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137 Riappropriazione simbolica dell’ayahuasca tra pra- tiche di rappresentazione e partecipazione politica Riccardo Badini Il sistema di pensiero indigeno amazzonico e la sua intima relazione con l’ecosistema delineano oggi una zona di incontro conflittuale con gli inte- ressi occidentali che include sia il campo economico sia quello dell’immaginario con le sue corrispondenze simboliche. All’avanzare dei grandi poteri, legati all’industria estrattiva e del turismo con la loro costante minaccia verso i territori delle popolazioni locali, fa eco una nuova forma di capitalismo che intacca adesso gli ambiti del sapere e della ritualità ance- strale. È l’ultima ondata di un movimento coloniale - faccia oscura della modernità 1 - che in epoca neoliberale investe le conoscenze locali indigene trasformando l’Amazzonia in una sorta di “mercato spirituale”. Nella modernità la legittimazione dello sfruttamento americano da parte dei gruppi di potere prima europei e poi statunitensi si è fondata sul pregiudi- zio dell’inferiorità conoscitiva indigena connessa a una presupposta incapaci- tà di ragionamento. Si è considerato per secoli che intere zone del globo non producessero pensiero. E le terre amazzoniche poi, percepite pressoché vuote dall’occhio uniformante occidentale o scarsamente abitate da gruppi dispersi nella selva, hanno generato miti nell’immaginario occidentale come quello del “gran vuoto”: un enorme territorio indistinto, escluso da forme di comu- nicazione, in cui si poteva intervenire indiscriminatamente. Alla negazione della componente umana amazzonica e delle sue forme di espressione, resa insostenibile dal crescente fenomeno dell’autodeterminazione indigena, il discorso egemonico sostituisce oggi ambiguamente interessi ispira- ti più al soddisfacimento dei nostri bisogni che al relativismo culturale, pro- muovendo il recupero di un rapporto spirituale e intimo con la natura ma provocando in realtà una caduta dei saperi indigeni nei circuiti commercia- li. Le conoscenze dell’altro, lungi dal favorire la riflessione sulla contestua- 1. Per l’idea di modernità strettamente connessa ai processi coloniali si vedano gli studi di Walter Mignolo e del gruppo modernidad/colonialiad (Mignolo, 2011), (Castro-Gómez, Grosfoguel, 2007).

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Riappropriazione simbolica dell’ayahuasca tra pra-tiche di rappresentazione e partecipazione politica Riccardo Badini

Il sistema di pensiero indigeno amazzonico e la sua intima relazione con l’ecosistema delineano oggi una zona di incontro conflittuale con gli inte-ressi occidentali che include sia il campo economico sia quello dell’immaginario con le sue corrispondenze simboliche. All’avanzare dei grandi poteri, legati all’industria estrattiva e del turismo con la loro costante minaccia verso i territori delle popolazioni locali, fa eco una nuova forma di capitalismo che intacca adesso gli ambiti del sapere e della ritualità ance-strale. È l’ultima ondata di un movimento coloniale - faccia oscura della modernità1 - che in epoca neoliberale investe le conoscenze locali indigene trasformando l’Amazzonia in una sorta di “mercato spirituale”.

Nella modernità la legittimazione dello sfruttamento americano da parte dei gruppi di potere prima europei e poi statunitensi si è fondata sul pregiudi-zio dell’inferiorità conoscitiva indigena connessa a una presupposta incapaci-tà di ragionamento. Si è considerato per secoli che intere zone del globo non producessero pensiero. E le terre amazzoniche poi, percepite pressoché vuote dall’occhio uniformante occidentale o scarsamente abitate da gruppi dispersi nella selva, hanno generato miti nell’immaginario occidentale come quello del “gran vuoto”: un enorme territorio indistinto, escluso da forme di comu-nicazione, in cui si poteva intervenire indiscriminatamente.

Alla negazione della componente umana amazzonica e delle sue forme di espressione, resa insostenibile dal crescente fenomeno dell’autodeterminazione indigena, il discorso egemonico sostituisce oggi ambiguamente interessi ispira-ti più al soddisfacimento dei nostri bisogni che al relativismo culturale, pro-muovendo il recupero di un rapporto spirituale e intimo con la natura ma provocando in realtà una caduta dei saperi indigeni nei circuiti commercia-li. Le conoscenze dell’altro, lungi dal favorire la riflessione sulla contestua-

1. Per l’idea di modernità strettamente connessa ai processi coloniali si vedano gli studi

di Walter Mignolo e del gruppo modernidad/colonialiad (Mignolo, 2011), (Castro-Gómez, Grosfoguel, 2007).

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lizzazione storica e socioculturale o dal porci quesiti su forme diverse di stare al mondo, vengono allora scambiate a poco prezzo per l’ottenimento di nuovi profitti.

Le popolazioni amazzoniche dell’interno ma anche delle zone urbane con alta densità meticcia, hanno continuato a interpretare la realtà secondo i propri parametri culturali. Hanno risposto agli attacchi della modernità con le loro forme di pensiero. Le ferite provocate dallo sfruttamento del cauc-ciù, da quello petrolifero e dal turismo indiscriminato in epoca attuale, sono di fatto rintracciabili nel discorso indigeno e meticcio contemporaneo filtra-te da una prospettiva culturale autoctona volta a lenirle2. Nella sottile linea che separa l’essere umano dalle altre specie animali e vegetali il pensiero indigeno pone la possibilità di riscatto e la ricerca di un equilibrio concilia-tore che si fonda su una comunicazione orizzontale tra essere umano e na-tura in antitesi all’atteggiamento prometeico occidentale.

Sebbene in un altro contesto culturale, pur sempre collegato ai saperi ancestrali americani, lo scrittore peruviano José María Arguedas nella sua poesia in quechua Huk doctorkunaman qayay autotradotta nel 1966 con il titolo LLamado a algunos doctores, contrappone la scienza naturale andina a quella occidentale con le sue presunzioni di universalità. Introduce, infat-ti, concetti di consanguineità dell’essere umano con l’ambiente naturale nel momento in cui descrive i fiori di patata e di quinua, emblemi della biodi-versità peruviana, come materia strutturante il cervello e il cuore dell’uomo andino. Con estrema lucidità verso la condizione indigena e l’immagine strumentale della sua arretratezza veicolata dalla cultura ufficiale, inizia il componimento con i versi

Dicen que ya no sabemos nada, que somos el atraso, que nos han de cambiar la cabeza por otra mejor. Dicen que nuestro corazón tampoco conviene a los tiempos, que está lleno de temores, de lágrimas, como el de la calandria, como el de un toro grande al que se degüella; que por eso es impertinente3 (Arguedas, 1983, p. 253). Quasi profeticamente Arguedas anticipa il nucleo del dibattito contem-

poraneo su cui gravano come macigni le dichiarazioni del precedente presi-dente della Repubblica peruviana Alan García al potere fino al 2011, che

2. Si vedano i testi di Galli e di Tello in questo stesso volume. 3. Dicono che ormai non sappiamo nulla, che siamo arretrati, che ci devono cambiare la

testa con una migliore. Dicono che nemmeno il nostro cuore è adatto alla modernità, che è pieno di timori, di

lacrime, come quello dell’allodola, come quello di un toro grande che viene sgozzato e per questo è impertinente (trad. mia).

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definiscono i popoli amazzonici perros del hortelano, incapaci di approfit-tare delle ricchezze delle loro terre e di lasciare che il paese ne possa rica-vare un profitto, contrari al progresso quindi perché ostili all’approvazione di un insieme di leggi (Ley de la selva) del 2008 che in pratica avrebbe concesso l’usufrutto dei territori comuni amazzonici alle multinazionali estrattive.

I detentori della conoscenza, invece, sono chiamati da Arguedas a con-dividere il senso classico che verso la natura nutre il mondo andino. La scrittura invita all’inclusione e alla partecipazione con tutti i sensi, non solo quello visivo privilegiato dalla nostra cultura ma inabile a cogliere le mille sfumature dei fiori nell’altipiano andino o le lacrime degli uccelli che can-tano. Anche l’udito partecipa all’invito poetico una volta preparato a distin-guere le pulsazioni dei lombrichi che fertilizzano la terra o a comprendere il brusio degli insetti. Il minuscolo fa parte di un tutto come il maestoso con le sfumature dei ghiacciai o il suono dell’acqua nei precipizi. Il poeta esorta a sentire il sapore delle linfe vegetali e il contatto con l’acqua che scorga dalle alture, ma è il senso di se stessi a marcare la differenza maggiore. La percezione ormai persa di sentirsi vicini, affini, consanguinei con gli altri fenomeni della natura come lo sono animali e piante o rocce:

Quinientas flores de papas distintas crecen en los balcones de los abismos que tus ojos no alcanzan, sobre la tierra en que la noche y el oro, la plata y el día se mezclan. Esas quinientas flores son mis sesos, mi carne4 (Arguedas, 1983, p. 253).

Il processo di profonda adesione alla natura attraverso il linguaggio si

spinge fino a delineare una vera e propria ecologia della letteratura (Melis, 1998, p.52) e il climax di questo percorso è segnato da un passaggio che lascia intravvedere un legame profondo con il mondo amazzonico, quasi a sottolineare un’originaria comunanza di quegli universi autoctoni, è il mo-mento in cui il poeta “apre gli occhi” agli ottusi dottori versando sulle loro pupille: “el jugo de millares de raíces que piensan y saben5” (Arguedas, 1983, p. 254).

In Amazzonia la natura è dotata di sapere, ha una sua vita di coscienza, rappresenta l’origine del sapere cosmologico e terapeutico. La conoscenza non è centrata sull’essere umano ma è data da una rete comunicativa ecolo-gica; ecosistema e sistema di pensiero si sovrappongono, per questa ragione

4. Cinquecento fiori di diverse patate crescono sui terrazzamenti negli abissi che i tuoi non raggiungono, sulla terra in cui la notte e l’oro, l’argento e il giorno si mescolano. Questi cinquecento fiori sono il mio cervello e la mia carne. (Trad. mia)

5. Il succo di migliaia di radici che pensano e sanno. (Trad. mia)

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le piante e particolarmente quelle psicoattive come l’ayahuasca sono desi-gnate con il titolo di maestre. La visione occidentale di un’intelligenza cir-coscritta al solo essere umano sfuma così come la dualità natura/cultura su cui si fonda la nostra filosofia.

L’antropologo svizzero Geremy Narby, dopo anni di lavoro con gli in-digeni asháninka dell’Amazzonia peruviana, ha recentemente pubblicato un testo dal titolo emblematico Intelligence dans la nature. En quête du sa-voir (Narby, 2005), dove mette in relazione le ultime scoperte della ricerca in ambito biologico e biomolecolare con il sapere tradizionale amazzonico rivelando inaspettate affinità. I comportamenti degli uccelli, dei felini e persino di alcuni organismi unicellulari, possiedono un’intenzionalità co-mune anche a certe piante osservate, che pone fortemente in crisi la delimi-tazione del campo intellettivo al solo essere umano. Si scopre che nel tec-nologico e occidentalizzato Giappone, erede di una cultura scintoista e buddista di derivazione cinese, gli umani non sono considerati come gli unici detentori di un’anima. Non è un caso che studi pioneristici sui primati si siano svolti proprio in questo paese a partire dagli anni ‘50 e si sono indi-rizzati all’analisi di motivazioni, personalità e vissuto degli animali. Le scoperte hanno investito anche l’ambito della trasmissione della conoscen-za a livello parentale presso i gruppi di scimmie con un fenomeno che è sta-to definito “precultura”. E mentre questo approccio è stato rifiutato per de-cenni dagli scienziati occidentali perché giudicato antropomorfizzante, oggi si tende a considerarlo come norma nell’ambiente scientifico (Narby, 2005, p. 67). Ricercatori giapponesi contemporanei non esitano a usare il termine intelligenza nell’analisi del comportamento di organismi monocellulari in grado di risolvere un labirinto per procacciarsi del cibo. Più esattamente si tratta di una sorta di “capacità di sapere” espressione che traduce il concetto giapponese significato dalle parole, trascritte in italiano, ci-sei (attitudine al sapere) diffusa nel mondo naturale.

In una riflessione sulle sfumature di questa posizione ontologicamente distinta rispetto a quella occidentale, invitato a delimitare il campo seman-tico del nostro concetto d’intelligenza il biologo giapponese Toshiyuki Na-kagaki risponde: «Io sento che dietro questa parola, c’è tutta la cultura cri-stiana occidentale, secondo cui l’intelligenza è un dono di Dio accordato esclusivamente agli umani» (Narby, 2005, p. 120).

La riflessione epistemologica attuale è sempre più incline a riconoscere l’infondatezza ontologica delle opposizioni natura/educazione, istin-to/cultura, natura/cultura, funzionali alla costruzione dell’impresa scientifi-ca occidentale (Brevini, 2013, p. 13) ma fuorvianti nella costruzione di un reale dibattito interculturale; compagne fedeli, piuttosto, di ben altra impre-sa, quella della colonizzazione con la sua giustificazione civilizzatrice

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quando non ordinatrice della natura indomita. Umani e ambienti americani che, senza il riconoscimento del loro costituire un solo sistema conoscitivo, sono stati sottoposti a riduzione fisica e concettuale.

Non sono questi temi ad animare il crescente interesse verso le pratiche rituali amazzoniche, quanto piuttosto la ricerca chimica collegata all’industria farmaceutica oppure il bisogno di un nuovo stato di salute che includa il recupero della matrice naturale, promosso da correnti di pensiero e di turismo riconducibili alla new age.

Tradizionalmente sono gli sciamani i detentori della comunicazione tra gli enti del sistema amazzonico. Grazie a un percorso di iniziazione che comprende lunghi periodi di dieta e isolamento dentro la foresta e l’assunzione di piante psicoattive, ricevono gli strumenti per la pratica della loro funzione. I canti chiamati ícaros, autentiche poesie che traducono nel loro ritmo i suoni naturali, hanno il potere di curare affezioni fisiche o psi-chiche, dal morso del serpente allo spavento dei bambini o degli adulti; ri-cuciono anime e corpi che per troppa paura o forti sensazioni si sono scol-legati. Modulano inoltre le sessioni rituali, offrendo un appiglio durante gli stati alterati di coscienza. Sulla nascita degli ícaros i medici tradizionali af-fermano in tutta tranquillità di averli ricevuti dalle anime, definite col ter-mine madres, delle piante o degli animali o di altri enti culturali della fore-sta. È come quando, affermano, una musica risuona in lontananza e non è dato capire se sia reale o nasca da dentro la testa, fino a che diventa un mo-tivo preciso. A questa prima fase segue la consegna delle parole che avvie-ne direttamente dalla madre di una pianta, di un animale o di una sirena, ad esempio, che si sono presentati in sogno o nella visione. Oltre a un preciso protocollo da seguire all’interno del rituale e grazie al quale si provoca il manifestarsi dei demoni o delle rappresentazioni simboliche del male sof-ferto dai partecipanti, gli sciamani dovranno imparare a gestire il proprio stato alterato di coscienza e a prendersi cura di quello dei partecipanti. Ac-compagna i canti un concerto di rumori come il suono insistente della shacapa, un mazzo di grandi foglie secche agitato dallo sciamano, e forti soffi che rompono il silenzio della notte e facilitano il fugarsi dei demoni.

Il numero degli sciamani negli ultimi anni è proliferato, non solo in am-biente amazzonico ma anche nelle capitali, dove il neosciamanesimo urba-no sta diventando un fenomeno emergente che vede coinvolte le ristrette classi medie latinoamericane. Mobile di natura e in grado di inglobare ele-menti culturali foranei lo sciamanesimo, inoltre, vola oggi anche in Europa o negli Stati Uniti, si fonde con la terapia dei cristalli o quant’altro e l’ayahuasca si può assumere a Parigi come a Barcellona somministrata da alter ego urbani degli sciamani amazzonici, nonostante l’uso sia illegale nella legislazione di molti paesi. Medici psicologi transpersonali appongo-

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no sulle targhe affisse all’entrata dei loro studi l’invitante dicitura: tecniche sciamaniche. Mentre fino a pochi anni fa le agenzie turistiche di Iquitos in piena selva amazzonica peruviana indicavano nei cartelli pubblicitari un po’ timidamente la possibilità di unire esperienze rituali alla gita per visita-re i coccodrilli o i pappagalli, oggi scrivono chiaramente: Tomas de aya-huasca.

Il boulevard di Iquitos è uno dei luoghi più poetici che si possano trova-re in una città in piena selva, una balaustra direttamente sul Rio delle Amazzoni a segnare un labile confine tra tessuto urbano e natura, di notte si trasforma in uno degli spazi più impressionanti di incontro con i turisti e il mondo occidentale, bambini che chiedono l’elemosina e lustrascarpe si di-vidono lo spazio con la prostituzione e la vendita di droghe. I giovani ven-ditori ambulanti di artigianato, braccialetti e collane che lo popolano e che si occupano di soddisfare i turisti anche in altre aspettative, oggi sussurrano alle orecchie dei viandanti anche il nome della ayahuasca. Le statistiche indicano che oltre il 60 per cento dei turisti cercano esperienze con le piante amazzoniche e una vera e propria industria è sorta intorno alla possibilità di fare soggiorni in piena selva sotto la guida di un medico tradizionale che guiderà i suoi ospiti verso il recupero del benessere psicofisico come in una sorta di agriturismo spirituale. Del flusso monetario che si genera la ricadu-ta economica sulle popolazioni indigene dell’interno è minima o nulla.

Aumentano i centri di salute diretti da europei, si occupano del recupero dalle tossicodipendenze grazie all’uso dell’ayahuasca e di ritiri di introspe-zione spirituale; gli occidentali cresciuti nel timore di angeli e demoni po-tranno finalmente visualizzarli e capire di che materia son fatti. A fronte di terapie con costi europei quasi sempre all’interno del centro vige un doppio sistema di pagamento delle prestazioni, minimo per i medici tradizionali locali, equiparato agli standard occidentali per gli psicologi o i terapisti di provenienza europea o nordamericana. Allo stesso tempo i medici tradizio-nali che nelle città o in comunità hanno sempre svolto il loro compito per modiche cifre o scambio di beni, vengono presi d’assalto da giovani “alter-nativi” che una volta tornati nei propri paesi diventeranno a loro volta sciamani manager di un business spirituale.

Parallelamente avanza la ricerca biochimica di tipo depredatorio. Nella società della conoscenza non si riconosce affatto l’eredità culturale delle popolazioni amazzoniche né la loro proprietà intellettuale, quanto piuttosto l’informazione genetica, suscettibile di essere brevettata e commercializza-ta (Cajigas-Rotundo, 2007), (Badini, 2008). L’ayahuasca (yagé in Colom-bia) è una miscela di più piante da cui si ricava, dopo un procedimento di molte ore, un denso decotto. Uno dei suoi composti chimici, la harmalina, è riconosciuto come inibitore di enzimi con potenziali proprietà antidepressi-

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ve e l’ayahuasca ha già subito tentativi di brevetto da parte di laboratori negli Stati Uniti, un paese tra i pochi a non aver ratificato la Convenzione sulla Diversità Biologica sancita a Nairoby nel 1992 che prevede tra i suoi punti la giusta ed equa divisione dei benefici nell’utilizzo delle risorse ge-netiche.

Come risposta ai circuiti commerciali nazionali e globali di medicina al-ternativa si sono mosse le organizzazioni indigene. A dimostrazione dell’inesistenza del gran vuoto amazzonico i vari gruppi etnici (più di 40 nel solo territorio peruviano) da ormai mezzo secolo si sono organizzati in associazioni che in un processo inarrestabile di autodeterminazione pro-muovono la rivendicazione dei diritti indigeni in ambito politico, socio-culturale ed educativo. Nel 1999 42 taitas (medici tradizionali colombiani esperti nell’uso del yagé) si sono riuniti in un luogo fortemente connotato di valori simbolici per la loro cultura, Yurayaco, per costituirsi nell’Unión de Médicos Indígenas Yageceros de la Amazonía Colombiana -Umiyac- e hanno denunciato in una dichiarazione di 14 punti, sia la ricerca straniera indiscriminata da parte di antropologi, botanici, medici, sia i propri locali che si prestano alla svendita dei valori tradizionali (Badini, 2008, p. 212). La scienza occidentale ha seguito sulle terre altre un percorso di unicità tracciato precedentemente dalla religione cattolica, oggi alla autodetermi-nazione sulla scientificità del sapere autoctono i medici amazzonici unisco-no proposte concrete come la stipula di certificati e codici etici.

…Pedimos que comprendan que nuestra medicina también es ciencia, aunque no de la misma manera que la entienden los occidentales. Nosotros los Taitas somos verdaderos médicos y con nuestro saber durante siglos hemos podido contribuir con eficacia a la salud de nuestros pueblos… Los Taitas nos comprometemos a iniciar un proceso de certificación de los practicantes de la medicina indígena y a establecer nuestro propio código de ética médica. Así permitiremos reconocer con facilidad la diferencia entre taitas y charlatanes6.

Nel processo di riappropriazione del sistema di pensiero amazzonico a

partire da categorie endogene giocano un ruolo determinante la rappresen-

6. Chiediamo che comprendiate che anche la nostra medicina è scienza, anche se non al-

lo stesso modo in cui viene intesa dagli occidentali. Noi Taitas siamo dei veri medici e nei secoli abbiamo potuto contribuire con efficacia alla salute dei nostri popoli…

Ci impegniamo a iniziare un processo di certificazione dei praticanti la medicina indige-na e a stabilire un nostro proprio codice di etica medica. Così permetteremo di riconoscere facilmente la differenza tra Taitas e ciarlatani. (trad. mia) (Il testo completo della dichiara-zione si può trovare a questo indirizzo web in data 15 giugno 2013: http://www.bialabate.net/pdf/laws/Declaración%20de%20taitas.pdf).

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tazione e il recupero politico. È soprattutto il linguaggio pittorico ad essere utilizzato dagli artisti amazzonici, molti sono sciamani e dipingono le vi-sioni ottenute sotto l’effetto dell’ayahuasca come i surrealisti riportavano i sogni su tela, esercitando il minimo intervento razionale. In un’ottica “de-centrata sull’uomo” (Martínez, 2009) le immagini del mondo perdono uni-vocità e sono proposte da punti di vista di esseri diversi: umani, animali, spiriti, senza ordine gerarchico o un’unica forma di rappresentazione, come se tutte le specie, compresa la umana, proponessero una stessa realtà ma a partire dalla loro percezione. La chiave del prospettivismo7sembra di fatto la più adatta a cogliere la molteplicità di sguardi che investe lo spettatore. Nella pittura di Santiago Yahuarkani pittore huitoto, che ritrae uno sciama-no con la metà del corpo trasformata in giaguaro, (fig.1) un occhio umano e un’obliqua fessura felina ci osservano con la stessa intensità; la mano e la zampa dello stesso essere si uniscono sulla figura del serpente che svolge le spire, simbolo dell’ayahuasca. Illuminano la scena due falci di luna, ognu-na con la sua stella, a indicare due notti diverse ma unite in una sola visione in cui sciamano e felino convivono e operano.

Insieme al recupero delle fibre e dei colori naturali nei materiali usati, molti pittori optano per una rivisitazione dei motivi tradizionali come i tracciati che gli Shipibo riproducono sulle ceramiche o ricamano sui tessuti. Nelle geometrie delle linee che con la loro falsa simmetria si stagliano lu-minose su sfondi scuri, neri o marroni, si possono leggere mappe, sentieri e fiumi che veicolano la comunicazione amazzonica, relazioni di vicinato o simboli ispirati dall’ayahuasca. Industriali della moda hanno chiesto il permesso di utilizzare quei motivi che vedremo presto disegnati sui vestiti dei passanti a Lima o a New York come esempi di un’estetica globalizzata. Nel contempo a Cantagallo, comunità shipibo insediata nella fascia urbana povera di Lima e costruita su un ammasso di spazzatura compattata, i gio-vani pittori del pueblo joven8, si sono organizzati in laboratori e orgoglio-samente dichiarano sul profilo facebook: “Sono passati 10 anni da quando siamo arrivati a Lima. Ancora manteniamo molto delle nostre tradizioni an-cestrali” (https://www.facebook.com/limashipibo).

7. Proposta teorico-metodologica avanzata da Viveiros de Castro (2004) sviluppando e

spostando sul piano della categoria epistemologica, i concetti di cualidad perspectiva (Årem, 1993) e di relatividad perspectiva (Gray, 1996) secondo cui l’umanità è affiancata da una varietà di esseri con la loro propria visione del mondo ugualmente valida.

8. Nome che eufemisticamente viene dato in Perù ai corrispettivi delle favelas brasiliane.

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Fig. 1 – El Chamán di Santiago Yahuarkani

Fig. 2 – Opera di Inin Metsa, giovane pittore schipibo originario di Pucallpa e che risiede da alcuni anni a Cantagallo (Lima).

Supporto visivo e scrittura si uniscono in sinergia nella pubblicazione El Ojo Verde, una raccolta di cosmovisioni amazzoniche curata nel 2000 dai docenti del centro di educazione bilingue interculturale Formabiap di Iqui-

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tos (Perú). I testi sono scritti in spagnolo per consentirne l’accesso a un pubblico universale ma l’inadeguatezza del solo codice linguistico occiden-tale per veicolare un mondo che si esprime in altri idiomi legati all’oralità e a altre logiche, sta alla base della scelta di unire i disegni al racconto sulle cosmovisioni. Anche in questo caso la modalità collettiva del laboratorio ha favorito la concertazione nel lavoro dei saggi indigeni che hanno affidato le loro visioni alle pagine del libro. Dietro la schematicità dei disegni si svela la ricchezza della cultura che i numerosi gruppi etno-linguistici hanno sapu-to tramandare. Oltre le diversità emerge costantemente l’originario rapporto con l’acqua dei fiumi a tracciare un comune riconoscimento identitario. Nella maggioranza dei racconti le origini dei popoli sono situate sulle in-stabili acque amazzoniche: le terre emergono come isole galleggianti in pe-renne minaccia d’inondazione. L’ahayauasca, che prende nomi diversi se-condo i vari gruppi etnici, permette la visualizzazione di un comune mondo subacqueo popolato da una stessa categoria di enti, gli yacu-runa (Gente dell’acqua). Sono i delfini rosa, le sirene, i boa o le persone rapite dalle ac-que, esempi concreti di un pensiero condiviso e che è circolato grazie alla fluidità della comunicazione fluviale.

Comparata alle arti visive la scrittura offre una permeabilità inferiore verso le logiche amazzoniche ed è ancora poco usata dagli autori indigeni, in un rapporto mai risolto tra autorappresentazione e il canale comunicativo per eccellenza dell’episteme occidentale. La poesia o il racconto in lingua indigena autotradotti allo spagnolo sono tra i fenomeni più interessanti nel-la letteratura latinoamericana degli ultimi anni; in Amazzonia è un processo appena emergente affidato, per mancanza di fondi e di interesse istituziona-le, a pubblicazioni estemporanee di difficile accesso. Mentre nelle arti visi-ve la ayahauasca svolge una potente funzione ispiratrice, sono pochi gli au-tori, anche in ambito non indigeno, che hanno affidato alla lingua scritta l’espressione della sua logica o che hanno spinto la rielaborazione letteraria oltre il racconto delle visioni o la raccolta documentaria del pensiero indi-geno. La scrittura si configura come un vero e proprio banco di prova nel confronto con la diversità epistemica; un corpo a corpo tra diversi sistemi di significazione e la loro espressione linguistica che si può ravvisare in un passaggio del libro Las tres mitades de Ino Moxo pubblicato dallo scrittore peruviano César Calvo nel 1981. Nell’opera l’autore attraversa la selva con la sensibilità di un poeta e l’esperienza conoscitiva dell’ayahuasca è tal-mente intensa da strutturare lo stesso tessuto narrativo con sdoppiamenti delle voci protagoniste dovuti alle visioni indotte dal preparato. Nel para-grafo intitolato Ino Moxo dice que las palabras nacen, crecen y se reprodu-cen pero no en castellano, César Calvo introduce metafore acquatiche e animali per descrivere la ricchezza semantica della lingua asháninca. Con-

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trariamente alla lingua spagnola paragonata dall’autore a un fiume tranquil-lo che produce sempre lo stesso suono, le lingue indigene ricordano le la-gune amazzoniche che raccolgono acque di diversa provenienza, “cascate, piogge, mulinelli e lacrime umane”, le parole contengono sempre altre pa-role, condividono la mutevolezza del paesaggio amazzonico e le metamor-fosi dei suoi animali. Per questo motivo, avverte l’autore, sarà difficile ca-pire in spagnolo quel mondo. La sperimentazione linguistica e la rottura degli schemi letterari tradizionali diventa, allora, esigenza conoscitiva, ne-cessità di rappresentare un mondo senza doverlo ridurre.

La pratica indigena dell’ayahuasca coinvolge inevitabilmente la sfera pubblica e quella politica. Tradizionalmente gli sciamani influenzano le de-cisioni delle comunità di appartenenza fino al punto di determinare se ne-cessario la nascita di nuovi insediamenti umani in seguito a spostamenti dovuti a diverbi o rivalità. La partecipazione da parte delle popolazioni in-digene ai livelli di politica nazionale è un fenomeno in crescente aumento dovuto principalmente al lavoro svolto dai centri di educazione bilingue in-terculturale, autentica sfida contro il centralismo educativo e l’omologazione culturale imposta dagli stati-nazione latinoamericani.

Attraverso un processo naturale di maturazione del consenso molti mae-stri bilingui intraprendono la strada del protagonismo politico che inizia dalle comunità, passa per la dirigenza delle associazioni e talvolta trova sbocco nel panorama nazionale. L’attuale direttore dell’Aidesep (Associa-zione Interetnica di Sviluppo della Selva Peruviana) Alberto Pizango, di cultura shawi, è oggi un possibile futuro candidato alle presidenziali peru-viane.

Dopo la fase cruciale delle proteste indigene del 2009 contro l’approvazione dei decreti legge denominati La ley de la selva, dopo la di-chiarazione dello stato di emergenza e gli scontri che ne sono seguiti in cui hanno perso la vita trenta persone, è subentrata una fase di contrattazione tra lo stato peruviano e l’associazione Aidesep in rappresentanza della con-troparte indigena. Intervistati sulle modalità di strategia politica i dirigenti indigeni hanno dichiarato che sessioni collettive di ayahuasca, effettuate prima di sedersi al tavolo delle contrattazioni, hanno conferito loro maggio-re concertazione e lucidità.

Le associazioni indigene, infine, sostengono esse stesse l’uso politico dei saperi amazzonici. Sulla base della convenzione 169 della Conferenza generale dell’Organizzazione Internazionale del lavoro, tenutasi a Ginevra nel 1989, viene richiesta la tutela del legame spirituale che collettivamente i popoli stabiliscono con il territorio, sancita al punto 13 del trattato. Rispetto del territorio e spiritualità indigena si palesano con evidenza sempre mag-giore come due facce dello stesso fenomeno e a conferma di un possibile

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accesso al progresso, a partire dalle proprie radici culturali, i dirigenti indi-geni sono impegnati nella promozione di laboratori di sensibilizzazione in-dirizzati alla conoscenza naturale amazzonica e alla sua applicazione nel confronto con le sfide imposte dalla modernità. Riferimenti bibliografici Arguedas, José María (1983), Obras completas, vol. 5, Lima. Editorial Horizonte. Århem, Kay, (1993), “Ecosofía Makuna” in Correa, Francois; (a cura di), La selva

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