Arte Greca - Bejor_castoldi

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ARTE GRECA Bejor, Lambrugo, Castoldi I. L’età protogeometrica e geometrica I cosiddetti ‘secoli bui’ Tra la fine del secolo XIII a.C. e circa la metà del XII a.C., il mondo miceneo (la cui cultura si era sviluppata già dal XVI sec.) subì un evidente declino con un susseguirsi di eventi di varia natura: - distruzione diffusa dei palazzi a Micene, Tirinto, Pilo nel Peloponneso, Iolco in Tessaglia e, infine, sull’Isola di Creta (le cause concomitanti possono ricondursi principalmente a catastrofi naturali e a ribellioni sociali interne; l’invasione da parte dei Dori in Grecia, ma anche le migrazioni dei cosiddetti ‘popoli del mare’, sul finire del XII sec., non possiamo ritenerle cause prime di tali distruzioni, tanto più, pare, relativamente ai Dori, che si fossero inseriti gradualmente dando vita a forme pacifiche di convivenza), - scomparsa dell’uso della scrittura sillabica ‘Lineare B’, - passaggio dall’età del bronzo a quella del ferro, - mutamenti culturali che si riflettono sui manufatti artistici (a metà dell’XI comparirà la cultura ‘protogeometrica’), - passaggio dal rito dell’inumazione a quello dell’incinerazione, - inizio della cosiddetta ‘colonizzazione ionica’ (in realtà anche euboica e dorica) consistente nel trasferimento e nell’occupazione stabile delle coste occidentali della penisola anatolica (Isola di Lesbo e antistante costa, a sud di Smirne, isole di Samo e Chio, isola di Coo e sulla costa di fronte proseguendo sino alla città di Lindo) da parte di gruppi di Greci, provenienti da aree diverse della Grecia orientale. Vale ricordare che proprio in questo periodo (tra 1194-1184 a.C., secondo Eratostene e Apollodoro) si colloca la mitica spedizione acheo-micenese contro Troia, il racconto omerico conferma in più parti quanto i regni micenei fossero già in quegli anni in balia di profonde convulsioni. Al di là di tutti questi mutamenti, vi sono comunque, anche significativi episodi di continuità tra la cultura micenea e quella successiva (=protogeometrica), sia insediativa (= odierna Nichoria in Messenia e ad Asine in Argolide) che cultuale (= Kalapodi nella Focide, nel santuario di Apollo Maleates presso Epidauro e, infine, nel santuario di Hermes e Afrodite a Kato Syme Viannou a Creta, quest’ultimo attivo ininterrottamente dal XVI a.C. fino al IV d.C.). 1

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ARTE GRECA Bejor, Lambrugo, Castoldi

I. L’età protogeometrica e geometrica

I cosiddetti ‘secoli bui’ Tra la fine del secolo XIII a.C. e circa la metà del XII a.C., il mondo miceneo (la cui cultura si era sviluppata già dal XVI sec.) subì un evidente declino con un susseguirsi di eventi di varia natura: - distruzione diffusa dei palazzi a Micene, Tirinto, Pilo nel Peloponneso, Iolco in Tessaglia e, infine, sull’Isola di Creta (le cause concomitanti possono ricondursi principalmente a catastrofi naturali e a ribellioni sociali interne; l’invasione da parte dei Dori in Grecia, ma anche le migrazioni dei cosiddetti ‘popoli del mare’, sul finire del XII sec., non possiamo ritenerle cause prime di tali distruzioni, tanto più, pare, relativamente ai Dori, che si fossero inseriti gradualmente dando vita a forme pacifiche di convivenza), - scomparsa dell’uso della scrittura sillabica ‘Lineare B’, - passaggio dall’età del bronzo a quella del ferro, - mutamenti culturali che si riflettono sui manufatti artistici (a metà dell’XI comparirà la cultura ‘protogeometrica’), - passaggio dal rito dell’inumazione a quello dell’incinerazione, - inizio della cosiddetta ‘colonizzazione ionica’ (in realtà anche euboica e dorica) consistente nel trasferimento e nell’occupazione stabile delle coste occidentali della penisola anatolica (Isola di Lesbo e antistante costa, a sud di Smirne, isole di Samo e Chio, isola di Coo e sulla costa di fronte proseguendo sino alla città di Lindo) da parte di gruppi di Greci, provenienti da aree diverse della Grecia orientale.

Vale ricordare che proprio in questo periodo (tra 1194-1184 a.C., secondo Eratostene e Apollodoro) si colloca la mitica spedizione acheo-micenese contro Troia, il racconto omerico conferma in più parti quanto i regni micenei fossero già in quegli anni in balia di profonde convulsioni. Al di là di tutti questi mutamenti, vi sono comunque, anche significativi episodi di continuità tra la cultura micenea e quella successiva (=protogeometrica), sia insediativa (= odierna Nichoria in Messenia e ad Asine in Argolide) che cultuale (= Kalapodi nella Focide, nel santuario di Apollo Maleates presso Epidauro e, infine, nel santuario di Hermes e Afrodite a Kato Syme Viannou a Creta, quest’ultimo attivo ininterrottamente dal XVI a.C. fino al IV d.C.).

I primi templi e le prime abitazioni

Tra i tipi architettonici greci il solo edificio sacro si caratterizza fin dalla sua nascita per proprietà di grandezza, per materiale durevole e pregiato di costruzione, a differenza di quanto avvenne per le abitazioni civili costruite per lo più con materiali di facile deperimento (ci rimangono, infatti, pochi resti). Distinguiamo 2 differenti concezioni progettuali a destinazione sacra, corrispondenti l’una con l’area dorica della Grecia continentale, l’altra con l’area ionica della grecità orientale. Nel primo caso le soluzioni architettoniche adottate paiono svilupparsi da 2 fondamentali tipologie planimetriche, il megaron miceneo e l’oikos. Il megaron è un edificio a pianta rettangolare con terminazione ad abside (deriva la sua forma dalla sala micenea), eventualmente divisa in 2/3 navate da file di colonne, all’interno del quale l’anax (signore) si mostrava ed era possibile sacrificare e consumare pasti vicino al trono. La forma più consueta e diffusa (almeno fino al sec. VII a.C.) fu, comunque, quella più modesta dell’oikos (comune tipologia abitativa), con eventuale vestibolo ad ante, naiskos, ambiente quadrangolare di piccole dimensioni, absidato o normale di cui tra l’altro ci sono pervenuti numerosi modellini in terracotta e pietra che ce ne fanno apprezzare meglio l’aspetto (es. fig. 1.8, Heraion di Argo). Concludendo possiamo affermare che in area dorica il tempio ricalca, nelle sue più antiche forme, il modello della casa, sia nel tipo più spettacolare del megaron rettangolare allungato, sia in quello più modesto dell’oikos quadrangolare. [Di notevole importanza per l’evoluzione delle primitive forme dell’edificio di culto è il cosiddetto Heròon (fig. 1.4) rinvenuto a Lefkandi (Eubea), databile alla prima metà del sec. X a.C., di pianta rettangolare

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allungata con abside, accessibile dal lato corto tramite anticamera. Costruito su una fondazione in pietre e un tetto a doppio spiovente in canne e paglia, il cui peso era sostenuto, sia da una fila di pali lungo l’asse centrale, che da un perimetro di pali intorno alla struttura (= probabile precursore della peristasi?). Questo era in origine un’abitazione di un re locale che ne divenne successivamente la sepoltura.]. Nell’area ionica, troviamo influenze dell’Anatolia e il Vicino Oriente, qui l’idea generatrice è quella di un recinto monumentalizzato che abbraccia uno spazio scoperto per la teofania (= apparizione sotto forme visibili) del dio (= statua esposta sotto una qualche struttura di protezione). La più antica testimonianza dell’applicazione di questa concezione architettonica è il periptero geometrico di 8 x 4 colonne dell’Artemision di Efeso (fig. 1.9, I), che con una peristasi lignea, avvolge il recinto nel quale viene eretto un tabernacolo a protezione dell’agalma (= immagine di culto). Il primitivo recinto assume, nell’Heraion di Samo (fig. 1.10), le forme di un edificio rettangolare molto allungato (= hekatompedon, ovvero lunga 100 piedi), il cui tetto era sostenuto da una fila centrale di pilastri lignei, vi si accedeva da un lato corto aperto tristilo in antis (= con 3 colonne tra le ante), la statua di culto era collocata sul fondo leggermente fuori asse per permetterne la visione nonostante la presenza dei pilastri. In generale fin dal secolo VIII a.C. si afferma presso i Greci l’esigenza di delimitare un’area nella quale la presenza della divinità si espliciti concretamente tramite la statua di culto.

Come abbiamo già accennato, la tipica casa consiste, invece, in un ambiente quadrangolare monovano (oikos) piuttosto modesto (15/20 mq) privo di suddivisioni interne, con probabili tettoie o cortili esterni (fig. 1.11). Per famiglie più numerose o gruppi di famiglie la casa segue, invece, il modello del megaron miceneo, precedentemente illustrato. Le case o si basavano direttamente su un banco di roccia scavato oppure si ergevano su muretti di ciottoli e pietre. L’antica Smirne ha restituito case di forme sia ovale che rettangolare (età geometrica), mentre a Emporio (Chio) le abitazioni consistono, per la solita età geometrica, per lo più di oikoi quadrangolari. Le piante delle due città non dispongono di impianti urbanistici regolari (a Smirne le case sono più agglomerate, a Emporio più sparse), come invece poteva disporne un insediamento di tipo coloniale quale fu, ad esempio, Megara Iblea (Sicilia), qui il territorio venne suddiviso in lotti uguali, le case quadrangolari di simile ampiezza disposte regolarmente. Col passare del tempo, per rispondere a maggiori esigenze pratiche, le abitazioni si fecero più grandi, vennero costruite accostando i vari ambienti, spesso non comunicanti tra loro, bensì tramite un corridoio trasversale cinto da un muro, detto pastàs (fig. 1.17), questo tipo di costruzione si completava con un cortile antistante chiuso da muri.

La ceramica

1) Stile protogeometrico (PG): 1050-900 a.C.2) Stile geometrico antico (GA): 900-850 a.C.3) Stile geometrico medio (GM): 850-760/750 a.C.4) Stile geometrico tardo (GT): 760/750-700 a.C.

La datazione delle ceramiche protogeometriche e geometriche si basa sulla successione dei reperti rinvenuti nella necropoli ateniese del Dypilon (la Bottega del Dypilon, inizia la sua attività intorno al 760 a.C., trae il nome dalla vicina omonima necropoli), che insieme ad altri centri attici, continua a costituire la sequenza più completa.

1) Atene in questo periodo effettua molte esportazioni (nel Golfo Corinzio e Saronico, sulle Cicladi a Delo, Sifno, Thera, nel Dodecaneso a Rodi e Coo), il suo tipo di ceramica (soprattutto anfore a collo distinto, oinochoai, crateri e skyphoi) non presenta una cesura netta con la facies precedente submicenea. Accanto a motivi micenei come la linea ondulata, l’ornato si compone di larghe bande, ritmi di linee sottili, triangoli campiti a reticolo, losanghe, scacchiere, semicerchi e cerchi

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concentrici, dipinti con un pennello multiplo montato su compasso (fig. 1.22 e 1.21), queste decorazioni seguono l’anatomia del vaso.

2) In questo periodo si ha la ripresa dei contatti con il Vicino Oriente, la decorazione delle ceramiche, di ritmo e ispirazione pienamente geometrici, si dispone per fregi orizzontali sovrapposti a scandire la dinamica del vaso, con un netto prevalere degli elementi rettilinei e obliqui (zig-zag, meandri, clessidre) e un progressivo scomparire delle forme tracciate a compasso (di questo strumento, spesso, viene ritrovato sulla superficie del vaso il foro di appoggio), persistono, come nella fase precedente, le ampie superfici semplicemente campite di nero (fig. 1.23).

3) Adesso l’ordito geometrico va piano piano estendendosi all’intera superficie e per la prima volta iniziano a comparire le raffigurazioni di animali (fig. 1.24) e successivamente di uomini resi a silhouette. I vasi, soprattutto quelli funerari, si fanno monumentali e ha notevole successo la pisside a scatola bassa, il cui coperchio è spesso dotato di impugnatura plastica con forme di cavallini fittili (fig. 1.25). Di straordinaria qualità è lo skyphos di Eleusi (fig. 1.27, 2 le scene raffigurate: lo sbarco di una nave, uno scontro tra uomini).

4) L’enorme produzione di ceramiche permette di individuare, ora, diversi gruppi stilistici, botteghe e pittori, attivi ad Atene negli ultimi decenni del VIII sec. a.C. (anche se quasi nessuno si firma, ricordiamo che le prime iscrizioni greche, a noi pervenute, appartengono a questo secolo; fig. 1.3, ‘coppa di Nestore’, con una delle prime iscrizioni greche, rinvenuta a Pitecusa). La decorazione geometrica si espande a occupare tutta la superficie del vaso, si moltiplicano le scene inquadrate in metope, oppure disposte per fregi sovrapposti. Si ritraggono scene di carattere narrativo (ispirate agli eroi dell’Iliade e dell’Odissea), soprattutto episodi funebri con l’esposizione (prothesis, es. fig. 1.28, attribuito al pittore del Dypilon) o il trasporto del defunto (ekphorà, fig. 1.29, qui al compianto partecipa l’intera comunità). In una fase più avanzata del GT l’armonia si stempera in un progressivo dissolversi dei rigidi schemi geometrici, il segno è meno preciso, la figura umana e animale assumono contorni più pesanti meno netti, le scene risultano più confuse, inoltre, si adottano forme plastiche (soprattutto serpenti) applicate sul labbro, sulla spalla o sulle anse (fig. 1.30). Ad Atene si affianca ora la produzione di ceramiche corinzie (esporta in Magna Grecia, Sicilia), che manca della vivacità narrativa di quella ateniese (fig. 1.18); produzioni si hanno anche in Beozia (che risente molto l’influsso ateniese), nelle Cicladi e nell’Eubea, ove si prediligono ornati curvilinei e figure di animali (fig. 1.19).L’arte del vasaio: argille e tornio. Il colore dell’argilla dipende dalla natura geologica del terreno di estrazione: argilla corinzia è molto chiara dai toni verdi, giallognoli, quella attica è rossa, quella dell’Asia Minore color cuoio. A una prima fase di pulitura della massa argillosa, segue l’operazione della decantazione (= l’argilla sciolta in acqua, le particelle più pesanti vanno a fondo, i corpi da scartare salgono in superficie), successivamente l’argilla depurata si mescola con sabbia e chamotte (= cocci di argilla cotti e macinati) per ottenere una sgrassatura e migliorare la cottura. Quindi l’argilla può essere ora plasmata o al tornio o a mano, essiccata, rifinita con l’applicazione delle anse (a volte anche piedi e orli) prodotte separatamente. Le fasi conclusive: lisciatura del vaso con un cencio di pelle e decorazione pittorica. Pinax (=tavoletta) fittile corinzia, VI sec. a.C., fig. 1.31, 1.32, ove sono riprodotte scene raffiguranti la lavorazione dell’argilla. La piccola plasticaIn età protogeometrica si sviluppano anche produzioni di figure di animali fittili (la decorazione è la stessa che compare sui vasi), probabilmente oggetti votivi, fig. 1.33 cervo del sec. X a.C. da Atene e fig. 1.34, centauro di Lefkandi tra PG e GA. Nella prima metà del VIII a.C. diventeranno numerosi i tripodi bronzei (= utensile creato alla fine dell’epoca micenea come contenitore per bollire carni, ora costituisce un monumentale dono votivo) fig. 1.35. Ricca sarà anche la produzione di piccole figure di uomini (es. fig. 1.39 l’auriga di Olimpia, fig. 1.41 il bronzetto dell’Acropoli, qui al posto del rigidismo della concezione geometrica si fanno strada forme più fluide, il movimento pare

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appena liberato, il capo non è più frontale ma sollevato lievemente e spostato verso sinistra, ci sono cenni percettibili delle articolazioni tra gli arti, databile agli ultimi decenni del VIII) e di cavallini in bronzo (fig. 1.37), questi ultimi costituivano un importante status symbol per la classe aristocratica, le forme e le proporzioni ricalcano quelle dipinte sulle coeve ceramiche. I centri più fiorenti cui fanno capo queste produzioni di microplastica sono principalmente: Atene, Argo, Corinto, Sparta e altri centri del Peloponneso e della Grecia centrale. La microplastica sarà prodotta non solo in bronzo ma anche in avorio (fig. 1.42, dal Dypilon).

II. L’età orientalizzante

Fino a una fase avanzata del Geometrico Tardo le importazioni dall’Oriente non avevano affatto indebolito né destrutturato il sistema culturale geometrico. In Grecia alla fine del secolo VIII a.C. e inizio del VII aumenta notevolmente l’afflusso di manufatti siro-fenici, ittiti, aramaici, assiri, iranici, inoltre, mercanti greci iniziano a frequentare assiduamente lo scalo di Al- Mina nella valle dell’Oronte e l’emporio di Naucrati sul delta del Nilo (qui gruppi di greci si stanziarono stabilmente). Contemporaneamente avvenne l’intensa diaspora verso Occidente di famiglie orientali in fuga dalla pressione assira, soprattutto dal IX al VII secolo a.C., cosicché nuove tecniche, nuove mode e nuovi linguaggi iconografici penetrarono nel mondo greco (le città greche di area ionica ed eolica saranno quelle maggiormente influenzate, meno lo sarà Atene), ad esempio, numerosi soggetti tematici nuovi come le sirene, i grifoni, i centauri, le sfingi, le gorgoni fecero le prime apparizioni sulle ceramiche (fig. 2.2, 2.3, 2.4). Intorno alla metà del secolo VII a.C. il processo di assimilazione può dirsi completato: la brutalità e la mostruosità delle prime raffigurazioni vengono gradualmente placate e rielaborate, gli esseri feroci e mostruosi sono ricomposti in pacate teorie di animali selvatici e domestici insieme; la tempestosità espressiva della prima metà del secolo VII a.C. si trasforma, quindi, in organicità compositiva e in potenza figurativa. Tra la fine del VIII e l’intero VII secolo a.C. vanno attuandosi, nel mondo greco, tre fondamentali fenomeni: l’intensificarsi della colonizzazione (principalmente nel Mar Nero, nell’Italia meridionale e nella Sicilia), l’avvento di legislatori e quello, invece, dei tiranni. Questi cambiamenti sono conseguenze dirette dell’avvenuta crisi all’interno dei ceti dell’aristocrazia terriera e al rafforzarsi del potere economico di gruppi sociali nuovi, ad esempio quello degli artigiani, dei mercanti o dei marinai. Dall’interno della stessa classe aristocratica emergeranno le prime figure di legislatori (periodo, questo, in cui nascerà e si consoliderà la costituzione spartana). Le leggi vengono ora messe per iscritto, significando così una più vasta alfabetizzazione. All’opposto vanno formandosi le prime tirannidi, le principali del secolo VII a.C. sono quelle delle città istmiche (Corinto, Sicione, Megara) e delle città ioniche (Mileto, Efeso, Mitilene sull’isola di Lesbo).Sviluppi del tempioIl legno verrà sempre più frequentemente sostituito dalla pietra. La tradizione letteraria assegna a maestranze di area corinzia, intorno al 680 a.C., il merito dell’introduzione della tecnica di copertura a tegole fittili. L’orditura di tetti, con copertura in tegole, rese più solidi e più duraturi gli edifici, ma impose anche una differente inclinazione del tetto che per ragioni statiche non poteva superare 33-25%, si rese, perciò, necessario ripartirne il carico sulla peristasi esterna e su una o più file di pali di sostegno interni al naòs.Gli sviluppi nel PeloponnesoNel secolo VII a.C. la Grecia peloponnesiaca continua a svolgere un ruolo attivo nello sviluppo dell’architettura templare di matrice dorica. L’Heraion di Argo è citato da Vitruvio come l’edificio originario dei Dori; attualmente, datandosi agli inizi del secolo VII a.C., è il più antico dei templi peloponnesiaci con peristasi (5 o 6 x 14 colonne). Un notevole avanzamento nella definizione dell’ordine dorico si compie con l’Heraion di Olimpia (fig. 2.6). Esso testimonia la transizione dall’edificio in legno e mattoni a quello in pietra e, per lo stato di conservazione degli alzati, è utile punto di osservazione per l’evoluzione della peristasi e della trabeazione. Viene inizialmente (650 a.C. ca.) eretta una cella di 100 piedi, preceduta da un pronao di 20, con due colonne tra le ante

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(distilo in antis). Successivamente si aggiunge un opistodomo (=è lo spazio posto dietro la cella, esso poteva contenere le suppellettili utili al rito e ai sacrifici, era chiuso con cancellate metalliche e vi potevano accedere solo i sacerdoti. simmetrico al pronao) e una peristasi di 6 x 16 colonne lignee (il cui numero è cioè pari alla proporzione di 6 : 16 espressa dal rapporto tra larghezza e lunghezza dello stilobate = piattaforma base delle colonne). Le 40 colonne lignee della peristasi sono poi gradualmente rimpiazzate, dall’età arcaica fino all’avanzata età romana, da esemplari in calcare, che consentono dunque di studiare da vicino l’evoluzione delle forme del capitello dorico. Si divide poi lo spazio della cella in piccole cappelle laterali, isolate da brevi lingue di muro cui si addossano due file di otto colonne lignee su due piani con capitelli in pietra; al centro del naòs su una base erano le statue di culto di Zeus e Hera (fig. 2.26). La copertura fittile del tempio (con metope e frontone) era caratterizzata da ricca policromia, di cui è splendida prova il grande acroterio a disco in terracotta dipinta (fig. 2.8). La scansione in pronao, cella e opistodomo diverrà canonica, almeno nell’area dorica. Il naòs non è più diviso in due navate, bensì in tre (significa piena visibilità dell’agalma). La trabeazione presenta già il tipico fregio dorico consistente in alternanza di triglifi e metope. I primi, in coincidenza con le travature terminali del tetto, sono collocati sull’asse delle colonne della peristasi e sull’asse degli intercolumnii; lo spazio vuoto, che separa un triglifo dall’altro, diviene lo spazio della lastra della metopa che sarà ora in argilla, ora in bronzo sbalzato (come a Olimpia), ora in pietra scolpita; la scansione dei triglifi nella trabeazione consente l’inserimento tra una colonna e l’altra di due metope. Vi troviamo applicati anche i primi accorgimenti per la correzione del cosiddetto “conflitto angolare”; ossia l’inevitabile spostamento dei triglifi angolari dall’asse delle colonne al margine del tempio viene progressivamente compensato tramite l’allargamento delle componenti della trabeazione (soprattutto la prima metopa) o la diminuzione degli interassi agli angoli (contrazione angolare); l’architettura di età arcaica tenderà a prediligere la prima soluzione; quella di età classica, la seconda, di esiti più armoniosi. Intorno al 630-625 a.C. fu edificato anche il tempio periptero di Apollo a Thermos (fig. 1.6). Il tempio è senza pronao, ma con un opistodomo molto profondo; la cella in mattoni crudi è ancora divisa in due navate da un colonnato assiale. La peristasi di 5 x 15 colonne lignee su tamburi di pietra regge una trabeazione lignea e un fregio dorico inglobante metope fittili dipinte con immagini mitiche (fig. 2.9-2.11).Gli sviluppi nella IoniaIl vecchio hekatompedon geometrico viene sostituito, intorno alla metà del secolo VII a.C., da un nuovo edificio, noto come hekatompedon II (fig. 1.10). Qui la cella è circondata da una peristasi di colonne, sulla facciata un pronao tetrastilo (con quattro colonne). All’interno il primitivo colonnato centrale è stato abolito a favore di una serie di pali addossati alle pareti del naòs. La decorazione è di ispirazione orientale e fregi figurativi continui (senza cioè l’alternanza dorica di triglifi e metope). La nascita della scultura monumentaleL’Apollo di Mantiklos (fig. 2.14) è chiara espressione della direzione verso cui si evolve la concezione figurativa greca nel momento di passaggio tra i secoli VIII e VII a.C. Diversamente dall’Auriga di Olimpia (fig. 1.39) e dal guerriero dell’Acropoli di Atene (fig. 1.41), l’Apollo di Mantiklos ha abbandonato la forma del nucleo piatto ritagliato dallo spazio circostante per un più accentuato potenziamento delle singole masse dei pettorali, dell’addome, dei glutei, delle cosce. Un solco verticale infatti attraversa l’intera figura e costituisce il discrimine rispetto al quale vengono assemblate le varie parti anatomiche. Questa espressione della forma dell’essere come addizione assiale di volumi è alla base della scultura dei secoli VII e VI a.C.; è il punto di partenza per la costruzione di figure a grandezza naturale e quindi per la nascita e lo sviluppo della scultura monumentale greca a tutto tondo (inizialmente soprattutto a Creta e sulle isole Cicladi, con statue in pietra e marmo). All’origine della scultura monumentale in pietra, in legno e in altri materiali i Greci ponevano Dedalo di Creta. La tradizione omerica lo descrive come: architetto, ideatore del famoso labirinto di Creta (e delle ali artificiali con le quali riuscì, secondo la leggenda, a fuggire da Creta con suo figlio Icaro), scultore, inventore di molti utensili e strumenti da lavoro, ma in realtà non abbiamo notizie storiche che ci confermino la sua esistenza. Nei primi decenni del VI sec. a.C.,

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comunque, compaiono le prime firme degli artisti sui vasi (es.: Euthykartidas di Nasso che fece e dedicò all’Apollo di Delo una statua raffigurante un giovinetto oppure Polymedes argivo che firmò a Delfi la coppia di giovani noti come Kleobis e Biton, fig. 3.32). Delo. Posizionata al centro delle isole Cicladi, a metà strada tra la Grecia continentale e la costa ionica. Il mito della sua fondazione vuole che Hera, furente per essere stata tradita da Zeus che aveva giaciuto con Latona, ordinò al serpente Pitone di inseguire quest’ultima ovunque in modo da impedirle di partorire. Tutte le terre, infatti, intimorite da Hera, non vollero ospitarla, soltanto Delo (= ‘adelos’= ‘l’invisibile’, era un isolotto che vagabondava per tutto il Mediterraneo sommergendosi e riemergendo continuamente dal pelo dell’acqua) la ospitò. Così Latona dette alla luce i due gemelli: Apollo e Artemide. Da allora l’isola si fissò in fondo al mare e si chiamò Delos (= ‘che si vede chiaramente’), diventando terra sacra per tutti i Greci: nessuno potè più nascervi o morirvi. Al grande santuario di Apollo e di Artemide resero omaggio per secoli popolazioni provenienti da ogni dove. Il santuario divenne sede religiosa di una federazione delle Cicladi che vi tenevano regolarmente assemblee religiose, feste e mercati. Frequentarono assiduamente l’isola i Nassii (dell’isola di Nasso), a loro si deve il più antico dei templi di Apollo (cosiddetto Oikos dei Nassii), oltre a una statua colossale di Apollo nel tipo del kouros e ai leoni posti sull’omonima terrazza di Delo. Dalla metà del sec. VII a.C. si sviluppa il cosiddetto ‘stile dedalico’, antecedenti li troviamo con gli sphyrelata di Dreros, Creta, (coevi sono gli xoana= statue di culto dei più diversi materiali, ma soprattutto intagliati nel legno), statue di non piccole dimensioni, ottenute martellando una lamina di bronzo e piegandola intorno a un nucleo di legno a cui la lamina viene inchiodata, tecnica di origine orientale (es. fig. 2.19 raffiguranti una triade divina). La successiva Dama di Auxerre costituisce una delle più riuscite manifestazioni dello stile dedalico (fig. 2.21, fanciulla, di forme solide e compatte, con peplo aderente decorato con grandi quadrati concentrici, le spalle sono avvolte in una mantellina, che ricorda ancora quella degli sphyrelata di Dreros). Ritroviamo gli elementi tipici dello stile dedalico, ossia la frontalità di impostazione della figura, il sistema compositivo per volumi geometrici giustapposti rispetto a un asse centrale, i dettagli incisi, la pettinatura a parrucca, il volto imperioso di forme triangolari, anche nelle sculture del tempio A di Priniàs (Creta). Vi è qui una novità, relativa alla costruzione del tempio, che consiste nell’inserimento di tali sculture in pietra, a tutto tondo e a rilievo, nell’architettura dell’edificio (fig. 2.23). La scultura orientalizzante cretese mostra dunque una spiccata attitudine per il tipo della figura femminile vestita (nuda raramente, es. fig. 2.24) stante o seduta, la cosiddetta Kore; resta, invece, sconosciuto il tipo di kouros. Testimonianze dello stile dedalico sono presenti anche nel Peloponneso (esempi: - fig. 2.25, alcuni rilievi dell’acropoli di Micene, 640-630 a.C., i cui tratti stilistici rammentano, con meno efficacia espressiva, la Dama di Auxerre, - una colossale testa di Hera dall’Heraion di Olimpia, fig. 2.26).Un ruolo di primo piano nello sviluppo della scultura monumentale di età orientalizzante rivestono le isole Cicladi, dove ha inizio proprio ora lo sfruttamento delle cave di marmo (soprattutto quelle di Nasso e Paro), l’abilità tecnica raggiunta si riassume nell’opera di Euthykartidas di Delo, già citato in precedenza. Queste sculture risentono in particolar modo l’influenza esercitata dall’Egitto con il tipo del kouros (= figura maschile nuda, eretta, braccia dritte o appena piegate lungo il corpo, pugni chiusi e una gamba leggermente avanzata), ad esempio quello in bronzo rinvenuto a Delfi (fig. 2.27) oppure la kore di Nikandre di marmo proveniente da Delo databile alla prima metà del VII sec. a.C. (fig. 2.32, la prima kore a noi giunta).Il tipo del kouros, leggermente rielaborato, trova larga fortuna presso gli scultori cicladici che lo ripropongono in dimensioni colossali (es. fig. 2.28). A differenza degli xoana e sphyrelata, che venivano portati in processione e quindi erano mobili, le korai e i kouroi sono tutte statue commemorative, votive o funerarie, pietrificazioni immobili del devoto o della devota che resta a guardia del santuario del dio (da questi termini deriva, forse, il suo significato originario, di eretto-immobile, la parola ‘kolossòs’ = colosso, solo successivamente avrebbe significato ‘qualcosa di enorme’).

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Oreficerie, bronzi, avorio e ceramicaL’influsso orientale si coglie con prepotenza anche nei manufatti in bronzo, in terracotta; i tradizionali tripodi geometrici vengono ora sostituiti da calderoni collocati su supporti troncoconici, con la bocca decorata da protomi di grifoni e di leoni, appliques di sfingi e sirene (fig. 2.1, 2.34, 2.35). Particolarmente interessanti sono i bronzi, soprattutto scudi, rinvenuti nell’antro di Zeus sul Monte Ida, Creta, forse opera di artigiani orientali siriaci. Una placca bronzea dall’Heraion di Argo (fig. 2.36, metà VII a.C.) costituisce un capolavoro di raffinata toreutica, le forme stilistiche delle donne raffigurate (probabilmente Clitemnestra che trafigge Cassandra) richiamano la Dama di Auxerre e la kore di Nikandre, maturi tratti dedalici si osservano anche nelle pettinature a pesanti trecce e nei profili importanti dei volti. Anche nella lavorazione del legno e dell’avorio gli artigiani greci mostrano di aver raggiunto una notevole perizia tecnica nelle operazioni di incisione, di intaglio, di tornitura (esempi: fig. 2.18 e fig. 2.38 dea con ‘polos’ = alta corona cilindrica, e figurina maschile inginocchiata da Samo, quest’ultimo richiama i kouroi cicladici, degna di nota anche la collana d’oro da Camiro, fig. 2.37). Tra le ceramiche da sottolineare, per vivacità e freschezza del soggetto, il phitos (= contenitore per derrate alimentari) di Mykonos con scene desunte dal Sacco di Troia, fig. 2.39; le decorazioni a rilievo sono realizzate a matrice, tecnica già introdotta alla fine del VIII a.C..Il processo di differenziazione regionale delle produzioni ceramiche, iniziato già in età geometrica, diviene ora ancora più marcato nell’Orientalizzante, i due maggiori centri di produzione rimangono Corinto (le fonti concordano nell’attribuirle il primato, oltre a quello delle tegole fittili e della coroplastica, dell’invenzione della pittura) e Atene.- Corinto - Intorno al 720 a.C., mentre le botteghe ceramiche ateniesi ripetono stancamente stilemi tardogeometrici, a Corinto (che occupa una posizione geografica strategica dal punto di vista commerciale, fonderà Siracusa e Corcira= Corfù nel 734) si avvia il cosiddetto ‘stile protocorinzio’. Si producono vasi per lo più di piccole dimensioni con un’argilla chiara, quasi bianca, le superfici sono decorate con una vernice la cui tonalità oscilla dal rossastro, al bruno, al nero. Accanto alle consuete forme potorie, coppe e kotylai, il quadro morfologico si arricchirà di piccoli contenitori per unguenti e olii profumati, gli aryballoi. La rapida evoluzione morfologica degli aryballos, che da più antiche forme globulari passa a profili allungati conici, ovoidi e piriformi, ha consentito di fissare la cronologia relativa delle ceramiche protocorinzie, vale a dire la sequenza interna della produzione da una fase di Protocorinzio Antico (PCA), attraverso una fase di Protocorinzio Medio (PCM) fino al Protocorinzio Tardo (PCT). PCA = 720-690 a.C. In questa fase sui vasi compaiono elementi nuovi: uccelli, cervi, pesci, cani, leoni, (le figure umane continuano ad essere rappresentate a silhouette) disponendosi senza un preciso ordine compositivo, gli sfondi ospitano fitti riempitivi di rosette, trecce, spirali di chiara ascendenza orientale. Si smonta così l’ordinata partitura di età geometrica, inoltre i soggetti raffigurati rispondono unicamente a un principio decorativo non narrativo (fig. 2.42).PCM = 690-650 a.C. Il gusto figurativo orientalizzante assume toni sempre più vivaci, le figure si connotano meglio alludendo adesso a episodi mitologici. Gli elementi figurati cominciano ad essere disposti ordinatamente entro fregi dipinti con una tecnica nuova detta ‘tecnica a figure nere’: sulla figura, tracciata a silhouttes in nero o bruno, gli esperti pittori corinzi intervengono a delineare dettagli con graffiti e sovraddipinture in vernice paonazza e gialla (es.: fig. 2.43 aryballos, da Tebe, raffigurante la lotta di Bellerofonte contro la Chimera, medesimo tema dipinto su una kotyle, da Egina, del cosiddetto Pittore di Bellerofonte, fig. 2.44). Un prodotto che esprime la piena maturità dei ceramisti e dei pittori corinzi sono gli unguentari plastici a forma di civetta (fig. 2.46), di leone o volatile ecc...PCT = 650-630 a.C. Lo stile a figure nere corinzio raggiunge la sua massima potenzialità espressiva, con figure disposte in profondità in spazi finalmente liberi dai riempitivi geometrici (fig. 2.47 Olpe Chigi, rinvenuto a Veio, segna il passaggio tra PCM e PCT). La maggior parte delle

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ceramiche di questa fase mostra il dissolversi della tensione e della vivacità del PTM e assume toni di una decorazione stereotipata, di disegno spesso manieristico, totalmente privo di vigore.- Atene -Atene resta a lungo dipendente dal linguaggio geometrico risentendo meno l’influenza orientalizzante. La prima personalità che pare avventurarsi oltre la tradizione geometrica è il Pittore di Analatos, attivo tra la fine del VIII a.C. e i primi del VII, la sua produzione rientra già nella ceramica cosiddetta ‘protoattica’, etichetta con la quale si designano i vasi attici figurati di età orientalizzante (es.: fig. 2.48, hydria del Pittore di Analatos). Soprattutto nell’anfora del Louvre (fig. 2.49), opera più matura del pittore di Analatos, riscontriamo le maggiori novità: accanto ai più tradizionali fregi con parata di carri (sui cavalli si rendono col graffito alcuni dettagli) e choròs (danza di gruppo), compare anche una teoria di sfingi e nella decorazione accessoria trecce e larghe rosette, di indubbia ascendenza orientale. Nei decenni successivi, dal 680 a.C. per circa 50 anni (stile protoattico medio= 680-630), la lenta sostituzione del vecchio patrimonio iconografico e compositivo geometrico accelera visibilmente con scelte figurative che rompono traumaticamente con il passato ed esprimono soluzioni formali e tecniche disorganiche e irrequiete. Per circa una generazione alcuni artigiani si cimentano anche in una tecnica pittorica nuova, detta ‘stile bianco e nero’ per l’uso, talvolta indiscriminato, del bianco a sottolineare alcuni dettagli (esempi: anfora del Pittore di Polifemo fig. 2.50, brocca da Egina fig. 2.51). Scarse saranno in genere le esportazioni di tali ceramiche. Da questa crisi l’Attica pare tuttavia riprendersi con vigore a partire dall’ultimo trentennio del VII sec. a.C., con le ceramiche protoattiche tarde, si registra, infatti, un significativo incremento commerciale con esportazioni fino in Egitto e in Etruria.

III. L’età arcaica

Negli anni 594-593 a.C. ad Atene emerse la figura di Solone che agì da pacificatore e mediatore delle tensioni civili (soprattutto tra grandi proprietari terrieri e quanti lavoravano la terra per loro), operando attraverso leggi e disposizioni varie, sancì, con una riforma monetaria, la riduzione dei debiti e l’abolizione della schiavitù contratta per debiti, e dette notevole impulso all’esportazione dei prodotti artigianali. Dopo di lui si riaccesero inevitabilmente le lotte e sulla scena politica comparve un nuovo protagonista, Pisistrato. Egli si impose come tiranno nel 534 a.C., ma apportò numerose modifiche positive: incrementò lo sviluppo dell’agricoltura sotto forma di piccola proprietà terriera, fece allestire un’ingente flotta navale, dette vigore alle attività artigianali e portò a termine diversi progetti urbanistici. In politica estera, bloccata la strada dei commerci verso l’Occidente dal controllo esercitato da Corinto, Taranto e Siracusa, egli fece sì di consolidare la presenza del mercato ateniese nel Golfo di Saronico, nell’Egeo settentrionale, in Tracia e nell’Ellesponto. Pisistrato morì nel 528 succedendogli il figlio Ippia, con quest’ultimo si assisterà ad un inasprirsi delle forme di potere, causa per cui si scatenerà la crisi del 514 a.C. e la sua stessa cacciata dalla scena politica. L’alcmeonide Clistene sale, successivamente, al comando mutando profondamente l’ordinamento costituzionale di Atene, che cesserà di reggersi su forme aristocratiche di matrice oligarchica. Partendo, infatti, da una nuova articolazione sociale su base territoriale, nasce, ora, l’assemblea dei 500 (= Boulè), i cui membri sono sorteggiati a rotazione in 50 per ogni tribù territoriale; per combattere il pericolo di una nuova tirannide viene instaurata la procedura dell’ostracismo (= consisteva in una votazione in cui il nome dell'individuo da ‘ostracizzare’ doveva essere scritto su dei cocci di terracotta detti appunto ‘ostraka’), con la quale è possibile allontanare dalla città coloro che mostrino ambizioni personali nell’esercizio del potere. Nasce così la democrazia ateniese. Nel corso del VI sec. a.C. si assiste anche al definirsi del ruolo egemonico di Sparta nel Peloponneso (si costituirà la Lega peloponnesiaca), fino alla metà del VI sec. a.C., nel campo commerciale e in quello delle esportazioni, consistente soprattutto in ceramiche figurate e bronzi, distribuite in tutto l’Occidente, grazie anche all’appoggio della propria colonia di Taranto, e nel sud, sulle coste della Cirenaica (es. coppa laconica da Vulci fig. 3.2). Anche Corinto (dopo la caduta della tirannide dei Cipselidi nel 585 a.C.) domina i mercati della Grecia

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settentrionale lungo le coste dell’Epiro e, grazie alla solida collaborazione con la colonia di Siracusa, quelli occidentali sicelioti e magnogreci. Il tramonto delle fortune delle ceramiche figurate corinzie intorno alla metà del VI sec. sarà principalmente causata dalla prorompente concorrenza dei vasi attici. L’autonomia, la ricchezza e l’intraprendenza commerciale, fino a d ora mantenute, delle città greco-orientali, subirono un duro colpo con la caduta di Creso (re della Lidia, ‘alleato-amico’ della Grecia), nel 546 a.C. ad opera di Ciro, re dei Persiani. Nel 499 a.C. avvenne la prima rivolta delle città ioniche contro la Persia, nel 494 seguì lo scontro navale di Lade, vinto dai Persiani, ma nel 490 a.C. (prima guerra persiana) a Maratona avranno la meglio gli Ateniesi (così come accadrà nelle famose battaglie di Salamina e Platea, durante la seconda guerra persiana, 480-479 a.C.; da ricordare, in questi anni, gli epici scontri delle Termopili, dove si consumerà il sacrificio dei ‘300’ Spartani di Leonida).La ‘colmata’ persiana. Il termine definisce lo scarico di una parte delle macerie che gli Ateniesi trovano sull’Acropoli al loro ritorno, dopo le violente distruzioni perpetuate dai Persiani nel 480 e 479 a.C.. La ‘colmata’ è quindi un deposito sigillato che riceve un prezioso termine ante quem dagli avvenimenti che portano alla sua formazione, le statue e i frammenti architettonici ivi rinvenuti, infatti, sono tutti anteriori al 480-479 a.C., essi testimoniano la qualità delle offerte del grande santuario nell’ultima fase dell’età arcaica.Definizione degli ordini architettoniciE’ nel corso del sec. VI a.C. che il tempio greco trova la sua espressione armonica e matura. L’edificio periptero, che certamente risponde anche a specifiche esigenze pratiche (riparo dalla pioggia), cultuali e rituali (esposizione di ex voto e svolgimento di processioni), si impone ora definitivamente. Il solido chiuso del naòs e il recinto aperto della peristasi andranno poco a poco collegandosi in una perfetta connessione di disposizioni assiali e di rapporti modulari, fino alla definizione di un canone proporzionale di lunghezza, larghezza e altezza dell’edificio. L’ordine dorico: sono a Corcira (Corfù) e Siracusa, le più antiche colonie doriche in Occidente, entrambe fondazioni di Corinto, a essere capaci per prime ad elevare templi interamente di pietra. L’Apollonion di Siracusa è un tempio periptero (6 x 17 colonne) con uno dei più antichi colonnati dorici in pietra (fig. 3.4), presenta un doppio colonnato in facciata, caratteristica che si riproporrà spesso nell’architettura dorica magnogreca e siceliota, un pronao distilo in antis. Lo spazio interno del naòs ha un duplice colonnato, inoltre, un’adyton chiude la cella al posto dell’opistodomo. Per ovviare all’impressione di un’opprimente gravità, le colonne litiche sono movimentate da scanalature, rastremandosi verso l’alto (non vi è ancora l’accorgimento dell’entasi= rigonfiamento della colonna all’altezza di un terzo del fusto tendente a evitare la visione concava della colonna da lontano). Il capitello si compone di un abaco quadrangolare, su cui poggia direttamente il blocco dell’architrave, e di un echino a sezione circolare che segna il raccordo con la parte sommitale della colonna. L’architetto qui rinuncia al tipico fregio dorico che prevede l’alternanza di triglifi e metope, questa è una delle numerose trasandatezze che rivelano una scarsa dimestichezza degli architetti siracusani con il nuovo materiale, la pietra, e con le regole della sua articolazione formale. Queste sono al contrario assecondate con maggiore maturità nel più antico periptero in pietra, l’Artemision di Corcira (databile al 580 a.C., fig. 3.6). Vi è un peristilio molto largo, peristasi in 8 x 17 colonne, rispettando già le proporzioni che diverranno canoniche (= sul lato lungo è il doppio delle colonne in facciata più una) e, come nell’Heraion di Olimpia, detta anche il modulo delle relazioni proporzionali tra lunghezza e larghezza dello stilobate (la tipologia dell’ampio peristilio anticipa l’edificio pseudodiptero di età ellenistica). La cella, con pronao e opistodomo distili in antis, ha l’aspetto, tipicamente arcaico, con spazio interno suddiviso da un doppio ordine di colonne. Il ritmo ravvicinato delle colonne determina un intercolumnio poco più largo dello spessore della colonna, ma, per ovviare all’impressione di un fusto troppo tarchiato, sulla superficie della colonna, sono intagliate ben 24 scanalature, contro le 16 dei più antichi sostegni lapidei dell’Heraion di Olimpia. Sulla colonna poggia un capitello che sfoggia corone di foglie. Lo spazio triangolare dei frontoni ospita composizioni plastiche lapidee complesse, di ritmo ascendente, di basso rilievo ed accostate (timpano occidentale, fig. 3.7, il centro del frontone è occupato da una

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gorgone di tipo arcaico con a lato i figli Pegaso e Crisaore, oltre a due pantere araldiche di tradizione corinzia, fig. 3.8). Nello spazio discendente del triangolo trovano posto in scala minore narrazioni mitiche quali l’uccisione di Priamo, la lotta di Zeus con un gigante o un tiranno ecc….(fig. 3.8). La decorazione frontonale, che sarà d’ora in poi uno dei temi guida della scultura greca, conserva, comunque, nell’Artemision di Corcira, un forte significato apotropaico (es. lastra con maschera di gorgone posta sopra l’ingresso, fig. 3.9). Risale alla metà del VI sec. a.C. il tempio di Apollo a Corinto (fig. 3.11), le cui colonne sono fissate su un crepidoma (= la piattaforma a gradini rialzata in pietra sulla quale veniva costruito il tempio) di 4 gradini che conferiva slancio alla struttura. Ha una pianta periptera esastila di 6 x 15, all’interno vi sono 2 celle contrapposte (forse duplice culto) con pronao distili in antis. Le colonne non presentano ancora l’entasi ma troviamo una prima applicazione delle correzioni ottiche nella curvatura dello stilobate, il cui piano, altrimenti orizzontale, è interessato da un rigonfiamento di qualche centimetro. Con questi edifici di forza prorompente l’ordine dorico può dirsi codificato: siamo di fronte a un canone che, per quanto poi conosca variazioni regionali, è già un sistema costruttivo ed estetico di caratteristiche severe ed equilibrate, basato su rapporti modulari.Dipteri ionici: un forte impatto ebbe sulla cultura ionica il genio architettonico di Rhoikos, che insieme a Theodoros, progettò a Samo intorno al 570 a.C. il primo grande tempio diptero della Ionia (fig. 3.12), ovvero l’Heraion di Samo. Un edificio enorme orientato come al solito a est, sovrapposto agli hekatompeda dell’VIII e VII sec. a.C., la doppia peristasi di 8/10 x 21 colonne si erge a protezione di una cella, strettamente legata all’idea generatrice dell’architettura templare ionica, tanto che la statua di culto continua a essere posta in un monoptero appositamente costruito al centro dell’edificio, e non sul fondo. Vi è un profondissimo pronao e il totale sacrifico dell’opistodomo, che in realtà non trova espressione nemmeno nei precedenti templi di area ionica. La colonna presenta ben 40 scanalature separate da listelli, inoltre, a differenza della colonna dorica, qui vi è una base articolata. L’Artemision di Creso (perché lui il probabile finanziatore) a Efeso (fig. 3.13, fig. 3.14), mostra aumentate dimensioni e accresciute pretese artistiche, si tratta di un diptero, di 59 x 115 metri, con triplice colonnato in fronte, ingresso scandito da un profondo pronao, la cella (fig. 3.15) resta petrale, ovvero priva di copertura. La trabeazione presenta un lunghissimo fregio continuo, raffigurante cortei di carri; i capitelli (fig. 3.16) sono formati da un toro con fascia a ovuli e palmette laterali (in corrispondenza dell’echino dorico), sul quale poggia il cuscino a volute con rosetta a 8 petali, con esiti ornamentali decisamente superiori alla rigida linearità del capitello dorico. Nel timpano vennero aperte delle finestre che, oltre a consentire il posizionamento di immagini votive, dovevano alleggerire l’enorme peso dell’architrave. L’ordine ionico con la sua esuberanza ornamentale, la sua ricchezza, la sua molteplicità, trova qui il suo punto di espressione più alto in età arcaica. (Altro esempio di tempio di ordine ionico, a Mileto il diptero del Didymaion, fig. 3.17, 3.18, 3.20). A Samo verso il 530 a.C. Policrate (tiranno dell’isola) promuove la ricostruzione del monumentale diptero di Rhoikos, che si trovava già parzialmente in rovina. Il nuovo Heraion (fig. 3.21) con una peristasi di 8/9 x 24 colonne, adotta in sostanza le soluzioni dei precedenti dipteri di Samo ed Efeso, con l’inserimento però di un terzo colonnato su entrambi i lati brevi. Un tentativo di penetrazione in area microasiatica dell’ordine dorico è, invece, attestato ad Assos nell’Eolide, intorno alla metà del VI a.C., si tratta di un tempio dorico dedicato ad Atena (fig. 3.22), cui però si conferisce una singolare impronta ionica con l’introduzione di un fregio continuo scolpito sull’architrave accanto a quello dorico con metope e triglifi (strana convivenza di elemento ionico e dorico).La maggior parte dei templi cicladici, invece, non si discosta dalla forma antica dell’oikos e si presenta con una struttura cubica chiusa da muri su 3 lati e aperta in facciata con fronti prostile o ad ante. Il santuario di Dioniso a Yria (Nasso) mostra dettagliatamente l’evolversi in area insulare delle forme dell’edificio sacro tra i secoli VIII e VI a.C. (fig. 3.24, I, II, III, IV), appartengono all’età geometrica 2 successive costruzioni con pianta a oikos e tetto piatto, sostenuto da prima da una sola fila di sostegni rotondi (I), quindi nella seconda metà del secolo VIII a.C. da 3 file di 5 sostegni

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ciascuna (II), al principio del secolo VII a.C. si data invece la trasformazione dell’oikos in un tempio prostilo (= con colonne davanti) tramite l’accostamento di un vestibolo a 4 colonne, è adottata qui per la prima volta la soluzione, in seguito di grande fortuna, della divisione dello spazio interno della cella in 3 navate (III). Appartiene, infine, al 570 a.C. l’edificazione di un tempio prostilo tetrastilo in granito e marmo con cella a 3 navate conclusa da adyton e tetto marmoreo a spioventi (IV). Scultura in pietra (600-530 a.C.)Rispetto alla scultura architettonica, che trova quasi sempre punti di ancoraggio con eventi storici databili, la plastica a tutto tondo soffre della mancanza di agganci cronologici puntuali, escludendo il grande termine ante quem offerto dalla ‘colmata persiana’. Partendo comunque dalla considerazione che l’arte greca segue un’evoluzione costante, indirizzata cioè a rendere in modo sempre più naturalistico il corpo umano, nel 1942 Gisela Richter ha messo a punto per i kouroi un sistema di datazione basato sul confronto tra il rendimento anatomico delle varie statue, da quelle più prossime alle esperienze figurative del VII sec. a.C., a quelle che preannunciano i ritmi dello ‘stile severo’; questa cronologia relativa è ancora oggi valida nelle sue linee generali e può essere utilizzata per collocare le opere principali in sequenza cronologica, unitamente al confronto con la plastica architettonica, la ceramografia e le arti minori.Il tipo scultoreo maschile dell’età arcaica è il kouros (= letteralmente significa ‘il giovane’, descritto nel precedente cap. II), come abbiamo potuto notare le prime apparizioni risalgono al periodo orientalizzante. La novità consiste, ora, piuttosto nella sua aumentata diffusione, questa figura incarna l’ideale eroico della società aristocratica dell’epoca, esaltando i valori della bellezza, giovinezza e coraggio. Il kouros è sempre rappresentato come un atleta, nudo, con un’acconciatura a riccioli riccamente elaborata, particolare che connota l’ascendenza aristocratica del personaggio, la sua disponibilità economica, la sua appartenenza a una società civile, colta ed educata. [Esempi: - fig. 3.28 kouros da Capo Sounion, Attica, databile al 600-590 a.C., lo studio anatomico evidenzia i muscoli principali, - fig. 3.29, sempre proveniente da Capo Sounion, la resa delle clavicole e dei muscoli dorsali è data mediante solcature più o meno nette, - fig. 3.30, kouros del Dipylon, è simile ai kouroi precedenti, il volto ovale con grandi occhi a mandorla dal taglio netto, - fig. 3.32, due statue gemelle dal santuario di Delfi, probabilmente da identificare con Kleobis e Biton o i Dioscuri, comunque, le statue riflettono il canone stilistico peloponnesiaco che privilegia la solidità della struttura corporea, costruita per volumi geometrici accostati e raccordati, e la lavorazione per piani paralleli; della possente muscolatura sono evidenziati gli elementi principali, mentre le ginocchia, i solchi inguinali, i pettorali, l’arco toracico e la linea che separa i muscoli addominali sono indicati unicamente da incisioni, il volto e l’acconciatura riflettono ancora il canone dedalico, - fig. 3.33, kouros rinvenuto nella necropoli di Tenea, presso Corinto, riflette il nuovo canone di matrice ateniese che, sotto l’influsso della scultura ionica e insulare, abbandona la costruzione geometrica del corpo per arrotondare i volumi e fondere le membra in senso più naturalistico, più sfumato e addolcito (lo notiamo anche nel kouros di Anavyssos, Attica, fig. 3.34). Nel volto fa, per la prima volta, la sua comparsa il caratteristico ‘sorriso arcaico’, si modifica leggermente anche il trattamento dell’angolo dell’occhio, che mostra un sottile restringimento a indicare il sacco lacrimale.] Il gigantismo dei primi kouroi, espressione della potenza delle famiglie aristocratiche, proprietarie di terre e tutrici del culto religioso, lascia ora il posto a dimensioni più prossime a quelle reali, incarna l’uomo che si presenta al cospetto della divinità o lascia il suo sempiterno ricordo sulla tomba. E’ da sottolineare che la struttura additiva delle membra era già stata superata, ad Atene, da una scultura di grande qualità artistica che non è un kouros bensì un gruppo, il Moskophoros, un giovane barbato che porta sulle spalle un vitello da offrire ad Atena (fig. 3.35, da notare lo studiato schema ad ‘x’ ottenuto dal perfetto incrocio tra le zampe dell’animale e le braccia dell’uomo), databile poco dopo al 566 a.C.. Il corpo del Moskophoros è robusto, le membra sono realisticamente contratte per supportare il peso dell’animale, è fasciato da un mantello attillato che racchiude e delinea la figura senza nascondere la tensione muscolare, la ricerca anatomica è accurata, i volumi del corpo sono arrotondati e trattati con delicatezza, i passaggi dei piani sono lisci

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e sfumati, possiamo insomma concludere che la solidità dorica si incontra, in questa statua, con la grazia ionica. Più giovane di una decina di anni è il cosiddetto Cavaliere Rampin (fig. 3.36), giovane aristocratico raffigurato nella solita nudità eroica con una spalla leggermente piegata e inclinata verso sinistra, reca sul capo una corona di quercia (= vincitore dei giochi dell’Istmo o di Nemea), la nobiltà del personaggio è affidata all’elaborata pettinatura, quasi un ricamo. E’ attribuita alla stessa mano del Cavaliere, leggermente più tarda, la kore dell’Acropoli, nota come la kore col peplo (fig. 3.37) che mostra lo stesso contrasto tra la resa schematica e quasi geometrica dei volumi del corpo e la vivacità del volto, dai tratti anatomici fini e delicati, giocati sulla linea curva. La fanciulla porta un chitone finemente pieghettato, appena intravisto in basso, e un pesante peplo che copre interamente il corpo senza però nasconderne la tensione.Mantengono le proporzioni colossali alcuni kouroi di ambito insulare, come quello proveniente dall’Heraion di Samo (fig. 3.39, circa 560 a.C.), privo di risalto muscolare e con i dettagli anatomici ridotti all’essenziale. La tendenza ad arrotondare il profilo e ad addolcire i volumi del corpo è una caratteristica della plastica ionica e insulare, così come il modellato fluido, sfumato, che delinea superfici ampie e luminose (fig. 3.40, altro esempio). Nella Statua di offerente da Samo (fig. 3.42) ritroviamo la solidità geometrica legata al modulo cilindrico della parte inferiore del corpo, che però nulla toglie all’eleganza della figura, affidata alla studiata disposizione dei panneggi ai quali si contrappone la superficie liscia e luminosa del velo.Al kouros corrisponde la kore (= la fanciulla), anche in questo caso, si tratta di una ripresa del tipo statuario nato nel corso del VII sec. a.C. in ambito cretese e insulare. Rispetto al kouros la kore è vestita sempre riccamente (= chitone leggera aderente, moda ionica, piena di pieghe fini e fitte e un mantello di stoffa più pesante su di una spalla), spesso ingioiellata, ma anch’essa è stante, frontale, immobile, giovane. La pettinatura spesso trattenuta da una corona è sempre molto elaborata. Dal punto di vista iconografico possono rientrare nel gruppo delle korai le due offerenti di Cheramyes (fig. 3.42), le cariatidi del Tesoro di Sifni (fig. 3.89) e altre numerose figure femminili utilizzate nella decorazione architettonica (fig. 3.53). Come il kouros anche la kore è portatrice dei valori della polis aristocratica. E’ attribuita a maestranze insulari (come del resto il busto di kore da Atene fig. 3.43, opera di uno scultore dell’isola di Nasso, che richiama nei connotati la Sfinge dedicata dai Nassii a Delfi, fig. 3.44), forse chiote, anche la kore dell’Acropoli (fig. 3.46, databile al 510 a.C. circa), famosa per la ricchezza e la particolare elaborazione del vestito, che conserva ancora abbondanti tracce dell’originaria policromia, il virtuosismo nella realizzazione dei particolari, dall’abito alla capigliatura, è tipico del periodo tardoarcaico.L’Acropoli di AteneNell’età dei Pisistratidi, probabilmente prima della distruzione da parte dei Persiani (480 a.C.), vi erano sull’Acropoli di Atene due edifici: un hekatompedon e un edificio arcaico. Al primo edificio forse appartengono alcuni frammenti di frontoni (fig. 3.49, databili a metà del VI sec.) ove, in particolare, è raffigurato un mostro tricorpore alato (fig. 3.51, le tracce di colore blu su una barba sono la ragione del nomignolo ‘barbablù’ con il quale il frontone è noto), i 3 corpi del mostro sono variamente scalati per rendere il passaggio da una visione di profilo a una frontale, volta direttamente verso lo spettatore (ardimento tecnico degno di nota). Al vertice opposto dello stesso frontone Eracle combatte contro Tritone (fig. 3.50). Sempre sull’Acropoli e ugualmente risalente agli anni centrali del secolo VI, ma certamente appartenente alla decorazione di un altro edificio, è il cosiddetto ‘frontoncino dell’ulivo’ (fig. 3.53) la figura femminile centrale ricorda le coeve korai. Un altro frontone, con Eracle in lotta con Idra (fig. 3.55), si distingue dai precedenti, si tratta, infatti, a differenza degli altri di un bassorilievo, la consueta vivace policromia fa pensare, comunque, che possa trattarsi del più antico dei frontoni dell’Acropoli. Da notare la ricercatezza della composizione che, rinunciando alle vecchie componenti apotropaiche, mette in scena un episodio unico, occupando tutto lo spazio a disposizione, quest’altro aspetto farebbe allora supporre una datazione posteriore di quella precedentemente illustrata. Il tempio pisistratide presenta i primi 2 frontoni interamente in marmo e a tutto tondo che ci siano pervenuti. Il frontone orientale rappresenta una Gigantomachia (fig. 3.57), il soggetto principale vede Atena che atterra un gigante.

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Qui la novità maggiore si riconosce nella circostanza che tutti i personaggi partecipano all’azione insieme, collaborando quindi con essa, la vecchia concezione del gruppo centrale apotropaico viene qui definitivamente superata.La programmazione edilizia dei Pisistratidi segna probabilmente lo smantellamento delle vecchie agorai, politicamente legate ai gruppi aristocratici precedenti, e la nascita di un nuovo spazio pubblico che viene disegnato ora a nord delle pendici dell’Acropoli nell’area del Ceramico. Proprio in quest’epoca, del resto, si datano i più antichi edifici pubblici noti nell’Agorà del Ceramico, destinata poi a mantenere questa funzione in età classica ed ellenistica (fig. 3.58). Tra questi vi troviamo: un edificio detto F (di dubbia funzione) e il Portico del re, sede dell’arconte re che vigilava sulle tradizioni religiose della città e luogo dell’esposizione delle leggi di Draconte e di Solone. Sul lato occidentale della via delle Panatenee (tracciata dagli stessi Pisistratidi per condurre la processione dal Dipylon fin sull’Acropoli) venne, invece, dedicato, da Pisistrato il Giovane, figlio di Ippia, nel 522-521 a.C., l’altare dei Dodici Dei che fungeva anche da punto di partenza per la misurazione delle strade. I Pisistratidi realizzarono, inoltre, ad Atene, un sistema di approvvigionamento idrico razionale, analogamente con quanto promosso dai Cipselidi a Corinto e nel frattempo intrapreso da Policrate a Samo. A loro si deve, infine, il tempio di Zeus Olympios (fig. 3.60, lasciato incompiuto, più volte ripresa la sua ricostruzione anche a distanza di secoli), edificio dorico ma di pianta diptera a evidente richiamo dei monumentali dipteri ionici che in quegli stessi anni altri tiranni, Policrate a Samo, Ligdami a Nasso, stavano costruendo.La scultura ad Atene (510-480 a.C.)Dopo le guerre persiane Atene rivestirà il ruolo di salvatrice della libertà politica e spirituale della Grecia, in questo periodo si assiste a un rinnovato clima politico e sociale che segna anche una svolta fondamentale nella scultura attica: opere come la kore di Euthydikos (fig. 3.66) e l’Efebo biondo (fig. 3.67), parlano entrambe un linguaggio figurativo del tutto nuovo, che si distacca decisamente dal canone arcaico. La stele funeraria di Aristion (fig. 3.62), scolpita intorno al 520-510 a.C. da Aristokles, riflette una caratterizzazione funzionale tipica del nuovo ordinamento cittadino: il defunto non è più raffigurato come un kouros, ma come un guerriero, perchè quella è, ora, la sua funzione all’interno della società; la resa stilistica, però, aderisce ancora al manierismo tardoarcaico. Il monumento funerario di Aristodikos (fig. 3.63), invece, realizzato verso la fine del VI sec. a.C., pur aderendo all’immagine astratta e atemporale del kouros, mostra importanti novità e riflette l’impegno di creare un canone nuovo. Permane la frontalità, con la gamba sinistra avanzata nello schema canonico, e il peso del corpo ripartito su entrambi gli arti, ma le braccia sono ora piegate e scostate dal tronco, il passaggio tra il busto e le gambe meno marcato, l’analisi muscolare più organica, il ritmo generale elastico e sensibile, pare proprio che il corpo cominci ‘a vivere’. Nel rilievo con scene di palestra (fig. 3.64, gioco con la palla) lo scultore adopera soluzioni originali e visioni di scorcio e di ¾ che presuppongono il contatto diretto con la realtà. Da un rinnovato spirito di osservazione verso il quotidiano, nasce anche la cena degli efebi che aizzano tra loro un cane e un gatto, un unicum nell’arte greca (fig. 3.65). Il diverso clima lo avvertiamo anche nella statuaria femminile (fig. 3.66), qui ci appare un volto largo, massiccio, la bocca ha perso il ‘sorriso arcaico’, i capelli sono divisi da una scriminatura centrale in due larghe bande, vi è un’accentuata volumetria. La nuova maniera di disegnare il corpo umano emerge in modo decisivo nella statua di efebo attribuita a Kritios (fig. 3.68, poco anteriore al 480 a.C.), compare un ritmo armonioso molto realistico. L’isola di Egina acquista una grande importanza nei secoli VII e VI a.C. sia come potenza marinara che commerciale. Il tempio di Aphaia è di ordine dorico, con peristasi di 6 x 12 colonne, pronao e opistodomo, cella divisa in 3 navate da 2 file di 5 colonne su doppio ordine (fig. 3.69). L’edificio, che non presenta ancora la curvatura dell’intero stilobate, denuncia già una serie di correzioni ottiche che ne fanno uno degli esempi meglio riusciti dell’architettura templare contemporanea (= gli interassi angolari contratti di 22 cm, le colonne angolari più spesse di 2 cm rispetto alle altre, tutte le colonne presentano un’inclinazione di 2 cm verso l’interno, tutti accorgimenti per alleggerire la pesantezza dell’ordine dorico). Le composizioni frontonali, statue scolpite a tutto

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tondo su fondo azzurro del timpano, raffigurano episodi della guerra di Troia (fig. 3.71). In entrambi la figura principale sull’asse del frontone è Atena, come avviene nell’Iliade la dea assiste, invisibile ai combattenti (6 per ogni ala del frontone nella parte ovest, 5 in quello est), nel ruolo di garante del trionfo della giustizia. Lo schema delle 2 ali del timpano è quasi simmetrico e il ritmo della composizione è centrifugo, vale a dire indirizzato verso le estremità, dove sono collocati i feriti che, con i corpi distesi, meglio si adattano alle dimensioni dello spazio angolare. Nel frontone orientale le statue sono disposte in maniera diversa, sono, infatti, probabilmente opera di 2 scultori differenti, che riflettono una diversa sensibilità artistica. Lo scultore del frontone ovest continua la maniera arcaica, con tutti i suoi valori di perfezione astratta, una ventina di anni dopo lo scultore del frontone est (fig. 3.71, qui si sperimentano posizioni instabili come quelle dei guerrieri, numerati in figura, VIII e III, raffigurati in una rotazione di ¾ che risulta ai nostri occhi piuttosto audace per l’epoca, anche la dea è in movimento) ripropone lo stesso soggetto mettendo in atto la nuova estetica che sfocerà di lì a poco, nel cosiddetto ‘stile severo’. Scultura e artigianato in bronzo e avorioLe statue di bronzo venivano prodotte fin dall’età geometrica con il metodo della cera persa, ovvero realizzando dapprima in cera quello che doveva poi essere di bronzo. Il progresso tecnico è legato, secondo le antiche fonti, alle figure di Rhoikos e Theodoros, nativi di Samo (attivi nel secondo quarto del VI sec. a.C.), che perfezionarono la tecnica della fusione a cera persa creando grandi statue cave di bronzo (quelle a noi pervenute sono molto poche rispetto a quelle di marmo, il bronzo infatti, era soggetto spesso a essere rifuso e riutilizzato). L’isola di Samo, ponte tra Occidente e Oriente, giocò senz’altro un ruolo fondamentale per la diffusione di tale tecnica, soprattutto nel vicino Egitto. Questa tecnica prevedeva un’iniziale sagoma di argilla ricoperta con della cera, sul quale lo scultore poteva lavorare fino al dettaglio, costruendo la sua statua in tutti i minimi particolari, rivestiva poi questa statua di cera con una spessa camicia d’argilla, cuoceva la forma per liquefare ed eliminare la cera e colava il bronzo nell’intercapedine, vuota, che risultava tra l’anima interna d’argilla e la camicia esterna. Spaccata quest’ultima ed eliminata l’argilla interna si otteneva una statua di bronzo cava. Ne è un esempio quello che ci rimane di una statua proveniente da Olimpia (fig. 3.76, simile ai kouroi del Capo Sounion), doveva essere nella forma simile a un kouros, l’impostazione a blocchi della statua rivela che lo scultore non ha ancora pienamente recepito le possibilità della materia, il bronzo. Da Olimpia proviene un altro esempio di bronzo raffigurante Zeus (fig. 3.77), i tratti sono ionizzanti e tardoarcaici, i richiami alle sculture frontonali di Egina consentono una datazione tra la fine del VI e l’inizio del V sec. a.C. La statua di Zeus rinvenuta nel centro messapico di Ugento, presso Taranto, era posta su una colonna della quale ci rimane il capitello dorico decorato a rosette (fig. 3.78). Rispetto allo scultore del kouros di Olimpia (fig. 3.76), l’ignoto autore di questa statua, verosimilmente tarantino, padroneggia molto meglio le possibilità offerte dal bronzo, che permette di allargare gli arti nello spazio, il problema del corpo in movimento è, tuttavia, risolto ancora in modo schematico.La fusione a cera persa si applica anche alla produzione di raffinate opere di artigianato, come i vasi da mensa e l’instrumentum destinato alle abluzioni e alla cura del corpo. Emblematico di questa categoria di oggetti di lusso è il celeberrimo cratere di Vix (databile tra il 540-520 a.C., prodotto in un’officina nella zona tra Sibari e Posedonia), il più grande vaso di bronzo a noi pervenuto, con i suoi 1,63 m di altezza e 208,6 kg di peso (fig. 3.79). Sul collo vi compare una lunga teoria di quadrighe e di opliti, le anse a volute sono ornate alla base da due busti di gorgoni con terminazioni anguiformi e da leoni rampanti, la presa del coperchio è una figura femminile velata. Il fatto che questo cratere sia stato ritrovato in Francia, in Borgogna, testimonia che questi prodotti di lusso erano richiesti anche in zone molto lontane, per le aristocrazie del mondo celtico, infatti, costituivano dei veri e propri ‘status symbol’. L’avorio, importato tramite la Fenicia e la Ionia, serviva soprattutto per la produzione di piccoli oggetti da cosmesi, statuette, placchette decorative di mobili, ma anche per statue di grandezza naturale, le cosiddette statue crisoelefantine (= materia prima avorio con aggiunte in oro). Data

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l’estrema delicatezza delle componenti, di queste statue ce ne resta, purtroppo, ben poco (esempi: fig. 3.80, fig. 3.81, fig. 3.82).Il santuario di DelfiI primi resti archeologici che documentano l’esistenza di una forma di culto, risalgono alla fine del secolo IX a.C., nel periodo orientalizzante, la quantità e la qualità delle offerte, come i grandi calderoni a protomi di grifi e di sirene (fig. 2.34, 2.35), testimoniano l’importanza assunta dal santuario nel corso del VII sec.; è in questo periodo che l’amministrazione incomincia a essere gestita da un’Anfizionia (= lega di stati vicini), della quale fanno parte in prima istanza, oltre alla Focide, la Tessaglia, la Beozia e la Doride. La bramosia delle varie città nell’ottenere la prestigiosa autorità religiosa del santuario dette via a una serie di ‘guerre sacre’. Dopo la prima guerra sacra (600-590 a.C.), che vede la sconfitta dei Focidesi, l’Anfizionia fonda i giochi Pitici (586 a.C.), il santuario diventa ora panellenico, infatti, si apre alla partecipazione di tutti i Greci e delle potenze straniere, quali, ad esempio, gli Etruschi e i re della Lidia. Il santuario di Delfi, centro religioso e politico per eccellenza, si articola strutturalmente, fin dal VII secolo a.C., in 2 distinti settori che si sviluppano ai lati della fonte Castalia (fig. 3.84). A est si trova il santuario di Atena Pronaia, sul lato opposto ovest si trova il temenos di Apollo (fig. 3.85), l’ingresso attuale immette direttamente nella Via sacra, che sale fino alla terrazza del tempio fiancheggiata da una serie continua di donari e di tesori (= thesauròi), espressioni delle più importanti città della Grecia e dell’Occidente che gareggiano per comparire e per offrire al dio un monumento degno della sua potenza e del loro momento di gloria. Vi troviamo: il monumento dei navarchi spartani, vincitori a Egospotami nel 405 a.C. contro Atene, il donario che celebra la vittoria ateniese a Maratona del 490 a.C., il Donario degli Arcadi, liberi dal dominio di Sparta dopo le battaglie di Leuttra e di Mantinea, il Donario di Argo, il Donario dei Tarantini, dopo una vittoria sui Messapi nel 473 a.C., i Donari dei tiranni di Gela e Siracusa per la vittoria di Imera sui Cartaginesi (480 a.C.). Vi sono poi la serie dei thesauròi, edifici di modeste dimensioni a pianta semplice, a oikos rettangolare con due colonne tra le ante, costruiti con le decime dei bottini di guerra, la funzione di questi piccoli edifici era quella di rappresentare le poleis della Grecia e le colonie d’Occidente nei santuari panellenici e di custodire i doni che le città offrivano agli dei. Sotto la terrazza che sostiene il tempio di Apollo, vi era l’antico santuario di Ghe e il luogo dove questo dio, secondo la tradizione, uccise il serpente Pitone, vi si trova una colonna di ordine ionico sormontata da una sfinge con il volto di donna e il corpo di felino (fig. 3.44), indicante il luogo delle mitica uccisione del serpente e la sua tomba. Davanti alla sfinge è posta un’area circolare detta Halos (= aia) nella quale sostavano le processioni per assistere alla sacra rappresentazione della lotta tra Apollo e il serpente. Sull’Halos si affaccia il Portico degli Ateniesi (fig. 3.87), di ordine ionico, manifesto della potenza navale di Atene. Il tempio di Apollo è stato ricostruito più volte: il tempio arcaico fu distrutto nel 548 a.C., nel 510-505 fu ricostruito dalla potente famiglia degli Alcmeonidi, mandata, in seguito, in esilio da Pisistrato (i frontoni vennero scolpiti da Antenore, il frontone est raffigurava l’arrivo di Apollo a Delfi, quello ovest una Gigantomachia), il tempio attualmente visibile è quello costruito dopo il terremoto del 373 a.C. ( altre costruzioni più tarde risultano essere il teatro e lo stadio). Il primo tesoro che si incontra risalendo la Via sacra è il Tesoro di Sicione (fig. 3.85, della fine del VI sec. a.C.) costruito in parte su un monoptero da cui ci proviene un fregio di metope (560 circa a.C.), una delle quali rappresenta una razzia di buoi da parte dei Dioscuri e dei loro cugini Ida e Linceo, che alterna con efficacia la progressione degli eroi, che scorrono di profilo davanti agli spettatori, alla frontalità tipicamente arcaica delle teste dei bovini in primo piano (fig. 3.91). Si nota un’attenzione quasi miniaturistica per il dettaglio, nel disegno delle lance, delle capigliature, delle teste dei buoi, nel tentativo di rendere i piani sovrapposti, che hanno indotto a confronti con la ceramografia di tradizione corinzia. Dietro il Tesoro di Sicione vi è il tesoro eretto dagli abitanti dell’isola di Sifno, nelle Cicladi, di ordine ionico, dalla ricca decorazione architettonica: 2 korai sostituiscono le colonne del pronao e un lungo fregio corre sopra l’architrave tra raffinate modanature (fig. 3.89). Sul lato ovest sono raffigurati Hermes, Atena e Afrodite nell’atto di salire o scendere dai carri, il soggetto era probabilmente il giudizio di Paride. Sul lato sud forse il soggetto è il rapimento di Elena, su quello

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est trova spazio il duello tra Achille e Memnone, a nord una Gigantomachia. Le forme sono quelle eleganti e raffinate della scultura ionica, dal modellato sfumato e dai volumi arrotondati. Il tesoro degli Ateniesi è un tesoro dorico con 2 colonne tra le ante, le metope del fregio raffigurano episodi dei miti di Teseo e di Eracle, lavori che sottintendono due personalità artigiane di diversa formazione e preparazione (uno stile arcaico e uno molto simile a quello successivo detto ‘severo’).Pausania. Pausania, visse nel secolo II d.C., è una delle fonti più ricorrenti nello studio dell’arte greca perchè la sua opera, intitolata “Descrizione della Grecia”, descrive puntualmente i luoghi e i monumenti della Grecia antica: partendo dall’Attica (I libro), descrive Corinto e l’Argolide (II libro), proseguendo con la Laconia (III libro), la Messenia (IV), l’Elide e Olimpia (V e VI libro), l’Acaia (VII), l’Arcadia (VIII), la Beozia (IX) e infine la Focide, con il santuario di Delfi (X). Egli viaggiò molto, oltre che in Grecia, in Italia, Egitto e Palestina, fino all’Arabia e alla Siria.Le ceramiche corinzieNella seconda metà del secolo VI a.C. la fortuna dei vasi di Corinto si esaurisce, che rimangono destinati solo a un ambito locale, mentre i mercati di tutto il Mediterraneo vengono travolti e conquistati dalla potenza espressiva e dalla vivacità narrativa dei pittori attici. La cesura tra il periodo detto di stile protocorinzio e stile corinzio avviene nel decennio 630-620 a.C., opportunamente definito Transizionale (TR). A partire da ora i ritmi di produzione delle ceramiche corinzie aumentano visibilmente, grazie anche al precedente programma di incentivazione commerciale dei Bacchiadi (al potere dal 747-657 a.C. circa), del tiranno Cipselo e anche per le iniziative promosse da Periandro, suo figlio, (627-587 a.C., scaverà il bacino del porto del Lechaion sul Golfo Corinzio). Sulle ceramiche corinzie continua la decorazione nella tecnica a figure nere con sovraddipinture in paonazzo, giallo e bruno, alternandosi eventualmente alla vecchia tecnica della linea di contorno. Il repertorio orientalizzante dei fregi animalistici continua a essere riproposto su una parte cospicua di vasi corinzi con un intento per lo più puramente decorativo (fig. 3.98). Un mutamento sostanziale, già però parzialmente percepibile nel Protocorinzio Tardo, riguarda invece le dimensioni e le forme dei vasi; le prime aumentano costringendo, quindi, il pittore ad accrescere il modulo del fregio figurato miniaturistico di tradizione protocorinzia, con un’inevitabile minore attenzione per i particolari, relativamente alle forme compaiono: l’aryballos sferico (fig. 3.99) con largo bocchello e privo di piede (che poteva dunque essere solo sospeso o al più portato legato al polso), l’alabastron (fig. 3.100), di forma verosimilmente ereditata da simili contenitori egizi e fenici, in alabastro, (prosegue, comunque, contemporaneamente nel periodo detto Transizionale anche la produzione di olpai, oinochoai a bocca trilobata, fig. 3.98, lekythoi a corpo conico e kotylai). Ma ciò che per lo più distingue i vasi protocorinzi da quelli corinzi è il differente livello artistico: gli elevati ritmi di fabbricazione, evidentemente imposti dalle richieste di mercato, trasformano infatti rapidamente un manufatto precedentemente dipinto con accuratezza e ricercatezza, in un prodotto che solo eccezionalmente supera il livello del buon artigianato (= monotoni repertori di fregi animalistici). Nascono in questo periodo vere e proprie officine specializzate nella produzione di particolari forme (es. la bottega del Pittore del Delfino è specializzata nella produzione degli unguentari).Stile transizionale (TR) 630-620 a.C. . In genere l’evoluzione consiste in una progressiva diminuzione nell’accuratezza e nel numero dei dettagli. Stile corinzio antico (CA) 620-590 a.C. . I vasi attingono da un patrimonio iconografico di età orientalizzante (fig. 3.98). Fig. 3.97 è il caso del più antico cratere a colonnette corinzio a noi noto, proveniente da Cerveteri (= Etruria), si tratta di una forma vascolare nuova che pare derivata da manufatti in metallo. Le iscrizioni dipinte in alfabeto corinzio rivelano che i convitati, sdraiati su klinai, sono Eracle, Eurito con i figli Ifito e Iole; si rivelano, qui, schemi pittorici già definiti, come la scelta (che resterà a lungo costante) dell’incarnato bianco per le figure femminili e nero per quelle maschili. Sui contenitori da profumo (soprattutto aryballoi, ma anche alabastra) compare nel corso del Corinzio Antico un’iconografia nuova, che avrà largo seguito: i comasti (fig. 3.101), ossia figure maschili di danzatori, raffigurati in gruppi di danze rituali.

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Stile corinzio medio (CM) 590-570 a.C. . Inizia la produzione degli unguentari monumentali, la decorazione tende a occupare tutta la superficie a disposizione, ricorrendo spesso a un tappeto di riempitivi (fig. 3.102). A un simile gusto per figure monumentali, disegnate con talento e disciplina, rispondono, ad esempio, anche i maestri riuniti sotto il Gruppo della Chimera, dal nome dell’artefice più dotato, appunto Pittore della Chimera (fig. 3.103).Stile corinzio tardo (CT) 570-550 a.C. . La tradizione del fregio animalistico appare stanca, talvolta si traduce in un’esplicita imitazione del prodotto ateniese, comunque, particolarmente interessante in questa fase è la produzione di crateri a colonnette, spesso destinati ad acquirenti etruschi, decorati con fregi di cavalieri, duelli di opliti, scene di armamento e di partenza, cortei nuziali e banchetti (fig. 3.104).Le ceramiche atticheVerso la fine del VII sec. a.C. i ceramografi ateniesi acquistano progressivamente familiarità con la tecnica pittorica a figure nere, si esercitano nel graffito e nei ritocchi in paonazzo, mostrandosi in ciò molto sensibili alla moda corinzia (Solone, legislatore ateniese dei primi anni del sec. VI, incoraggiò l’immigrazione di artigiani provenienti da altre località, tra cui Corinto). La produzione protoattica della fase tarda (630-600 a.C.) è ben rappresentata dal Pittore di Nesso e la sua celebre anfora (fig. 3.105), ove si mostra chiaramente quale distanza di concezione e di realizzazione intercorra tra i primi esempi di vasi attici a figure nere e le coeve ceramiche corinzie dipinte con fregi animalistici, cui pure i maestri attici si ispirano apertamente. I cigni e le civette che il Pittore di Nesso traccia sono di derivazione corinzia, così pure le rosette, il fregio di loti e le palmette sulla spalla del vaso. Ma nessuno dei pittori corinzi avrebbe mai potuto dare vita al fregio statuario, che compare sulla pancia dell’anfora, di terribili gorgoni in corsa, dell’uccisione da parte di Perseo di Medusa e dei mostri alati raffigurati nello schema della corsa in ginocchio (la ritroviamo simile sul frontone dell’Artemision di Corfù, fig. 3.7). Sul collo del vaso vi è Eracle che assale il centauro. Successivamente Sophilos (primo pittore attico di cui si abbia la firma e la cui personalità sia meglio intellegibile), che è all’opera tra il 580-570 a.C., fa uso di decorazioni che risentono ancora del gusto corinzieggiante per i fregi animalistici sovrapposti, ma, al di là di quest’aspetto, c’è da notare che il pittore mostra grande abilità narrativa, ad esempio, nel tracciare con vivace bozzettismo la folla che gremisce gli spalti di uno stadio di legno per assistere ai giochi funebri di Patroclo (fig. 3.106). (Altri esempi: - fig. 3.107, databile 585-570, produzione di coppe attiche con comasti; - compare ora anche la forma di kylix con orlo distinto, vasca larga e piatta, alto piede a fusto, che nella ceramica attica sarà la forma potoria per eccellenza, fig. 3.108). Pittore e vasaio fu anche Nearchos (anche di lui si conservano le firme), è un maestro di forme vascolari nuove, come i kantharoi, ma suo è anche un frammento di kantharos dall’Acropoli (fig. 3.109), con il quale, si assiste, forse, al primo esempio di espressione di sentimenti individuali nella figura pensosa di Achille che accarezza i suoi cavalli, consapevole del triste destino di morte che lo attende.Il cratere Francois (fig. 3.110, 3.111), rinvenuto a Chiusi (Etruria) nel 1845 e battezzato dal nome del suo scopritore, è il frutto della fortunata collaborazione tra 2 maestri, Ergotimos vasaio e Kleitias pittore, si data intorno al 570-560 a.C.; è il primo esempio monumentale e maestrale di cratere a volute (h 66 cm). Questo presenta scene figurate che, se nella disposizione per fregi sovrapposti, ancora mostrano un legame con la concezione corinzia, nella vivacità narrativa e nell’ispirazione tutta mitologica dei contenuti sono tutt’altra cosa; il fregio animalistico di tradizione corinzia è infatti relegato a una posizione assolutamente secondaria, nel punto più basso. Sul labbro sono raffigurati da un lato la caccia al cinghiale con Meleagro, Atalanta e Peleo, dall’altro lo sbarco di Teseo a Delo; sul collo, sotto la caccia, vi è la corsa dei carri per i funerali di Patroclo, dall’altro lato una scena di Centauromachia. Il primo fregio della vasca, nel punto di massima espansione del vaso, è l’unico a ospitare una narrazione continua, ovvero le nozze di Teti e Peleo, dai quali nascerà Achille. Nel fregio seguente torna la ripartizione tra i due lati, con il ritorno di Efesto sull’Olimpo e, fuori dalle mura di Troia, Achille insegue Troilo che poi ucciderà, succede poi il fregio animalistico di tradizione orientalizzante, sul piede, infine, vi è una battaglia di pigmei e gru. Sulle anse sono dipinti Artemide, la gorgone e Aiace che trasporta il cadavere di Achille (fig.

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3.27). L’intero apparato pittorico risponde a un tentativo di progetto unitario, infatti, la ricca composizione di miti assurge, secondo il parere di M. Torelli, a paradigma esemplare del ciclo di vita aristocratico che, dalle prove iniziatiche giovanili, attraverso le gare atletiche e di coraggio, porta al premio delle nozze eccellenti, mettendo nello stesso tempo in guardia anche dall’infrangere i codici etici, se l’eroe nutre la speranza di immortalità.Gli anni della tirannide dei Pisistratidi ad Atene coincidono con un periodo di grande fervore in ogni espressione artistica. Ceramisti e ceramografi godono evidentemente anche di buona considerazione sociale e sono sufficientemente ricchi, in taluni casi, da potersi permettere prestigiosi doni votivi sull’Acropoli, talvolta eseguiti da grandi scultori, quali Antenore ed Endoios (fig. 3.38, 3.47). Nikosthenes, ceramista e proprietario di bottega, attivo nella seconda metà del VI sec. a.C., dovette ritagliarsi uno spazio commerciale significativo presso la clientela etrusca, soprattutto nelle zone di Cerveteri e di Vulci, tra queste vi è, infatti, un tipo di anfora, detta appunto nicostenica (fig. 3.112), con anse larghe e piatte a imitazione di un prodotto etrusco in bucchero, anche il kyathos, un attingitoio monoansato, doveva ispirarsi, a sua volta, alla forma di un boccale in uso presso gli Etruschi. La seconda metà del VI sec. è anche fase di grande sperimentazione, ne è un esempio l’applicazione di una vernice che conferisce alla superficie ceramica una brillante tonalità corallo, usata forse per la prima volta da Exechias nella coppa con navigazione di Dioniso (fig. 3.113), o ancora la campitura di figure interamente in bianco su vernice nera con graffiti che lasciano intravedere il fondo nero e non quello dell’argilla (tecnica detta di Six). Ai soggetti divini (Dioniso e Eracle) ed eroici (soprattutto Aiace e Achille, dall’Iliade) si unisce l’attenzione per la sfera umana, raffigurata non nella banalità quotidiana, bensì nei suoi episodi più altamente qualificanti il profilo etico e morale del cittadino e della cittadina ateniese (ad es.: le scene di corteggiamento omoerotico tra atleti, o i simposi cui prendono parte coppie di convitati più maturi accanto a simposiasti giovinetti, in esplicita allusione all’intrecciarsi di relazioni omosessuali). Per singolare concentrazione, dal 530 a.C. in poi, sono da segnalare i vasi, per lo più hydriai, con scene di donne che attingono acqua alla fontana (fig. 3.59, fig. 3.115 del Pittore di Priamo o fig. 3.114 del Pittore di Andokides).Il culmine della pittura vascolare attica a figure nere di età pisistratide è rappresentato da 3 personalità, attive tra il 560 e il 525 a.C.: Lydos, Amasis, Exechias. Il primo è più che altro un nomignolo, il Lidio, produce opere di grande drammaticità (fig. 3.116), con Amasis (attivo dalla metà del VI sec. fino almeno al 520 a.C.), forse egiziano, si verifica l’introduzione ad Atene di una forma di unguentario tipicamente egiziana, l’alabastron, ricavato dall’alabastro in Egitto, riproposto in argilla da Amasis. Egli ama le rappresentazioni di tono familiare: fig. 3.118 è dipinta una processione nuziale, fig. 3.119 vi sono donne intente nel tessere al telaio verticale, fig. 3.120 vengono qui, invece, affrontati temi dionisiaci (= Dioniso, dio di tutta la polis e dei demi rurali, è un dio che si sposa perfettamente con la politica unificatrice di Pisistrato). Exechias è pervaso soprattutto dallo spirito eroico dei poemi omerici. La sua originalità (gli si attribuisce l’invenzione di due nuove forme vascolari, il cratere a calice e la coppa a ‘occhioni’, es. fig. 3.113) si testa anche nella creazione di iconografie nuove, come quella di Achille e Aiace impegnati nel gioco dei dadi (fig. 3.121), qui il gioco di incrocio delle lance e l’espediente di tracciare i piedi dei due eroi davanti e dietro gli sgabelli sono una prima intuizione di profondità dello spazio. Il disegno è di livello artistico elevatissimo: da osservare la straordinaria ricchezza dei graffiti sui mantelli dei due guerrieri, sulle barbe, sui capelli. Emblematica la scena del suicidio di Aiace sull’anfora attica a figure nere (fig. 3.122): solo sulla spiaggia, Aiace sta conficcando la sua spada nel terreno e una ruga profonda gli solca la fronte, a esprimere il dramma di un eroe valoroso; in un’epoca in cui il linguaggio convenzionale non consente ancora di esprimere sfacciatamente l’agitarsi dei sentimenti, questa figura è quanto di più vicino alla sensibilità di questo maestro che ama soffermarsi sugli aspetti psicologici e sui drammi degli eroi. Di uguale spessore è il dramma di Achille rappresentato su un’altra anfora a figure nere (fig. 3.123), pronto a sferrare il colpo mortale con la lancia su Pentesilea, regina delle Amazzoni, ma nel momento in cui la regina volge il capo per guardare negli occhi il suo uccisore, i due s’innamorano, inutilmente, la regina guerriera ormai è esangue. Altra

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atmosfera si respira con la kylix a figure nere della navigazione di Dioniso (fig. 3.113), il dio si trova su di una nave da cui fioriscono tralci di uva, accompagnato dalla gioiosa danza dei delfini.Intorno al 530 a.C. venne inventata ad Atene la tecnica a figure rosse dalla quale tuttavia non tutti gli artisti si fecero immediatamente attrarre. Con questa tecnica il fondo viene campito a vernice, mentre le figure, disegnate a contorno, restano risparmiate nel colore rosso dell’argilla, i dettagli quindi non sono più graffiti con la punta metallica, bensì tracciati a pennello, con la possibilità di dosare l’intensità della vernice dalla linea a rilievo a quella diluita. Il metodo consente una resa più particolareggiata e realistica dell’anatomia e dei panneggi, ed è dunque perfettamente in linea con gli interessi e le ricerche figurative di età tardoarcaica. Tra i primi a cimentarsi in tale tecnica troviamo il Pittore di Andokides, che dipinge vasi in coppia con il Pittore di Lysippides, che, al contrario, continua a dipingere figure nere, creando così, sui vasi, un codice bilingue che ben esemplifica la fase di sperimentazione e di passaggio dall’una all’altra concezione pittorica, ne è un esempio l’anfora bilingue, fig. 3.124, rappresentante Eracle nei panni del simposiasta. Sull’anfora la resa del medesimo soggetto nelle due diverse tecniche consente di constastare come in realtà il pittore si senta ancora più a suo agio dipingendo a figure nere: la scena qui è infatti più affollata di personaggi (accanto a Eracle ci sono Atena, Hermes e un giovane coppiere); migliore è la resa anatomica del torace dell’eroe, ardito lo scorcio del busto del coppiere. Nel pannello a figure rosse, invece, poco abile è la resa tridimensionale del busto dell’eroe, che resta schiacciato e informe; è chiaro, comunque, che il pittore inizia a intuire le potenzialità pittoriche della nuova tecnica, lo notiamo da come si sbizzarisce nell’ornare la veste della dea, il materasso e il cuscino della kline (fig. 3.125, Eracle cattura Cerbero in presenza di Atena). Nel ventennio 520-500 a.C. la ceramica attica figurata raggiunge un livello qualitativo superbo, che difficilmente verrà poi superato, a opera di un gruppo di maestri definiti ‘Pionieri della tecnica a figure rosse’ da Beazley, studioso cui dobbiamo il massimo sforzo di sistemazione delle ceramiche attiche e dei relativi pittori. I ‘Pionieri’ sono personaggi colti che partecipano alla vita sociale della buona Atene o almeno amano raffigurarsi in questa veste. Si firmano con dei nomignoli: Euphronios, il saggio, Euthymides, il buono, Smikròs, il piccoletto. Appartengono alla stessa generazione dei maestri bilingui, forse un po’ più giovani, ma diversamente da loro, i ‘Pionieri’ si formano nella nuova tecnica a figure rosse, di cui mostrano di aver pienamente intuito le grandi potenzialità, preferiscono vasi di grandi dimensioni, con ampie superfici. Euphronios dipinge un cratere a calice a figure rosse, fig. 3.127, dove campeggia il cadavere di Sarpedonte (principe di Licia e figlio di Zeus, ucciso da Patroclo), per volere del divino padre e alla presenza di Hermes, il morto viene riportato in patria da Thanatos (= la morte) e Hypnos (= il sonno), mentre i soldati si fanno a lato per consentirne il passaggio. Questo pittore dimostra grande sensibilità anatomica anche nel cratere con la lotta mortale tra Eracle e Anteo (fig. 3.129), così come nella vivace scena di palestra sul cratere di Capua (fig. 3.128) dove ricorre anche a scorci e torsioni. Ardimento e novità esprimono anche i poderosi corpi delle giovani donne a banchetto sullo psyktèr dell’Ermitage (fig. 3.131). Di Euthymides, invece, è l’anfora con comasti danzanti (fig. 3.132) e l’anfora da Vulci (fig. 3.134) con Teseo ed Elena, nella quale il pittore traduce in disegno sorvegliato, e con larga sensibilità, i panneggi raffinati delle korai in marmo dedicate in quegli anni sull’Acropoli. [Accanto ai decoratori di grandi vasi operano, in questi anni, anche artigiani (es. Oltos ed Epiktetos, fig. 3.135, 3.136) che dipingono soprattutto kylikes e recipienti di piccole dimensioni].L’arte del vasaio: la fornace e la cottura. Le fornaci erano costruite dai vasai stessi su muretti di fondazione in piccole pietre e ciottoli, rivestiti di argilla, completati in alzato da mattoni che cuocevano con le prime infornate, rendendo il forno una struttura molto stabile (aspetto finale fig. 3.137, forse messo a punto dai ceramisti corinzi nel corso del VII sec. a.C.). Come si evince dalla figura, all’interno della fornace, al centro venivano posti i recipienti di maggior pregio, che venivano così uniformemente investiti dal calore, e ai lati quelli di minore qualità, lo sfruttamento dello spazio era quindi ottimale. Anelli distanziatori e cunei servivano a garantire uno stabile impilaggio. Occorrevano molte ore (8-9) per raggiungere la temperatura di circa 800-950 gradi, necessaria alla cottura e al fissaggio del rivestimento pittorico. Intorno ai 500 gradi, raggiunti dopo

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6-7 ore dall’accensione, i vasi iniziavano a cuocere, ma per fissare la decorazione sulla superficie di doveva attendere che la temperatura salisse a 900 gradi, è allora che i rivestimenti pittorici, composti di argilla molto depurata, sinterizzano, ovvero fondono trasformandosi in quel rivestimento lucido che rende i vasi impermeabili. La cottura avveniva in tre fasi. La prima fase è ossidante, essa dura fino a che la temperatura è di 900 gradi, in questo momento il condotto del focolare e il foro di tiraggio sulla sommità della fornace devono restare aperti, l’ossigeno alimenta il fuoco e l’ossido di ferro conferisce alla superficie ceramica una tonalità rossa. Segue la fase riducente della cottura: la fornace viene chiusa, il calore si abbassa a causa della produzione nella camera di cottura di fumo, il monossido di carbonio, l’ossido di ferro dei rivestimenti diviene nero e sinterizza, in questa fase i vasi sono tutti neri e lucidi. Il terzo e ultimo processo consiste nel separare il rosso dal nero. Si apre ancora una volta la fornace, mentre i vasi arroventati si raffreddano, le parti della superficie ceramica a risparmio si ossidano nuovamente, assumendo la definitiva tonalità rossa, l’argilla di cui è fatto un vaso è infatti più porosa del rivestimento pittorico, ottenuto da una maggiore decantazione, e non sinterizza bene, quindi mentre i rivestimenti pittorici, trasformatisi in una superficie lucida e resistente restano neri, le parti risparmiate si tramutano nuovamente nel colore rosso dell’argilla.

IV. L’età dello stile severo (480-450 a.C.)

Uscita vincitrice dalle guerre persiane (Salamina 480 a.C., Platea 479 a.C.), sotto il comando di Temistocle, Atene, insieme ad alcune città ioniche, nel 477 a.C., fonda una coalizione dagli intenti principalmente antipersiani, ovvero la Lega delio-attica, con sede a Delo. Impegnata contro la Persia e contro Sparta (sua eterna rivale), Atene riesce con alterne vicende a estendere la sua egemonia su tutta la Grecia centrale. Forte dell’alleanza con Argo e con Megara, giunge ad annettere al suo territorio la Beozia, la Locride e la Focide. Nel 456 a.C. anche Egina, già alleata di Sparta, è costretta ad entrare nella Lega delio-attica; eliminata la concorrenza commerciale, il Pireo diventa il principale porto di tutta la Grecia. Con il trasferimento del tesoro della Lega ad Atene (454 a.C.), la tregua quinquennale con Sparta (451 a.C.) e la pace con la Persia (pace di Callia 449 a.C.), che garantisce l’autonomia delle città greche dell’Asia Minore e di Cipro, la Lega delio-attica perde la sua importanza lasciando Atene egemone tra le città alleate. Il 480 a.C. è un anno decisivo anche per le città greche della Sicilia, Agrigento e Siracusa, che riescono a sconfiggere i Cartaginesi a Imera. Tutto questo clima politico di rinnovamento e di esaltazione nazionalistica influisce chiaramente sulla produzione artistica, che darà vita al cosiddetto ‘stile severo’. L’aggettivo ‘severo’ traduce letteralmente il tedesco ‘streng’, usato da Winckelmann nella sua “Storia dell’arte dell’antichità” del 1764, per definire la scultura anteriore a Fidia; il termine traduce a sua volta i qualificativi durus, rigidus, austerus con i quali gli autori latini avevano definito le opere dello stesso periodo. L’appellativo nasce dall’osservazione dei volti delle sculture della prima metà del V sec. che hanno perso, insieme al caratteristico ‘sorriso’, ogni tipo di manierismo tardoarcaico. In questi anni nascerà anche il nuovo genere letterario della tragedia, inoltre, nel campo delle scienze si inizierà lo studio dell’anatomia, della medicina (con la creazione delle prime grandi scuole mediche), l’osservazione dei corpi celesti e dei fenomeni naturali. Questo generale fervore si rifletterà anche nella statuaria: le membra si muovono, ora, assecondando la diversa distribuzione del peso corporeo, mentre, la resa delle vene e dei muscoli sono l’ovvio risultato delle conquiste della nuova scienza medica. La riflessione dell’uomo porta, inoltre, all’interesse per la raffigurazione dei caratteri, degli stati d’animo, delle età mature.

Quando gli Ateniesi, dopo la vittoria di Platea nel 479 a.C. tornano sull’Acropoli saccheggiata e distrutta dai Persiani, decidono di non ricostruire nulla, ma, anzi, di lasciare ben visibili le tracce del sacrilegio compiuto dai barbari. L’architettura sacra della Grecia è rappresentata in questo periodo dal grandioso tempio di Zeus a Olimpia, un tempio dorico periptero (6 x 13 colonne), la cella, dotata di pronao e opistodomo, è divisa in 3 navate da 2 file di 7 colonne ciascuna poste su doppio

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ordine (fig. 4.1), posto su un crepidoma di 3 gradini, il colore (rosso, blu, nero) sottolineava le membrature architettoniche e le parti aggettanti della trabeazione (fig. 4.2). Anche la complessa decorazione scultorea, in marmo pario, era completata dal colore e da inserti metallici. Come per il tempio di Aphaia a Egina, anche qui sono state messe in opera quelle correzioni ottiche volte ad alleggerire la pesantezza dell’ordine dorico: i fusti delle colonne hanno una leggera entasi, le colonne dei lati maggiori e le prime 2 colonne su ciascun lato corto (cioè quella d’angolo e quella adiacente) hanno un’inclinazione verso l’interno di 60 mm. Il ‘modulo’, vale a dire l’unità di misura che è alla base dei rapporti fra le varie parti che compongono un edificio, è dato dall’interasse delle colonne, cioè dalla distanza, calcolata alla base, tra gli assi di due colonne vicine. Tutte le misure del tempio sono multipli e sottomultipli di questa misura. Il tempio fu costruito tra il 472 e il 457 a.C. con il bottino di guerra della vittoria degli Elei sulla città di Pisa (antica capitale della regione), abbattuto, poi, a causa di un disastroso terremoto nel VI sec. d.C.. Per avere un’idea di come doveva presentarsi il tempio di Olimpia serve osservarne uno costruito molto simile nel 460 circa a.C., ovvero il tempio di Nettuno a Poseidonia (= Paestum, Salerno) fig. 4.3, 4.4, 4.5, in realtà dedicato ad Apollo o a Zeus. Simile era anche il tempio di Hera a Selinunte, il cosiddetto tempio E (fig. 4.6). I templi dello stile severo delle colonie d’Occidente, meglio conservati di quelli della madrepatria, permettono di cogliere immediatamente le nuove norme dell’ordine dorico che si manifestano nella perfetta simmetria della cella, con l’opistodomo che corrisponde al pronao; nella cadenza regolare delle colonne della peristasi, che presentano ora un capitello più rigido per il taglio obliquo dell’echino; nella messa a punto del conflitto angolare, che l’architettura arcaica aveva già tentato di risolvere. Il problema del fregio dorico, composto dall’alternanza ritmica di metope e triglifi, è infatti dato dalla necessità di concludere il fregio con un triglifo, che viene così a cadere nell’angolo del tempio, ma non sull’asse della colonna corrispondente. In età arcaica il problema era risolto allargando la metopa angolare, ma rompendo così il ritmo geometrico del fregio; in età classica, l’esigenza di una maggiore simmetria, porta a contrarre leggermente l’ampiezza dell’ultimo intercolumnio, o dei due intercolumnii prossimi agli angoli, in modo che le metope risultino tutte di uguali dimensioni. Questi accorgimenti sono messi in opera anche nel cosiddetto tempio della Concordia di Agrigento (del 440 a.C.), infatti nella peristasi, per rispondere alle contrazioni angolari imposte dal fregio dorico, le campate della facciata e, sui lati lunghi, delle colonne angolari, sono progressivamente ridotte di una decina di centimetri (fig. 4.7). L’architettura sacra della prima metà del V sec. tende quindi a costruire con caratteri più uniformi e razionali, basati sulla rigorosa applicazione di criteri di proporzione aritmetica; al centro della ricerca architettonica è la simmetria, il rapporto fra le parti e il tutto fondato su un’unità di misura, il ‘modulo’ (in genere l’interasse normale) che si ritrova ovunque nell’edificio.Il santuario di Olimpia (fig. 4.8, 4.10) Come il santuario di Delfi, anche Olimpia era un santuario panellenico, punto di aggregazione di tutti i Greci. La località era infatti collegata a due antiche leggende, la saga di Pelope, eroe eponimo del Peloponneso, e l’istituzione dei giochi olimpici da parte di Eracle. Come avviene in genere per i santuari greci, anche il santuario di Olimpia ha una monumentalizzazione graduale che culmina nei secoli V e IV a.C. per poi riprendere in età romana (fig. 4.9). La fase più antica (secoli X-VIII a.C.) è testimoniata dalle offerte di ceramiche, di tripodi e di statuette di terracotta e di bronzo; il fulcro del santuario sembra essere stato il culto eroico di Pelope celebrato nel Pelopion. Il primo edificio monumentale del santuario è il tempio di Hera, alle pendici del monte Kronion, della fine del secolo VII a.C.. Nel secolo successivo viene occupata progressivamente, con i tesori delle città alleate, la lunga terrazza posta a est del tempio, solo nel secondo quarto del V sec., come si è già accennato col bottino della vittoria su Pisa, viene costruito il tempio di Zues, che ospita il ciclo figurativo più importante di tutto il santuario (nella seconda metà del secolo il tempio viene completato con la statua di culto crisoelefantina, opera di Fidia). Nel secolo IV a.C. l’area interna al temenos viene regolarizzata con la costruzione della stoà di Eco, che chiude a est l’Altis separandolo dallo stadio. Fuori dall’Altis intorno al 330 a.C. viene costruito il Leonidaion. In età ellenistica ricevono una sistemazione monumentale gli impianti sportivi, la palestra e il ginnasio,

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mentre nel 338 a.C., nel settore occidentale dell’Altis e, non a caso presso il Pelopion, viene costruito a forma di tholos l’heroon della dinastia macedone, il Philippeion. Il santuario continuerà a vivere con alterne vicende fino a quando l’Editto di Teodosio, nel 394 d.C., con l’abolizione delle Olimpiadi e dei culti pagani, porterà alla chiusura e all’abbandono del sacro temenos. Il ciclo figurativo del tempio di ZeusBenchè divise tra pronao e opistodomo le 12 metope (che presuppongono una committenza importante, forse una delle grandi famiglie sacerdotali di Olimpia; le metope sono in parte colorate per consentire una migliore visualizzazione da terra, dato che distavano circa 10 metri, risalenti a poco prima del 460 a.C.) hanno un unico tema, le 12 fatiche di Eracle (figlio di Zeus), la scelta del soggetto rappresentato rende chiaro l’intento di riferimento cultuale al tempio e al santuario, sede dei giochi istituiti dall’eroe. Sul lato orientale sono raffigurati: la cattura del cinghiale di Erimanto, la cattura delle cavalle di Diomede (re di Tracia), Eracle e Gerione, Eracle e i pomi delle Esperidi, la cattura di Cerbero, la pulizia delle stalle di Augia, re dell’Elide (fig. 4.11); sul lato occidentale si trovano: la cattura del leone di Nemea, l’uccisione dell’Idra di Lerna, Eracle e gli uccelli stinfalidi, Eracle e il Minotauro, la cattura della cerva di Cerinto, la conquista del cinto di Ippolita (fig. 4.12). Atena e Eracle subiscono nel corso degli episodi un’evoluzione psicologica e formale, Eracle passa dall’atteggiamento d’incertezza e di meditazione della prima metopa (leone di Nemea) all’atteggiamento deciso ed eroico delle metope successive; anche Atena, dall’aspetto giovanile nella prima metopa si avvia man mano a una maturità sempre maggiore. Nella metopa degli uccelli stinfalidi (fig. 4.13), la figura dell’eroe dall’aspetto severo, maturo e solenne, richiama alcune raffigurazioni coeve a figure rosse, come l’Eracle del Pittore dei Niobidi (fig. 4.68). Nella fatica imposta da Augia, re dell’Elide, Eracle devia il corso del fiume Alfeo per purificare le stalle del sovrano, che non erano mai state pulite, qui l’eroe è colto mentre sta pulendo o mentre sta rompendo le pareti per far entrare l’acqua; Atena compare in tutta la sua potenza, completamente armata e vestita con un peplo cinto che accentua la sua imponenza con la caduta delle pieghe a canne d’organo (fig. 4.14), la presenza della dea accanto a Eracle non è più quella di una semplice spettatrice, ma di una compagna, partecipe dell’azione. Lo schema compositivo affianca la verticalità di Atena alla diagonale di Eracle, la lancia della dea forma con la figura dell’eroe uno schema incrociato. A tempio ultimato sono state posizionate all’interno del timpano le sculture frontonali, per far sì che vi entrassero la parte retrostante di dette statue non venne rifinito ma solo lisciato. Il frontone est, corrispondente all’ingresso del tempio, raffigurava la saga dell’eroe locale, Pelope (fig. 4.15). Lo scultore coglie il momento che precede la gara tra il giovane ed Enomao: i personaggi si presentano come su un palcoscenico come se la ‘tragedia’ stesse per incominciare. Al centro si trova Zeus, secondo il principio, già visto nei frontoni di Egina, di collocare al centro del timpano il dio, invisibile, che qui rappresenta il destino, il fato incombente e inevitabile (fig. 4.16). La linea alba del suo corpo si trova spostata per sottolineare l’assecondamento del busto rispetto al movimento impressogli dalle gambe. Lo Zeus come le altre figure del frontone, esprime una concezione artistica ormai lontana dalle analisi fortemente descrittive del periodo arcaico: il nudo è sintetico, essenziale, il panneggio sottolineato da poche pieghe pesanti, pastose. E’ caratteristico dello stile severo concepire la figura come qualcosa di autonomo, che vive per se stessa, con una forza vitale intrinseca. Ai lati del dio, le coppie formate da Pelope e Ippodamia, e da Enomao e la moglie Sterope (fig. 4.19). Il re dell’Elide, barbato, ha la bocca socchiusa che lascia intravedere i denti, espediente per rendere il dolore o, come in questo caso, la crudeltà; il personaggio più giovane è quindi Pelope, in nudità eroica come il rivale (vi sono poi altri numerosi personaggi: una figura inginocchiata fig. 4.17, un vecchio fig. 4.18 probabilmente un indovino, uno stalliere, l’auriga ecc..). Sul frontone occidentale è rappresentata la lotta tra Lapiti e i Centauri durante le nozze di Piritoo e di Deidamia (fig. 4.20, il mito narra che i Centauri presero parte ai festeggiamenti e inebriati dal vino assalirono la sposa, figlia del re dei Lapiti, e le altre donne presenti; vennero alla fine sconfitti anche grazie all’aiuto di Teseo, re di Atene, testimone di nozze). Lo schema del frontone è in netto contrasto con quello del frontone orientale, infatti, in quello occidentale, il dramma è già in atto non sta per iniziare, inoltre in quello orientale i personaggi erano isolati,

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ciascuno chiuso nella propria angoscia e tensione, qui invece i corpi sono aggrovigliati gli uni sugli altri, là si coglieva la calma minacciosa, qui il tumulto scatenato. Al centro del frontone è ancora una volta un dio, Apollo, stante, seduto, nudo, con il braccio destro proteso e il sinistro abbassato a reggere l’arco (fig. 4.21), il destro compie una vistosa apertura, un gesto fermo, sicuro, che significa la volontà di ristabilire la quiete frenando la violenza dei Centauri. La testa, rivolta decisamente verso destra, ha mento rotondo, robusto, fortemente pronunciato, caratteristico dello stile severo, e la tipica acconciatura con la treccia che gira intorno al capo, nascosta sulla fronte dalla spessa frangia di riccioli (già notata per l’Efebo biondo, fig. 3.67). Ai lati di Apollo in posizione divergente, Piritoo a destra e Teseo a sinistra. A sinistra di Piritoo vi è Eurizione (re dei Centauri) che tenta di rapire Deidamia, Piritoo accorre in aiuto (fig. 4.22). Un altro gruppo è formato da un centauro che a sua volta tenta di rapire una giovane lapitessa (fig. 4.23, 4.26). Nell’ala destra, dopo la figura di Teseo e il gruppo formato da un centauro e una lapitessa, è il noto gruppo del ‘morditore’ (fig. 4.24): un lapita assale alle spalle un centauro, passandogli il braccio intorno al collo per strangolarlo, il centauro si difende mordendo il braccio del suo rivale. Come negli altri gruppi del frontone, anche qui il contrasto delle forze in direzione opposta è evidente. Altro gruppo è quello formato da un centauro che, caduto sulle zampe anteriori, inarca la groppa mentre afferra con una mano la vita e con l’altra la caviglia di una lapitessa (fig. 4.25), un lapita dall’altro lato irrompe nella scena, con il sinistro tenta di afferrare la testa del centauro e con la destra lo pugnala. Oltre a questi gruppi trovano spazio negli angoli dei frontoni statue che perfezionano lo schema compositivo già incontrato nel frontone orientale di Egina (3.71), tutti i personaggi partecipano alla narrazione: il movimento imposto dalle figure, in diagonale, di Teseo e di Piritoo, si propaga dal centro verso gli angoli e da questi rimbalza verso il centro, ancora occupato da una figura assiale, Apollo. Vi è un unitario intento narrativo: il frontone ovest con il combattimento tra Lapiti e Centauri, mette in scena il contrasto tra l’elemento civile e quello barbaro, selvaggio che non rispetta le norme del vivere comune, mentre il frontone est con la contesa tra Pelope ed Enomao, esprime i valori della città, del matrimonio; anche Eracle (nelle metope), che lotta contro i mostri, giganti e popoli barbari, è portatore della cultura contro l’inciviltà e la barbarie.La sculturaL’abbandono della posizione rigidamente assiale, con il peso del corpo ripartito in egual misura su entrambe le gambe (che aveva caratterizzato tutti i kouroi arcaici, es.: colossi di Capo Sounion fig. 3.28, Kroisos fig. 3.34, Aristodikos fig. 3.63), introduce un ritmo nuovo che si adegua completamente alle leggi di gravità e coinvolge tutte le membra. Questo nuovo equilibrio dei volumi del corpo, che prende il nome di ‘ponderazione’, emerge in tutte le opere della generazione delo stile severo (es. come abbiamo visto, nelle sculture del tempio di Zeus di Olimpia). Tra gli originali in bronzo, uno dei pochissimi a noi giunti, vi è un bronzetto di atleta rinvenuto nella Sicilia orientale che mostra nella costruzione della figura tutte le possibilità del nuovo ritmo (fig. 4.27, databile al 470-460 a.C.), la pettinatura è liscia a calotta, essenziale, sottolinea la rottura radicale con il passato (già nella statuaria di Olimpia), anche la muscolatura è ben articolata e coordinata ai movimenti degli arti, la ponderazione riesce a imporre un movimento armonico alla figura benchè essa sia stante, tutta assorta nel gesto di offerta. Tra le copie di originali in bronzo, l’Apollo di Kassel (fig. 4.28) mostra anche nelle spalle un movimento curvilineo che asseconda quello del bacino, questa è concordemente identificata con l’Apollo Parnopios di Fidia (fig. 4.29), detto ‘sterminatore di cavallette’ (dio protettore dai grandi flagelli naturali). Alla stessa epoca risale uno dei 2 grandi bronzi rinvenuti al largo di Capo Riace, in Calabria (forse trasportati su una nave partita dalla Grecia e diretta a Roma), detto ‘Riace A’ (proveniente forse da Argo), mostra la bocca socchiusa a mostrare i denti, inseriti in argento, (fig. 4.30), la ponderazione è prossima a quella dell’Apollo di Kassel, rivela un’anatomia estremamente dettagliata, tipica dello stile severo, che mette in risalto le fasce muscolari, la struttura ossea, le vene che corrono sotto la pelle. Questo bronzo viene spesso confrontato con il ‘Riace B’ (proveniente forse da Atene) che presenta un’analoga postura, ma un diverso ritmo che si accosta molto a quello futuro policleteo, particolare indicativo di uno scarto cronologico tra le due opere di una trentina di anni (fig. 4.31). La

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perfezione della messa in opera, delle giunture, delle parti del corpo, il raffinato trattamento delle superfici, le rifiniture accurate, dimostrano l’alto livello raggiunto dai bronzisti greci nella fusione cava. Altra celeberrima statua è il cosiddetto Auriga di Delfi (fig. 4.32, databile tra 478 e 466 a.C.), basette finemente incise, occhi intarsiati ancora muniti di ciglia, raffigurato mentre si sta volgendo a destra.

Con Clistene, nel 510 a.C., ha inizio ad Atene la democrazia, è in questa occasione che il governo ateniese decide di onorare pubblicamente, per la prima volta, nell’Agorà due personaggi reali, Armodio e Aristogitone, i due tirannicidi, dell’esecuzione dell’opera viene incaricato Antenore. Nel 477 a.C. il monumento viene rimpiazzato da un nuovo gruppo bronzeo affidato questa volta alla bottega di Kritios e Nesiotes (a noi sono giunte solo copie romane, fig. 4.33). I due eroi, disposti schiena contro schiena (disposizione già incontrata con Teseo e Piritoo nel frontone del tempio di Zeus di Olimpia), il personaggio più maturo, Aristogitone, barbato, proteggeva con il braccio destro teso, in parte coperto dal mantello, il giovane Armodio, colto nell’atto di colpire, il braccio sinistro alzato. E’ evidente che il gruppo doveva essere isolato, in modo che si potesse girargli intorno. Nonostante l’impeto imposto ai due corpi, elastici e vigorosi, espressione delle nuove tendenze dello stile severo, il movimento resta qui ancora un pò contenuto. Una delle tipologie più diffuse in questo periodo è quella dell’atleta in azione, ad esempio: fig. 4.36 un corridore in armi, colto nell’attimo che precede lo slancio della corsa, il Posidone di Capo Artemision fig. 4.34, colto mentre si prepara a lanciare il tridente (del 460 circa a.C., simile al più antico Zeus di Ugento, fig. 3.78, raffigurato in posizione analoga, unica differenza è che qui si carica il peso sulla gamba destra anzichè sinistra) e Zeus nell’atto di lanciare il fulmine fig. 4.35. Gli studi sul movimento sono collegati anche alla figura di Mirone, nato a Eleutere, in Beozia, attivo ad Atene negli anni centrali del V secolo, purtroppo nessun suo originale ci è pervenuto. Una delle copie migliori del suo Discobolo è la copia Lancellotti (fig. 4.37), questa copia di marmo risale al II secolo d.C. (si notino il sostegno a forma di tronco di palma e il puntello che collega la mano sinistra al polpaccio destro estranei all’originale, ma introdotti dal copista per esigenze di statica), la resa asciutta e accurata della muscolatura, la puntuale notazione delle vene, il volto ovale dai capelli a calotta finemente cesellati a piccole ciocche, rientrano nella tradizione dello stile severo, così il volto intenso e idealizzato, che non rivela lo sforzo fisico cui il giovane è sottoposto (fig. 4.37). L’atleta è infatti raffigurato nell’atto di caricare il lancio del disco, sta compiendo una semirotazione prima del lancio, viene qui fissato un momento. L’equilibrio geometrico, ma astratto, del Discobolo lascia il posto nel gruppo di Atena e Marsia alla ricerca del contrasto (fig. 4.38, 4.39, 4.40), il gruppo in bronzo che fu visto da Pausania sull’Acropoli di Atene, raffigura entrambi i personaggi colti in un attimo di passaggio: al centro della composizione è il flauto, su di esso si concentrano gli sguardi dei protagonisti, mentre i loro corpi divergono dall’oggetto della contesa. La contrapposizione è affidata non solo all’instabilità delle posture, ma anche al contrasto tra il morbido panneggio di Atena e il corpo nudo e nervoso di Marsia, tra la virginale bellezza della dea e il vigore selvaggio del sileno.

La figura femminile dello stile severo è la peplophoros, letteralmente portatrice di peplo, abbandonati il chitone a fitte pieghe e la mantellina drappeggiata dell’epoca arcaica, la donna indossa ora un’ampia tunica, stretta alla vita da una cintura, fermata da borchie sulle spalle, con un risvolto che ricade sul dorso e sul petto (fig. 4.17, 4.42, 4.43). Al peplo cinto, che gioca sul contrasto tra l’ampio rimbocco alla vita e la ricaduta verticale dell’ampia gonna, si alterna il peplo aperto, privo di cintura, che presenta un panneggio più libero, meno soggetto alla forza di gravità. La peplophoros di Delfi, utilizzata come sostegno di un bruciaprofumi, mostra un panneggio sciolto che gioca sull’alternanza delle pieghe creando effetti di luce (fig. 4.41). Un altro tipo statuario è quello della cosiddetta Aspasia, conosciuta solo attraverso repliche romane (fig. Fig. 4.44) l’originale risale a circa il 460 a.C.), con la figura avvolta in un ampio mantello portato sopra un chitone leggero a fitte pieghe. L’Atena Lemnia, dedicata sull’Acropoli dai coloni ateniesi dell’isola

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di Lemno, e realizzata in bronzo da Fidia (fig. 4.45, del 450 a.C. circa), guarda il suo elmo, tenuto nella mano destra protesa, con la sinistra, sollevata, si appoggia alla lancia. Si nota la contrapposizione tra il lato destro portante, contratto, sul quale si concentra l’azione, e l’apertura del lato sinistro, cui corrisponde la gamba in movimento. Anche nel periodo dello stile severo, la scultura insulare (es.: fig. 4.47, 4.48, 4.50) si caratterizza per la delicatezza del modellato e l’eleganza delle forme. Il peplo sciolto è portato anche dalla Nike di Paro, colta nell’atto di librarsi in volo (fig. 4.46): il vento del movimento ascensionale della dea, che tocca il suolo solo con la punta del piede sinistro, appiattisce le pieghe sulle gambe e agita l’apoptygma in modo molto realistico. La leggerezza del panneggio insulare si ritrova in Magna Grecia nei rilievi del cosiddetto ‘Trono Ludovisi’ (verosimilmente il parapetto di un pozzo), dal nome della collezione romana che lo ha accolto all’epoca del ritrovamento nel 1887 (fig. 4.49), le scene raffigurate sono legate al culto di Afrodite.Ceramografia e pittura In questo periodo il primato della produzione spetta ancora una volta ad Atene. La nuova tecnica a figure rosse è ormai adottata ufficialmente; la produzione a figure nere continua, almeno fino a tutto il primo ventennio del secolo, per piccoli vasi da unguenti (solo le anfore panatenaiche, che costituiscono l’ambito premio delle gare in onore di Atena e hanno una forte valenza rituale, continueranno a essere prodotte per tutto il V secolo con la vecchia tecnica). Tra i pittori di grandi vasi si distinguono il Pittore di Kleophrades e il Pittore di Berlino, questi permettono di cogliere anche nella pittura vascolare il passaggio dallo stile tardoarcaico allo stile severo. Il fatto che le loro opere siano state rinvenute prevalentemente in Etruria sottolinea l’importanza assunta dal mercato estero. Nell’anfora di Monaco, da Vulci, il Pittore di Kleophrades dipinge Dioniso con le menadi e i satiri (fig. 4.52), la scena è improntata sul movimento, anche se notiamo ancora una resa non molto riuscita; così pure nelle figure dalla struttura statuaria che ritroviamo nel cratere a calice con scena di palestra rinvenuto a Tarquinia (500-490 a.C., fig. 4.51), il giovane discobolo, raffigurato nella posizione preliminare al lancio, sperimenta, con qualche difficoltà nel disegno delle braccia, una postura instabile. Così anche nell’hydria del Museo di Napoli (fig. 4.53) il Pittore di Kleophrades affronta uno dei temi più sentiti in questi primi decenni del secolo, sconvolti dalla calata dei Persiani: la distruzione di Troia (=Ilioupersis), vi è anche qui una ricerca del movimento in atto, all’interno di una composizione ritmica che contrappone lo slancio delle figure in piedi al raccoglimento dei corpi accucciati o inginocchiati. Il Pittore di Berlino, attivo tra il 500 e il 480 a.C., il cui nome deriva dall’anfora di Staatliche Museen di Berlino, da Vulci, dove propone l’insolita sovrapposizione di 3 personaggi, Hermes che passa velocemente con un kantharos e un’oinochoe, un satiro che avanza suonando la lira e si guarda indietro attratto dal vino, e, tra i due, un cerbiatto che sussulta e alza la testa a causa del rumore e del movimento che lo circondano (fig. 4.54). Vi è qui, inoltre, l’attenta ricerca anatomica tipica di questo particolare momento. Emblematica la famosa coppa della Fonderia (fig. 4.55), del Pittore omonimo, con scena di bottega, ricca di particolari e di oggetti ripresi dal vero, nella quale assistiamo ai lavori di rifinitura di due grandi bronzi in movimento, un guerriero e un atleta. Particolare da notare è l’occhio che si apre verso l’interno spostando in avanti la pupilla (fig. 4.57), i panneggi alternano le pieghe arcaiche a coda di rondine alla caduta verticale dello stile severo, i volti perdono le angolosità arcaiche in favore di un mento più tondo e pronunciato, un naso più largo, una bocca piccola e carnosa. Nella coppa di Onesimos (fig. 4.56), da Chiusi, la giovane raffigurata sta avanzando verso un catino lavapiedi. Il Pittore di Brygos, attivo tra il 480 e il 470 a.C. raffigura lo skyphos con comasti del Louvre (fig. 4.58), le due coppie procedono a ritmo cadenzato. Nella violenta Ilioupersis dipinta sull’esterno di una coppa del Louvre (fig. 4.59), da Vulci, il gruppo concitato formato da Priamo e da Neottolemo, giocato sull’incrocio di linee oblique, è in netto contrasto con la coppia di Menelao ed Elena, che esce silenziosamente di scena. Nella coppa del British Museum, da Vulci, con la contesa per le armi di Achille (fig. 4.60), si nota ancora quella ricerca di movimento (da sottolineare anche l’indicazione realistica dei peli sul petto e sull’addome) e di schemi incrociati che caratterizza in questo periodo il rilievo e la composizione frontonale, lo schema a V, divergente, dei due giovani

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che cercano di frenare l’animosità dei contendenti, Odisseo e Aiace, verso il centro della scena, tallonati da due personaggi che cercano di tirarli verso l’esterno, rende il moto ondulatorio, già sperimentato nel frontone orientale di Egina, che sfocerà nel ritmo incalzante del frontone occidentale di Olimpia. Un altro dei temi cari ai pittori del primo stile severo è il simposio, ad esempio raffigurato nella grande coppa dei Musei Vaticani (fig. 4.61) del pittore Douris (attivo tra 500-460 a.C.), la scena offre ancora una volta lo spunto per sperimentare attraverso la gestualità dei convitati, una serie di posizioni in movimento e di vedute di scorcio. Stessa vivacità la ritroviamo nello psyktèr, da Cerveteri, con giochi tra satiri (fig. 4.62), i compagni di Dioniso si esibiscono in uno scatenato girotondo, tema del gioco è, non a caso, l’uso del vino, mentre un kantharos, vaso sacro a Dioniso, passa di mano in mano, i satiri provano a modo loro diversi modi del bere. Nel secondo quarto del V secolo i pittori ateniesi si possono dividere in 2 grandi gruppi, i Manieristi, che continuano, sotto l’aspetto formale, lo stile tardoarcaico, e i pittori protoclassici, che seguono la nuova corrente e aderiscono allo stile imposto dai maestri della grande pittura parietale. Tra i Manieristi ricordiamo il Pittore di Leningrado e la sua hydria con insolita scena di agone artigianale (fig. 4.64, particolare da notare è la raffigurazione di una pittrice donna). Il manierismo del pittore emerge nella predilezione di figure sottili, con teste piccole, nel decorativismo dei panneggi, spesso privi di una reale consistenza, nella durezza del tratto disegnativo. I profili dei volti sono, invece, d’impostazione pienamente severa (mento pieno e tondeggiante, apertura dell’occhio verso l’interno, pettinature maschili a calotta compatta). Rientra nel gruppo dei Manieristi anche il Pittore di Pan (es. fig. 4.63). Si inserisce pienamente nello stile severo, invece, il Pittore di Borea (fig. 4.65, inseguimento tra Teseo ed Arianna), per le sue figure statuarie, intense e drammatiche. PitturaGli scrittori antichi ci informano che, più della pittura murale, era diffusa nel V secolo la pittura su grandi pannelli lignei fissati ai muri tramite grappe metalliche e protetti da teli o da sportelli (fig. 4.66). Gli iniziatori della grande pittura sono concordemente Polignoto di Taso e Micone di Atene, entrambi pittori e bronzisti. Secondo Plinio il Vecchio, Polignoto fu il primo a rendere la differenza dei caratteri e degli stati d’animo nelle varie figure dipinte. Pausania che descrive in modo preciso le pitture della Lesche (=edificio per la riunione di persone) degli Cnidi a Delfi, che raffiguravano la discesa di Odisseo agli inferi (fig. 4.67) e la Ilioupersis, ricorda che il pittore, piuttosto che rappresentare gli episodi più drammatici degli eventi raffigurati, preferiva il momento che li precedeva o li seguiva, i personaggi erano disposti in ordine sparso o a gruppi su più livelli, la ricerca della terza dimensione portava, inoltre, il pittore a nascondere parzialmente alcune figure dietro la linea irregolare del terreno. Ne abbiamo una eco nel cratere eponimo del Pittore dei Niobidi, dipinto intorno al 460-450 a.C., sul lato principale (fig. 4.68) si riconoscono Apollo e la sorella Artemide nell’atto di saettare i figli di Niobe, si nota la linea ondulata e irregolare del terreno, in bianco sovraddipinto, la disposizione su più piani e l’espediente di nascondere o adagiare i caduti dietro le balze del paesaggio accidentato e montano. La pacata serietà degli eroi ciascuno isolato nel proprio mondo interiore possono richiamare l’intensa espressione dei volti polignotei. Più mosse e agitate dovevano essere le scene dipinte da Micone, fig. 4.69 (ricostruzione dell’affresco con la battaglia di Maratona), scene di battaglia ricche di scorci e di movimento; sono verosimilmente un riflesso delle sue Amazzonomachie quelle dipinte sui vasi attici dello stile severo (es. fig. 4.70). Ci sono giunti alcuni originali, della pittura dello stile severo, dalle poleis dell’Italia meridionale, risale al 480-470 a.C. la decorazione della Tomba del Tuffatore di Poseidonia, ove si rappresenta il tuffo simbolico dal mondo della vita a quello dell’oltretomba (fig. 4.71), lungo i lati corrono invece immagini del simposio, il momento nel quale, terminato di mangiare, ci si dedica alla musica, al canto, alla poesia e all’amore (fig. 4.72, altro esempio fig. 4.73 antefissa dall’acropolidi Gela).

V. L’età classica (secolo V a.C.)

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Pericle (fig. 5.1), ad Atene, sale al potere nel periodo che va dalla pace con la Persia (Pace di Callia 449 a.C.) alla sua morte nel 429 a.C.. Alla metà del V sec. Atene è la città più ricca e potente di tutta la Grecia; nel 447 a.C., sfruttando il tesoro della Lega delio-attica, Pericle dà il via ai lavori di ristrutturazione dell’Acropoli (fig. 5.2). La politica estera ateniese, in questo periodo, si rivela molto aggressiva soprattutto nei confronti degli alleati, costretti a pagare tributi perché fossero protetti militarmente e sottoposti a punizioni severe nel caso volessero staccarsi dalla Lega. L’imperialismo ateniese è così alla base della devastante guerra che segna la vita della Grecia dal 431 al 404 a.C., la ‘Guerra del Peloponneso’, che vede schierate da un lato Atene e i suoi alleati, dall’altro le città della Lega del Peloponneso, sotto il comando di Sparta (una breve tregua si avrà nel 421 con la pace di Nicea). Negli ultimi anni del secolo assistiamo al lento declino di Atene, al comando della quale ritorna per breve tempo il regime oligarchico, con il consiglio dei ‘quattrocento’ (411 a.C.), presto rovesciato dai democratici (410 a.C.). La guerra continua per mare, lungo le coste dell’Asia Minore, ma nonostante la vittoria ateniese alle Arginuse (406 A.c.) è ancora Sparta, finanziata dall’impero persiano, ad avere la meglio: la battaglia di Egospotami, nel 405 a.C., segna la definitiva sconfitta di Atene, assediata per terra e per mare. Dopo il brutale regime dei Trenta Tiranni (404-403 a.C.), il ritorno della democrazia non riporta la città agli splendori del ‘secolo di Pericle’: priva della flotta e delle miniere del Laurion, ora in mano spartana, Atene vede definitivamente tramontare il suo momento d’oro.[Il termine ‘classico’ è stato utilizzato per indicare l’arte e la civiltà greca dei secoli V e IV a.C. che rappresentavano, per gli studiosi del XVIII e del XIX secolo, il culmine della bellezza e della perfezione.] Acropoli di Atene (fig. 5.3, 5.4)E’ Fidia, secondo le fonti antiche, a ricoprire il ruolo di direttore dei lavori sull’acropoli. Il primo edificio a essere progettato e costruito sull’Acropoli al tempo di Pericle fu il Partenone, affidato agli architetti Ictino e Callicrate, i lavori iniziarono nel 447 a.C. e terminarono nel 438 a.C., intorno al 432 a.C. venne completata anche la decorazione scultorea. L’architetto Mnesicle, tra il 437 e il 433 a.C. costruì i Propilei che sostituirono il modesto ingresso risalente ai tempi di Pisistrato. Per costruire i Propilei si dovette tener conto di molte preesistenze sacre, tra le quali la terrazza di Atena Nike, e del dislivello del terreno; sono costituiti da un corpo centrale rettangolare con due facciate simmetriche, dal quale si poteva accedere a 2 ambienti laterali, uno a sud più piccolo sacrificato dal Pelarghikòn (=antica cinta muraria poligonale di età micenea) e dalla terrazza di Atena Nike, e uno più grande a nord con funzione di sala per i banchetti ufficiali e di pinacoteca (fig. 5.5). Il passaggio era retto da sei colonne ioniche, tre per parte, le quali, grazie alle dimensioni slanciate, potevano arrivare fino al tetto (fig. 5.31). Le facciate, esastile, di ordine dorico, erano sormontate da frontoni in modo da riproporre il grandioso prospetto del Partenone (fig. 5.6), l’intercolumnio centrale più largo degli altri permetteva il passaggio delle processioni. Sul piccolo bastione meridionale, sorse il tempietto di Atena Nike, tra il 430 e il 420 a.C., si tratta di un tempio ionico con un’unica cella, anfiprostilo tetrastilo, vale a dire con 4 colonne sulle due fronti (fig. 5.7), vi si trova un fregio continuo con scene di battaglia tra Greci e Orientali. L’ultimo grande edificio a essere costruito sull’Acropoli fu l’Eretteo (dal nome di uno dei primi mitici re della città). L’Eretteo si compone di un corpo centrale rettangolare, diviso in due ambienti, che si apre a est con un portico di sei colonne ioniche (fig. 5.8); alla parte occidentale del tempio, chiusa da un’alta parete con finestre e semicolonne (fig. 5.9), si appoggiano due corpi laterali, perpendicolari all’asse del tempio maggiore: un pronao tetrastilo, anch’esso ionico, e la celebre loggetta delle Cariatidi (fig. 5.10), che fungeva da accesso alla tomba dell’eroe attico Cerope, figlio di Eretteo e re di Atene. Quasi tutti gli edifici dell’Acropoli periclea erano ornati di sculture e di rilievi pensati all’interno di un programma architettonico e figurativo destinato a magnificare la grandezza di Atene e dei suoi dei. Risalgono all’età di Pericle l’odeion, costruito presso l’angolo sud-est dell’Acropoli, e il primo impianto del teatro di Dioniso Eleuthereus. L’odeion di Pericle, a pianta quasi quadrata, destinato alla celebrazione di agoni musicali, era una sala ipostila (sorretta da colonne) sormontata da un tetto a spioventi.

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Il PartenoneIl Partenone non ha altare, il vero altare di Atena, quello che costituiva il punto d’arrivo della processione delle Panatenee, era infatti situato tra il Partenone e l’Eretteo, dove era la cella del vecchio tempio di Atena Poliàs (fig. 5.4). Il Partenone è quindi un edificio del tutto particolare, costruito per ospitare e custodire la grande statua crisoelefantina della dea (=Atena Parthenos, fig. 5.11) e le altre offerte a lei dedicate, una sorta di enorme e lussuoso tesoro, ideato per diventare il simbolo della potenza di Atene. La pianta del Partenone (fig. 5.12), concepito come un tempio dorico periptero (ove vengono utilizzati tutti gli accorgimenti per alleggerirne l’aspetto), con 8 colonne sui lati corti e 17 sui lati lunghi, si caratterizza infatti per le dimensioni eccezionali della cella, che comportano la riduzione dei corridoi (pteroma) del peristilio (fig. 5.13) e sacrificando il pronao e l’opistodomo. La cella è divisa in due ambienti separati, il più grande dei quali a est ospitava la statua della dea, i colonnati interni, formati come di norma da due ordini sovrapposti di colonne doriche, vengono qui per la prima volta disposti a forma di ‘pi greco’ e addossati alle pareti per aumentare lo spazio della navata centrale. Sulla parete esterna della cella, in alto, correva un fregio continuo con il famoso corteo delle Panatenee (fig. 5.32). Per la prima volta nel Partenone vengono decorate tutte le metope della peristasi (92 metope), e non solo quelle dei lati brevi com’era solito, ad altorilievo con numerosi elementi a tutto tondo, i panneggi a basso rilievo dovevano essere ravvivati dal colore così come pure il fondo. Vi era la Gigantomachia a est, l’Amazzonomachia a ovest (fig. 5.14), la centauromachia a sud e la conquista di Troia a nord, il tema ricorrente è quello della civilizzazione opposta alla barbarie, l’ordine al caos e si esaltano la grandezza di Atene che ha saputo opporsi ai Persiani, come Teseo alle Amazzoni, come Eracle e gli dei olimpici ai Giganti, come Teseo e Piritoo ai Centauri, come i Greci ai Troiani. Nell’esecuzione delle metope sono state riconosciute mani differenti, alcune sono legate allo stile severo (es. la numero 31, fig. 5.15), mentre altre devono essere successive (es. la numero 27, fig. 5.16) dove le membra delle figure sono più plastiche, i passaggi più sfumati. Il fregio a bassorilievo, tipico dell’ordine ionico, correva sulla sommità del muro della cella, passando anche sulle colonne del pronao e dell’opistodomo al posto del consueto fregio dorico, per 160 metri, ed era quindi visibile tra le colonne della peristasi (fig. 5.17). In sostanza si rappresenta, come già accennato in precedenza, la processione in occasione delle Panatenee, con l’offerta del peplo alla dea alla presenza dei 12 dei e degli eroi eponimi della città (ci sono circa 360 personaggi e 200 animali). Dalle fig. 5.18 e 5.19 si evince che lo ‘sforzo’ non rientra nel programma fidiaco che proietta la processione in una dimensione atemporale. Le fanciulle sono il ritratto ideale delle spose e delle madri ateniesi (fig. 5.21), i vecchi esprimono dignità statuaria. Gli dei seduti a guardare la cerimonia sono completamente umanizzati (fig. 5.20), sono solo più grandi dei mortali. Il multiforme corteo della società ateniese scorre sul fondo neutro con un ritmo ora lento, ora concitato che il rilievo bassissimo riesce perfettamente ad armonizzare. Perduti sono il frontone est che doveva rappresentare la nascita di Atena, e il frontone ovest che inscenava la contesa tra Atena e Posidone per il possesso dell’Attica (ricostruzioni fig. 5.22, 5.23). Allo schema divergente del gruppo formato da Atena e Posidone corrisponde il movimento dei gruppi laterali con figure che sfuggono verso le estremità e altre che convergono verso il centro; superando il Maestro di Olimpia, Fidia elimina la figura centrale per muoversi liberamente nello spazio dove tutti i personaggi interagiscono tra loro. Un senso di inquietudine di ansia per quanto sta accadendo domina tutti i personaggi dell’evento, pronti allo scatto (fig. 5.24, 5.25, 5.26, 5.27). La stoffa leggerissima dei chitoni, quasi impalpabile, aderisce al seno creando la sensazione di una stoffa bagnata, effetto che diventerà canonico nelle immagini femminili dell'ultimo trentennio del secolo (fig. 5.64, 5.69).Una delle caratteristiche del Partenone fu quella di unire in un solo edificio elementi dell’ordine dorico (la peristasi e tutto l’alzato) con elementi dell’ordine ionico, il lungo fregio delle Panatenee, che correva lungo le pareti della cella e sostituiva il fregio dorico sul pronao e sull’opistodomo (fig. 5.32), e le 4 colonne poste al centro della sala occidentale (fig. 5.12). Non è, tuttavia, una novità assoluta, questa commistione già la intravediamo a: Poseidonia, nell’Athenaion, il cosiddetto tempio di Cerere della fine del VI secolo, fig. 5.33, o nel tempio di Posidone a Capo Sounion, fig.

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5.37. Il tempio di Efesto, databile al 449 a.C. (il cosiddetto Theseion, nome che deriva dai soggetti delle metope che illustrano episodi delle imprese di Teseo), posto sul lato occidentale dell’Agorà di Atene, presenta una pianta prossima a quella del Partenone, benchè di dimensioni più ridotte (fig. 5.34), la cella ripropone il colonnato interno a ‘pi greco’ realizzato ancora con colonne doriche disposte su 2 ordini come nel Partenone, dal quale l’Ephaisteion deriva anche la decorazione scultorea, composta sulla peristasi da metope scolpite e sul pronao e sull’opistodomo da fregi ionici con scene di Gigantomachia e di Centauromachia (fig. 5.35, fig. 5.36). L’associazione degli ordini ritorna alla fine del secolo, insieme ad altre importanti innovazioni, nel tempio di Apollo Epicurio dedicato dagli abitanti di Figalìa a Bassai, in Arcadia (fig. 5.38, 5.39). La pianta abolisce qui, all’interno della cella, le 3 navate canoniche liberando lo spazio centrale: le 4 colonne interne, ioniche, sono infatti addossate ad altrettanti muretti sporgenti dai lati lunghi (fig. 5.41), l’adyton, accessibile anche dall’esterno, lungo il lato orientale del tempio, è separato dalla cella tramite 2 semicolonne oblique e una colonna centrale che adotta, per la prima volta, il capitello corinzio a kalathos ricoperto da foglie d’acanto (fig. 5.40); sopra il colonnato interno correva un fregio continuo che rappresentava episodi della Centauromachia e dell’Amazzonomachia (fig. 5.42). La necessità di rivalutare lo spazio interno si avverte anche nel nuovo Telesterion di Eleusi, che Ictino ricostruisce intorno al 445 a.C., l’edificio è a pianta quadrata (fig. 5.43, 5.44). La conquista dello spazio interno si accompagna, nella seconda metà del V secolo, alla ricerca di valori decorativi, che si esprime nell’adozione dell’ordine ionico per gli edifici dell’Acropoli post-periclea, come, ad esempio, il tempietto di Atena Nike (fig. 5.7) e l’Eretteo, con la sua ricca decorazione accessoria (fig. 5.45). La scelta di un’architettura più plastica e decorativa porterà nel secolo successivo a un largo uso dell’ordine corinzio e al superamento dei principi dell’architettura classica con nuove tipologie architettoniche.UrbanisticaL’urbanistica del V secolo è legata alla figura di Ippodamo di Mileto, a lui si attribuisce soprattutto la ripartizione funzionale dell’impianto urbano. Se lo schema ortogonale è legato alle nuove fondazioni coloniali, bisogna cercare altrove lo specifico ippodameo. A Thurii, ad esempio, il tracciato non è più ortogonale, ovvero per strigas (=strisce, es. Poseidonia fig. 5.28), bensì a scacchiera (fig. 5.29). La novità dell’impianto ippodameo starebbe, quindi, nell’organizzazione funzionale (precedente alla costruzione degli edifici) dei quartieri e delle vie, assegnando a queste nomi immediatamente e intuitivamente identificativi (es. la via Thurina doveva portare nel territorio thurino). Agli stessi principi è ispirata la pianta del Pireo (fig. 5.30). La plastica a tutto tondo e il rilievoLa scultura della seconda metà del V secolo è dominata dalle personalità di Fidia e di Policleto. Fidia, nato intorno al 500-490 a.C., verso il 460 realizza la statua colossale bronzea dell’Atena Promachos (=che combatte nelle prime file), posta al centro dell’Acropoli, di fronte ai Propilei (risalgono alla stessa epoca il Donario di Maratona a Delfi, l’Apollo Parnopios, figg. 4.28 e 4.29, l’Atena Lemnia, fig. 4.45), nel 438-7 a.C. porterà a termine anche lo Zeus di Olimpia. La statua crisoelefantina dell’Atena Parthenos (fig. 5.11) rappresenta la dea stante, frontale, secondo la consueta ponderazione attica (=gamba destra portante, sinistra flessa), vestita di un peplo a grandi pieghe con ampio risvolto cinto alla vita da una cintura e coperto sul petto con l’egida, di questo tipo di peplo, dalle pieghe rade, pesanti e pastose, contraddistinte dalla contrapposizione tra la caduta verticale sulla gamba portante e l’aderenza della stoffa sulla gamba flessa, abbiamo una vasta eco (es. fig. 5.47). Nella mano destra la dea recava una Nike (=vittoria), con la sinistra il grande scudo sul quale erano effigiate l’Amazzonomachia con Teseo e la Gigantonomachia (almeno questo è ciò che ci presenta la copia marmorea proveniente dal ginnasio di Varvakeion di Atene, fig. 5.46). L’elmo della dea era sormontato da una sfinge, antico simbolo di regalità, e da 2 grifoni, protettori dell’oro con il quale era stata realizzata l’opera. La base della statua recava, a bassorilievo, la nascita di Pandora, la prima donna, creata da Efesto e istruita da Atena. Dello Zeus di Olimpia si salva la puntuale descrizione di Pausania (fig. 5.48, ricostruzione), il dio era

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raffigurato su un trono fittamente decorato con figure ed episodi mitici che celebravano il potere del dio e la grandezza della Grecia.Policleto nasce ad Argo intorno al 490 ed è attivo fino al 420 a.C., la sua opera più famosa è il Doriforo (=portatore di lancia), la copia rinvenuta a Pompei (fig. 5.49), che risale al II inizi I secolo a.C., rappresenta un giovane, probabilmente Achille, immortalato nell’atto di camminare, la testa si volge verso la sua destra, i lineamenti sono idealizzati (il tronco collocato contro la gamba destra è stato introdotto dal copista per ragioni di statica, l’originale bronzeo che risale alla metà del V sec. non ne aveva bisogno) (fig. 5.50, ricostruzione). La statua riflette il ritmo chiastico tipico di Policleto, che consiste nella contrapposizione reciproca delle parti del corpo: alla gamba destra portante corrisponde la sinistra flessa, al fianco destro contratto, il sinistro rilassato, al braccio sinistro piegato, il destro disteso; nell’atto dell’incedere la spalla destra e la caviglia sinistra si alzano mentre l’anca e il ginocchio sinistro si abbassano. L’equilibrio tra le membra del corpo è perfetto e la postura appare armonica, sciolta e naturale; il corpo del Doriforo è infatti il frutto di una complessa serie di calcoli matematici e geometrici attraverso i quali lo scultore ha messo in pratica la teoria espressa nel “Canone” (un suo scritto). Nel 420 A.c. porta a termine il Diadumeno, l’atleta che si cinge il capo con una benda in segno di vittoria, la replica più nota è la statua di Delo (fig. 5.51, datata fine II inizio I sec. a.C.), qui appare la consueta ponderazione. Altra famosa statua è l’atleta vincitore (conosciuta come Efebo Westmacott, dal nome dello scultore che ne possedette la copia fig. 5.52, simile a fig. 5.53), il giovane è raffigurato stante, nell’atto di togliersi dal capo la corona per offrirla alla divinità, solito è il ritmo, anche se lo schema compositivo è invertito rispetto a quello del Doriforo (forse non è una sua opera ma sicuramente appartiene alla sua scuola). Molte sono le opere che ripropongono e rielaborano i suoi insegnamenti e adottano la ponderazione e la struttura muscolare dei suoi atleti (es. fig. 5.54). [Tra i collaboratori di Fidia le fonti ricordano soprattutto Agoracrito di Paro e Alcamene di Atene. Ad Agoracrito (forse ha collaborato anche alle sculture frontonali del Partenone) è attribuita la statua di Nemesi (fig. 5.55, a noi pervenute solo repliche di età romana); di Alcamene è, invece, il gruppo di Procne e Iti databile al 430 a.C. circa (fig. 5.56), il panneggio è simile a quello delle cariatidi dell’Eretteo (fig. 5.57, 5.58), le fanciulle del fregio del Partenone indossano lo stesso abito (fig. 5.21).] Intorno al 435 a.C. gli scultori più famosi del tempo partecipano a una commessa indetta dal santuario di Artemide di Efeso per una statua di amazzone ferita, la vittoria la ottenne l’Amazzone di Policleto (a noi nota attraverso copie romane, fig. 5.59), il canone oppone il movimento delle spalle a quello delle gambe, la ponderazione richiama quella dell’Efebo di Westmacott (fig. 5.52). (Tramite copie ci sono note anche le altre amazzoni in gara: l’Amazzone di Fidia fig. 5.60, l’Amazzone di Cresila fig. 5.61).

La definizione di ‘stile ricco’, usato per riferirsi alle opere dell’ultimo trentennio del V secolo, si adatta soprattutto alle statue femminili che, come già visto a proposito delle peplophoroi, continuano il panneggio bagnato ideato da Fidia e dai suoi più stretti collaboratori, l’aggettivo è stato utilizzato proprio per indicare questo particolare tipo di abbigliamento, ricco di pieghe curvilinee e rigonfie e di effetti chiaroscurali. Nel 421 a.C. Messeni e Naupatti dedicarono a Olimpia una statua di Nike in seguito a una vittoria sugli Spartani, posta di fronte al tempio di Zeus, lo scultore fu il tracio Paionios di Mende, appare subito all’occhio l’idea dello spostamento dell’aria (fig. 5.62), il chitone, aperto sui fianchi, si slaccia all’altezza del seno sinistro, si apre per l’impeto del movimento liberando la gamba sinistra e aderisce al corpo con effetto bagnato per addensarsi in morbide pieghe dietro la figura (fig. 5.63, ricostruzione). Un altro originale dell’ultimo quarto del secolo porta all’estremo il panneggio partenonico con un ardito gioco di pieghe, si tratta di una statua rinvenuta nell’Agorà di Atene (fig. 5.64), l’opera richiama il cosiddetto tipo dell’Hera Borghese, conosciuto solo attraverso repliche d’età romana (fig. 5.65), per il tipo di abito e per il modo di portare il mantello che avvolge solo la parte inferiore del corpo scoprendo il busto, coperto da un chitone finissimo, quasi trasparente, che segue le curve del corpo mettendo in evidenza le

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rotondità del seno e del ventre. Questi tipi statuari, creati soprattutto per raffigurare Afrodite, introducono una nuova visione della divinità (più femminile e sensuale, diversa dall’umanità idealizzata delle dee del Partenone) che porterà, nel secolo successivo, all’Afrodite svelata di Prassitele, la famosa Cnidia (fig. 6.8). Gli stessi effetti di trasparenza caratterizzano le Nikai della balaustrata del tempio di Atena Nike (fig. 5.66, 5.69). La stessa enfasi di panneggi (es. anche fig. 5.67) e posture si nota nella ceramografia contemporanea che adotta lo stile ricco per le figure femminili, ad esempio nelle hydriai del Pittore di Meidias (fig. 5.68). Pittura e ceramicaNella seconda metà del V secolo la pittura su cavalletto continua a studiare i mezzi per rendere la profondità dello spazio e la tridimensionalità delle figure, mentre la ceramica recepisce l’influenza delle arti maggiori perdendo quello slancio creativo che aveva caratterizzato le prime generazioni di ceramografi a figure rosse. Agatarco è uno dei pittori che operano in questo periodo, a lui sembra si debba la riuscita della rappresentazione tridimensionale, Apollodoro, altro pittore a lui coevo, aveva compiuto, invece, studi sui colori e sul chiaroscuro per aumentare la profondità spaziale. Di Parrasio di Efeso si racconta che fosse riuscito, con il disegno, a rendere il volume e il movimento dei corpi (famoso fu anche il pittore Zeusi, per la sua capacità di rendere realistici gli oggetti dipinti). Di tutti questi pittori conosciamo purtroppo solo le notizie tramandate dalle fonti letterarie, anche se delle conquiste della pittura ne abbiamo una eco nella ceramografia contemporanea che, spesso, prende ispirazione dai grandi cicli figurativi (es.: fig. 5.70 coppa del Pittore di Pentesilea, fig. 5.71 anfora del Pittore di Achille). La pittura vascolare segue in questo caso lo stile della scultura attica dell’età di Pericle (es. fig. 5.74), che coniuga l’armonia delle forme alla sobrietà dei gesti, la perfezione alla misura. Lo stile ‘partenonico’ contraddistingue anche le opere del ceramografo Polignoto (fig. 5.72) e del Pittore di Kleophon, che dipingono intorno al 430 a.C. raggiungendo una perfezione stilistica di maniera, ma priva di toni originali o spontanei. Diventano particolarmente frequenti in questo periodo le scene di partenza del guerriero (fig. 5.73 e fig. 5.75). Anche il raffinato manierismo degli scultori dell’ultimo trentennio del secolo, che sviluppano il panneggio bagnato dei frontoni del Partenone viene ripreso dai pittori vascolari, l’epinetron di Eretria è ricco di spunti desunti dalla statuaria contemporanea, è un oggetto particolare, tipicamente femminile, perchè veniva appoggiato sul ginocchio e serviva per arrotolare la lana (fig. 5.76). L’epinetron è antesignano del cosiddetto ‘stile fiorito’ per la ricchezza delle scene che si riempiono di personaggi colti nei più svariati atteggiamenti, quasi cesellati sulla superficie del vaso. E’ stata riconosciuta l’influenza della pittura anche nelle opere del Pittore di Meidias, dal nome del vasaio, che, nell’ultimo decennio del V secolo, dipinge vasi di grandi dimensioni con figure disposte su diversi piani (fig. 5.77a/b). Entrambi i vasi sono arricchiti di dorature, per rappresentare in modo più veristico i gioielli che ornano le numerose figure femminili e le ali degli eroti (Tav. 35). (Altri esempi: Pittore di Pronomos fig. 5.78 e 5.79, Pittore di Talos fig. 5.80). Con questi vasi termina la grande stagione della ceramica attica, che continua nel secolo successivo con opere più modeste, dipinte con temi dionisiaci e scene di genere. L’esperienza e la techne dei pittori e dei ceramografi attici darà vita, poco dopo la metà del V secolo, alla produzione italiota a figure rosse che proseguirà nella seconda metà del secolo, e ancora nel successivo, con caratteri sempre più autonomi e risultati di grande valore artistico, una classe di vasi che ormai merita una trattazione a parte nell’ambito della produzione artistica della Magna Grecia. Lo stile partenonico della cerchia di Polignoto (fig. 5.72) sarà ripreso dai primi pittori lucani, come il Pittore di Pisticci (fig. 5.81) dal paese dell’entroterra metapontino che ha restituito molti vasi a lui attribuiti, mentre lo stile derivato dalla grande pittura, con forti accenti coloristici, confluirà nelle officine apule. Uno dei primi esempi è il cratere del Pittore delle Carnee (fig. 5.82).In questo periodo notevole è l’aumento della committenza privata, numerose sono, infatti, le stele funerarie dell’ultimo quarto del V secolo che hanno un’inconfondibile impronta partenonica. Il defunto viene raffigurato in un atteggiamento ricavato dal quotidiano, privo della violenza e delle paure legate alla morte. Ad esempio la stele da Egina fig. 5.83 raffigura un giovane che richiama immediatamente gli efebi di Fidia (fig. 5.18) e, nel modellato del corpo e nel panneggio, l’Apollo

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del fregio orientale del Partenone (fig. 5.20). Di poco più tarda, la stele di Krito e Timarista, da Rodi, raffigura le due donne abbracciate nel comune destino (fig. 5.84). Sulla stele funeraria di Hegesò, la giovane è raffigurata mentre estrae un gioiello dal cofanetto che le porge l’ancella, gesto consueto (fig. 5.85), il rilievo basso, sfumato, pieno di vibrazioni, attinge ancora al linguaggio figurativo del fregio del Partenone. Il mondo della guerra irrompe invece nella stele di Dexileos, caduto nel 394 a.C. presso Corinto, nella quale il defunto è raffigurato come vincitore (fig. 5.86), il modello è ancora quello del classicismo fidiaco, ma la ricerca di una maggiore spazialità, di scorci arditi, di effetto, prelude alle conquiste dei maestri del tardo classicismo.

VI. L’età classica (secolo IV a.C.)

La fine della Guerra del Peloponneso, nel 404 a.C., segna il tramonto della supremazia di Atene e l’affermarsi di Sparta, ma non segna affatto l’inizio della pace. Infatti, oltre alle ingerenze della Persia, la Grecia rimane percorsa da un gran numero di guerre locali e regionali, la maggiore delle quali oppone alla capitale laconica una nuova alleanza stretta da Atene, Tebe, Argo e Corinto e si protrae senza vincitori nè vinti per ben nove anni (395-386 a.C.). Alla fine quasi per sfinimento si giunge a una pace provvisoria, importante soprattutto perchè voluta dai Persiani, che la usano per annettersi le città dell’Asia, lasciando indipendenti tutte le altre (pace di Antalcida 386 a.C). Un convegno, riunitosi a Sparta nel 371 a.C., anzichè portare a una pace più duratura, porta allo scoppio di un nuovo conflitto. Lo stesso esercito spartano interviene in Beozia, a Leuttra, subisce però una grave disfatta, che dà inizio a quasi un decennio di supremazia tebana. Ma nel 362 a.C. nella battaglia di Mantinea, in Arcadia, la più grande che vide mai opposti Greci a Greci, i migliori generali tebani, tra i quali Epaminonda, trovano la morte. Segue dunque un’ennesima pace generale, anch’essa di brevissima durata. Si torna in pratica al consueto stato di continue guerre locali, la più grave delle quali, scoppiata in seguito all’occupazione di Delfi da parte dei Focesi, dura 10 anni (356-346 a.C.). Con essa intervengono anche nella Grecia centro-meridionale i crescenti stati del nord: la Tessaglia e la Macedonia. La grande vittoria che Filippo II, re di Macedonia, consegue a Cheronea nel 338 a.C. segna il definitivo tramonto del sistema delle poleis indipendenti.In questo periodo si aprono numerosi cantieri per la ricostruzione (es. fig. 6.1, mura di Messene) o l’ampliamento di antichi santuari: di Hera ad Argo, di Zeus a Nemea, di Asklepios a Epidauro, di Atena Alea a Tegea. Il culto di Asklepios ha un enorme sviluppo a partire dagli ultimi anni del V secolo, ma è presso Epidauro che sorge per questo dio il santuario più venerato (fig. 6.2). Cuore dell’intero impianto (costruito tra il 380 e il 370 a.C. dall’architetto Teodoto) rimane il tempio del dio, affacciato su un piazzale, di ordine dorico, relativamente piccolo con le consuete 6 colonne sulla facciata, privo di opistodomo. L’edificio più celebre doveva però risultare un ornatissimo tempio circolare (fig. 6.3), detto Tholos, costruito attorno al 350 a.C. all’interno del recinto sacro, poco dietro al tempio principale. La peristasi, di 26 colonne doriche, racchiudeva un secondo cerchio, formato dal muro della cella, all’interno del quale un terzo cerchio concentrico, di 14 colonne corinzie, delimitava lo spazio centrale, nel quale si apriva l’accesso al labirinto sottorrenaeo. Questo tipo architettonico nello spazio di una generazione avrà fortuna anche in altri santuari: a Delfi, nella tholos della terrazza della Marmarià, e a Olimpia, nel Philippeion, iniziato nel 338 a.C.. Vi era poi un teatro (fig. 6.4), al centro del quale stava l’orchestra circolare, dove avvenivano le danze del coro, vi si accedeva tramite 2 accessi scoperti, le parodoi, che separavano l’edificio scenico dalla cavea. Questa ha una pianta a ventaglio con 55 ordini di sedili, divisi in 2 zone da un corridoio semicircolare, o diazoma (fig. 6.5). In quegli anni viene anche ricostruito il santuario di Atena a Tegea, uno dei più antichi e celebri del Peloponneso. Il tempio, i cui lavori vennero affidati a Skopas, piuttosto allungato (fig. 6.6) aveva una peristasi di 6 x 14 colonne doriche molto snelle, con un’altezza superiore a sei volte il diametro di base. La cella era preceduta da un ampio pronao a due colonne in antis, e seguita da un opistodomo simile. Giunge qui a uno dei suoi risultati più importanti la tendenza, già presente nell’Atene di Fidia, a una sempre maggiore leggerezza e luminosità all’interno dell’ordine dorico, con l’aggiunta d’una decorazione sempre più

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ricca e della creazione di grandi spazi interni, facendo ricorso anche all’inserimento di ordini diversi. Ricchissima era anche la decorazione scultorea dell’esterno, affidata anch’essa a Skopas, sul frontone orientale era rappresentata la caccia al cinghiale calidonio da parte di Meleagro e di Atalanta, su quello occidentale si trovava una vicenda legata al ciclo troiano. I grandi scultori del IV secolo a.C.Il IV secolo è spesso ricordato dagli storici come il secolo dell’individualismo, contrapposto al forte spirito civico che aveva caratterizzato il periodo precedente. Per celebrare la Pace di Antalcida (386) nell’Agorà di Atene viene innalzata la statua della pace (=Eirene), rappresentata da una maestosa figura femminile, custodiva e alimentava la neonata ricchezza, in greco al maschile Ploutos (fig. 6.7). L’opera venne affidata a Cefisodoto. Nella bottega ateniese di Cefisodoto si formarono anche altri scultori, ma uno in particolare, suo figlio Prassitele, raggiunse la massima fama, l’artista che più di ogni altro esprime nelle sue opere la charis, ovvero la grazia. A lui si deve, infatti, l’opera più citata nelle fonti letterarie e contemporaneamente più riprodotta nelle copie giunte sino a noi, l’Afrodite di Cnido (fig. 6.8, databile probabilmente a poco prima del 360 a.C.). La dea della bellezza in una totale nudità, sino ad allora riservata alle rappresentazioni del corpo maschile, è rappresentata in piedi, mentre si accinge a bagnarsi. Nel far questo, poggia con la mano sinistra la veste su un vaso, ciò consente di spostare il baricentro della figura, dando al gioco dei pesi, creato dal discostarsi del piede sinistro, una flessuosità completamente nuova, quasi un’apparente insicurezza. La mano destra è portata avanti, a coprire l’inguine, in un gesto di apparente pudicizia, che ne fa avvertire ancor meglio la seduzione, legata a un attimo. Degni di attenzione sono i morbidi passaggi tra i piani, l’assenza di gesti bruschi, la lucentezza delle superfici del marmo pentelico. La statua fig. 6.9, anch’essa probabilmente di Prassitele, rappresenta un giovane nudo che con la destra porge un grappolo d’uva a un bambino che regge sul braccio sinistro, sposta il baricentro al di fuori dello spazio occupato dai piedi: un movimento libero nello spazio, dunque, che dà alla figura un senso di posizione provvisoria, quindi di lento movimento. Un umanissimo momento di sosta che Hermes si concede, mentre sta portando il piccolo Dioniso alle ninfe di Nisa. La statua dell’Apollo Sauroctono (fig. 6.10), che ha uno spostamento della parte superiore del corpo ancora più accentuato, rappresenta il dio che sta per colpire la piccola lucertola, con la freccia che tiene nella mano destra; egli si sporge in avanti e a sinistra, in un attimo di precario equilibrio. La statua rappresentava probabilmente Apollo Alexikakos, liberatore dalla malattia, quest’ultima simbolizzata dal piccolo sauro sul tronco. Anche in questo caso l’appoggiarsi della figura a un elemento esterno consente una rotazione che mette in risalto la flessuosità del corpo, accentuandone la grazia. Questa capacità di saper cogliere un momento di particolare grazia, apparentemente secondario nello svolgimento del mito, all’interno di un’ambientazione naturale, è una delle caratteristiche principali di Prassitele. Lo stesso si può notare nel cosiddetto Satiro in riposo (fig. 6.11), il ritmo viene qui accentuato dalla diagonale del mantello, il peso della figura, inoltre, è tutto sulla gamba sinistra. Skopas di Paro si meritò l’etichetta di ‘maestro del pathos’, cioè dell’espressione del sentimento, in particolare per l’opera da cui deriva la statuetta di Menade (fig. 6.12, copia romana), l’agitazione che pervade tutta la figura viene resa dall’impetuosa torsione che, dalla gamba sinistra, passa per il busto e il collo sino alla testa, gettata all’indietro e girata, a seguire lo sguardo, verso sinistra. Il volto è pieno, sono ravvicinati bocca, naso e occhi, questi ultimi sono schiacciati contro le forti arcate orbitali per conferire maggiore intensità all’espressione. Le stesse caratteristiche le riscontriamo su frammenti provenienti dai frontoni del tempio di Atena Alea a Tegea, nel Peloponneso. Dal frontone occidentale, dove era rappresentata la lotta tra Achille e Telefo, proviene una testa che si volge con violenza verso sinistra (fig. 6.13), tutti i muscoli sono tesi e rigonfi, i particolari del volto (dove traspare la violenza dello sforzo) sono ravvicinati tra loro, la bocca è dischiusa, tutto crea un’intensa drammaticità e intensità delle passioni.Mausoleo di AlicarnassoNel 377 a.C. Mausolo diventa satrapo di Caria, quindi governatore in nome del re di Persia (partecipa nel 362 alla grande rivolta dei satrapi contro Artaserse II). Grazie alle enormi ricchezze

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accumulate, egli pone mano alla ricostruzione di una sua nuova capitale sul mare. Viene scelto il sito dell’antica Alicarnasso (oggi Bodrum), al centro del quale troverà posto il suo immenso monumento onorario, questo verrà completato negli anni immediatamente successivi alla morte sua e di sua moglie (353-351 a.C.). Su un enorme podio suddiviso in 3 gradini, che misurava alla base circa 38,40 x 32 metri, alto 19,20 metri, si innalzava un tempio circondato da 36 colonne ioniche alte 12 metri. Concludeva l’edificio un tronco di piramide formato da 24 gradoni, sul quale era posta la quadriga reale (altezza complessiva del monumento raggiungeva circa 45 metri), fig. 6.18. Tutta la costruzione venne affidata All’architetto Piteo (forse anche il piano urbanistico di Alicarnasso). Le sculture che lo ornavano furono eseguite da: Timoteo, Leocare di Atene, Skopas e Briasside. Ciascuno di questi artisti si occupò (secondo quanto ci tramanda Plinio) della decorazione di un lato. [Le lastre delle decorazioni scultoree sono state rinvenute grazie all’opera di ricerca di Sir Charles Newton nel 1865]. Il fregio dell’Amazzonomachia doveva, secondo la ricostruzione fatta, correrre a grande altezza attorno al plinto di base, e passare in second’ordine rispetto alle 88 statue collocate sul primo gradone del podio, alle 72 del secondo, alle 56, colossali, del terzo; alle 36 statue a grandezza maggiore del vero che trovavano posto tra gli intercolumnii; ai 56 o forse 72 leoni collocati all’inizio della piramide; infine alla grandiosa quadriga con le statue di Mausolo e Artemisia (sua moglie) che concludeva l’insieme. Le lastre che più spesso vengono attribuite a Skopas (fig. 6.19) sono quelle raffiguranti il combattimento diviso in tante monomachie, che vedono affrontarsi, di volta in volta, a sinistra un greco, in nudità eroica ma difeso da elmo e scudo, e a destra un’amazzone, a piedi o a cavallo, chiaramente indicata anche dalla corta veste. Le diagonali sottolineano qui la direzione della battaglia, da sinistra verso destra. Vi emergono caratteristiche, nelle raffigurazioni delle amazzoni, che richiamano la Menade di Dresda (6.12), è un modello, comunque, che compare spesso altrove, si tratta piuttosto di studi di movimenti di rotazione provocati dall’impeto dello scontro, di variazioni, nell’ambito di un gusto che ritroviamo sì in Skopas, ma che non riconduce unicamente alla sua mano, così come le forme slanciate non sono necessariamente di Leocare (fig. 6.20), nè i panneggi gonfiati dal vento debbono essere attribuiti esclusivamente a Timoteo (fig. 6.21). La statua del cosiddetto Mausolo (fig. 6.22), stante nella classica contrapposizione dei pesi, mostra immediatamente caratteristiche particolari nell’acconciatura a lunghi capelli, nella corta barba, nelle forme piene del volto dall’espressione concentrata. Anche la veste, con il mantello portato orizzontalmente a cingere con pesanti pieghe la parte centrale della figura, facendola così apparire di particolare solidità, non rientra nei canoni consueti. Si tratta evidentemente di simboli di status, obbligatori da indicare per chi l’ha scolpita.Di Timoteo dovevano essere alcune parti del frontone con Amazzonomachia e gli acroteri del frontone occidentale, quello centrale rappresenta (fig. 6.14) l’arrivo sul culmine del tetto di una figura femminile; ciascuno dei 2 acroteri laterali, invece, (fig. 6.15) raffigura l’arrivo di una fanciulla colta nell’atto di scendere da un possente cavallo. Proprio la forte sensibilità nell’uso del panneggio viene considerata una delle caratteristiche fondamentali di questo artista, molto vicino alla tradizione fidiaca. Altro artista attivo nel cantiere del Mausoleo è senza dubbio Leocare di Atene, famoso soprattutto perchè a lui è attribuita la paternità dell’Apollo del Belvedere (fig. 6.16) (così chiamato dal cortile del Vaticano in cui si conserva). Statua simile è l’Artemide di Versailles (fig. 6.17) sempre a lui attribuita.

Accanto ai grandi artisti fioriscono, nel IV secolo a.C., delle scuole che subiscono le influenze dei Maestri più importanti. Esempi di influenze policletee: fig. 6.23, fig. 6.24, fig. 6.25. Influenze di Prassitele: fig. 6.27, fig. 6.26 qui l’efebo presenta un volto fine e ovale, superfici delicate, accuratezza nei dettagli, sguardo perso in lontananza, bocca semiaperta, sottile melanconia, anche il fatto che si raffiguri il dio in età giovanissima (sua peculiarità) ha fatto supporre proprio alla mano stessa di Prassitele. Influsso di Skopas: stele funeraria fig. 6.28, monumento posto da una famiglia che vuole ricordare la morte di un suo giovane membro, databile attorno al 340 a.C., la possente struttura del corpo e ancor più il suo movimento a spirale richiamano effettivamente le opere di Skopas; la testa ha la disposizione ravvicinata degli elementi come nelle opere di Lisippo, ma la

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struttura cubica del capo, la bocca semiaperta e gli occhi profondamente infossati, per sottolineare la mestizia dello sguardo, la avvicinano alle teste di Tegea (fig. 6.13).

VII. L’età di Alessandro (336-323 a.C.)

Il secolo IV a.C. vede il progressivo affermarsi della Macedonia tra gli Stati greci. La corte macedone diventa poco per volta un centro di grande cultura, nel 359 a.C. sul trono sale Filippo II e la città di Pella diventa la nuova capitale. Qui farà tappa anche il massimo filosofo del tempo, Aristotele, che prenderà, tra l’altro, parte all’educazione del figlio del re, Alessandro. Filippo II, nel 338 a.C., infligge alle poleis greche, coalizzatesi contro di lui, la tremenda sconfitta di Cheronea e contemporaneamente, allargherà i suoi possedimenti verso i territori del nord; nel 348 a.C. distrugge Olinto, nel 340 a.C. Perinto. E’ al culmine del potere quando, nel 336 a.C., cade vittima di una congiura di palazzo, lasciando il trono al figlio ventenne, Alessandro. In Macedonia, come del resto in Tessaglia e in Tracia, le tombe risalenti a questo periodo mostrano una sempre maggiore ricchezza, ma anche un alto livello di adesione ai modelli della Grecia tradizionale. I due elementi, ricchezza e adesione a modelli greci, si rilevano, ad esempio, a Derveni, in Tessaglia, dove in una tomba viene rinvenuto un grande cratere in bronzo dorato (fig. 7.1, con le nozze di Dioniso e Arianna, databile tra il 330 e il 320 a.C.); una situazione simile la scorgiamo anche nella tomba della necropoli di Kazanlak (Tracia, odierna Bulgaria), si tratta di una tomba a tumulo, la cui cupola interna (fig. 7.2, con scene di banchetto, databile all’ultimo terzo del secolo IV a.C.) è stata dipinta da pittori provenienti con tutta probabilità dalla Grecia. I tumuli di Verghina (antica Aigai, in Macedonia)A Verghina è stata scoperta una tomba che si è mostrata di particolare importanza (fig. 7.3), l’ampio spazio quadrangolare sovrastante è dipinto con scene di caccia, vi era stato deposto un semplice sarcofago marmoreo, contenente, a sua volta, una cassetta in oro con 4 piedi leonini (fregi, rosette e la stella a 16 punte tipica della Macedonia, sono incise a rilievo sul coperchio, fig. 7.4). L’intero corredo permette una datazione tra il 350 e il 325 a.C., in particolare i tratti fisiognomici di una testina in avorio, ivi rinvenuta, (fig. 7.5) fanno pensare a Filippo II (forse la sua tomba?), pare, infatti, che si ravvisino anche i segni del colpo di freccia che aveva sfigurato il volto del re macedone durante una battaglia che lo privò di un occhio. Nell’anticamera era posto un altro sarcofago (forse di Cleopatra, ultima moglie di Filippo). Importantissimi sono anche i dipinti che ornano le camere funerarie, infatti, sono annoverati tra i rari originali superstiti della grande pittura greca a noi giunti (es. caccia raffigurata sulla facciata fig. 7.6). Probabilmente il pittore è un certo Filosseno di Eretria insieme a Nicomaco di Atene (probabilmente di quest’ultimo è l’affresco del ratto di Persefone fig. 7.7, che dà nome alla tomba che decorava, creata un pò più tardi forse attorno al 320 a.C.). I palazzi macedoniSempre a Verghina è stato scoperto un grande palazzo (fig. 7.8) che mostra il caratteristico tipo del palazzo ellenistico. L’accesso è sul lato est, attraverso un vestibolo con 3 colonne tra ante, bordato da un doppio colonnato, dorico al piano inferiore e probabilmente ionico a quello superiore. Questo colonnato si prolunga anche lungo il lato nord dell’edificio, dividendone la facciata monumentale. Dal primo vestibolo si accede lungo lo stesso asse ad un secondo e poi ancora a un terzo, sino a raggiungere l’accesso a una corte centrale quadrata. Questa è ornata su ciascun lato da un portico di 16 colonne d’ordine dorico, e attorno ad essa si distribuiscono delle serie di stanze quadrangolari. Accanto all’accesso, un ambiente, quadrato all’esterno, presenta all’interno una pianta circolare, coperta da cupola, si tratta certamente della sala di rappresentanza, dove avvenivano i ricevimenti ufficiali. Lo stesso schema si ritrova anche negli altri palazzi macedoni e in alcune delle grandi case scavate a Pella, inserite all’interno di una sistemazione ad assi perpendicolari (fig. 7.9). Alcuni di questi ambienti sono decorati con mosaici pavimentali fatti con piccoli ciottoli di fiume e ornati da quadretti figurati, contenuti entro una cornice di ricchissimi girali e fasce di onde ricorrenti, rappresentano scene di caccia (es. caccia al leone, fig. 7.10).

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Olinto e Priene: la casa greca nel secolo IV a.C. Olinto ci offre l’esempio più chiaro di come fosse un normale abitato greco alla metà del secolo IV a.C. L’impianto era regolare (fig. 7.11), gli isolati erano divisi da grandi vie perpendicolari (fig. 7.12). Il nucleo centrale delle abitazioni è sempre costituito da un cortile interno, l’aulè, al quale si accedeva dalla strada attraverso una porta e uno stretto passaggio. Sempre sull’aulè si apriva anche l’abitazione vera e propria, preceduta da un portico su pilastri di legno, detto ‘pastàs’, che sorreggeva una terrazza aperta verso sud. Di norma l’abitazione vera e propria si sviluppava su 2 piani, nell’inferiore c’era l’andròn, il locale dove il padrone di casa poteva ricevere gli ospiti, al superiore stavano gli ambienti per le donne e le camere da letto, raggiungibili per mezzo di una stretta scala di legno che partiva direttamente dall’aulè; circondavano l’aulè anche ambienti adibiti a stalle o magazzini. Altri ben noti esempi di edilizia domestica si hanno nelle case di Priene (fig. 7.13); nella fascia centrale del suo impianto urbanistico trovano posto i principali edifici pubblici, tra i quali l’agorà, il santuario di Zeus e il santuario di Atena. Gli isolati destinati ad abitazione sono decine: ogni isolato è diviso in parcelle, di solito 8, ognuna occupata da una casa.Lisippo Nel campo della scultura, la seconda metà del secolo IV a.C. appare dominata da un altro grande artista, Lisippo, nativo di Sicione, egli comincia la sua attività come bronzista e lavora a Delfi a partire almeno dagli anni intorno al 360 a.C. Tra le sue numerose creazioni spicca una grande statua marmorea raffigurante Aghias (fig. 7.14), uno degli antenati di Daoco (tetrarca dei Tessali e partigiano dei Macedoni di Filippo II nella battaglia di Cheronea). Questa ha proporzioni molto più slanciate rispetto alle statue policletee: più lunghi gli arti e il busto, più piccola la testa, nella quale sono più piccoli anche gli elementi significativi (occhi, naso, bocca), ravvicinati tra loro a formare una sorta di triangolo nel quale si concentra l’espressione. Il peso del corpo è distribuito sulle due gambe, il movimento sinuoso dà l’impressione di un movimento ancora racchiuso, ma che sta per svilupparsi. In questa statua si manifesta l’inizio del cammino artistico di Lisippo (egli diventerà lo scultore preferito da Alessandro Magno). La sua opera più celebre è il cosiddetto Apoxyomenos, rappresentato mentre si deterge il sudore dal corpo (fig. 7.15, copia romana conservata nei Musei Vaticani). L’antico tema dell’atleta, stante con il corpo nudo, trova qui nuove, ardite soluzioni. La figura sembra estendersi nello spazio per arrivare a conquistare, più di quanto fosse stato osato in passato, la terza dimensione: una delle due gambe, la sinistra, è ancora quella portante, ma anche la destra, allungata fortemente all’indietro, riceve parte del peso, e in questo modo contribuisce a dare alla figura un senso d’attesa di un movimento che sta per compiersi. Il braccio destro si stacca dal busto e si protende in avanti, verso lo spettatore, lievemente avvitandosi sul proprio asse longitudinale, in un movimento continuato nella posizione della mano, con una libertà di movimento nello spazio che era ignota alle statue precedenti. Anche il braccio sinistro è sollevato e portato in avanti, a raggiungere il destro con l’oggetto che la mano impugnava: uno strigile, l’attrezzo bronzeo con il quale, terminato l’esercizio, gli atleti si detergevano il sudore, mescolato all’olio di cui si erano spalmati. Le braccia portate avanti interrompono per la prima volta la piena visione del busto, sul volto compare l’impressione di un patetismo appena accennato, quasi un segnale della faticosa prova alla quale l’atleta si era sottoposto. Lisippo, dunque, adatta i canoni di Policleto a nuove esigenze di movimento, di espressività, di eleganza, il risultato è quello di una figura più umana, più slanciata, con occhi più piccoli, infossati, perciò più espressivi. Altra celebre statua di Lisippo è l’Eracle a riposo (fig. 7.16, ce ne resta una copia ritrovata nel 1540 a Roma, all’interno delle Terme di Caracalla, entra poi a far parte della collezione dei principi Farnese), meglio nota col nome dell’Eracle Farnese. In questa statua, entrambi i talloni della figura poggiano a terra, ma tutto il peso sembra abbandonarsi sulla spalla sinistra, a sua volta appoggiata alla clava, parzialmente coperta dall’altro attributo tipico dell’eroe, la leontè, ovvero la pelle del leone nemeo. Tutte le proporzioni delle membra sono alterate in larghezza, per mettere in rilievo la sovrumana muscolatura di Eracle. Le rughe che solcano la fronte, le folte sopracciglia, gli occhi infossati, lo sguardo rivolto a terra ne accentuano l’espressione pensierosa, pervasa da un’intima tristezza. Il momento scelto da Lisippo per raffigurare Eracle costituisce dunque una novità: anzichè

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rappresentarne, com’era tradizione, il pieno vigore, o le lotte destinate a essere coronate dal successo, l’artista coglie qui un momento di pausa. E’ probabilmente negli anni tra il 330 e il 320 a.C. che la cittadinanza di Atene affida a Lisippo l’incarico di realizzare una nuova statua di Socrate, da collocarsi nel Pompeion (=una sorta di ginnasio presso la porta del Dipylon dove si adunano e da dove partono le processioni delle Panatenee), ce ne resta una copia romana (fig. 7.17), seguendo le regole della ponderazione, il peso è sulla gamba sinistra, la gamba destra e il braccio sinistro appaiono piegati, il risultato è quello del ritratto di un venerabile cittadino, raccolto e pensoso.Alessandro MagnoAlessandro nasce a Pella nel 356 a.C., diventa re nel 336 a.C. e fin dall’inizio mostrerà eccezionali capacità da conquistatore. Consolida dapprima il suo potere nella penisola balcanica, successivamente nella stessa Macedonia, in Tessaglia, nelle città della Grecia (Tebe, che si era a lui ribellata, viene rasa al suolo), in Tracia, in Illiria giungendo sino al Danubio. Nel 334 a.C. la grande spedizione contro il re di Persia, Dario II, si rivela vincente, da lì in pochi mesi prende possesso di tutta l’Asia Minore arrivando alla Cilicia. Sui passi che da questa danno l’accesso alla Siria, a Isso, nel 333 a.C., sconfigge un nuovo esercito persiano. Segue una marcia trionfale che lo porta lungo la costa della Fenicia e della Palestina, dove assedia ed espugna Tiro e Gaza, sino in Egitto. Fonda, nel frattempo, Alessandria che diventa così la nuova capitale d’Egitto. Nella primavera del 331 a.C. riprende la marcia verso est. La vittoria presso Gaugamela gli spalanca le porte anche dell’altipiano iranico. In pochi mesi è a Susa, poi a Persepoli, che dà alle fiamme. L’anno dopo assedia Ecbatana, da dove continua l’inseguimento di Dario; il quale verrà ucciso dal satrapo di Battriana e consentirà, così, ad Alessandro di proclamarsi legittimo successore del trono di Persia. Sottomette quindi tutte le regioni orientali, che erano appartenute al re persiano, oltrepassando la Battriana, sino alla valle dell’Oxus (nell’odierno Turkmenistan). Si dirige poi verso l’Indo, che raggiunge nel 326 a.C. e, sconfitto anche il re indiano Poro, è costretto dai suoi stessi soldati a iniziare il ritorno in patria. Nel 324 a.C. è nuovamente a Susa, ma ormai la conquista del mondo persiano è completata. Dalla città di Susa trasferirà la propria corte a Ecbatana, poco dopo a Babilonia. In questa città nel giugno 323 a.C. improvvisamente muore. Alessandro Magno regnerà in tutto 13 anni.Dopo la battaglia della valle del Granico, quella che apre all’esercito macedone le porte dell’Asia, Lisippo riceve l’incarico di eseguire in bronzo un gruppo che ne commemorasse i cavalieri caduti, da erigere nel santuario di Zeus a Dione, la città macedone sacra posta proprio ai piedi dell’Olimpo. Al centro della torma dei cavalieri, protagonisti di quella battaglia, è rappresentato lo stesso re, anch’egli a cavallo (fig. 7.18, ce ne rimane una piccola copia in bronzo), l’accuratezza qui usata sin nei minimi dettagli è caratteristica tipica di Lisippo. Il ‘tipo’ di statua adottato dallo scultore è quello, da tempo consueto, del cavaliere che colpisce l’avversario con un fendente della spada. Successivamente egli darà vita a un nuovo ‘tipo’ di re: non più un Alessandro vittorioso, ma un sovrano innalzato tra gli eroi (come ci suggerisce già la nudità), rappresentato stante e appoggiato alla lancia, paragonandolo così addirittura ad un Ares, o ad un nuovo Achille (fig. 7.19).Contemporaneamente altre tipologie di ritratto di Alessandro vengono creati nella pittura. Uno dei pittori più famosi di questo periodo è senz’altro Apelle di Coo, le fonti letterarie ci tramandano che egli fu importante nella pittura per Alessandro, quanto lo fu Lisippo nella scultura. A Pompei è stata scoperta una pittura parietale che rappresenta un personaggio seduto, mentre tiene con una mano uno scettro e con l’altra il fulmine, nell’atto di dar forza sui piedi per alzarsi (fig. 7.20, Alessandro col fulmine). Essendo, posizione e attributi, tipici dello Zeus creato da Fidia per Olimpia, si pensa a una rappresentazione di Zeus, o meglio a un Alessandro che vuol dimostrare di essere un dio reincarnato. Nella ritrattistica che lo riguarda si passa in pochi anni dal fanciullo cacciatore al comandante vittorioso, per giungere, infine, a ritrarlo come un dio in terra. Questa pittura, insomma, non è altro che la riproduzione della famosa opera di Apelle, eseguita su una parete di una casa privata a Pompei (supplisce alla mancanza dell’originale a noi, purtroppo, non pervenuto). L’opera che Filosseno di Eretria fece per il re Cassandro poco dopo la morte di Alessandro servì da modello per uno dei mosaici più celebri di tutto l’Ellenismo, il mosaico con la battaglia di Alessandro che

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ornava un’esedra della Casa del Fauno a Pompei (fig. 7.21, composto da circa un milione e mezzo di tessere). Tutta la fascia centrale è occupata da una grande quantità di combattenti, con al centro il carro da guerra del re Dario. Da sinistra irrompe però a cavallo Alessandro (fig. 7.22), in un’apparizione quasi sovrumana, i capelli scomposti e divisi a metà della fronte, i grandi occhi spiritati, l’espressione eroicamente decisa, il campo sembra spalancarsi come in una nicchia di fronte all’impeto del re macedone e della sua guardia. Dario non può che guardarlo atterrito, attorno a lui cadono gli uomini della sua guardia del corpo, e il suo auriga già sta volgendo il carro verso l’ultima fuga. Il colore rimbalza di continuo, quasi fiammeggiando sui volti, sui corpi dei cavalli, sulle armature.Il quadro che ritrae le nozze tra Alessandro e Roxane (avvenuta nel 327 a.C., il matrimonio con la figlia del re di Battriana fissa l’atto conclusivo della politica orientale del sovrano), probabilmente è stato dipinto da Ezione, purtroppo è andato perduto ma ce ne rimane un’attenta descrizione da parte dello scrittore Luciano (del II sec. d.C.). Questo dipinto ha il merito di aprire la strada al gusto di rappresentare in interni, anziché in esterni, affollate scene ricche di luce e di profondità. Si è infatti voluto riconoscere il capolavoro di Ezione nel modello di una pittura parietale pompeiana (fig. 7.23), i volti delle due figure sono idealizzati come quelli di due divinità, la visione è prospettica, molti sono gli effetti di luce (permette di farci un’idea di come potesse essere a grandi linee l’originale). Le iconografie create per Alessandro indirizzano verso la regalità, i suoi ritratti continuano a lungo a essere riprodotti, dato che molti programmi politici si rifanno alla sua persona, risentendo, comunque, di volta in volta delle influenze stilistiche del luogo ove viene ‘ricostruito’ il ritratto. Ad esempio a Istanbul, nel museo archeologico, (fig. 7.24), vi è una celebre opera nella quale i tratti del sovrano perdono la vivacità fisionomica dei ritratti contemporanei, per essere idealizzati in uno stile che è invece ben riconoscibile come quello pergameno del secolo II a.C., attento ai chiaroscuri e al gioco delle masse. Il personaggio (=Alessandro) resta però facilmente riconoscibile attraverso alcuni elementi caratteristici: i capelli scomposti e spartiti sulla fronte, e l’intensa, decisa espressione, che qui viene accentuata piuttosto dal rigonfiarsi delle arcate sopraccigliari e dalle rughe della fronte, com’era tipico nella Pergamo del tempo.La pittura della generazione di AlessandroRacconta Plinio: “Apelle di Coo superò tutti quelli che erano stati prima…si può dire che da solo egli fece alla pittura più progressi di tutti gli altri messi assieme”. Questo pittore dalla grande fama dette, più di ogni altra cosa, importanza alla linea e al particolare. Dalle fonti letterarie sappiamo che la più celebre delle sue pitture fu l’ ‘Afrodite che esce dalle acque’ (le cui descrizioni ispirarono anche Botticcelli per la sua ‘nascita di Venere’). Famosi furono anche l’ ‘Alessandro con il fulmine’ e l’ ‘Eracle visto di spalle’, quest’ultimo mostra notevole somiglianza con la figura di Eracle che contempla il figlio Telefo che viene allattato da una capretta (fig. 7.25, probabile che ci si sia ispirati all’originale). Apelle è sempre stato ricordato per la sua charis (grazia) ciò che, ricordiamo, caratterizzò Prassitele in campo scultoreo.Sempre dalle fonti letterarie (soprattutto Plinio, Luciano e Pausania) si conosce un pittore contemporaneo di Apelle, Nicia, si ricorda di lui il dipinto rappresentante la liberazione di Andromeda da parte di Perseo: un soggetto spesso riprodotto nelle pitture parietali pompeiane, e grazie alle quali possiamo raffigurarci l’originale. L’azione (fig. 7.26, dalla Casa dei Dioscuri) si svolge in uno scenario di scogli, tra i quali s’insinua l’azzurro del mare. Andromeda poggia i piedi su di un masso, al quale era stata incatenata. La aiuta a scendere il suo liberatore Perseo, riconoscibile dalle ali che gli spuntano alle caviglie e dalla testa recisa della Gorgone che ancora sorregge nella mano sinistra, insieme alla spada. In basso sulla sinistra il grande corpo del mostro marino, che Perseo ha appena ucciso, sottolinea la drammaticità del mitico evento. Coevo di Nicia è il pittore Atenione di Maronea, il suo celeberrimo Achille vestito da donna mentre, a Sciro, viene scoperto da Odisseo, è stato riconosciuto, anche in questo caso, in una serie di pitture parietali pompeiane. Quella proveniente dalla Casa dei Dioscuri (fig. 7.27) rappresenta le due figure dominanti centrali, che, come in una raffigurazione di battaglia, sono poste specularmente, a formare con i corpi un triangolo. I gesti sono bruschi, pieni di movimento, sulla destra compare

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Odisseo che con la mano destra afferra Achille, dalle vesti e dal biancore tipici di una fanciulla, ma dal possente aspetto, la spada stretta nella destra, lo sguardo intenso, presago di come si stia compiendo il suo destino (stanno per portarlo a Troia dove troverà la morte, un oracolo glielo aveva predetto, motivo per cui si era nascosto e travestito a Sciro); Achille è ormai stato scoperto, trattenuto alle spalle da Diomede. Dalla profondità dello sfondo, aperto in un colonnato, nel quale si vedono, posti su diversi piani altri personaggi. Riscontriamo uno schema molto simile nella casa detta della IX regio (fig. 7.28).Altri dipinti tratti dal mito riguardano, ad esempio, la raffigurazione di Achille che deve sopportare di consegnare Briseide ad Agamennone (fig. 7.29, dalla Casa del Poeta tragico di Pompei), anche qui compaiono più personaggi all’interno di un ambiente chiuso, del quale, disposti su piani diversi, mostrano la grande profondità. L’intenso sguardo di Achille, la mestizia di Briseide, tutto contribuisce a infondere nel quadro una grande intensità, come di una scena sospesa nell’incertezza se opporsi o no all’iniquità che si sta perpetrando. Tutto corrisponde allo stile della pittura appartenente alla seconda metà del secolo IV a.C..La scena di Teseo che libera i fanciulli ateniesi dal labirinto, dopo aver ucciso il Minotauro, altro soggetto spesso adoperato, compare in una delle pitture che ornavano la Basilica di Ercolano (fig. 7.30), ed è anche riprodotta in alcune case di Pompei. Il quadro è dominato dal corpo di Teseo, simile a una statua nella ponderazione e nelle proporzioni lisippee, che volge bruscamente lo sguardo, conscio dell’impresa compiuta. I fanciulli ateniesi, salvati da una morte atroce, lo festeggiano; steso sul terreno, alla sinistra, giace il Minotauro, il fondale si presenta misto di mura e rocce. Di ben diverso livello la pittura proveniente dalla casa pompeiana di Gavio Rufo (fig. 7.31), derivata dallo stesso modello, e spesso mostrata per ricordare quanto possano differire per qualità e interpretazione due copie dello stesso originale. L’intensa atmosfera del mito è completamente persa. Qui il corpo di Teseo appare disorganico, gli atteggiamenti di gratitudine dei due fanciulli sono volutamente esagerati, appaiono goffi, specie in quello di destra, quasi sdraiato a terra. Il fondale è diventato un anonimo muro di città, il corpo del mostro, piccolo e quasi risibile. In conclusione a Ercolano riconosciamo un pittore dalle grandi capacità tecniche, nella casa di Pompei vi è un semplice artigiano che riproduce per un cliente di poche pretese lo stesso celebre originale.

VIII. Il primo Ellenismo e l’arte di Pergamo (fine del secolo IV- metà del secolo II a.C.)

Alessandro muore nel 323 a.C. (data che convenzionalmente apre il periodo ellenistico), senza lasciare eredi, inizia così un periodo di scontri incessanti per il potere: è il periodo dei cosiddetti ‘diadochi’, cioè di coloro che vogliono succedergli. Il lungo periodo di guerre sembra terminare con la battaglia di Ipso, nel 301 a.C. Si profila così una nuova divisione territoriale: a Cassandro spetta la Macedonia e la Grecia, a Tolomeo l’Egitto, a Lisimaco la Tracia e la parte occidentale dell’Anatolia, a Seleuco gran parte dell’Asia, dalla Siria ai confini orientali, a Demetrio la sola isola di Cipro. Il periodo successivo è dominato dai tentativi di impossessarsi della Grecia e della Macedonia, prima da parte di Demetrio, poi di Lisimaco. Finalmente nel 281 a.C., dopo la battaglia di Curupedio, presso Magnesia, nella quale trova la morte Lisimaco, si arriva a una sorta di tripartizione ‘continentale’, destinata a durare a lungo (vedere cartina pag. 342): la Macedonia rimane ad Antigono Gonata, figlio di Demetrio, l’Asia a Seleuco, l’Egitto a Tolomeo. Inizia così un secondo periodo, detto degli ‘epigoni’, i discendenti dei diadochi. Il regno più grande, quello dei successori di Seleuco, comincia poco a poco a disgregarsi. Iniziano a rendersi indipendenti le aree periferiche dell’Anatolia, in particolare Pergamo e i nuovi regni sulla costa del Mar Nero; inoltre, dopo il 230 a.C., si afferma in Persia il potente regno dei Parti. Il periodo degli epigoni dura sostanzialmente sino a che, attorno al 220 a.C., Roma non si affaccia anche in Oriente. Il primo a essere assalito è naturalmente il regno più occidentale, quello macedone. Le due prime guerre macedoniche finiscono con la vittoria di Roma, nel 190 a.C., quest’ultima, aiutata da Rodi e da Pergamo, sbaraglia Antioco a Magnesia. Nel 168 a.C. una terza guerra macedonica si conclude, a Pidna, con la definitiva vittoria di Roma e la scomparsa dello stato macedone e dell’Epiro,

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trasformati in province romane. Un’ultima sollevazione delle città greche, nel 146 a.C., porta due anni dopo alla fine anche della loro nominale libertà ( nel 196 a.C. erano state dichiarate libere) e alla distruzione di Corinto, che se ne era messa a capo. Arte e scultura del primo EllenismoLe opere scultoree sono generalmente dominate da uno spirito di gigantismo, ne è un esempio la costruzione dell’immenso faro-torre, eretto su un’isoletta davanti al porto di Alessandria d’Egitto. Alessandria, nuova capitale di tutto l’Egitto, diventa assai presto meta di intellettuali e artisti provenienti dalle città della Grecia, che si vanno riunendo attorno alla corte tolemaica e alla sua biblioteca. Lo stesso Tolomeo I farà costruire splendidi santuari, tra cui uno dedicato a una nuova divinità, Serapide (fig. 8.1, ce ne rimane una copia romana), in cui confluire lo Zeus ellenico e l’Osiride egiziano. La statua del nuovo dio, di enormi dimensioni viene commissionata a Briasside. Come lo Zeus di Fidia è rappresentato barbato, ma qui sui lunghi capelli è posto il modio, tipico recipiente destinato al grano e quindi simbolo di fertilità. Anche Serapide è seduto su un trono, di sapore arcaicizzante, e poggia i piedi su uno sgabello dalle zampe leonine, facendovi forza, come per alzarsi. Sempre come Zeus, con la sinistra regge lo scettro; come Ade, poggia però la destra sulla testa di un cerbero, mostro infernale dalle tre teste, accovacciato ai suoi piedi. Il turgido panneggio e le possenti forme lo avvicinano stilisticamente al cosiddetto Mausolo del Mausoleo. Da una parte si lega volutamente alla più classica tradizione ellenica, dall’altra appartiene a un mondo nuovo, nel quale hanno grande peso le tradizioni locali. Una colossale statua-simbolo, dunque, del sincretismo tolemaico. Un valore parimenti simbolico ha anche la statua bronzea di Tyche (Fortuna) che, attorno al 300 a.C., il grande contendente dei Tolomei, il re di Siria Seleuco, commissiona a Eutichide, un allievo di Lisippo, per celebrare la fondazione di Antiochia, sua nuova capitale (fig. 8.2, copia romana). La torsione della figura è resa più evidente dall’accavallarsi delle gambe, su cui poggia la mano destra che regge le messi, simbolo di fertilità; la testa, di derivazione lisippea, porta la corona a forma di cinta turrita, simbolo della città. La dea è seduta su un elemento simboleggiante il paesaggio, una grande roccia, ai piedi della quale la figura di un giovane che nuota doveva rappresentare il fiume Oronte. Tra il 304 e il 293 a.C. Rodi incarica un altro allievo di Lisippo, Carete, per un’altra statua. Si tratta di un colosso di bronzo rappresentante Helios (=il dio Sole) che venne collocato presso l’imboccatura del porto (secondo Plinio, alto 32 metri). A noi ce ne rimane una copia romana (fig. 8.3), raffigura il dio che avanza, nudo, con un passo ampio e deciso, simile a quello dell’Apollo del Belvedere di Leocare; ha la mano sinistra abbassata a reggere l’arco e tiene alta con la destra una fiaccola dorata, che con i suoi bagliori doveva servire da faro. (Altro esempio di influenza lisippea in età ellenistica fig. 8.4, Efebo Getty).Sarcofago di AlessandroNoto con questo nome per i rilievi esposti che lo rappresentano. Questo sarcofago è stato rinvenuto nel 1882 in una tomba sotterranea della necropoli reale di Sidone, antica città fenicia; come tipo di sepoltura si inserisce in una tradizione asiatica del sarcofago inteso come edificio funerario, forme e stile sono però tipicamente greci. Datato alla fine del IV sec. a.C. è possibile che vi fosse sepolto Abdalonimo, satrapo sul trono di Sidone, in quel periodo, infatti le vicende raffigurate sono proprio quelle che portarono questo re al trono. La cassa, provvista di tetto a doppio spiovente con tanto di acroteri e di gocciolatoi, è concepita come un tempio funerario. Su uno dei lati lunghi è rappresentata un’affollata battaglia tra Greci e Persiani (fig. 8.6), vi irrompe ben riconoscibile nei tratti fisionomici Alessandro, che riprende nella foga e nell’atteggiamento la statua equestre che ne aveva fatto Lisippo. Tutto il suolo appare cosparso di caduti, che vengono a poggiare sul bordo inferiore del rilievo. Sull’altro lato lungo vi compare una grande scena di caccia (fig. 8.5, fig. 8.6 b).

Con Alessandro si è definitivamente affermata l’abitudine a riprodurre fisionomie dei singoli, ogni dinasta avrà, infatti, il suo ritratto, che spesso richiama i ‘tipi’ del re macedone. I dinasti si fanno perciò rappresentare come uomini d’azione, nel pieno della loro forza giovanile, spesso a metà tra atleti ed eroi. Contemporaneamente si creano anche ritratti di uomini che simboleggiano la conservazione delle virtù civili: filosofi, oratori, poeti, più in generale, intellettuali. Indicatori

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costanti di queste statue (in piedi o sedute) sono: la presenza di barba e il l’himation (=pesante mantello), esempi sono: la statua di Omero (fig. 8.7), quella di Crisippo (fondatore della scuola stoica) allievo di Zenone (fig. 8.9, con la mano destra che si solleva nell’atto di spiegare il ragionamento), quella di Demostene (fig. 8.8), oratore e politico, esempio di eloquenza, di rettitudine, di dedizione alla patria (fiero oppositore dei re macedoni, giunto ad affrontare nel 322 a.C. il suicidio per non cedere nelle mani del nuovo nemico dell’indipendenza delle città greche, il macedone Antipatro; infatti solo quando, dopo la morte di Lisimaco a Curupedio, si rinnovano per Atene le speranze d’indipendenza, la sua effigie in bronzo verrà eretta nell’Agorà di Atene). Nel mondo ellenistico cominciano ad apparire anche rappresentazioni femminili di regnanti, avvicinate alla sfera divina; in particolar modo nell’Egitto tolemaico dove si continua ad avere come punti di riferimento le grandi creazioni della fine del V e del IV secolo a.C. Un modello importante è l’Afrodite di Cnido, una delle prime e più fortunate varianti della Cnidia è la statua che viene poi riprodotta nell’Afrodite dei Musei Capitolini (fig. 8.10, databile alla fine del secolo IV a.C. o primi del III); diversa è l’acconciatura, più complessa e sofisticata, con i capelli riuniti in un alto nodo alla sommità del capo, da dove ricadono nuovamente sulle spalle, cambia anche il gesto, qui lascia cadere le vesti e la ponderazione è invertita. Nascono, ora, numerose statue di ‘Afroditi’ intente in un’occupazione particolare, ad esempio, ad allacciarsi un sandalo, o intente a cingersi il capo con una benda (=anadyomenai) o a guardarsi allo specchio, in una infinita possibilità di variazioni, soprattutto nelle diffusissime terrecotte, ma anche in piccole riproduzioni in marmo o in bronzo. Esempi: un’Afrodite ritrovata a Capua (fig. 8.11, le braccia, mancanti, erano però certamente staccate dal corpo, per tenere verosimilmente uno specchio e altri oggetti da toeletta) e l’Afrodite di Milo (fig. 8.12, II sec. a.C.). Una creazione molto più originale fu, invece, l’Afrodite Accovacciata (fig. 8.13, ce ne resta una copia romana), ella si avvicina all’acqua tanto da sedersi sul tallone destro, compiendo una rotazione, la testa piena di espressione nei grandi occhi e nella bocca semiaperta, può così volgersi nella direzione opposta a quella delle gambe, completando in senso ascendente la rotazione elicoidale.

Sappiamo da Pausania che tra il III e il II secolo a.C. vengono create anche numerose statue di culto per i santuari del Peloponneso. Lo scultore più celebre è Damofonte di Messene operante a Licosura (piccolo centro dell’Arcadia), sede di un santuario della dea Despoina. Qui, in mezzo alla cella del santuario, Damofonte crea un gruppo scultoreo formato da 4 statue di 5 metri e mezzo di altezza (fig. 8.14 ricostruzione, databili tra il 217 e il 213 a.C.), al centro le due statue sedute di Demetra, e di Anito, il titano che aveva allevato la piccola Despoina. Di questo gruppo scultoreo sono rimasti molti frammenti, tra i quali le tre teste marmoree colossali di Despoina, Demetra e Anito (fig. 8.15), mostrano tutte una voluta aderenza alla tradizione dei tipi classici con variazioni accennate solo relativamente alle capigliature. Simile a loro è una grande testa barbata proveniente da Egira (fig. 8.16), si tratta di uno Zeus seduto, probabilmente opera dell’ateniese Euclide. Il nome di questo scultore non ci è altrimenti noto, è però interessante l’indicazione della sua provenienza ateniese, perché in questo modo viene accostata la produzione peloponnesiaca alla scuola attica, nella quale forse negli stessi anni poteva essere stato attivo anche Firomaco; a lui era attribuita la statua di culto dell’Asklepieion di Pergamo (fig. 8.17). Sempre all’interno di questo ambiente fortemente classico può essere vista anche la grande statua del Posidone trovata a Milo (fig. 8.18), presso la più celebre Afrodite. Proprio a Rodi viene tradizionalmente collegata la grande figura di Nike alata, proveniente dall’isola di Samotracia (fig. 8.19, databile alla fine del III o ai primi del II sec. a.C.), l’intero monumento era composto da una grande prua di nave, che dominava lo specchio d’acqua della vasca, e dalla figura della dea della Vittoria, che in un’impetuosa apparizione scendeva ad appoggiarsi sulla prua. La dea è raffigurata, col panneggio in parte bagnato, secondo il modello classico (simili a lei nella composizione sono: fig. 5.62, fig. 5.63 e fig. 6.16). Rodi è stata alleata prima dell’Egitto e poi di Roma, in opposizione prima del regno dei Seleucidi, poi a quello di Macedonia. L’occasione per la costruzione di questo grande monumento viene spesso indicata nella battaglia navale vinta su Seleuco al largo di Side nel 190 a.C.

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L’architettura ellenisticaAnche l’architettura del primo Ellenismo si ispira fortemente ai monumenti più antichi, soprattutto all’ordine ionico. L’esempio più evidente si ha con la ricostruzione del tempio di Apollo didimeo presso Mileto (fig. 8.20, 8.21). Il nuovo tempio, costruito sulle rovine di uno arcaico risalente alla metà del VI sec. a.C., è più grande e più maestoso: su un podio di 110 x 51 metri, ha una doppia fila di colonne ioniche, 21 sui lati lunghi, 10 sulla facciata. Fortemente accentuata la funzione oracolare: la doppia peristasi deve racchiudere non una cella consueta, ma uno spazio centrale scoperto; una scalinata di 14 gradini permette di salire al maestoso vestibolo, occupato da una selva di 20 colonne alte quasi 20 metri; da qui due stretti corridoi, coperti da una volta a botte, portano in lieve discesa allo spazio scoperto centrale, circondato da alti muri decorati da paraste su uno zoccolo liscio. In fondo, presso una fonte sacra e una pianta d’alloro, simbolo del dio, è collocato il piccolo tempio con la statua di culto. Sul lato d’ingresso una maestosa scalinata di 24 gradini riporta dal cortile interno al pronao, aperto verso il vestibolo da una enorme porta, con il piano sopraelevato di un metro e mezzo. Viene indicata come ‘porta delle apparizioni’, perché non serve da collegamento, ma da teatrale cornice ai sacerdoti che dal piccolo tempio, attraversato il cortile e salita la grande scalinata, riportano i responsi oracolari ai fedeli, fermi nella selva di colonne del vestibolo. Qualcosa di simile accade a Sardi, capitale della Lidia, anche qui l’Artemision viene ricostruito in forme particolarmente sontuose, che si rifanno all’architettura arcaica di ordine ionico (fig. 8.22). L’ordine ionico lo ritroviamo anche a Priene nel tempio di Atena (fig. 8.23). In seguito, con gli inizi del secolo II a.C., quest’ordine ha anche un nuovo, grande teorizzatore in Ermogene di Alabanda, città della Caria. A lui si devono il tempio di Dioniso a Teo, che fu il più venerato tra i templi dedicati a quella divinità, e i templi di Zeus Sosipoli e di Artemide Leucofriene a Magnesia (fig. 8.24, 8.25). Nonostante le dimensioni molto maggiori, quest’ultimo tempio, mostra forti analogie con il tempio di Atena costruito da Piteo a Priene. L’ordine dorico rimane comunque il più usato lì dove lo impone la tradizione, soprattutto nella Grecia propria. A Lindo, una delle principali città dell’isola di Rodi, il tempio dorico arcaico di Atena (fig. 8.26, 8.27) viene distrutto da un terremoto attorno al 350 a.C., viene subito ricostruito come tempio dorico tetrastilo anfiprostilo (=4 colonne su ciascuno dei lati minori). A partire dagli ultimi anni del secolo è risistemato anche tutto il santuario, l’ingresso avveniva per una grande scalinata, in cima alla quale fu aggiunta una facciata monumentale con una fila di 10 colonne racchiusa tra 2 bastioni sporgenti, anch’essi circondati da colonne. Alle 10 colonne della facciata corrispondevano 5 porte, che davano accesso al cortile del tempio, cinto anch’esso da colonnati. L’altare restava al centro. E’ una particolare concezione urbanistica che cerca di dare, attraverso spazi aperti delimitati da file di colonne, l’impressione di una regolarizzazione della natura, e che trova qui un’accentuazione scenografica che avrà grande fortuna in tutto l’Ellenismo. Si ha così un’architettura che non solo si adatta all’ambiente naturale, ma lo sfrutta, per creare grandi composizioni scenografiche capaci di coinvolgere lo spettatore. Una evoluzione nello stesso senso si verifica anche nel santuario di Asklepios nell’isola di Coo (fig. 8.28, 8.29), uno dei più venerati e frequentati santuari dell’età ellenistica. Questo schema di santuario disposto a terrazze coassiali, avrà grande seguito anche nei santuari repubblicani in Italia. Ma anche a Magnesia i due templi principali, di Zeus Sosipoli e Artemide Leucofriene, vengono inseriti in ampie piazze circondate da portici su colonne: questi erano divenuti ormai uno degli elementi più caratteristici dei paesaggi urbani di epoca ellenistica. Le tante nuove fondazioni, di Alessandro e poi dei diadochi, come anche i santuari e le agorài delle città più antiche, hanno come nuovi fondali dei grandi portici, spesso a due piani: le stoài, che consentono il prolungarsi delle attività dell’agorà anche con la pioggia e il sole torrido. Ad esempio l’Agorà di Atene (fig. 8.30) è conclusa verso sud da una stoà a due piani colonnati, offerta da Tolomeo VI (181-145 a.C.), collegata ad un ginnasio, e a est da un’analoga costruzione eretta a spese del re di Pergamo, Attalo II (159-138 a.C.). Quest’ultima è lunga 116,50 metri, ha una facciata a due piani, l’inferiore aperto in un colonnato di 45 colonne di ordine dorico, il superiore con ugual numero di colonne di ordine ionico. All’interno, entrambi i piani sono divisi in 2 lunghe navate da una fila di 23 colonne, ioniche quelle del piano inferiore, corinzie in quello

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superiore. In entrambi i piani, dalla seconda navata si accede a una serie di ambienti chiusi, adibiti a botteghe. La nuova attenzione per gli spazi civili è una delle caratteristiche dell’Ellenismo. Si sviluppano non solo piazze e portici, ma anche teatri ed edifici destinati all’amministrazione. A Priene, presso l’Agorà principale (fig. 8.31) attorno al 150 a.C. un edificio a pianta quadrata di 20 metri per lato occupato all’interno da gradinate su 3 lati, era il luogo di riunione della Boulè, o consiglio cittadino, detto perciò Bouleuterion (fig. 8.32), collegato all’Agorà da una grande stoà.PergamoNel 241 a.C. Pergamo si trova sotto il potere di Attalo I, nel cui lungo regno durato sino al 197 a.C. la città conosce il suo maggiore sviluppo. A sud, l’acropoli della città, presenta una serie di terrazze quadrangolari che, a livelli diversi, si aprono a ventaglio sullo strapiombo (fig. 8.33, 8.34). Attorno al 230 a.C. Attalo I riporta una grande vittoria contro i Galati, per celebrarla egli dedica ad Atena, nella terrazza del suo santuario, un grande donario composto da varie statue disposte su un piedistallo (fig. 8.35, ricostruzione del gruppo). E’ un’opera di intensa drammaticità, che si avvale della contrapposizione di 2 figure (fig. 8.36, Galata suicida, copia romana): la prima è quella di un guerriero (=galata) la cui possente muscolatura, il brusco volgersi a lato e verso l’alto del capo ne mostrano l’orgogliosa fierezza, accentuata dallo sguardo, reso più intenso dalle forti arcate orbitali, egli è rappresentato nell’atto estremo del suicidio, regge con un braccio la seconda figura femminile morente. I lunghi baffi del galata ne indicano chiaramente l’appartenenza etnica, anche la donna con lunghe ciocche scomposte, la indicano come tale. La stessa straordinaria drammaticità sta anche in un’altra statua, il Galata morente (fig. 8.37, copia romana), egli ha una ferita sulla coscia destra, ma ben più grave appare la ferita sul costato, anche in questo caso molti sono gli indicatori della sua provenienza etnica: oltre ai capelli scomposti, alle sopracciglia folte, ai baffi, lo indica come galata anche il suo unico ornamento, una torque, il collare aperto tipico di quella popolazione. Accanto allo scudo stanno, sul terreno, la spada e la tromba di guerra. Allo stesso periodo e alla stessa tradizione del Galata morente appartiene il gruppo detto del Pasquino (fig. 8.38, copia romana), qui si rappresenta Menelao che porta fuori dalla battaglia il corpo del giovane Patroclo. Il gruppo, invece, che raffigura il supplizio di Marsia (fig. 8.39, copie romane) ha una composizione molto diversa, ma uno stile drammatico molto simile. Il sileno, Marsia, è appeso per i polsi a un albero, tutti i muscoli sono allungati in senso verticale, solo il volto si contorce in una smorfia, mentre guarda la preparazione del suo supplizio. Dal basso volge verso di lui lo sguardo di uno scita, indicato come tale dalla barbarica capigliatura, chino nell’affilare la lama con cui lo scuoierà vivo: sarà questa la punizione per aver osato sfidare nella musica Apollo e aver perso. E’ stata avanzata l’ipotesi che la creazione di questo gruppo non avesse solo un significato mitologico ma uno più specifico per ricordare un preciso avvenimento storico: la rivolta dell’usurpatore Acheo contro Antioco III, preso prigioniero a Sardi nel 213 a.C. (Antioco considerava Apollo il suo dio protettore). Sempre alla celebrazione di motivi propagandistici è stato riportato anche l’originale di uno dei più grandi gruppi giuntici dall’antichità, il cosiddetto Toro Farnese (fig. 8.40, copia romana). Vi sono rappresentati i gemelli Anfione e Zeto, figli di Zeus e di Antiope, che legano Dirce, regina di Tebe, alle corna di un toro selvaggio: il supplizio doveva punirla delle ingiuste persecuzioni che ella aveva inflitto alla loro madre. Il tutto viene ambientato sulle rocce di una montagna, che consente un’impostazione a forma di piramide (già notata in altri gruppi ellenistici). Altra famosa statua è il cosiddetto Principe delle Terme (fig. 8.41), nell’insieme la postura richiama quella di Alessandro con la lancia di Lisippo (fig. 7.19), lo stile lo riporta indubbiamente ad ambiente pergameno della prima metà del secolo II a.C. Potrebbe raffigurare un principe pergameno, ma gli manca la tipica tenia che cinge loro il capo, simbolo del ruolo regale; la somiglianza con Attalo II comunque è notevole, potrebbe quindi trattarsi di lui in età ancora giovane quando non era ancora re. L’altare di PergamoAd Eumene II (197-159 a.C.) si deve la ristrutturazione dell’acropoli di Pergamo, con la costruzione di un muro di cinta e la creazione di una nuova terrazza, subito sotto a quella del santuario di Atena e ad essa collegata attraverso una serie di ambienti. Al centro di questa il re fa costruire un

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gigantesco altare (fig. 8.42, alla sua morte probabilmente non era ancora finito), dedicato a Zeus e a Atena Niceforo (=portatrice di vittoria), perchè celebrasse la potenza che il regno aveva raggiunto con le sue vittorie, ancora sui Galati, ma anche contro i regni vicini. E’ composta da un basamento quadrangolare su cui poggiano 5 gradini, sui quali si eleva uno zoccolo rivestito di marmo, che sorreggeva a sua volta lo spazio destinato ai sacrifici: qui era l’altare vero e proprio, cinto su 3 lati da un portico ionico, che si prolungava verso occidente in 2 ali in modo da fiancheggiare la grande scalinata d’accesso; alla sommità, questa era messa in comunicazione, tramite un colonnato aperto, con lo spazio centrale, che si trovava così ad essere totalmente compreso entro 4 lati di colonne. Dal punto di vista architettonico l’altare rientra nel tipo del grande altare monumentale ellenistico, già utilizzato, ad esempio, per il nuovo Artemision di Efeso e a Magnesia. E’ però assolutamente eccezionale la decorazione: un grande fregio (alto 2,30 metri) correva lungo tutto lo zoccolo, raffigurando su una lunghezza di oltre 120 metri una colossale lotta tra dei e Giganti; un secondo fregio, di dimensioni minori rappresentava sulle pareti interne del portico, che davano sullo spazio centrale, le imprese di Telefo, mitico figlio di Eracle e progenitore della dinastia degli Attalidi; lo stesso altare superiore era riccamente ornato di statue, come pure i tetti dei porticati (fig. 8.43). L’intero fregio è certamente uno dei massimi capolavori dell’arte ellenistica, uno dei perni fondamentali per capirne lo sviluppo. L’intera cosmica lotta è colta in un unico momento e rappresentata attraverso singole monomachie che si succedono con ritmo serrato, in ciascuna, una o più divinità si trovano vittoriosamente opposte ad altrettanti giganti. Tutto il fregio è pervaso da un drammatico movimento, le figure si affollano a riempire tutto lo spazio del rilievo, strabordando addirittura al di fuori del listello di base; la dimensione sovrumana del mito con la caratteristica esasperazione delle masse, dei movimenti, delle espressioni dei volti, ha fatto nascere la definizione di ‘Barocco pergameno’. Le divinità principali sono disposte sul lato orientale, quello opposto alla gradinata, che era però il primo ad essere visto da chi entrava nella piazza del santuario. Qui, le figure divergenti di Zeus e Atena costituiscono un voluto, immediato richiamo al più classico dei modelli, il Posidone e l’Atena del frontone occidentale del Partenone (fig. 8.44). Molto enfatizzati rispetto alla scultura fidiaca sono qui il turbinoso movimento delle vesti e lo spessore delle pieghe, più violento è il possente movimento diagonale del corpo, ancora più segnati ed esageratamente rigonfi sono i singoli muscoli del busto. Alla sinistra di questo primo gruppo, senza soluzione di continuità nella narrazione figurativa, sta quello di Atena che abbatte Alcioneo (fig. 8.45). Anche qui i corpi dei contendenti si dispongono su diagonali fortemente divergenti: la dea afferra per i capelli il mostro alato (fig. 8.46), un serpente lo avvolge nelle sue spire e sta per addentarlo, la sua è un’espressione di intenso, disperato dolore. L’indagine dell’espressione dei volti, già iniziata con Skopas e Lisippo, è qui spinta volutamente all’eccesso. Tutte le divinità dell’Olimpo intervengono nella lotta, tutte con pari vigore, sempre rappresentato con lo stesso stile concitato e corposo. La figura di Artemide (fig. 8.47), ad esempio, nella parte meridionale dello stesso lato orientale, si lancia impetuosamente contro un nemico, calpestando il corpo di un altro avversario già abbattuto, dal fondo emerge il muso di un cane che azzanna alla nuca un gigante anguipede. Molto diverso, più vicino a modelli pittorici, appare invece il fregio minore, con le storie di Telefo (fig. 8.48). Il rilievo è molto meno pronunciato, e i vari personaggi non riempiono tutto lo spazio, ma sono sovente disposti su diversi piani, mentre il fondo è riempito, come nella pittura contemporanea, da elementi paesaggistici, fig. 8.49, qui varie figure si affollano alla costruzione dell’imbarcazione con cui Auge sarà abbandonata al mare, che, lasciate le coste del Peloponneso, la porterà a sbarcare in Misia, la regione a cui appartiene Pergamo. La stessa eroina appare seduta sulle rocce che costituiscono il paesaggio, accanto a lei due ancelle le mostrano degli oggetti, grazie ai quali riconoscerà il figlio che le era nato da Eracle, Telefo, quando questi, divenuto ormai adulto, giungerà a sua volta in Misia. L’intero fregio voleva testimoniare l’ascendenza divina degli Attalidi, attraverso appunto Telefo, loro progenitore e, in quanto figlio di Eracle, discendente diretto di Zeus. Contemporaneamente, voleva dimostrare l’antica origine dei loro rapporti, da una parte, con la Grecia, dall’altra con l’Asia, di cui avrebbero reclamato a buon diritto il possesso. Viene così narrata con le immagini un’intera saga; e per la prima volta episodi successivi, nei quali torna a

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comparire lo stesso personaggio, vengono collegati in un’unica narrazione, come sarà in seguito nel fregio storico romano.

IX. Dal medio Ellenismo all’intervento di Roma (dopo la metà del secolo II a.C.)

Nel 168 a.C., dopo la disfatta subita a Pidna dalle legioni di Paolo Emilio, la Macedonia è il primo dei grandi regni ellenistici a cadere sotto Roma. Una lega delle città greche viene disfatta nel 146 a.C. e la città che ne è a capo, Corinto, rasa al suolo. Stessa sorte toccherà a Cartagine, distrutta nello stesso anno. Roma può ora imporsi nelle interminabili contese interne tra regni ellenistici. Nel 133 a.C. l’ultimo re di Pergamo, Attalo III, muore, dopo soli tre anni Pergamo cadrà sotto il potere di Roma (in questo periodo, le generali disastrose condizioni dell’Asia, provocheranno un grandissimo afflusso di schiavi verso l’Italia). I sentimenti di rivolta del mondo greco contro Roma e i suoi rappresentanti trovano un ultimo paladino nel re del Ponto, Mitridate VII, verrà sconfitto da Lucullo e da Pompeo, cosicchè anche i suoi regni diventeranno province romane (anche Antiochia nel 66 a.C. passerà sotto l’egida romana). Seguiranno nella stessa città di Roma molte guerre civili: tra Cesare e Pompeo, poi contro gli uccisori di Cesare, infine tra Ottaviano e Marco Antonio; nel 31 a.C. con la battaglia di Azio e la conseguente fine di Marco Antonio e di Cleopatra, porterà all’annessione a Roma dell’ultimo erede della compagine di Alessandro, il regno Tolemaico (in questo momento si fa tradizionalmente terminare l’Ellenismo). La tradizione del ‘Barocco pergameno’L’annessione di Pergamo nei domini romani, nel 133 a.C., cioè una sola generazione dopo la costruzione dell’ara, segna certamente la fine del ‘Barocco pergameno’, tanto che a Pergamo, di lì a poco, crollerà tutta la produzione statuaria (da ricordare il Piccolo Donario pergameno, fig. 9.1, 9.2, databile alla fine del III sec. a.C.).Il Laocoonte dei Musei Vaticani (fig. 9.3), venne alla luce a Roma il 14 Gennaio 1506 in un sotterraneo di quelle che erano state le Terme di Tito, presso la Domus Aurea; fu eseguita da tre scultori di Rodi che lavoravano assieme, Agesandro, Polidoro e Atanodoro. Vi si rappresenta la morte di Laocoonte, sacerdote troiano che si opponeva a che il cavallo lasciato dai Greci fosse condotto entro le mura di Troia, e per questo venne stritolato da due mostruosi serpenti usciti dal mare, la statua lo immortala mentre sta cercando affannosamente di liberarsi dalle spire del mostro. Sulla sinistra e sulla destra anche i due figli di Laocoonte, giovinetti rappresentati di diversa età, sono preda dei serpenti. Il tutto si dispone in uno spazio triangolare più che piramidale. Il Torso del Belvedere (fig. 9.4, figura maschile privata del capo, delle gambe e delle braccia), altra famosa statua, è seduta su una pelle ferina su di una roccia. Nel Laocoonte la potente diagonale della gamba sinistra continua nella linea alba, che va a inarcarsi, a causa della brusca sterzata del collo e del capo, strappato all’indietro e verso sinistra; nel Torso del Belvedere, invece, tutto l’addome segue un arco opposto, come per andare a rinchiudersi in avanti concludendosi con il movimento della testa, ancora verso sinistra, come mostrano i pochi resti del collo. La presenza di una pelle ferina fa pensare che la statua potesse raffigurare Eracle, ma dato che potrebbe, invece, trattarsi della pelle di una pantera, il personaggio potrebbe allora essere Marsia, di sicuro è che la lavorazione va ricercata in ambiente pergameno.Dalla caverna di Sperlonga (fig. 9.5, al centro del bacino d’ingresso era lasciata una sorta di piccola isola rettangolare destinata ai banchetti, era la grotta appartenuta all’imperatore Tiberio) è stata rinvenuta, al centro della vasca circolare su di un’isoletta artificiale che fungeva da sostegno, un colossale gruppo scultoreo rappresentante Scilla (fig. 9.6). Il mostro emerge dalle acque e assale la nave di Odisseo, brandendo come arma il timone; il timoniere, caduto sulla prua, cerca disperatamente di sfuggirle aggrappandosi alla nave, ma Scilla l’ha già afferrato con la destra per i capelli e sta per trascinarlo tra i flutti, dove altri compagni di Odisseo sono ormai preda delle teste canine che le spuntano dalle pinne del ventre. La testa del timoniere ricorda, nella sua patetica espressione, quelle dei due figli del Laocoonte. In questo luogo ritroviamo altri due gruppi di statue, rappresentavano l’uno, un eroe che ne trascina un secondo fuori dal campo di battaglia, secondo il

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tipo del cosiddetto Pasquino, qui interpretato come Odisseo che regge il corpo di Achille; l’altro, il ratto del Palladio, cioè il furto dell’antica statua di Atena da Ilio (=Troia), operato da Diomede e da Odisseo. Oltre la vasca circolare, sul fondo della caverna, un piedistallo ospitava il gruppo più colossale. Dominava l’insieme il corpo del ciclope Polifemo (fig. 9.7), steso su di una roccia, addormentatosi per il troppo vino bevuto, come il Laocoonte o l’Alcioneo o il Torso del Belvedere, mostra una potente diagonale che percorre l’intera composizione. Alla sua sinistra, i compagni di Odisseo spingono in direzione del suo unico occhio, il palo appuntito. Dell’eroe ci rimane la testa (fig. 9.8, questa, come le precedenti, sono tutte copie di gruppi bronzei), coperta dal caratteristico pileo, il copricapo del navigante, simile a quella del Laocoonte del Vaticano. Scultura del medio e tardo EllenismoIl mondo ellenistico è sempre più caratterizzato dalla pluralità dei centri di produzione, con la conseguente possibilità di avere contemporaneamente stili diversi nelle officine delle diverse città. Soprattutto nell’ambiente della corte alessandrina, il gusto per il curioso, il sorprendente, il diverso, che caratterizza molta produzione artistica del medio Ellenismo, sembra sposarsi con l’enciclopedismo e l’attenzione all’esotico. Un esempio di queste nuove tendenze è la statua di un vecchio pescatore, che procede piegandosi in avanti, parzialmente coperto da un trasandato mantello, mentre con la sinistra tiene un cesto per il pesce (fig. 9.9). La testa è coperta da un pesante cappello dalla foggia popolaresca e la pelle avvizzita gli ricade sullo scarno petto e dai lati dell’addome. Viene invece riferito generalmente ad ambiente microasiatico un capolavoro del realismo ellenistico di genere bozzettistico, la vecchia ubriaca (fig. 9.10, fine III secolo a.C.). La vecchia siede a terra, con le gambe incrociate, stringendo a sè una grossa fiasca di vino, mostra un ghigno che l’avvicina alle rappresentazioni delle menadi e ancor più dei satiri. Il gusto per il diverso e per l’esotico, non si limita, però, solo all’Egitto tolemaico (affiora già nelle teste dei Galati dei donari pergameni). A distanza di tempo, lo ritroviamo anche in una piccola figura bronzea di fantino (fig. 9.11, della metà del II sec. a.C.), si tratta di un piccolo personaggio di razza nera. In questo periodo il desiderio di sfuggire alle difficoltà del presente diventa ancor più esteso ed evidente, ce ne offre un esempio un rilievo firmato da un Archelao di Priene (fig. 9.12), si rappresenta una scena che si svolge su più registri, uniti da uno stesso ambiente montuoso. Nel registro più in basso è rappresentata l’apoteosi di Omero, alla presenza di sovrani e di varie personificazioni, tra le quali, accanto al trono, quelle dell’Iliade e dell’Odissea, i motivi per cui Omero ora è elevato tra gli dei. Nei due registri superiori si dispongono 9 figure femminili che danno allo scultore l’occasione di variare posizione e uso dei panneggi, talora pesanti, talaltra trasparenti, in un gioco accademico che si rifà di volta in volta a modelli tradizionali. Gli archetipi sono spesso nelle grandi creazioni del secolo IV a.C.. Tra i ‘tipi’ che avranno un seguito e un successo tutto particolare, vi è la cosiddetta Polimnia, che compare quasi al centro del rilievo di Archelao. La figura è stata sicuramente presa a modello per la Polimnia dei Musei Capitolini (fig. 9.13, copia romana), qui è avvolta in un pesante mantello, appoggia i gomiti a un sostegno esterno, in modo da poter così dare un appoggio alla testa, perduta nei suoi pensieri. I ‘tipi’ ormai canonici delle figure panneggiate femminili cominciano a diffondersi anche nell’ambito familiare (es. fig. 9.14). Negli stessi anni si va affermando sempre più l’importanza del privato, sentito non solo come insieme di valori familiari, ma anche come erotismo, protetto da Dioniso e dai suoi culti. Ce ne dà un esempio, fig. 9.15 (copia romana), il gruppo di Eros e Psiche, cioè dell’Amore e dell’Anima pensante, i cui corpi salgono a spirale per ricongiungersi nel bacio finale. Questo rapporto viene spinto all’eccesso da composizioni sempre più complicate, mentre lo scultore cerca di conquistare nello spettatore un’attenzione crescente con l’inserimento di personaggi sempre più sorprendenti (es. fig. 9.16, satiro e ermafrodito). La stessa composizione a spirale, di Eros e Psiche, viene, in seguito, applicata a figure singole, destinate, anche loro, a colpire per il loro particolare erotismo. L’Afrodite Callipigia (fig. 9.19) nasce da una variante che unisce avvitamento a novità, la figura si svela per entrare nell’acqua, lo fa però con una torsione a spirale che cominciando dal piede destro e salendo ai fianchi e al torso si conclude con il braccio sinistro levato e con il volto, girato ormai di 180 gradi rispetto ai piedi. Lo sguardo, rivolto in basso, sembra accompagnare quello dello

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spettatore verso il lato che l’Afrodite Capitolina nascondeva e che, in questa statua, grazie alla rotazione, sembra diventare il maggior protagonista della seduzione della dea. Molto simile la figura dell’ermafrodito (fig. 9.17). Gli stessi soggetti perdono però, avvicinandosi alla fine del secolo, il loro turbinoso, virtuosistico avvitamento, ed è il soggetto che riprende il sopravvento. Si scelgono momenti curiosi, come nel gruppo dell’invito alla danza (fig. 9.18) o dell’Afrodite del sandalo (fig. 9.20). Qui il corpo nudo dell’Afrodite prassitelica è unito a quello di un piccolo Pan, con zampe, corna e muso da caprone, che la sta afferrando per un braccio con il quale lei si copre pudicamente il ventre. Da una parte il brutale desiderio d’unione, dall’altro il ritrarsi, con l’appoggio di una pantofola brandita nella mano destra; tra loro vi è il dio dell’amore che cerca di allontanare Pan. (Altro esempio, fig. 9.21, satiro bronzeo lanciato in una danza sfrenata). Le molteplici possibilità che le composizioni di più corpi, creati sin dal tardoarcaismo, offrono al continuo studio della figura umana e del suo movimento nello spazio vengono sfruttate nel tardo Ellenismo anche per rappresentare scene di palestra. Due esempi: gruppo di lottatori, fig. 9.22, singolo pugilatore, fig. 9.23, in quest’ultimo, nella testa abbondano i particolari realistici (segni delle ferite sono, addirittura, sottolineati da inserimenti di rame). Le case di DeloDopo la battaglia di Pidna e la definitiva sconfitta della Macedonia da parte dei Romani, questi restituirono l’isola ad Atene, con l’intesa di renderla porto franco (166 a.C.). Si trattò di una mossa fatta per contrastare il potere marittimo di Rodi, punendola di un suo presunto avvicinamento alla causa macedone. Di fatto il nuovo porto si sviluppò enormemente, grazie ai nuovi grandi traffici tra Asia e Roma. Sorsero così tumultuosamente nuovi quartieri di ricche case (fig. 9.24), ben diverse dalle case tutte uguali degli isolati di Olinto e di Priene. Questi quartieri si sono rivelati un’inesauribile miniera di conoscenze su un periodo altrimenti non molto noto, quello del medio Ellenismo, che vide l’imporsi di Roma in Oriente. (La prosperità si esaurisce con le guerre mitridatiche e le due feroci espugnazioni dell’88 a.C. e del 69 a.C.). Tra le case spiccano quella detta del Diadumeno, perchè in essa fu rinvenuta una copia del Diadumeno di Policleto, e quella detta dei Commedianti (fig. 9.25, perchè vi si trovano all’interno pitture parietali con scene di teatro); quest’ultima è uno degli esempi più significativi di ricca dimora del medio e tardo Ellenismo, sviluppatasi attorno a una corte centrale porticata. Come sempre nelle città greche, l’aspetto esterno è segnato da lunghi muri compatti in cui si aprono poche finestre, con uno stridente contrasto rispetto alla luminosità degli ambienti interni, che prendono luce dalla corte centrale, e alla ricchezza delle decorazioni. La casa di Hermes, ad esempio, si arrampicava per 4 piani, allungandosi a ogni piano sempre più all’indietro rispetto alla facciata, adattandosi mano a mano al pendio. Il suo cortile centrale diventava come una specie di pozzo colonnato, profondo per tutti i 4 piani (fig. 9.26). La casa appartenuta, come informano le iscrizioni, a Dioscuride e a Cleopatra, cittadini ateniesi, conserva ancora le statue dedicate a se stessi dai due proprietari (fig. 9.14, già precedentemente accennata). Particolarmente consistente il numero dei mosaici rinvenuti qui a Delo. Da una delle case più ricche, detta Casa delle Maschere (così denominata per un altro mosaico con elementi geometrici e maschere teatrali), proviene il mosaico forse più celebre, raffigurante Dioniso sulla pantera (fig. 9.27, sottolinea l’aspetto del favore per l’ambiente dionisiaco, che è presente in tutto l’Ellenismo, e che abbiamo già notato in campo scultoreo).Arte greca per RomaSiamo certamente prima del 70 a.C. quando nasce a Roma il fenomeno delle copie marmoree di celebri originali bronzei greci. Così come avevano fatto i dinasti ellenistici, anche i nuovi vincitori romani iniziano a usare i vecchi tipi classici delle divinità. Il fenomeno comincia con Flaminino e Emilio Paolo, per poi diffondersi nel periodo degli Scipioni. Prendono così forma statue romane ispirate a modelli greci di stampo classico. Un esempio: fig. 9.28 da Delo, pseudo atleta, il corpo è classico di chiara ascendenza policletea nelle forme e nella ponderazione, la testa, invece, mostra un ritratto realistico; quest’eroizzazione di un potente mortale attraverso l’elaborazione di ‘tipi’ divini vuole celebrare il sostituirsi di una nuova aristocrazia ai vecchi dinasti. Sempre a Delo, l’agorà degli Italici presentava parecchie di queste statue che riprendono, o in parte copiano, corpi creati per

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divinità classiche, al fine di ritrarre i vincitori, a cominciare dalla statua di Ofellio Fero (fig. 9.29). Un gusto che viene presto ripreso anche dai comandanti delle ultime sommosse della grecità; così alla statua probabilmente di un generale di Mitridate, che proviene dal Samothrakeion di Delo (fig. 9.30), di tradizione lisippea, fa riscontro la statua del più castigato generale di Tivoli (fig. 9.31), policletea, suo contemporaneo e forse suo avversario. Contemporaneamente, sempre a Delo, numerose officine moltiplicano sia in bronzo che in marmo altri tipi classici, adattandoli a erme, statuette, piedi di tavola, vasi decorati, ogni cosa insomma che possa piacere al nuovo mercato italico per ornare le case e i giardini nel gusto d’una grecità passata. (A Rodi, ma anche Atene, succederà qualcosa di simile). A Roma un artista di nome Pasitele (magnogreco) crea una vera e propria scuola, operante in Italia ma soprattutto a Roma nelle ultime generazioni della Repubblica e ancora agli inizi dell’età imperiale (appartengono alla sua scuola creazioni come: fig. 9.32 Atleta Albani, fig. 9.33 e 9.34 gruppi di Oreste ed Elettra). In conclusione il pregio non sta più nella creazione di tipi nuovi, ma nella citazione di tipi antichi e nella loro reinterpretazione in un’atmosfera rarefatta. Ed è in questo modo che l’arte greca finirà nella Roma di Augusto.La pittura del medio e tardo EllenismoLa piena età ellenistica conosce una serie infinita di variazioni su soggetti curiosi, un pò particolari, attinti dal teatro o dalla strada: scene leggere, divertenti, destinate a colpire lo spettatore. Ad esempio a Pompei in una villa romana vi sono stati ritrovati due quadretti a mosaico, inseriti al centro del pavimento di due ambienti simmetrici presso l’atrio, risalenti con tutta probabilità alla metà del sec. II a.C., come emblemata (=quadretti da inserire successivamente in un pavimento). Il primo quadretto mostra due musicanti ambulanti che, l’uno con nacchere, l’altro con un cembalo, danzano in primo piano, portando una maschera da commedianti e contorcendosi in modo buffo (fig. 9.35), li accompagna con il suono dei flauti una donna. Il secondo riproduce tre donne che indossano maschere teatrali (fig. 9.36). Sicuramente microasiatico, per l’esattezza di Pergamo, è anche l’unico mosaicista a essere ricordato per le sue creazioni e la sua abilità: Soso, vissuto nella prima metà del secolo II a.C. Plinio gli attribuisce la creazione di una famosa composizione, riprodotta e variata all’infinito per tutta l’antichità: quella delle colombe che, posatesi sull’orlo di un bacile, si abbeverano specchiandosi nell’acqua (fig. 9.37). Accanto a questa ‘natura viva’, allo stesso Soso viene attribuita da Plinio la ‘natura morta’ con i resti del banchetto (fig. 9.38), qui sono riprodotti con fedeltà frammenti di crostacei, gusci di molluschi, pezzi di frutti e di altri cibi, persino un topolino è accorso per l’occasione. Questa attenzione per i particolari si intreccia con un altro fenomeno caratteristico del pieno Ellenismo: la puntigliosa riproduzione della natura nei suoi aspetti più minuti. Nascono veri e propri cataloghi illustrativi, il più celebre è il catalogo dei pesci, riprodotto numerosissime volte sui mosaici pavimentali (fig. 9.39). Parallelamente nascono cataloghi di altri animali: papere delle diverse razze e altri animali più esotici, che riempiono le acque di altri mosaici con soggetti nilotici (fig. 9.40). Di ben maggiore impegno, anche se inseribile nella stessa linea, è uno dei mosaici più celebri, quello di Palestrina. Esso è comunque un grande mosaico di età ellenistica (fine del sec. II a.C.), la maestranza proviene da Alessandria che si ispira a modelli creati nell’Egitto tolemaico (fig. 9.41). Lo scorrere del Nilo è infatti il soggetto principale: dal basso all’alto è rappresentato tutto il suo scorrere, risalendo dal porto di Alessandria attraverso zone sempre meno abitate da uomini e sempre più popolate da animali esotici e talora fantastici, rappresentati con minuziosità e con il loro nome greco, sino alle selvagge terre della Nubia e a lontani monti, dai quali il fiume sgorga, aprendosi la strada tra le rocce (fig. 9.42). L’ampio inquadramento geografico mostra, come a volo d’uccello, tutta la valle del Nilo; lo sfondo è formato da un gran numero di vivaci vignette (es.: arrivo al porto di Alessandria fig. 9.42 b, banchetto agreste fig. 9.43 a, contadini al lavoro fig. 9.43 b, templi tolemaici fig. 9.44). La raffigurazione di paesaggi visti dall’alto nascerebbe proprio nell’ambiente alessandrino in questo periodo.Tazza Farnese. L’abilità nel riprodurre nei minimi particolari la realtà la ritroviamo anche in altri tipi di oggetti: gioielli, gemme, paste vitree. Uno dei gioielli più impressionanti a tal proposito è un grande cammeo in agata certamente prodotto nell’Egitto tolemaico (fig. 9.45), ancora una volta il

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soggetto è la valle del Nilo, usata però questa volta per far riferimento a un’apoteosi fortemente simbolica. Scavato a tazza ha nel tondo interno una raffigurazione, al centro della quale sta accovacciata una sfinge rappresentante Osiride, su questa siede la dea Iside che si volge verso altri due personaggi (la personificazione delle stagioni della piena del Nilo e delle messi). Dietro Iside vi è Oro-Trittolemo, sulla sinistra siede, invece, la personificazione del Nilo con la cornucopia, simbolo dell’abbondanza. In alto due giovinetti in volo simboleggiano i venti efesii (favoriscono la feconda piena del Nilo). Le divinità hanno tratti fisiognomici: Osiride forse è Tolomeo V Epifane, Iside forse è Cleopatra, Oro-Trittolemo forse è Tolomeo VI. Si tratterebbe, allora, di un mirabile gioiello dal forte contenuto propagandistico (databile attorno al 180-170 a.C.).Verso il 150 a.C. nasce all’interno della pittura un’altra nuova tendenza, che vede una forte preferenza per il soggetto del ‘paesaggio’, questo diventa, infatti, il grande protagonista, i personaggi umani o animali che vi vengono inseriti, o anche i soggetti architettonici, ne costituiscono sono il pretesto. Esempi: fig. 9.46 capretta spinta verso un santuario inserita in un grande paesaggio, fig. 9.47 scene mitiche tratte dall’Odissea (da una casa sull’Esquilino), fig. 9.48 mito di Perseo e Andromeda (da una pittura della villa augustea di Boscotrecase), la fanciulla qui è ancora legata al grande faraglione centrale, in basso spunta dalle acque un drago marino che le fa la guardia, Perseo giunge in volo, minuscola figurina nella vastità del paesaggio marino (vi compaiono altre scene all’interno di questa più grande, rappresentanti Perseo in altre situazioni).

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