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RIASSUNTO DEL TESTO: Visioni sul futuro delle organizzazioni. Persone e impresa nell’’era della complessità” di P. Di Nicola, S. Rosati A cura di F. Verrelli 1 CAPITOLO 1 Centralizzazione e decentramento organizzativo nelle nuove organizzazioni. Nel corso del tempo, il concetto e la struttura dell'organizzazione hanno subito profondi mutamenti. Seguendo una prospettiva diacronica, all'inizio il problema è di far funzionare al meglio la grande fabbrica industriale. Poi, ci si concentra sulle tematiche sociologiche di funzionamento degli uffici, e delle enormi burocrazie pubbliche. Infine, il ciclo si conclude con il tentativo di ragionare sulla forma e la struttura dell'organizzazione “ottimale” per la fase post - fordista e sulle contaminazioni esistenti tra sociologia, ingegneria, economia e studi culturali. Nella fase post-fordista, e dell'economia della conoscenza, le organizzazioni sono attraversate da nuovi fermenti, che fanno emergere pulsioni contraddittorie: per i manager pressati dai proprietari, vi è la necessità di concentrarsi sulla redditività del capitale e di intensificare lo sfruttamento delle conoscenza -esplicite ed implicite- delle risorse umane; ciò, a differenza del passato, può avvenire esclusivamente in modo soft, favorendo l'immersione delle persone nella cultura aziendale. Dunque, occorre trasferire ai dipendenti i modelli di riferimento culturali che descrivono l'impresa; ciò facendo, però, si introduce il seme del mutamento dell'organizzazione stessa, in quanto il trasferimento dei modelli culturali innesca processi di feedback. Per questo, le imprese moderne devono essere studiate mediante nuove chiavi e competenze: economiche, psicologiche, antropologiche. Non si deve trascurare, inoltre, l'effetto della crisi sui modelli organizzativi (licenziare o no? Mantenere le professionalità strategiche? Ridurre l'orario di lavoro? Che ruolo per il sindacato?). Per comprendere le ragioni per cui le aziende si dotano di strutture organizzative decentrate, è necessario focalizzare le tappe principali della storia dei modelli organizzativi. Alla fine dell' 800, negli Stati Uniti, i progressi tecnologici generarono un progressivo ingrandimento dei complessi industriali. Le scoperte tecnologiche della prima metà dell' Ottocento, come l'elettricità, il cavo telegrafico sottomarino, la radio, la ferrovia transcontinentale, l'aeroplano, i tram elettrici, il motore a combustione interna, la refrigerazione, hanno costruito a tappe forzate la società industriale, in cui venivano prodotte sempre più merci da sempre più lavoratori. Se a metà dell' '800 erano poche le fabbriche che potevano contare più di un migliaio di dipendenti, verso la fine del secolo questo ordine di grandezze era sempre più frequente. Le fabbriche erano gestite ancora come officine semiartigianali: i capireparto sceglievano il personale in maniera arbitraria, stabilivano altrettanto arbitrariamente la produzione che ogni squadra doveva assicurare e contrattavano una retribuzione per sé e per i propri assistenti. Come sostiene Taylor, era il “regno dell'empiria”, in cui l'intera gestione della produzione era di fatto lasciata nelle mani degli operai, e il management si limitava a controllare le quote di produzione concordate. Henry Ford, un capitalista innovatore che operava nel nuovo e difficile mercato dell'automobile, fu il primo a comprendere la necessità di cambiare. Nel 1908 fu lanciata sul mercato la Ford T, una vettura a basso costo ed estremamente standardizzata, che ogni lavoratore poteva acquistare: fu un successo senza precedenti, ma divenne indispensabile riorganizzare la fabbrica → nel 1913, Ford ed i suoi ingegneri svilupparono un sistema di produzione in cui gli chassis delle auto

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RIASSUNTO DEL TESTO: “Visioni sul futuro delle organizzazioni. Persone e impresa

nell’’era della complessità” di P. Di Nicola, S. Rosati A cura di F. Verrelli

1

CAPITOLO 1

Centralizzazione e decentramento organizzativo nelle nuove organizzazioni.

Nel corso del tempo, il concetto e la struttura dell'organizzazione hanno subito profondi mutamenti. Seguendo una prospettiva diacronica, all'inizio il problema è di far funzionare al meglio la grande fabbrica industriale. Poi, ci si concentra sulle tematiche sociologiche di funzionamento degli uffici, e delle enormi burocrazie pubbliche. Infine, il ciclo si conclude con il tentativo di ragionare sulla forma e la struttura dell'organizzazione “ottimale” per la fase post-fordista e sulle contaminazioni esistenti tra sociologia, ingegneria, economia e studi culturali. Nella fase post-fordista, e dell'economia della conoscenza, le organizzazioni sono attraversate da nuovi fermenti, che fanno emergere pulsioni contraddittorie:

per i manager pressati dai proprietari, vi è la necessità di concentrarsi sulla redditività del capitale e di intensificare lo sfruttamento delle conoscenza -esplicite ed implicite- delle risorse umane;

ciò, a differenza del passato, può avvenire esclusivamente in modo soft, favorendo l'immersione delle persone nella cultura aziendale.

Dunque, occorre trasferire ai dipendenti i modelli di riferimento culturali che descrivono l'impresa; ciò facendo, però, si introduce il seme del mutamento dell'organizzazione stessa, in quanto il trasferimento dei modelli culturali innesca processi di feedback. Per questo, le imprese moderne devono essere studiate mediante nuove chiavi e competenze: economiche, psicologiche, antropologiche. Non si deve trascurare, inoltre, l'effetto della crisi sui modelli organizzativi (licenziare o no? Mantenere le professionalità strategiche? Ridurre l'orario di lavoro? Che ruolo per il sindacato?). Per comprendere le ragioni per cui le aziende si dotano di strutture organizzative decentrate, è necessario focalizzare le tappe principali della storia dei modelli organizzativi. Alla fine dell' 800, negli Stati Uniti, i progressi tecnologici generarono un progressivo ingrandimento dei complessi industriali. Le scoperte tecnologiche della prima metà dell' Ottocento, come l'elettricità, il cavo telegrafico sottomarino, la radio, la ferrovia transcontinentale, l'aeroplano, i tram elettrici, il motore a combustione interna, la refrigerazione, hanno costruito a tappe forzate la società industriale, in cui venivano prodotte sempre più merci da sempre più lavoratori. Se a metà dell' '800 erano poche le fabbriche che potevano contare più di un migliaio di dipendenti, verso la fine del secolo questo ordine di grandezze era sempre più frequente. Le fabbriche erano gestite ancora come officine semiartigianali: i capireparto sceglievano il personale in maniera arbitraria, stabilivano altrettanto arbitrariamente la produzione che ogni squadra doveva assicurare e contrattavano una retribuzione per sé e per i propri assistenti. Come sostiene Taylor, era il “regno dell'empiria”, in cui l'intera gestione della produzione era di fatto lasciata nelle mani degli operai, e il management si limitava a controllare le quote di produzione concordate. Henry Ford, un capitalista innovatore che operava nel nuovo e difficile mercato dell'automobile, fu il primo a comprendere la necessità di cambiare. Nel 1908 fu lanciata sul mercato la Ford T, una vettura a basso costo ed estremamente standardizzata, che ogni lavoratore poteva acquistare: fu un successo senza precedenti, ma divenne indispensabile riorganizzare la fabbrica → nel 1913, Ford ed i suoi ingegneri svilupparono un sistema di produzione in cui gli chassis delle auto

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venivano attaccati ad una catena, lungo la quale si muovevano; il montaggio, diviso in 45 operazioni, veniva effettuato in altrettante “stazioni” ove l'autovettura si fermava per il tempo strettamente necessario. In più, le macchine sostituirono gli operai specializzati ovunque fosse possibile ed in fabbrica entrarono lavoratori privi di ogni esperienza lavorativa, retribuiti con ottimi stipendi al di fuori di ogni trattativa sindacale. In questo modo, Ford fa nascere un sistema organizzativo fortemente accentrato, in cui tutti hanno un ruolo e delle responsabilità individuali. La fabbrica basata sui sistemi scientifici di organizzazione, tuttavia, si rivelò presto un luogo conflittuale. Il primo sciopero è datato 1911, ed avvenne nell'arsenale militare di Watertown. Secondo Aitken, da questo evento vennero alla luce tre fenomeni importanti:

gli operai erano spaventati dall'espropriazione delle loro competenze, in quanto l'introduzione del cronometro in azienda minacciava la loro autonomia;

i metodi scientifici di organizzazione non consideravano la cultura sedimentata degli operai;

il cronometro non misurava tempi davvero scientifici, ma era basato su misurazioni discutibili e soggettivi.

L'inchiesta che seguì lo sciopero di Watertown, pur riconoscendo l'indebolimento causato dall'organizzazione scientifica ai lavoratori, ritenne il taylorismo un metodo che aumentava la produttività del lavoro, dunque andava perseguito. Ancor più dure furono le reazioni al fordismo: quando la catena di montaggio venne introdotta in ogni medio-grande fabbrica statunitense, gli operai si accorsero del loro grande potere anti-produttivo, in quanto potevano bloccare la produzione colpendo soltanto una sua piccola parte. Si diffuse lo sciopero “a gatto selvaggio” (wildcat strike), articolato in fermate improvvise e a scacchiera di diversi reparti nell'arco di una stessa giornata o settimana. Altre forme di protesta più dure erano il boicottaggio e il sabotaggio della produzione. Nonostante le varie crepe mostrate dal modello taylor-fordista, esisteva una valida alternativa organizzativa alla fabbrica pensata come un enorme ingranaggio, tipica del '900? Nel 1973, Ernst Schumacher suggerisce la riorganizzazione delle grandi aziende in piccole entità funzionali, organizzate sul principio del mercato, coniando lo slogan “piccolo è bello”. Ciò può avvenire mediante cinque principi:

1. principio della supplementarietà → il livello organizzativo più alto non può invadere lo spazio decisionale dei livelli minori;

2. principio di rivendicazione → le unità inferiori vanno sempre difese, e solo chi non raggiunge gli obiettivi di profitto può essere sanzionato;

3. principio di identificazione → ogni unità deve avere una propria contabilità dei profitti e delle perdite;

4. principio di motivazione → il management deve porre attenzione alla motivazione dei dipendenti;

5. principio dell'assioma di mezzo → un assioma è un principio che viene assunto come vero perché ritenuto evidente o perché fornisce il punto di partenza di un quadro teorico di riferimento: sceglierlo a metà strada tra alta direzione ed unità operative facilita lo sviluppo di un sistema di valori e decisioni concordate.

Michael Priore e Charles Sabel furono altri due studiosi che si occuparono del superamento del taylor-fordismo, nei primi anni '80. Secondo la loro visione, nell' '800 si fronteggiavano due forme di sviluppo tecnologico: da un lato, la produzione artigianale richiedeva macchinari adeguati a sviluppare le abilità dei lavoratori e a flessibilizzare la produzione; dall'altro lato, la tecnologia della produzione di massa richiedeva operai specializzati, in grado di produrre un elevato numero di

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pezzi uguali con il minimo apporto umano. A queste due “scuole” corrispondevano filosofie produttive alternative, l'una basata su un universo di piccoli produttori interconnessi tra di loro, l'altra che invece immaginava le grandi fabbriche automatizzate. Il fatto che l'America intraprese ben presto la seconda via, con l'avvento del fordismo, non significa che la produzione artigianale scomparve: essa rimase sul mercato e si espanse in altre parti del mondo, come Giappone, Italia, Germania. Tali aziende artigianali hanno, tra i loro punti di forza, la specializzazione e la flessiblità delle lavorazioni, che permette di adeguarsi molto più rapidamente ai mutamenti della domanda, e l'esistenza di una ampia rete familiare: un vero sistema di alleanze tenute insieme dai legami di sangue. Secondo Priore e Sabel, nell'epoca in cui scrivono, si è davanti ad un Second Industrial Divide: un momento in cui, come ai tempi della produzione industriale, occorre decidere dove andare. Continuare con le logiche fordiste o sterzare verso un sistema più flessibile? I due autori suggeriscono di optare per la seconda via, per cui occorreranno due innovazioni necessarie:

l'appiattimento delle gerarchie, al fine di delegare potere ai livelli più bassi. Così, è possibile avvicinare le decisioni ai mercati che cambiano;

incentivare la nascita di strutture di distretto industriale, in modo tale che le piccole aziende possano operare sinergicamente nel territorio, ottimizzando i processi di business (tramite l'istituzione di un sistema collaborativo basato sulla specializzazione di ciascun componente).

A partire dal primo shock petrolifero del '73, le imprese occidentali devono far fronte ad una situazione ambientale molto instabile, causata da diversi fattori:

il cambiamento tecnologico → chiede alle aziende rapidi mutamenti e risulta critico per quelle che non riescono ad adattarvisi;

l'internazionalizzazione dei mercati → determina un allargamento concorrenziale;

l'evoluzione della domanda → crescenti aspettative. Le aziende che vogliono competere con successo, in sostanza, devono creare una struttura organizzativa fortemente orientata all'innovazione continua, e ripensare al modo in cui si attuano i processi di business. L'idea della “reingegnerizzazione dei processi” (o Business Process Reengineering -BPR-) è recente e si può riassumere in quattro punti essenziali:

1. oggetto del BPR sono i processi, intesi in senso organizzativo come sequenze di attività che generano prodotti con livelli di prestazione dati. I processi interessano normalmente organizzazioni diverse e/o parti di una stessa organizzazione;

2. il tipo di intervento auspicabile consiste in una riprogettazione radicale, senza pensare a migliorare in modo incrementale l'esistente, ma potendo ridefinire completamente i processi oggetto d'intervento;

3. il risultato atteso dall'intervento è un miglioramento globale rispetto ai livelli di prestazione dei processi prima che fossero oggetto dell'intervento, proprio per la sua radicalità;

4. i risultati sono ottenuti soprattutto grazie all'introduzione di tecnologie informatiche e di telecomunicazioni dopo aver ripensato e ridisegnato radicalmente i processi.

A cavallo tra gli anni '70 e '80, molte aziende furono costrette a scegliere tra il fallimento certo e il cambiamento radicale. Tuttavia, come tutti i nuovi sistemi, anche il BPR si mostrò di difficile applicazione, e i manager si trovarono ad affrontare un problema: il reengineering aveva modificato sia il loro modo di lavorare, sia i processi esistenti, eliminando ogni riferimento teorico precedente. La risposta manageriale si articolò su tre piani: l'eliminazione di tutti i processi inutili; l'aggregazione di molte singole attività in macro task; la diffusione delle informazioni tra le

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persone coinvolte nel medesimo processo. In particolare, l'ultima innovazione fece nascere un nuovo modello di team di lavoro, basato sul coordinamento a rete tre i diversi processi. Il BPR, ovviamente, non costituiva l'unica risposta alle turbolenze del mercato e la sua applicazione ha comportato diversi svantaggi: non solo il licenziamento massiccio, ma anche il fallimento di alcune aziende che avevano scelto la strada del BPR. Da più parti si è proposto, in alternativa, il modello giapponese e della Toyota in particolare → secondo i giapponesi, non serve rivoluzionare l'impresa se le cose vanno male, ma è preferibile fare aggiustamenti di manutenzione costanti, coinvolgendo nel miglioramento organizzativo le persone che fanno parte dell'impresa. Nascono i Circoli di Qualità, ovvero strutture di lavoratori che si riuniscono per discutere del miglioramento di un prodotto o servizio. Poi, sono centrali alcune idee che faticherebbero a trovare accoglimento nelle imprese occidentali: il fatto che la forza viene dal basso (ciò che conta è il lavoro delle persone, e non le decisioni dei manager); la considerazione che bisogna sempre lavorare per l'eliminazione degli sprechi (filosofia del muda); la preferenza per aziende snelle, a differenza di quelle grasse occidentali (perché sovraccariche di procedure e processi ridondanti e inutili). Fino agli anni '80, dunque, la tecnologia è solo uno dei fattori che ha contribuito alla destrutturazione dei tradizionali sistemi organizzativi. Entrano in gioco, invece, fattori come l'economia della flessibilità, la terziarizzazione, il cambiamento della struttura sociale. Butera ha sottolineato che l'attenzione delle imprese si è spostata dall'economia di scala a quella derivante dalla flessibilità, soprattutto a causa dell'emersione di una domanda di mercato più ampia e articolata. Si assiste al declino delle strutture gerarchiche e all'affermarsi di strutture reticolari e policentriche, insieme all'esigenza di valorizzare funzioni produttive immateriali e di sviluppare le funzioni finalizzate all'integrazione dell'intero sistema aziendale (pianificazione, innovazione ecc). Lo sviluppo tecnologico ha facilitato questo processo di innovazione e ristrutturazione aziendale, sia sul piano produttivo (con l'automazione di numerosi processi lavorativi e quindi la facilitazione di attività ad elevato contenuto informativo) sia sul piano strategico (con la possibilità di decentrare funzioni, attività e processi e di integrare il sistema aziendale interno, le strutture delocalizzate, i suoi referenti e l'ambiente esterno). Si pone, però, un problema, ovvero di trovare un giusto punto di equilibrio tra la necessità di governare l'impresa dall'alto verso il basso e quella, opposta, di trasferire potere verso i livelli bassi. Secondo Thomas Malone, la differenza e il punto di equilibrio tra accentramento e decentramento la decidono i costi delle tecnologie ICT. Occorre distinguere però tra IT e C: quando il prezzo delle tecnologie per il trattamento delle informazioni si riduce, è possibile archiviare dati e notizie localmente, quindi si può decentrare; tuttavia, sono i costi delle comunicazioni che fanno la differenza sui sistemi organizzativi. Sono possibili tre configurazioni:

1. strutture decisionali indipendenti e decentrate → sono tipiche di sistemi tecnologici in cui i costi delle comunicazioni sono alti. In questi casi, mantenere le informazioni delocalizzate e gestirle perifericamente elimina le spese di comunicazione. Per esempio, un produttore di vernice può fissare i prezzi dei suoi prodotti semplicemente calcolando con precisione il prezzo a cui dovrà venderlo lui: studiare i prezzi in altri luoghi, comparare prodotti, raccogliere statistiche nazionali servirebbe solo ad aumentare costi ma non a migliorare le vendite;

2. strutture decisionali centralizzate → sono tipiche di sistemi tecnologici in cui i costi delle comunicazioni si riducono, quindi è possibile accentrare le informazioni e instaurare un

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sistema unitario che governi l'organizzazione e i mercati di riferimento. Ad esempio, al produttore di vernice converrà fissare un prezzo di vendita valido a livello nazionale, raccogliendo informazioni sui gusti e le propensioni di spesa dei clienti. Questo perché, in un sistema a basso costo di informazione e comunicazione, il cliente sarebbe informato sul prezzo “equo” del bene che lo interessa e troverebbe conveniente acquistarlo per posta o andare in altri negozi.

3. Strutture decisionali connesse decentrate → quando i costi di comunicazione crollano, come con Internet e le reti globali, alle aziende conviene interconnettersi e decidere localmente, in base però a conoscenze sull'intera rete. Ogni decisione presa da ogni manager di uno dei punti della rete si basa su una grande quantità di informazioni raccolte a livello globale e gestite con raffinati sistemi di ricerca e sistematizzazione delle conoscenze. Il nostro venditore di vernici deciderà il prezzo in base ai rappresentanti che riforniscono i negozi, dotati di palmari per annotare in tempo reale ordini e rimanenze e le informazioni provenienti dai punti vendita, anche per avere un feedback su gusti dei clienti e pericolosità dei competitors.

Secondo Butera, nel 1992, nelle organizzazioni era in atto un passaggio dal modello meccanico o del castello a quello organico o della rete. Nel primo modello, funzioni, compiti, strutture organizzative, mansioni, procedure sono massimamente specificati e razionalmente interconnessi attraverso un piano preordinato; nel modello organico, invece, le singole parti che lo compongono sono sistemi aperti che funzionano autonomamente e sono collegate tramite scambi informativi ed economici, interagendo fra di loro e modificandosi sia per adattarsi all'ambiente esterno sia per input interni. Rientra in questo modello l'impresa-rete, che sono di diverso tipo (dalle aziende che decentrano attività verso imprese subfornitrici alle filiere o costellazioni di imprese) ma hanno caratteristiche comuni: sono imprese ibride, dai confini non delineati, che fanno della relazione tra imprese il vero regolatore dei processi economici e produttici e che hanno come scopo centrale il perseguimento della flessibilità, dell'innovazione e della tempestività di risposta alle complessità del mercato. Dunque: impresa rete come un sistema di nodi, ovvero parti costitutive di una rete organizzativa. Tuttavia, Malone fa notare che, per decidere se decentrare o meno, occorre rispondere a tre domande precise:

quali sono i benefici del decentramento organizzativo? Il decentramento porta generalmente tre bonus: incoraggia le persone più creative a partecipare attivamente alle decisioni; permette a molte menti di lavorare contemporaneamente; flessibilizza i processi decisionali. Ciò assume importanza in alcuni settori, come nell'economia della conoscenza, ma meno in altri.

Come verranno compensati i costi del decentramento? I costi afferiscono a 1) la difficoltà di decidere rapidamente ed efficacemente; 2) l'impossibilità di garantire che le decisioni siano qualitativamente valide; 3) la necessità di trovare sistemi per trarre beneficio dalle economie di scala; 4) trovare una metodologia per avvantaggiarsi della condivisione delle conoscenze tra i diversi livelli e luoghi dell'impresa.

Si può garantire che i benefici derivanti dal decentramento saranno maggiori dei costi? Non esiste una regola: i manager devono costruirsi una propria visione del mondo, bilanciare vantaggi e svantaggi e poi decidere nel modo migliroe.

Esempio → quando, nel '93, Gerster prese in mano l'IBM, dovette fare una scelta strategica di fondo. Molti analisti pensavano che per salvare l'azienda fosse necessario smembrare il dinosauro in tante compagnie più piccole, ottenendo flessibilità, velocità di reazione sul mercato e

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motivazione imprenditoriale. Gerster fece l'opposto, mantenendo la IBM una grande azienda unitaria e puntando proprio sulla dimensione globale per offrire ai clienti un sistema integrato che offrisse tutte le decisioni in materia di ICT. Ci si può chiedere se, spingendo ancor più avanti il processo di decentramento, non si possa raggiungere un livello atomistico in cui il team di lavoro o il singolo lavoratore diventano un'unità d'impresa a sé stante. L'impresa, in questo scenario, diventerebbe virtuale (si ridurrebbe al minimo la fisicità), mentre la struttura organizzativa sarebbe sostituita da una nebulosa di competenze professionali, aggregate su spefici progetti. Tale ipotesi si concretizza specialmente in alcune tipolofie di professionisti, specialmente nel settore dell'economia della conoscenza, che somigliano più a lavoratori autonomi che a dipendenti di un'impresa. Malone e Laubacher, nel 1997, lanciano l'ipotesi dell'avvento di una “economia degli e-lancers” → ovvero, nelle aziende in rete, ben presto le regolari relazioni di lavoro (codificate da un contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato) saranno sostituite da una economia basata sul lavoro autonomo svolto in via elettronica. Le aziende, sempre più decentrate, troveranno conveniente appaltare il lavoro a consulenti esterni, con i quali tenere contatti in via telematica. Tali e-lancers, dal canto loro, lotteranno per la conquista delle commesse su di un mercato del lavoro virtuale, ove gli stock di lavoro verranno messi all'asta su Internet e assegnati al miglior offerente. Il rischio più grave di tale scenario di economia decentralizzata è che i processi di business diventino caotici e fallimentari, e le persone si scoprano molto indifese senza i programmi di welfare organizzati dalle grandi imprese. Infine, la scomparsa dell'ambiente comunicativo e sociale rischia di alientare le persone, facendole produrre a minor costo, ma con maggiori difficoltà e sforzi cognitivi. Secondo una ricerca, tuttavia, tali ipotesi sono destinate a rimanere teoriche per quanto riguarda l'Europa. Infatti:

le aziende, pur offrendo e richiedendo ai dipendenti schemi, orari flessibili e diversificati, non erodono il rapporto dipendente ma, semplicemente, le modalità di erogazione del lavoro tradizionale si adeguano ai nuovi requisiti dell'impresa;

il lavoro autonomo è in crescita ovunque, ma in particolare nelle nazioni meno sviluppate tecnologicamente e nei settori tradizionali. Il lavoro dipendente a vita rimane lo strumento principe per legare le migliori professionalità all'impresa.

La maggioranza dei telelavoratori passa fuori dall'ufficio solo uan parte del tempo di lavoro (uno o due giorni a settimana).

In definitiva, in Europa non sembrano scomparire i tradizionali sistemi organizzativi e non si introduce la zero-organization. Le imprese continuano a poggiare sulle proprie gambe.

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CAPITOLO 2 Il cambiamento organizzativo: cos'è e come può avvenire.

Il cambiamento organizzativo (CO) è una delle principali sfide per le organizzazioni e per le teorie che si cimentano nel comprenderlo. Questo tema, pur così centrale, è esoterico e considerato in divenire. È possibile parlare di cambiamento organizzativo come di un processo che:

porta a modifiche incrementali o radicali, mutamenti grandi o piccoli all'interno delle organizzazioni;

implica l'attuazione di uno stato di discontinuità rispetto alle caratteristiche preesistenti, sia per le variabili organizzative che per le loro reciproche relazioni.

Le organizzazioni, di norma, cambiano meno di quanti ci si potrebbe aspettare. Ciò accade per tre motivi principali:

1. gli scambi materiali e/o simbolici, sia interni che esterni, rappresentano potenziali vettori di cambiamento che dovrebbero spingere l'organizzazione verso uno stato diverso da quello precedente. Queste forze esercitano la loro forza mediante molteplici soggetti interni ed esterni all'organizzazione, ed avvengono su una pluralità di piani. Come nel tiro alla fune, la pluralità delle forze tende ad annullare i potenziali vettori di cambiamento. Il cambiamento si presenta, quindi, come “oscillazioni continue, costanti e multiple” intorno ad un punto che, comunque, non rappresenta l'equilibrio.

2. Un'organizzazione è definita da un modello orginario, ovvero il sistema di ruoli e la cultura organizzativa che definiscono “chi fa che cosa”, “come”, “perchè”, “per chi”. Nel momento di avvio, quindi, l'organizzazione definisce una sorta di imprinting che tende a perdurare nel tempo. Affinché si verifichi un cambiamento, occorre formare nuovi sistemi di coerenza alternativi a quelli del modello originario.

3. Le organizzazioni sono strumenti tecnici, disegnate come mezzi per raggiungere determinati fini; le istituzioni, invece, solo in parte possono essere ingegnerizzate e si distinguono dalle organizzazioni per il fatto di incorporare dei valori, ossia per avere un'identità distintiva che non le fa essere dei meri e anonimi strumenti tecnici. Le istituzioni, qundi, possono perdere il loro carattere strumentale: infatti, l'istituzionalizzazione è il prencipale meccanismo della persistenza di particolari forme organizzative → una volta istituzionalizzati, alcuni elementi diventano non più mezzi per raggiungere determinati fini, ma fini in sé, dunque il cambiamento non è visto come urgente o necessario perché l'esistenza di queste organizzazioni avviene a prescindere dalle condizioni di efficacia ed efficienza.

Si inizia a parlare di organizzazioni che cambiano tra gli anni '50 e '70 del secolo scorso, quando alcuni studiosi si chiedono come un'organizzazione possa rapportarsi con la crescente incertezza e con la complessità dell'ambiente. Vanno in crisi i presupposti teorici della scuola classica (organizzazione=macchina) ed entità strutturate secondo una one best way → tali sistemi meccanici non possono essere concepiti prendendo in considerazione anche il cambiamento. Pertanto, nell'approccio contingente, al contrario di quello classico, prevale una progettazione finalizzata a raggiungere soluzioni soddisfacenti e non ottime e uniche → le variabili e gli elementi dell'organizzazione devono essere scelti in modo da raggiungere un'armonia o una coerenza interna, e al contempo una coerenza di fondo con l'ambiente. L'approccio contingente, dunque, ricerca soluzioni organizzative contingenti e situazionali e considera le organizzazioni come sistemi aperti, cioè chiamate a stabilire un rapporto di equilibrio con l'ambiente al pari di altri organismi,

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pena la loro stessa sopravvivenza. Un possibile punto debole dell'approccio organicistico è nel guardare alle organizzazioni in modo troppo oggettivo e razionale, non considerandole anche come fenomeni di produzione sociale in cui è importante l'azione umana. Inoltre, descrive l'organizzazione come un sistema dipendente soprattutto da fattori esterni, dunque considera il cambiamento come un adattamento passivo alle configurazioni ambientali. Non si considera che il cambiamento può essere anche endogeno. Al contrario Maturana e Varela considerano ogni sistema vivente come un sistema interattivo autonomo e organizzativamente chiuso, che fa riferimento solo a sé stesso. Declinando questa visione alle organizzazioni, si può affermare che l'intero sistema organizzativo è chiuso e i cambiamenti possono essere determinati solo da fattori interni al sistema stesso. Quest'approccio, basato sull'autopoiesi, considera i sistemi caratterizzati da rapporti chiusi come dotati intrinsecamente della capacità di autoriprodursi. Esistono due possibili letture del tema del governo del cambiamento: la prima guarda al cambiamento come un obiettivo da raggiungere attraverso precisi e individuabili momenti (goal view); la seconda vede il cambiamento come un processo (process view). I modelli di goal view hanno una valenza prevalentemente descrittiva, in cui il cambiamento è considerato un evento pianificabile introdotto nell'organizzazione da un agente del cambiamento. Il momento di discontinuità organizzativa, secondo lo psicologo sociale Lewin, viene descritto come un processo complesso, che si innesca tra due momenti di stabilità. Infatti è necessario che, affinchè in un'organizzazione si verifichi un cambiamento, si attraversino 3 fasi: 1) scongelamento → si tratta della situazione per rompere l'equilibrio e la disponibilità a

modificare lo status quo, sia creando spinte a favore del cambiamento, sia riducendo le forze resistenti;

2) trasformazione → è un processo di ristrutturazione, anche cognitiva, che deve avvenire affinché l'organizzazione cambi;

3) ricongelamento → è la stabilizzazione dei sistemi di comportamento alternativi ai precedenti, per la costituzione di un nuovo momento di equilibrio. Secondo questa prospettiva, il cambiamento è un evento controllabile e un obiettivo da raggiungere atttraverso eventi pianificati. I modelli di processo view, invece, esprimono una visione che pone al centro dell'analisi una prospettiva che considera l'organizzazione come un insieme di processi, e non come una struttura razionale e meramente strumentale. Punto di osservazione privilegiato ono i soggetti e le interazioni, le decisioni e i conflitti, le culture e le pratiche concrete. Un'organizzazione apprende, e quindi cambia, quando gli individui al suo interno:

sperimentano una situazione problematica e la indagano;

esperiscono la sorpresa della mancata corrispondenza tra i risultati attesi e i risultati effettivi dell'azione;

reagiscono innescando un processo di pensiero e nuovi corsi di azione. Perché l'apprendimento divenga organizzativo, deve radicarsi nelle immagini dell'organizzazione conservate nelle menti dei suoi membri e/o negli artefatti cognitivi (le mappe, le memorie e i

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programmi) radicati nell'ambiente organizzativo. Agyris e Schon distinguono due tipi di apprendimento:

single loop, ovvero apprendimento a circuito singolo, che corregge le stretegie e le procedure operative, non domandandosi il perché avviene l'errore e lascia invariate le premesse di fondo, i riferimenti valoriali e normativi e le cornici cognitive;

double loop, ovvero apprendimento a circuito doppio, che trasfoma queste premesse ed è intrecciato alla sperimentazione e all'acquisizione di modi inediti di fare e di conoscere. In questo modo, l'organizzazione impara ad imparare.

Una strada alternativa per esplicitare il collegamento tra i processi di apprendimento e quelli di cambiamento organizzativo è quello di rifarsi al concetto di idea organizzativa → l'organizzazione è sempre e comunque un sistema di idee (Normann). L'idea organizzativa è costituita da una serie di elementi rintracciabili rispondendo alle seguenti domande: per chi opera un'organizzazione (qual'è il suo pubblico/mercato di riferimento)? Cosa fa (qual'è il suo prodotto/servizio)? Come lo fa (qual'è la sua struttura organizzativa)? Normann distingue tra due tipi di cambiamento o variazioni nell'idea organizzativa:

variazioni all'interno della stessa idea organizzativa → è un cambiamento interpretabile in termini di aggiustamenti parziali, limitati e contingenti all'interno di uno schema di azione che rimane sostanzialmente inalterato (simile all'apprendimento a circuito singolo);

riorientamento dell'idea organizzativa → un cambiamento molto più radicale, che ricerca condizioni di coerenza interna e congruenza esterna e coinvolge tutte le simensioni dell'agire organizzativo (apprendimento a circuito doppio).

Il cambiamento, cioè il ripensare l'idea organizzativa, è stimolato sia da dinamiche esterne (che Normann definisce forze trainanti), sia da dinamiche interne (forze interne o deliberate). Le forze provenienti dall'esterno possono essere definite come minacce o opportunità; quelle interne, invece, sono legate alla volontà e alla intenzionalità degli attori che operano nelle organizzazioni, i quali, per proporre questa trasformazione nell'idea organizzativa, dovranno creare attorno a sé una coalizione sufficientemente forte. Secondo Nonaka e Takeuchi, uno dei limiti delle visioni sull'apprendimento organizzativo è che lo ritengono un processo adattivo di cambiamento, influenzato dall'esperienza passata. Il rischio è di non riconoscere che l'apprendimento organizzativo genera nuovi presupposti, quindi produce conoscenza. È necessario leggere il cambiamento organizzativo come un processo di apprendimento che, da un lato, è volto a creare collettivamente un senso, dall'altro, è volto alla produzione di conoscenze che risulta essere l'esito del processo stesso. In conclusione, guardare al cambiamento organizzativo attraverso le lenti dell'apprendimento e della creazione della conoscenza fa sì che il focus si sposti da un evento pianificato introdotto da un agente del cambiamento a una lettura che prende in considerazione le azioni e le interazioni organizzative. Si propone una visione del cambiamento come un fluire aperto di processi che fenerano conoscenza attraverso un rapporto aperto e negoziale tra organizzazione e individuo, quindi la visione process view permette di concentrare l'attenzione anche sulla dimensione partecipativa e sul coinvolgimento dei soggetti. Le differenze nelle modalità di navigazione orientali e occidentali sono lo specchio di quello che può accadere nelle origanizzazioni quando si gestisce un cambiamento:

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I capitani delle navi occidentali rispettano la rotta prestabilita e, se si presentano eventi che distologono dal cammino tracciato, si sforzano di governarli;

I capitani orientali, invece, iniziano il viaggio dandosi un obiettivo piuttosto che stabilendo un piano. Per indirizzare la nave, utilizzano le informazioni provenienti dall'ambiente in cui si trova la nave.

Ciò che è importante sottolineare, mediante questi esempi, è la differenza esistente tra la concezione di un cambiamento e, invece, la sua realizzazione effettiva. A causa delle incertezze e delle turbolenze dell'economia della flessibilità, i cambiamenti pianificati lasciano il passo ad urgenze non preventivabili. Si possono individuare, così, diversi tipi di cambiamenti in base al loro “grado di imprevedibilità”:

opportunity-based changes → cambiamenti introdotti volontariamente dalle organizzazioni in risposta ad un'opportunità o ad un successo inaspettato;

anticipaded changes → trasformazioni organizzative che non sono pianificabili;

emergent changes → cambiamenti spontanei, strettamente connessi alla necessità di innovare.

Questi tre tipi di cambiamenti possono essere descritti con la metafora dell'orchestra jazz (ogni musicista è libero di improvvisare, perché tutti conoscono e si muovono nella stessa struttura ritmica e armonica, condividendo l'idea sottostante a questo tipo di approccio alla musica), per rispondere in modo innovativo ed efficace alle condizioni del contesto in cui operano. Tali visioni si contrappongono alla metafora dell'orchestra sinfonica (che rappresenta l'organizzazione post-capitalista) → a seconda delle diverse composizioni, possono esserci centinaia di musicisti che suonano insieme: il direttore (= top management) è l'unico punto di riferimento, con cui ogni musicista si confronta direttamente. Dunque → coloro che suonano in un'orchestra sinfonica contribuiscono con ampi margini di discrezionalità al raggiungimento di un obiettivo conosciuto e chiaro fin dall'inizio (come nella navigazione orientale). Caso Zeta Software Company → esempio di come, nella vita delle organizzazioni, pianificazione ed improvvisazione si mescolano insieme ed innescano e trascinano momenti di discontinuità ed aggiustamenti. Occorre considerare due dimensioni del cambiamento: quella strutturale e quella gestionale.

L'aspetto strutturale conduce a riflettere su quanto la forma che l'organizzazione ha assunto sia adeguata e coerente in vista degli obiettivi, e delle relazioni che sussistono tra le diverse parti. Ansoff e Brandenburg hanno evidenziato come la capacità di adeguamento ai diversi ambienti è strettamente legata alla capacità dell'organizzazione di essere sempre più flessibile (in grado di cambiare e di sviluppare processi di apprendimento).

L'aspetto gestionale, invece, considera e fa emergere i soggetti coinvolti nel processo del cambiamento e i diversi ruoli che questi ricoprono. Crozier e Friedberg, in particolare, sottolineano che è possibile sviluppare un'azione di mutamento ragionevole solo attivando un'azione sia sugli uomini sia sulle strutture (o sia sugli attori che sul sistema). Questo perché l'organizzazione è fatta di persone che si dispongono in un certo tipo di relazione sociale secondo le diverse norme verso cui è orientata l'azione organizzativa. Quindi → organizzazione come terreno non trasparente di rapporti di potere, influenze, patteggiamenti e calcoli, all'interno della quale gli attori organizzano le proprie azioni perseguendo obiettivi che, seppur condivisi, possono essere contraddittori tra loro (chi opera nelle organizzazioni conserva sempre un margine di discrezionalità). La lettura

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gestionale o strategica permette di comprendere l'esistenza di “scarti” tra ciò che è legittimato e codificato dall'organigramma e dalle regole ufficiali, e quelli che, invece, sono i processi reali rispetto ai quali si orientano e si formano le strategie degli attori.

Dunque: il cambiamento è letto non solo in termini di organizzazione del lavoro e di processi operativi, ma anche riferendosi alla distribuzione delle responsabilità e dei centri decisionali e, pertanto, in relazione al potere. Dal punto di vista degli attori, il cambiamento è un processo di modifica della routine e di apprendimento da situazioni nuove. Secondo l'analisi di Crozier e Friedberg, però, per gli attori organizzativi il cambiamento è pericoloso nel momento in cui mette in discussione le sue fonti di potere e la sua libertà d'azione, facendo scomparire le parti di incertezza che controlla. Per questo, gli attori valutano i rischi che un cambiamento potrebbe apportare alla loro posizione strategica nell'organizzazione. Gli stessi membri riluttanti al cambiamento potrebbero accettarlo qualora intravedano l'ampliamento dei propri margini di incertezza e quindi un rafforzamento del loro potere. Secondo questa prospettiva, quindi → il cambiamento organizzativo può essere letto in chiave politica, prendendo in considerazione sia i rapporti di forza tra i diversi soggetti sia gli interessi e i benefici che entrano in gioco nei momenti di cambiamento. Esempio → Poste Italiane, Battistelli ripercorre il cambiamento ancora in atto di una grande azienda monopolista che passa da una gestione pubblica ad una privata. Secondo l'autore, affinché il percorso di cambiamento abbia successo non basta ridisegnare la struttura organizzativa ma occorre la partecipazione degli attori, dal punto di vista psicologico, culturale e politico. Nella ricerca, si è ipotizzato che tale partecipazione non fosse scontata né naturale, quindi si è indagato su “chi” pensava “che cosa” rispetto al mutamento, coinvolgendo soprattutto i quadri (cioé, le figure collocate a livello intermedio nella scala gerarchica, scegliendo loro proprio per la posizione mediana e ambigua e quindi, secondo l'autore, testimoni privilegiati del cambiamento organizzazivo che imponeva di risemantizzare il proprio sistema di coerenze passando dai valori tipici di un modello burocratico a quelli propri di un'organizzazione competitiva e al servizio del cliente). I risultati della ricerca indicavano l'esistenza di atteggiamenti dei soggetti organizzativi posizionati su un continuum persuasione/non persuasione → a un estremo vi sono i “proattivi”, convinti della necessità del cambiamento e pronti ad impegnarvisi; all'altro estremo, vi sono i “reattivi”, coloro non affatto persuasi e resistenti esplicitamente al cambiamento. Tra i due poli, si collocano gli “adattivi”, incerti sul da farsi e in attesa di essere persuasi dall'una o l'altra posizione. La capacità esplicativa di tale ricerca è utile per individuare le variabili che maggiormente influenzano il posizionamento dei soggetti lungo il continuum della persuasione/non persuasione: infatti, si evidenzia che le capacità di attivare cambiamenti adattivi o innovativi si confronta con la difficoltà di formare nuovi sistemi di coerenze che sostituiscano i precedenti. Tale difficoltà cresce all'aumentare dell'età ed è legata anche alla professionalità: infatti, il personale amministrativo si mostra più ostico al cambiamento (in quanto legato a leggi, regolamenti, rigidità); quello tecnico, invece, favorisce una propensione maggiore al rinnovamento e all'apprendimento. Cosa, dunque, condiziona la propensione a partecipare al cambiamento organizzativo? Secondo il modello di massa critica, è necessario che il processo di trasformazione coinvolga un numero sufficiente di individui, che da un certo punto in poi tendono ad autoalimentare il processo di cambiamento → un fenomeno che coinvolge parti di un insieme non può verificarsi finché un certo numero di queste parti non raggiunge una massa critica che concorrerà alla sua realizzazione.

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Massa critica, quindi, come soglia quantitativa minima oltre la quale si ottiene un cambiamento organizzativo → per vincere la battaglia del cambiamento, è determinante la disponibilità degli adattivi ad essere persuasi dalle ragioni del cambiamento organizzativo. Pertanto, questa prospettiva sottolinea la centralità della dimensione relazionae e intersoggettiva → il cambiamento non avviene tramite un processo top-down, ma solo mediante relazioni organizzative complesse all'interno delle quali gli attori possono cogliere le opportunità in termini di strategia e di ampliamento dei margini di incertezza, accogliendo il cambiamento e modificandone la direzione e l'intensità, mediante un gioco negoziale di azioni e reazioni tra i promotori del cambiamento e i soggetti. In questo processo, un elemento fondamentale è l'attivazione di uno spazio partecipato che incida sulle pratiche di lavoro, sui significati attrivuiti ad esso, sulla cultura e sul sistema di idee. Pertanto, un processo di cambiamento che tenga in considerazione l'aspetto gestionale può essere letto attraverso una serie di dimensioni quali:

la dimensione strategica-operativa → relativa alla capacità di rappresentare l'eventuale punto di arrivo e le azioni che possono condurre a tale traguardo;

la dimensione cognitiva → relativa alla comprensione, da parte dei soggetti, delle motivazioni che guidano il cambiamento;

la dimensione emotiva → volta a disinnescare le resistenze al cambiamento attivando processi volti alla cooperazione;

la dimensione motivazionale → finalizzata a far comprendere le ragioni del cambiamento;

la dimensione relazionale → relativa al contesto organizzativo e sociale. Dunque: il fenomeno del cambiamento organizzativo si può osservare da diversi punti di vista, senza ricorrere a visioni semplificate ed univoche. I diversi approcci (modello dello scongelamento/trasformazione/ricongelamento, cambiamento=apprendimento organizzativo e creazione di conoscenza, il modello improvvisato di cambiamento della Zeta Company) non devono essere considerati come assoluti, ma devono essere situati in prospettiva come letture alternative e complementari → ogni progetto di cambiamento non può essere letto in una visione meccanica, formale e di sistema, ma deve prendere in considerazione anche l'ambito dell'organizzare, dei processi di produzione di senso che gli attori mettono in atto nel loro agire organizzativo. Organizzazione e organizzare sono due facce della stessa medaglia: la prima fa da sfondo alle pratiche di negoziazione che operano sul terreno dell'organizzare. All'interno di queste, gli attori scelgono e producono conoscenza negoziando il loro posto nel sistema organizzativo.

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CAPITOLO 3 Dinamiche relazionali e processi di innovazione organizzativa.

I sistemi e le dinamiche relazionali intra ed extra organizzative devono essere posti al centro degli studi delle organizzazioni. Infatti, i mutati contesti organizzativi li rendono leve fondamentali dei processi di cambiamento e di innovazione delle imprese contemporanee. La comprensione di queste trasformazioni deve comprendere una riflessione sui luoghi organizzativi in cui prendono vita tali processi relazionali, e sul loro ruolo di spazi di generazione e condivisione di conoscenze, in una prospettiva di crescita collettiva e apprendimento organizzativo. Mediante l'approccio prossimale, le organizzazioni sono concepite come il frutto di un insieme di dinamiche relazionali, abbandonando l'idea che siano fenomeni statici e isolati e, invece, abbracciando un approccio all'analisi dei contesti organizzativi dinamico e fluttuante. Dunque: dall'organizzazione all'organizzare, inteso come un processo sociale adattivo, nel corso del quale “forme intersoggettive creano, preservano e implementano le innovazioni che nascono dal contatto”. In altri termini, “il processo di creazione e di utilizzo della conoscenza si realizza simultaneamente all'attività di organizzazione”. La prospettiva di osserazione dell'agire relazionale a livello organizzativo, dunque, partirà dalla dimensione micro dei gruppi di lavoro, poi si sposterà sulle più ampie comunità di pratica che attraversano trasversalmente le organizzazioni, sino ad arrivare ai network di relazioni (comunità distribuite, X teams e reti professionali di impresa) che scavalcano i confini organizzativi, abbracciando la dimensione esterna. Finalità del percorso: evidenziare che le diverse realtà relazionali sono accomunate dalla logica dello scambio, della condivisione e della partecipazione reciproca. L'organizzazione, valorizzando queste dinamiche, può innescare un processo virtuoso di generazione e sviluppo del suo capitale intellettuale. Cos'è il capitale intellettuale? Ne esistono diverse definizioni:

Stewart → una risorsa collettiva che comprende l'insieme di tutto ciò che sanno i lavoratori di una certa organizzazione. Questo sapere non è solo dell'individuo, ma è attribuibile all'organizzazione nella sua interezza, perché è composto dall'insieme dei brevetti, dei procedimenti, delle competenze, delle tecnologie, delle informazioni su clienti e fornitori e dell'esperienza possieduta dall'azienda. Dunque, egli considera il capitale intellettuale come la somma di esperienza e strumenti in grado di incrementare l'insieme del sapere stesso.

Edvinsson e Malone → per loro, il capitale intellettuale è composto dal capitale umano (= la somma di abilità, conoscenze, esperienze, skill, valori, cultura e filosofia propri di ogni persona, il c.d. Capitale pensante) più il capitale strutturale (=lo sforzo del management di trattare la conoscenza nell'organizzazione e di trasformarla in rendimento e proprietà, è l'insieme di mezzi, strumenti e procedure in grado di supportare lo sviluppo e l'espressione delle potenzialità individuali, il c.d. Capitale pensato).

Sveiby → distingue il capitale tangibile dal capitale intangibile. Quest'ultimo sarebbe composto da struttura interna (brevetti, concetti, modelli, sistemi amministrativi, reti informatiche, spirito e cultura organizzativa), struttura esterna (relazioni con stakeholders,

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marchi, reputazione, immagine dell'organizzazione), competenze delle persone (capacità, abilità sociali, esperienza, valori ed istruzione, insomma tutto ciò che appartiene all'individuo).

Le realtà organizzative conducono gli individui a vivere in una pluralità di situazioni relazionali, ovvero in diversi gruppi di lavoro → ogni organizzazione, infatti, può essere vista come l'insieme delle vicende di molteplici gruppi, diversamente articolati e intrecciati tra loro nella ricerca di sinergie collegate a obiettivi e compiti lavorativi. Nel tempo, il passaggio da una struttura organizzativa verticalizzata a forme organizzative orizzontali ha modificato ruolo e fisionomia dei gruppi → dal gruppo-squadra, inteso come formalizzato, dai compiti rigidamente suddivisi e dai processi lavorativi sottostanti ai ritmi delle macchine, si è passati al gruppo-cellula vitale e processuale dell'organizzazione. Tali gruppi decidono come organizzare il lavoro al proprio interno, divengono fattori di flessibilità e integrazione organizzativa e, inoltre, rappresentano lo strumento attorno al quale si genera il sistema organizzativo informale (il vero punto di differenza organizzativa di ogni impresa rispetto alle altre). Dunque, è comprensibile che il gruppo divenga una tra le variabili di studio più interessanti per osservare le dinamiche relazionali organizzative come luogo di scambio di informazioni e trasmissione di valori e codici condivsi, dunque di generazione di cultura organizztiva. Allo stesso tempo, è difficile contestualizzare mediante categorie concettuali fisse e definitive una realtà talmente composita. Uno dei primi tentativi di sistematizzazione del concetto di gruppo è di Lewin → lo considera come qualcosa di diverso dalla somma delle singole parti che lo compongono, la cui essenza è costituita dall'interdipendenza tra i suoi membri. Dunque, già si intravvede una definizione lontana dalla visione semplicistica di gruppo come mero aggregato di persone. Barnard, poi, si interessa delle problematica dei gruppi in maniera sistematica, inseriti cioè nelle dinamiche relazionali → secondo questo studioso, l'organizzazione è un processo associativo e collaborativo, che può soddisfare i principi di efficacia ed efficienza solo con l'armonizzazione degli aspetti individuali (motivazioni) con quelli cooperativi (organizzazione). Tuttavia, esistono dei fattori di instabilità che incidono sull'efficacia dei sistemi cooperativi, ad esempio i cambiamenti ambientali e quelli degli obiettivi dell'azione organizzativa. Tali fattori devono essere affrontati e continuamente incorporati dai sistemi cooperativi. Schein, allo stesso modo, evidenzia che l'efficacia di un gruppo dipende da tra variabili fondamentali, che possono generare momenti di tensione:

fattori ambientali → aspetti legati al clima organizzativo (strutturazione del lavoro, orari, spazi..);

fattori di partecipazione → legati alla composizione del gruppo (livello di omogeneità culturale e di comunicazione);

fattori dinamici → legati alla storia del gruppo e dell'organizzazione di riferimento. In sostanza → il gruppo è un sistema complesso. Al suo interno, gli elementi dinamici che lo compongono devono essere continuamente negoziati e organizzati per soddisfare sia i bisogni di adattamento individuale, sia le esigenze di integrazione organizzativa. In questo senso, il processo di costruzione di un gruppo è determinato non solo dall'iterazione tra le parti (cioè dal legame tra gli appartenenti al gruppo) ma sopratutto dalla loro piena integrazione (cioé il momento in cui si assiste all'avvio di un processo di scambio finalizzato: in questo momento il gruppo lavora congiuntamente, i membri condividono il senso di appartenenza, si scambiano idee e conoscenze, ricevono feedback, prendono decisioni congiunte).

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Il concetto di comunità di pratica si diffonde nel momento in cui le organizzazioni comprendono la centralità dell'apprendimento organizzativo nei più ampi processi di cambiamento e innovazione. Questo perché l'apprendimento è legato alla capacità delle organizzazioni di stimolare situazioni relazionali che prevedano una partecipazione attiva dell'individuo → l'apprendimento è un'esperienza attiva di coinvolgimento, entro dinamiche di relazione e rielaborazione dell'esperienza in specifici contesti di azione, appunto la pratica. Dunque, l'apprendimento è considerato un sistema di partecipazione sociale fondato sulla pratica e sulla combinazione di diversi processi, come l'acquisizione di competenze situate, la costruzione dell'identità individuale e sociale, l'attribuzione di significato all'esperienza, il riconoscimento di essere parte di un insieme che condivide nella pratica saperi, valori, linguaggi, identità. Il concetto di comunità di pratica è introdotto da Wenger e Lave sul finire degli anni '80. I due autori lo definiscono come “gruppi di persone che condividono un interesse o una passione per qualcosa, e che apprendono interagendo regolarmente”. Ne emerge una forma di socialità fondata sulla condivisione di una pratica comune → l'apprendimento non è più generato da una relazione speciale tra un esperto e un novizio, ma è un processo sociale di partecipazione più complesso, che coinvolge la relazione tra il novizio e gli altri membri del gruppo, la pratica, la cultura del gruppo. Il conoscere, secondo la comunità di pratica, è distribuito all'interno delle relazioni che definiscono la comunità e non è localizzabile nei singoli attori. La COP è una realtà trasversale a situazioni lavorative e organizzative concrete, vi possono partecipare soggetti che ricoprono posizioni lavorative diverse in contesti organizzativi diversi → è proprio questa molteplicità degli ambiti di appartenenza a rappresentare un fattore di stimolazione dello sviluppo e dell'arricchimento della pratica, in termini di contenuti ed ambiti di interesse. In queste comunità, le persone non lavorano insieme ogni giorno. Ciononostante, il valore che ricevono proviene proprio dall'interazione informale, dallo scambio di informazioni, dal confronto su aspirazioni, bisogni ed esperienze. Il valore dell'interazione è funzionale alla costruzione di un corpus di conoscenze e competenze, di relazioni personali, di forme strutturate di interazione, di un comune senso di identità. La COP non è uno strumento del lavoro quotidiano! Gli elementi caratterizzanti una COP sono tre:

il dominio → cioè il campo tematico attorno al quale si crea una specifica identità comunitaria, si tratta degli interessi condividi dai membri della comunità, che li spingono a collaborare e ad apprendere reciprocamente. Dunque, il campo tematico legittima la comunità, le finalità e il suo valore, sia agli occhi dei membri che degli attori esterni.

La comunità → è l'architettura relazionale, ovvero la struttura di relazioni ed interazioni basati su rispetto e fiducia reciproci. In base a questa struttura, i membri si impegnano in attività e generano processi di interdipendenza (mutualità). In particolare, la comunità si fonda su fiducia, senso di appartenenza, condivisione.

La pratica → è il patrimonio specifico di conoscenze condiviso e aggiornato dalla stessa comunità, dunque si differenzia dal campo tematico perché è proprio delle idee, degli strumenti, delle informazioni, dei linguaggi, dei materiali e delle esperienze condivise dai membri.

Come abbiamo visto, la COP non è finalizzata necessariamente alla realizzazione di una specifica attività o processo ma si concentra sui processi di generazione della conoscenza. Ciò non vuol dire che i suoi membri non siano in grado di perseguire obiettivi specifici, ma soltanto che i suoi membri sono concentrati sull'apprendimento. In questo si differenzia dai dipartimenti funzionali,

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dai gruppi operativi, dai gruppi di progetto. Inoltre, la COP è organizzata intorno ad un'azione condivisa rispetto alla quale i membri possono identificarsi e agire in maniera reciproca. Per questo, la comunità di prativa è diversa anche dai gruppi di interesse e dai network informali, che sono reti di relazione poco strutturate e mutevoli. Due processi fondamentali caratterizzano la comunità di pratica:

il processo di partecipazione → deriva dal senso di appartenenza tra i mebri della comunità e si identifica con la pratica sociale;

il processo di reificazione → coincide con la definizione di idee, valori e conoscenze generate dall'interazione tra i membri della comunità.

L'interazione tra i due processi permette sia di valorizzare il contributo di ciascun membro, sia di arricchire e rinnovare il repertorio di pratiche condivise e il patrimonio di conoscenze della comunità. I membri della COP non partecipano, però, tutti con lo stesso livello di partecipazione. Infatti, si possono classificare in base ai diversi livelli di interesse:

membri core → gruppo di piccole dimensioni che partecipa attivamente alla pratica, è il cuore della comunità e coordina le attività;

membri attività → sono gli attori regolarmente coinvolti nelle attività della comunità;

membri periferici → sono le persone che osservano le dinamiche di relazione e lo svolgimento della pratica, ma non partecipano regolarmente;

outsiders → sono i membri potenziali, che esprimono interesse nei confronti della pratica ma non partecipano.

Sebbene le COP nascano spontaneamente, la loro evoluzione e persistenza dipende da una configurazione organizzativa in grado di aiutare i membri a far crescere la comunità, favorendo lo sviluppo di condizioni favorevoli. L'organizzazione, quindi, deve partire dalla ricerca di nicchie informali di relazioni presenti al suo interno, quelle comunità tacite ancora ignorate o ignote. Il tipo di relazione che si può instaurare tra comunità e organizzazione è diverso, e principalmente di 4 tipi:

tolleranza → l'organizzazione non impedisce la presenza di aggregazioni sociali informali e spontanee;

riconoscimento → l'organizzazione riconosce la COP;

progettazione → l'organizzazione prevede al suo interno degli spazi di creatività in cui inserire COP;

coltivazione → l'organizzazione prevede specifiche azioni a sostegno della vitalità e del valore delle COP.

Allo stesso modo, possono individuarsi 4 livelli di evidenza delle COP all'interno delle organzizzazioni:

1. esplicito → la COP esiste e l'organizzazione ne è pienamente consapevole; 2. segmentato → la COP non è agita, ma l'organizzazione può individuarla; 3. implicito → la COP non è agita, ma è potenzialmente attivabile se si verificassero le

condizioni organizzative favorevoli; 4. tacito → l'organizzazione esiste ma non è conosciuta all'organizzazione.

Diversi autori si chiedono se sia possibile attivare un'azione di progettazione pianificata delle comunità di pratica, dal momento che esse nascono generalmente in maniera informale. Dunque, costruire una COP significa non inventare qualcosa che non esiste, ma forgiare un potenziale in essere, portare alla luce opportunità derivanti da una pratica. Tuttavia, la fase di

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costruzione da sola non è sufficiente: è necessario lo sviluppo di un sistema intersoggettivo di percezioni e azioni e la creazione di un senso di consapevolezza della collettività dell'apprendimento all'interno della pratica. Esistono due modelli che descrivono le fasi di coltivazione di una COP:

il modello di Wenger, Mcdermott e Snyder individua 5 fasi di sviluppo di una COP: 1. potenziale → gli individui cominciano a intravedere altre persone con interessi comuni, non

esiste ancora una struttura; 2. coalescenza → i membri iniziano a procedere insieme verso la definizione della pratica,

degli obiettivi, delle funzioni della comunità, degli spazi di interconnessione; 3. maturità → è la fase attiva, in cui gli attori individuano artefatti e strumenti a supporto

dell'azione e della comunicazione; 4. gestione → la comunità consolida le forme di gestione della conoscenza condivisa e della

pratica, che ha raggiunto un buon livello di consapevolezza tra i membri; 5. trasformazione → si assiste alla tensione tra il tentativo della comunità di chiudersi in sé e

quello di aprirsi verso nuove idee e nuovi membri.

Il modello di Plaskoff individua, allo stesso modo, cinque stadi di costruzione di una COP attraverso il modello APPLE:

1. valutazione (assessment) → si tratta della fase di raccolta di informazioni su una comunità esistente o potezniale, per comprendere se è possibile procedere verso una sua costruzione ed orientamento. Alcuni criteri permettono di determinare il livello di prontezza di una comunità, ovvero il suo livello di maturità, la dispersione geografica, la funzionalità della tecnologia a supporto e il valore del business. Altre tre varibili chiave sono l'identià della comunità, la passione e l'interesse verso la pratica e la propensione alla condivisione da parte dei membri.

2. Pianificazione e preparazione (planning and preparation) → è una fase critica, che si compone di tre azioni principali: a) costruzione di un core group che imposti il funzionamento della comunità e diffonda la cultura comunitaria; b) lo sviluppo della struttura comunitaria; c) lo sviluppo di una forte rete di relazioni.

3. Lancio, stabilizzazione ed evoluzione (launch, establishment and evolution) → si tratta di raggiungere quattro obiettivi principali: a) reclutare nuovi membri e coinvolgere di più quelli già partecipanti; b) testare l'appeal della comunità; c) rivedere l'impianto della comunità; d) consolidare le responsabilità del core group nel facilitare l'intersoggettività della comunità.

L'allargamento dei confini organizzativi ha condotto Wenger, Mc Dermott e Snyder ad estendere il concetto di comunità di pratica e a ragionare sul fenomeno delle comunità di pratica “distribuite”. Gli elementi che le caratterizzano sono la presenza di confini molteplici, la distanza tra le parti del sistema, le ampie dimensioni, la presenza di affiliazioni organizzative e di differenze culturali. I membri sono spesso centinaia o migliaia, e tale ampiezza impatta sulla struttura della rete e sulle modalità di relazione interpersonale → sono presenti problemi di coordinamento e integrazione tra i diversi obiettivi e le priorità, così come difficoltà di memoria della stessa esistenza della comunità, che è meno presente nella percezione dei suoi stessi membri. A ciò, si aggiungono le differenze culturali per l'appartenenza a contesti professionali ed organizzativi profondamente diversi, che possono impedire la costruzione di un sistema di significati e valori comuni che, generalmente, si sviluppano grazie ad un sistema semantico condiviso → dunque, le comunità distribuite sono caratterizzate da molteplici punti di vista, interessi, proprità ed aspettative, ma allo stesso tempo questi aspetti sono difficilmente

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negoziabili, a causa della distanza che rende difficili gli incontri e gli scambi privati (spazi in cui solitamente si costruiscono la maggior parte delle relazioni di fiducia). Wenger, McDermott e Snyder, dunque, propongono quattro azioni chiave che consentono di far fronte a tali difficoltà:

ridurre le distanze → sia geografiche, sia di affiliazione, sia culturali, per stimolare il coinvolgimento attivo di tutti i membri;

integrare la dimensione locale e quella globale → in questo senso, un ruolo cruciale è svolto dalle sub-comunità, ovvero da quelle microcomunità in cui avvengono connessioni dirette tra i membri. Solo attraverso esse è possibile entrare in contatto con la più ampia rete globale. Allo stesso modo, un tassello fondamentale è il ruolo del coordinatore, che deve essere un ponte di collegamento tra le diverse parti del sistema;

aumentare la visibilità della comunità → mediante gli strumenti ICT, che permettono momenti di interazione sincrona ed asincorna, a prescindere da vincoli spazio-temporali;

creare ambienti comunitari privati → per favorire connessioni dirette e personalizzate tra i diversi memebri, ad esempio con la partecipazione a gruppi tematici o con incontri diretti con altri attori.

In sintesi, le comunità distribuite si configurano come vere e proprie reti di pratica ove la presenza di connessioni più blande rispetto alle più piccole COP è un problema risolvibile con la presenza di perni connettori tra le molteplici sub-comunità. Tali comunità distribuite possono amplificare i risultati dei processi di condivisione che avvengono all'interno delle singole unità di pratica, superando la logica locale e proiettando l'azione delle pratiche ad una dimensione globale. Il contesto economico attuale richiede team non eccessivamente focalizzati sulla dimensione interna (pena il loro irrigidimento entro le proprie procedure e la perdita della capacità di adattamento, flessibilità e innovazione). Per questo, nascono nuovi team orientati verso l'esterno, ovvero gli X-Teams, strutture dinamiche e flessibili capaci di ottenere elevate prestazioni. Alla base del loro successo vi sono delle caratteristiche essenziali:

i membri di un X-Team operano ai confini del gruppo e interagiscono sia verso l'interno sia verso l'esterno. Le attività esterne principalmente svolte sono quella diplomatica (per valorizzare la reputazione del gruppo e dei suoi membri, raccogliere risorse, confrontarsi con i competitors), quella di scouting (per reperire competenze ed esperienze, raccogliere informazioni, indagare mercati ed attività dei concorrenti), quella di coordinamento (mediante il supporto della negoziazione tra gruppi e lo scambio di feedback);

ciononostante, i processi di integrazione e di gestione della dimensione interna al gruppo non è meno importante. I meccanismi di coordinamento principali all'interno degli X-Teams sono tre: 1) gli incontri integrati → volti alla condivisione di informazioni e conoscenze raccolte esternamente per svilupparle e valorizzarle nel team; 2) i processi decisionali trasparenti → per garantire uniformità e condivisione degli stessi obiettivi da parte di tuttti i membri del gruppo; 3) i processi di pianificazione flessibile → scedenze e attività devono essere pianificate in real time, applicando il principio del just in time.

Anche negli X-Teams, le forme di partecipazione al gruppo sono eterogenee. I partecipanti possono ricoprire ruoli diversi all'interno di tre livelli di partecipazione: 1) il livello core → trasferiscono la storia e l'identità del team, creano la strategiea e definiscono le decisioni chiave; 2) il livello operativo → è composto di individui che hanno il compito di svolgere concretamente le attività del gruppo; 3) il livello periferico → apporta specifiche competenze alle attività del gruppo, quindi i membri di questo livello cambiano se l'attività

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prevalente si modifica. Dunque → la prospettiva di lavoro degli X-Teams, diversamente dai gruppi di lavoro tradizionali, è orientata alle conoscenze e alle risorse provenienti dall'ambiente esterno. Per questo, non tutti gli ambienti organizzativi sono idonei alla loro realizzazione. Tre aspetti sono fondamentali per poter procedere all'implementazione degli X-Teams:

1. la presenza di una struttura organizzativa piatta, per gestire imprenditorialmente risorse e relazioni con gli stakeholders;

2. la dipendenza dell'organizzazione da informazioni distribuite esternamente e soggette a rapidi cambiamenti;

3. l'interconnessione dell'attività del gruppo con processi realizzati esternamente. Solo in queste condizioni, la presenza di un X-Team può dare vita a vere reti prifessionali di imprese → caratterizzate dalla presenza di professionisti che intessono relazioni dentro e fuori l'organizzazione di appartenenza. Tali relazioni si basano sia su valori ed obiettivi organizzativi, sia individuali. Perdono importanza la gerarchia e le procedure. Secondo la teoria ECT (economia dei costi di transizione), nel clan il rapporto di scambio tra impresa ed individuo si fonda su un elevato livello di reciprocità e su un forte senso di appartenenza e di consivisione di valori; nel mercato, invece, tale rapporto di basa sulla logica della convenienza reciproca e della ricompensa. Nella rete professionale, lo scambio si basa sul trasferimento di competenze professionali con diversi livelli di complessità. In questo modo le reti professionali sostituiscono ai vantaggi remunerativi l'interesse a sviluppare competenze per accrescere la professionalità dell'individuo (quindi si differenzia dal clan, in cui i vantaggi remunerativi si concretizzano nel lungo periodo a seguito della fedeltà dimostrata). Allo stesso modo, si differenziano dal mercato, in cui la retribuzione è immediata, perché sul lungo periodo è possibile accrescere il proprio capitale professionale. Dunque, lo scambio tra impresa e professionisti è costituito da un lato dalle opportunità di crescita professionale offerte dall'impresa, dall'altro dalla prestazione professionale dei soggetti. I lavoratori nelle reti professionali possono essere di tre tipi:

core workers → lavoratori ad elevata qualificazione, detentori di competenze chiave per l'impresa in cui operano, si privilegiano nei loro confronti rapporti professionali di lunga durata;

collaboratori esterni → svolgono attività rare e specialistiche, ma non rappresentano le competenze distintive dell'impresa, per cui si ricorre a rapporti di partnership;

lavoratori flessibili → posseggono lavori a medio-bassa qualificazione, le transazioni con loro sono temporanee.

In conclusione, è possibile legittimare l'interazione e la condivisione quali strumenti di apprendimento e sviluppo della conoscenza. Infatti, generano al loro interno dinamiche che, da un lato, rendono l'organizzazione più flessibile, dall'altro valorizzano la forza innovativa e le capacità di adattamento delle organizzazioni alle variazioni del contesto esterno in una prospettiva di cambiamento. Tali sistemi relazionali, che sono il risultato di forme di aggregazione spontanee, possono essere colti come opportunità dalle imprese, creando un sistema favorevole al loro sviluppo ed integrandoli nel funzionamento organizzativo. Uno strumento utile a spiegare sia la complessità dei fenomeni relaizonali, sia la loro integrazione nell'organizzazione e nella generazione di conoscenza è la spirale della conoscenza di Nonaka e Takeuchi. Questo modello è composto di quattro fasi interconnesse, ed ognuna è l'input della successiva:

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1. fase di socializzazione → il passaggio è tra una forma di conoscenza tacita ad un'altra conoscenza tacita, mediante la condivisione di esperienze da individuo a individuo;

2. fase di esteriorizzazione → la conoscenza tacita viene trasformata in esplicita, mediante metafore, analogie, concetti, ipotesi, modelli elaborati in un gruppo e diffusi nella comunità;

3. fase di combinazione → la conoscenza esplicita passa ad un'altra forma di conoscenza esplicita, affinché i concetti espliciti siano sistematizzati in un sistema di consocenze a livello dell'organizzazione. Ciò avviene tramite varie operazioni per categorizzare le conoscenze esplicite e pervenire a nuove forme di conoscenza;

4. fase di interiorizzazione → determina il trasferimento di una conoscenza esplicita ad una nuova conoscenza tacita, mediante un processo di apprendimento dell'individuo mediante l'azione, che consente la condivisione di un modello mentale da parte della maggioranza dei membri dell'organizzazione trasformando la conoscenza tacita in parte integrante del patrimonio cognitivo organizzativo.

Dunque → l'organizzazione è chiamata a gestire questo processo di generazione e valorizzazione della conoscenza, partendo dai contributi dei singoli ffino a coinvolgere le esperienze delle più ampie comunità di persone che la compongono, anch mediante l'uso di tecnologie dell'informazione e della comunicazione. Nel passaggio da sistemi accentrati di gestione della conoscenza a sistemi di accumulazione di saperi periferici e contestuali, le tecnologie hanno un ruolo fondamentale, perché pssono attivare dinamiche sociali ricche che facilitano la diffusione di conoscenze, in un percorso di accumulazione del sapere.

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CAPITOLO 4 4. L'open source come nuovo modello organizzativo.

Linux nasce in Finlandia, nei primi anni '90, ad opera di Linus Torvalds, un giovane studente dell'università di Helsinki che, per sfida, per gioco e per caso, si lancia nell'invenzione di un nuovo sistema operativo. Insoddisfatto del sistema operativo allora disponibile (Unix), Linus inizia a progettare e costruire un kernel (la parte principale di un sistema operativo) e lo rese disponibile su Internet. In questo modo, incoraggiò altri programmatori a scaricarsi gratuitamente il sotfware e a usarlo, testarlo, modificarlo fino a ritenerlo adeguato per qualsiasi tipologia di ambiente e utilizzo. In soli 3 anni, la comunità attorno a Linux, lavorando in maniera collaborativa, in assenza di leadership e senza regole precise di comportamento, con il solo ausilio di Internet, ha trasformato Linux in una delle migliori versioni di Unix mai creata. In pochissimo tempo, quindi, il nuovo sistema operativo Linux, da piccolo progetto di Linus Trovalds è diventato, prima, opera di pochi programmatori, poi, un fenomeno diffusissimo in rete. La nascita e lo sviluppo della Linux Community mette in evidenza l'esistenza di una modalità di lavoro e di organizzazione peculiari, in antitesi rispetto a quelle tradizionalmente adottate dalle grandi aziende, come IBM o Microsoft (i manager mettono a punto le decisioni strategiche, vengono creati gruppi formali di tecnici, da istruire mediante una rigida divisione del lavoro, una schedulazione delle attività e una chiara attribuzione di compiti e task da portare a termine. Le caratteristiche del prodotto sono definite in base a ricerche su consumatori e focus group e i risultati di queste ricerche sono documentati in rapporti di progettazione. Il team prepara e condivide appositi budget, gantt, scadenza. Il progetto finale è imposto dall'impresa stessa, può avere tempi e costi molto elevati). Lo sviluppo di Linux rappresenta un nuovo modo di lavorare → Torvalds è stato protagonista ed artefice di una vera rivoluzione, più che per il risultato che ha raggiunto per le modalità con cui vi è pervenuto: migliaia di programmatori hanno collaborato a distanza, creando un sistema operativo affidabile e di qualità. Il concetto e il movimento open source è il risultato di un lungo percorso evolutivo tecnologico, economico e sociale -di cui l'invenzione di Linux rappresenta solo una piccola fase- che ha coinvolto intere generazioni di ricercatori, sviluppatori e utenti, diventando, soprattutto negli ultimi anni, oggetto di attenzione per imprese, istituzioni, scuole, università e PA. L'open source è una rivoluzione, a volte definita “sovversiva” perché portatrice di un nuovo modo di concepire la creazione e la distribuzione del software e di un inedito modello commerciale che ha echi notevoli nello sviluppo dell'informatica. Il movimento open source è stato letto mediante due chiavi interpretative principali:

Raymond suggerisce le metafore della cattedrale e del bazar. La Cattedrale è progettata dagli architetti in base ad un modello tradizionale, così come fanno i programmatori del software proprietario. Tale modello è caratterizzato da gerarchia, ordine, controllo, programmazione, chiusura e difesa dei confini: nessun altro può apportare modifiche o migliorare il progetto, tranne l'architetto.

Il Bazar, al contrario, è un nuovo modello che, come il movimento open source, è caratterizzato da disordine, autonomia, libertà di accesso, apertura e auto-organizzazione. Il mercante di un bazar vuole soddisfare la richiesta del cliente ed è aperto al contributo altrui, proprio come i programmatori del software libero, che incoraggiano una partecipazione collettiva degli utenti interessati mediante la pubblicazione del codice sorgente.

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Von Hippel e Von Krogh, invece, vedono l'open source come un modello di innovazione del privato-collettivo, dove la conoscenza prodotta all'interno di ambiti chiusi (come quelli delle software house) viene rivelata e resa disponibile all'azione collettiva della comunità. Così, il software è trattato come un prodotto della conoscenza, reso accessibile per mantenere vivo il processo di innovazione che caratterizza questo ambito produttivo.

Il modello organizzativo sottostante al fenomeno dell'open source è degno di interesse, perché si basa su una struttura di relazione tra i soggetti tipicamente orizzontale, dove prevale la collaborazione e l'informalità. L'open source suggerisce una differente etica del lavoro, che qualcuno chiama “etica hacker” per esprimere quel rapporto entusiastico nei confronti del lavoro che si sta affermando nell'età dell'informazione. Il lavoro nelle comunità open source appare dominato dai principi evidenziati da Barnard attraverso la sua teoria sui sistemi cooperativi → l'uomo è caratterizzato da porsi degli scopi per trasformare l'ambiente in cui vive, ma sperimenta continuamente dei limiti biologici, fisici, mentali, conoscitivi, economici ecc. Il modo più efficace per superarli, è passare alla cooperazione tra più persone all'interno di una realtà sociale diversa dal loro agire isolato. In base a tali principi, secondo Barnard, nell'organizzazione divengono fondamentali l'informalità e la cooperazione, elementi centrali nelle comunità open source. Dunque, nella prospettiva di Barnard, le comunità open source sono organizzazioni costituite per portare a termine un progetto che sposa pienamente le finalità dei singoli che ne fanno parte e le motivazioni che spingono gli individui a cooperare. All'interno delle comunità open source possono individuarsi gli stessi elementi fondamentali che costituiscono il modello strutturale delle comunità di pratica definite da Wenger :

il dominio → lo sviluppo del software;

la comunità → la struttura sociale che si forma a partire dal campo tematico di interesse, il suo funzionamento dipende dalla fiducia, dal senso di appartenenza, dalla condivisione di idee e esperienze derivanti dall'attività di problem solving.

La pratica → è l'insieme degli approcci comuni e concreti che forniscono la base per l'azione, che si realizza mediante il processo della collaborazione e della reificazione.

Le comunità open source possono essere considerate un esempio di comunità di pratica, ma con un quarto elemento fondamentale → la distribuzione nello spazio, perché la distanza geografica le differenzia dalle tradizionali COP e conferisce loro il carattere di un network relazionale e produttivo, basato sull'utilizzo e la produzione di nuove tecnologie. Le comunità open source hanno un'organizzazione a struttura reticolare → diversi soggetti intrecciano con altri le più diverse forme di relazione, attivando legami deboli (cioé le articolazioni dell'organizzazione sono dotate di forme di autonomia e indipendenza) che derivano da conoscenze causali e non vincolanti. La forma organizzativa è spontanea e le modalità comunicative sono orizzontali: domina una sorta di caos regolato. Le modalità, la struttura, i principi e i meccanismi di lavoro tipici delle comunità open source sono profondamente diversi e possono influenzare i modelli organizzativi consolidati. D'altra parte, il modo d'operare delle comunità open source non può essere definito e spiegato attraverso i modelli interpretativi utilizzati per studiare e descrivere le configurazioni organizzative classiche. Ciò che emerge è un sistema complesso, caratterizzato da specifici criteri organizzativi, per cui si deve far riferimento ad adeguati approcci → a questo proposito, si può far riferimento a

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Mintzberg, autore classico della sociologia dell'organizzazione, secondo il quale ogni attività umana organizzata fa nascere due esigenze fondamentali e opposte:

dividere il lavoro in compiti da eseguire;

coordinare i compiti per portare a termine un'attività. Sulla base di questi principi, un'organizzazione può essere definita come il complesso delle modalità secondo le quali viene effettuata la divisione del lavoro in compiti distinti e, quindi, viene realizzato il coordinamento tra tali compiti. Nelle comunità open source, però il lavoro viene portato avanti senza nessuna apparente divisione del lavoro → sono le persone stesse a decidere, in base ai propri interessi e alle proprie motivazioni, cosa fare e in cosa impegnarsi. Tra i meccanimi di coordinamento, sembra prevalere l'adattamento reciproco → meccanismo che consegue il coordinamento attraverso il semplice processo della comunicazione informale, portata avanti nel caso delle comunità OS, a distanza, mediante canali comunicativi digitali. Obiettivi conoscitivi: 1) come nascono le comunità open source? Una delel caratteristiche principali delle comunità OS è di basarsi sulla libera partecipazione di soggetti diversi e provenienti dai contesti più disparati. Le motivazioni possono essere distinte in:

motivazioni sociali → per il desiderio di appartenere ad una comunità priva di interessi economici, in cui aiuto reciproco e solidarietà sono valori indiscutibili. Questo aspetto richiama alcune caratteristiche della ricerca scientifica e accademica: lavorare per qualcosa che ha valore per la comunità di riferimento, per la gratificazione e la soddisfazione proveniente dalla diffusione dei propri risultati. Tale assetto è chiamato da Merton “struttura normativa della scienza” → si concretizza in quattro capisaldi: 1) l'universalismo → i risultati scientifici devono essere giudicati a prescindere dal soggetto che li ha formulati, la carriera scientifica è aperta a chiunque abbia le capacità; 2) il comunismo → le scoperte sono il prodotto della collaborazione sociale, sono assegnate alla comunità e costituiscono un'eredità comune, la segretezza è l'antitesi di questa norma; 3) il disinteresse → interesse prioritario di ogni ricercatore è l'avanzamento della conoscenza, non il proprio successo personale; 4) il dubbio sistematico → lo scienziato deve valutare criticamente ogni risultato.

Dare, ricevere e restituire appaiono le regole fondamentali di questo sistema, che Mauss definisce “economia del dono” → lo scambio è innescato da un atto gratuito, che da alla luce un prodotto collettivo frutto della collaborazione di tutti.

Motivazioni tecniche → l'obiettivo è soddisfare specifiche esigenze operative, legate alle attività dei singoli soggetti e utilizzare i contributi che la comunità stessa è in grado di offrire. I vantaggi sono rappresentati dallo sfruttamento del peer review (revisione paritaria) e del feedback da parte della comunità sulla qualità del lavoro svolto.

Motivazioni economiche → collaborare a progetti di questo tipo porta all'acquisizione di skills o competenze di elevato livello, spendibili o reinvestibili in migliori opportunità lavorative.

2) quali sono le sue regole di funzionamento e i meccanismi di coordinamento? Muffatto e Faldani, studiando le strategie e l'organizzazione della comunità OS, distinguon, dal punto di vista della struttura organizzativa, la libera partecipazione e il decentramento del potere decisionale; dal punto di vista del processo di sviluppo, la velocità e lo sviluppo parallelo.

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La libera partecipazione rende possibile esplorare alternative e la flessibilità delle stretegie, ma non la definizione di precisi obiettivi temporali nello sviluppo. La soluzione è il rilascio di numerose e frequenti versioni (release) per stimolare la comunità stessa a contribuire alla sua evoluzione. La velocità di sviluppo e la continua produzione di nuove versioni, però, da un lato stimolano l'evoluzione dei prodotti, dall'altro rendono difficile un loro sfruttamento da parte dell'utenza, scoraggiata nell'adozione di prodotti la cui qualità non è garantita dall'intera comunità. La soluzione è istituire due processi di sviluppo paralleli: uno, “stable”, composto da prodotti stabili dalla qualità e compatibilità assicurata; l'altro, “development”, comporto da versioni più recenti frutto di ricerca e innovazione. Lo sviluppo in parallelo di più progetti, però, pur stimolando la velocità e l'evoluzione, rende difficoltosa la gestione dei processi, perché si opera su più canali e si rischia di disperdere energie. La soluzione è la progettazione di tipo modulare, cioè la suddivisione dei prodotti in parti più semplici e monofunzionali, in modo da usare più efficacemente le risorse. La responsabilità della progettazione e della modularità dei prodotti è detenuta dal team dei leader → dunque le comunità OS mettono in atto una diversa tipologia di divisione del lavoro, pur basandosi sul decentramento del potere decisionale. Individuano, infatti, un appartenente alla comunità ritenuto più in grado di guidare una particolare parte del processo: un team dei leader si occupa, appunto, dell'esercizio dell'autorità e della gestione del potere decisionale. Nel caso di Linux, l'ordine è stato mantenuto proprio da Linus Torvalds, che comunque non ha avuto completa autorità su di esso (non esiste una pianificazione top-down, per garantire maggiore flessibilità e libertà di evolvere).

3) quali sono le parti componenti l'organizzazione, e quali i ruoli individuabili? Le comunità OS si basano su una precisa struttura al cui interno si possono individuare attori e ruoli diversi. Tra gli attori distinguiamo:

utenza → utilizzano i prodotti OS, ma non partecipano al loro sviluppo;

prosumer → producono e, insieme, utilizzano i prodotti;

team dei leader → i programmatori che si distinguono maggiormente e compongono un gruppo selezionato dalla comunità stessa su basi meritocratiche. A loro viene riconoscita autorità e responsabilità;

imprese → interagiscono con la comunità utilizzando, finanziando, eventualmente sviluppando congiuntamente i prodotti;

istituzioni → sono le organizzazioni, i governi, le pa interessate all'uso e alla diffusione dei prodotti OS.

Il team virtuale → coloro che si incontrano in rete, costituendo un gruppo mobile e non strutturato, composto da agenti appartenenti alle categorie precedenti che entrano ed escono dal gruppo secondo il livello di partecipazione e impegno profuso nel lavoro della comunità.

Gli attori citati possono assumere il ruolo di:

cliente → non partecipano e non finanziano lo sviluppo dei prodotti;

attore → partecipano attivamente alla comunità;

gestore → esercitano una qualche influenza sulla direzione di sviluppo dei progetti e sulle fasi di distribuzione degli stessi.

Le comunità OS solo apparentemente si basano sul caos. La loro è una vera e propria anarchia organizzata → una struttura che, pur essendo virtuale, temporanea e costruita dal basso e sulla

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fiducia, si basa sui due principi che, secondo Mintzberg, sono alla base di ogni attività umana organizzata: la divisione del lavoro e i meccanismi di coordinamento. La differenza principale tra i modelli tradizionali e la comunità OS è che i primi sono centrati sulla struttura organizzativa (che di conseguenza definisce il progetto da realizzare), mentre le seconde mettono al centro il progetto, che è il prerequisito fondamentale della costituzione della comunità. Tra le configurazioni organizzative individuate da Mintzberg, quella che più somiglia alla comunità OS è l'adhocrazia → entrambe operano in ambienti altamente complessi e dinamici; si basano su gruppi nati ad hoc su specifici progetti dove il meccanismo di coordinamento utilizzato è l'adattamento reciproco; entrambe tendono a produrre innovazione e si basano su una struttura flessibile dove la formalizzazione del comportamento è scarsa e il decentramento è massimo. L'organizzazione delle comunità OS è:

temporanea → il progetto ha un inizio e una fine ben precise;

virtuale → opera mediante tecnologie digitali senza alcun vincolo spaziotemporale;

a rete → adotta a livello organizzativo, gestionale e produttivo un modello reticolare. In definitiva, le comunità OS sono sistemi che interpretano bene il pensiero e la prospettiva postmoderna, per usare le parole di Mery Jo Hatch, proponendo un modello organizzativo flessibile, senza confini rigidi e senza una struttura pre-fissata una volta per tutte. Come una ricetta, forniscono istruzioni dettagliate su come realizzare un compito ma possono essere facilmente modificate secondo esigenze o circostanze individuali (Stallman). Accanto all'organizzazione del lavoro taylor-fordista e a quella flessibile (l'impresa snella giapponese), sembra affermarsi un nuovo tipo di organizzazione del lavoro: l'organizzazione bazar. Nelle comunità open source il lavoro è composto da azioni intellettuali, svolte volontariamente e senza scansioni spazio/temporali. Il singolo individuo si organizza il tempo da dedicare a questa attività in uno spazio indefinito e instabile. Non esiste dipendenza e gerarchia: i singoli possono scegliere su cosa lavorare auto-proponendosi. Si afferma una nuova etica del lavoro → diventa un piacere e una fonte di intrattenimento, cos' come remunerazioni e denaro sono considerate un mezzo e non un fine. Le persone divengono il centro delle attività a scapito di imprese e organizzazioni. La Linux Story e la comunità OS, per questo, rappresentano sia il potere delle nuove tecnologie di cambiare il modo in cui si svolge il lavoro, sia il modello di un nuovo tipo di business organization che potrebbe costituire la base per un nuovo tipo di economia basata su flessibili e temporanei network di singoli individui connessi attraverso Internet. Approfondimento: Henry Mintzberg e la progettazione di un'organizzazione efficace. L'opera di Mintzberg rappresenta il tentativo più organico di sistemare in un quadro unitario le indicazioni scaturite dal dibattito sulla burocrazia. Inoltre, intende formulare un modello che indichi le logiche e i vincoli da rispettare nel progettare le strutture interne di organizzazioni complesse. L'autore fa riferimento alla teoria delle contingenze, sviluppatasi tra gli anni '60 e '70, la quale stabilisce che la struttura sociale di un'organizzazione varia in relazione al tipo di ambiente in cui si trova ad operare. A partire da questi assunti, Mintzberg elabora una teoria descrittiva secondo la quale una progettazione organizzativa efficace richiede una coerenza tra il complesso dei parametri di progettazione e il complesso dei fattori contingenti e/o ambientali. Secondo Mintzberg, i parametri fondamentali della progettazione organizzativa sono i meccanismi di coordinamento e le parti componenti un'organizzazione.

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I parametri fondamentali di coordinamento sono cinque:

supervisione diretta

standardizzazione dei processi di lavoro

standardizzazione degli output

standardizzazione degli input

adattamento reciproco Le parti componenti l'organizzazione, invece, comprendono:

il nucleo operativo

la linea intermedia

il vertice strategico

lo staff di supporto

la tecnostruttura Le configurazioni organizzative sono definite dalla diversa importanza dei meccanismi di coordinamento e dal differente ruolo svolto dalle singole parti dell'organizzazione, in relazione allo stato dei fattori situazionali o contingenti (età e dimensione dell'organizzazione; tecnologia e sistema tecnico utilizzato; ambiente; potere). A questi parametri di base, l'autore affianca l'esame dei parametri di progettazione organizzativa (posizioni individuali, macrostruttura, collegamenti laterali e sistema decisionale). I parametri di progettazione possono essere scelti e determinati in base ai fattori contingenti, ovvero alle condizioni ambientali in cui deve operare l'organizzazione → la progettazione organizzativa efficace richiede coerenza interna tra le parti dell'organizzazione. Rispettando questo principio, si individuano cinque configurazioni organizzative principali:

struttura semplice

burocrazia meccanica

burocrazia professionale

soluzione divisionale

adhocrazia Una sesta configurazione è aggiunta da Mintzberg alla fine del suo lavoro, ovvero quella missionaria, in cui il meccanismo di coordinamento principale è la socializzazione e l'ideologia è la parte fondamentale. Si tratta di tutte quelle forme organizzative caratterizzate da norme e valori così forti da condizionarne il funzionamento.

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CAPITOLO5

Tracce di cultura organizzativa. Nel corso del tempo, si sono succeduti diversi paradigmi attraverso i quali leggere le organizzazioni. In particolare, al paradigma razionalista e positivista, dominante sino agli anni '80, ha fatto seguito una molteplicità di paradgmi non commensurabili tra di loro. In particolare, secondo Stefano Zan, le modificazioni più radicali nelle concezioni dominanti sulle organizzazioni spostano l'attenzione dalle strutture (le forme e le configurazioni dell'organizzazione) ai processi (di scambio, culturali, comunicativi, di apprendimento ecc) in cui le organizzazioni sono coinvolte → dunque, organizzazione = risultante di una pluralità di processi che, di volta in volta, possono assumere diverse configurazioni strutturali. Concentriamo l'attenzione, ora, su quegli approcci “morbidi” che leggono l'organizzazione come un “continuo processo di definizione della realtà in cui i singoli sono impegnati, processo che si sostanzia in scambi comunicativi, mediati e non mediati, di simboli, conoscenze sedimentate e stratificate, modelli di riferimento, schemi di percezione e interpretazione della realtà, codici e norme, anche non scritti”. Le origini degli approcci morbidi sono situate sul finire degli anni '70, quando in molti settori produttivi (automobilistico in particolare), il modello di produzione giapponese mostrava tutta la propria forza rischiando di mandare in crisi il mercato occidentale. Nasceva l'esigenza di nuovi modelli interpretativi. Ouchi e Wilkins iniziarono a pensare alle organizzazioni come caratterizzate da una continua tensione e contrapposizione tra gli aspetti espliciti (oggettivi/formali/razionali) e quelli impliciti (soggettivi/informali/non razionali). In particolare, Ouchi individua nella cultura nazionale giapponese il fattore chiave per lo sviluppo del modello organizzativo nipponico → la c.d. Variabile culturale iniziava a fornire valide spiegazioni per la comprensione delle differenze nelle diverse organizzazioni e delle peculiarità si specifiche realtà non interpretabili con i metodi di ricerca basati sulle strutture, sui livelli gerarchici, sui flussi di comunicazione formale e su grandezze quantitative. Le organizzazioni iniziano ad essere percepite come realtà complesse e ambigue, caratterizzate da profondi elementi di contraddittorietà e non spiegabili facilmente in termini di semplici relazioni causali. In particolare, il successo e l'insuccesso di alcune scelte strategiche iniziano ad essere lette come profondamente influenzate dall'agire dei soggetti → il singolo attore, la sua intenzionalità, le sue logiche d'azione possono modificare profondamente i connotati iniziali del progetto organizzativo. Inoltre, il fatto che il contenuto e le modalità lavorative andavano sempre più modificandosi accentuava la necessità di ricorrere ad una lettura basata sugli aspetti simbolici e culturali della vita organizzativa → le organizzazioni incrementano la necessità di interpretare e rispondere velocemente alle esigenze del mercato, chiedendo al lavoratore di estendere i propri margini di azione: le sue attività divengono “profonde”, all'individuo viene richiesto di ricoprire ruoli (e non di svolgere mansioni). L'accresciuta complessità e l'interdipendenza tra le parti rendono diffusa la capacità decisionale → l'organizzazione non è tenuta insieme dalle regole formali, ma dalla condivisione di modalità di risoluzione dei problemi, dal modo di fare le cose, dai saperi taciti e dalle conoscenze inespresse. L'organizzazione, quindi, da un lato si presenta come spazio sociale che produce significati simbolici condivisi e artefatti tecnologici e culturali; dall'altro, attiva nel soggetto un processo di

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riconoscimento e di costruzione delle modalità di appartenenza al contesto organizzativo. Il lavoro diventa un'occasione espressiva dell'identità del soggetto e l'organizzazione un terreno in cui si costruiscono significati, attraverso pratiche, riti, cerimonie che mettono in gioco le componenti dell'identità personale, sociale e professionale dei soggetti che partecipano. Inoltre, un'ulteriore spinta alla diffusione degli approcci morbidi è arrivata dalla diffusione di tecniche di analisi qualitativa che includono anche lo studio delle organizzazioni, e che sono finalizzate a rilevare la dimensione simbolico-culturale rappresentata dalla molteplicità delle forme espressive che derivano dall'interazione tra gli attori organizzativi. Gli approcci allo studio delle culture organizzative sono diversi. Linda Smircich ha tentato una loro sistematizzazione suddividendo:

le prospettive funzionaliste → considerano la cultura come un attributo dell'organizzazione e uno degli elementi che contribuiscono a definirla (cross-cultural management; corporate culture);

le prospettive interpretative → considerano la cultura come qualcosa che l'organizzazione è (structural-psychodynamic model; simbolismo organizzativo; organization cognition).

Tale contrapposizione invita a riflettere anche sui diversi studiosi che si sono interessati allo studio della cultura organizzativa. In particolare, possono essere individuate tre tipologie di soggetti:

gli accademici in senso stretto → svolgono attività di ricerca non necessariamente finalizzata all'intervento organizzativo;

gli studiosi delle business school → sviluppano conoscenze, da un lato, per migliorare le capacità interpretative degli allievi, dall'altro, fornire strumenti e metodi di intervento organizzativo.

i consulenti di organizzazione, e gli operatori organizzativi delle aziende → operano per intervenire sulla cultura ed elaborare modelli di consulenza organizzativa finalizzati alla risoluzione dei problemi.

Altra distinzione è tra:

approcci descrittivi → leggono la cultura organizzativa partendo dal racconto dei soggetti, che leggono la realtà e danno vita a saghe, linguaggi, riti ed altre espressioni culturali; studiano le diverse culture occupazionali e la possibilità di convivere all'interno di una cultura organizzativa più grande (dunque minano la concezione unitaria dell'organizzazione)

approcci prescrittivi → vogliono conoscere la cultura e i processi della sua formazione per capire come gestirla.

Dunque → la cultura organizzativa è un concetto complesso, le cui dimensioni sono diverse e connesse, e possono essere sintetizzate in dimensioni cognitive, prescrittive e simboliche. Quale definizione di cultura organizzativa? Edgar Schein la descrive come “un insieme di assunti di base [..] che si è rivelato così funzionale da essere considerato valido e, quindi, da essere indicato a quanti entrano nell'organizzazione come il modo corretto di percepire, pensare e sentire in relazione a quei problemi”. In altri termini, la cultura sembra essere il prodotto di un apprendimento, ovvero l'insieme delle risposte e dei modi di agire che hanno dimostrato di essere funzionali a rispondere sia alle sollecitazioni provenienti dall'interno, sia a quelle provenienti dall'esterno e che, pertanto, caratterizzano quell'organizzazione.

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Schein individua dei livelli di cultura che possono essere distinti a livello concettuale, ovvero:

gli artefatti → sono il livello più visibile della cultura, ma la difficoltà sta nell'immaginare il loro significato. Si tratta dello spazio sociale, del linguaggio scritto e parlato, del comportamento esplicito dei componenti.

i valori → sono le strategie, gli obiettivi, le filosofie dell'azienda esplicite, cioè dichiarate, magari fissate in documenti, opuscoli o saggi che circolano nell'organizzazione.

gli assunti di base → sono taciti e condivisi, profondi, estesi, stabili. Rappresentno quelle ragioni e convizioni storiche che hanno favorito la sopravvivenza dell'organizzazione.

In questo spazio si dedicherà attenzione agli artefatti simbolici → ovvero quegli artefatti utilizzati dagli attori organizzativi per la creazione di significati. Tali artefatti possono essere considerati, al tempo stesso, espressione dell'intelaiatura dei significati che guidano le interazioni comunicative e medium della loro creazione. Gli artefatti simbolici possono assumere diverse forme, ma è possibile comprenderli in tre categorie:

le pratiche collettive

le manifestazioni verbali

gli artefatti fisici Le pratiche organizzative → possono essere descritte come l'insieme di idee, strumenti, informazioni, linguaggi, storie, materiali ed esperienze condivise dai membri all'interno di un preciso contesto organizzativo. Si riferiscono, quindi, a manifestazioni e comportamenti attuati in specifici contesti di azione, in quanto assumono forme che supportano l'espressione dei significati affermati e comunicati a/da i membri. Se tali pratiche si presentano come un insieme di attività caratterizzate da un certo grado di progettazione a beneficio di un grande pubblico, si può parlare di riti o cerimonie proprie dell'organizzazione. Il rito è un insieme di attività volte a consolidare diverse forme di espressione culturale in un unico evento che si svolge per mezzo di interazioni sociali; le cerimonie rappresentano l'insieme dei riti connessi in un'unica occasione o evento. All'interno delle organizzazioni esistono diverse tipologie di riti, come i riti di passaggio, di degradazione, di esaltazione, di rinnovamento, di ricomposizione dei conflitti, di integrazione. Ognuno di questi riti presenta, accanto al significato istituzionale che l'organizzazione conferisce alle diverse occasioni che costituiscono gli eventi, anche un significato latente di simbolizzazione → in particolare, riti e cerimonie possono avere funzioni stabilizzanti, per produrre e mantenere l'ordine, in quanto conferiscono un fondamento naturale alla realtà (a differenza dei processi strumentali che, invece, sono volti a risolvere problemi anche innescando dinamiche a favore del cambiamento e della trasformazione). Le manifestazioni verbali → si tratta dei linguaggi utilizzati e caratterizzanti l'organizzazione. L'artefatto linguistico è utilizzato funzionalmente come unità di scambio, ma porta con sé anche significati ulteriori, ovvero esprime l'immagine dell'organizzazione all'interno (tendenza idiosincratica) e all'esterno (tendenza allosincratica). Il linguaggio, infatti, esprime il campo simbolico di un'organizzazione, ovvero l'insieme delle modalità sistematiche utilizzate per rappresentare e comunicare valori, credenze, gusti e sentimenti relativi a sé stessa e al contesto in cui esiste. L'esigenza di individuazione (ovvero l'esigenza di ogni sistema di sviluppare una propria identità) porta l'organizzazione a mantenere il proprio linguaggio più idiosincratico possibile: quanto più un

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vocabolario sarà caratteristico di un'organizzazione, tanto più è favorita la comunicazione all'interno e l'organizzazione è vista come entità individualizzata e riconoscibile nell'ambiente (tendenza allosincratica → il linguaggio contribuisce a favorire i processi di legittimazione esterna, rende riconoscibili le peculiarità dell'organizzazione). La comprensione delle peculiarità del linguaggio utilizzato in una certa organizzazione può essere utile a capire il grado di contaminazione tra organizzazione ed ambiente → un tipico esempio di contaminazione tra organizzazione ed ambiente che ha prodotto anche una contaminazione di linguaggi è quello del processo di modernizzazione della PA. Il linguaggio burocratico che, fino a poco fa, era proprio della PA ha svolto una funzione idiosincratica, che ha contrassegnato tipicamente quella tipologia di organizzazione tanto da diventarne uno dei simboli (negativi!). Sotto la spinta delle riforme e delle necessità di cambiamento, il linguaggio della PA sembra essersi aperto verso l'esterno e semplificato. Si è trattato di un modo di cambiare la propria immagine, cercando di essere meno autoreferenziali e, contemporaneamente, proiettarsi verso l'esterno. Secondo questa prospettiva, il linguaggio dell'organizzazione racconta la sua storia e il linguaggio diventa l'artefatto simbolico tramite cui comprendere alcuni tratti della cultura organizzativa, i modi corretti di percepire pensare e sentire in relazione a determinati problemi. In particolare, le storie → sono efficaci artefatti che aiutano a comprendere i valori e gli assunti di base di una cultura organizzativa. Si tratta di resoconti riprodotti o enfatizzati di eventi passati, utilizzati per orientare e semplificare l'agire del singolo nello spazio organizzativo. Alcuni autori hanno individuato sette tipologie di storie ricorrenti nei diversi contesti organizzativi, suddivise in tre gruppi:

il primo gruppo tenta di risolvere il dualismo tra le condizioni di uguaglianza e disuguaglianza che nascono dalle differenze di status all'interno delle organizzazioni. I tre focus principali sono: anche il grande capo è umano; chiunque può raggiungere i massimi livelli gerarchici; cosa succede se il superiore infrange una regola e il sottoposto si oppone all'infrazione. Queste storie diventano il simbolo, a livello di artefatto, di un messaggio di uguaglianza o disuguaglianza organizzativa.

Il secondo gruppo ruota intorno al binomio sicurezza-insicurezza. Queste storie si concentrano sui problemi della sospensione temporanea del lavoro o del licenziamento; sulle reazioni positive o negative agli errori di un membro dell'organizzazione; sull'atteggiamento dell'organizzazione nei confronti del privato dei dipendenti in caso di trasferimento. Queste storie sottolineano il conflitto tra le esigenze dell'organizzazione e quelle dei dipendenti.

Infine, le storie che affrontano il dualismo tra controllo-assenza di controllo. Narrano il superamento degli ostacoli e come le organizzazioni reagiscono alle difficoltà.

Gli artefatti fisici → si tratta di edifici, spazi interni, arredi, immagini, attrezzature impiegate nel lavoro. Negli artefatti fisici gli aspetti simbolici coesistono con quellei strumentali e funzionali ancor più che negli altri. Gli artefatti comunicano l'estetica della vita organizzativa, ovvero tutto ciò che riguarda il percepire attraverso i sensi. Studiata gli aspetti grafici, verbali e cromatici aiuta ad illustrare l'impatto semantico ed emozionale che gli spazi hanno per gli attori organizzativi. Nelle organizzazioni, alla funzione strumentale degli spazi si sovrappone una diversa funzione, quella “vissuta”, che ricorda agli individui dove si trovano, come si devono comportare, perfino chi sono, ovvero quale sia la loro identità personale, di gruppo e organizzativa. Inoltre, possono essere considerati degli indicatori di status (uffici e scrivanie più o meno grandi, un particolare arredamento). Dunque, uno sguardo allo spazio fisico può dare indicazioni sul processo di

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significazione attivato e può anche indicare la territorialità di un certo gruppo di lavoratori rispetto agli altri (esempio della moquette rossa nel laboratorio R&D di Roma, unico caso della multinazionale di informatica). NB. gli artefatti simbolici possono essere interpretati in modi diversi secondi i processi di attrivuzione di significato che attivano e sono attivati dalla cultura organizzativa.

CAPITOLO 6 : Il lavoro nelle organizzazioni che cambiano.

Le visioni utilizzate in passato per spiegare il presente ed anticipare il futuro del lavoro e delle organizzazioni sono, ormai, insufficienti ed inadeguate. Molti studiosi hanno tentato di descrivere il nuovo scenario:

con le teorie post (postindustrialismo, postmodernità, postfordismo) → per indicare il cambiamento in corso e la difficoltà di chiarire la natura di ciò che verrà;

evidenziando i cambiamenti apportati alla società ed all'economia dalle nuove tecnologie della comunicazione e dell'informazione (information society, knowledge economy, new economy, net-economy, networking economy);

puntando l'attenzione sulle trasformazioni del mondo del lavoro (flessibilità, incertezza, mobilità, precariato, rischio).

Le diverse posizioni sul futuro del lavoro sono indirizzate in due filoni principali:

i teorici della fine del lavoro → sostegono che la progressiva riduzione dei posti di lavoro e precarizzazione degli impieghi condurrà alla perdita della funzione integratrice del lavoro. Rifkin → le ICT hanno reso inutili milioni di persone; Beck → inizio di un'epoca di insicurezza endemica per la precarietà del posto di lavoro, dovuto alla brasilianizzazione del mercato del lavoro; De Masi → i cambiamenti sono anche positivi, si aprono per l'individuo nuovi spazi di ozio creativo.

Gli apologeti della new economy → sostengono, al contrario, un incremento dei posti di lavoro dovuto alle nuove tecnologie, in particolare per quanto riguarda i knowledge workers (coloro che possiedono le capacità e le nozioni per tradurre il sapere specialistico in innovazioni per produrre profitto).

In ogni caso, anche se con connotati e caratteristiche diverse, il lavoro rimane un'esperienza centrale per l'individuo. È necessario rivisitare il concetto di lavoro, superando la stretta identificazione di lavoro subordinato/salariato ma mantenendo i caratteri distintivi del concetto rispetto al non-lavoro. Occorre, inoltre, tenere conto degli aspetti macro e micro delle trasformazioni in corso. Aspetti macro o oggettivi:

terziarizzazione dell'economia;

globalizzazione dei mercati;

introduzione delle ICT;

nascita di nuove professioni e modifica di quelle esistenti;

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processi di re-design organizzativi unitamente ai processi di outsourcing;

differenziazione produttiva.

Aspetti micro o soggettivi:

ridefinizione del rapporto vita-lavoro e del significato attribuito al lavoro nella porgettualità esistenziale di ciascun individuo;

perdita di centralità del lavoro dipendente e del posto fisso;

ricerca di spazi di autonomia e creatività;

frammentazione delle carriere professionali. I cambiamenti che hanno investito il mondo del lavoro, dunque, riguardano alcuni principali nodi tematici. L'organizzazione del lavoro → si tratta di un concetto che racchiude molteplici dimensioni:

la divisione del lavoro;

l'assegnazione di compiti e mansioni;

l'utilizzo delle competenze;

le forme di controllo e coordinamento;

le forme di collaborazione.

Gallino individua tre momenti fondamentali nell'organizzazione del lavoro: 1. la suddivisione del lavoro in operazioni/compiti più o meno complessi; 2. l'assegnazione delle operazioni e dei compiti a persone e macchine; 3. il coordinamento tra i vari compiti, persone e macchine.

Dalle modalità con cui questi tre momenti vengono portati avanti dipende il tipo di organizzazione del lavoro, che si muove tra due estremi:

il massimo coordinamento → quando ogni elementare compito è assegnato ad una diversa persona;

il minimo coordinamento → quando ogni persona compie tutte le operazioni necessarie al raggiungimento di un dato risultato.

Quando il coordinamento è massimo, ci troviamo in un'organizzazione di stampo taylor-fordista. Questo modello è in declino, ed è stato rimpiazzato da un nuovo paradigma che si muove verso alcune direzioni di cambiamento:

la reintegrazione dei compiti e lo svolgimento contemporaneo di compiti multipli (multitasking);

la relativa autonomia e il decentramento delle funzioni di management ai lavoratori;

la polivalenza professionale;

il sistema di organizzazione a rete basato sulla comunicazione e cooperazione tra teamworking autodiretti.

L'organizzazione-macchina taylor-fordista lascia il posto all'organizzazione- organismo, in cui la persona riacquista un ruolo centrale:

i contenuti del lavoro sono più cognitivi e meno esecutivi;

ai lavoratori vengono richieste attitudini polivalenti, come l'adattabilità, l'autonomia, la

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capacità di lavorare in gruppo, di comunicare, di risolvere problemi. Il nuovo lavoratore deve saper adeguare il proprio lavoro alle esigenze di un'organizzazione dinamica.

Al concetto di mansione si sostituisce quello di competenza → i lavoratori non svolgono mansioni ma esercitano ruoli nelle organizzazioni, più discrezionali, orientati al risultato, fondati su responsabilità e competenze professionali. Oltre alle competenze di base (i requisiti minimi per l'occupabilità e lo sviluppo professionale) e a quelle tecnico-professionali (proprie delle attività relative a determinati processi lavorativi), si richiedono competenze trasversali, che attengono alla sfera motivazionale-cognitiva, socio-relazionale e manageriale e di responsabilità.

Tutto ciò ha comportato un profondo mutamento nella composizione delle categorie paradigmatiche di lavoratori che caratterizzano la società postindustriale:

Bell, negli anni '70, annuncia l'avvento di una nuova società, basata sulla produzione di beni immateriali e il cui fattore di sviluppo strategico diventa il sapere codificato (l'informazione coordinata e sistematica).

Egli illustra la crescita quantitativa dei professionals e technicians nella società amerciana di quel periodo (soggetti che svolgono attività specifiche fondate su un corpo teorico derivato dalle scienze e integrato dalla messa in pratica secondo forme codificate → nozioni, competenze e principi specifici secondo percorsi di studio e professionalizzazione particolari).

Negli anni '90 fanno la comparsa i lavoratori della conoscenza (knowledge workers). Drucker sostiene che essi sono in grado di collocare la conoscenza in modo da utilizzarla produttivamente, mentre Butera ne approfondisce i tratti caratteristici più distintivi in base a tre dimensioni (livello di scolarizzazione, contenuto del lavoro, posizione occupazionale). Classifica, così, sei tipologie di knowledge workers: 1) i sofisti (ricercatori e insegnanti); 2) l'executive elite (top manager e professionisti di elevato livello); 3) middle management e supervisori (la tecnostruttura); 4) i professionals o scholary experts (lo staff); 5) i technicians o pratical experts (medio titolo di studio ma grande esperienza nel risolvere problemi); 6) skilled workers o process operators (assicurano la qualità dei processi per la produzione).

Assimilabile parzialmente al knowledge worker è l'analista simbolico descritto da Reich, ovvero il lavoratore impegnato in attività di individuazione e risoluzione dei problemi e di intermediazione strategica. Si tratta di figure professionali eterogenee (ingegneri, avvocati, consulenti, pubblicitari, marketing, direttori artistici, sceneggiatori..).

Infine, Florida individua nella classe creativa il nuovo gruppo sociale emergente impegnato in attività la cui funzione principale è di creare forme nuove e significative, e formato da persone che producono valore aggiunto grazie all'apporto della loro creatività. La classe creativa si distingue in due sottoclassi: il nucleo supercreativo (scienziati, ingegneri, docenti universitari, poeti e romanzieri, architetti, stilisti, attori) e i professionisti creativi (cioè manager incaricati di risolvere problemi sempre diversi attingendo al loro bagaglio di

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competenze). Lo stesso Florida fa notare che, accanto all'ascesa della classe creativa, si sviluppa anche un fenomeno di neotaylorizzazione del lavoro in alcuni settori:

il call center → il lavoro degli impiegati nei call center è basato su uno schema rigido ed impostato di istruzioni, sul monitoraggio continuo e, infine, sulla valutazione da parte di supervisori diretti, dunque una vera forma di neotaylorismo informatico. Tuttavia, c'è anche chi li interpreta come organizzazioni della consocenza, in cui i lavoratori esercitano competenze relazionali, tecniche, comunicative.

La ristorazione veloce (i fast food) → i lavoratori sono impegnati in moderne catene di montaggio che seguono un percorso standardizzato e ripetitivo nella creazione di prodotti in serie. Ritzer parla di macdonaldizzazione per indicare il processo attraverso cui il modello organizzativo di McDonalds si sta affermando anche in settori diversi dalla ristorazione veloce. Nei ristoranti McDonalds, l'organizzazione del lavoro sembra ispirarsi ai principi del management scientifico: compiti frammentati, semplici e facili da riprodurre; massimizzazione del controllo manageriale; prevedibilità e uniformità di output e servizio; selezione e controllo dei fornitori ecc. Una vera one best way, basata su efficienza, quantificazione, prevedibilità e controllo.

Nonostante tali contro-tendenze, negli anni '70 la flessibilità diventa il termine ombrello entro cui collocare le diverse strategie di riorganizzazione delle imprese e del lavoro al loro interno. La tendenza verso la flessibilizzazione della produzione e dell'organizzazione del lavoro si è manifestata attraverso formule diverse: produzione snella; economia di scopo; just in time; snellimento degli organici; esternalizzazione delle funzioni; coordinamento orizzontale, cooperazione e partecipazione attiva dei lavoratori. Essere flessibili significa essere capaci di rispondere prontamente alle continue sollecitazioni del mercato e di riaggiustare repentinamente capitale e lavoro sulla quantitià e la qualità richieste dal mercato stesso. Esistono due nozioni diverse di flessibilità:

flessibilità interna → persegue l'obiettivo dell'efficienza produttiva, mediante la disponibilità dei lavoratori ad impiegare le loro competenze nel modo ritenuto migliore dai manager per ottimizzare l'organizzazione e consolidare le sue competenze distintive. Questo obiettivo è perseguito dall'organizzazione assicurando ai lavoratori la sicurezza dell'impiego, l'apprendimento e la formazione continui, la rotazione ragionata dei compiti, la condivisione di profitti e premi aziendali. In cambio, i lavoratori assicurano un elevato coinvolgimento a fini produttivi e un solido attaccamento all'organizzazione.

Flessibilità esterna → persegue l'obiettivo dell'efficienza allocativa, cioè l'ottimizzazione dell'allocazione del lavoro nel sistema economico. La flessibilità esterna consente all'impresa una maggiore libertà di assumere e licenziare, cioè di adattare la dimensione dell'input di lavoro secondo le esigenze di produzione e di mercato.

Formula del centro-periferia (Atkinson e Meager) → consente di realizzare un trade off tra la flessibilità interna ed esterna. Infatti:

la flessibilità interna è soddisfatta con lo sviluppo di un core group stabile e qualificato di lavoratori, che adattano e rinnovano costantemente le loro competenze;

la flessibilità esterna si ottiene mediante i contingent workers, ovvero quella forza lavoro che svolge le funzioni periferiche e che richiedono competenze non elevate, formazione minima e poca conoscenza dell'organizzazione. Tali lavoratori contingenti si collocano

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lungo due anelli di forza lavoro: quello periferico (lavoratori che svolgono compiti di routine, possono essere facilmente sostituiti) e quello marginale (lavoratori poco qualificati o consulenti di altissimo livello: è l'anello più differenziato perchè comprende abilità professionali che l'azienda decide di non internalizzare ma non può farne a meno).

La combinazione di efficienza allocativa ed efficienza produttiva realizza un equilibrio di costi per l'impresa: la riduzione del costo del lavoro attraverso la flessibilità esterna compensa i costi elevati che l'impresa deve sostenere per garantire ai core workers la stabilità a vita dell'impiego e il senso di appartenenza e identificazione nei fini aziendali.

Lo spazio di lavoro → con la rivoluzione industriale, ai lavoratori è imposta una netta separazione tra luogo di lavoro e luogo di vita. La fabbrica diventa il polo attorno al quale far ruotare la propri vita lavorativa e, di conseguenza, quella privata (attorno agli opifici sono nate le città della società industriale). Oggi, gli stessi stabilimenti industriali, sono collocati in aree periferiche, a sottolineare la loro completa estraneità dalla vita sociale. Addirittura, molti si sono trasformati in siti di archeologia industriale → disciplina che studia una civiltà non distante da noi temporalmente, ma considerata di fatto superata. La terziarizzazione dell'economia, l'innovazione tecnologica, la nuova organizzazione dell'impresa comportano la riduzione della necessità di trovarsi tutti insieme contemporaneamente nel luogo di lavoro: una delle peculiarità delle organizzazioni post-industriali, infatti, è proprio la progressiva scomparsa dei confini organizzativi:

per molti lavoratori dipendenti e indipendenti, l'attività lavorativa può configurarsi come deskless job → le persone possono svolgere la propria attività non esclusivamente presso un'unica sede, ma anche a domicilio, in treno, in albergo, in autostrada.

Inoltre, in alcuni casi, scompare quella differenziazione tra ambiente domestico e di lavoro, mediante la c.d. Domestication → la co-fusione di due sfere un tempo distinte, che comporta sia opportunità che rischi: maggiore libertà del lavoratore di gestire i propri spazi e i propri tempi ma anche invisibile subordinazione che costringe le persone a lavorare senza fine, generando confusione tra occupazione e tempo libero e destabilizzando le regole e l'organizzazione familiare. Un esempio tipico è il telelavoro domiciliare, che comporta l'attribuzione di autonomia e responsabilità al lavoratore ma anche problemi di organizzazione fisica e temporare della famiglia. L'interferenza delle due sfere può creare problemi (per ovviare al problema, alcune imprese ricorrono ai telecottage → fabbricati di soli uffici, vicini alle abitazioni dei lavoratori ma distanti dalla sede centrale e collegati ad essa mediante tecnologie informatiche telematiche).

Le nuove tecnologie mobili accentuano il fenomeno di dispersione/pluralizzazione dei luoghi di lavoro. Si parla sempre più di e-work, digital work places, multilocational work, tutte espressioni che contemplano la destrutturazione spaziale e temporale del lavoro. Tutto ciò si sta concretizzando grazie ai progressi tecnologici: alcuni si spingono ad immaginare l'avvento della placeless society, cioè della società superconnessa del tutto-dappertutto, in cui le distanze sono annullate.

L'altra faccia della medaglia, però, mostra che insieme al luogo scompaiono anche gli attributi sociali del lavoro stesso, le relazioni faccia a faccia tra i membri di un'organizzazione e il legame tra questi e i mezzi di produzione → l'esempio che Gallino fa per illustrare questo fenomeno è la rappresentazione teatrale di “Morte di un commesso

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viaggiatore”, che mette in scena la stanchezza esistenziale che deriva dall'assenza di un luogo fisico cui appoggiarsi.

Il tempo di lavoro → nel modello temporale della società industriale, le parole chiave sono puntualità e regolarità. La costruzione del tempo moderno, infatti, avvenne fissando gli orari giornalieri e settimanali del lavoro in fabbrica. Il suono delle sirene divenne lo strumento per scendire il tempo di lavoro: l'entrata e l'uscita dal posto di lavoro, il ritmo del lavoro stesso. Dunque, anche il tempo di non lavoro veniva condizionato dai vincoli di esattezza e dagli imperativi della sincronizzazione, che aveva la funzione basilare di assicurare l'ordine sociale → tutti i membri di un sistema sociale erano sottoposti alla permanenza di fasce temporali comuni, perfino nel ciclo di vita (formazione, lavoro, pensionamento). In una società in cui la parola d'ordine è flessibilità, però, una tale organizzazione temporale è impensabile → sempre più spesso, le organizzazioni adottano soluzioni e suddivisioni temporali diversificate, in cui una giornata lavorativa puà essere popolata da persone che lavorano con orari differenti e più individualizzati. I vincoli personali e le esigenze delle persone possono essere assecondati dai nuovi tempi lavorativi “individualizzati”. Tuttavia, tale individualizzazione ha il suo contro-altare: la desincronizzazione dei tempi di lavoro può comportare la difficoltà nel costruire rapporti sociali; l'intensificazione e densificazione del lavoro, generando fenomeni di workhaolic (ubriacatura da lavoro, orari di lavoro sovradimensionati perché si perde la distinzione tra attività produttiva e tempo libero). Dunque, il problema che si pone è della conciliazione dei tempi di vita e dei tempi di lavoro → si manifesta l'esigenza di rendere compatibile la vita lavorativa e quella personale, a causa del tempo di lavoro che si fa sempre più invadente e confuso con il tempo della vita. Questo problema è entrato anche nelle diverse agende politiche che si preoccupano dell'armonizzazione della vita professionale e personale. Piazza raggrupa alcuni strumenti che aiutano, secondo la sua visione, a conciliare le due dimensioni:

1. strumenti che riducono o articolano diversamente il tempo di lavoro (part time, turni, banca delle ore);

2. strumenti che liberano il tempo (congedi parentali, permessi per la formazione); 3. strumenti che mediano tra i bisogni del lavoratore e quelli dell'azienda (mentoring,

coordinatore work-family..); 4. servizi aziendali per i minori o altri servizi di cura; 5) servizi territoriali (trasporti, servizi

scolastici, centri anziani..). Le relazioni di impiego → nell'epoca industriale, era stato stipulato il c.d. Compromesso fordista, ovvero un patto sociale tra capitale e lavoro. Tale patto consisteva in relazioni di impiego che coniugavano la piena subordinazione nel lavoro con la piena stabilità del posto, la certezza del reddito e le tutele giuridiche e sindacali. Tale patto sociale salta con la crisi del modello taylor-fordista, in cui avanzano nuove relazioni d'impiego più adatte alle imprese flessibili. Borghi giunge ad una schematizzazione delle trasformazioni in corso sul piano delle relazioni d'impiego incrociando due dimensioni:

dimensione formale/contrattuale → attiene alla posizione occupazionale dei lavoratori (indipendente/subordinato);

dimensione delle condizioni concrete in cui si svolge il lavoro → autonomia/eteronomia.

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Si ottiene così uno schema a quattro quadranti, in cui si evidenzia la distinzione classica tra lavoro subordinato ed eterodiretto (quadrante c) e lavoro autonomo (quadrante a). Il quadrante b illustra il lavoro autonomo eterodiretto → il lavoratore è formalmente autonomo ma sostanzialmente dipende dal proprio committente nell'organizzazione dei tempi e delle modalità del proprio lavoro. Il quadrante d, invece, illustra il lavoro subordinato autonomo → il lavoratore è formalmente subordinato ma ha ampi spazi autonomi, discrezionali, responsabili. Pertanto, la tradizionale dicotomia lavoro subordinato/lavoro autonomo è insufficiente per rappresentare l'universo delle relazioni di impiego, ormai proliferato in specie contrattuali flessibili, atipiche, non standard. Le relazioni di impiego si frantumano e diversificano → il lavoro non è più concepito come un'esperienza continuativa, unica e tutelata. È la fine dell'epoca del posto fisso, che porta con se speranze e timori. Speranze perché i nuovi lavori possono tradursi in maggiori opportunità di iniziativa e in spazi di autonomia impensabili nel passato (soprattutto per i soggetti più preparati e competenti, che possono cogliere l'opportunità di crescere professionalmente); timori perché aumenta l'instabilità, l'insicurezza, il rischio (soprattutto per quei lavoratori non tutelati né garantiti socialmente, in cui la precarietà diventa la caratteristica dominante della loro condizione umana, economica e sociale).

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CAPITOLO 7 I lavoratori atipici tra flessibilità e precariato.

Dagli anni '80, la flessibilità viene percepita come la soluzione indipensabile affinché le imprese mantengano una posizione competitiva nel panorama mondiale. Ciò comporta l'introduzione di nuove forme di impiego che si ripercuotono profondamente sulla vita e sulle condizioni di lavoro delle persone → la domanda che si pongono addetti ai lavori e politici è se si possa evitare l'adozione acritica, anche a livello europeo, del modello americano, che prevede un imponente ricorso alla flessibilità e ridotte garanzie sociali. Nel tema della flessibilità, quindi, concorrono due aspetti, quello economico e quello sociale, connessi in modo inscindibile. In letteratura si distingue tra due aree che raggruppano le forme lavorative:

il lavoro standard → dipendente, full time, contratto a tempo indeterminato. Non è una tipologia di lavoro in estinzione, visto che dal '95 al '06 il numero di questi occupati è aumentato di circa 2 milioni e mezzo.

Il lavoro atipico e flessibile → orario parziale, o temporaneità del rapporto contrattuale, o comunque comprendente una vasta gamma di soluzioni contrattuali con aspetti distintivi.

In Italia, le forme di flessibilità più utilizzate sono il part-time, le collaborazioni parasubordinate, i contratti di lavoro a tempo determinato. Il numero di lavoratori flessibili, secondo statistiche Istat, è pari al circa il 14% degli occupati in Italia nel 2006. Questa percentuale, anche se in linea con gli altri Paesi europei, viene percepita in Italia con maggiori apprensioni, soprattutto per il mancato adeguamento del sistema delle tutele (ancora su misura dei lavoratori industriali). Dunque, i due termini flessibilità e precarietà non sono affatto sinonimi: la flessibilità si riferisce ad un modo di organizzare il proprio lavoro, e riguarda l'autonomia degli spazi, degli orari, delle procedure; la precarietà, invece, attiene ad un'insicurezza di vita che dipende anche dalle condizioni di lavoro, ma non solo da queste. Nell'universo italiano, i parasubordinati rivestono un ruolo importante → sono persone non integrate in un'impresa sotto il profilo contrattuale ma lo sono in maniera funzionalmente stabile. Il loro rapporto di impiego (co.co.co o co.co.pro.) prevede alcune forme tipiche del lavoro dipendente (subordinazione ad un superiore o possibilità di lavorare presso la sede del committente), e del lavoro autonomo (retribuzione e contrattazione individuali). È difficile inserirli nelle tradizionali categorie occupaizonali. Nel 2007, questi lavoratori sono circa 1,5 milioni che, per oltre il 70%, lavorano per una sola impresa. Si differenziano in due gruppi:

gli amministratori e sindaci di società ed enti assimilati (1/3 del totale) → hanno un reddito abbastanza elevato (26660 euro), sono prevalentemente uomini ed hanno più di 48 anni; oltre la metà di loro ha anche altre fonti di reddito (pensione, lavoro afferente ad altri fondi previdenziali).

i collaboratori ed assimilati (2/3 del totale) → hanno un reddito di circa 8mila euro annuali, meno di 37 anni e sono prevalentemente donne; non hanno redditi aggiuntivi, se non nel 15% dei casi (dottorandi di ricerca, collaboratori di giornali ecc.).

Tra il 2005 e il 2006, nonostante sia cresciuto complessivamente il reddito dei parasubordinati, non sono aumentati i redditi → in particolare, il fenomeno riguarda le lavoratrici, che

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percepiscono uno stipendio di circa la metà rispetto ai colleghi uomini. Come abbiamo visto, inoltre, i livelli di reddito delle divere tipologie professionali sono estremamente differenti: i collaboratori coordinati e continuativi o a progetto mostrano una condizione di reale disagio (ancor più le donne), mentre gli amministratori dichiarano un imponibile rispettabile e superiore a quello dei collaboratori di circa 20mila euro. Anche il fattore età è significativo: al di sotto dei 35 anni, l'imponibilità rimane al di sotto della media. In definitiva, i soggetti maggiormente esposti al rischio di precariato sono soprattutto i giovani e le donne, categorie deboli anche nel mercato tradizionale. L'INPS differenzia i lavoratori tipici (amministratori, sindaci, revisori di società, componenti di collegi e commissioni) dai lavoratori atipici (dottorandi, borsisti, collaboratori, venditori porta a porta, soci di cooperativa, associati in partecipazione). Tra i parasubordinati, è netta la prevalenza dei lavoratori atipici (2/3 del totale, con preponderanza femminile e minor reddito mensile). Abbiamo visto che tra questi lavoratori non sono diffuse forme di concorrenza dell'attività svolta (o comunque altre fonti di reddito). Ciò li espone maggiormente al rischio di precariato, mentre chi ha un lavoro tipico e più fonti di guadagno lo è molto meno. Adottando un'ottica multidimensionale, mediante l'analisi delle corrispondenze multiple e la cluster analysis, è stato possibile individuare cinque tipi di lavoratori flessibili contraddistinti da diversi livelli di vulnerabilità occupazionale:

1. i giovani precari (39,2%) → sono i lavoratori con un'unica fonte di reddito e monocommittenti; la presenza di atipici è altissima, l'indice di retribuzione mensile è di circa 500 euro mentre i mesi contrattualizzati sono inferiori a 6. È il profilo dei lavoratori deboli, di giovane età, prevalentemente composto da donne che vivono nel centro e nel mezzogiorno. Servizi, istruzione e sanità sono i settori principali.

2. I precari stabili (21%) → anche loro sono lavoratori esclusivi e monocommittenti ma hanno un reddito più elevato rispetto ai giovani precari (fino a 1000 euro al mese) e contratti più duraturi (fino a un anno). Sono giovani adulti con meno di 40 anni, prevalentemente maschi e residenti al centro. I settori principali sono quelli dei servizi, dell'informatica e della sanità.

3. I giovani adulti qualificati tra precarato e flessibilità (16,3%) → sono lavoratori esclusivi e monocommittenti, al di sotto dei 40 anni, con un indice di retribuzione fino a 2mila euro al mese. Sono soggetti ad alta qualificazione, per esempio dottorandi, sottoposti a lunghi percorsi di professionalizzazione che allungano i tempi in attesa di un lavoro stabile. I settori principali di attività sono il commercio, l'istruzione, le PA, l'informatica, la ricerca, prevalentemente al centro-nord.

4. I flessibili forti (16,3%) → sono amministratori, sindaci, revisori di aziende ed enti, dunque lavoratori tipici, fino a 65 anni, in prevalenza uomini. Hanno un reddito mensile compreso tra 2mila e 3mila euro, e in più del 30% dei casi supera i 3mila euro. Il settore di attività prevalente è il secondario, ma anche il commercio. Sono localizzati a nord.

5. I manager flessibili del nord (7,2%) → sono amministratori di società di età superiore a 50 anni. Svolgono altre attività o sono pensionati nel 40% dei casi, e hanno più di un committente nel 22%. La retribuzione mensile supera i 3mila euro, sono localizzati a nord ed il settore di attività prevalente è l'industria, ma anche il commercio.

Dunque, si distinguono chiaramente due grandi tipologie di lavoratori:

deboli, con competenze facilmente riproducibili e di facile reperimento sul mercato del

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lavoro, vivono una condizione di precarietà e forte insicurezza retributiva e occupazionale. Subiscono i processi di flessibilizzazione;

forti, con professionalità elevata da spendere sul mercato, quindi per loro è vantaggioso scambiare minori sicurezze con più interessanti e stimolanti contenuti lavorativi, maggiore autonomia nella gestione di tempi e modi di lavoro, compensi maggiori.

Dunque, le nuove tipologie lavorative possono fornire alle persone una maggiore libertà nella gestione della propria vita e i propri tempi, ma senza contrappesi vengono resi evidenti i livelli di disuguaglianza tra lavoratori forti e deboli. La società somiglia sempre più ad una clessidra, caratterizzata da una flessibilità buona nella parte alta, e da una flessibilità cattiva in quella bassa → esiste davvero un flexibility divide tra lavoratori flessibili (in grado di gestire autonomamente la propria condizione lavorativa) e lavoratori flessibilizzati (costretti ad affidare ad altri la gestione della propria flessibilità). È necessario trovare una via per rendere sostenibile la flessibilità, così indispensabile per rimanere competitivi a livello globale, accompagnandola a un sistema di protezione sociale che garantisca la dignità delle persone.

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CAPITOLO 8 Rappresentare il lavoro nelle organizzazioni che cambiano.

Profondi mutamenti attraversano la società attuale: il rapido progresso tecnologico, la mondializzazione delle economie e dei consumi, l'emergere di nuovi confini politici → in questo scenario del paradigma informazionale, anche il lavoro muta profilo e contenuti: diminuisce l'occupazione agricola e industriale, aumenta quella delle attività terziarie, aumentano le occupazioni manageriali, professionali, tecniche insieme a quelle di basso profilo, senza possibilità di crescita preofessionale. Infine, assistiamo ad una crescente differenziazione dal punto di vista delle tutele, dei modelli giuridici e delle identità lavorative. In particolare, Carnoy individua 4 elementi principali su cui si basa la trasformazione del lavoro nella società contemporanea:

organizzazione temporale flessibile e dinamica;

contratti di lavoro flessibili e atipici, viene meno la continuità dell'occupazione;

si modifica il contratto sociale tra datore di lavoro e dipendente (minori garanzie per i lavoratori e individualizzaizone dei rapporti di lavoro);

affrancamente del lavoro dai vincoli spaziali. In seguito a tante e tali trasformazioni, anche il sindacato è costretto a ripensare strategie e modelli d'azione → ha davanti vere e proprie sfide: rappresentare nuove categorie di lavoratori (donne, giovani, immigrati); agire nei nuovi luoghi di lavoro (settori produttivi emergenti, industrie ad alta tecnologia); operare nelle nuove forme di organizzazione (imprese a rete, aziende virtuali, imprese su scala globale). In molti Paesi industriali avanzati, negli ultimi 30 anni, si è assistito a crescenti difficoltà dell'azione sindacale. Nonostante le differenze nei singoli contesti d'azione, l'arrancamento dei sindacati nel rappresentare i nuovi lavoratori appare un fenomeno generalizzato. Le tendenze degli ultimi anni, estratte dalla ricerca di Visser sulla sindacalizzazione in 24 nazioni, ci dicono che:

negli anni '80, in 17 nazioni su 24 aumenta il numero di iscritti al sindacato, ed in alcuni casi si tratta di un massimo storico (Italia, USA, GB).

Negli anni '90 inizia la diminuzione del numero di iscritti al sindacato, che cala in 10 stati ed aumenta solo in 8;

dal 2000 in poi, si registra una battuta d'arresto per la sindacalizzazione. In questi anni, gli iscritti aumentano solo in Norvegia, Danimarca, Paesi Bassi, Belgio, Spagna e Germania, dove è presente il c.d. Sistema Ghent → un'assicurazione contro la disoccupazione, a finanziamento quasi interamente pubblico, la cui amministrazione e gestione dei fondi è in mano alle parti sociali. Nei Paesi in cui tale sistema opera, l'iscrizione al sindacato da diritto automaticamente ai benefici in caso di disoccupazione, dunque è plausibile ritenere che quanto più è alto il rischio per la propria occupazione, tanto maggiore è l'interesse del lavoratore a rivolgersi al sindacato, e proprio questo si è verificato nei Paesi citati (aumento della disoccupazione → crescita adesioni al sindacato).

Il sindacato nasce e si sviluppa nel contesto sociale creato dall'industria taylor-fordista, i cui tratti salienti sono il lavoro salariato, a tempo pieno ed indeterminato. Attualmente, il venir meno di quell' “idealtipo di lavoro e di lavoraori” nato nell'industria ha provocato una crisi in seno alla

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compagine sindacale → la pensano così sia Accornero che Gallino, il quale specifica che “le forme di lavoro flessibile contribuiscono alla frammentazione delle classi lavoratrici e delle loro forme associative”. Indatti, la creazione di una molteplicità di forme di impiego mette in discussione la contrattazione collettiva come strumento principale per esercitare la propria azione di rappresentanza → perché la contrattazione collettiva tende a privilegiare la rappresentanza di tipo unitario e maggioritario a scapito delle minoranze, per aumentare la propria forza negoziale. Fisiologico, quindi, il calo dei tassi di sindacalizzazione nel momento in cui si verifica una maggiore diversificazione e complessità nella composizione della forza lavoro. Allo stesso tempo, il livello di adesione al sindacato è connesso anche alla gratificazione che l'individuo prova nella partecipazione stessa → Cella individua il c.d. Paradosso dell'azione collettiva, secondo cui gli individui non agiscono collettivamente per realizzare un obiettivo neppure se hanno un interesse comune. Secondo Olson, per promuovere l'azione collettiva sarebbero necessari incentivi selettivi → in grado di aumentare/ridurre vantaggi/svantaggi per il singolo individuo, in base alla partecipazione o no all'azione sindacale. Tutti i sindacati offrono gli incentivi selettivi, in misura maggiore o minore, per esempio i servizi di assistenza fiscale agli iscritti. Tuttavia, secondo Cella, tali incentivi on sono determinanti per l'iscrizione. Il motivo principale per cui si decide di aderire non risiede solo in un interesse razionale, ma soprattutto nella capacità dei sindacati di proteggere i cittadini lavoratori. I modelli di adesione al sindacato, quindi, sono quattro:

1. adesione ideale (o per appartenenza) → la persona si iscrive al sindacato perché, in questo modo, può esplicitare il proprio sistema di valori all'interno di un gruppo di riferimento. Questo modello è stato molto radicato nei sindacati italiani e, per alcune categorie di lavoratori in alcune aree geografiche e in certi periodi storici, è stato il modello dominante. Oggi è quello in maggiore difficoltà.

2. Adesione strumentale → si basa su un calcolo razionale del sindaco, che ritiene che i vantaggi dell'adesione siano superiori ai costi. Spesso tali vantaggi sono ricercati in un servizio concreto o in un'azione difensiva contestuale (per esempio, i pensionati che vogliono essere assistiti per le pratiche con l'INPS o i lavoratori quando vengono messi in cassa integrazione). Naturalmente, alla base di questa adesione, c'è un minimo di adesione ideale perché le organizzazioni in grado di fornire un'assistenza specifica non sono esclusivamente sindacali.

3. Adesione solidale di gruppo → si entra a far parte del sindacato per entrare in un gruppo primario esistente nel luogo di lavoro. L'adesione, quindi, risente dei rapporti personali con il sindacato aziendale, con le persone che lo costituiscono.

4. Non adesione partecipata → si tratta di quei soggetti che non hanno nessun rapporto formale con il sindacato ma assomigliano totalmente agli iscritti. Le ragioni della non adesione partecipata possono essere diverse: una particolare situazione lavorativa (l'essere precari, o apprendisti); la diffidenza verso l'organizzazione sindacale complessiva; l'inconsistenza delle politiche di reclutamento.

Molti si sono interrogati su quali e come saranno le organizzazioni sindacali del XXI secolo. A tutti è chiaro che il lavoro che cambia ha bisogno di un'altra rappresentazione e di un'altra rappresentanza. Ci si deve interrogare, anche, sugli strumenti e le modalità da mettere in atto per rappresentare e tutelare tali rapporti di lavoro in continua evoluzione → ciò a cui si assiste è il ritorno ad una situazione culturale taylorista, in cui i sindacati erano visti con preoccupazione e fastidio perché ostacolavano le buone e cordiali relazioni di lavoro tra imprenditore e lavoratore.

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Se il sindacato non saprà mettere in atto adeguate strategie per far presa sui lavoratori, rischierà di essere bypassato e il proprio ruolo verrà sminuito. Quali sfide, quindi, per il sindacato post-moderno?

In primo luogo, dovranno dimostrare la capacità di rappresentare quei segmenti del mercato del lavoro attualmente esclusi dal loro bacino di utenza (esempio, i lavoratori non standard e i giovani).

In secondo luogo, dovranno focalizzare l'attenzione sui “lavoratori bifronte”, cioè molto qualificati, il cui passaggio da un datore di lavoro all'altro ne ha accresciuto il know how, attribuendo loro valore aggiunto → sono una merce rara sul mercato, dotati di un forte potere, quindi tendono ad attuare strategie individuali che competono con l'azione collettiva. Non sanno che farsene delle tutele sindacali, per questo i sindacati dovranno studiare incentivi selettivi per attrarli a sé.

In sostanza, il sindacato dovrà essere in grado di coniugare l'azione collettiva con gli interessi dei singoli, sia consentendo al lavoratore di accrescere la sua professionalità, sia costruendo un sistema di regole affinchè i lavoratori non rimangano prigionieri del particolare lavoro ma sviluppino le proprie capacità attraversando ruoli e posizioni differenti.

Alcuni autori ripropongono l'idea della gilda per un sindacato sostenibile. La gilda era una sorta di associazione di mestiere, ispirate alle organizzazioni di autotutela degli artigiani nate nel Medioevo, che contribuirebbero ad assicurare un certo sostegno ai lavoratori nel passaggio da un impiego all'altro. Dunque, molteplici gilde provvedono a fornire servizi specifici per gruppi diversi di lavoratori: sicurezza finanziaria, collocamento, formazione ecc. Tale proposta è interessante per l'ambito americano, ma meno esportabile altrove. A livello italiano, c'è chi ha proposto un modello sindacale ibrido, che coniughi la capacità di mobilitazione, di influenza, di indirizzo sull'arena politica e l'opinione pubblica ma che, al tempo stesso, offra servizi agli iscritti. Sempre più l'attenzione è posta sull'importanza dei servizi offerti dai sindacati ai lavoratori. Secondo la CGIL, il maggiore sindacato italiano, esistono diverse strade del rinnovamento:

la riorganizzazione delle strutture sindacali, ridimensionando le burocrazie centrali e sellendo le strutture operative a favore del rafforzamento dell'azione sindacale a livello territoriale e sui luoghi di lavoro;

il ricambio generazionale degli organismi dirigenti, aprendosi in particolare verso giovani e donne;

l'investimento sulla comunicazione, sia interna che esterna. In particolare quest'ultimo punto è di cruciale importanza. Infatti, la comunicazione nel sindacato ha sempre avuto un ruolo di primo piano. In molte nazioni, uno dei primi sindacati a strutturarsi è stato quello dei ferrovieri, proprio per la capacità di girare la nazione parlando di politica, di diritti, di assemblee. Il sindacato, per organizzarsi, crescere e competere, deve comunicare, cioè rivolgersi ai lavoratori dei quali si propone come forza rappresentativa. La comunicazione sindacale può assumere diverse forme:

comunicazione sociale → finalizzata alla difesa e alla promozione di valori pubblici e collettivi, all'educazione e alla sensibilizzazione ai diritti e doveri della cittadinanza.

Comunicazione pubblica o politica → con lo scopo di costruire il consenso attorno a problematiche riguardanti il sistema sociale nella sua interessa, facendo leva sull'opinione

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pubblica. Dunque la comunicazione pubblica attiene a problemi di rilevanza sociale e crea processi di circolazione informativi e comunicativi tra le istituzioni, i cittadini, il sistema dei media.

Comunicazione organizzativa → per realizzare una sinergia tra le attività di comunicazione rivolte sia all'interno che all'esterno dell'organizzazione. In ambito sindacale, si intende il complesso di processi comunicativi finalizzati a sostenere la logica dell'adesione volontaria, le forme e gli strumenti della partecipazione collettiva, il coordinamento, l'equilibrio tra centralizzazione e decentramento della struttura organizzativa.

La comunicazione del sindacato, dunque, si rivolge ai lavoratori rappresentati, rispetto ai quali la comunicazione presenta tre dimensioni:

comunicazione pro-valori → ha l'obiettivo di veicolare valori per contribuire alla creazione di un'identità sociale e collettiva tra i soggetti destinatari;

comunicazione pro-diritti → rende noti al lavoratore diritti e doveri della sua condizione occupazionale;

comunicazione pro-azione → riguarda gli aspetti negoziali, le modalità di presentazione e gestione di vertenze sul lavoro, gestione di interessi divergbenti e forme di regolazione dei conflitti sul luogo di lavoro mediante la mediazione sindacale.

Quanto ai mezzi utilizzati dalla comunicazione sindacale, si deve distinguere tra:

la comunicazione face to face, basata su riunioni, assemblee e comizi che implicano un contatto interpersonale. Sono gli strumenti tradizionali della comunicazione interna del sindacato, hanno la funzione di informare e consolidare l'appartenenza e l'identità collettiva.

I media tradizionali, come la televisione e la stampa sindacale. Il ricorso a questi mezzi ha permesso di comunicare con l'opinione pubblica in senso lato, e non più soltanto con gli iscritti.

ICT → mediante le moderne tecnologie dell'informazione e della comunicazione, i sindacati devono adeguarsi agli standard tecnologici raggiunti dalle altre organizzazioni, e trasferire le proprie attività e funzioni di comunicazione anche sul web. Tuttavia, lo scenario di utilizzo delle ICT da parte del sindacato non è ancora molto nitido, quando invece in Inghilterra si è cominciato a parlare di e-unions già nel 2000 (fornendo agli iscritti informazioni e servizi personalizzati in tempo reale con il supporto delle tecnologie digitali).

La rete sarebbe in grado di dare voce a tre esigenze fondamentali delle organizzazioni sindacali:

informare → è fondamentale mettere a disposizione dei destinatari di qualsiasi sito che rappresenti un'organizzazione dei dati e delle notizie funzionali a soddisfare le loro esigenze conoscitive. Per il sindacato, il web potrebbe essere un'opportunità per veicolare informazioni e conoscenze utili ai lavoratori, e allo stesso tempo diffondere i valori sindacali, una coscienza circa i diritti del lavoratore, un'informazione mirata e tempestiva sulle azioni e le iniziative portate avanti dalle organizzazioni di rappresentanza;

comunicare e interagire → il web permette di combinare nello stesso luogo i diversi livelli della comunicazione (organizzativa, pubblica, sociale, interpersonale) e le differenti forme di interazione (sincrona, asincrona, scritta, orale, simbolica). Tutto ciò stimolando lo sviluppo di occasioni di confronto e dialogo tra una molteplicità di attori sociali: i lavoratori potrebbero essere raggiunti proprio in rete, ed invitati ad interagire.

Creare comunità → il cyberspazio può diventare un luogo di esplorazione dei problemi, di discussione pluralista, di messa a fuoco di processi complessi, di decisione e di valutazione

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dei risultati che siano a misura delle comunità coinvolte. Per il sindacato, una comunità online potrebbe rappresentare un'importante occasione per strutturare un rapporto nuovo con i lavoratori, per comprendere aspettative, esigenze, bisogni e problematiche degli utenti della comunità, intorno alle quali progettare forme e modelli della rappresentanza più aderenti alle istanze dei lavoratori rappresentati. In sostanza, il sindacato dovrebbe guardare al web come ad un luogo di socializzazione e di condivisione. Per indagare l'uso del web da parte dei sindacati italiani, è stata svolta un'indagine denominata World Wide Union, che ha previsto la combinazione di due metodologie di ricerca complementari:

in primo luogo, mediante un'indagine quantitativa, si è voluto rilevare tendenze generali e aspetti caratterizzanti il campione di ricerca nella sua interezza, costituito dai siti web sindacali. Grazie ad una scheda di rilevazione costruita ad hoc, sono state rilevati 1) la dimensione dell'informazione; 2) la dimensione della comunicazione e dell'interazione; 3) la dimensione della navigabilità.

In secondo luogo, si è proceduto ad un'indagine qualitativa, mediante interviste in profondità a testimoni privilegiati del mondo della rappresentanza sindacale, per comprendere motivazioni, obiettivi, modalità dei siti web sindacali.

La ricerca è stata svolta in tre fasi:

fase pionieristica (2001) → ha avuto lo scopo di aprire un percorso di ricerca applicato allo studio delle forme della comunicazione sindacale online. Il campione era costituito da 92 siti sindacali, quasi totalmente appartenenti alla rete internet della CGIL.

Fase dell'allargamento ('02-'03) → si è posta l'obiettivo di estendere le prospettive di analisi. Il campione di indagine ha coinvolto 106 siti sindacali e sono stati introdotti, al posto di alcuni siti appartenenti al circuito della CGIL, siti di altre organizzazioni sindacali. La volontà era di comprendere se le forme della comunicazione sindacale fossero dipendenti dalla specificità delle finalità e delle strutture organizzative, o se esistesse una tendenza unica dello specifico mondo sindacale nel suo complesso.

Fase della messa a regime ('05-'06) → la terza fase è volta a consolidare il percorso di ricerca intrapreso, allargando ulteriormente il campione a 219 casi distribuiti tra le diverse formule sindacali prevalenti in Italia, per fornire una fotografia articolata ed esaustiva della comunicazione sindacale online.

I risultati principali ci dicono che:

il tipo di indormazione veicolata dalla rete si concentra sulle iniziative e le attività del sindacato, sugli strumenti di negoziazione, sui diritti dei lavoratori e sulla legislazione di riferimento;

la comunicazione si esplica mediante la diffusione di notizie, conoscenze e contenuti per rendere consapevole il pubblico e per sviluppare una coscienza collettiva sulle problematiche di rappresentanza del lavoro.

Le iniziative online per sviluppare uno spazio di condivisione e di confronto pubblico e aperto tra sindacato e lavoratori sono molto circoscritte; il modello di comunicazione prevalente è ancora di tipo verticale.

In una minoranza di casi, sono presenti invece alcune funzionalità finalizzate a raccogliere l'opinione degli iscritti e a mobilitare attraverso il web i lavoratori, per aderire a iniziative

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pubbliche o politiche. Ciò è stato portato a termine mediante sondaggi di opinione o la raccolta di firme tramite la rete. Il sindacato inizia a cercare canali di comunicazione nuovi e complementari alle forme tradizionali di interazione con i lavoratori (ancora molto ridotti, circa 1 sito su 4 nel 2007 aveva un'area dedicata alla comunicazione di ritorno).

Nel 2007, si è svolto il primo virtual strike in Second Life, indetto dal Coordinamento Nazionale RSU IMB Italia. Il progetto Sindacato 2.0, che era nato ad opera della RSU IMB di Vimercate, con quelle di Napoli, Palermo e Bari, era volto a sviluppare una comunicazione Internet bidirezionale con gli strumenti del social networking, in grado di offrire agli utenti nuovi modi di partecipazione attiva. Nello stesso anno, fu indetto il primo sciopero virtuale, contro la decisione di IBM di tagliare lo stipendio dei suoi dipendenti e il rifiuto di accettare il contratto integrativo aziendale che il sindacato in IBM chiedeva da qualche anno. L'organizzazione della protesta, durata 30 giorni, ha coinvolto 20 persone con diverse competenze localizzate in diversi Paesi. Poi, la protesta si è diffusa, in seguito alla rilevanza internazionale e mediatica del caso. Lo sciopero è stato organizzato al di fuori dell'orario di lavoro ed è stato programmato in 3 diverse fasce orarie secondi i fusi dei continenti che hanno partecipato: Europa, America ed Asia. Così lo sciopero è durato 12 ore, ed ha assunto le sembianze di uno sciopero-staffetta. Per permettere a tutti di partecipare, sono stati organizzati corsi per fare esperienza di Second Life offrendo anche un kit software. Hanno partecipato 1852 avatar, appartenenti a 30 paesi del moondo → l'inaspettato successo ha imposto al coordinamento di far convergere tutti i partecipanti in un unico luogo di ritrovo, l'isola Uni Commonwealth, in gradi di contenere contemporaneamente 400 avatar. In ogni luogo vi era un coordinatore del gruppo con il compito di accogliere gli scioperanti e gestire la sicurezza. Nel complesso, le isole della protesta erano 25, di cui 18 di proprietà della IBM (per il presidio virtuale degli uffici della corporation). L'iniziativa virtuale ha comportato conseguenze reali:

è stato possibile coinvolgere tutti i sindacati mondiali della IBM;

sono stati raggiunti target diversi, spesso lontani dal sindacato, giovani, gruppi di attivisti esterni solidali con le ragioni dello sciopero;

il sindacato ha cercato di conquistare nuovi spazi di manovra, combattendo ad armi pari con l'azienda e tentando di ottenere un ruolo di primo piano nella costruzione di rapporti sindacali internazionali → dopo 20 giorni dallo sciopero, l'a.d. Italiano si è dimesso e il sindacato ha ottenuto la firma dell'accordo.

Paradossalmente, l'azienda si è vantata delle capacità innovative dei suoi dipendenti, anche se i manager non hanno accettato di partecipare all'incontro virtuale richiesto dai sindacati.

Naturalmente, lo sciopero virtuale ha anche dei rischi:

il digital divide rende difficile la partecipazione di alcuni lavoratori, più anziani e inesperti di pc e mondi virtuali!

È stato complesso valutare gli aspetti legali dell'iniziativa, mai tentata in precedenza;

altre difficoltà sono state legate ad aspetti organizzativi, tecnici e logistici (non dimentichiamo che la lingua ufficiale di SL è l'inglese, per cui vi è stato un effetto scoraggiamento);

difficoltà di gestire le informazioni a livello internazionale e di organizzare l'elevato numero

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di avatar partecipanti, che avrebbero potuto provocare il blocco del sistema.

Per finire, vi era il rischio dei griefers, cioè gli avatar infiltrati che avrebbero potuto diffondere slogan e cartelli con messaggi dissonanti con quelli dello sciopero.

Quindi: Internet e la comunità in rete offrono al sindacato nuove possibilità di comunicazione interattiva e bidirezionale verso i membri dell'organizzazione, gli iscritti, i lavoratori e i cittadini in generale. Tuttavia, non è sufficiente creare un sito per innescare circoli virtuosi di comunicazione: occorre creare comunità basate sulla partecipazione democratica offerta dagli strumenti web, quindi offrire agli iscritti la percezione di essere più ascoltati e di sentirsi più uniti a livello ideale. Occorre anche fare attenzione ai diversi target del sindacato: un unico mezzo non è mai buono per tutti, i lavoratori sono tanti, ognuno dialoga con i propri linguaggi e strumenti. Inoltre, molti lavoratori sono già parte di comunità nate in rete (facebook, linkedin, myspace), quindi anche il sindacato dovrà entrare e creare propri spazi attivi nelle reti sociali esistenti. È necessario che l'organizzazione sindacale, in sostanza, passi da un modello organizzativo gerarchico e verticale ad uno reticolare ed orizzontale → in tutti gli altri casi, l'organizzazione sindacale ragionerebbe in modo diverso dalla rete, e si troverebbe davanti solo porte chiuse.

CAPITOLO 9

Etnografia per lo studio delle organizzazioni. Guardare all'organizzazione in un'ottica culturalista impone una riflessione su artefatti, riti, simboli organizzativi, e su come questi possano essere rilevati. Se intendiamo l'organizzazione come il prodotto della sua cultura, dobbiamo adottare una prospettiva simbolica ed utilizzare strumenti di analisi di tipo qualitativo, come appunto quelli propri del metodo etnografico → quindi, lo studio etnografico delle organizzazioni si avvale di una metodologia di tipo qualitativo (l'etnografia) per osservare la cultura propria di un'organizzazione. Le fonti di raccolta dati per uno studio etnografico possono essere:

artefatti fisici e testi scritti, che esprimono tracce della vita organizzativa;

eventi collettivi;

i soggetti e le loro espressioni, verbali, naturali, o artificiali. Questi dati possono essere analizzati secondo diverse tecniche:

analisi del contenuto dei testi scritti;

osservazione partecipante;

intervista etnografica. Uno strumento utile per rilevare le aree di interesse, per quanto riguarda i documenti, è la scheda d'analisi → simile ad un questionario, è una successione ordinata di voci o aree tematiche, in cui vengono raccolte le informazioni interessanti. Uno specifico argomento oggetti di interesse può essere rilevato anche in termini di presenza/assenza, ottenendo una variabile dicotomica. Utilizzando la pratica dell'osservazione, il ricercatore usa un insieme di tecniche di rilevazione che gli consentono di studiare i comportamenti degli individui e le loro interazioni all'interno delle quali queste si producono. Le modalità dell'osservazione sono due:

partecipante → il ricercatore entra a far parte del sistema osservato;

non partecipante → il ricercatore rimane all'esterno del sistema.

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Il ricercatore dovrà essere fornito di block notes ed eventuale registratore, per annotare la struttura fisica e sociale dell'organizzazione, nonché l'interazione e il linguaggio usato dagli attori organizzativi. È importante annotare informazioni sulla personalità dei personaggi “storici” (questo consente di carpire l'anima dell'organizzazione e la sua storia). Inoltre, l'osservazione degli artefatti fisici e visivi (loghi, architettura, design, ma anche parcheggi e scrivanie) consente di ottenere informazioni sulla struttura sociale dell'organizzazione, mediante la distribuzione degli spazi. Informazioni sulle interazioni ed il linguaggio utilizzato dagli attori provengono, invece, dalla partecipazione alle riunioni, ai meeting e a tutti quei momenti in cui l'organizzazione manifesta sé stessa e i partecipanti si sentono parte di un'unica struttura (si coglie la declinazione della vision aziendale). Attraverso l'osservazione delle azioni operative dei singoli, invece, si può evincere il portato individuale e il livello di partecipazione di ciascun individuo. Dopo aver osservato la struttura dell'organizzazione e i comportamenti dei suoi attori, si può procedere con le interviste. In una ricerca culturalistica, gli obiettivi di un'intervista sono di far emergere:

il logos dell'organizzazione → le credenze, gli schemi e i criteri di valutazione applicati epr distinguere la verità dalla falsità;

l'ethos dell'organizzazione → i sistemi di valutazione di ciò che è giusto e sbagliato;

l'aisthesis dell'organizzazione → i criteri per valutare ciò che è bello e ciò che non lo è;

il methodos dell'organizzazione → le indicazioni per individuare ciò che va fatto e come fa fatto (o ciò che non va fatto e come non farlo).

Esistono due tipi di intervista:

non strutturata → l'intervista diventa un momento di relazione tra i due soggetti che partecipano alla situazione d'intervista. Il ricercatore cerca di far emergere la percezione della realtà dell'intervistato, e l'esperienza sociale in cui è immerso. Le parole dell'intervistato sono il focus di interesse privilegiato, perché rappresentano l'insieme degli artefatti culturali, la cornice organizzativa all'interno della quale lui stesso si trova inserito.

Semi-strutturata → il ricercatore predispone alcune domande a risposta aperta, che sottoporrà a tutti gli intervistati. In questo modo, si supera il limite dell'intervista non strutturata, che non consente di comparare i dati fra più soggetti, essendo le domande dissimili tra loro.

Alcuni punti da tener presenti nella redazione delle domande sono:

le modalità di reclutamento e selezione, la formazione e l'affiancamento;

la storia dell'organizzazione di cui si è a conoscenza;

quella recente, a cui si è partecipato (i momenti più significativi);

i momenti di crisi, e come sono stati affrontati. Durante l'osservazione o le interviste, il ricercatore prende appunti. Tali appunti formano le note etnografiche. Nello studio di questi appunti si procede secondo tre fasi:

1. la decostruzione → si procede ad un lavoro di rilettura e di analisi degli appunti presi. Il testo delle note viene smembrato, cioè decostruito secondo i punti di vista che emergono durante il processo di lettura;

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2. la costruzione di un nuovo racconto → gli appunti prendono una forma diversa rispetto a quella data alle prime note etnografiche;

3. la conferma → si tratta della validazione del “nuovo” testo. A queste tre fasi si aggiunge l'operazione della registrazione delle note etnografiche, che consente di delineare il processo di organizzazione dell'informazione etnografica come un'esplicitazione di conoscenza che da tacita si fa esplicita e che può tornare ad essere tacita secondo uno schema a spirale. Le modalità di codifica dei dati qualitativi sono essenzialmente tre:

la codifica aperta → si tratta di una micro analisi del testo, estrapolando concetti e creando etichette.

Codifica assiale → l'obiettivo è ricostruire i dati frammentati durante la codifica aperta, lavorando sulle relazioni tra categorie e le loro dimensioni.

Codifica selettiva → si individua una categoria “portante”, e si decide di far ruotare attorno a essa l'interpretazione dei dati. Questa categoria si identifica perché è quella che appare più di frequente nei dati, ha più connessioni con le altre, fornisce una spiegazione logica dei dati.

Le fasi di decostruzione, costruzione e conferma dei dati sono coadiuvate da pacchetti informatici prodotti per l'analisi qualitativa assistita da computer. Questi software appartengono alla famiglia dei CAQDAS (Computer Qualitative Data Analysis Software) → comprendono tutti quei pacchetti informatici che aiutano il ricercatore nell'analisi dei dati qualitativi. Tali livelli di analisi sono diversi e prevedono:

un piano di analisi per le parole → con le Keyword in context (KWIC) si estraggono, per le parole selezionate, i segmenti di testo ai quali si riferiscono. In questo modo si possono analizzare i diversi contesti e significati di ogni parola.

per i codici → i codici possono essere di diverso tipo: 1) descrittivi; 2) analitici; 3) modelli di codici. Anche per i codici è possibile estrarre delle liste con la frequenza, oppure i segmenti di testo ai quali sono stati applicati. Poi, dopo aver creato una categoria che fa riferimento a un aspetto emerso dal testo, si possono classificare i codici e organizzarli in un sistema gerarchico mediante le strutture gerarchiche ad albero.

per i concetti → dopo aver lavorato sul testo ed aver etichettato i frammenti significativi, è possibile sintetizzare quanto trovato mediante delle tabelle di contingenza, in cui in riga troviamo i concetti, e in colonna i documenti dai quali sono stati estratti.

per i memos → i memos possono essere descrittivi, concettuali, di metodo, per le note teoriche. Il corretto uso dei memos garantisce la tracciabilità del lavoro svolto.

Infine, è possibile rappresentare graficamente le relazioni tra codici, categorie e/o concetti utilizzando dei network → tali network riproducono una tassonomia, ovvero il legame che l'analista struttura durante il processo di codifica tra concetti, categorie, proprietà e dimensioni. Un network concettuale sintetizza graficamente un insieme di concetti e relazioni che emergono tra gli stessi, dunque è una vera e propria mappa del contenuto di un testo o di un insieme di testi analizzati. Nella rappresentazione grafica, il concetto è l'elemento centrale della visualizzazione, perché è il cuore del network. A partire dal centro, si snodano relazioni che rappresentano una sorta di “misura” della forza e dell'intensità di un concetto: dunque, la posizione occupata dalla categoria centrale è determinante nella visualizzazione del network, in quanto obiettivo di questo tipo di analisi è stimare la posizione della categoria centrale all'interno del network concettuale che si è generato. Un insieme di concetti posti nello stesso spazio e uniti da frecce tra di loro si

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dice local network. Un elemento costituente un network è il vocabolario, che include l'insieme dei concetti.

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CAPITOLO 10 Studiare le organizzazioni con l'analisi delle reti.

L'applicazione dell'analisi delle reti o Social Network Analysis allo studio dei contesti organizzativi permette di cogliere la complessità dell'agire organizzativo, evidenziando il ruolo, la natura e la struttura dei processi relazionali e di interdipendenza tra gli attori interni ed esterni dell'organizzazione. L'applicazione di questa analisi è particolarmente adeguata per lo studio delle organizzazioni che, non presentandosi più come strutture chiuse/rigide/formali ma come ambienti aperti/mutevoli/dinamici, richiedono di spostare il focus degli studi organizzativi dalle strutture/gerarchie/procedure/posizioni a competenze e processi sociali, cioé alle relazioni tra gli attori dell'organizzazione (formali e non). Studiare le relazioni diviene un fattore cruciale per comprendere il comportamento organizzativo e pianificare politiche e strategie di gestione in grado di raggiungere elevati livelli di efficacia ed efficienza. Il primo, serio approfondimento del concetto di network sociale come “sistema relazionale complesso, fluido e dinamico” si deve agli studi antropologici → ciò diede vita ad una serie di richerche qualitative, fondate sull'osservazione partecipane e focalizzate sullo studio della dimensione relazionale delle reti sociali, in cui si aprono importanti spazi di azione individuale. Nel tempo, si è assistito ad un allargamento dell'oggetto della ricerca: dal piccolo gruppo si è passati allo studio delle reti sociali e dei processi di comunicazione al loro interno, definendo la posizione strategica dei nodi del reticolo e i ruoli di potere. Questo perché il presupposto alla base della network analysis è la convinzione che le relazioni sociali strutturate siano un potente mezzo di spiegazione sociologica, sicuramente più efficace degli attributi personali dei membri del sistema → il comportamento sociale non è la somma degli attributi personali delle unità di ricerca, ma riguarda legami, vincoli, connessioni che relazionano diversi attori e, dunque, non possono essere ridotti a proprietà degli stessi individui agenti. Secondo Wellman, per comprendere le relazioni sociali è fondamentale tenere in considerazione alcuni assunti:

l'asimmetria dei legami tra due persone;

la reciprocità dei legami, che rappresentano parti stabili di un sistema sociale;

la volontarietà o involontarietà dei legami (per esempio network amicale vs gruppo di lavoro);

la transitività dei legami (se esiste un legame diretto tra A e B, e tra B e C, è molto probabile che il legame indiretto tra A e C si trasformi, con il tempo, in diretto);

la limitatezza del numero dei legami;

i nodi di un network non sono necessariamente individui, ma possono identificare gruppi, nazioni, organizzazioni, territori, tecnologie e via dicendo.

La SNA, applicata all'ambito organizzativo, si è rivelata una metodologia molto interessante per l'analisi dei reticoli relazionali sia interni che esterni alle organizzazioni (Organizational Network Analysis). ONA è un termine coniato da Falkowski, che si convinse dell'utilità della SNA per studiare ed intervenire sull'organizzazione informatle delle aziende, contribuendo ad identificare le

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caratteristiche dell'organizzazione, la presenza di gruppi informali e di comunità di pratica, i leader e gli esperti informali, le persone sottoutilizzate, i colli di bottiglia, gli effettivi flussi di lavoro. L'approccio relazionale è legato ad una serie di teorie dell'organizzazione che evidenziano la centralità delle relazioni:

teoria delle contingenze → la logica contingentista evidenzia, ad esempio, che la natura dei legami può intervenire sui processi di trasmissione della conoscenza: i legami forti giocano un ruolo importante nella diffusione di conoscenze complesse, quelli deboli invece sono più efficaci nello scambio di conoscenze codificate.

teoria della dipendenza dalle risorse → pone un'enfasi particolare sullo studio dei flussi di scambio di risorse tra organizzazioni, analizzandone le relazioni di potere/dipendenza. Allo stesso modo, la prospettiva relazionale sostiene l'importanza di rafforzare i legami tr organizzazioni appartenenti allo stesso network.

teoria neoistituzionalista → individua come oggetto privilegiato di studio le attività legittimate socialmente nell'ambiente, le quali danno luogo ad un campo organizzativo. L'attenzione è sugli insiemi dei processi sociali fondati su conoscenze omogenee e condivise, di pratiche organizzative e lavorative peculiari, di prescrizioni impersonali che istituzionalizzano l'azione, di processi di interazione organizzativa, di schemi cognitivi che costruiscono il senso e la struttura del campo organizzativo stesso.

teoria delle popolazioni organizzative → evidenzia il concetto di nicchia ecologica: l'ambiente non è considerato come un sistema omogeneo ma come un insieme di aree e settori specifici, nicchie ecologiche appunto. Tali nicchie rappresentano il patrimonio di risorse dalle quali dipende un gruppo di organizzazioni in concorrenza tra loro. Il termine network è funzionale a descrivere il funzionamento del più ampio mercato, nonché lo sviluppo e l'azione delle nicchie organizzative.

Economia dei Costi di Transazione → focalizzare l'attenzione sulle transazioni permette di evidenziare il network di connessioni esistenti tra gli attori operanti sullo stesso mercato. Ad esempio, le forme di franchising, gli accordi con i fornitori, i contratti di lavoro, rappresentano tutte condizioni di scambio che, per essere realizzate, necessitano che l'organizzazione dia vita a transazioni.

teoria delle organizzazioni knowledge-based → restituisce all'organizzazione l'immagine di un corpo di conoscenze, che può sviluppare la propria capacità innovativa solo valorizzando le sinergie e i legami informali che le collegano ai diversi attori interni ed esterni nell'ambito di uno stesso contesto di azione.

L'Organizational Network Analysis prevede due prospettive di analisi principali:

macro → finalizzata a rilevare e analizzare le dinamiche relazionali che si verificano oltre i confini organizzativi e considera il reticolo di connessioni tra i diversi attori che agiscono nell'ambito dello stesso campo organizzativo;

micro → focalizza l'attenzione sulla dimensione interna delle dinamiche relazionali che attraversano la struttura organizzativa.

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A livello applicativo, l'ONA viene utilizzata prevalentemente per portare alla luce l'organizzazione informale, ovvero l'insieme di azioni e pratiche organizzate svolte mediante relazioni informali → l'importanza di queste analisi è evidenziata dal fatto che, nelle organizzazioni, il 79% del lavoro è svolto mediante canali informali, quindi l'ONA rivela la sua utilità nel rendere visibili gli schemi di comunicazione e collaborazione altrimenti invisibili. Un altro ambito applicativo dell'ONA riguarda la rilevazione della mappa delle conoscenze e competenze individuali e organizzative. In sostanza, l'ONA permette di osservare e analizzare, in prospettiva reticolare:

la natura delle relazioni tra individui, tra unità organizzative, tra organizzazioni;

il livello di consapevolezza delle conoscenze e competenze presenti nel contesto organizzativo;

la frequenza e l'intensità degli scambi informativo-decisionali tra gli attori;

il profilo dei singoli attori e l'identificazione del loro ruolo e della loro posizione nel reticolo;

la presenza di comunità di pratica spontanee.

Quali sono le misure tipiche della SNA?

La densità → la quantità e l'intensità delle relazioni in una rete, consente di fornire utili informazioni sul livello di integrazione informale in un'azienda o sui flussi interfunzionali di comunicazione che attraversano diverse unità organizzative;

la coesione della rete → indica l'efficacia degli scambi informativi, più è alta, più i percorsi comunicativi sono brevi e meno distorsioni sono possibili sul percorso delle informazioni;

misure di centralizzazione → indicano quanto un reticolo è centralizzato attorno a dei punti focali e sono utili per capire il livello di centralizzazione e accentramento delle organizzazioni. Ad esempio, organizzazioni con un'elevata centralizzazione presentano strutture e processi più accentrati e una fisionomia meccanicistica; organizzazioni, invece, meno centralizzati, tendono ad avere una natura più organica perché si basano sulla coesistenza di centri multipli. Il concetto di centralizzazione può essere distinto in due misure: 1) centralità locale → descrive l'integrazione di un punto rispetto al suo vicinato (quindi non importa che il punto sia centrale o no nella rete), è calcolata con la misura del degree, cioè il numero degli altri punti cui è adiacente. 2) centralità globale → descrive la struttura di un reticolo sociale, quindi considera la centralità dei punti focali; in altre parole, la centralità globale indica se un nodo detiene una posizione d'importanza strategica nella struttura complessiva della rete. La centralità globale è espressa mediante due misure: la closeness (misura le distanze tra i punti, più è bassa più il nodo è vicino agli altri punti) e la betweennes (misura quanto la posizione del nodo è strategica, cioè lega indirettamente nodi non direttamente legati tra loro).

Utilizzando queste misure, è possibile valutare se gli attori presenti in un contesto organizzativo svolgono la funzione di:

acquirenti di conoscenza (reperiscono presso altri attori o fonti dati le informazioni e le risorse necessarie per svolgere il loro ruolo);

fornitori di conoscenza (focal points ai quali rivolgersi per ottenere informazioni su determinati contesti tematici e di azione);

intermediari (mettono in contatto gli acquirenti con i fornitori di conoscenza).

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Un'altra classificazione sui ruoli che è possibile individuare in un'organizzazione mediante una Organizational Network Analysis è fornita da Oriani:

connettore centrale → attore attivo scelto come fonte informativa da parte degli altri attori della rete, con una frequenza superiore alla media.

Broker → svolge un ruolo di intermediazione, collegando tra loro gli altri nodi della rete. È chiamato anche gatekeeper, perché può mettere in contatto vari gruppi sociali.

Pulsetaker → è la persona più vicina a tutti gli altri nella rete, quindi può arrivare in modo diretto alle informazioni.

attore periferico → è scarsamente connesso e relazionato con gli altri nodi, può indicare una scarsità di competenze ma anche una scelta personale di isolarsi o una sottoutilizzazione da parte di manager e responsabili.

L'ONA può fornire contributi utili sia allo studio del patrimonio di competenze e relazioni esistenti tra i soggetti appartenenti a un'organizzazione o un gruppo professionale, sia le condizioni affinché avvengano nuove occasioni di confronto e scambio. Per ottenere questo risultato, è necessario considerare sia il livello individuale di osservazione, sia il livello organizzativo:

livello individuale di osservazione → analizza il modo in cui gli individui percepiscono le relazioni tra persone appartenenti allo stesso contesto di azione. Infatti, gli individui conoscono ed interpretano le dinamiche relazionali tra gli altri attori della rete, sviluppando una propria mappa di relazioni. Accanto a queste mappe soggettive, vi è una struttura di costrizioni: da un lato, le persone tendono ad agire confidando nel supporto che gli altri possono fornire nel prendere decisioni importanti; dall'altro, tali rapporti sono influenzati dalla tendenza a legarsi più approfonditamente con persone dagli attributi simili. Dunque, questo atteggiamento di preferenza per relazioni sociali affini è un vantaggio per quelle persone che sanno muoversi in contesti eterogenei, rapportandosi con persone e gruppi differenziati. Lo scopo dell'analisi, in sostanza, è portare alla luce modelli di comportamento individuali, evidenziando elementi di omogeneità e/o disomogeneità nei processi relazionali sviluppati.

Livello organizzativo di osservazione → permette di leggere in maniera aggregata il funzionamento organizzativo, focalizzandosi principalmente sul network di relazioni esterne (alleanze strategiche, relazioni compratori-fornitori, joint ventures..). L'organizzazione è concepita come una realtà aperta e dinamica, influenzata dall'esterno. Ambiente e organizzazione vengono letti in base al continuo rapporto di interscambio di risorse che avviene tra loro. In particolare, i livelli di analisi delle relazioni ambiente-organizzazione sono tre: 1. il network interorganizzativo → definisce la posizione dell'organizzazione nella trama

di relazioni che intercorrono con gli altri attori ambientali (fornitori, clienti, competitors, sindacati..);

2. l'ambiente generale → analizza l'insieme di forze che influenzano il network interorganizzativo (ambiente sociale, culturale, economico, politico, legale, tecnologico, fisico);

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3. l'ambiente internazionale e globale → comprende l'insieme degli attori e delle influenze su scala globale, quindi rientrano in questo livello gli enti e gli organismi internazionali, le società di consulenza internazionale.

4. Dunque, oggetto di questa prospettiva di analisi è il reticolo interorganizzativo e non solo l'organizzazione. Concludendo.. le imprese non possono sopravvivere facendo riferimento solo sull'organizzazione formale, in quanto le organizzazioni contemporanee devono reagire continuamente alle tensioni dovute alla mutevolezza e alla dinamicità dell'economia e dei mercati attuali. Comprendere l'organizzazione informale significa individuare i ruoli chiave, i gruppi di competenze prevalenti, i flussi reali di risorse e informazioni da cui partire per pianificare e progettare processi organizzativi e di lavoro più efficaci ed efficienti, al fine di un miglioramento complessivo delle prestazioni aziendali. La prospettiva e gli strumenti della Social Network Analysis permettono, appunto, di cogliere questi aspetti essernziali della complessità organizzativa, rendendo visibile la configurazione reale dell'organizzazione, fornendo indicazioni sullo status quo del sistema organizzativo attuale e sulla sua possibile evoluzione nel tempo. Accettare un approccio di studio alle organizzazioni fondato sulla logica delle reti presuppone il passsaggio da una concezione dell'organizzazione come un sistema che può essere progettato/gestito e controllato dall'alto all'idea di organizzazione come entità flessibile, che va coltivata creando le condizioni capaci di valorizzare la sua natura dinamica e di favorire il suo naturale sviluppo.