Repubblica Vello d’oro, il global all’età del bronzo...

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DOMENICA 10 MAGGIO 2009 D omenica La di Repubblica i sapori Il pesto e le altre alchimie da mortaio LICIA GRANELLO e MASSIMO MONTANARI l’incontro Il nuovo bacio di Gabriele Muccino ARIANNA FINOS spettacoli Le scuole dei musicisti-ragazzini GIUSEPPE VIDETTI cultura Rabelais inedito, l’inno al vino FABIO GAMBARO e FRANÇOIS RABELAIS l’attualità Il Paziente Zero, vittima e carnefice ELENA DUSI e GIUSEPPE MONTESANO MARCO POLITI L a figura di Pio XII, la sua politica felpata con il Führer, il protratto silenzio sugli ebrei continuano a suscitare di- spute appassionate, non solo tra gli storici ma anche sul- la scena pubblica. «Sembra di essere tornati agli anni Sessanta», dice Giovanni Miccoli, insigne medievista oltre che auto- re di studi fondamentali su papa Pacelli. «Fu allora che, dopo il de- butto del Vicario di Rolf Hochhut, un testo sostanzialmente sbaglia- to e non privo di ambiguità, si scatenò una guerra feroce tra apologe- ti e detrattori». «Oggi non è molto diverso. Agli estremismi denigratori dei Cornwell e dei Goldhagen si replica con l’assoluzione e talvolta con una vera esaltazione, entrambe funzionali al processo di beatificazione. Ma le canonizzazioni non hanno mai modificato il giudizio storico, o al- meno non dovrebbero farlo. Colpisce che gli incensatori prendano in considerazione solo le tesi denigratorie, non i problemi che la do- cumentazione stessa evidenzia. Problemi, a dire il vero, già emersi durante la guerra». (segue nelle pagine successive) SIMONETTA FIORI L’odio-amore per la Germania, l’orrore del comunismo, il silenzio sull’Olocausto Ecco Papa Pacelli raccontato al Führer FOTO CORBIS ROMA P io XII raccontato al Führer. Dalle carte segrete del Reich (trasportate in fotocopia negli archivi britannici dopo la sconfitta della Germania nel 1945) emerge tutta la com- plessità della figura di papa Pacelli negli anni cruciali del- la Seconda guerra mondiale. La sua avversione al nazismo, il suo amore per la Germania, il suo «non prendere posizione» tra le parti in conflitto, lo stile accentratore di governo, l’orrore per il comuni- smo. Fa impressione seguire nella documentazione del Terzo Reich le tracce dell’ostilità di fondo di Pacelli al regime nazista. A Berlino non si fanno illusioni fin dall’elezione di Pio XII il 2 marzo 1939. Data la «nota posizione dell’allora cardinale Pacelli nei confronti della Germania e del movimento nazionalsocialista» il Protocollo sugge- risce che Hitler faccia pervenire auguri «corretti, ma non particolar- mente calorosi». Un promemoria del 3 marzo, pur rilevando l’atteg- giamento filotedesco di Pacelli, sottolinea che quale «fautore di una politica ecclesiastica ortodossa (Pacelli) si è posto ripetutamente in una contrapposizione di principio con il Nazionalsocialismo». (segue nelle pagine successive) PioXII e le spie di Hitler la memoria Vello d’oro, il global all’età del bronzo SIEGMUND GINZBERG Repubblica Nazionale

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DOMENICA 10MAGGIO 2009

DomenicaLa

di Repubblica

i sapori

Il pesto e le altre alchimie da mortaioLICIA GRANELLO e MASSIMO MONTANARI

l’incontro

Il nuovo bacio di Gabriele MuccinoARIANNA FINOS

spettacoli

Le scuole dei musicisti-ragazziniGIUSEPPE VIDETTI

cultura

Rabelais inedito, l’inno al vinoFABIO GAMBARO e FRANÇOIS RABELAIS

l’attualità

Il Paziente Zero, vittima e carneficeELENA DUSI e GIUSEPPE MONTESANO

MARCO POLITI

La figura di Pio XII, la sua politica felpata con il Führer, ilprotratto silenzio sugli ebrei continuano a suscitare di-spute appassionate, non solo tra gli storici ma anche sul-la scena pubblica. «Sembra di essere tornati agli anni

Sessanta», dice Giovanni Miccoli, insigne medievista oltre che auto-re di studi fondamentali su papa Pacelli. «Fu allora che, dopo il de-butto del Vicariodi Rolf Hochhut, un testo sostanzialmente sbaglia-to e non privo di ambiguità, si scatenò una guerra feroce tra apologe-ti e detrattori».«Oggi non è molto diverso. Agli estremismi denigratori dei Cornwelle dei Goldhagen si replica con l’assoluzione e talvolta con una veraesaltazione, entrambe funzionali al processo di beatificazione. Ma lecanonizzazioni non hanno mai modificato il giudizio storico, o al-meno non dovrebbero farlo. Colpisce che gli incensatori prendanoin considerazione solo le tesi denigratorie, non i problemi che la do-cumentazione stessa evidenzia. Problemi, a dire il vero, già emersidurante la guerra».

(segue nelle pagine successive)

SIMONETTA FIORI

L’odio-amore per la Germania, l’orroredel comunismo, il silenzio sull’OlocaustoEcco Papa Pacelli raccontato al Führer

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ROMA

Pio XII raccontato al Führer. Dalle carte segrete del Reich(trasportate in fotocopia negli archivi britannici dopo lasconfitta della Germania nel 1945) emerge tutta la com-plessità della figura di papa Pacelli negli anni cruciali del-

la Seconda guerra mondiale. La sua avversione al nazismo, il suoamore per la Germania, il suo «non prendere posizione» tra le partiin conflitto, lo stile accentratore di governo, l’orrore per il comuni-smo. Fa impressione seguire nella documentazione del Terzo Reichle tracce dell’ostilità di fondo di Pacelli al regime nazista. A Berlinonon si fanno illusioni fin dall’elezione di Pio XII il 2 marzo 1939. Datala «nota posizione dell’allora cardinale Pacelli nei confronti dellaGermania e del movimento nazionalsocialista» il Protocollo sugge-risce che Hitler faccia pervenire auguri «corretti, ma non particolar-mente calorosi». Un promemoria del 3 marzo, pur rilevando l’atteg-giamento filotedesco di Pacelli, sottolinea che quale «fautore di unapolitica ecclesiastica ortodossa (Pacelli) si è posto ripetutamente inuna contrapposizione di principio con il Nazionalsocialismo».

(segue nelle pagine successive)

PioXIIe le spie di Hitler

la memoria

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28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10MAGGIO 2009

(segue dalla copertina)

Nel 1940 i nazisti si lamen-tano che la prima encicli-ca Summi pontificatus eil discorso di Natale del1939 contengano «purnella forma di frasi gene-

riche, chiari attacchi alla Germania». Inun lungo rapporto di decine di pagine,redatto dall’ambasciata tedesca pressola Santa Sede a Roma il 29 settembre1942 e intitolato significativamente IlVaticano nella guerra, è scritto testual-mente che «esistono sufficienti motivi(per affermare) che il Papa rispetto allaGermania nazionalsocialista nutre lastessa diffidenza e quasi la stessa repul-sione (che prova) nei confronti del regi-me sovietico». Nella Curia, prosegue ilrapporto, «si manifesta apertamente l’o-stilità verso la Germania, mentre non sipuò negare al Papa comprensione esimpatia nei confronti del popolo tede-sco, che egli distingue dal regime nazio-nalsocialista». I capi d’accusa che ven-gono rivolti al nazismo nei «circoli vati-cani» — continua il rapporto — riguar-dano specificamente: «1) il trattamentodella Polonia, 2) il trattamento degliebrei, recentemente soprattutto inFrancia, 3) la nomina di Alfred Rosen-berg come commissario del Reich nelleterre orientali».

Dalla documentazione provvista deltimbro Geheime Reichssache (Affari se-greti del Reich), che Mario Josè Cereghi-no è andato pazientemente a ritrovarenegli archivi di Kew Gardens, risultadunque tutt’altro che un «Papa di Hitler»come suggerito dal titolo celebre e fuor-viante di un libro pubblicato qualche an-no fa. Definire così Pacelli è falso. Anco-ra sul finire della guerra lo stesso capo deiservizi segreti nazisti, Ernst Kaltenbrun-ner, giustiziato dopo il processo di No-rimberga, informa il ministero degliEsteri che «certi “crimini” dei nazisti, co-me sterilizzazione ed eutanasia, rendo-no difficile al Papa un avvicinamen-to al nazionalsocialismo». Crimi-ni, nel rapporto di Kaltenbrun-ner, è scritto tra virgolette etutto il ragionamento èmesso in bocca a un infor-matore non nominato,che riferisce un discorsodell’arcivescovo di Fri-burgo Groeber. Ma la so-stanza è chiara.

Come spiegare allora ildivampare delle polemichenel dopoguerra sul “silenzio”di Pio XII? È un altro aspettodella sua personalità. Sicura-mente Pacelli dopo la sua elezione la-scia cadere vari progetti messi allo studiodurante il pontificato di Pio XI come unacondanna globale di razzismo e totalita-rismo, elaborata dal Sant’Uffizio, o l’ideadi un’enciclica contro l’antisemitismo,commissionata poco prima di morire algesuita americano John La Farge. Purnelle sue oscillazioni Pio XI ha capito chelo scontro con il nazismo non è un nor-male conflitto tra Chiesa e Stato, ma in-veste in una dimensione fuori dall’ordi-nario visioni del mondo e dell’uomo in-conciliabili e quindi richiede un atteg-giamento profetico. Papa Pacelli si ritraedinanzi a questa prospettiva. Resta ag-grappato al duello diplomatico, non ca-pendo o non volendo capire che non ba-sta. Teme soprattutto per la sopravvi-venza del concordato in Germania, te-me che dopo una denuncia frontale delnazismo possa capitare il «peggio», nonvuole far prendere alla Santa Sede posi-zione per una delle parti in guerra. Cosìfino alla fine, pur angosciato per la per-

secuzione antiebraica, non nomineràmai esplicitamente né la vittima, gliebrei, né il carnefice nazista. Il «silenzio»sta qui. Lui stesso ne è consapevole. Inpiena guerra chiede al nunzio Roncalli(futuro papa Giovanni XXIII) se «il suo si-lenzio circa il contegno del nazismo nonè giudicato male».

Gli uomini di Hitler registrano accura-tamente le differenze fra Pio XI e papaPacelli. Il promemoria del 3 marzo 1939precisa che «non si attribuisce a Pacelliun coinvolgimento nella politica di vio-lenza di Pio XI, specialmente nei discor-si particolarmente ostili di questo papa.

Al contrario si è sforzato più volte di cer-care compromessi e ha espresso alla no-stra ambasciata il desiderio di rapportiamichevoli». Politica di violenza nellaterminologia nazista sono gli attacchi diPio XI al regime hitleriano.

Ancora nel 1940 un memorandum (afirma Woermann) preparato per il mini-stro degli Esteri Ribbentropp sottolineache il Vaticano sotto Pio XI ha «agito mol-to per impedire la comprensione dei cat-tolici tedeschi, specie del clero, nei con-fronti delle esigenze del nazionalsociali-smo». Il 9 gennaio dello stesso annol’ambasciatore tedesco presso la Santa

Sede Bergen scrive a Berlino che «se vi-vesse ancora il Papa precedente, si sa-rebbe manifestata nelle condizioni at-tuali una posizione papale ben diversa:per noi sfavorevole e scomoda. Pio XIsenza dubbio avrebbe ceduto agli influs-si delle potenze nemiche (gli Alleati, ndr)e specialmente dei polacchi».

Il concordato, prima la sua firma conil Reich, poi la sua difesa come base giu-ridica per l’attività della Chiesa cattolicatedesca è una delle ossessioni di Pio XII,preoccupatissimo all’idea di «rompere»per primo con Hitler. Il Papa anela alla«pace tra Chiesa e Stato» nella Germania

nazista (telegramma a Berlino dell’am-basciatore Bergen del 4 marzo 1939) e«ringrazia sentitamente e profonda-mente il Führer e Cancelliere del Reich»per i suoi auguri dopo l’elezione papale,esprimendo «i suoi auguri più sinceri peril benessere del popolo tedesco». Anzi al-l’ambasciatore Bergen Pio XII fa sapereche il Führer è stato il primo capo di Sta-to a cui ha comunicato la sua elezione(telegramma di Bergen del 18 marzosuccessivo). Eppure proprio il memo-randum Woermann (ad uso interno) ri-vela senza ombra di dubbio la posizionedelle autorità naziste: «Noi consideria-

“La Shoahun orroretra i tanti”

Parla Giovanni Miccoli

SIMONETTA FIORI

MARCO POLITI

La paura di rompere col FührerF

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la copertinaPio XII e Hitler

“È ostile al nazismo ma ama la Germania”. “Non tollerasterilizzazione ed eutanasia ma non può inimicarsi il Reich”Dagli archivi britannici ecco i rapporti degli agentidi Berlino su Papa Pacelli. Un uomo che non prese maiposizione perché ossessionato dal suo unico vero nemico:il “pericolo mondiale del bolscevismo”

della Germania. Ma non fu la sola ragione della cautela».Cos’altro lo spinse al riserbo?«Una denuncia aperta dei crimini nazisti avrebbe potuto

inasprire la strisciante persecuzione nei confronti del cattoli-cesimo tedesco: non dimentichiamo che diecimila preti tede-schi “passarono” attraverso la Gestapo; decine furono le ese-cuzioni capitali. E avrebbe inoltre impedito l’opera di assi-stenza per soccorrere le popolazioni. Uno degli elementi piùforti che condizionarono il Vaticano fin dallo scoppio dellaguerra fu l’aspirazione del pontefice a esercitare un ruolo dimediazione. Era il “padre di tutti”, non poteva schierarsi».

I documenti tedeschi lo ritraggono decisamente ostile al-la Germania.

«I rapporti della polizia hitleriana durante tutta la guerra(circa venti volumi di testi) mettono le attività della Chiesa cat-tolica nella sezione dedicata agli “avversari” (Gegner). E vuolestupirsi che anche Pio XII fosse considerato tale? Ma anche ilTerzo Reich non era un monolite e non mancavano coloro cheguardavano al Vaticano con interesse. Tra questi figura Ernstvon Weizsäcker, dal luglio del 1943 ambasciatore in Vaticano,che nelle sue carte descriveva papa Pacelli così: “Troppo fine,

(segue dalla copertina)

Aquali problemi si riferisce? «Si tende a dimenticarlo,ma già all’indomani della caduta della Francia, il cardi-nale Tisserant lamentò con l’arcivescovo di Parigi l’as-

soluta inerzia del pontefice sui metodi di guerra dei nazisti. An-cora più significativa la testimonianza di monsignor Respighi,prefetto delle cerimonie pontificie, che nel maggio del 1943 in-vocò “una parola forte in difesa dell’umanità”, con “le orecchieintronate” dalle richieste che gli arrivavano in questo senso.Anche Pio XII era consapevole delle critiche, tanto da doman-dare nell’ottobre 1941 ad Angelo Roncalli se “il suo silenzio cir-ca il contegno del nazismo non fosse giudicato male”».

La rottura con la Germania hitleriana fu evitata anche peril timore del bolscevismo: un tema fortemente evidenziatodalle spie naziste.

«Fin dal principio, è molto presente in Pio XII la paura che laRussia sovietica potesse dare all’“Europa cristiana il colpo de-cisivo” (così il radiomessaggio del Natale 1939). Inquietudinedestinata a crescere nell’inverno tra il 1942 e il ’43, quando l’e-sito della campagna di Russia comincia a profilare la sconfitta

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mo interiormente superati il con-cordato con il Vaticano del 1933 e iconcordati firmati dal Vaticano conla Baviera (1924), la Prussia (1929) eBaden (1932)».

L’intenzione di mantenersi al disopra delle parti nel conflitto mon-diale tra nazismo e Alleati finirà perdiventare l’handicap maggiore di PioXII. Già la relazione dell’ambasciatoreBergen del 9 gennaio 1940 sottolineache «come da noi riferito ripetutamen-te (il Papa), nonostante le esistenti ten-

sioni tedesco-vaticane, è puntigliosa-mente attento a non prendere in qual-che modo posizione contro la Germa-nia. Per lui è importante rimanere al disopra delle parti». Nel rapporto Il Vatica-no nella guerra(1942), che a Berlino giu-dicano «eccellente», si legge precisa-mente: «Il motto di Pio XII “Non pren-diamo posizione” vale oggi più che mai.Il Papa e la Curia sono consapevoli cheattualmente il Vaticano, stante la sua re-ciproca dipendenza da entrambi i grup-pi in guerra, non può prendere nessunadecisione definitiva, se non a prezzo diprovocare gravi crisi interne alla Chiesa.Perciò le encicliche e le altre dichiarazio-ni pubbliche di Pio XII sono di una quasiinarrivabile vaghezza. In realtà il Papaattuale è praticamente predestinato auna prudente politica di equilibrio, det-tatagli dalle circostanze». Sul piano per-sonale si attribuisce, peraltro, a Pacelliun «amore-odio» verso la Germania.

A partire dal 1942 cresce in Pio XII lapreoccupazione e l’angoscia per il ruolo

dell’Urss e l’espansione del «bolscevi-smo». Fra i documenti riportati da Ma-rio Josè Cereghino è di estremo inte-resse la comunicazione segreta del ca-po dei servizi di sicurezza hitlerianiKaltenbrunner al ministro degliEsteri Ribbentropp. Basato sul reso-conto di un informatore nazista, checonosce il Papa dagli anni Trentaquando Pacelli era nunzio a Mona-co di Baviera e Berlino e che si è fer-mato con lui a colloquio per un’o-ra nel novembre del 1943, il docu-mento evoca la paura del ponte-fice nei confronti del «pericolomondiale del bolscevismo». PioXII — afferma l’informatore —«ha lasciato trasparire che at-tualmente soltanto il nazional-socialismo rappresenta un ba-luardo contro il bolscevi-smo». E tuttavia anche in que-sta occasione il Papa manife-sta diffidenza nei confrontidel regime. Quanto all’UrssPio XII considera «l’inse-diamento del patriarca (or-todosso) Sergio semplice-mente una mossa abile di

Stalin». Il Papa, prosegue ildocumento, «nutre una diffidenzastraordinariamente profonda nei con-fronti della sincerità di Stalin, di cui noncrede a nessuna parola».

L’informativa contiene riferimentiimportanti alla situazione italiana. «IlPapa respinge decisamente (l’opinione)che lui stesso o la Santa Sede abbianocontribuito attivamente o passivamen-te alla caduta di Mussolini». Al contrariogli eventi (del 25 luglio) lo hanno «sor-preso». Tuttavia già da tempo aveva l’im-pressione che «le cose non potessero an-dare avanti così». Il rifiuto di VittorioEmanuele III di abdicare gli procura«grandi preoccupazioni per il futuro del-la dinastia (Savoia)». E in generale — co-sì il Papa — «vediamo con grande preoc-cupazione che (con l’avvento di Bado-glio, ndr) si sta espandendo l’influssomassone nell’Italia meridionale, men-tre il comunismo cresce in maniera al-larmante in tutta Italia e purtroppo an-che a Roma».

NUNZIO A BERLINOEugenio Pacelli, nunzio a Berlino,nel 1927 davanti al palazzo presidenziale.Qui sopra e accanto, alcuni documentidegli agenti tedeschi su Pio XII

I DOCUMENTI

I documenti ai quali si fa riferimento in queste pagine,trovati da Mario J. Cereghino negli Archivi nazionali

britannici di Kew Gardens, sono consultabili –in copia pdf degli originali – presso l’Archivio

Casarrubea di Partinico (Palermo)www.casarrubea.wordpress.com. Le traduzioni

dal tedesco sono del professor Roberto Pavanello

DOMENICA 10MAGGIO 2009

troppo saggio, troppo prudente, troppo diplomatico, un ge-nerale di Stato Maggiore della miglior specie che però non èmai stato al fronte...”».

Agli occhi degli uomini del Führer era evidente la differen-za tra Pio XII e il suo predecessore. Un promemoria del 1939,a proposito di Pio XI, parla addirittura di «politica di violen-za».

«Sì, è un documento molto duro, noto fin dagli anni Settan-ta. A una divergenza tra Pio XI e il cardinal Pacelli — nella se-conda metà degli anni Trenta — fa esplicita menzione Giu-seppe Dalla Torre, direttore dell’Osservatore Romano. La sto-riografia apologetica di Pio XII tende a minimizzare l’impor-tante progetto coltivato da Pio XI prima di morire, ossia la pub-blicazione di un’enciclica contro l’antisemitismo e il razzi-smo. Pio XII l’affossò definitivamente».

Alcuni storici come Andrea Riccardi sottolineano l’opero-sità dei cattolici a Roma, durante l’occupazione tedesca, indifesa degli ebrei.

«Una mobilitazione significativa, ma bisogna domandarsiche proporzione ci sia tra questo aiuto individuale, coraggio-so, talvolta molto rischioso, e l’enormità della tragedia in cor-

so. Pesano inoltre i silenzi e la sostanziale acquiescenza al-l’antisemitismo che caratterizza tanta parte della Chiesa cat-tolica negli anni Trenta. È indubbio che nella Shoah la re-sponsabilità primaria debba essere attribuita al nazismo, mac’è anche una responsabilità intessuta di reticenze e confor-mismi che richiamano l’antico deposito dell’antisemitismocristiano».

Qual era il livello di consapevolezza del Papa intorno allamacchina di sterminio?

«La Santa Sede era pienamente informata. Vent’anni fa glistorici cattolici riconoscevano una realtà che ora si cerca di na-scondere. È vero che nelle carte vaticane non si parla mai di“soluzione finale”, ma è evidente che conoscevano la sostan-za delle cose. Non è un caso che, dopo la razzia degli ebrei ro-mani, il 16 ottobre 1943, monsignor Montini abbia scritto:“Questi ebrei non torneranno più nelle loro case”. Si può direcon fondamento che la questione degli ebrei non fu per la San-ta Sede in cima ai problemi più gravi. Rimase confusa tra i tan-ti orrori della guerra.Ma questo anche in ragione di una robu-sta tradizione antiebraica che, pur in una situazione dram-matica, continuò a condizionarne alcune scelte».

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29

Repubblica Nazionale

Da “Marydella febbre tifoide”a Gaetan, “l’angelodella morte”che diffuse l’AidsEcco i malatiall’originedel salto di speciedei virus letalie dei grandi contagidell’ultimo secolo

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10MAGGIO 2009

Paziente Zerola vittima-carnefice

Lei cucinava, e chi man-giava moriva. Così MaryMallon era sempre co-stretta a cercarsi unnuovo impiego. Basta-va che una famiglia la

assumesse come cuoca perché stra-ni dolori iniziassero a comparire incasa. Febbre, vomito, spasmi all’ad-dome. E dopo un rapido decorso del-la malattia che poteva portare allamorte dei suoi datori di lavoro, Maryfiniva di nuovo sulla strada, additatacome «Mary della febbre tifoide».

Al pari di molte persone accusatedi essere degli untori, la giovane cuo-ca attribuiva queste dicerie alle sueorigini di immigrata e ai pregiudizidella gente. Agli esami non volevasottoporsi, perché si sentiva bene. Imedici che la definivano portatricesana, lei non li capiva. In un’epoca incui l’idea che lavarsi le mani potesseprevenire le malattie faceva ancoraridere, non si poteva chiedere allaMallon di dare il buon esempio. E piùla donna si prendeva cura dei suoidatori di lavoro, più loro peggiorava-no.

Gli epidemiologi ci misero poco arisalire alla sorgente dei contagi.Mary la carnefice fu identificata co-me la «paziente zero» che introdusseuna feroce epidemia di febbre tifoidenella New York dei primi del Nove-cento. Mary la vittima fu reclusa pertre anni in un’isola sanatorio perchécessasse di dispensare i propri pasti.Poté tornare sulla terra ferma solodopo aver giurato che mai più avreb-be messo piede in cucina e inveceruppe subito la promessa. Ricomin-ciò a cercare lavoro. E a quel puntodall’isolamento a vita in un reparto diospedale per pazienti infettivi non latolse nessuno.

«Il paziente zero è il punto di origi-ne di una nuova malattia», spiegaGiovanni Rezza, epidemiologo del-l’Istituto superiore di sanità. «Il ter-mine è entrato nella nostra discipli-na da una trentina di anni, quando lenuove epidemie sono diventate piùfrequenti. O forse noi siamo diventa-ti più bravi a identificarle». Alla co-munità il «grande contagiatore» pro-duce danni incalcolabili. «Ma comefargliene una colpa. Spesso è solo lapersona sbagliata nel posto sbaglia-to e al momento sbagliato».

Si chiama paziente zero, ma spes-so ne esiste più di uno. Per l’Aids,America e Africa hanno ciascuno ilproprio. Poco importa che il focolaiodell’Hiv in Congo risalga agli anniTrenta e quello statunitense sia di-vampato mezzo secolo dopo. Stabi-lire quale sia l’anello iniziale di unacatena dipende spesso dal punto divista. L’ultima influenza suina non fadifferenza, e sono almeno due gli at-tori scritturati in Messico per ricopri-re il ruolo di fonte del contagio. Ma-ria Adela Gutierrez, la trentasettennedi Oaxaca morta il 12 aprile in ospe-dale, con il suo lavoro di addetta ai

censimenti nella settimana prece-dente allo scoppio dell’epidemiaaveva bussato alla porta di almenotrecento persone. Edgar Hernandez,il bimbo di cinque anni che dalla feb-bre oggi è guarito, viveva a La Gloria,nella provincia di Veracruz, e conuna casa in aperta campagna era aportata di contagio da parte deimaiali. Come tutti i bambini, era pro-babilmente dotato di una particola-re “potenza” infettiva. «Ma non sia-mo affatto sicuri che il vero pazientezero sia lui», ha ammesso in un’inter-vista a Science Celia Apulche, diret-trice dell’Istituto di riferimento epi-demiologico di Città del Messico.«Semplicemente, è stata la primapersona venuta a farsi visitare con isintomi della nuova malattia».

Percorrendo a ritroso la storia diqualunque epidemia, è più facile tro-varsi di fronte a una nuvola di conta-gi che non a un sentiero diretto. Unsolo episodio ha fatto scuola tra gliepidemiologi per la limpidezza concui il paziente zero si è stagliato con-tro lo sfondo degli altri ammalati.«Fummo fortunati, quella volta», haammesso Thomas Tsang, il capo de-gli epidemiologi con il microscopioal posto della lente da Sherlock Hol-mes incaricati dall’Oms di risalire al-la fonte della Sars. Nella sua rete,Tsang aveva raccolto a Hong Kongotto possibili pazienti zero. Rimbal-zando fra cartelle cliniche e interro-gatori di parenti e amici, tracciò le suerette e arrivò dritto all’hotel Metro-pole.

ELENA DUSI

SPAGNOLATra il 1918e il 1919 uccisecinquanta milionidi persone, moltii giovani colpiti

ASIATICADue milionidi morti nel 1957prima dellamessa a puntodel vaccino

HONG KONGLa secondagrande asiaticauccise nel 1968un milionedi persone

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 10MAGGIO 2009

Nel giro di due giorni al nono pia-no di quest’albergo avevano incro-ciato i loro passi l’uomo che portò laSars in Vietnam, la hostess che volòcon il virus nei polmoni a Singapore,la donna che fece fare alla malattia ilsalto di continente fino a Toronto. Eprima di loro nei registri del Metro-pole era segnato — un’unica notte —il nome del dottor Liu Janlun, medi-co cinese, prima vittima della Sars.Era lui il paziente zero, l’uomo cheaveva forse tossito in corridoio o la-sciato tracce del virus sul pulsantedell’ascensore. Vittima e carnefice altempo stesso, il dottor Janlun morìdopo pochi giorni il 13 marzo 2003,lasciando una scia di ottomila infet-tati, 775 morti, venticinque paesicontagiati in sei mesi e danni all’eco-nomia mondiale stimati in quarantamiliardi di dollari.

Cerchiare con il pennarello rosso ilnome del primo ammalato non ba-sta però ad arrivare al fondo della sto-ria. «Dietro al paziente zero, si na-sconde sempre un ulteriore serba-toio dell’infezione», spiega Rezza. «E,in genere, è fra gli animali che biso-gna andare a cercare». Mabako Loke-la, che faceva l’insegnante in quellache oggi è la Repubblica democrati-ca del Congo, si presentò per la primavolta in un ospedale con i segni diEbola nel 1971. «Probabilmente però— secondo l’epidemiologo dell’Isti-tuto superiore di sanità — contrassea sua volta il virus da un uomo che vi-veva ai margini di chissà quale fore-sta ed era entrato in contatto con un

animale infetto». Arrampicandocisulle spalle del dottor Janlun, trove-remmo un paziente zero della Sarstra gli zibetti, che a loro volta sonostati contagiati dai pipistrelli. Alla ri-cerca delle sorgenti di Ebola, fini-remmo probabilmente tra i roditori.Così come l’incubatrice del virus Hivè ormai con certezza considerata lascimmia. «Praticamente tutte le epi-demie degli ultimi trent’anni — con-clude Rezza — risalgono a fonti nonumane».

Se i pazienti zero si presentanospesso con un volto doppio, è nel-l’Aids che il contrasto tra le due faccesi staglia più netto. Gaetan Dugas, losteward franco-canadese gay che dal1981 contagiò decine di partner nel-le città in cui il suo aereo faceva scalo,era bianco, biondo e perfetto per ilruolo di «angelo della morte» chegiornali e romanzi gli attribuirononel corso degli anni. Nero, anonimoe forse abituato a nutrirsi di scimmieera invece un uomo conosciuto oggisolo con la sigla «Zr59», morto alla fi-ne degli anni Cinquanta in una Kin-shasa che ancora si chiamava Léo-poldville. Nella città, secondo i gene-tisti che hanno studiato lo stratificar-si delle mutazioni nel genoma del vi-rus, l’epidemia circolava già da unaventina d’anni. Ed è in un campionedel sangue di Zr59 conservato nellacapitale del Congo che fu isolato perla prima volta il virus che molto piùtardi sarebbe diventato famoso conl’etichetta di Hiv. Era il 1959, annoventidue prima del paziente zero.

La letteraturaè affascinata da morbi eepidemie. Nel suo grande poemasulla natura delle cose Lucrezio in-

nalzò il quadro ardente e cupo di una co-munità disgregata dalla peste, ma primadi lui era stato Tucidide a descrivere la col-ta e nobile Atene sprofondata nel caos fu-nebre e furente del morbo, e prima di Tu-cidide l’autore ignoto e sublime del Penta-teuco aveva già fatto piovere sull’Egittomorbi e piaghe spaventose.

Gli antichi vedevano nelle epidemie glidei o la Natura pronti a punire le mancan-ze degli uomini: ma i moderni? Puskin nelFestino in tempo di peste, Poe nella Ma-schera della Morte Rossa, Manzoni neiPromessi Sposi, Camus nella Peste, tuttimisero un’epidemia al cuore delle loroopere, facendone il luogo privilegiato diuna rivelazione, l’immagine di un poteretenebroso che espelle gli uomini fuori dal-l’ordine consueto e permette l’irruzionedel caos nella società.

Perché scelsero proprio un’epidemia?Il poeta Antonin Artaud, prima di inabis-sarsi nella pazzia o forse di segregarsi nel-la troppa lucidità, toccò il centro ambiguodella questione nelle poche, brucianti fra-si del Teatro della peste, dove sostenne cheil teatro doveva agire come un’epidemia:«La peste è un male superiore perché essaè una crisi completa dopo la quale non re-sta nient’altro che la morte o una estremapurificazione…». Il teatro fantasticato daArtaud era un luogo dove la letteratura sifaceva azione, e le parole vissute portava-no al culmine la crisi per spingere gli uo-mini verso la liberazione da essa: «L’azio-ne del teatro, come quella della peste, ope-ra il bene, perché, spingendo gli uomini avedersi come sono, fa cadere la maschera,e svela la menzogna…».

Eccolo, il luogo che l’illuminismo cri-stiano di Manzoni e quello creaturale diCamus non avevano temuto di frequenta-re: il contagio epidemico porta al tracollol’ordine sociale e insieme lo mette allaprova, perché è proprio quando dominal’irrazionale scatenato che l’uomo devedare prova di sé, e la ragione deve scoprir-si capace di far fronte ai mostri scatenatidal suo sonno. Ma la letteratura è sempre

solo salvifica come in Manzoni e Camus, opuò anche stare più o meno inconsape-volmente dalla parte del male? Artaudparlò della peste come crisi e uscita dallacrisi proprio in quel 1933 in cui il morbopolitico hitleriano raggiungeva il potere esi organizzava per contagiare il mondo.Forse in quel cupo 1933 la metafora dellapandemia era la sola a poter rappresenta-re l’irrappresentabile peste, l’oscura ma-lattia morale che si impadronì di milioni diuomini? O nel 1933 invocare la crisi epide-mica era una follia e basta?

In realtà, la crisi era stata già descritta.Alla fine dell’Ottocento c’era stata l’operadi uno scrittore mediocre, ma che in un li-bro unico inventò un mito che getta anco-ra la sua ambigua luce sulla letteraturacontemporanea: quel mito era Dracula, elo scrittore si chiamava Bram Stoker. Nelsimbolo del vampiro che genera da sé altrivampiri e vuole trasformare tutta la terrain una massa di corpi avidi di bere sangue,Stoker metteva a nudo il meccanismo psi-chico del terrore del contagio, e innalzaval’epidemia a mito moderno. L’angosciache afferra il lettore di Stoker è che il nemi-co sia dovunque, che anche il proprioprossimo più caro possa trasformarsi inuntore, che non si possa sfuggire al conta-gio perché esso non sottostà alla ragione.In Dracula ci sono già i film e i romanzi suinvasioni di ultracorpi e malattie misterio-se, ma purtroppo c’è già l’uso del terrorecome spettacolo: quello che manca inStoker è la cura. Ed è troppo facile dire chealla letteratura non spetta indicare cure:Manzoni la indicò, Camus la indicò. Perloro la cura per le crisi di possessione col-lettiva era la verità della rappresentazio-ne, una verità impavida ma non compia-ciuta dell’orrore.

E oggi? Nel romanzo più importante de-gli ultimi anni, il 2666 di Roberto Bolano,una strage di donne in Messico è letta co-me una crisi epidemica di delitti: per Bola-no anche il crimine segue le leggi della pe-ste, e per smascherare l’orrore la letteratu-ra deve lucidamente rappresentarlo, nonamarlo. La poesia è affascinata dal male edalla paura, sì, ma perché sogna una vitalibera dal male e dalla paura.

Dracula, ovvero l’untorecome mito moderno

GIUSEPPE MONTESANO

SARSNel 2003775 i mortie ottomilagli infettatiin 25 paesi

SOTTO CONTROLLO ALL’AEROPORTOUn gruppo di passeggeri come apparesugli schermi degli apparecchi che rilevanola temperatura corporea

AVIARIANel 2007ha ucciso “solo”257 personeTrecento milionii polli abbattuti

SUINAPiù di di 2.200i casi nel mondo44 i decessiaccertati finora(42 in Messico)

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 10MAGGIO 2009

la memoriaRotte dimenticate

Sono diecimila anni che l’Europa naviga da una crisi glo-bale all’altra. Con contatti, scambi, movimenti migrato-ri, ripercussioni che si estendono da un estremo all’altrodel continente anche quando sembra che le diverse par-ti non abbiano a che fare con le altre, ne ignorino addirit-tura l’esistenza, anche quando sembra che tutto ciò che

conta davvero, tutta la politica, tutti i conflitti, tutta l’economia, tuttigli avvenimenti, gli sconvolgimenti degni di nota e di attenzione sia-no solo quelli locali. I ritrovamenti e gli studi archeologici dell’ultimoquarto di secolo rivelano una globalizzazione di estensione e profon-dità insospettabili, impetuosa quanto sommersa, impercettibile se cisi affida alle sole narrazioni che ci sono state tramandate. Non coin-cide con i confini e le vicende dei popoli, tanto meno con quelle deglistati. A tratti scompare, anche per molti secoli. Per poi ricomparire al-trettanto a sorpresa. I cicli stritolano culture e civiltà, si alternano im-peri e frammentazioni, nicchie di autarchia e isolamento, cambianoviolentemente le élite. Tutto cambia continuamente. Ma restano filisotterranei a testimoniare che eravamo già tutti europei da molti mil-lenni prima che avessimo la minima idea di esserlo. Il fatto che que-sti fili si ritrovano soprattutto lungo le coste e il corso dei fiumi d’Eu-ropa giustifica il titolo dell’ultimo libro di uno dei più prestigiosi ar-cheologi del nostro tempo, Sir Barry Cunliffe: Europe Between TheOceans. Themes and Variations: 9000 BC-AD 1000 (Yale UniversityPress, 2008, 518 pagine).

È un libro molto denso, documentato, non semplicemente «divul-gativo», di spessore ineccepibile anche da un punto di vista speciali-stico, corredato di bellissime illustrazioni e, soprattutto di un ecce-zionale apparato di cartine. L’avevo ordinato perché impegnato inuna lettura, che poi mi ha condotto in tutt’altre direzioni, delle Argo-nautichedi Apollonio Rodio. Vi ho ritrovato orizzonti sterminati, sen-tieri inesplorati, suggestioni inaspettate.

Euripide, e molto più tardi Catullo e Valerio Flacco, scrivono dellaleggendaria nave Argo su cui Giasone e compagni intrapresero, unagenerazione prima della guerra di Troia, la loro avventurosa naviga-zione alla ricerca del vello d’oro come della «prima nave». Omero di-ce più sobriamente: «La meglio costruita». Apollonio Rodio, che ha adisposizione la «biblioteca-mondo» di Alessandria nel Terzo secoloavanti Cristo dice, ancor più sobriamente, solo che fu «la più famosa».È una nave magica: persino parla. Trasporta di tutto: uomini, armi,

cavalli, pecore, doni preziosi, poi anche il misterioso vello. Navigalungo le coste, da isola a isola, da porto a porto, lungo i fiumi; superaper incanto (a due riprese, la prima attraversando il Bosforo per en-trare nel Mar Nero) rocce alte come grattacieli che cozzano tra di lo-ro; per sfuggire all’inseguimento della flotta colchica si addentra nelDanubio, ne esce nell’Adriatico, si addentra nel Po, ne esce nel Roda-no (ma se avessero preso un altro braccio sarebbero usciti nell’Ocea-no); per un lunghissimo tratto viene trasportata a braccia per attra-versare il deserto libico; è praticamente in simbiosi coi suoi marinai,ne è «la madre». Apollonio Rodio ha probabilmente a disposizionetutte le diverse versioni scritte degli antichi miti, scrive in un’epoca incui i viaggi per mare sono ormai ordinaria amministrazione, ma la-vora d’immaginazione, dovrebbe conoscere le rotte ormai battute,ma la sua geografia è fantasiosa quanto, e forse ancora più di quelladei suoi predecessori.

La cosa affascinante è però che la realtà archeologica descritta daCunliffe appare ancora più sconvolgente, fantastica delle «invenzio-ni» degli antichi. Che Argo non fosse la «prima nave» lo sapevamo datempo. In Asia si sono scoperte imbarcazioni risalenti a oltre sei mil-lenni fa. Quanto agli europei è ormai assodato che navigavano da pri-ma ancora dell’introduzione della ruota e dell’addomesticazione deicavalli. Anche un semplice sguardo alla configurazione del nostrocontinente spiega perché la cosa non è solo verosimile ma persino ov-via. Se si volta una qualsiasi mappa è evidente che l’Europa non è cheuna grande penisola che protrude dall’Asia circondata dai mari. Tracoste frastagliate e isole si può stimare che la circumnavigazione siestenda per qualcosa come trentasettemila chilometri, l’eguale del-la circonferenza dell’intero pianeta. A questo va aggiunto il corso deifiumi.

Gli itinerari degli argonauti non sono così assurdi come può sem-brare a prima vista. Dal Danubio effettivamente si risaliva sin da tem-pi antichissimi, superando le Porte di ferro, fino al cuore dell’Europa.Questa è la rotta che avrebbero seguito tutte le migrazioni attraversoil corridoio delle steppe asiatiche, dalla Mongolia ai Carpazi, dalla re-mota preistoria alle invasioni barbariche. Dalla valle del Po, attraver-so i passi alpini si arrivava ai bacini del Rodano e del Reno, fino alleisole britanniche. Manufatti provenienti dal Mediterraneo e vicever-sa avevano preso queste strade in parte fluviali da millenni prima chea fare il percorso fosse l’esercito di Annibale. Attraverso tributari co-me la Morava passava la “via dell’ambra” dall’estremo Nord. Se nonil naviglio, veniva trasbordato a braccia attraverso gli spartiacquemontagnosi il suo contenuto. Fonti bizantine confermano che gli av-

venturieri-mercanti del Nord arrivavano sino a Costantinopoli lun-go la Vistola e il Dnestr, o addirittura, dal Golfo di Finlandia, attraver-so il lago Ladoga e il Dnepr, superando a piedi una successione di set-te rapide. Da qui probabilmente arrivò a Costantinopoli la guardia va-ranga degli imperatori bizantini, compreso quel Halfdan che a mo’ divandalico souvenir incise il proprio nome in caratteri runici sulla pa-rete di Santa Sofia.

Gli europei navigano, si conoscono, scambiano prodotti e favolesin dall’età della pietra e dei ghiacci (che sciogliendosi crearono nuo-vi corsi d’acqua e mari, immensi acquitrini, forse lo stesso diluvio).Scandinavia e Danimarca sono costellate di immagini rupestri di na-vi a remi che precedono di molto quelle dei vichinghi, somigliano nelprofilo alle navi su cui si erano imbarcati gli argonauti e Ulisse. Già at-torno al 1700 avanti Cristo questi eroi nordici facevano per ragioni “diprestigio”, oltre che presumibilmente di pirateria, spedizioni simili aquelle dei loro colleghi greci. Forse spingendosi sui fiumi sino ai Car-pazi. Il relitto di una nave a vela, ritrovato al largo di Uluburun, pres-so la costa meridionale della Turchia, databile al Quattordicesimo se-colo avanti Cristo, quindi non moltissimo dopo l’epoca eroica di cuicanta Omero, trasportava lingotti di bronzo, di stagno, vasellame ci-priota, anfore e vetri canaaniti, oro, argento, e persino zanne di ele-fante, denti di ippopotamo. Con un cargo di provenienza così etero-genea, si può solo ipotizzare che facesse una rotta circolare tra Egitto,costa siriana e dell’Asia minore, Cipro e Creta.

I Fenici importavano lo stagno dal porto dell’odierna Cadice, sul-l’Atlantico e lo distribuivano in tutto il Mediterraneo. Gli Etruschiesportavano dalla Pianura padana sino in Pomerania. Sin dal terzomillennio avanti Cristo arrivavano, probabilmente via acqua, manu-fatti di ceramica dalla Francia meridionale sino in Scozia. Strabone eDiodoro Siculo riferiscono nei dettagli di intensi traffici fluviali via ilRodano e la Garonna, fino in Britannia, da molto prima che nelle Gal-lie si affacciasse Giulio Cesare. La rete compare e scompare, trovanuovi percorsi o lascia intere regioni a lungo isolate, interessa ovvia-mente le élite in cerca di status symbol, non i contadini, ma la globa-lizzazione è prepotente, spesso indipendentemente da guerre, inva-sioni e dai grandi sconvolgimenti politici registrati dalla “Storia”.

Tra le sorprese successive: il particolare in genere trascurato che vianave sarebbero iniziate anche le invasioni barbariche che avrebberoaffondato l’impero romano. Insomma dal mare e lungo i fiumi unastupefacente, caleidoscopica, vertiginosa e globale “storia nella sto-ria”, di più lunga durata e profondità di quella cui eravamo abituati.

Il vello d’orosfida global

SIEGMUND GINZBERG

COLOSSOGiasonee il vello d’orodisegno del 1510di FrancescoSalviatiSopra, pesced’oro di fatturascitica trovatoa Vettersfelde,Germania

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IL LIBRO

Europe BetweenThe Oceans, 9000

BC-AD 1000(518 pagine,34,50 euro),

di Barry Cunliffe,è pubblicato

da Yale UniversityPress

TORO E COPPASopra, toro d’oroe coppa d’argentotrovati in una tombaa Maikop,sud della Russia

La leggendaria nave Argo su cui Giasone e compagnipercorrono l’Europa da un capo all’altro rappresenta benela realtà che il grande archeologo Barry Cunliffe raccontanel suo ultimo libro: il nostro continente già diecimilaanni fa era innervato da una rete di vie di comunicazionebattute da mercanti, avventurieri, eserciti invasori

Repubblica Nazionale

È un giocoso inno alla bottiglia il trattato rinvenuto di recentesugli scaffali della Biblioteca del Museo Nazionale di PragaIl testo, redatto in una traduzione ceca datata 1662, è attribuito al padre

di “Gargantua e Pantagruele”. E l’autore francese cinquecentesco non disprezzava di certoil frutto della vite. Mentre Oltralpe ne è stata appena pubblicata una versione, esce anchein Italia questo comico saggio in prosa e versi dedicato ai “sollevatori di boccali”

CULTURA*

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10MAGGIO 2009

elogio del vinoPARIGI

Che a François Rabelais piacesse il vino, non è certouna novità. Non a caso, nelle mirabolanti pagine diGargantua e Pantagruele, il grande scrittore fran-cese del Sedicesimo secolo si rivolge sempre ai

«bevitori illustrissimi» e «infaticabili», gli unici in grado di com-prendere fino in fondo le peripezie dei suoi personaggi, moltospesso alle prese con i piaceri della buona tavola e gli effetti ine-brianti «del vin bianco e vermiglio». Da qui il mito di Rabelaisapostolo devoto della «Diva Bottiglia». Un mito che ha contri-buito a riconoscerlo come l’autore spregiudicato e irriverente diuno sconosciuto Trattato sul buon uso del vino, la cui traduzio-ne in ceco, datata 1662, è stata ritrovata quasi per caso tra gli scaf-fali della Biblioteca del Museo Nazionale di Praga.

L’autore di tale traduzione — un certo Martin Kraus de Krau-senthal, funzionario della Cancelleria di Praga e già traduttore didiverse opere dal tedesco (motivo per cui è stata anche avanza-

ta l’ipotesi che egli abbia lavorato a partire da una precedenteversione tedesca) — presenta quest’ode epicurea ai piaceri e aibenefici del vino come un’opera «del medico ed eminente stu-dioso Rabelais di Lione», indicazioni che ben corrispondono al-la realtà biografica dello scrittore. Purtroppo l’originale france-se non è mai stato ritrovato, impedendo così la certezza dell’at-tribuzione. Tuttavia, oltre all’affermazione del traduttore, lemolteplici affinità tematiche e stilistiche con l’opera di Rabelaisrafforzano l’ipotesi di tale paternità. Gérard Berréby, che a Pari-gi dirige Allia, la casa editrice che ha appena pubblicato la ver-sione francese del trattato, sottolinea che, «sebbene non si abbiala certezza materiale che il testo sia stato scritto dall’autore diGargantua e Pantagruele, un importante fascio di indizi per-mette di indicarlo come l’autore più probabile». In attesa delleeventuali reazioni di critici e specialisti, l’affascinante inedito —il cui titolo completo è Trattato sul buon uso del vino, che deve es-sere abbondante & continuo, per alleviare l’anima & il corpo &contro tutte le malattie degli organi esterni & interni, composto a

uso & profitto dei fratelli della corporazione dei nasi scintillantidal maestro Alcofribas, coppiere supremo del grande Pantagrue-le— viene proposto in italiano da una piccola casa editrice di Pa-lermo, : duepunti edizioni, in un volume che comprende ancheun’altra opera rabelaisiana, I sogni bislacchi di Pantagruele,nonché uno studio sullo scrittore di Marcel Schwob.

«Bere il vino è, accanto al parlare smodato e alla preghiera ar-dente, l’attività che distingue l’uomo dagli altri essere viventi chevivono sulla terra, i volatili, i mammiferi e i rettili, ai quali Dio nonha donato l’anima umana».

È con queste parole che s’apre il trattato, scritto «per il profit-to generale della corporazione dei bevitori pantagrueliani», aiquali l’autore ricorda l’importanza capitale del vino, le cui mol-teplici qualità contribuiscono a curare le più svariate malattiedel corpo e dello spirito. Per lo scrittore francese, una bevutamattutina garantisce «per tutto il giorno quell’andatura di cor-po solida e decisa che il saggio Epistemone chiama papale, per-

ché è per sua stessa essenza infallibile». Al contrario, «coloro chebevono acqua si trascineranno tutto il dì senza alcun diletto». Alnettare degli dei però «non si può far torto con altre cose», datoche «c’è da temere il peggio se al vino le mischiamo». L’autore,che pensa innanzitutto all’acqua e alle donne, spiega infatti che«i prevosti più accurati delle corporazioni dei nasi scintillantinon inseguono mai il matrimonio, visto che, come dicono i di-scepoli più scaltri, il vino giova alle donne se gli uomini lo bevo-no». Ad ostacolare «un’impeccabile vita da bevitore» contribui-scono anche «l’incauto affaticarsi, il tribolare, il faticare e il cor-rere di qua e di là», giacché, con l’unica eccezione della viticoltu-ra, «la maggior parte dei lavori è estremamente pericolosa».

Come già in Gargantua e Pantagruele, Rabelais mescola co-noscenze dotte e cultura popolare, il paradosso e l’iperbole, laprovocazione e lo sberleffo, ottenendo effetti di grande comicitàche trasformano l’uso e l’abuso del vino in una pratica virtuosain grado di conservare «la vita in salute e freschezza di spirito».Così, nella conclusione del trattato, egli invita gli «indagatori difiaschi» e i «sollevatori di boccali» a non bere «mai da soli», esor-tandoli a preferire sempre e comunque i vini migliori. E ancora

una volta riafferma la necessità di evitare assolutamente l’acqua,che «è tra tutti i liquidi il peggiore», anche perché, «gli uomini chebevono acqua hanno sempre qualcosa da nascondere e tratten-gono dentro di sé cose di cui vergognarsi».

Per i curatori della versione italiana del Trattato sul buon usodel vino, «Rabelais è sempre nuovo. È un classico che resiste adogni accademia, amato, riletto, saccheggiato, emulato, contraf-fatto e riscritto da generazioni, i suoi sono libri per l’isola deser-ta, per l’isola che non c’è». È con un brindisi ideale che invitanoa leggere e gustare queste pagine ricche di fantasia debordantee invenzioni spiazzanti. Senza dimenticare — ricorda GiuseppeSchifani di : duepunti edizioni — che «l’opera di Rabelais fa par-te dei fondamenti dell’identità europea e, come ci ha insegnatoBachtin, rappresenta la cultura che esce dalle università, diven-tando popolare, travolgendo i generi, creando cultura con l’an-ticultura». Una cultura che, coniugando felicemente rovescia-mento carnevalesco ed esuberanza espressiva, è alla portata ditutti i palati.

FABIO GAMBARO

Le molteplici affinità tematichee stilistiche con le opere certerafforzano l’ipotesi di paternità

Un miscuglio di conoscenze dottee cultura popolare, di paradossoe iperbole, provocazione e sberleffo

Rabelais

MicroMega 2/09

ENGLARO, WELBY,

COSCIONI, NUVOLI.

Le storie di vita

e di verità che

il cardinal Bagnasco

non avrà il coraggio

di leggere

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 10MAGGIO 2009

ere il vino è, accanto alparlare smodato e allapreghiera ardente, l’at-

tività che distingue l’uomo da-gli altri esseri che vivono sullaterra, i volatili, i mammiferi e irettili, ai quali Dio non ha do-nato l’anima umana, benchétaluni ritengano, come ha se-gnalato Enrico il Navigatore,

che nella terra d’Africa viva unascimmia pelosa che non disde-

gna un boccale. E se poi Dio nellasua infinita saggezza ha scelto l’al-

legro Noè per fondare una nuova vi-ta sulla terra, è stato senz’altro perché

sapeva che poi lui, sul monte Ararat, avreb-be dedicato la stessa cura alla sua vigna.

E in una botte viveva anche il grande Pitagora,che sapeva apprezzare il Falerno; e nelle stesse deliziose

terme sguazzavano anche il gigante Gargantua e la sua eccel-sa madre Gargamella, soprannominata Golasecca.

E in tutte le hosterie, le taverne, le locande, le bettole, le mescite, lebottiglierie, le cantine in tutta la terra di Francia, nella terra di Thélème, nelle

regioni di Utopia e Dipsodia, nel Pittavino, nell’Angiò, nella Piccardia, nella Sa-voia, nella Linguadoca, nel Limosino e nella taverna della Mula molti giovani nobili e

compari della corporazione degli ubriaconi sbattono le brocche sulla tavola e sulle pancheper maggior gloria dello Spirito Santo. E che ci importa di un’orecchia! Anche se ne dovessimo

perdere una, possiamo sempre ascoltare la risacca del mare nelle brocche.Ebbene, fratelli, mettete da parte i dadi! soffiatevi il moccio! abbottonatevi la patta! sollevate i boccali! e

ascoltate le mie parole.Ecco! non smettete di giocare a flux, glic e trictrac, mentre vi dico queste sagge parole.

Ehi! Fratelli! Agli abbeveratoi! Che il vino porti molti vantaggi e che curi le malattie dello spirito, è cosa certa. L’uomo, se è sobrio, soffre di quel-l’inclinazione di cui parla Aristotele (Entelechia, III) alla disperazione e ha in continuazione paura, che faccia caldo o freddo, che sia ricco o non ab-

bia un soldo. Se arriva il caldo la disperazione lo brucia, se arriva il freddo la disperazione lo fa tremare, se è ricco ha paura dei malfattori, se nonha un soldo ha paura degli esattori; perciò dice l’Ecclesiaste “il vino allieta la vita” e il mio buon maestro Pantagruele “la vita è il vino dell’uomo”.

E perciò prescrive ai discepoli della corporazione un bel boccale appena versato contro:

la nostalgia la melancolia

gli accoramentila tristezzale afflizioni

la tetragginele pene

il crepacuoreil dolore

la nostalgiala malinconia

la mestiziala sorbonite

il rinsecchimento del cervellogli strazîi cruccî

E dice loro in versi eleganti:Oh fratello di bevute morto assetato,

rovescia questo nettare sul palato,l’età è sempre un po’ più vecchiapossa tu il vino ber colla secchia.

E all’oste dice:Dei commensali bisogna che ti curi

se la tua fortuna vuoi che durise fuggir vuoi ogni tuo danno,

e non impazzir già da quest’anno.

E aggiunge ancora all’oste:Quando il legno curvo darà suo foco,

siederanno i fratelli in questo sacro loco.Certo non mancherà chi s’arrisica di bere,

e allor prepariam tavola, tovaglia e bicchiere.

(© 2009 :duepunti edizioni)

IL LIBRO

Il Trattato sul buon uso del vino di François Rabelais,in libreria dal 13 maggio, è pubblicato da :duepunti edizioni(edizione critica e note di Patrik Ourednik, traduzione dal cecodi Alessandro Catalano, 190 pagine, 10 euro). Contiene ancheSogni bislacchi di Pantagruele (traduzione di Elena Paul)

In alto i calici pieni, toccasanacontro ogni tipo di malanno

FRANÇOIS RABELAIS

B

LE INCISIONI DEL 1565Ripubblicate da :duepunti edizioni,sono le stesse della prima edizioneparigina dei Sogni bislacchidi Pantagruele

LA “DIVA BOTTIGLIA”L’illustrazione a sinistra

è quella originale del capitolo XLIVdel V libro della prima edizione

di Gargantua e Pantagruele

Repubblica Nazionale

PIANOFORTEÈ sempre lo strumentoper eccellenzaNell’anno accademico2007/2008 sono 7.338gli iscritti al corso

VIOLINOSono 3.616 gli iscrittiai corsi di violinonei conservatori italianiLa maggioranza di loro,2.475, sono donne

CANTOGli iscritti ai corsidi canto quest’annosono 1.991. Di questi319 sono stranieriin maggior parte donne

Nati per accogliere orfani e trovatelli, divenutifucine di talenti e simbolo dell’eccellenzadel nostro Paese, le scuole dove si insegna l’arte

più difficile sono in crisi. Tagli in Finanziaria e mancanza di investimentirischiano di disperdere un patrimonio unico. Viaggio tra i ragazziche sognano di vivere del loro studio senza essere costretti a emigrare

SPETTACOLI

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10MAGGIO 2009

MILANO, NAPOLI, ROMA

L a ragazza con l’arpa on-deggia, i capelli sciolti sullespalle, un abitino di setanero che le scivola sul cor-

po magro. Nel salone dell’hotel, fra mar-mi e tappeti, composizioni floreali elampadari di cristallo, i clienti brinda-no, amoreggiano, parlano d’affari, di-vorano pasticcini col tè delle cinque. Leidice: «Non scriva il mio nome, sono stu-dentessa al conservatorio, lo faccio persbarcare il lunario, prima o poi avrò unposto in orchestra». Poi entra nei bagnidella hall per riapparire irriconoscibilein jeans, giubbotto e basco, pronta per lalezione serale. Uno dei 38.591 iscritti(1.309 sono stranieri) nei conservatori.In Italia ce ne sono cinquantaquattropiù venti istituti musicali, con 7.357 in-segnanti e circa 4.500 diplomati all’an-no. Ora, con la Finanziaria che prevedetagli delle risorse fino al quaranta percento, le prestigiose scuole di musicadevono affrontare sacrifici e, inevitabil-mente, ritoccare le quote d’iscrizione.

Il Conservatorio Verdi di Milano, fre-sco dei festeggiamenti per il bicentena-rio (millecinquecento iscritti, il ventiper cento stranieri, duecentocinquantainsegnanti), ha solo sei impiegati e unnumero insufficiente di bidelli. «È il per-sonale previsto dalla legge del 1930,quando gli allievi erano duecento e imaestri trentacinque», protesta BrunoZanolini, mezzo secolo trascorso traqueste mura, prima allievo, poi docen-te, infine direttore. «Si fa un gran parla-re dell’arte, ma di fatto i primi tagli col-piscono sempre noi», aggiunge. «Quan-do arrivai io — ero bambino — eravamoin pochi. Oggi abbiamo ventiquattroclassi di pianoforte e uno stuolo di stu-denti meno motivati, frenati dalla man-canza di opportunità. Non c’è il sacrofuoco di una volta, eppure chi s’iscrivenon demorde. Si dice che il conservato-rio sia una fabbrica di disoccupati. Laverità è che il mondo del lavoro assorbemeno professionalità, ma non siamo al-lo sbando. Nulla è mai facile quando siha a che fare col talento, la fortuna e unasfrenata competitività».

Francesco Saverio Borrelli, ex magi-strato, è stato nominato nel marzo 2007presidente del Verdi di Milano su pro-posta del Consiglio accademico. Nellabacheca fuori dal suo ufficio, un ritagliodi giornale strilla: «Busserò di porta inporta per raccogliere fondi». «Ho unagrande passione per la musica, ma digestione non so nulla», ammette Bor-relli, diploma in pianoforte nel 1952 alCherubini di Firenze, stesso anno dellalaurea in giurisprudenza. «Io sono quiaffinché il prestigio del Verdi rimangaalto», aggiunge. «Quando sono arrivatoho subito precisato che non sono un fi-nanziere e non ho agganci politici, mami hanno voluto lo stesso. Ed eccomiqua a fare i conti con i tagli e le magre ri-sorse. Per natura non sono pessimista,ma bisognerebbe intervenire drastica-mente. La riforma del 1999 ha lasciatoinsolute molte questioni. Non è statochiarito, ad esempio, il valore dei titoliacquisiti nel sistema del tre più due(equiparato al corso di laurea più spe-cializzazione). È impensabile che in Ita-lia esistano settantaquattro istituti mu-sicali che rilasciano titoli universitari».

Tra gli allievi l’idea della raccolta por-ta a porta ha fomentato incertezza. «Lafrase di Borrelli ci ha spaventati e la pro-spettiva che la tassa d’iscrizione di mil-le euro possa raddoppiare non ci fa cer-to piacere», dice uno studente di violinofuori sede. «Il mondo della musica nondà garanzie. Sarò fortunato se trovo un

posto come insegnante o in orchestra.E perché no? Un impiego in musicote-rapia. Musica leggera? Sì, ma a malin-cuore». Olivier Brunel, vent’anni, diMontpellier, è al Verdi per un Erasmus.Studia da baritono. Dice: «Preferisco ilsistema italiano a quello francese. Qui ildiploma ha più valore. Occupazione?Con la passione si riesce». Il Conserva-torio Verdi, istituito con Regio decretonapoleonico nel 1807 fra le mura di unachiesa barocca, conserva intatto il suofascino. Nel chiostro di Santa Maria del-la Passione risuonano le musiche degliallievi impegnati nei vari corsi. Musichedi Bach, Monteverdi, Haydn. Come aitempi di Catalani, Ponchielli e Puccini,allievi eccellenti. Prima delle lezioni delmattino, i ragazzi s’incontrano alla caf-fetteria. I sandwich più richiesti: il Mo-zart con la cotoletta, il Wagner con wür-stel e crauti, il Beethoven col salmone.

C’è qualcuno che, in tempi difficilicome questi, avanza polemicamentel’idea che i conservatori dovrebbero re-cuperare l’antica missione, quella percui erano nati nel Quattordicesimo se-colo: educare a un mestiere — non soloquello della musica — orfani e trovatel-li che venivano «conservati» pressoospizi di pubblica pietà. A Napoli, finoalla fine del Settecento, ce n’eranoquattro (più quello femminile dell’An-nunziata), ricordati in una lapide all’in-gresso del Conservatorio di San Pietro aMajella (novecento iscritti): «Già con-vento dei padri Celestini anno 1826, pervolontà di Francesco I re delle Due Sici-lie fu destinato ad accogliere la gloriosascuola napoletana e a custodire le pre-ziose testimonianze degli antichi e ri-nomati conservatori Poveri di Gesù Cri-sto, Santa Maria di Loreto, Sant’Onofrio

a Capuana, Pietà dei Turchini». «Set-tantaquattro conservatori in Italia nonsono troppi», dice il neodirettore Patri-zio Marrone, «poiché a loro è affidataanche la formazione di base, in assenzadi licei musicali e soprattutto di corsi dimusica nella scuola dell’obbligo. A Pa-rigi ce ne sono diciotto di quartiere con-tro i centosei di tutta la Francia, che con-ta anche su quattro accademie».

Situato nel cuore della città vecchia,il San Pietro a Majella, che ha festeggia-to il bicentenario nel 2007, è scuola emuseo. «Qui ha insegnato composizio-

ne Donizetti», racconta Tiziana Gran-de, la bibliotecaria che ha in cura quat-trocentomila preziosissimi volumi cheprovengono dalle donazioni delle casereali borbonica e napoleonica, di priva-ti ed editori e del Teatro San Carlo. «Ilministero ci tratta come se fossimo labiblioteca di un comune di mille ani-me», protesta, mentre subissata da ri-chieste di consultazione da ogni partedel mondo si muove freneticamente trai magnifici saloni della pinacoteca e ilmuseo, che tra i preziosi strumenti d’e-poca conserva anche una rarissima ar-

petta di Stradivari. «I conservatori han-no attraversato la storia», dice Marrone,indicando la scrivania preziosa e le an-tiche scansie che ancora adornano ladirezione. «Sono anni di cambiamento:abbiamo due classi di jazz — ma seavessimo risorse potremmo farne tre —ci stiamo aprendo alla musica elettro-nica, che ha parecchi iscritti, e i corsitradizionali godono di ottima salute».

Chiara Mallozzi, vent’anni, di Napo-li, diplomata allo scientifico, studia mu-sica elettronica e composizione con ilvecchio ordinamento (cinque anni conla possibilità di frequentare un altrocorso universitario). «E privatamenteprendo lezioni di violoncello», aggiun-ge. «Ho fatto corsi in Germania, Austria,paesi dove il musicista è rispettato co-me un medico o uno scienziato. Da noiquesta professione è vista come unhandicap. La società non capisce benechi siamo e cosa facciamo. Quando di-co che studio musica, mi rispondono:sì, ma all’università che fai?». BernardoMaria Sannino, ventiquattro anni, diSan Sebastiano al Vesuvio, studiava fa-gotto già da liceale. Ora prende lezionidi piano privatamente e frequenta ilprimo livello di composizione. «Vorreipoter vivere di ciò che studio», esordi-sce. «Quello della disoccupazione è unproblema sociale che investe i musici-sti come gli ingeneri. Senza presunzio-ne: io e i miei amici ci sentiamo cultu-ralmente vivi. Ci vediamo la sera e suo-niamo, invece di andare in discoteca oguardare Il grande fratello».

Il direttore conferma: «Anche i bam-bini: vanno a scuola, poi vengono qua.Consideri che non c’è strumento che ri-chieda meno di due-tre ore al giorno, ela sera a casa a fare i compiti. Il conser-

LezionimusicadiGIUSEPPE VIDETTI

Conservatorio Italiaprecari per passione

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 10MAGGIO 2009

vatorio tiene occupati. Qui dentro c’èuna percentuale zero di uso di droghe».Un allievo azzarda: «Magari diventerò ilnuovo Giovanni Allevi». «Ogni genera-zione ha il Mozart che si merita», am-monisce Marrone. «Vediamo tra due-cento anni se qualcuno si ricorderà diquesto signore. Qui studiamo classici econtemporanei. Allevi, non ancora».

«La musica leggera è l’espressionedei nostri tempi. Stimo Allevi. Mi sem-bra orribile, invece, che l’Italia, il paesedove sono nati i conservatori, non rico-nosca socialmente la figura del musici-

sta», dice Sergio Zanforlin, ventisei an-ni, di Palermo, impegnato nel bienniodi violino al Conservatorio di musicaSanta Cecilia di Roma (1.500 iscritti, 164docenti), un’istituzione che risale al1875 e ha diplomato Maderna, Giulini eMorricone. «Qui con una laurea in vio-lino rischiamo di finire a fare i giullari»,dice. «Uno investe in anni di studio, fainenarrabili sacrifici economici e nontorna niente. Non ci resta che espatria-re».

Ma Edda Silvestri, insegnante di flau-to traverso e da due anni direttrice del

Santa Cecilia, è una lady di ferro, tutt’al-tro che disposta ad arrendersi ai tagli.«La situazione va affrontata politica-mente, il nostro lavoro è quello di sensi-bilizzare i politici sull’importanza dellacultura. Un popolo colto è comunqueun popolo migliore. La fuga dei cervelliè mortificante. Per risolvere il problemaoccupazionale dobbiamo preparareartisti, ma anche manager, liutai, stori-ci… insomma tutto ciò che serve nel-l’ambito musicale», dice, seduta nellastanza sontuosa ma austera e poco illu-minata che le è stata assegnata.

Claudia Dominici, ventotto anni, diRoma, diplomata in arpa col vecchioordinamento, è votata alla musica. Se lechiedono di suonare in un albergo, ac-cetta volentieri. «Il lavoro c’è, le arpistesono poche. Tra matrimoni, ricevi-menti, sostituzioni e lezioni private rie-sco a pagare l’affitto e a vivere. Ma lo sogià, finirò all’estero, a fare la professio-nista in orchestra. In Italia il nostro la-voro viene preso come un hobby». «So-no ragazzi speciali», conclude la Silve-stri, «perché fanno il doppio degli altri.Quel che per molti è sacrificio, per loro

è gioia. Il mondo di domani non può far-ne a meno». «La passione compensatutti i sacrifici», esclama Claudia av-viandosi verso l’uscita. Su via dei Grecisi ferma a parlare con i compagni di cor-so. Esaminano uno spartito, si arrovel-lano su una nota. Nessuno indossa capifirmati, nessuno ha in mano un cellula-re, nessuno ha nient’altro da ostentarese non passione e talento. I bidelli inco-minciano a chiudere i cancelli. Daun’aula lontana arriva il suono di unpianoforte. Lassù qualcuno fa ancora apugni con Chopin.

MILANOIl conservatorio Verdifu istituito con regiodecreto napoleoniconel 1807 nella Chiesadi S. Maria della PassioneTra i suoi studenti,Bottesini e Puccini

NAPOLIIl conservatorio di SanPietro a Majella nascenel 1806 da quattroorfanotrofi nelle zonepiù povere di Napolie diventa la più importantescuola di melodramma

ROMAIl conservatorio di SantaCecilia (protettricedella musica) nasce nel 1875,ma la Congregazionede’ musici da cui discendeha una storia vecchiadi cinquecento anni

I panini più richiesti in caffetteria: il Mozart con cotoletta,il Wagner con würstel e crauti, il Beethoven con salmone

CHITARRAI corsi di chitarrahanno 1.624 iscritti,68 sono gli allievidel primo annoscolastico

TROMBA E TROMBONENei conservatori ci sono1.384 iscritti ai corsidi tromba e tromboneQui la maggioranzaè maschile: 1.267

COMPOSIZIONEGli aspiranti compositorisono 1.301. (Tutti i datiriportati si riferisconoagli iscritti con il vecchioordinamento)

FLAUTOI corsi di flautosono frequentatida 1.725 studentiLe donne sono semprela maggioranza: 1.247

• IL CAPITALISMO ITALIANO RESTA FAMILIAREIl “nocciolo duro” delle migliaia di medie imprese non ha nessuna intenzione di cambiare criteri di sviluppo e resta fedele al modello dinastico

• AUTO, LA GRANDE CORSA ALL’OPELDa una parte Fiat-Chrysler, dall’altra la cordata russo-canadese di Magna. In mezzo il governo tedesco che deve sceglierese salvare il presente o scommettere sul futuro

• FONDI LOCUSTA, ORA I DEBITI SCHIACCIANO LE IMPRESELo spregiudicato uso della leva finanziaria scaricato sulle società acquisite mette in difficoltà anche aziende sane industrialmente

• BANDA LARGA, MIRACOLO A MILANOLa Provincia in tre anni ha speso 8 milioni di euro per posare 2.600 chilometri di fibra otticae ne sta già incassando 14 affittandone appena il 20%

Nel numero in edicola domani con

Repubblica Nazionale

Sogno o son pesto, di-ceva quel comico. Inrealtà, tra i due con-cetti l’antinomia è so-lo apparente, datoche esistono pesti da

sogno, come ben testimonianocerti piatti — tra Liguria e Sicilia— da paradiso dei buongustai.Invece, c’è pesto e pesto, se è veroche a ogni parte del tricolore cor-risponde un pesto figlio di un pez-zo d’Italia: il verde ligure, il bian-co emiliano-romagnolo, il rossomeridionale. Con sapori, storie,abbinamenti del tutto diversi e —nel caso di bianco e rosso — vin-colati alla tradizione locale.

Apparentemente semplice,ma di assoluto rigore stilistico,quello ligure occupa gran partedella passerella gastronomicadedicata alle salse “pestate”. Nonc’è menù turistico in qualchemodo ancorato alla cucina italia-na — in tutti cinque continenti —che sia orfano di una qualche“pasta col pesto”, dove la salsa èdoverosamente, accesamenteverde. Basilico, of course, for-maggio e olio, in quantità e so-prattutto qualità variabili. Il veropestu è tutt’altra cosa, a partiredal “baxeicò”, ocimum basili-cum, originario sì dell’Asia tropi-cale, ma radicato da tempo in ter-ra genovese, e specificatamentenel fazzoletto affacciato sul Po-nente. Nel municipio di Prà, in-fatti, microclima e cultura agri-cola regalano un profumo soavee irripetibile, tanto che gli espertidissuadono i turisti dal traspor-tare le piantine lontano dalla ter-ra di origine, pena la trasforma-zione degli aromi primari in de-solante odore di menta e metallo.Altra bestemmia culinaria, lacancellazione dell’aglio dall’e-lenco degli ingredienti, dato chela salsa-madre era una aggiada,salsa a base d’aglio crudo, a cuisolo in seguito — nel Dicianno-vesimo secolo — sono stati ag-giunti progressivamente gli altriingredienti. Infinite, le discussio-ni tra gli amanti dei pinoli e quel-li delle noci, come Fabrizio DeAndré che sosteneva come i pri-mi fossero la scelta obbligata neiricettari della povera gente, men-tre le seconde, di gran lunga mi-gliori, venissero usate solo neimenù dei ricchi.

Se il pesto ligure riesce comemagico assemblaggio di verduree grassi (extravergine, parmigia-no e pecorino), quello rosso pen-cola tra il vegano — niente pro-teine animali, con le mandorle adamalgamare gusto e consistenzadella salsa — e l’aggiustamentoun poco ruffiano con ricotta o pe-corino. Ma nei barattoli rossofuoco venduti sulle bancarelledella Vucciria a Palermo è l’afro-re delle spezie sapientementemescolate con i pomodori di Pa-chino essiccati a rapire il palato,dando forza a paste e bruschette.

È invece basato sulla centralitàdel maiale il pesto bianco, candi-do travestimento del più temuto(a torto) di tutti i grassi: il lardo.Nell’Appennino emiliano, la sto-ria popolare gastronomica passadalla sfoglia fritta (gnocco) o cot-ta tra due dischi di terracottachiamati tigelle (nome che defi-nisce anche la ricetta), arricchitacon la carne che ci si poteva per-mettere finito il tempo dellamaialata, ovvero il conservabilis-simo lardo, insaporito con qual-che odore dell’orto e un po’ di pe-pe. Se avete voglia di arrampicar-vi nei paesini alle spalle di Mode-na, fatevi tagliare anche qualchefetta di prosciutto magrolino,tanto per salvarvi la coscienza.

GenoveseBasilico localepestatocon extravergine,parmigiano,pecorino, aglio,pinoli e sale grossoper il pestodella tradizioneligure. D’obbligomortaio di marmo,pestello di legno,movimento rotatorio

LICIA GRANELLO

Le alchimie del mortaio

Made in ItalyVerde al basilico in Liguria,bianco a base di lardo

sull’Appennino emiliano,rosso a base di pomodoro

e spezie nel Sud: le ricetteche danno forma

a questo tricoloregastronomicocambiano secondole tradizioni localie la disponibilitàdegli ingredienti

ma sono legate traloro dal risultato:

esaltare e dareforza a primi

piatti, panee bruschette

i sapori

Calabrese Di un bel colorarancio, il pestoche ha comeingrediente-principele melanzane,rosolate a tocchettiin extravergine,cipolla, peperonie basilico. Una voltacotte e raffreddatesi frullanocon la ricotta

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA

PestoalPasta

DOMENICA 10MAGGIO 2009

Siciliano Sapido e robustoil pesto rosso, fattocon i pomodorisecchi lavoratiinsieme a basilico,prezzemolo, pinoli,pecorino, acciughe,sale, peperoncino,extravergine,fino a ottenereconsistenzacremosa

Modenese Complementoideale dello gnoccofritto (golosofinger fooddella montagnaemiliana), è a basedi pancetta frescamacinata finementenel tritacarnecon aglio,rosmarino, salvia,sale e pepe

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 10MAGGIO 2009

itinerariPeppe Aversaè l’estrosochef-patrondel ristorante “Il Buco”di Sorrento

Profumi e sapori generosinei gamberi rossi scottaticon caponatina e pestoamalfitano, a base di olive,alici, capperie scorza di limone

L’antica Prata Vituriorum,i Prati del ponentegenovese, è uno storicoborgo di pescatoriappoggiato tra Peglie Voltri. Qui si coltivail basilico più pregiato

DOVE DORMIREPORTA DEL MAREVia Zaccaria 4, Genova PonenteTel. 348-042350Camera doppia da 70 eurocolazione inclusa

DOVE MANGIAREOSTAIA DA Ü SANTÜ Via al Santuario delle Grazie 33, VoltriTel. 010-6130477Chiuso domenica sera, lunedì e martedìmenù da 25 euro

DOVE COMPRAREPRÀ BASILICO & PESTOPiazza Sciesa 8RTel. 010-8690365

Nella città della FataMorgana, la piccantezzadel peperoncinofa la differenza nella salsache si oppone al pestogenovese come il diavoloall’acqua santa

DOVE DORMIREB&B MIRAGLIA 19 Via Miraglia 19Tel. 327-5490680Camera doppia da 80 eurocolazione inclusa

DOVE MANGIAREHOSTARIA DEL BORGO ANTICOVia Cardinale Portanova 106Tel. 0965-895091Chiuso domenicamenù da 30 euro

DOVE COMPRARESPECIALITÀ PIZZIMENTIVia Fata Morgana 46Tel. 0965-331604

Reggio Calabria

Nella cittadina che dominala piana tra Panaroe Secchia, prosperail condimento che si sposacon il lardo di maiale,festeggiato ad agostocon lo gnocco fritto

DOVE DORMIREHOTEL VANDELLI (con cucina)Via Giardini Sud 7Tel. 0536-20288Camera doppia da 50 eurocolazione inclusa

DOVE MANGIAREPARCO CORSINIViale Martiri 11Tel. 0536-20129Chiuso lunedìmenù da 20 euro

DOVE COMPRAREMACELLERIA MONTIVia Giardini 129Tel. 0536-21709

Pavullo nel Frignano (Mo)

Il mortaio è il mixer delle cucine premoderne. Solo che, mentre delmixer oggi tendiamo a fare un uso discreto, il mortaio era per un cuo-co del Medioevo o del Rinascimento lo strumento principe, assolu-

tamente indispensabile nel lavoro quotidiano. Ciò dipendeva dalla cen-tralità gastronomica delle salse, che, a quell’epoca, erano ritenute ilcomplemento obbligatorio di ogni vivanda. A ciò si aggiungeva una di-versa percezione del rapporto fra il cuoco e la materia prima: la carne, ilpesce, le verdure oggi appaiono prodotti da rispettare nella loro identità“naturale”, che consente di valorizzarli al massimo grado sul piano gu-stativo, organolettico, estetico. Secoli fa, al contrario, si riteneva che fos-se un dovere del cuoco modificare profondamente il prodotto “natura-le” nel sapore, nel colore, nella consistenza. Sminuzzare il basilico o lamaggiorana, o le costose spezie importate dall’Oriente, era l’operazio-ne preliminare per costruire ogni salsa, ogni condimento. Ma anche lecarni, i pesci, le verdure, i formaggi si amava sminuzzarli, scomporli e ri-comporli in torte, pasticci, composizioni “artificiali” che ne cambiava-no i connotati originari.

Prendiamo come esempio il più antico ricettario italiano, il Liber decoquina scritto agli inizi del Trecento alla corte angioina di Napoli. Lapresenza del mortaio sul tavolo di lavoro è costante, addirittura assil-lante. L’indicazione di «pestare» o «tritare» ricorre in un numero incre-dibilmente alto di ricette. Si pestano le verdure per ridurle in zuppe o mi-

nestre: «Prendi prezzemolo, aneto, maggiorana, finocchio, cipolla, spe-zie con zafferano. Trita tutto quanto per bene in un mortaio. Cuoci conolio e somministra». Si pestano i legumi: «Metti a cuocere i piselli e mon-dali dalle scorze. Quando li avrai ben tritati in una pentola o in un mor-taio, aggiungi del lardo e poi versali in scodelle». Le fave, una volta bolli-te, «pestale in un mortaio». Le lenticchie, cotte assieme a erbe odorose,«pestale per bene». Allo stesso modo si possono pestare i pesci: «Rompii ceci e mettili a cuocere assieme a dei pesci tagliati a pezzi oppure bat-tuti e pestati nel mortaio». Pestando le carni si faranno golosi pasticci, ese nei composti dovranno entrare i rossi d’uovo s’intende che anch’es-si saranno cotti e tritati. Triti di erbe, spezie, mollica di pane, fegato an-dranno a insaporire le carni in umido. La vivanda e la sua salsa si trove-ranno unite nel segno del mortaio, del pestello e del loro fedele compa-gno, il filtro o stamigna, per rendere più omogenei i composti.

Con il passare del tempo gli strumenti di lavoro si moltiplicheranno esi perfezioneranno. Ma nella cucina rinascimentale di BartolomeoScappi, dotata di ogni sorta di strumenti, il mortaio sarà sempre al cen-tro delle operazioni. Il grande cuoco (che operava alla corte pontificia)richiede fra le sue attrezzature «mortari di bronzo grandi e piccioli, conli lor pestoni per pestare spezierie», e «mortari di marmo et d’altre pie-tre, con li lor pestoni di legno sodo». Accanto a loro i setacci e le «stami-gne, grosse e sottili».

Genova Prà

l’appuntamentoComincia oggi,

con la presentazione,al Tendone Palamare

di Genova Prà, del libroAlle radici del Pesto genovesedi Sergio Rossi, una settimana

particolare. Domenicaprossima Comune

di Genova e Consorziodel pesto organizzano

Profummo de baxaicò, festagrande del profumatissimobasilico locale. A Villa DoriaPodestà si svolgerà la gara

per il miglior pestonel mortaio tra gli allievidegli istituti alberghieri

ta I mixer in bronzo e pietra delle cucine anticheMASSIMO MONTANARI

Trenette Pasta della tradizione culinaria ligure, abbinamento ideale per il pesto. Simili a bavette e linguine,ne differiscono per la sezione ellittica e non piatta. Cottura con tocchetti di patate e fagiolini

Gnocchi Quelli di patate ben supportano il pesto genovese, a patto che si usino solo patate e farina (nienteuova) per dare più forza al piatto. Quelli per il pesto modenese sono sfogliette di latte e farina fritte

TroffieCon una o due “f” secondo le zone, sono i rustici alter ego delle trenette nei piatti con il pestoHanno forma affusolata e ottima consistenza. Esiste una variante con farina di castagne

Strozzapreti Ruvide striscioline di semola arricciate, simili a grandi gnocchi di semola di grano duro,si usano per reggere sughi complessi e caratteristici, come i ragù di selvaggina o il pesto calabrese

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 10MAGGIO 2009

capi

ROSSO CILIEGIARicorda il classico panama il cappello

Marlboro in paglia rosso ciliegia. Frescoe pratico, per un colpo di allegria in estate

OPTICALFantasie sgargianti per il cappello Etrodall’effetto optical. Piacerà alle signore

ma anche alle ragazze più giovani in jeans

FANTASIA FLOREALEMini fantasia floreale per il cerchietto di Kenzo

Va bene di giorno e per una gran seracon un abito lungo e romantico

INGENUITÀDelizioso cappello a larghe falde di cotone

color panna di Furla. Il fiocco a righe multicoloriaggiunge un tocco vezzoso e ingenuo

CAPELLI LUNGHICerchietto dai tessuti diversi e fantasia

per Isola Marras. Adatto a chi ha lunghi capellie viso regolare, sarà la moda dell’estate

AMPIE FALDESembra rubato a Grace Kelly in Caccia

Al ladro il cappello ad ampie falde in pagliaCon nastro colorato di Emilio Pucci

MILLERIGHECotone millerighe in stile bon tonper il cappello bordato di biancodi Patrizia Valori per Le Chapeau

PIETRA PREZIOSAÈ adatto per una serata in grande stileil cerchietto in raso e pietra preziosaincastonata in un fiocco di Miu Miu

le tendenzeAccessori trendy

La moda femminile raccomanda un’estate all’ombraChe si tratti di baschi, berretti o bandane; che seguano gustiminimal o kitsch; che siano fatti di stoffa, paglia o vimini,i nuovi modelli hanno invaso le passerelle e le vetrine

Nato per necessità, ha fatto innamorare uomini e donne. Accessorioindispensabile per molte icone di stile, come Audrey Hepburn e Gra-ce Kelly, ripara dal sole e dalla pioggia. È il copricapo. Cappuccio, ve-lo, cuffia, berretto o turbante non conta. L’importante è che sia pog-giato in cima alla testa. Perfetta cornice di un bel volto rappresenta,come sostiene lo stravagante couturier e cappellaio londinese

Stephen Jones «un’arma di grande effetto». Di più: «Il cosmetico più drastico e ve-loce da esibire, più efficace di un rossetto rosso fuoco». E per rendergli il giusto tri-buto il Victoria & Albert Museumdi Londra gli ha appena dedicato una colossale esi-bizione mettendo in mostra trecento cappelli di ogni foggia e dimensione.

Ma attenzione. Il copricapo non è per tutti. Per indossarlo bisogna avere quellache i francesi chiamano la tête a’chapeau(la testa da cappello). O, in alternativa, unabuona dose di disinvoltura. Nei secoli scorsi il cappello si è imposto come sinonimodel carattere vezzoso delle donne: magari scomode, sotto piramidi pungenti e cal-dissime, ma chic. Le nobildonne francesi e inglesi sui loro fecero addirittura ag-giungere uccellini imbalsamati, piume e composizioni di fiori e frutta. Insomma, iltrionfo di quel kitsch che oggi, a sorpresa, torna ad essere glamour. Le loro proni-poti, dal gusto più minimale, negli anni Venti si sono inventate un’aderente clochein grado di prendere la forma di qualsiasi testa. A seguire ha avuto il suo momentodi gloria anche la bombetta, ufficialmente il copricapo degli uomini della city lon-dinese, ma che è diventata una star mediatica grazie a Liza Minelli che, nel film Ca-baret, la faceva roteare sulla punta del piede.

E quest’estate, come ciclicamente succede, i copricapi tornano nuovamente digran moda. Non solo cappelli però, anche veli, cerchietti, fermacapelli. Tutto pur dinon girare a testa nuda. Plausi in passerella e qualche perplessità sulle strade. Tra imodelli più solari c’è quello in paglia, elegante per definizione, che protegge la pel-le e gli occhi dal sole. Soprattutto lo chapeau in vimini, in voga come tutto ciò ches’intreccia, a quanto dicono i trendsetter spopolerà sulle spiagge. Prima di tutte loha nobilitato Brigitte Bardot ma, per un effetto-diva che ricordi il suo, conviene ab-binarlo con grandi occhiali neri.

Nel gioco dei perenni ritorni trionfa il foulard. Femminile al punto giusto, si puòindossare annodato dietro la testa o stretto in una fascia gipsy intorno alla fronte.Per chi possiede un taglio di capelli a caschetto e ama il look francese, la soluzionepuò essere invece il basco: possibilmente come completamento di ballerine ultra-piatte e jeans tagliati alla caviglia. Per le finte ingenue, quelle che considerano la Lo-lita di Nabokov un mito, è il momento del cerchietto: sottile e decorato di strass, op-pure ricoperto di raso come per la cerimonia della prima comunione. E poiché vi-viamo in una realtà sempre più global, anche il velo diventa tra gli elementi indi-spensabili del guardaroba. Magari non in pesanti materiali sintetici come il burqa,ma rivisitato in cotone leggero da indossare nelle torride giornate estive. E poi an-cora cloche in materiali fiorati o in versione millerighe per un effetto-marinaretta.

Il copricapo, non va dimenticato, ha anche un animo snob. Non a caso, nell’an-tichità, era usato come indicazione del rango sociale. I tempi sono cambiati ma, saràper la postura eretta necessaria per tenerlo in piedi, assicura sempre un certo tonoa chi lo indossa.

IRENE MARIA SCALISE

Cappelli, veli, turbantiMai più a testa nuda

CopriANNI TRENTA

È un capolavoro di leggerezzail cerchietto realizzato con una semplice piuma

di Hoss. Perfetto per una diva anni Trenta

SUPER CHICIl cappello super

chic di Dior,lavorato

in un intrecciodi filo nero,aggiungecarattere

a qualsiasi abito

LAWRENCE D’ARABIARicorda il tipico copricapo per il deserto

questo velo trasparente di MarialicciUna moda global e dal fascino senza frontiere

Repubblica Nazionale

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10MAGGIO 2009

REPUBBLICA TVGabriele Muccino è statoospite della Dark Room,la serie di videointerviste“in nero” di Repubblica TvSu Repubblica.it, onlineil sondaggio per sceglierela sostituta di GiovannaMezzogiorno per il sequelde L’ultimo bacio

l’incontroEx adolescenti “Ero un bambino strano, avevo

come compagni i piccioni che allevavoPoi vennero le ragazze, ma non riuscivoa comunicare con loro. Solo il cinema

mi ha aiutato”. Ansie,paure, successi, ricordidolorosi del regista italianopiù “americano”che sta girando il seguitode “L’ultimo bacio”“I miei trentenni

sono cresciuti come me, non possonotornare indietro.Solo raddrizzarela barca e rimetterla in mare”

‘‘

Mio fratello Silvionon c’è nel filme neppurenella mia vitaNon parlo con luida un annoed è un motivodi rinnovato doloreÈ incomprensibile

ROMA

«Ero un bambinostrano. Affattosocievole, eromolto chiuso nei

miei pensieri. Avevo come compagni distrada dei piccioni che allevavo. Legge-vo libri su come si riproducevano, provaia covare le uova perché nascessero pic-cioni, di cui sarei stato padre e madre. Fi-nita la passione per i piccioni, iniziòquella per le ragazze. Che non mi vole-vano, anche perché ero completamenteinadatto a comunicare. Iniziai a balbet-tare per ansia da prestazione e solo gra-zie al cinema sono riuscito a superare imiei problemi, ho imparato a racconta-re chi ero». Un’ora e mezza con GabrieleMuccino, un inarrestabile flusso di co-scienza. Il regista romano, quarantadueanni, rovescia come una bottiglia sotto-sopra progetti e dolori, rimorsi e speran-ze, mescolando vita e cinema. Capellilunghi schiariti dal sole, abbronzaturadorata e maglietta scivolata, Muccino hal’aria di uno appena arrivato dalla Ca-lifornia, dove negli ultimi tre anni ha vis-suto. Sorride, smentisce: «Sono a Romada qualche mese. Ho preso una villa sul-la Flaminia. Devo guidare la macchinaanche per comprare il latte, manco fossia Los Angeles. Però c’è la piscina».

Lo scorso gennaio è finita la promo-zione del film Sette anime, girato conWill Smith, a giugno sarà già sul set di Ba-ciami ancora. In mezzo, mentre scrive-va il trattamento del nuovo L’ultimo ba-cio, ha girato uno spot. «Non esistonovacanze dal cinema», ammette. «L’hoincontrato per la prima volta a sette an-ni, ricordo scene da film di Tarkovsky edi Kubrick. Ho iniziato presto a girarefilmini. Amavo il contatto fisico con la

pellicola, tagliavo, montavo». I genitorigli regalarono una Super 8 e fin da alloral’oggetto del suo cinema è stata la fami-glia. Il primo corto a diciannove anni:«In Nina, di cui ho perso ogni traccia,raccontavo la morte di un’anziana e ildolore di un bambino. Ho convinto mianonna a mettere in scena la sua morteper me, anticipando quel che sarebbesuccesso qualche tempo dopo. Mio fra-tello Silvio era il protagonista». Già, la fa-miglia Muccino, che Gabriele, il mag-giore di tre fratelli, definisce «un deto-natore di tutte le mie insicurezze, ma an-che delle mie capacità e delle mie ambi-zioni». Il padre Luigi, ex dirigente Rai,«diceva che non sarei mai diventato unregista, poi mi aiutò a trovare i mezzi tec-nici per girare i primi corti». La mammapittrice, Antonella Cappuccio, invece«mi convinceva a seguire i miei sogni,qualunque cosa volessi ricercare».

La ricerca del cinema di GabrieleMuccino è passata per due esperienzed’attore. Un film con Pasquale Squitierial fianco di Claudia Cardinale, una serietelevisiva diretta da Pupi Avati. «È unacosa di cui, oggi, mi vergogno un po’.Chiesi ad Avati di fare l’assistente volon-tario. Non mi prese, ma mi fece fare unprovino per la tv. Come attore. Ero mol-to più balbuziente di oggi, non sapevostare davanti a una telecamera. Ma, nonso come, mi presero e io pur di stare sulset feci un’esperienza che mi frustròmolto. Ero un cane assoluto, ma daquell’esperienza ho imparato il novan-ta per cento di quel che oggi riesco adapplicare dirigendo gli attori». L’aspi-rante regista Muccino non era più so-cievole del bambino che giocava con ipiccioni. «Ero molto autarchico, di-sprezzavo il cinema italiano degli anniOttanta. E mi sentivo solo. Soltanto oggiho ritrovato intorno registi che ammiroprofondamente. Se mi chiedessero difare un film come lo fanno Garrone oSorrentino, non saprei dove comincia-re. È per questo che li ammiro».

Con Ecco fattoe Come te nessuno mai,Gabriele Muccino si era già fatto notareraccontando la gelosia e le pulsioni ses-suali e sentimentali dei ventenni. Atrent’anni, nel 2001, è arrivato il succes-so, anche di critica, con L’ultimo bacio.Dice: «In realtà i miei film di maggiorsuccesso sono quelli che mi sono piùestranei, in troppi ci si sono riconosciu-ti mettendoci cose che non erano le mie.Io non ho mai pensato di fare un film ge-nerazionale o che rappresentasse i tren-tenni. Ci ho messo le mie nevrosi, le mieansie e le mie vigliaccherie, innanzitut-to il timore e la voglia di una famiglia. Hopreso tutto questo e l’ho distribuito tra ipersonaggi creando un film corale».

Ci sono voluti quasi dieci anni peravere un seguito, ancora prodotto dal-l’amico Domenico Procacci. «In mezzoc’è stata l’esperienza americana. Avevobisogno di partire perché qui c’eranotroppe invidie, troppe pressioni, cosebrutte scritte su di me. Ricordati di me èun film che non considero perfettamen-te riuscito, anche se aveva il merito di of-frire uno spaccato sulla disgregazionedella famiglia borghese e sul fenomenodelle veline. Della Vallettopoli che sa-rebbe esplosa più avanti avevo compre-so qualcosa. Alcune testimonianze rac-colte mentre preparavo il film erano ag-ghiaccianti, sapevano di marcio. È in-credibile come quel personaggio incar-nato da Nicoletta Romanoff abbia subi-to una mutazione naturale eimprevedibile in una nuova generazio-ne di veline all’assalto delle cariche po-litiche. Ieri si aspirava a fare la condut-trice in tv, oggi l’europarlamentare.Condurre un programma, parlare allaCamera, la stessa cosa. È inquietantel’uso edonistico che oggi i politici fannodella bellezza. Il commento sul puntol’ha già fatto Veronica Berlusconi: “Ciar-

pame”. Gli italiani oggi sono assuefatti atutto, alle veline, ai conflitti di interessi,alla mancanza di credibilità».

Anche per questo per il regista è piùfacile vivere sospeso tra l’Italia e gli StatiUniti, paese che lo ha accolto decretan-done il successo e poi lo ha amareggiatocon le critiche negative a Sette anime:«La verità è che qui riprendo fiducia nel-la mia personalità mentre là posso ap-plicare il mio mestiere. Tornerò in Ame-rica, sì». Ora però è venuto il momentodi tornare a raccontare che è successo aigiovani protagonisti de L’ultimo bacio.«Baciami ancora non nasce dal deside-rio di fare un sequel, ma da un’urgenzapersonale della quale mi sono riappro-priato dieci anni dopo». Peter Pan hascoperto di non essere eterno? «PeterPan capisce che è cresciuto e che in que-sta crescita non è stato profondamenteconsapevole di quel che faceva. Ci sonoerrori con cui a quarant’anni, ti ritrovi afare i conti. I miei personaggi vorrebbe-ro tornare indietro, ricominciare, manon possono. Quel che possono fare èriuscire a raddrizzare quanto possibilela barca e rimetterla in mare. Rispetto alcinismo de L’ultimo bacio ora c’è piùcompassione. Allora i personaggi era-no, come me, proiettati verso un futuroindefinito nel quale si sperava molto.C’era ottimismo. C’erano le Torri ge-melle e il mondo conosceva una spintaclintoniana verso il futuro che abbiamoperduto».

Non ha ancora perdonato GiovannaMezzogiorno per aver detto no alla se-conda prova. «È stato un grande dispia-cere quel suo rifiuto ruvido e inspiega-bile, aveva letto solo dieci pagine delsoggetto». Il problema era Accorsi? Unaquestione personale? «Allora avrei pre-ferito me lo dicesse francamente». So-stituirla non sarà facile. «L’attrice cuiproposi inizialmente il ruolo, prima an-cora di Giovanna, fu Claudia Pandolfi.Per vari motivi non lo fece. E così KimRossi Stuart, che doveva essere Carlo.Poi feci la proposta a Stefano e Giovan-na». Il fratello Silvio non ci sarà. «Silvionon c’è nel film e neppure nella mia vi-ta. Si è chiuso in un isolamento nel qua-le non fa entrare me, i suoi genitori, i suoiamici. Non parlo con lui da un anno ed èun motivo di rinnovato dolore. È tuttoincomprensibile. Non c’è stato un mo-mento della nostra vita in cui non hoavuto con Silvio un’enorme complicità:abbiamo una leggerezza comune nelvedere il mondo».

Baciami ancora è un film sul senso dicolpa. «Ho un senso di colpa ancestraleche nasce da una sorta di inquietudine.I miei genitori spesso litigavano e io vo-levo uscire da quel nucleo. Poi, però, a

mia volta ho trovato situazioni inquieteall’interno delle quali ho generato dei fi-gli. Io ho tre figli, uno per ogni compa-gna, e già questa è una situazione sur-reale. Però vivo un senso di lontananzaquotidiana che mi rende incompleto eche cerco di completare con il mio lavo-ro e con l’amore. Non voglio nemmenoipotizzare che mi si possa chiudere la ca-pacità di sognare una famiglia comple-ta e compiuta».

C’è un Muccino italiano sobrio e fa-miliare e uno losangelino. «A Roma nonesco mai la sera, non frequento nessu-no. Quando sono in casa con la mia fa-miglia mi sento in vacanza con me stes-so. In California ho partecipato a festedove c’erano quattrocento divi stile Ni-cole Kidman e quattro sconosciuti, tracui io. Per un periodo ho cenato con Ca-meron Diaz, donna di grande passionelavorativa, ma anche di grande entusia-smo per la bella vita». Eva Mendes, JimCarrey, Hugh Jackman. Tutti voglionolavorare con Muccino. «È perché si èsparsa la voce che mi appassiona il lavo-ro sugli attori, cosa rara per un regista diHollywood. Avrei dovuto fare un filmcon Al Pacino, ma si spaventò del mio in-glese rurale». Sorprendente è stato l’in-contro con Tom Cruise: «Sono andato aparlargli di un film, che forse faremo,nella sua villa. Doveva essere un incon-tro di mezz’ora e sono rimasto una gior-nata intera. Abbiamo parlato per ore, miha insegnato a giocare a baseball, poiabbiamo cenato, abbiamo visto un filminsieme. Alle undici di sera ho detto:“Tom, io me ne andrei”. Ma avrei potu-to fermarmi a dormire». Con Will Smithl’amicizia ormai è fraterna. «Mi ha inse-gnato la leggerezza, fare per fare, perchéè bello creare e non importa cosa saràdopo. Mi ha riportato all’anno zero, allostato d’animo de L’ultimo bacio». Tuttotorna.

ARIANNA FINOS

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Gabriele Muccino

Repubblica Nazionale