità dell’Egitto, con i suoi annessi geografici e storici.

- Di maggior respiro, perché dotata di più profonde radici, la politica ‘greca’ anticassandrea, praticata da Antigono dal 307 in poi. Fino al 309/8 egli aveva tentato invano di contrastare il radicarsi di Seleuco in Babilonia. Nel 307 la flotta di Demetrio Antigonide occupava di forza il Pireo, e portava direttamente la sua minaccia su Atene, governata ormai da dieci anni da Demetrio del Falero, in nome di Cassandro (una tirannide illuminata, ma intrisa comunque di ostentazione e dalla sollecitazione di un vero culto personale, nonché dalla presenza della guarnigione macedone e delle limitazioni dei diritti politici). Pronta fu dunque la sollevazione popolare di Atene, in favore del Poliorcete; il Falero lasciò subito la città; ad Atene il Poliorcete manteneva i suoi impegni, in temà di libertà e autonomia: fu restaurata la piena democrazia (non radicale, invero, anch’essa ormai moderata); ad Antigono e Demetrio furono dedicate statue d’oro sull’agorá, accanto a quelle dei tirannicidi Armodio e Aristogitone e gli fu tributato il titolo di basileîs; Atene da canto suo

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recuperava Lemno e Imbro. La formula di Filippo II, di una ‘guerra limitata’ con Atene, nel rispetto di alcune tradizioni ed esigenze vitali di questa città, si mostrava ancora efficace.

- A bloccare eventuali tentativi di recupero di Tolemeo in Greci, nel 306 si svolge la grande offensiva di Demetrio Poliorcete contro Cipro e la sua principale base tolemaica, Salamina: la guerra di terra si completa con un poderoso scontro navale, in cui si affrontano le flotte di Demetrio Poliorcete e dello stesso Tolemeo, che di circa 200 navi portò in salvo a Cizio soltanto 8: l’isola ormai era nelle mani di Demetrio, e a Tolemeo non restaav che rifugiarsi in Egitto, anche per provvedere alla difesa di un territorio non più al riparo da gravissimi rischi.

- La vittoria di Salamina cipria dà l’avvio alla nascita formale dei regni ellenistici, con l’assunzione del titolo di basileús, per sé e per il figlio, decisa dal Monoftalmo. Egli intendeva naturalmente con ciò il regno come unitario, il suo regno come il regno per eccellenza: ne seguì, di conseguenza, l’ingente attacco contro l’Egitto, con 80.000 cavalieri, 83 elefanti e una flotta di 150 navi. Egli giunse con l’esercito fino al ramo più orientale del delta del Nilo, però non riuscì a penetrare con la flotta; il sopraggiungere dell’autunno (305) gli impose il rientro in Siria. Fu allora che Tolemeo assunse ufficialmente a sua volta il titolo di basileús, presto imitato da Cassandro, Lisimaco e Seleuco

- La partita in Grecia si giocava ormai tra Demetrio e Cassandro, che rappresentavano anche le due scelte politiche di fondo: entrambe filelleniche, ma l’una di stampo autonomistico-democratico, l’altra di carattere più conservatore in politica interna e ispirata al principio di un controllo diretto, anche militare, nel rapporto tra regno di Macedonia e póleis.

8. La Grecia tra Cassandro e Demetrio Poliorcete dopo il 307- Nella guerra dei ‘quattro anni’ (307-304), Cassandro registrava alcuni successi, nel

Peloponneso (Corinto), in Beozia, in Attica, dove prese File, Panatto e l’isola di Salamina: egli pose l’assedio alla stessa Atene. L’avanzata di Cassandro era stata favorita dall’assedio posto a Rodi senza frutto da Demetrio, assedio durato circa un anno (305/4). Ma lo stesso Cassandro fu fermato dall’intervento in aiuto di Atene attuato da Demetrio, liberatosi dalla guerra contro Rodi mediante un trattato: nello stesso 305 Demetrio (che ormai si profila come quello degli Antigonidi che s’interessa specificamente alla Grecia e che tenta di aggregare l’Europa alla parte asiatica del regno paterno) è in grado di liberare da Cassandro l’Eubea, Atene, la Beozia e la Focide, e di ottenere l’alleanza degli Etoli. Nel 303 è la volta della maggior parte del Peloponneso (Sicione, Corinto, Argo, l’Acaia, l’Elide, gran parte dell’Arcadia) di passare sotto il controllo del Poliorcete; solo la Messenia, Mantinea e qualche altra località restano nelle mani di Poliperconte (dal 309 ridotto ormai alla condizione di rappresentante di Cassandro).

- E alle feste Istmie, celebrate presso Corinto nella primavera del 302, Demetrio può ricostituire la Lega ellenica: i Greci (quelli a sud delle Termopile, cioè quella parte della Grecia che era stata da sempre il vivaio delle libere póleis) giuravano di non farsi guerra fra loro e di restar fedeli alla casa di Antigono.

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9. La grande coalizione contro Antigono, fino alla battaglia di Ipso (301)- Contemporaneamente si avvia la reazione della coalizione avversa ad Antigono e Demetrio,

una gigantesca manovra a tenaglia, che tuttavia, per arrivare a un conclusivo esito positivo, impiega più di un anno. A muoversi per primo è Lisimaco, che attraversa l’Ellesponto per attaccare l’impero di Antigono sul fianco occidentale, nell’Asia minore ad ovest del Tauro, nello stesso 302, sostenuto da truppe di Cassandro. Le defezioni degli strateghi di Antigono in Frigia e a Sardi, in una zona dell’impero particolarmente vulnerabile per la sua perifericità, e che includeva anche l’irrequieto mondo delle città greche, favoriscono l’avanzata di Lisimaco. In una prima fase questi, raggiunto da Antigono in Frigia, cercò di sottrarsi allo scontro frontale, dando così l’impressione ai suoi stessi soldati di non saper affrontare il temibile nemico.

- I successi nel frattempo conseguiti da Demetrio Poliorcete anche in Tessaglia si rivelarono effimeri: egli dovette persino adattarsi a un accordo con Cassandro, per avere le mani libere per un intervento in Asia minore in aiuto del padre; Cassandro però inviava ulteriori soccorsi a Lisimaco, al comando di suo fratello Plistarco.

- La manovra a tenaglia sul regno asiatico di Antigono si compiva comunque solo con l’intervento di Seleuco e di Tolemeo – decisivo fu quello di Seleuco. Nella primavera del 301 l’offensiva contro Antigono si scatena su tutti i fronti: in Grecia, Cassandro avanza fino ad Elatea; in Fenicia Tolemeo si porta fino all’altezza di Sidone, che stringe con un assedio destinato a concludersi al sopraggiungere d’una falsa notizia, che dava Antigono vincitore in Anatolia su Lisimaco e Seleuco. Era accaduto il contrario: a Ipso (in Frigia) avevano vinto i collegati contro Antigono, soprattutto per l’impatto degli elefanti di Seleuco soverchianti per numero (480 contro 75), ma anche per l’imprudenza di Demetrio, abbandonatosi a uno sconsiderato inseguimento della cavalleria avversaria: Antigono, che invano aveva sperato nel ritorno del figlio, trovava una gloriosa morte sul campo (estate del 301).

- Ne seguì la spartizione dei dominii asiatici di Antigono: a Seleuco andarono la Siria e progressivamente i restanti possessi fino al Tauro; l’Asia minore occidentale passava nelle mani del re di Tracia, Lisimaco, che creava così uno stato europeo-asiatico, tanto complesso quanto fragile. Ipso segna in effetti il superamento di quelle soluzioni ‘composite’, che erano state agitate qualche anno dopo la morte di Alessandro, e che erano state soprattutto la caratteristica della politica di Antigono, almeno nella sua forma più pura di aspirazione all’impero unitario persistita fino al 311.

- Ancora dopo Ipso il dominio del figlio Demetrio Poliorcete comprendeva città costiere della Ionia, Caria, Fenicia, Cipro e, in Grecia, le istmiche Megara e Corinto: un variegato dominio costiero e insulare, periegeo, invitante alle avventure, ma piuttosto vulnerabile e fragile.

- La Lega del 302 si sfaldava subito dopo Ipso, segnando il fallimento del sogno politico riguardo al mondo greco di Antigono e dello stesso Poliorcete. Cassandro rimetteva piede in qualche modo in Asia, con l’affidamento al fratello Plistarco di parte della costa meridionale dell’Anatolia. Per Seleuco e il suo regno si trattò di una svolta decisiva, che, sommandosi alla rinuncia alle estreme satrapie orientali, accentuava la occidentalizzazione del regno, che ormai veniva ad avere il suo polo principale in Siria e, progressivamente, in Asia minore, perciò nel Mediterraneo orientale. Alla battaglia di Ipso non aveva invece preso parte, per un eccesso di prudenza, il re d’Egitto, Tolemeo. Tuttavia la sua campagna del 302 non doveva nelle sue intenzioni restare senza effetti: egli non volle cedere a Seleuco la Siria meridionale e quella interna, che per sé reclamava il re di Babilonia; si apriva così un contenzioso

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inesauribile tra le due monarchie, che porterà nel corso di un secolo e mezzo a ben sei guerre dette “di Siria”, combattute per spostare verso nord o verso sud il labile confine fra le rispettive zone di dominio.

10. Il recupero di Demetrio dopo Ipso (301-291)- Dopo Ipso cominciano per Demetrio Poliorcete anni difficili, che egli seppe affrontare con

duttile realismo, in attesa di una ripresa che non tardò a venire e alla quale egli diede i contorni di una politica ben diversa da quella perseguita mentre era in vita il padre. Fu Atene a dare il segnale della rivolta: l’influenza del partigiano di Demetrio, Stratocle di Diomea, crollò, mentre crescevano uomini come Democare di Leuconoe, il nipote di Demostene, e il comico Filippide di Cefisia. Il distacco di Atene da Demetrio avvenne comunque all’insegna del fair play: la moglie Deidamìa fu accompagnata a Megara; a Demetrio, su sua richiesta, furono consegnate le navi da guerra in sosta al Pireo – l’alleanza con il Poliorcete era dunque lasciata cadere, e in sua vece subentravano buoni rapporti con Lisimaco e con Cassandro. Ma anche Beozia, Focide, Argo defezionavano da Demetrio, che ormai controllava solo Corinto e Megara, e parte dell’Argolide, dell’Acaia e dell’Arcadia.

- La figura e l’opera di Pirro, re d’Epiro, si iscrive pienamente nel contrasto che oppone Antigono e Demetrio, da un lato, e Cassandro dall’altro. Il rapporto di ostilità con Cassandro segna i primi vent’anni della vita di Pirro (nato circa il 318 a.C.), ed è addirittura un dato ereditario. Il padre Eacide, parente di Olimpiade, viene infatti eliminato nel 317 a.C. da Cassandro, che espande la sua autorità sull’Epiro, attraverso uomini di fiducia e l’imposizione di Alceta. Pirro, ancora in tenerissima infanzia, viene messo in salvo presso il re illirico Glaucia; vi resta fino al 306, quando, nel clima di successi di Demetrio Poliorcete e di forte ripiegamento di Cassandro, in Epiro Alceta è abbattuto, e Pirro messo sul trono. Nel 302 il ragazzo è di nuovo cacciato dal trono; ad Ipso combatte al fianco di Demetrio (che nel frattempo ne aveva sposato la sorella Deidamìa). Nel 298, dopo una tregua tra Demetrio e i suoi nemici, gli epiroti richiamano Pirro sul trono, Tolemeo consenziente. Nel maggio 297 muore Cassandro; e Pirro fronteggerà ormai i diversi personaggi che aspirano a un dominio sulla Macedonia, ai danni dei figli di Cassandro: da Demetrio stesso a Lisimaco.

- Il personaggio Pirro è caratterizzato da un attivismo inquieto, che si dispiega su tutti i fronti. Già parecchio prima dell’intervento in favore di Taranto nel 280, egli è fra tutti i diadochi ed epigoni di Alessandro quello più attento alle possibilità d’intervento in Occidente: ve lo indirizzano la posizione geografica dell’Epiro e la tradizione dei re di quella regione, in particolare di Alessandro il Molosso. All’impegno dispiegato su larga scala non corrisponderà mai un reale e stabile successo; ma in essi egli portava però la genialità e il valore del grande generale, rafforzato poi dal mitistorico richiamo ad Achille. Questa coscienza Pirro porterà durante la spedizione in Italia, dove egli combatterà come un re panellenico, quasi un nuovo Achille contro i Romani discendenti dei Troiani, e come un nuovo Alessandro Magno contro i barbari.

- La morte di Cassandro, nel 298/7, mette in moto un processo vorticoso di scontri, in cui tutto sembra rimesso ancora una volta in gioco nel Mediterraneo orientale, anche se, a conti fatti, l’area dove si verifica il maggiore sconvolgimento è ormai quella greco-macedone. Ad Atene un democratico radicale, Lacare, che esercita il potere in forma tirannica, suscita contro di sé la reazione di amici di Demetrio, che provocano l’intervento di quest’ultimo. Demetrio riesce a conquistare Salamina, Eleusi e assedia Atene, da cui Lacare dovette

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cercare scampo in Beozia (inizio del 294). Demetrio restaurò ad Atene la democrazia, ma pose guarnigioni sulla collina del Museo in città. La presenza attiva e i successi in Grecia costarono al Poliorcete perdite nel settore orientale (Efeso e Mileto, Cilicia, gran parte di Cipro) in favore di Lisimaco, di Seleuco, di Tolemeo, rispettivamente; ma le novità maggiori dovevano riguardare in quegli anni tumultuosi il teatro greco-macedone.

- A Cassandro era succeduto sul trono di Macedonia, ma per soli quattro mesi, il figlio Filippo; morto quest’ultimo, il regno era passato ai più giovani fratelli Antipatro e Alessandro, sotto la tutela della madre Tessalonice, che favoriva Alessandro, al quale fu riservato il nucleo stesso della Macedonia, nonché la Tessaglia; ad Antipatro era riservata la parte orientale. Antipatro uccise la madre, e si rivolse contro il fratello, il quale chiamò in suo aiuto Pirro e Demetrio. Quando però Demetrio fu arrivato, Alessandro gli si fece incontro per licenziarlo – lo accompagnò anzi nella marcia di ritorno fino a Larissa, dove Demetrio durante un pranzo lo uccise a tradimento.

- Solo Lisimaco potrebbe ormai impedire l’accesso di Demetrio al trono di Macedonia; ma, preso da una guerra contro il re dei Geti, Lisimaco si acconciò a un compromesso e a uno scambio: a Demetrio Macedonia e Tessaglia, a se stesso i possedimenti d’Asia di recente acquisizione. Puntualmente, la storia politica delle due regioni tende a scindersi di nuovo anche a dispetto di qualche apparenza contraria, poiché il regno eurasiatico di Lisimaco rivelerà, in meno di un quindicennio, tutta la sua instabilità e improbabilità.

- Nel 294 Demetrio controllava ormai quasi l’intera Grecia, ad esclusione di Sparta, e ancora ad eccezione della libera Etolia e dell’Epiro, nel quale si era ormai consolidato il potere di Pirro, personaggio destinato ad animare coi suoi disegni avventuristici il prossimo ventennio di storia greca. Demetrio fondava una sua capitale, Demetriade, al centro della Grecia; sul piano politico fu fortemente limitata l’autonomia della Beozia (anteriormente ribellatasi), con l’insediamento di un funzionario alle dipendenze del re, e con l’installazioni di guarnigioni nelle singole città – anche per questo aspetto la politica di Demetrio dopo Ipso conosce dunque una significativa innovazione (e involuzione).

11. Demetrio contro tutti- Un po’ alla volta si vanno riannodando i fili tra i diversi sovrani ostili a Demetrio. In un’età

caratterizzata dal predominio di forme di potere personale, è del tutto comprensibile che il filo dei grandi conflitti politici e ideologici si alterni e intrecci con quello delle politiche personali e dinastiche. Un primo assaggio dell’ineludibile contrasto con la personalità emergente nella penisola greca, il re d’Epiro Pirro, Demetrio lo ha fra il 290 e il 289, quando tenta invano interventi in Etolia e in Epiro, ma poi riesce a bloccare una controffensiva di Pirro, giunto in Macedonia fino alle porte di Edessa. La pace stipulata tra Pirro e Demetrio nell’autunno del 289 consentiva a quest’ultimo di riprendere i suoi piani verso est.

- Ma se Lisimaco era stato finora inerte di fronte al rafforzamento di Demetrio, lo si doveva solo alle disavventure in cui era incorso nella guerra contro il geta Dromichaite. Tra il 289 e il 288 si forma però una nuova coalizione tra Lisimaco, Seleuco e Tolemeo, a cui presto aderisce Pirro. Demetrio, stretto fra due fuochi (Lisimaco da est, Pirro da ovest), sceglie di affrontare il nemico che crede meno potente, il re epirota; ma, al momento del contatto tra i due eserciti nemici, quello di Demetrio defeziona e il re è costretto ad abbandonare il campo in umiliante fuga (alla vergogna non resse la moglie Fila, che si tolse la vita avvelenandosi). Fra Pirro e Lisimaco avvenne una spartizione della Macedonia, forse negli stessi termini

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della divisione attuata fra i due figli di Cassandro. Anche Atene intanto si ribellava a Demetrio, sotto la guida di Olimpiodoro (estate 288 o 287).

- Un tentativo di rientro in Atene compiuto dal Poliorcete fu vanificato da un intervento di Pirro, forse nell’estate del 287; restarono tuttavia nelle mani del Poliorcete Eleusi, il Pireo, Panatto e File, in territorio attico, nonché Salamina, e le cleruchie di Sciro, Lemno e Imbro. L’ultima avventura Demetrio la tenterà in Asia, sbarcandovi nell’autunno del 287 e acquisendo Mileto, Sardi e il sostegno della Cappadocia in vista di un’invasione della Media e una conquista delle satrapie superiori ai danni di Seleuco. Gli inizi dell’impresa sembravano resi facili dalla scarsa popolarità di Lisimaco nella regione, ma Seleuco non volle accettare la presenza di Demetrio in Cilicia, offrendogli in cambio la più interna Cataonia; Demetrio rifiutò l’accordo e ne seguì la guerra fra i due. Un fallito assalto alle posizioni di Seleuco indusse alla defezione l’esercito del Poliorcete, che poté ormai soltanto darsi alla fuga, nel tentativo di raggiungere il mare. Seleuco glielo impedì e ne ottenne poco dopo la resa (inverno 286/5), cui seguì un’onorevole prigionia riservata da Seleuco al nemico e consuocero Demetrio, in una residenza reale presso Apamea dell’Oronte, dove nel 283 Demetrio si spense, a 54 anni, per malattia.

12. Lisimaco, Seleuco, Antigono Gonata- Durante l’assenza di Demetrio dal suolo europeo, ne rappresentava gli interessi il figlio

Antigono Gonata. Questi riuscì a conservare faticosamente il Pireo, ma non poté impedire che Eleusi fosse recuperata dagli Ateniesi, al comando di Democare. Un accordo stipulato tra il Gonata e Pirro, ormai in conflitto con Lisimaco, consentì al re epirota di affrontare presso Edessa l’avversario re di Tracia: ma un ammutinamento dei Macedoni dell’esercito di Pirro, in favore del vecchio e prestigioso compagno di Alessandro, indusse Pirro a rientrare in Epiro, lasciando così Lisimaco, nel 284, in possesso dell’intera Macedonia. Le posizioni di Lisimaco in Grecia si rafforzavano rapidamente, come rapidamente si deterioravano quelle del Gonata, a cui, in breve volgere di tempo, rimasero solo alcuni capisaldi (il Pireo e Megara a sud, la Beozia e Demetriade al centro). Un rafforzamento non piccolo ebbe Lisimaco sul piano politico generale col matriomonio di sua figlia Arsinoe con l’erede di Tolemeo I, poi divenuto il Filadelfo, associato dal padre al trono già nel 285, e succedutogli nel 283.

- Fu una tragedia familiare e dinastica a mettere in moto il meccanismo che fece precipitare Lisimaco dalla posizione di particolarissimo rilievo che si era conquistata nel mondo ellenistico. La giovane moglie di Lisimaco, Arsinoe, figlia di Tolemeo I, mise in cattiva luce il figliastro Agatocle (nato dal matrimonio di Lisimaco con Nicea figlia di Antipatro il reggente), ottenendo dal re la sua condanna a morte: e la vedova di Agatocle, Lisandra, insieme con i fratelli e un altro figlio di Lisimaco, cercò scampo presso Seleuco; alla rivolta si unì anche Filetero, tesoriere di Lisimaco, di stanza a Pergamo (da lui trae origine la dinastia pergamena degli Attalidi).

- Seleuco superò allora il monte Tauro e invase la parte dell’Asia minore che era in possesso di Lisimaco; ovunque egli fu accolto trionfalmente, o senza che gli s’opponesse seria resistenza. Poco a nord di Magnesia del Sipilo, a Curupedio, nell’estate del 281 si svolse lo scontro decisivo con Lisimaco, che era sopravvenuto dall’Europa e trovò la morte sul campo; subito passavano dalla parte di Seleuco altre città, come Efeso. Seleuco mirava ora a cogliere tutti i frutti della sua vittoria, ricostituendo a suo vantaggio, e con dimensioni

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maaggiori, quello stato eurasiatico, di cui aveva da poco privato Lisimaco: egli voleva infatti finire i suoi giorni come re di Macedonia (benché anche a lui, che tante prove aveva dato di realismo politico, dovesse apparire ben chiara l’impossibilità di una struttura ‘unitaria’ di un impero esteso sui due continenti, se progettò una spartizione di fatto col figlio, Antioco I, a cui sarebbe toccato di governare le province asiatiche).

- Ma a questi disegni pose una brusca fine Tolemeo, che presto sarà detto Cerauno (fulmine), il fratello della vedova di Agatocle, che era rimasto deluso nelle sue attese di restituzione sul trono d’Egitto (ormai saldamente assicurato al Filadelfo), e perciò scelse di eliminare Seleuco a tradimento; questi solo da poco aveva messo piede sul suolo europeo, nel Chersoneso tracico, e si accingeva a conquistare sia la Tracia sia la Macedonia, quando venne ucciso dal Cerauno, che ora poté rivendicarle e acquisirle per sé (inizio del 280). Gli impegni diversi di Pirro (in procinto di raggiungere Taranto, per soccorrerla contro Roma) e dello stesso Antioco I (attivo nelle satrapie interne del suo impero), facilitarono decisamente il compito a Tolemeo Cerauno. L’unico che provò a sbarrargli il passo fu Antigono Gonata, che per terra e per mare cercò di recuperare i dominii parterni di Macedonia e Tessaglia: ma una durissima sconfitta navale, inflittaglia nello stesso 280 dal Cerauno, non solo assicurò a quest’ultimo il dominio in Macedonia, ma fu anche l’occasione per una rivolta generalizzata di quelle parti della Grecia che erano sotto il controllo di Antigono (tra l’altro Atene recuperò il Pireo). La pace stipulata da Tolemeo Cerauno con Antioco I sembrava comunque garantirgli un lungo regno: ma appena un anno dopo questi tumultuosi eventi, Tolemeo cadeva combattendo contro i Celti (Galati) invasori della Grecia (279). La Macedonia doveva trovare, dopo qualche altro anno di sussulti, un suo stabile assetto, per più di un secolo, proprio ad opera di quell’Antigono Gonata che nel 280 sembrava quasi destinato a scomparire dalla grande scena politica del mondo ellenistico.

- Un importante elemento di turbamento e di crisi fu rappresentato, poco dopo Curupedio, dall’invasione dei Celti: occorre tuttavia ricordare che la capacità di reazione degli stati ellenistici fu all’altezza della situazione; rapidamente i Celti furono per la maggior parte allontanati dall’Europa, ma anche dalle regioni costiere dell’Asia minore. L’uno e l’altro risultato si dovettero alla decisa reazione ellenica; e i modi di questa hanno la virtù di mettere alla prova, e di evidenziare storicamente, le nuove realtà politiche emerse nel mondo greco di età ellenistica. Tutta la nuova grecità (fatta eccezione per l’Egitto) si misurò sulla questione celtica. Il re di Macedonia, Tolemeo Cerauno, cadde nel 279 combattendo contro i barbari. Quando questi, attraverso la Tessaglia, ebbero raggiunto le Termopile, a fronteggiarli trovarono le popolazioni della Grecia centrale: Beoti, Focesi e, soprattutto, un popolo che solo ora emerge nel contesto greco, gli Etoli. Benché questi Greci non riuscissero a impedire lo sfondamento della linea di difesa delle Termopile, tuttavia sembra che il santuario delfico venisse risparmiato. Dalla resistenza, almeno in parte feconda, e dall’istituzione e celebrazione dei Sotéria, deriva e data la supremazia degli Etoli a Delfi, un notevole mutamento infatti rispetto al tradizionale assetto dell’Anfizionia e del governo del santuario.

- Passate nel 278 in Asia, su sollecitazione di alcuni satrapi, le tribù galliche furono indotte a stabilirsi nella Frigia interna (che da loro prese il nome di Galazia) a seguito della sconfitta loro inferta dal re di Siria, Antioco I nella battaglia “degli elefanti” (275/4): essa mise in luce il ruolo di campioni dell’ellenismo d’Asia minore che i Seleucidi ora si assumono e che eserciteranno più tardi i pergameni Attalidi. Negli stessi anni, e come conseguenza più o

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meno immediata degli stessi eventi, si assiste all’insediamento di uno stabile potere monarchico in Macedonia, con l’ascesa al trono (nel 277 o 276) di Antigono Gonata: nella battaglia di Lisimachia nel Chersoneso tracico (277) il Gonata aveva sconfitto le retroguardie dei Celti, che allora avevano già ormai per la maggior parte varcato l’Ellesponto – questa vittoria consegnò nelle sue mani la Macedonia. Con Pirro lo scontro si protrasse, soprattutto nel Peloponneso, fino al 272, anno dela morte di quell’irrequieto sovrano: ma ala fine degli anni Settanta Antigono aveva sotto il suo controlo anche la Tessaglia, e ampie zone del restante dela Grecia; aveva del resto suoi uomini di fidúcia (tiranni) nel Peloponneso, e guarnigioni oportunamente dislocate nei ter punti strategici dell’Ellade (Demetriade, Calcide e Corinto).

13. Il consolidamento e i suoi limiti nei decenni centrali del III secolo a.C.- Un pieno consolidamento del dominio seleucidico in Asia minore fu ostacolato da alcuni

fattori e condizioni, che in determinati periodi operarono congiuntamente, procurando i più gravi momenti di crisi al regno di Siria.

- In primo luogo, va tenuto conto del fatto che la conquista seleucidica dell’Anatolia ad ovest del Tauro era stata fin dall’inizio limitata al controllo della grande arteria di collegamento con la costa egea dell’Asia minore, e della costa medesima, cioè dell’area delle vecchie e nuove città greche, sì che permanevano stati che mai i Seleucidi aveva assoggettato o assoggetteranno, come il Ponto, la maggior parte della Cappadocia, la Bitinia. Per conseguenza anche regioni un tempo soggette, come quella di Pergamo, si rendono autonome, sollecitando l’ulteriore sfaldamento del dominio seleucidico.

- Il terzo fattore, che costituirà la causa di maggior durata delle condizioni di relativa insicurezza, in cui cronicamente versa il regno di Siria, è la vicinanza di un Egitto, assillante nella pretesa di controllo dell’area siriaca, quanto meno di quella meridionale, nel tentativo di ricomporre una coerenza territoriale da Cipro e Cilicia alle regioni siro-fenicio-palestenesi, fino all’Egitto medesimo. Le diverse guerre di Siria, che si succedono tra Siria ed Egitto tra il 280 e il 168, seguono quasi sempre lo stesso copione: lo spostamento più a sud o più a nord dei confini dei due imperi, senza influire notevolmente nella sicurezza delle parti centrali degli imperi stessi.

- La storia delle guerre siriache, come già quella della penetrazione celtica, è rivelatrice delle difficoltà in cui si dibattono i recenti regni ellenistici. Fra i sovrani, Antioco I si trovava di fronte a un carico particolare di problemi, dopo l’assassinio del padre e di fronte all’attivismo ormai dispiegato dall’Egitto, sotto il nuovo sovrano, come risulta evidente dalle prime battute del confronto tra Seleucidi e Tolemei (280/9), che provoca il formarsi di una coalizione di vari popoli d’Asia, dell’Egitto, e della Macedonia.

- La prima guerra siriaca in senso stretto è però da datare agli anni 274-270: i Seleucidi riuscirono a strappare Marato in Fenicia, nonché a suscitare la ribellione del sovrano della Cirenaica contro Tolemeo II. La politica tolemaica già nella prima guerra siriaca smette di iscriversi in un disegno di coalizione con la Macedonia. Lo scontro con la Siria è scontro diretto, e corrisponde a un tratto aggressivo, ampiamente dovuto all’influenza esercitata su Tolemeo II da Arsinoe II, la sorella uterina che egli aveva sposato. Il matrimonio tra fratelli (che ebbe sul piano cultuale il riscontro dell’istituzione del culto dei theoì adelphoí, cioè gli “dèi fratelli”) non poteva non suscitare negli ambienti greci uno scandalo, cui diede l’espressione di uno sferzante dileggio il poeta Sotade di Maronea.

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- Il raffreddamento dell’Egitto tolemaico con la Macedonia del Gonata si esasperò in aperto conflitto con la cosiddetta ‘guerra cremonidea’, che prende nome dal decreto del politico ateniese Cremonide (267): di fatto fu una coalizione tra Sparta, Atene e lo stesso Tolemeo II contro il re macedone Antigono Gonata; ma con la sconfitta del re di Sparta Areo presso Corinto, poi di Atene, essi dovettero chinare il capo di fronte al Gonata: guarnigioni macedoni al Pireo e sulla collina del Museo, un governatore macedone della città, nomina di alcuni magistrati, furono le imposizioni che Atene dovette subire nonostante alcuni alleggerimenti successivi, fino alla liberazione e restaurazione democratica favorita sia da Arato di Sicione sia dal re d’Egitto Tolemeo III nel 229/8.

- Lo scontro tra l’Egitto, da un lato, e la Macedonia e la Siria, dall’altro, ebbe la sua acme nella II guerra siriaca (260-253), quando la Macedonia sviluppò il suo massimo sforzo per realizzare una politica navale, volta soprattutto al dominio delle isole dell’Egeo, mentre la Siria di Antioco II si prendeva affermazioni e rivincite nei settori occidentale e meridionale dell’Asia minore (dove il contatto con le vecchie città greche orientava sempre di più la politica seleucidica verso la valorizzazione dei regimi di libertà e democrazia, legando a questi programmi politici l’immagine della politica dei re di Siria verso le póleis.

- Tra Egitto e Macedonia l’oggetto principale del contendere era la Lega dei Nesioti (isolani), cioè delle isole Cicladi; e un duro colpo alla supremazia tolemaica fu assestato dalla flotta macedone con la vittoria di Cos (255 a.C.?); in Asia Tolemeo II dovette registrare notevoli perdite in Ionia, Panfilia e Cilicia. Due paci separate con la Macedonia e con la Siria (255 e 253, rispettivamente) posero fine al conflitto, a cui fece seguito addirittura un’alleanza tra Siria ed Egitto suggellata dal matrimonio tra Antioco II e Berenice, figlia di Tolemeo II, che comportava il ripudio della precedente consorte, Laodice.

- Sembrava la fine delle alterne tensioni fra i tre grandi regni ellenistici, ma proprio dal matrimonio tra Antioco e Berenice doveva nascere il nuovo conflitto. Antioco aveva scelto la via di un compromesso, poi rivelatosi infelice, nel nominare suo successore il figlio di Laodice, Seleuco II, mentre intendeva le nozze con Berenice come ragione d’intesa con i Tolemei. Alla morte di Antioco II (246) scoppiò la guera tra Tolemeo III, che interveniva nell’interesse della sorella Berenice e del figlioletto di questa, e Seleuco II. L’avanzata travolgente di Tolemeo III nel cuore stesso del regno nemico fu forse di dimensioni minori di quel che suggerisce la propaganda ufficiale tolemaica; e certo Tolemeo non riuscì a raggiungere gli scopi che si era prefissi, poiché Berenice e il figlio furono trucidati dai nemici ad Antiochia; tuttavia, dalla guerra di Laodice (246-241) in poi (fino all’età di Antioco III) il dominio tolemaico in Siria era così avanzato in direzione nord da includere la stessa Seleucia, una delle quattro città fondamentali della Siria Seleucide (insieme ad Antiochia, Apamea e Laodicea).

- Il regno di Siria continuò in seguito ad essere scosso da lotte di successione dinastica (lotte che negli altri regni avevano ormai ceduto il passo a successioni ereditarie regolari): tra il 240 e il 237 arse la cosiddetta ‘guerra dei fratelli’ tra Seleuco II e Antioco Ierace (“l’avvoltoio”), che fino al 228 amministrò in maniera indipendente i possedimenti seleucidici dell’Asia minore occidentale, dalla Troade alla Ionia alla Caria. E sempre intorno al primo decennio della seconda metà del III secolo a.C. si verifica la perdita, da parte dei Seleucidi, del controllo della Partia, dell’Ircania e della Battriana, cioè delle regioni a sud-est ed est del Mar Caspio, tappe avanzate dell’ellenismo in oriente, all’interno di quel confine ‘artificioso’ e difficilmente difendibile che fu per Alessandro Magno l’Indo (e che

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Seleuco I per primo aveva rinunciato a difendere). Le possibilità di sopravvivenza dell’ellenismo seleucidico in Partia e Battriana erano, da un punto di vista territoriale, migliori: tuttavia già durante il regno e per effetto della politica ‘occidentale’ di Antioco II, si avviò un processo di distacco della Partia e poi della Battriana stessa.

- Un certo ridimensionamento toccava in quegli anni anche al dominio macedone, comunque non così drastico come quello toccato al regno seleucidico dal 246 in poi. In Grecia si andavano rafforzando le posizioni di quelle popolazioni delle regioni occidentali, che finora avevano svolto un ruolo minore: gli Etoli e gli Achei, raccolti in due rispettive leghe (koiná). L’elemento dinamico della Lega achea però fu rappresentato da una città non achea, Sicione: liberata dal regime di cronici tirannelli nel 251, essa si inserì in quelle manifestazioni di irrequietezza che turbavano ormai il dominio macedone a Corinto. Qui, nel 253, si era ribellato al Gonata Alessandro, figlio di Cratero; intanto gli Achei si rivolgevano all’Egitto di Tolemeo III, che entrava in alleanza con gli Achei, e che era in grado di inalberare il vessillo della libertà e, se del caso, della democrazia, visto che la Macedonia di Antigono Gonata aveva invece imboccato la strada del predominio militare, del controllo politico e dell’insediamento al potere di propri uomini di fiducia, che la tradizione greca considera tiranni.

- Sono comunque questi decenni centrali del III secolo a.C. anche quelli della massima fioritura politica e culturale dell’ellenismo, gli anni più propriamente definibili di ‘altro ellenismo’, dando all’espressione un senso valutativo. Benché sia difficile trovare dopo il 260 anni di pace, e di uguale solidità dei tre regni, tuttavia, nei decenni centrali del secolo, alla sostanziale stabilità interna dell’Egitto e della Macedonia corrisponde una tenuta del regno seleucidico. L’ellenismo, in senso politico e culturale, conosce insomma la sua acme tra il 280 e il 220 circa.

- Dopo la morte di Antigono Gonata (239), il confronto fra la Macedonia e le libere città di Grecia passa attraverso fasi diverse: nella prima (239-229), corrispondente al regno di Demetrio II (figlio del Gonata), lo scontro della macedonia con le nuove realtà federali, che ormai rappresentano la roccaforte dell’autonomia greca, è incautamente frontale, perché investe entrambe le Leghe: quella etolica, estesa su gran parte della Grecia centrale di qua e di là dalle Termopile e forte anche del controllo del santuario delfico, e quella achea, che raggruppava gran parte del Peloponneso e affilava le armi contro Sparta. La guerra demetriaca non è risolutiva per la Macedonia, che dal 229, con l’avvento di Antigono Dosone, tutore e reggente per il futuro Filippo V (figlio di Demetrio II), entra in un periodo di raccoglimento (229-224), durante il quale si verifica un significativo attivismo dei Tolemei in Grecia, e la restituzione, a pagamento, delle fortezze attiche da parte macedone, che porta alla restaurazione della democrazia ad Atene.

- Sono anche gli anni del risveglio politico di Sparta. Qui già negli anni 243-241 il re Agide IV aveva avviato un processo di riforma, basato sulla restaurazione dei valori dell’antica agogé spartana, e mirante all’ampliamento del corpo civico, ormai ridotto a 700 membri, di cui soltanto 100 erano cittadini di vero e pieno diritto. Il tentativo si concluse tragicamente per Agide IV, e ad esso successe un consistente periodo di reazione, guidata da Leonida II, che ottenne la condanna a morte del re riformatore. Per l’ironia della sorte, fu proprio il figlio di Leonida, Cleomene III, a condurre in porto le riforme accennate da Agide: lo fece con metodo violenti, facendo uccidere gli efori nel 227, e portando a 4000 membri il corpo

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civico. Ne seguì il conflitto con la Lega achea, che si colora ormai delle tinte del conflitto ideologico.

- Proprio Arato di Sicione, che aveva a suo tempo dato una decisiva scossa al dominio della Macedonia sulla Grecia, chiamava nel Peloponneso Antigono Dosone, offrendogli la restituzione della base di Corinto (224), che vent’anni prima era riuscito a liberare. È una svolta decisiva nella politica achea, che legherà decisamente le politiche degli Achei e della Macedonia per un buon venticinquennio, attraversando ben quattro conflitti: 1) la guerra con Cleomene, che si sta svolgendo; 2) la guerra sociale (symmachikòs pólemos) tra le due potenti federazioni, l’achea e l’etolica (220–217); 3) la I guerra romano-macedonica (215-205); 4) i primi due anni della II guerra romano-macedonica (200-198 a.C.). La Lega achea si avvia così verso quella politica collaborazionista, che continuerà poi per alcuni decenni nei confronti di Roma (di contro a una Lega etolica capace di viva resistenza nazionale).

- Cleomene III fu sconfitto da parte della nuova alleanza nella battaglia combattuta nel 222 nella valle dell’Eurota. Qualche mese dopo moriva Antigono Dosone (222/1) combattendo contro gli Illiri; e gli succedeva sul trono di Macedonia Filippo V. Questi continuò la politica filoachea; tra il 220 e il 217 Filippo si impegna in una guerra tanto dura contro irrisolutiva a fianco degli Achei contro gli Etoli: ad incitarlo al conflitto è l’incombente presenza di una potenza come quella etolica, che estende i suoi dominii lungo tutta la fascia centrale del territorio greco. La pace di Naupatto (217), l’ultimo accordo stipulato fra soli Greci, chiudeva un conflitto su cui già allungavano la loro loro ombra le nubi che provenivano da Occidente (secondo la celebre immagine del pacifista Agelao di Naupatto, che con ciò faceva esplicito riferimento ai possibili esiti dello scontro epocale che si svolgeva in Occidente tra Romani e Cartaginesi, scontro i cui vincitori avrebbero poi rivolto la loro attenzione alla Grecia).

- Sullo scorcio degli anni ’20 del III secolo si pone l’inizio del regno di un sovrano, Antioco III di Siria, il Grande, che, se rappresenta un’epoca di singificativa ripresa del regno seleucidico, e di ricostituzione dell’unità dell’impero, approda poi, in una sorta di grande appuntamento storico, al confronto con Roma nella guerra degli anni 192 e seguenti, conclusa dalla pace di Apamea (188), che è anche l’avvio del declino del regno di Siria. Un’intera parabola dunque, quella del regno di Antioco il Grande, che passa per la repressione di rivolte in diverse satrapie, la grande spedizione per il recupero delle satrapie orientali, fino all’Indo e il fortunato ritorno, la vittoria sugli Egiziani nella V guerra di Siria, l’espansione in Asia minore e in Tracia, per imboccare infine la curva discendente nel conflitto con Roma.

14. I regni ellenistici: il territorio, la popolazione, le città- Dei nuovi stati a dirigenza macedone e greca, sorti in seguito alle conquiste di Alessandro

Magno e al successivo smembramento del suo impero, l’aspetto più caratteristico è l’estensione territoriale: un dato fondamentale, cui conseguono direttamente vari altri, di ordine demografico, amministrativo, socio-economico, politico. Alla grande estensione territoriale sono collegati, come conseguenze immediate, il numero cospicuo di abitanti, e in molti casiil carattere composito della popolazione dal punto di vista etnico, nonché l’eterogeneità dei caratteri geografici ed economici del territorio. Manca un centro urbano unico, intorno a cui la chóra si disponga e si distenda, quasi in fasce circolari, come è nel caso della pólis; né vi si riscontra una pluralità di centri equivalenti in diritto, o politicamente collegati con un centro egemone, come è in una lega o in uno stato federale. Lo stato monarchico territoriale comporta l’esistenza di una capitale, cui si affianca una chóra, in cui sorgono altre póleis (questo, tutto sommato, è il caso di Alessandria, nel suo rapporto con l’Egitto), o di una capitale primaria, accanto a cui sussistono alcune secondarie

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(come è il caso di Antiochia sull’Oronte, Seleucia sul Tigri, Sardi nel periodo di maggiore fulgore del regno seleucidico), e di un territorio che presenta una notevole complessità di strutture geografiche, etniche, economiche, politiche.

- La vastità della chóra disponibile in generale è la causa immediata dell’estensione del territorio appartanente allo Stato, o al re in quanto incarna lo Stato, della chóra basiliké, accanto alla quale sussistono proprietà private e templari. Il territorio dei regni ellenistici per la sua estensione si presta inoltre ad una suddivisione che risponde ad esigenze di carattere amministrativo, fiscale, giudiziario, mentre la prima conseguenza sul piano dell’organizzazione militare è la dislocazione delle forze in più punti, cui si accompagna la creazione di più centri di comando, ovvia occasione di conflitti. Dal punto di vista delle forme politiche espresse, il territorio di un regno ellenistico presenta una varietà, determinata dalla presenza, nel tessuto compatto della chóra del regno, di entità politiche autonome, come le póleis, organizzate di norma secondo gli istituti della demokratía e fornite di un più o meno alto grado di autonomía e di eleuthería.

- Le strutture politiche fondamentali dei regni ellenistici non rappresentano una novità sostanziale nella storia di quegli spazi geografici e politici. Il regno seleucidico eredita la maggior parte dei territori e delle relative strutture dell’impero persiano; l’Egitto recupera strutture di epoca faraonica. La novità consiste nel sopravvenire di un elemento etnico estraneo alla regione, nettamente minoritario, e differente da qualsivoglia fra gli elementi etnici prevalenti in epoca precedente. Nell’impero seleucidico i Macedoni non dovettero mai superare il 10%, e in Egitto rappresentavano una percentuale ancora più bassa. La presenza greca era assicurata da un lato da una forte immigrazione, che avveniva così al livello di soldati, di uomini di cultura o persone professionalmente qualificate, come anche di piccoli e grandi comercianti, dall’altro dalla sopravvivenza di vecchie città greche, numerose soprattutto sulle coste dell’Egeo. Per tutti questi elementi rappresentava una novità la creazione di stati a dirigenza greco-macedone, rispetto agli stati che li avevano preceduti e in cui gli elementi greci avevano costituito un corpo estraneo e in qualche modo sottomesso. Ma tutto sembra mostrare che i Greci non arrivassero mai ad elaborare una teoria politica dello stato ellenistico, inteso come fusione di elementi etnici diversi e distribuzione di responsabilità politiche fra queste stesse componenti.

- Che Alessandro Magno abbia praticato una politica di fusione tra Macedoni e Orientali è cosa che vien molto naturale ammettee sia sulla base della politica matrimoniale da lui perseguita (si pensi al suo matrimonio con Rossane, e poi con Statira e con Parisatide, e alle nozze in massa dei suoi ufficiali con donne iraniche), sia in considerazione di aspetti dell’organizzazione militare da lui voluta (un corpo di 30.000 epígonoi persiani, addestrati nel suo esercito; inserimento di cavalieri battriani nella cavalleria eterica; ammissione di singoli nobili persiani nel ruolo dell’ágema) e del suo comportamento personale e di governo. Certo, non mancarono drammatici ritorni indietro, nella politica perseguita da Alessandro verso gli Orientali (si pensi all’eliminazione violenta dei satrapi persiani della Perside e della Susiana); ma nell’insieme una politica di fusione, almeno sul piano delle strutture amministrative militari e civili, doveva essere nei piani di Alessandro.

- Un completo rovesciamento della situazione sotto i Diadochi è ammesso in generale dagli studiosi, ma forse con troppa facilità. Diciamo che un’inversione totale di tendenza non era neanche possibile pensarla, in un regno come quello dei Seleucidi; altrove, come in Macedonia, il problema non si poneva nemmeno; fra i tre grandi regni ellenistici, quello in

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cui poteva verificarsi, e in larga misura si verificò, un mutamento di rotta in fatto di rapporti fra Greco-Macedoni e indigeni, nella direzione della separazione, era l’Egitto.

15. Le forme della monarchia ellenistica. Le strutture militari- E. Bikerman ha formulato in maniera precisa i fondamenti su cui poggia la monarchia

ellenistica: 1) il diritto di vittoria; 2) la trasmissione ereditaria del diritto una volta acquisito. Il concetto di chóra doríktetos (terra acquistata con la lancia) è richiamato più volte in Diodoro per fatti relativi al periodo 334-301 a.C., mentre le pretese di Antioco III sulla costa egea della Tracia sono fondate proprio su questo concetto, secondo Polibio. L’importanza dell’idea è diversa comunque da regno a regno e nelle diverse epoche.

- La monarchia si fondava sulla capacità di guidare un esercito e di amministrare saggiamente la cosa pubblica: una concezione che si contrapponeva all’idea che la posizione monarchica fosse fondata o sulla nascita o su un diritto. A sua volta il sovrano diventa legge animata e vivente, nómos émpsychos. Le definizioni teoriche della figura e delle funzioni del re dell’età ellenistica ne indicano tre funzioni essenziali: 1) comandante militare; 2) giudice; 3) sacerdote. Tali caratteri saranno stati più o meno comuni a tutte le monarchie ellenistiche, ma non senza sfumature e varianti, nei diversi casi. Il re-generale è caratteristico della Macedonia, ed è certamente anche un portato del predominio storico di essa, se l’età ellenistica si configura come età militare per eccellenza, dove il ‘militare’ predomina sul ‘politico’, almeno quanto, nella pólis classica, esso era invece espressione e funzione del ‘politico’. Questi caratteri si trovano anche nella prassi dei re seleucidi: si tratta di re combattenti e conquistatori (come osserva Bikerman, dei quattordici re che si succedettero fino ad Antioco VII, ben dieci trovarono la morte sul campo di battaglia). Un po’ diveso è il caso dei Tolemei: anche se nella dinastia sono presenti diverse figure di conquistatori e combattenti, l’ideologia del sovrano tolemaico però appare in qualche misura ancorata di più a quella faraonica, dove il re è l’incarnazione innanzi tutto della giustizia divina. Riassumendo: lo stato monarchico ha un’estensione che coincide con quella della chóra doríktetos e della popolazione che vi risiede; un vertice che coincide con il re-generale; un supporto di fatto che coincide con le dynámeis, le forze armate.

- La fondamentale opera di M. Launey sulle armate ellenistiche approda al risultato di una notevole penetrazione degli elementi non greco-macedoni nelle armate ellenistiche, determinata innanzi tutto dall’incapacità demografica dei Greci e dei Macedoni di far fronte alle esigenze militari dei vari stati, monarchici o cittadini che fossero. A fornire uomini alle armate provvedono, nel primo ellenismo, la penisola balcanica (soprattutto la Tracia), e l’Asia minore (soprattuto Misia, Caria, Licia, Panfilia e Cilicia); a partire dal II secolo a.C. subentrano Iranici, Semiti (soprattutto Giudei e Idumei), ed Egiziani. Per fare un esempio statistico. A Rafia (217) l’esercito seleucidico già contiene un 70-80% di orientali.

- Quello dell’esercito è un terreno su cui si può valutare il rapporto dell’elemento militare col potere centrale da un lato, e l’integrazione tra stranieri e indigeni, dall’altro: e ciò in Egitto molto meglio che in altri regni ellenistici. Ivi l’esercito è un terreno di confronto tra gli stranieri, affluiti dalla Grecia, Asia minore, Palestina, fin verso la fine del III secolo a.C., gli indigeni e il popolo dominatore. Non sembra comunque potersi parlare di vera integrazione: le unità restavano separate, la lingua differente, anche se non manca qualche scambio nell’àmbito di koiná cultuali.

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16. La Sicilia, Cartagine e l’Italia nella politica di Agatocle di Siracusa- L’assetto dato da Timoleonte alla Sicilia greca durò all’incirca un ventennio. Ma furono

proprio le caratteristiche del regime da lui instaurato a Siracusa a dare il via a una crisi dei rapporti politici interni, poi a una piena ripresa dell’ostilità punica, sempre latente, ma per sua natura tarda a tradursi in azioni aggressive di ampio respiro, e inoltre fino ad allora tenuta a freno dal dato rassicurante dell’assenza di un forte potere militare nella Sicilia orientale.

- All’interno di Siracusa il governo oligarchico viene rovesciato dai democratici; riesce a riaffermarsi a stento soltanto per l’intervento di Corinto, e col sostegno della stessa Cartagine. Fra gli esuli democratici di questa volta c’è Agatocle: i primi anni della sua attività politica sono caratterizzati da un susseguirsi di esilii, e anche però dall’acquisizione di posizioni di forza in città vicine a Siracusa (Morgantina, Leontini). Ne derivò un compromesso con gli oligarchici, ai quali fu lasciato il potere all’interno della città, mentre i presidii extra-siracusani erano affidati ad Agatocle (319/8). Presto però questi riuscì ad espellere da Siracusa gli avversari, e a ottenere la carica di stratego unico, rispettando in un primo momento la costituzione timoleontea, ma adottando misure popolari, quali l’abolizione dei debiti e una ridistribuzione delle terre (316). Un intervento di Sparta contro Agatocle, mediato da Taranto, fallisce (il re spartano Acrotato uccide il capo del partito oligarchico siracusano, Sosistrato).

- La posizione di Agatocle si rafforzava così anche nei confronti dei Cartaginesi, che riconoscevano l’egemonia di Siracusa, cioè di Agatocle, sulle altre città della Sicilia orientale. La politica di Cartagine era stata fino ad allora di tolleranza e talora persino di connivenza con Agatocle, più che altro per responsabilità di Amilcare. Dopo la morte di questo, la situazione era di nuovo in movimento, e Agatocle decise di prendere l’iniziativa antipunica, nel 311, con un attacco ad Agrigento. I Cartaginesi intervenivano in difesa della città, nel territorio di Gela, dove assestavano un duro colpo ad Agatocle alla foce del fiume Imera (giugno 310). Ne seguì la defezione delle solite città greche recalcitranti al dominio siracusano, da quelle della costa occidentale (Camarina) ai centri dell’area etnea (Leontini, Catania, Tauromenio), a Messina.

- Con una decisione imprevista e geniale, Agatocle trasferì allora la guerra in Africa, sbarcando 14.000 uomini al Capo Ermeo: prese Megalepoli e Tunisi, e s’accampò davanti a Cartagine; l’esercito punico accettò la sfida, ma dovette ripiegare sotto i colpi dell’armata di Agatocle, che ormai controllava il territorio, occupava Neapolis, Adrumeto e Tapso, e sconfiggeva nuovamente presso Tunisi i Cartaginesi. Parte delle truppe puniche avevano dovuto nel frattempo lasciare la Sicilia, per correre in difesa del territorio metropolitano; il resto subì una nuova sconfitta ad opera dei Siracusani. In Africa Agatocle s’intendeva con il signore di Cirene, Orfella, col quale stringeva un patto di spartizione dei dominii cartaginesi, che avrebero dovuto essere attribuiti per la parte siciliana ad Agatocle e per la parte libica ad Ofella. Quest’ultimo raggiungeva (309) Agatocle sotto Cartagine, ma fra i due scoppiavano dissensi culminati in uno scontro armato, in cui Ofella perdé la vita, mentre il suo esercito passava sotto le insegne del siracusano. Una dopo l’altra cadevano ormai nelle mani di questo le città suddite di Cartagine, da Utica a Hippou Akra. Cartagine restava però in piedi; Agatocle perciò lasciava gran parte dell’esercito in Africa al comando del figlio Arcagato, e faceva rientro in Sicilia (primavera 307), per fare il punto della situazione e riprenderne il pieno controllo.

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- Eraclea, Segesta e Terme passavano sotto il controllo di Agatocle; minor fortuna egli ebbe con l’esercito degli oppositori: di fronte alla sua imponenza dovette ripiegare. In Africa intanto i Cartaginesi, destati alla riscossa non da ultimo dall’assenza dell’audace e fortunato generale siracusano, riuscivano a riconquistare la maggior parte delle posizoni perdute e a chiudere Arcagato in Tunisi, in una morsa che Agatocle non riuscì ad allentare neanche con una reiterata incursione in Africa. Fu la fine dell’audace spedizione: le truppe al servizio dei Siracusani si ribellarono agli sconfitti e trucidarono Arcagato e un altro figlio di Agatocle.

- Dopo un accordo con Cartagine, Agatocle poté affrontare in battaglia l’esercito degli emigrati siracusani, assestandogli il colpo decisivo: Agatocle era finalmente legittimato all’interno come all’esterno, e poté assumere il titolo di basileús, nella scia dei Diadochi di Alessandro Magno, e sposare anche una figlia di Tolemeo I, Teossena.

- Agatocle si rivela personaggio capace di concepire piani di ampio respiro, che comportano la centralità di Siracusa, l’unificazione tendenziale della Sicilia, un orizzonte strategico così vasto da includere un attacco diretto ai territori africani di Cartagine, un orizzonte politico e diplomatico che coinvolge, sempre in prospettiva anticartaginese, lo stesso Egitto tolemaico. Non sorprende che egli, finita l’avventura africana, riprenda i piani di Dionisio I per la costituzione di un dominio in Italia e la creazione di stabili punti d’appoggio siracusani nell’Adriatico – l’eredità di Dionisio I, in tema di politica territoriale ed egemonica, viene dunque per intero assorbita da Agatocle e persino trasferita a un livello di maggiore completezza ed organicità. Va ricordato il giudizio di Polibio su di entrambi: in loro si riconosce non solo la capacità di fare carriera, partendo da umili origini (Agatocle avrebbe cominciato lavorando al tornio e alla fornace, come ceramista), ma anche di diventare, oltre che tiranni di Siracusa, “basileîs di tutta la Sicilia e signori di alcune parti d’Italia”.

- In Italia, dopo la conclusione (304) della seconda guerra romano-sannitica, Tarando vede lucidamente da che parte proviene il pericolo indigeno: da Roma, con cui essa stipula, circa il 303/2, il cosiddetto trattato del capo Lacinio, che ne vieta l’attraversamento a una flotta romana da guerra. Taranto dunque, alla fine del IV secolo, prevede lo scontro con Roma, ma combatte ancora gli ultimi conflitti con i Lucani, che ora si schierano con Roma. La città greca chiede ancora aiuto alla madrepatria Sparta, che nel 303 invia un esercito di mercenari al comando di Cleonimo, che agisce con i modi spregiudicati del condottiero e dell’avventuriero, usando i Lucani contro gli stessi greci di Metaponto; impadronendosi poi di Corcira e arrivando addirittura alla laguna veneta, dove subì una sconfitta da parte di quelli di Padova.

- A questo punto, contro gli Italici i Tarentini non possono che chiedere aiuto a Siracusa, cioè ad Agatocle. Questi conseguì alcuni primi successi contro gli Italici, con l’aiuto dei Brettii; nel frattempo conquistava anche l’isola di Corcira, che diede in dote alla figlia Lanassa quando questa fu data in sposa al re d’Epiro, Pirro (295). Sulla via del ritorno da Corcira dovette fronteggiare la ribellione dei Brettii; occupò Crotone e forse anche Locri in funzione anti-romana; rientrato in Sicilia, tornò ad invadere il territorio brettio con un esercito di 30.000 uomini, e ottenne la resa della bellicosa popolazione; ma appena Agatocle fu rientrato in Sicilia, la ribellione brettia gli scoppiò nuovamente alle spalle. Gli ultimi anni Agatocle è lì a tessere la sua tela grandiosa, alla prova dei fatti troppo ambiziosa per le forze la durata della vita di un individuo: allestisce una grande flotta, destinata sempre al sogno della guerra anticartaginese; rompe con Pirro; fa divorziare da lui la figlia Lanassa, che resta in possesso di Corcira. Ma una grava malattia accelera la fine del sovrano siracusano, ormai

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settantaduenne. Con la fine del re siracusano, tutti i tradizionali problemi della storia politica della Sicilia (conflitti fra Greci e Cartaginesi; conflitti all’interno del mondo greco; problema dei mercenari di origine extra-siceliota) si ripropongono puntualmente, senza che ci sia più un uomo capace di venirne a capo in una lina di politica d’indipendenza. Sicché ormai i problemi del governo della Sicilia si incaricheranno di risolverli potenze estranee all’isola. Si va costituendo il terreno per quella prima guerra tra Cartagine e Roma, in cui una larga parte dei Sicelioti sentirà la propria sorte e cultura meglio rappresentata da Cartagine che non da Roma. Ancora una volta Siracusa (allora sotto il governo di Ierone II) rappresenterà l’intera parabola dei sentimenti e degli atteggiamenti greci e farà presto la scelta militarmente e storicamente vincente.

17. La grecità d’Italia e di Sicilia dalla spedizione di Pirro alle guerre puniche- Nei confronti dei Lucani, Taranto voleva esercitare in prima persona la funzione di tutrice

delle popolazioni greche; quando perciò, nel 282, Turii chiese aiuto ai Romani contro i Lucani, e Roma inviò G. Fabrizio Luscino con un esercito che sgominò gli Italici, Taranto reagì come di fronte a un’interferenza grave: sequestrò una squadra navale romana, che era comparsa nel golfo di Taranto, e impose alle truppe che presidiavano Turii di lasciare la città. Taranto capiva che l’intervento romano a tutela di una città greca del golfo tarentino comportava un salto di qualità nella politica della città latina verso la Magna Grecia, svolta che significava ormai l’arrivo delle armi di Roma fino all’ultima spiaggia della grecità italiota, quella che era stato storicamente il nucleo stesso della Magna Grecia.

- Come già mezzo secolo prima ad Alessandro il Molosso, Taranto si rivolgeva ancora una volta a un re epirota, perché esercitasse una funzione di tutela, che la grecità d’Italia chiedeva contro il ben più temibile barbaro che si affacciava ormai sulla costa greca. Pirro, sfortunato pretendente al trono di Macedonia, aveva le mani libere per un’impresa del genere, e Tolemeo Cerauno, salito al trono macedone nel 281, gliene fornì i mezzi, in uomini (5000 fanti e 4000 cavalieri) ed elefanti (50). Con la spedizione di Pirro, l’Oriente ellenistico s’immette di forza nella storia dell’Occidente greco, ma solo per registrare la fine dell’indipendenza di quest’ultimo.

- Pirro considerava l’azione in Italia quale preludio alla conquista della Sicilia; il disegno di assoggettarsi l’isola era stato preparato anche dalle intese con Agatocle, ed era confortato dall’esistenza di un figlio dato a Pirro da Lanassa (Alessandro), al quale era probabilmente destinato il regno sull’isola, come appendice di un regno paterno impiantato nella penisola greca.

- La storica traversata (diábasis) dell’Adriatico da parte di Pirro avvenne nel maggio del 280. Egli portava con sé un cospicuo esercito (circa 25.000 tra fanti e cavalieri). Ad Eraclea ebbe luogo il primo scontro con i Romani, che fu vittorioso per l’epirota, ma costò 4000 uomini, contro i 7000 caduti di parte romana. Nel clima della vittoria si crea quell’unione greco-italica contro Roma, che era stata già da tempo il programma politico di Taranto. Sanniti, Lucani e Brettii, e, fra i Greci, Crotone e Locri passano subito dalla parte del re epirota. Pirro si spinse fino ad Anagni, nella sua avanzata verso Roma, che però veniva subito validamente presidiata con truppe fatte rientrare dall’Etruria e con nuove leve. Già allora cominciano tra i Romani e Pirro trattative di pace (la cui esistenza chiarisce di per sé i limiti della spedizione dell’epirota); ma esse si rivelano infruttuose, anche per l’opposizione di Appio Claudio Cieco. Nel secondo anno (279), Pirro cerca di venire a capo dei Romani

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anche in Apulia: i Romani furono nuovamente battuti, ma ancora una volta le perdite di Pirro si avvicinavano a quelle subìte dagli sconfitti (4000 caduti contro 6000 del nemico). La ripresa delle trattative (che nell’intenzione di Pirro dovevano produrre la rinuncia di Roma al dominio sull’Italia meridionale, nella componente greca, come in quella italica dai Sanniti ai Brettii) fu resa vana dall’intervento di Cartagine, che consolidò e ampliò i vecchi trattati con Roma, e che mirava soprattutto a bloccare il prevedibile intervento di Pirro contro i Cartaginesi, i quali cingevano d’assedio Siracusa.

- Chiamato dai Greci di Sicilia, Pirro passò nell’isola nell’autunno del 278, confermando così il carattere della sua missione, che era di liberazione dell’intera grecità occidentale dalla minacce incombenti, sia quella di Roma in Italia, sia quella di Cartagine in Sicilia . Chi pensi alla storia dei decenni successivi, che nel Mediterraneo occidentale saranno occupati dal confronto tra Roma e Cartagine, misurerà a pieno la portata storica del tentativo di Pirro di bloccare due forze crescenti, minacciose per la libertà d’azione dei Greci e destinate a scontrarsi fra di loro. In Sicilia Pirro rimase per tutto il 277, e ancora il 276, per ripartirne nella primavera del 275. Nell’isola l’avanzata del re era stata dapprima travolgente: erano cadute nelle sue mani Selinunte, Alicie, Segesta; ma la marcia si era poi arrestata di fronte alla munitissima fortezza punica di Lilibeo. I Cartaginesi offrirono a questo punto la pace, a patto di conservare Lilibeo: Pirro, sollecitato dai Sicelioti, rifiutò e tentò di prendere Lilibeo con un assedio che dopo due mesi dové togliere. Presto scoppiarono dissensi tra il re e i Greci di Sicilia, insofferenti della disciplina e dei tributi imposti dal conquistatore sopravvenuto. Pirro giustiziò addirittura il governatore di Siracusa; e cadde nel vuoto il suo invito a trasferire, come Agatocle, la guerra in Africa.

- Durante la spedizione di Pirro in Sicilia, i Romani avevano recuperato molte delle posizioni perdute fra gli Italici come fra i Greci; la stessa traversata di ritorno del re epirota nella penisola, dove la sua presenza era richiesta dagli abitanti delle città greche, non fu senza difficoltà. Già la flotta punica cercò di ostacolarlo; e sulla terraferma lo scontro, avvenuto nel 275 presso Maluentum, tra i Romani e Pirro, segnò la vittoria dei primi. In tutta fretta Pirro abbandonò Taranto nello stesso 275 con gran parte delle sue forze, lasciandovi (fino alla resa di Taranto a Roma nel 272) un presidio al comando del figlio Eleno; rientrò in Grecia dove voleva contendere ad Antigono Gonata il regno di Macedonia.

- L’irruzione dell’epirota in Macedonia (primavera del 274) e in Tessaglia fu al momento un successo; le ripetute sconfitte subìte da Antigono incoraggiorono nel Peloponneso la Lega achea, da pochi anni ricostituita, a una ribellione contro la Macedonia e poi a una politica di indipendeza e di ostilità anche nei confronti di Sparta. Trasferitosi nel Peloponneso, Pirro vi fu accolto da molti come liberatore, e si spinse fino a minacciare la stessa Sparta, che però ancora una volta si rivelava imprendibile senza un duro assedio; Pirro del resto vi rinunciò, limitandosi a saccheggiare la Laconia e puntando poi su Argo, su cui moveva, da Corinto, Antigono Gonata. Pirro offrì invano battaglia al Gonata; decise poi di entrare in Argo, dove aveva partiginani che gli aprirono di notte una porta. Egli si spinse incautamente all’interno di una città che in gran parte gli era nemica, e nel corso di un combattimento confuso e difficile per le strade cittadine, rimase ucciso (autunno del 272).

- Intanto Roma consolidava le sue posizoni sulla costa greca d’Italia: Taranto si arrese nel 272, dopo il ritiro della guarnigione epirota seguito alla morte di Pirro. Taranto dovette accogliere una guarnigione romana, dare ostaggi, assicurare un contingente navale a Roma. In Sicilia intanto si andavano creando le premesse per quell’adattamento dei Greci alla

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nuova realtà dell’avvento del dominio di Roma, che nell’Italia meridionale, dopo il ritiro di Pirro, si presentava ormai come un processo storico difficilmente reversibile, e che la vittoria su Annibale nella II guerra punica (218-201) sancì come irreversibile. Ancora una volta Siracusa fu teatro dell’avvento di un potere personale, quello di Ierone II – il suo lunghissimo regno (morto nel 215) segnò in profondità la storia della Sicilia greca nella delicata fase di trapasso dal periodo del cronico confronto con Cartagine al periodo del dominio di Roma (che circa il 227, e poi di nuovo e definitivamente nel 210 a.C., ordinerà la Sicilia a pronvincia). Con la tentata traversta di Appio Claudio nel 264 e la riuscita diábasis dello Stretto ad opera di M. Valerio nel 263, cominciava la I guerra punica (264-241), che doveva rendere i Romani padroni della Sicilia, ponendo fine, dopo circa tre secoli, all’esistenza di un dominio cartaginese nell’isola.

- Anche l’elemento greco dovette adattarsi a una situazione radicalmente nuova in Sicilia. Ierone aveva stretto alleanza in un primo momento con i Cartaginesi, ma, dopo lo sbarco e le prime vittorie romane, egli decise di voltar pagina: nessuna resistenza perciò trovò l’esercito romano che nel 263 avanzava da Messina e prendeva successivamente Adrano, Alesa, Catania, Camarina e Gela. Quando M. Valerio si avvicinò a Siracusa, trovò Ierone disposta a cedere assai più che a combattere: il re accettò infatti di rinunciare alle città conquistate da Roma, e a confinare il suo dominio a Siracusa, Leontini, Acre, Noto e Tauromenio; si impegnò al versamento di 100 talenti e naturalmente si alleò con Roma contro Cartagine. Come già in Italia, nonostante le cospicue resistenze e i progetti diversi che erano di volta in volta affiorati (e che nella duplice spedizione di Pirro avevano trovato la loro più sistematica espressione), anche in Sicilia si determinava quel blocco storico tra Romani, Greci e Italici, che doveva produrre, come esito ultimo, la costituzione di una nuova, composita ma fondamentalmente salda unità culturale, a detrimento di altri elementi, destinati a rimanere estranei alla compagine della nuova Italia.

12. Il mondo greco e Roma

1. Le guerre illiriche e la I guerra macedonica (229-205)- L’intervento di Roma nelle vicende politche della Grecia è l’esito quasi naturale di una

lunga storia di intensi scambi tra le due rive dell’Adriatico. Il capitolo che precede immediatamente la prima ‘traversata (diábasis) con armi’ di Roma a est dell’Adriatico, come richiama solennemente Polibio, è quello delle ripetute aggressioni compiute dai pirati illirici ai danni dei commercianti italici, i quali riescono alfine a far valere la loro protesta presso il Senato romano, nel 230; per difendersi di quegli stessi nemici ricorreranno alla fides di Roma città greche come Corcira, Apollonia, Epidamno, Issa, e popoli dell’area illirica.

- Un’ambasceria inviata da Roma alla regina illirica Teuta non solo non ottiene la soddisfazione richiesta, ma finisce anche vittima di un agguato, a cui fa seguito l’intervento militare nel 229. Nel 228 s’instaura quindi il protettorato romano sull’Illiria, e sia Etoli sia Achei mostrano gratitudine per l’azione romana. Nel 229 Roma aveva dalla sua un dinasta illirico, Demetrio – dieci anni dopo però parte proprio da Demetrio l’attacco all’area illirica sotto il protettorato romano, provocando un secondo intervento di Roma, che si conclude con l’espulsione del principie illirico (219).

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- Roma si avvicinava sempre di più al cuore della realtà politica greca: i Greci l’avvertivano come un pericolo, come avvertivano che lo scontro fra Romani e Cartaginesi non avrebbe mancato di far sentire i suoi effetti sui vicini a est dello Ionio. Così Filippo V di Macedonia scambia un giuramento d’intesa nel 215 con Annibale, accuratamente riportato da Polibio. In Grecia Roma si appoggiava in prima istanza alla Lega etolica, con cui stipula un patto; al nucleo romano-etolico si aggregano i nemici della Lega achea (Elide, Messenia, Sparta) e il nuovo alleato di cui Roma sembra potersi avvalere per ora nel mondo ellenistico, Attalo I di Pergamo.

- Nella prima guerra romano-macedonica (215-205) la partecipazione romana non fu particolarmente rilevante, comportò certo alcune operazioni navali, e tuttavia, quando si verificò, ebbe caratteri di particolare durezza. In questo primo confronto però Filippo V fu ben all’altezza dei suoi avversari; riuscì così a fiaccare gli Etoli, che conclusero con lui una pace separata nel 206, cui seguì la pace di Fenice con Roma nel 205. Questo era stato il primo diretto intervento romano nelle faccende greche: e aveva avuto il carattere di una scelta in favore di una parte del mondo greco. Nell’arco di poco più di un quindicennio la politica romana verso la Grecia e i problemi della sua libertà si va precisando

- Il tema dell’eleuthería greca sembra porsi, come principio ispiratore dell’azione romana a oriente dell’Adriatico, propriamente solo a partire dalla seconda guerra macedonica (200-196) o addirittura solo dalla sue fasi più avanzate: una motivazione della guerra romana con la prospettiva dell’eleuthería greca diveniva matura e poteva essere adottata solo nel momento in cui Roma fosse in grado di presentare il suo intervento come rivolto alla tutela della Grecia nella sua interezza o quasi. A questa sorta di patronato panellenico Roma era arrivata per gradi. All’origine del primo intervento romano in armi ad est dell’Adriatico vi sono le ripetute pressioni esercitate dai mercanti italici oggetto di atacchi dei pirati illirici; solo più tardi sono raccolte sotto la protezione di Roma città greche come Corcira, Apollonia, Epidamno, Issa e popoli dell’area illirica.

- A una più concreta assunzione del patronato panellenico Roma giungeva solo più tardi; gli inizi sono da leggere nell’intensa attività diplomatica dispiegata verso il mondo greco alla vigilia della seconda guerra macedonica; nel rinsaldarsi in quello stesso periodo dei rapporti con Atene; in un ultimatum allora rivolto ai Macedoni “di non far guerra a nessuno dei Greci”. Ma il processo può dirsi maturato solo in una fase più avanzata del conflitto, cioè nell’autunno del 198 a.C., con l’acquisizione dell’alleanza della Lega achea, un fatto decisivo per la configurazione panellenica della politica romana in Grecia. Con l’adozione della tematica dell’eleuthería di tutti i Greci, la guerra romana si arricchiva di una motivazione positiva e particolare, che in origine non le era propria, e che veniva ad aggiungersi, come elemento mutuato direttamente dal mondo greco, all’ideologia della guerra di rivalsa e all’ideologia della guerra difensiva (“noster autem populus sociis defendendis terrarum iam omnium potitus est” Cic.). Si potrebbe certo ammettere che la guerra romana si presenti come preventiva: ma resterebbe poi da chiedersi se e quando e in quale misura, e sollecitata da quali interessi di gruppi o di individui o di strati sociali, Roma desse corpo alle sue paure o perfine le ingigantisse ai propri occhi.

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2. La II guerra macedonica (200-196)- Negli ultimi anni del III secolo a.C., la Macedonia di Filippo V tornava ormai a imboccare la

strada dell’espansione nell’Egeo settentrionale, una delle direttrici tradizionali, fin dall’epoca di Filippo II: varie città della zona degli Stretti caddero sotto il suo controllo, fra cui Lisimachia (202). Attalo I di Pergamo, nonché le città a lui alleate nell’area (Bisanzio e Cizico) e altrove (Rodi), inflissero una seria sconfitta al macedone nella battaglia navale di Chio (201). Successivamente Filippo si spostava in Caria; le pressioni dei Rodii e di Attalo I sui Romani, che erano appena usciti dal secondo conflitto con Cartagine, indussero i Romani stessi a intervenire contro Filippo V, con una decisione di portata storica, per l’intreccio che ne derivò tra Roma e città greche.

- Roma poté far valere nobili ragioni di intervento in favore dell’alleato (Attalo) e degli amici e alleati di quest’ultimo (Rodi e Atene). Col tempo, nella tradizione storiografica si impose il motivo della richiesta di aiuto da parte di Atene, esposta a violazioni da parte di Filippo V: ma le ragioni di un rinnovato intervento romano in Grecia non vanno ricercate tanto in un idealistico filellenismo, né in motivi di mero ordine difensivo, quanto in un desiderio di prevenire un rafforzamento di due potenze ellenistiche (Macedonia e Siria: si sospettava di un patto segreto fra queste due per la spartizione dell’Egitto), che avrebbe impedito quell’ulteriore penetrazione romana nel Mediterraneo orientale, che solo nel regno pergameno, in Rodi e nell’Egitto tolemaico poteva trovare adeguati sostegni. Nell’agosto del 200 il giovane e brillante ambasciatore romano M. Emilio Lepido rivolgeva a Filippo V richieste esose: smettere di guerreggiare contro i Greci e ritirarsi dall’Asia. Storicamente, tutte questo avrebbe significato rinunciare a tutte le posizioni acquisite alla Macedonia da Filippo II con la conquista dell’egemonia in Grecia e da Alessandro Magno con la conquista dell’Asia.

- Roma si garantiva in questo conflitto la neutralità di Antioco III; dopo due anni di operazioni militari non risolutive, nel 198 T. Quinzio Flaminino impresse una svolta decisiva alla guerra, che si impostava ormai su programmi manifestamente filellenici, e che fruttò un primo sostanziale successo ai Romani, quando Filippo V fu costretto a ritirarsi fino a Tempe, abbandonando momentaneamente la Tessaglia. La Lega achea aderiva allora alla coalizione antimacedone. Dopo alcune trattative fallite, Filippo tornava ad avanzare in Tessaglia, dove, nel giugno del 197, affrontava a Cinoscefale una battaglia campale, nella quale la mobilità dei manipoli romani e l’imponente presenza degli elefanti ebbero la meglio. Nell’inverno del 196 si giunse alla pace, che cosò a Filippo V i possedimenti di Grecia e d’Asia minore, l’intera flotta da guerra, e 1000 talenti d’argento in contro-riparazioni, nonché l’obbligo di fornire truppe ausiliarie ai Romani.

- Alle feste Istmie del 196 a.C., Flaminino proclamava, fra l’incredulità dei Greci, sorpresi dalla gratuità (invero solo temporanea) del dono, l’autonomia dei Greci fino ad allora soggetti alla Macedonia (Corinzi, Euboici, Focesi, Locresi, Tessali: tutti membri dell’anfizionia delfica, la quale, nonostante il periodo di predominio etolico, era rimasta comunque il grande strumento di collegamento tra Grecia e Macedonia, che era stata sin dal tempo di Filippo II). I Romani diedero veramente seguito per qualche anno alla promessa di lasciare libero il territorio greco, anche se solo dopo aver partecipato a uno nuovo conflitto intragreco, che vide opporsi al tiranno e riformatore sociale Nabide di Sparta, insieme con i Romani, i Macedoni, i Tessali, gli Achei, il regno di Pergamo e i Rodii. Nabide (al potere dal 207) fu vinto e punito con la riduzione dei suoi dominii, ma lasciato al potere dai

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Romani; nel 192 trovava la morte per mano di uno dei suoi amici Etoli. Proscrizioni e uccisioni di ricchi, liberazione di schiavi e iloti, ridistribuzioni di terre, misure monetarie e sui debiti caratterizzano un regno, che cambiò il volto storico di Sparta.

3. La guerra romano-siriaca (192-188)- Intanto si andavano creando le premesse per lo scontro tra Roma e Antioco III. Quest’ultimo

consolidava allora le sue posizioni nel Chersoneso tracico (ricostruzione di Lisimachia nel 196), metteva le mani sui possedimenti tolemaici in Siria, Asia minore, Tracia e rafforzava i suoi legami con l’Egitto dando in moglie al giovane Tolemeo V Epifane la propria figlia Cleopatra (che inaugura la serie delle regine tolemaiche di questo nome). Già nel 196 i Romani ammonivano Antioco III di astenersi dall’aggredire le città greche d’Asia minore. L’aver poi Antioco dato asilo ad Annibale rafforzò i sospetti dei Romani contro il re; ma fattore decisivo fu la creazione da parte degli Etoli di una coalizione antiromana, a capo della quale vollero Antioco come generalissimo (strategòs autokrátor) della Lega etolica. Il re seleucide diventava il portabandiera di un sentimento nazionale, che si presentava soprattutto nella forma negativa dell’ostilità verso Roma. Antioco non fu però né sul piano militare né sul piano politico all’altezza delle attese che la sua stessa politica aveva ormai suscitato nel mondo greco, e che il venir meno del ruolo della Macedonia aveva reso di tanto più urgenti.

- La spedizione di Antioco III in Grecia fu mal preparata e di scarsa consistenza. M. Acilio Glabione si scontrò con le truppe del re alle Termopile nei primi mesi del 191 a.C.: sconfitto, Antioco si ritirò in Focide, e quindi a Calcide d’Eubea. A due sconfitte navali in Asia minore (Capo Corico, Mionneso), subìte dal Seleucide nel settembre del 191 e nello stesso mese del 190, seguì la battaglia campale di Magnesia del Sipilo (inverno 190/9), in cui Antioco fu battuto dai Romani e da Eumene II di Pergamo.

- Nella celebra pace di Apamea (188 a.C.), Antioco doveva rinunciare a tutti i possedimenti di qua dal Tauro, impegnarsi a pagare 15.000 talenti in conto-riparazioni, riconsegnare gli schiavi fuggitivi, estradare Annibale, riaprire i mercati del regno di Siria a Rodii e alleati. Nell’Asia minore di qua dal Tauro si ingrandirono i possedimenti di Eumene; Rodi acquisì la Caria e la Licia; le città greche che non erano state tributarie di Attalo o di Antioco conservarono la loro autonomia.

- In Grecia gli Etoli avevano continuato tenacemente quella guerra che avevano voluto e provocato. Dopo alcuni successi, il fiero popolo dovette cedere al nuovo attacco portatogli da M. Fulvio Nobiliore; alla caduta dell’epirotica Ambracia, roccaforte etolica, seguì, nell’inverno del 188, la stipulazione di una pace, che imponeva agli Etoli l’obbligo di assistere i Romani in caso di guerra; Delfi e molti altri territori della Grecia centrale si sottraevano al controllo della Lega etolica, che continuava tuttavia ad esercitare il suo dominio su una vasta area

4. Roma, la Lega achea, la Macedonia di Perseo- Gli anni tra il 188 e il 180 sono di crescente crisi per il mondo ellenistico, quello delle città

come quello dei grandi stati territoriali. Non sorprende che alla fine del decennio Roma avvii un ripensamento della sua politica di ‘relativo disimpegno’ in Grecia e decida, in considerazione del progressivo frantumarsi del mondo con cui è venuta a più diretto contatto, di interferire più direttamente nelle sue vicende.

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- Nel Peloponneso questi anni sono caratterizzati dall’acuirsi del conflitto tra la Lega achea, da un lato, e Sparta e la Messenia, dall’altro. Nel corso di una spedizione contro la Messenia, in particolare contro il partito democratico qui al potere, lo stratego della Lega achea (l’arcade Filopemene) fu fatto prigioniero e avvelenato durante la prigionia. In Asia minore si avviava un conflitto tra Eumene II e la Bitinia e il Ponto, o tra lo stesso sovrano pergameno e la repubblica di Rodi (tutto ciò finiva col far cadere Eumene II in sospetto presso i Romani). Sono anche per la Siria seleucidica anni di crisi; il figlio e successore di Antioco III, Seleuco IV, avviava un processo di riavvicinamento tra Siria e Macedonia, sancito dal matriomonio di Perseo (succeduto nel 179 a Filippo V) con Laodice, figlia di Seleuco IV.

- Perseo certamente aveva mostrato insofferenza verso gli stretti vincoli imposti dai Romani alla politica estera macedone dopo la vittoria di Cinoscefale; egli era divenuto inoltre punto di riferimento delle aspirazioni e delle attese delle masse di indebitati e di scontenti, come già, a suo tempo, Filippo V e successivamente Antioco III; ma è anche chiaro che i Romani adottarono verso Perseo una diplomazia provocatoria, volta a colpevolizzarlo e a provocare così una rottura, che consentisse l’estirpazione del regno di Macedonia. Q. Marcio Filippo, nel 172, condusse le trattative volte alla rottura, e guidò anche, una volta scoppiate le ostilità, la campagna del 169 a.C., che portò i Romani nel cuore della Macedonia, senza essere però coronata da risultati decisivi.

- Perseo aveva cercato sostegno e adesioni, che tuttavia non gli vennero dai governi greci. Nel 168, il comando delle operazioni militari romane passava a L. Emilio Paolo. Perseo, appostatosi a sud-est dell’Olimpo, fu aggirato con una manovra che rischiava di chiuderlo fuori della Macedonia: tornò all’indietro, in direzione di Pidna, e a sud di questa città subì una durissima sconfitta da parte romana, dopo un primo momento in cui l’assalto della falange macedone aveva fatto intravedere un risultato del tutto diverso. Perso salvò la vita con una vile fuga nel santuario dei Cabiri di Samotracia, ma qui cadde nelle mani dei Romani, che lo trasferirono a Roma e poi ad Alba Fucens, dove qualche anno dopo (165 o 162) egli moriva in dura prigionia

- La Macedonia fu divisa in quattro repubbliche, con capitali Pella, Pelagonia, Tessalonica e Anfipoli; esse erano isolate l’una dall’altra per effetto del divieto di connubio e di commercio. Era proibito il tradizionale commercio macedone del legname per costruzioni navali, furono chiuse le miniere d’oro e d’argento.

5. La politica romana nel Mediterraneo orientale dopo Pidna- Fra gli stati greci, migliorava nettamente la posizione di Atene (con l’acquisizione di Delo e

di Aliarto); venivano duramente puniti gli Epiroti (150.000 di essi furono venduti come schiavi) e i Rodii che, per effetto della creazione di un porto franco a Delo (166), risultavano fortemente mortificati e multati nelle entrate portuali di cui avevano fino allora goduto (passando da 1 milione a 150.000 dracme annue).

- Anche ai grandi regni ellenistici era del resto dato di provare una sempre più decisa interferenza romana. Quando, nel corso di una seconda spedizione nel cuore dell’Egitto, Antioco IV Epifane fu giunto sotto le mura di Alessandria, deciso ad unire alla Siria quel regno, il console romano Q. Popilio Lenate, poco dopo la battaglia di Pidna, lo raggiunse ad Alessandria, e gli ingiunse di lasciare il paese, impondendo tra l’altro una decisione

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immediata, dopo avergli tracciato intorno un cerchio, entro il quale Antioco doveva scegliere fra l’obbedienza ai Romani e la guerra.

- Il 168 e gli anni che immediatamente seguirono furono avvertiti nel mondo greco come quelli di una decisa sterzata nella politica estera romana, che adottava ormai, verso il mondo della città e dei regni ellenistici, moduli distruttivi sconosciuti al ‘sistema di equilibrio’ fino ad allora vigente fra le potenze ellenistiche del Mediterraneo orientale. Ne è tormentato testimone Polibio, tanto ammirato della realizzazione storica del dominio romano su quasi l’intero mondo abitato, quanto toccato dagli aspetti di durezza e di cinismo della politica romana. Ma delle qualità e dei princìpi della classe politica romana egli stesso poté essere lucido osservatore, per effetto della condizione di ostaggio che a lui, come ad un altro migliaio di uomini politici della Lega achea, fu imposta dai Romani (dal 167 al 151 circa), per punizione e misura cautelare nei confronti di una Lega greca, che si era comportata in maniera alquanto ambigua nel corso della guerra tra Roma e Perseo.

- Nel quasi quarantennio che intercorre tra la battaglia di Pidna (168) e l’annessione del regno di Pergamo, con la conseguente creazione della provincia d’Asia (129), la politica orientale dei Romani seguì due linee diverse, a seconda delle diverse aree in questione: 1) Nella penisola greca, e verso la Macedonia, la politica romana era di un’attenzione vigile, disposta all’intervento, e in particolare pronta all’interferenza nelle faccende interne degli stati greci. È comprensibili che in Macedonia e in Grecia si compisse, prima che altrove, il processo di annessione diretta, con la creazione di una provincia (Macedonia, circa 147), e che l’espansionismo romano si manifestasse nelle sue forme più distruttive (distruzione di Corinto, 146 a.C., di qualche mese posteriore alla distruzione di Cartagine a compimento della III guerra romano-punica). 2) Più lenti i processi, più graduali i modi della penetrazione nell’àmbito dei regni ellenistici d’Oriente, dove i Romani preferirono seguire e, ove possibile assecondare, accelerare e mettere a frutto processi disintegrativi interni, dovuti a mal calcolata intraprendenza, a errori politici, a conflitti dinastici o a incapacità di resistere alla pressione di popoli d’Oriente in fase di deciso risveglio ed espansione.

- Intanto, in Macedonia e in Grecia si andavano accumulando risentimenti e motivi concreti per un ultimo disperato tentativo di ribellione. Il primo segnale venne dalla Macedonia, dove, nel 151 e poi di nuovo nel 149 a.C., un uomo proveniente dall’Asia minore, un certo Andrisco, pretendendo d’essere Filippo, il figlio di Perseo (defundo, quest’ultimo, già da diversi anni), s’incoronò re a Pella, conseguendo poi un rilevante succesos sul pretore romano P. Iuvenzio, che perì in battaglia. Lo Pseudo-Filippo poteva contare sul rancore sempre vivissimo nei Macedoni contro i Romani, nonché su accordi con Cartagine, in guerra contro i Romani dal 149 (III guerra punica, 149-146 a.C.).

- La campagna guidata da Q. Cecilio Metello pose fine alla avventura di Andrisco nel 148 a.C. Lo Pseudo-Filippo veniva annientato presso Pidna; quindi la Macedonia fu ridotta a provincia (147/6?); le furono aggregati in un primo momento l’Illira e l’Epiro, e più tardi, dopo la rivolta acaica (147-146, seguita al ritorno degli esuli del 167), anche il resto della Grecia, fatta eccezione per le città liberae e immunes, a cui appartengono le póleis più rappresentative della Grecia classica. I Romani cominciano a mettere in mostra un atteggiamento quasi ‘archeologico’ verso tanta parte della Grecia classica: privata dell’indipendenza di fatto e, in molti casi, anche di diritto, la Grecia è ridotta, nell’ottica romana, in una condizione museale, che ne mortifica la vitalità politica, pur se ne conserva o perfino consolida il ruolo culturale e l’immagine storica.

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- Il conflitto tra Roma e la Lega achea trovò la sua causa occasionale in una di quelle levate di scudi contro ambascerie romane che costellano quel periodo: a Corinto furono insultati ambasciatori che erano venuti per dissuadere l’assemblea federale ivi riunita dal dar seguito alla politica dei nuovi dirigenti politici achei: era una politica nazionalistica con prospettive di miglioramenti della situazione sociale (abolizione dei debiti e concessione della libertà agli schiavi), e decisamente ostile a Sparta, la città peloponnesiaca protetta da Roma. La guerra dichiarata a Sparta dagli Achei nella primavera del 146 trascinò con sé la guerra contro i Romani, che inflissero agli Achei due sconfitte (una nella Locride orientale, l’altra decisiva sull’Istmo). La conseguenza, catastrofica ed epocale insieme, fu la distruzione di Corinto, di cui parlano le fonti, avvenuta poco dopo quella di Cartagine, nel 146 (solo nel 44 a.C. la città risorgerà, per volere di Cesare, come colonia romana, Laus Iulia Corinthiensis). Ne seguirono lo scioglimento della Lega achea, e un intervento pacificatore di Polibio sul terreno delle controversie cui il conflitto aveva dato luogo, che non mancheranno di manifestarsi ancora più volte durante tutto il II secolo a.C.

6. La crisi dei regni ellenistici nel II secolo a.C.- Nel regno di Siria, Antioco IV Epifane, stretto dai vincoli imposti dai Romani già con la

pace di Apamea (188), fino al momento dell’intervento in Egitto suggellato dal celebre ‘cerchio’ di Lenate (168), interpretò il suo ruolo storico nel senso di un impulso all’ellenizzazione, intesa come diffusione della forma politica cittadina e come fattore di omogeneità culturale. Se la Siria non poteva espandersi al di là dei nuovi, ridotti confini che le erano stati tracciati, doveva almeno trovare ragioni d’unità in una temperie culturale comune, da esprimere in forme greche d’educazione, di vita, di culti, e nel potenziamento del culto del sovrano.

- Questo disegno si rivelò assai difficile da realizzare nei confronti dei Giudei. Dopo Lenate Antioco si dedica con rinnovato impegno all’opera di ellenizzazione di Gerusalemme, in ciò assecondato dalla parte filellena della popolazione giudaica. Dapprima fu costruito un ginnasio, frequentato da Giudei e Greci; poi, alla fine del 167, il monarca interferisce anche negli aspetti cultuali: viene proibito il culto di Jahvè; è introdotto nel tempio di Gerusalemme Zeus Olimpio; la città doveva profilarsi come una nuova Antiochia, unificata dal culto anche al sovrano.

- Tre anni durò la rivolta giudaica, guidata da Giuda Maccabeo (Martello); essa si configurò come un movimento nazionale e religioso, ma anche come una rivolta della popolazione della campagna contro quella della città, che appariva troppo aperta agli influssi ellenici. Si andò costituendo uno Stato giudaico, in un processo che passò per vari stadi (152-142): la nomina di Gionata Maccabeo a gran sacerdote; la costituzione di una strategia di Giudea; liberazione dalla guarnigione seleucidica. Nel 134 Antioco VII Sidete riconquistava Gerusalemme, ma la sconfitta inflittagli dai Parti impose un ripensamento della questione giudaica, e garantì la sopravvivenza allo Stato suddetto, in parte della tradizione, degli Asmonei, dal nome della famiglia dei fratelli Giuda e Gionata.

- Fino al 150 a.C. il regno seleucidico comprendeva ancora, oltre alla Siria e alla Cilicia, la Mesopotamia e la Media, sul versante orientale. Ma proprio qui si andava sviluppando la pressione del regno partico che, intorno alla metà del II secolo a.C., per l’iniziativa del re Mitridate I (171-138 a.C.), si annetteva la Media e giungeva, nel 141, con la conquista di Seleucia del Tigri e successive incursioni in Mesopotamia, a minacciare anche questa

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regione del regno seleucidico. Il problema iranico è quello col quale si scontrano i sovrani seleucidici da Antioco IV in poi; è dall’interno dell’Asia che il regno siriaco riceverà i colpi decisivi, prima che Roma venga a cogliere i frutti definitivi con l’annessione.

- Il II secolo, nell’Egitto tolemaico, è caratterizzato in primo luogo dal miglioramento della condizione e del ruolo della popolazione indigena; è anche il secolo in cui si verifica una rilevante ellenizzazione dell’elemento indigeno, che traspare dall’onomastica, oltre che dai nuovi ruoli rivestiti dagli Egiziani; è però anche chiaro che l’ellenizzazione investe soprattutto le classi più elevate della popolazione indigena; Alessandria continua del resto ad assolvere un ruolo culturale trainante.

- Un’altra caratteristica significativa è la tendenza a una frantumazione del regno in tre nuclei fondamentali: Alessandria con la chóra egiziana, Cipro e Cirenaica. Se crisi c’è, essa è certamente collegata con i continui conflitti dinastici, da un lato, e con l’opposizione tra campagna e città, cioè con un aggressivo risveglio della campagna, dall’altro. Non vanno tuttavia sottovalutate né la vitalità culturale di Alessandria né la personalità assai spiccata dei due figli di Tolemeo V e di Cleopatra I, i cui regni coprono (e già questo è significativo) gran parte del II secolo a.C. Tolemeo VII regnò sull’Egitto dal praticamente dal 180 al 145. Nel 163 aveva luogo la spartizione del rego tra Tolemeo VI e Cleopatra II (governanti sull’Egitto e Cipro) e Tolemeo VIII (re a Cirene).

- Nel 162 Tolemeo VIII, per allacciare buoni rapporti con Roma, dettava un testamento a favore di essa: quel testamento in favore di un altro popolo diventava una assicurazione sulla vita del sovrano. Nonostante la vitalità del regno durante il governo di Tolemeo VIII, il destino dell’Egitto era ormai la sua frantumazione in tre tronconi, avvenuta dopo la morte del monarca (Egitto, Cipro e Cirenaica). Alla morte di Tolemeo Apione (96 a.C.) la Cirenaica passò nominalmente in eredità ai Romani, in forza di un testamento che ricalcava quello paterno; ma soltanto nel 74 a.C., in un anno di particolari strettezze finanziarie, i Romani procedettero all’annessione della regione.

- Il primo esperimento di governo provinciale oltre l’Egeo fu compiuto da Roma in Asia, dopo che Attalo III (138-133 a.C.) ebbe lasciato in eredità il suo regno ai Romani. Nonostante la pretesa al trono di un Aristonico, Roma si annetté tra 130 e 129 buona parte del regno.

7. L’annessione dei regni ellenistici all’impero di Roma- Nel I secolo a.C., mentre i regni di matrice ellenistica si avviavano al tramonto – che giunse

per i Seleucidi nel 63 a.C. con la creazione della provincia di Siria ad opera di Pompeo, e per l’Egitto fu solo ritardato dalla volontà di potenti uomini politici romani (Pompeo e Gabinio) o dai conflitti scoppiati fra di essi, e poi dai rapporti affettivi tra Cesare e Cleopatra VII e quelli tra Antonio e la stessa Cleopatra, e dalla forte personalità di questa – emergono regni, le cui dinastie non erano di origine greca, ma, sensibilmente ellenizzate, poterono svolgere il ruolo di tutrici della cultura e persino della forma cittadina greca, nonché di antagoniste di Roma. Il personaggio più notevole è Mitridate VI Eupatore, re del Ponto (121-63 a.C.), che dominava il Chersoneso taurico, cioè la Crimea, oltre a gran parte dell’Asia minore. Negli anni 89-85, 83-81, 74-67, Mitridate si scontrò con eserciti romani in Asia minore e, nel primo conflitto, anche in Grecia.

- Questo conflitto vide una rivolta di Atene contro i Romani, capeggiata da Atenione. Era u a svolta piuttosto innaturale nella politica di Atene e nella storia dei rapporti tra Roma e il

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mondo greco. A dar corso alla dura reazione romana fu L. Cornelio Silla. Dopo le vittorie conseguite sul generale di Mitridate, Archelao, all’inizio dell’86, Atene fu saccheggiata nel marzo dello stesso anno; seguì il saccheggio dei santuari di Olimpia e di Delfi, a cui si aggiunse quello di Epidauro (che dal IV secolo a.C. aveva raggiunto non dissimile floridezza). La pace di Dardano (85 a.C.) chiudeva questo primo (e per i Romani più inquietante fra tutti) conflitto fra Roma e il re del Ponto.

- Negli anni successivi Roma continuò nella pratica dello spremere contributi dalle città greche. Qualche vantaggio derivò però, per le medesime, dalla lotta svolta con decisione contro i pirati che si rifugiavano nei porti di Silicia e Creta. Nel 67, dopo le vittorie conseguite sui pirati, Pompeo riorganizzò la provincia di Cilicia; nel 58 veniva annessa, e collegata con la pronvincia di Cilicia, l’isola di Cipro. Ma, soprattutto, nel 63 a.C. veniva creata la provincia di Siria e circondata di stati clienti dei romani. Qui si poneva subito il problema del rapporto con lo stato giudaico, che fu affrontato in maniera diversa da Pompeo, più inteso a espandere l’area dell’ellenizzazione, e da Cesare, che riconobbe invece vari privilegi ai Giudei.

- Intorno a quella data, anche l’Egitto si avviava ormai a scomparire come stato indipendente. Se esso sopravvisse ancora un trentennio, lo si deve a una concomitanza di vicende personali, nelle quali furono coinvolti personaggi decisivi della politica romana. Ma già con i grandiosi interventi di Pompeo nel Mediterraneo orientale erano poste tutte le premesse per l’assorbimento dell’ultimo grande regno ellenistico nella compagine dell’impero romano. Sin dalla morte di Tolemeo IX Sotere (80 a.C.) la forte ingerenza romana pareva aver ridotto i sovrani d’Egitto a semplici marionette.

- Scoppia la guerra civile tra Pompeo e Cesare. In Grecia, come in Asia minore e in tutti i paesi ellenizzati del Mediterraneo orientale, la guerre civili romane comportarono un grave costo in tributi, sacrifici, disagi e anche vite umane. Tra Pompeo e Cesare i Greci si barcamenarono; la clemenza di Cesare però valse nei confronti delle grandi città greche dell’Asia minore, da Pergamo a Cizico a Mileto. Dopo la battaglia di Farsàlo (48 a.C.) Pompeo si rifugiò in Egitto e fu fatto uccidere da Tolemeo XIII.

- Ancor più gravi le conseguenze della nuova guerra civile, scoppiata tra i cesaricidi, Bruto e Cassio, e i vendicatori di Cesare, anche perché i primi erano del tutto a corto di denaro, e dissanguarono le città o punirono per la loro resistenza Rodi e le città greche d’Asia. L’Oriente greco divenne poi la base di Antonio, e tale rimase anche nel conflitto con Ottaviano, deciso virtualmente dalla battaglia di Azio (2 settembre 31 a.C.). In questa Antonio ebbe dalla sua la flogga della regina egiziana, Cleopatra, che aveva saputo già attirare a sé G. Giulio Cesare, con la sua intelligenza e una grazia non priva di difetti: Cesare aveva addirittura combattuto, per conto della regina ed amante, una tipica guerra tolemaica di vecchio stampo, contro i ribelli di Alessandria (48/7 a.C.); Cleopatra gli diede un figlio, Cesarione.

- Successivamente Cleopatra sostenne invece Bruto e Cassio; Antonio la convocò a Tarso, perché si discolpasse: dall’incontro nacque una nuova, fatale passione. Cleopatra era pienamente compenetrata del suo ruolo di erede dei sovrani del passato; come suo padre (Tolemeo l’Aulete) si era proclamato Nuovo Dioniso, essa fu la Nuova Iside. Antonio intanto le andava ingrandendo il regno, con concessioni di territori, dalla Celesiria a Cipro a parte della Cilicia; e nel 34 a.C. si arrivò a una solenne proclamazione dei ruoli di una intera ‘famiglia di re’, e alla relativa spartizione dei territori, fra Cleopatra e Cesarione, che

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divenivano ‘re dei re’ (ed esercitavano la sovranità sull’Egitto e su Cipro), e i figli di Cleopatra e Antonio (Alessandro Elio, che riceveva l’Iran; Tolemeo Filadelfo, che riceveva Siria e Cilicia; Cleopatra Selene, cui toccavano la Cirenaica e la Libia). La centralità assegnata all’Egitto rappresentava un rovesciamento della politica pompeiana, che aveva fatto dirigere le vicende del regno del Nilo dal governatore romano di Siria: la svolta è certo connessa al ruolo e alla personalità di Cleopatra.

- Fu facile ad Ottaviano presentarsi come il difensore della causa dell’Italia e dell’Occidente contro le pretese egemoniche dell’Egitto tolemaico, inopportunamente rese nuovamente attuali dalla politica del rivale Antonio. La riposta di Ottaviano dopo la vittoria di Azio, e dopo la successiva campagna di Alessandria e i suicidi di Antonio e di Cleopatra, fu misurata, ma risentì di quel cattivo inizio di rapporti con il mondo ellenistico. Egli tenne distinta l’amministrazione di Siria e di Egitto: una soluzione diversa sia da quella di Pompeo, sia ancor più chiaramente da quella di Antonio.

- La tradizione greca e romana ha ben delineato gli aspetti psicologici e storico-politici del conflitto tra la Roma di Ottaviano e l’Egitto tolemaico di Antonio e Cleopatra, che nonostante effimero fu causa di angoscia per i Romani. Le vittorie di Azio (navale) e di Alessandria (terrestre e navale) furono sentite come la liberazione da un incubo, una ‘grande paura’ che percorse il mondo occidentale, a cui la tradizione associa l’odio verso Cleopatra, i suoi intrighi, le sue minacce, e però anche, a tratti, una cavalleresca ammirazione per il coraggio dimostrato dalla regina nel conflitto con Roma e, dopo, nella orgogliosa e irrevocabile scelta del suicidio, compiuta per sottrarsi all’umiliante esibizione sul carro trionfale di Ottaviano.

8. Impero e politica culturale da Augusto a Giustiniano- Difficili i rapporti tra Augusto ed Atene; quanto a Sparta, Augusto ne avvia decisamente la

trasformazione in una città diversa da quella originaria e classica, riducendone drasticamente il territorio, sottraendo al controllo spartano la più gran parte della fascia costiera della Laconia. Sparta diventa allora definitivamente quel che si era avviata a diventare dal 146 in poi: una città ellenistica come tutte le altre, con uno sviluppo urbano e monumentale del tipo diffuso, in probabile corrispondenza con mutamenti strutturali, nel senso di un pieno sviluppo della proprietà privata, della scomparsa dell’antica servitù rurale ilotica, e del probabile sviluppo della comune forma di schiavitù. Come altre città greche, anche se in una misura tanto più spiccata quanto più peculiari erano le sue istituzioni tradizionali, Sparta diventa in epoca romana una entità culturale, archeologica, quasi museale.

- All’orientamento tradizionalistico e nazionalistico di Augusto e di Tiberio fecero seguito gli imperi di più chiara impronta ellenistica (di Caligola, in parte di Claudio, e soprattutto di Nerone). L’ellenismo di Caligola si espresse soprattutto nella divinizzazione che egli promosse della sua persona o nell’interesse dimostrato per gli aspetti religiosi o per le tradizioni regali dell’Egitto ellenistico (in questo, seguace entusiasta di Antonio). Fu soltanto Nerone però a prendere decisioni di grande rilievo in favore della Grecia: nel 67 d.C. egli rinnovava la dichiarazione di T. Quinzio Flaminino sulla libertà della Grecia, cioè aboliva la provincia d’Acaia; provò ad aprire un canale attraverso l’istmo di Corinto, sfiorando il completo successo; fu salutato dai Greci, colmi di gratitudine, come Zeus eleuthérios (liberatore).

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- L’avvento della dinasia flavia significò una svolta culturale decisa, nel senso di un recupero del tradizionalismo e nazionalismo augusteo e persino, ove possibile, di una sua accentuazione. Le frequenti discordie, e i connessi disordini scoppiati in àmbito greco, fornivano a Vespasiano il pretesto per bollare i Greci come incapaci e perciò indegni di libertà; e le condizioni di libertà e di esenzione dal tributo furono ritolte alla Grecia, alla Licia, a Rodi, a Samo, a Bisanzio. I filosofi furono espulsi nel 74 d.C. da Roma e dall’Italia, proprio nello stesso anno in cui l’imperatore concedeva privilegi ad altre categorie di intellettuali (retori, grammatici, medici), sia quanto ad esenzione dal pagamento delle imposte sia quanto a concessione del diritto di formare associazioni professionali.

- La svolta in politica estera rappresentata dalla politica di contenimento dell’espansione, e di consolidamento della pace, realizzata da Adriano (117-138), fu la premessa per quella poderosa ripresa dell’ellenismo, che caratterizza il governo di questo imperatore e degli Antonini suoi successori (Antonino Pio, 138-161; Marco Aurelio, 161-180). È intanto di grande interesse il fatto che con Adriano e gli Antonini rinascita dell’ellenismo significhi rinascita di centri, tradizioni, istituzioni, valori della Grecia propria. Adriano costruisce, accanto alla vecchia Atene, ma distinta da essa, una seconda Atene: egli vuole essere il fondatore non di un’altra città, ma di una nuova città. L’imperatore filelleno porta al massimo livello quell’atteggiamento ‘archeologico’ verso la Grecia che anche prima era affiorato nella politica romana, ma che ancora durante il primo impero aveva lasciato spazio a forti interventi nel tessuto monumentale e urbano dei vecchi centri greci. Nella sua città Adriano costruisce l’Olympieion, un Pantheon, una stoá con biblioteca, il Panellenio. Tre volte egli soggiornò ad Atene, facendosi anche iniziare, in uno di questi viaggi, ai misteri eleusinii. E soprattutto egli fondò una Lega universale dei Greci (Panellenio), con sede ad Atene, dotata di un consiglio, che si riuniva annualmente nella città, e promotrice di feste Panelleniche celebrate ogni quattro anni: un organismo a carattere culturale e cultuale, non politico. Mai come sotto questo imperatore e sotto il suo successore ebbe senso, nel rapporto tra Roma e Grecia, la parola evergetismo, quasi un programma sistematico di governo; a ciò contribuiva del resto la politica di pace perseguita dai due imperatori, che i Greci, divenuti ormai solo coscienti e dolenti vittime della storia, sanno apprezzare, quando sottolineano come né l’uno né l’altro si fosse impegnato in guerre volontariamente. E quanto a guerre subite, certamente pesò negativamente su Marco Aurelio, per quanto riguarda la Grecia, l’invasione della penisola ad opera dei barbari Costòboci (circa il 170 d.C.). L’evergetismo d’altra parte è una pratica che non resta confinata all’interno della politica e dell’amministrazione imperiale, ma storicamente connota l’élite greca.

- È difficilissimo indicare il momento finale della storia greca antica, per l’impressionante divario prodotto dalla dominazione romana tra la valenza politica dei Greci, immediatamente rimossa, e il loro prestigio culturale. Si può certo ancorare la periodizzazione della storia della grecità al fenomeno organizzativo più perspicuo, cioè alla storia delle città. Ma per questo aspetto i rischi dell’indeterminatezza della fase conclusiva della storia greca sono ancora maggiori: ché la città, come forma di comunità e di amministrazione, appare in definitiva indistruttibile (finché questa o quella determinata città non sia programmaticamente distrutta da un potere politico-militare) e perciò si trasmette da un’epoca all’altra. Tra un limite troppo alto per definire il punto d’arrivo della storia greca (quale la fine della libertà e della funzione politica dei Greci) e un limite troppo basso, o addirittura strutturalmente non individuabile (come quello della fine della città come forma

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di vita e amministrazione comunitaria), converrà dunque adottare altri criteri (pur nella consapevolezza di dover così rinunciare a definizioni cronologiche troppo rigorose), come quello dell’esaurirsi, o del netto attenuarsi della funzione e dell’irradiazione culturale della grecità, conseguenze anch’esse, pur se ritardate di secoli, dell’obliterazione della funzione politica delle città. Ma poiché le città come entità amministrative sussistono, è proprio in esse che si incentra e trova il suo principale supporto la cultura greca. Sotto Roma la storia greca continua dunque essenzialmente come storia della cultura greca, nel senso più lato della parola.

- Nella seconda metà del II secolo d.C. il regno del filelleno Marco Aurelio (161-180) vede il singolare concorso di due grandi fattori di crisi e di declino: la grande peste degli anni intorno al 166 e l’invasione della Grecia ad opera dei barbari Costòboci, che giunsero a dare alle fiamme quel santuario di Eleusi, che per gli imperatori filelleni, quali Adriano e gli Antonini, rivestiva particolarrisima importanza (e che ancora nel III secolo d.C. conobbe una nuova rinascita). Con Commodo (180-192), nonostante il permanere di formali atti di ossequio nei confronti della tradizione greca e del prestigio di Atene, si registra invece una svolta nella politica imperiale verso il mondo ellenistico, svolta che si accentuerà nel periodo dei Severi e di Massimino Trace (tra il 193 e il 238 d.C.). Ancora una volta, cartina di tornasole è la politica ostile tenuta da Commodo e in definitiva dallo stesso Settimio Severo nei confronti dell’ellenismo di Alessandria. Inoltre, è proprio a cominciare da quest’epoca che si diffondono nella parte occidentale dell’impero culti orientali (come quelli di Mitra e di Ma); tutto questo, mentre si consolida la diffusione del Cristianesimo, che si accinge a cogliere, con l’editto di Costantino del 313 (editto di Milano), la sua definitiva vittoria, nel riconoscimento di religione ufficiale dell’impero. Con ciò, esso si individua come altro decisivo fattore, non della scomparsa della cultura ellenica, ma certo della radicale trasformazione della sua funzione storica.

- Forme culturali greche però, tipicamente legate alla struttura cittadina, come la ginnastica e l’efebia, persistono ancora in pieno III secolo. Vero è che subito dopo la metà del secolo esplode tremendo l’altro fattore di crisi dell’ellenismo antico, che vale per l’impero romano nel suo insieme e certo in primo luogo per la parte orientale di esso: nel 253 navi di barbari (Goti, Burgundi e altri ancora) fanno la loro comparsa nelle acque dell’Asia minore; tra il 256 e il 262 si susseguono invasioni per via di terra delle stesse regioni anatoliche. Storicamente ancor più significativa l’invasione della Grecia nel 267 da parte degli Eruli, i quali espugnano Atene e devastano il Peloponneso, da Corinto e Argo fino a Sparta. Per l’impatto profondo dell’esperienza dei nuovi barbari, questo evento si presta bene a segnare, se non il punto finale dell’ellenismo di epoca romana, almeno una delle tappe più emblematiche (come raccontato dal comandante della resistenza anti-barbarica e storiografo dell’evento Publio Erennio Dexippo).

- Nel III secolo si va dunque davvero attenuando la vitalità della Grecia propria, poi ridestata nel IV e ancora evidente in parte del secolo successivo. Certo i grandi centri dell’area degli Stretti, dell’Asia minore, della Siria, dello stesso Egitto, continuano a svolgere un ruolo, che l’avvento del Cristianesimo poté solo esaltare, divenendo quelle città sedi di patriarchi o di grandi concilii, e comunque restando come grandi centri di cultura. Che fra essi prevalga Bisanzio, divenuta Costantinopoli, e capitale dell’impero, è del tutto comprensibile. Ad Alessandria continuano a vivere, pur trovandosi esposte ai rischi connessi con il loro ruolo di rappresentanti della cultura pagana in un periodo di piena affermazione del Cristianesimo,

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le vecchie istituzioni culturali di età tolemaica: il Serapeo con la sua biblioteca, andati distrutti nel 391 d.C., il Museo e l’Academia.

- Dunque, neanche l’epoca di Diocleziano o quella dell’imperatore cristiano Costantino, possono considerarsi come il momento della morte della pólis. L’estinguersi della cultura ellenica di tradizione pagana è segnata dallo scomparire, un po’ alla volta, di quelle tradizioni e istituzioni culturali che, quando accompagnate a un minimo di entità e autonomia amministrativa di una città, ne facevano, tutto sommato, una pólis viva. Non sbaglia perciò chi considera come fase conclusiva della storia greca l’epoca di Giustiniano, che vietò la retribuzione e l’esercizio dell’insegnamento pubblico dei maestri pagani ad Atene nel 529, quasi all’inizio del suo lungo regno (527-565); così come il predecessore e zio Giustino I aveva, nel 520, posto fine alle celebrazioni delle Olimpie di Antiochia, che continuavano probabilmente in qualche modo la tradizione di quelle feste e gare, che ad Olimpia di Elide si erano celebrate per l’ultima volta nel 393. Tra queste due date, così significative per la storia della cultura greca (393 e 529), si colloca dunque l’esito di quei processi, graduali ma ormai tutti di un solo senso e segno, che si possono ragionevolmente identificare con la fase conclusiva della storia della grecità antica.