Repubblica Nazionale 2016-07-03

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DI REPUBBLICA DOMENICA 3 LUGLIO 2016 NUMERO 590 Il nostro Cult All’inizio serviva al fascismo per controllarci, oggi è lo specchio del nostro paese La copertina. Cosa è rimasto di Dio fra i millennials Straparlando. Macchiavelli: “Le mie storie emiliane” I tabù del mondo. L’ossessione del corpo perfetto A novant’anni dalla nascita dell’Istat (che lo ha creato) siamo andati a vedere cosa c’è dentro A LL’INIZIO, ERA IL 1928, c’erano il pane scuro, i fagioli, lo strutto, la legna da ardere, l’inchiostro nero, i pennini, il carbon coke, la tela per biancheria fine chiamata “Madapolam”, l’olio di fegato di merluzzo e la tintura di iodio. Il panie- re dell’Italia povera e fascista che però iniziava a contarsi e a censirsi, tra l’ossessione demogra- fica del Duce, l’ansia modernista dei Futuristi, l’Aquila Littoria incisa sui treni e l’obbligo au- tarchico di consumi nostrani. Filati delle filan- de comasche e liquori nazionali, soda solvay e farina di lino. C’era poco in quei panieri del nascente Istat, assemblati ogni anno dal 1928 a oggi per calco- lare il “prezzo medio della vita” (fino al 1953 continuava a sopravvivere l’olio di ricino, lugu- bre ricordo di torture), cestini simbolici diventa- ti nel tempo uno straordinario archivio di memo- rie quotidiane, di vestigia private, di narrazioni domestiche, la storia minima che si trasforma in Storia. Tutto entra in quelle immaginarie sporte, ogni epoca ha i suoi prodotti simbolo, alcuni re- stano, altri vengono espulsi perché triturati dal progresso e dal disamore: il pane e il burro, eter- namente presenti, i francobolli e i frigoriferi, la Lambretta e la Vespa, il lardo e i filati cucirini, le lamette da barba e i liquori dopo-pasto, come il Fernet Branca, amaro di china e di genziana, già negli anni Venti una gloria nazionale. >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE MARIA NOVELLA DE LUCA paniere quotidiano P RIMA CHE SIANO SOLO I CINESI a fabbricar- li, ci sono artigiani, anche giovani, che ricominciano a fare a mano i panieri in- trecciando lunghi getti di salice (quel- lo flessibile e resistente detto vimini). E fanno proseliti. È uno di quei contenitori basici e intramontabili, il paniere, come la cesta, il sacco, il vaso, la damigiana, la botte, dove gli avi stipavano e trasportavano le cose da mangiare e da bere; e noi tutto sommato non abbiamo surrogati in grado di spodestarli davvero. Provate a far viaggiare degli ortaggi in un paniere, che traspira, e in un sacchet- to di plastica, che non traspira, e vivrete l’ennesi- mo trionfo dell’organico sull’inorganico. Che un oggetto così antico sia rimasto in auge co- me contenitore, però virtuale, delle stime statisti- che in materia di consumi, materiali e immateriali, è una cosa che in fondo ci rassicura. Mano a mano che l’economia diventa un dedalo di cifre, una dan- za vorticosa di quotazioni, speculazioni, discese ar- dite e risalite che basta una videata a raccontarle, è il concetto stesso di “paniere” a restituirci l’idea di poter contare, maneggiare, vagliare i nostri beni co- me se li avessimo tutti tra le dita, palpabili come mele o funghi, castagne o piselli. Non è proprio così, in realtà. Tra i panieri del do- poguerra a quelli dei nostri giorni la grande diffe- renza sta nella quasi prodigiosa varietà di nuovi consumi non commestibili (comunicazione, elet- tronica, viaggi, cultura) che hanno surclassato me- le e piselli. >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE MICHELE SERRA Il ricordo. Elie Wiesel, l’uomo della pace L’anniversario. Cent’anni del Canard, il “papero” ribelle padre della satira Spettacoli. Vinicio Capossela: “Il sentiero della Cupa l’ha costruito il diavolo” Sapori. Dieci piatti dell’estate. L’incontro. L’ultimo dei Ramones BOZZETTO DI PUBBLICAZIONE DELL’ISTAT - EDIZIONE 1957 Repubblica Nazionale 2016-07-03

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DIREPUBBLICADOMENICA 3 LUGLIO 2016NUMERO590

Il nostro

CultAll’inizio serviva al fascismo

per controllarci,oggi è lo specchio

del nostro paese

La copertina. Cosa è rimasto di Dio fra i millennialsStraparlando. Macchiavelli: “Le mie storie emiliane”I tabù del mondo. L’ossessione del corpo perfetto

A novant’anni dalla nascita dell’Istat (che lo ha creato)

siamo andati a vedere cosa c’è dentro

ALL’INIZIO, ERA IL 1928, c’erano il pane scuro, i fagioli, lo strutto, la legna da ardere, l’inchiostro nero, i pennini, il carbon coke, la tela per biancheria fine chiamata “Madapolam”, l’olio

di fegato di merluzzo e la tintura di iodio. Il panie-re dell’Italia povera e fascista che però iniziava a contarsi e a censirsi, tra l’ossessione demogra-fica del Duce, l’ansia modernista dei Futuristi, l’Aquila Littoria incisa sui treni e l’obbligo au-tarchico di consumi nostrani. Filati delle filan-de comasche e liquori nazionali, soda solvay e farina di lino.

C’era poco in quei panieri del nascente Istat, assemblati ogni anno dal 1928 a oggi per calco-lare il “prezzo medio della vita” (fino al 1953

continuava a sopravvivere l’olio di ricino, lugu-bre ricordo di torture), cestini simbolici diventa-ti nel tempo uno straordinario archivio di memo-rie quotidiane, di vestigia private, di narrazioni domestiche, la storia minima che si trasforma in Storia.

Tutto entra in quelle immaginarie sporte, ogni epoca ha i suoi prodotti simbolo, alcuni re-stano, altri vengono espulsi perché triturati dal progresso e dal disamore: il pane e il burro, eter-namente presenti, i francobolli e i frigoriferi, la Lambretta e la Vespa, il lardo e i filati cucirini, le lamette da barba e i liquori dopo-pasto, come il Fernet Branca, amaro di china e di genziana, già negli anni Venti una gloria nazionale.

>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE

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paniere quotidiano

PRIMA CHE SIANO SOLO I CINESI a fabbricar-li, ci sono artigiani, anche giovani, che ricominciano a fare a mano i panieri in-trecciando lunghi getti di salice (quel-lo flessibile e resistente detto vimini).

E fanno proseliti. È uno di quei contenitori basici e intramontabili, il paniere, come la cesta, il sacco, il vaso, la damigiana, la botte, dove gli avi stipavano e trasportavano le cose da mangiare e da bere; e noi tutto sommato non abbiamo surrogati in grado di spodestarli davvero. Provate a far viaggiare degli ortaggi in un paniere, che traspira, e in un sacchet-to di plastica, che non traspira, e vivrete l’ennesi-mo trionfo dell’organico sull’inorganico.

Che un oggetto così antico sia rimasto in auge co-me contenitore, però virtuale, delle stime statisti-

che in materia di consumi, materiali e immateriali, è una cosa che in fondo ci rassicura. Mano a mano che l’economia diventa un dedalo di cifre, una dan-za vorticosa di quotazioni, speculazioni, discese ar-dite e risalite che basta una videata a raccontarle, è il concetto stesso di “paniere” a restituirci l’idea di poter contare, maneggiare, vagliare i nostri beni co-me se li avessimo tutti tra le dita, palpabili come mele o funghi, castagne o piselli.

Non è proprio così, in realtà. Tra i panieri del do-poguerra a quelli dei nostri giorni la grande diffe-renza sta nella quasi prodigiosa varietà di nuovi consumi non commestibili (comunicazione, elet-tronica, viaggi, cultura) che hanno surclassato me-le e piselli.

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Il ricordo. Elie Wiesel, l’uomo della pace L’anniversario. Cent’anni del Canard, il “papero” ribelle padre della satira Spettacoli. Vinicio Capossela: “Il sentiero della Cupa l’ha costruito il diavolo” Sapori. Dieci piatti dell’estate. L’incontro. L’ultimo dei Ramones

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di merluzzodi fegato

I“PANIERI” INFATTI HANNO più o me-no la stessa età dell’Istat, il no-stro istituto nazionale di statisti-ca che il 9 luglio festeggerà i suoi novant’anni dalla nascita. Quei cestini oggi sono digitalizzati dal primo all’ultimo, ma a sco-perchiarli a uno a uno si viene co-munque sommersi da monta-gne di oggetti che raccontano passato e presente. La fame, la guerra, la ricchezza, l’istruzio-

ne, la protesta, i nostri nonni, i nostri genito-ri, i baby boomers e i millennials, gli anni Set-tanta quando l’Italia iniziò a rimpinzarsi di surgelati, gli Ottanta, quando nell’elenco del paniere approdarono gli aperitivi al bar e gli analcolici, simboli di quel mondo “da bere” che poi naufragherà con Tangentopoli.

Un archivio sconfinato, che per i suoi no-vant’anni l’Istat sta rendendo via via più frui-bile al pubblico, ma dove memoria e contem-poraneità si intrecciano. Perché è ancora qui, nel severo e massiccio pa-lazzo razionalista di via Cesa-re Balbo a Roma (oggi diretto da Giorgio Alleva), sede che lo stesso Mussolini fece co-struire per l’Istat nel 1931, che il paniere viene tutt’oggi assemblato, da un team di ol-tre trenta ricercatori coordinati da Federico Polidoro, responsabile del servizio “Prezzi al consumo”. Una facciata di marmi e bassori-lievi classici, il primo presidente a insediarsi fu Corrado Gini, viene nominato dal Duce e realizza in tre anni tre censimenti, l’indu-stria, l’agricoltura e la popolazione. Il fasci-

smo vuole sapere quanti sono, chi sono e co-me vivono gli italiani, come in ogni dittatura la statistica serve al controllo, e così il nuovo censimento del 1936 diventa propaganda af-finché le coppie diano figli alla Patria. “Il nu-mero è potenza” dicono i filmati del Luce, che invitano contadini e cittadini a farsi con-tare. L’autarchia dei consumi è al massimo, si esaltano le virtù del cotone “Sniafiocco”, l’acqua di colonia si chiama “Etrusca” e i ve-stiti da uomo “Caesar”, come ricorda la stori-ca Emanuela Scarpellini nel bel saggio L’Ita-lia dei consumi. Dalla Belle époque al nuovo millennio (Laterza).

Eppure è proprio in questi anni che nasco-no i consumatori moderni, dice Scarpellini, almeno nelle fasce alte. Vento di innovazio-ne spazzato via però dalle disastrose campa-

gne d’Africa e dalla Seconda guerra mondia-le, che riportano l’Italia nella povertà più estrema. Spiega Federico Polidoro, insieme a Maria Moscufo e Gloria De Martinis, ricer-catrici del settore prezzi: «Il paniere è uno strumento statistico che serve a calcolare l’inflazione, ed è formato da una serie di cate-gorie, dal 1999 sono diventate dodici, nelle quali entrano ed escono i prodotti di maggio-re uso collettivo, di cui vengono analizzati i prezzi». E di conseguenza il costo della vita, esattamente come quando iniziarono le pri-me rilevazioni nel 1928, ma le “voci” allora erano soltanto cinque e i prodotti, fino al 1953, non più di sessanta.

Ma a ogni entrata e uscita di un oggetto c’è un pezzo di società che si interroga su di sé, segnala Emanuela Scarpellini. Perché nel-lo scoprire che tra le novecento “cose e servi-zi” del 2016 scompare la sottoveste ma arri-va il latte di soia, vanno in pensione le cuccet-te dei treni ma si impongono i tatuaggi, c’è il «racconto della nostra trasformazione quoti-diana», di quanto velocemente, dice Scarpel-lini, «sia cambiata dagli anni del miracolo economico in poi. Per oltre un secolo i nostri nonni e bisnonni avevano fatto più o meno la stessa vita, mangiato cereali, legumi, quasi mai la carne e i dolci nelle feste, risparmiato sullo zucchero e sul caffè, sulla carta e sull’in-chiostro, con le giornate cadenzate dalle al-be e dai tramonti, fabbricandosi i vestiti con le vecchie Singer. Poi il mondo si è messo a correre, tra il 1958 e il 1970 il tenore econo-mico migliora per tutti, in questi anni nelle case entrano la tv, l’aspirapolvere, la cucina elettrica, lo scaldabagno, il frigorifero, e dun-que il cibo fresco». E i panieri dell’Istat, ricor-da la storica Scarpellini, «registrano il boom, seppure con qualche scarto cronologico, così come la rivoluzione dei consumi che ne sa-

Dall’olio

Le abitudini degli italiani nel racconto dell’Istituto nazionale di statistica

al

La copertina. Il nostro paniere quotidiano

tatuaggio

IERI E OGGI

NELLE FOTO,COME È CAMBIATA LA SPESA DEGLI ITALIANI: SOPRA, MASSAIE DEGLI ANNI SESSANTA SCELGONO LA FRUTTA E LA VERDURA IN UN SUPERMERCATO MILANESE; NELLA PAGINA ACCANTO, UNA DONNA CON IL CARRELLO DELLA SPESA OGGI

La storia

<SEGUE DALLA COPERTINA

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In ordine cronologico i panieri dal 1928 a oggi con i cinque prodotti più

significativi del periodo (il primo è sempre legato all’alimentazione, gli altri

sono stati scelti tra i più nuovi e significativi). Dal 1999 il paniere

diventa annuale

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rebbe seguita, quando per la prima volta il ci-bo smette di essere in testa alle voci di spesa delle famiglie a favore di altri beni». Carosel-lo cambia le giornate dei bambini nel 1957, Calimero “pulcino nero” sbiancato dai pro-dotti della Mira Lanza diventa un tormento-ne che dura dal 1963 per oltre venti anni, mentre le case si riempiono di pannelli di for-mica e di mobili di legno truciolato, come te-stimonia il paniere del 1977.

Ed è infatti aprendo quelle sporte, entran-do in quelle immaginarie cucine o droghe-rie, osservando la cartella degli scolari, che la storia d’Italia ci appare intimamente lega-ta alla quotidianità delle persone, come ne-gli Annales di Marc Bloch. Dalla brillantina ai Led, dalle sigarette Alfa alle Nazionali, dal burro che soppianta lo strutto, dai vestiti di “popeline” al meccano, dalle auto alle bici-clette, dalla polenta ai biscotti senza glutine, fino alla domestica a tempo pieno che si tra-sforma in colf a ore, l’elenco appare sempre più mutevole. Un lavoro, come racconta an-cora Federico Polidoro dell’Istat, che dietro ha l’apporto di grandi istituti di ricerca sui consumi, associazioni di categoria, uffici sta-tistici dei comuni, ma anche un esercito di “cacciatori” di novità, che rilevano fisicamen-te che cosa gli italiani mangiano, bevono, in-dossano, guardano, leggono, quanti pc com-priamo, quanti smartphone abbiamo in ca-sa. Tutti dati che poi negli uffici di via Balbo vengono elaborati per comporre il virtuale cesto di vimini ormai pubblicato con caden-za annuale. Così nel 1996 entrano le mozza-relle di bufala, nel 1999 Internet, nel 2009 la chiavetta Usb e nel 2011 il fast food etnico. Segno del trionfo del kebab, ma anche di una contaminazione culturale forse finalmente raggiunta.

Ieri il disoccupato con il televisoreoggi il precario con lo smartphone

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<SEGUE DALLA COPERTINA

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Le (finte) ingenuità di Carosello, la rivoluzione elettronica e il kebab

ÈCOME UN CAROTAGGIO — che deriva da caro-ta, tra l’altro… — del paesaggio sociale italia-no, anno dopo anno si stratificano abitudini e mode, deperiscono classici, fioriscono ine-diti, si confermano evergreen. Muore il car-

bone e nasce l’auto di massa, scompare l’olio di fegato di merluzzo, che era la panacea dei nostri nonni e bisnonni, e appaiono la moquette e il “pane da toast”. E dal Duemi-la in poi, come un’orda scintillante, inarrestabile, irrom-pono i consumi elettronici e digitali, la chiavetta usb, il navigatore satellitare, il tablet, il giornale online.

Servirebbero mesi di analisi e studi, e ancora non ba-sterebbero, per tentare una lettura chiara, storicizzata, dalla prodigiosa quantità di informazioni che il filare dei panieri Istat, dal lontano 1928 ai giorni nostri, è in grado di fornirci. Ma neanche un Nobel saprebbe per esempio spiegarci perché il fegato di bue viene estromesso dal pa-niere a partire dal 2002; e come mai il detergente per wa-ter deve aspettare, per entrare nel Gotha dei consumi ri-levanti degli italiani, fino al 2004 (io non me lo ricordo, prima, come si puliva il water: acqua e sapone? spazzetto-ne e liscivia? lanciafiamme?). Certo è che di tutte le ten-denze quella che segna con maggiore precisione il nostro transito dalla penuria al benessere è il progressivo con-trarsi della spesa dedicata al cibo; non perché si man-gi di meno, anzi, ma perché in proporzione alla

somma di tutte le altre spese, in costante aumento, per nutrirci spendiamo una quota del nostro reddito molto inferiore. Un dato, questo, che rende abbastanza oziose le critiche al presunto elitarismo di chi preferisce cibo di qualità: per mangiare un poco meglio si spende, dati alla mano, molto meno che per vestirsi alla moda o per ag-giornare il proprio arsenale telefonico e tablettistico. Dif-ficilissimo dire se prima ci si concentrasse sull’essenziale perché non c’erano quattrini per altre cose, o perché le “altre cose” quasi non esistevano. È il vecchio quesito, for-se insolubile, se è il bisogno a creare la merce o la merce a creare il bisogno.

Certo è che il paniere dei nostri nonni era molto “più paniere” del nostro, ed era decisamente più semplice va-gliarne l’utilità: conteneva soprattutto cose da mangia-re, cose per vestirsi, cose per riscaldarsi, farmaci di base. Il nostro è più indecifrabile, più imprevedibile, volendo più futile, nel 2015 hanno fatto irruzione, tra i prodotti nazionali tipici, anche i tatuaggi. È un paniere più “libe-ro” e più volubile, comprende bisogni impensabili solo vent’anni fa. Ma non dice a che cosa, per soddisfare quei bisogni o per inventarsene dei nuovi, abbiamo dovuto o voluto rinunciare. Il vecchio paradigma di Pasolini, il di-soccupato che vive in una baracca però con la televisio-ne, adeguato ai tempi è il precario che magari salta il pa-sto ma ha lo smartphone di ultima generazione. La lotta per sentirsi un po’ “più uguali” agli altri è la medesima. Giudicare è difficile. Il bello del paniere è che non ci giudi-ca: ci descrive.

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BERLINO

AVEVA SEDICI ANNI quando in una notte del 1944 nazisti e collaborazionisti bussarono alla porta di casa. Finirono tutti ad Auschwitz, lui sopravvisse e divenne il simbolo della Memoria del mondo, il Testimone supremo della Shoah. Ma fino all’ultimo seppe battersi per i diritti umani ovunque, dal Ruanda alla Birmania. Elie Wiesel, il più famoso e illustre sopravvissuto nel mon-do ai campi della morte del Terzo Reich premio Nobel per la pace, è morto ieri a ottantasette an-ni, sereno e affiancato dalla famiglia e dal suo team di storici dell’Olocausto.

“Signor Wiesel, Lei è il Messaggero per l’umanità, Lei è un leader spirituale del mondo, co-sì la giudichiamo, per questo abbiamo deciso di premiarla”. Così nel 1986 la Commissione per il Premio Nobel per la pace, dopo mesi di riflessioni nella sua palazzina a Henrik-Ibsen-Gate civi-co numero cinquantuno nel cuore di Oslo, motivò la sua scelta. Era lui, Elie che fino all’ultimo fu sempre pronto a interviste telefoniche alle ore più impossibili, il simbolo e la voce del ricordo. E ha saputo restarlo fino alla fine. Guardiamo in un flashback la sua storia, e incontriamo tutte le

grandezze culturali ed economiche e tutte le tragedie dell’ebraismo europeo e della comunità ebraica mondiale. Quella che Adolf Hitler tentò invano di cancellare dalla faccia della terra.

Era ebreo e insieme europeo, Elie Wiesel, non seppe o non volle mai scrollarsi di dosso la sua origine e il suo legame con il Vecchio Continente. Ma al tempo stesso quel Vecchio Continente per lui evocava i ricordi più atroci. Nacque il 30 settembre 1928 a Sighetu Marmatiei, in Romania. Allora paese industriale nascente, e Stato in cui — come ovunque in Europa centrale, dalla Germania alla Polonia all’Ungheria alla Jugoslavia — gli ebrei erano intelligentsija, élite, crema dell’imprenditoria. Pa-pà Shlomo era un commerciante di successo, la mamma si chiamafa Sarah Feig, il nonno materno Reb Dodye Feig era ferven-te religioso chassid. Ebbe un’infanzia e un’inizio d’adolescenza felice, Elie, pur incontrando umori antisemiti a ogni angolo. Vita normale, fino a quando bussarono in quella notte del 1944.

Furono portati tutti ad Auschwitz, lui poi fu spostato a Buchenwald. E al contrario della famiglia, sopravvisse. Riemer-se dalla notte, vide la luce della libertà, nelle sembian-ze dei soldati americani che liberarono il campo. Lo nar-rò poi in La Notte, il primo dei suoi libri: “Guardo allo specchio, e vedo un cadavere. Lo sguardo di quel cada-vere che mi contemplava dallo specchio non mi avreb-be lasciato mai più”.

Scelse subito l’impegno. E la fuga dall’Est euro-peo prima quasi tutto collaborazionista (Polonia e Ce-chia escluse) poi sovietizzato. Fu tra i primi a partecipa-re alla fondazione d’Israele, si sentì patriota ma volle subito essere imparziale giornalista: per testate france-si nello Stato ebraico, poi per Yedi’oth Aharonoth a Pa-rigi e infine a New York. Poi il salto nella carriera acca-demica, a New York e dopo a Boston. E impegno, sem-pre più impegno pubblico. Elie seppe avere una vita da ‘global player’ della Memoria decenni prima che co-minciassimo a parlare di globalizzazione.

Si batté contro l’oblìo, contro negazionisti e neonazi che lo insultarono e peggio più volte. Ma fu anche, più volte — anche in interviste a Repubblica — voce critica verso la politica israeliana nei territori occupati. E si de-ve anche alla sua mobilitazione che ebbe eco interna-zionale se il genocidio in Ruanda fu poi ricordato. E più ancora se Aung San Suu Kyi, l’eroina della lotta birma-na per la democrazia, poi anche lei premio Nobel per la pace, dopo decenni di arresti domiciliari, ritrovò la li-bertà. Parlando con presidenti americani e leader asia-tici, all’Onu e con ogni Ong dei diritti umani, Wiesel si batté a lungo “per quella donna splendida e coraggio-sa”. Da un decennio all’altro, lui grande cervello ed “ebreo errante”, riuscì sempre e comunque a trovare tempo per scrivere libri e insieme per dedicarsi a gran-di cause. Fu anche uno dei grandi protagonisti del di-sgelo tra Israele e Germania, e tra popolo ebraico e Ger-mania, che dopo la Shoah sembrava impossibile agli oc-chi di quasi tutto il mondo.

Veniva spesso a Berlino, parlava in conferenze, adorava dialogare coi giovani e ascoltarli. E i giovani, soprattutto tedeschi, volevano soprattutto sentirlo narrare. È stata anche questa la sua rivincita sui carne-fici. Sapeva anche essere spiritoso, all’occorrenza, Elie Wiesel. Negli ultimi tempi, con ironia tagliente, a chi in-sisteva troppo per avere interviste diceva «se non la smette la nomino Califfo di Bagdad». Il pessimismo non lo abbandonò mai, lo disse una volta accompa-gnando il presidente americano Barack Obama a Bu-chenwald in visita. «Il mondo non ha imparato dall’or-rore, altrimenti non avremmo pianto per il Darfur, il Ruanda, la Bosnia e tanti altri genocidi».

L’uomo dellapace

A N D R E A T A R Q U I N I

Nel 1944 viene deportato ad Auschwitz dove i genitori

e una sorella vengono uccisi. Dopo la liberazione

non smetterà mai di lottare per la pace

e la riconciliazione tra i popoli, anche per quella

tra tedeschi ed ebrei. Nel 1986 vince il Premio Nobel.

Ci ha lasciato ieri a ottantasette anni

1944 - LA DEPORTAZIONE

WIESEL E LA SUA FAMIGLIA VENGONO PRIMA RINCHIUSI NEL GHETTO DI SIGHET E POI, QUALCHE MESE DOPO, DEPORTATI NEI CAMPI DI CONCENTRAMENTO DI AUSCHWITZ-BIRKENAU

1945 - IL PADRE

POCHE SETTIMANE DOPO IL TRASFERIMENTO IL PADRE DI WIESEL VIENE PICCHIATODAI NAZISTI. MORIRÀ DI FAME SOLO POCHE SETTIMANE PRIMA CHE IL CAMPO FOSSE LIBERATO DALL’ESERCITO AMERICANO

1949 - IL GIORNALISMO

NEL 1949 WIESEL SI TRASFERISCE IN ISRAELE E COMINCIA IL SUO LAVORO DI GIORNALISTA; PER I QUOTIDIANI ISRAELIANI LAVORA COME CORRISPONDENTE DA PARIGI E POI IN ALTRI PAESI

Elie Wiesel

La memoria. Olocausto

30 SETTEMBRE 1928

ELIEZER WIESEL, DETTO ELIE NASCE A SIGHETU MARMATIEI, IN ROMANIA.HA TRE SORELLE: HILDA, BEATRICE E ZIPPORÀ. SOLO BEATRICE E HILDASI SALVERANNO

LA FOTO

ELIE WIESEL NEL CAMPODI CONCENTRAMENTODI BUCHENWALD (È IL SETTIMONEL SECONDO PIANO)

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1958 - “LA NOTTE”

PER 10 ANNI WIESEL RIFIUTA DI SCRIVERE DELL’OLOCAUSTO. MA L’AMICO ROMANZIERE MAURICE MAURIAC LO CONVINCE E LO AIUTA A SCRIVERE “LA NOTTE”,RITENUTO UN CAPOLAVORO

1986 - IL NOBEL

DAL 1955 WIESEL VIVE NEGLI STATI UNITI, DOVE SCRIVE E VINCE PREMI LETTERARI. MA IL PREMIO PIÙ IMPORTANTE È IL NOBEL PER LA PACE VINTO NEL 1986 IN ONORE AL SUO IMPEGNO CONTRO LA VIOLENZA

2007 - L’ATTENTATO

NEL 2006 LE COPIE DE “LA NOTTE” VENDUTE NEGLI USA SONO ORMAI SEI MILIONI. NEL FEBBRAIO 2007 UN 22ENNE NEGAZIONISTA TENTA DI UCCIDERE WIESELIN UN HOTEL DI SAN FRANCISCO

2013 - ULTIME BATTAGLIE

RITENUTO UNO DEI CITTADINI PIÙ AUTOREVOLI, WIESEL DECLINA LA PROPOSTA DI DIVENTARE PRESIDENTE ISRAELIANO MA NON RINUNCIA A PRENDERE PAROLA SU TEMI IMPORTANTI COME L’IRAN E IL NUCLEARE

Anche se avevaattraversato l’infernonon ha mai smarritola gioia di vivere

M A R E K H A L T E R *

CON LA MORTE di Elie Wiesel perdiamo l’unico che ancora poteva dire: «Oui, j’ai vécu». Sì, io sono sopravvissuto. Da oggi ci saranno, certo, altri che potranno raccoglierne l’eredità: noi tutti potremo ancora invocare

i valori universali della pace, dell’amore, della solidarietà. Potremo ispirarci ad essi, richiamarci ad essi, potremo persino pretenderli. Ma il mio amico Elie, che piango con la disperazione di chi perde un grande affetto, lui in persona aveva vissuto la tragedia di Auschwitz. Come diceva un altro dei sopravvissuti, Primo Levi: “È nelle situazioni estreme che nascono le coscienze estreme”.

Elie era una coscienza estrema. Ha scelto di raccontare ciò che aveva vissuto e ha usato la memoria come strumento di lotta. Per lui, tramandare la storia significava tentare giorno dopo giorno di svegliare le coscienze. Una cosa però io voglio ricordarla: penso al calore e alla gioia con cui i suoi studenti di Boston ascoltavano le lezioni del professor Wiesel. Riusciva persino a farli ridere. Ecco, si può certamente dire che il premio Nobel per la pace fosse un “personaggio tragico”, nel senso che era passato attraverso le porte dell’inferno. Ma Wiesel era grande anche e proprio perché nell’attraversare quell’inferno non aveva smarrito la gioia di vivere. Amava cantare - anche a lezione - e amava ridere. Aveva una grande sensibilità musicale, era una persona leale. Per lui il più grande miracolo della vita erano i suoi figli, che aveva avuto tardi, e che riteneva la sua più grande conquista, il suo più bel messaggio di pace.

Ora che la notizia della sua perdita mi coglie così impreparato e in lacrime, pesco nella memoria un aneddoto che potrebbe sembrare sciocco e semplice. Invece a pensarci bene, vi racconta esattamente chi fosse Elie Wiesel.

Io mi trovavo in America Latina, per un appuntamento che in quel momento avrebbe segnato la mia vita lavorativa. La mia famiglia a un certo punto si impuntò. C’era un dettaglio che non era a posto, non avevo i vestiti giusti, dicevano. Fu così che Wiesel prese, salì su un aereo e mi raggiunse con le mie “chaussettes”, con le mie calze buone. Chi altro può vantarsi di avere avuto un amico così leale e generoso? Ecco, io, fuggito alla tragedia, e lui, sopravvissuto alla tragedia, uniti da... un paio di calze. Dalla voglia, comunque, di vivere intensamente, con generosità.

Oltre all’amicizia, ci ha uniti certo la cultura yiddish. Ci univa anche un piccolo racconto biblico che avevamo molto a cuore. Dopo l’assassinio di Abele da parte di Caino, nella Bibbia il Signore pronuncia la fatidica domanda: “Caino, dov’è Abele, tuo fratello?”. E lui risponde: “Non so. Sono forse il guardiano di mio fratello?”.

Sì, noi siamo i guardiani dei nostri fratelli. Elie Wiesel, l’ultimo di una generazione, ci ricorda che non dobbiamo mai rinunciare a ricordare, a raccontare, a lottare, per impedire che le tragedie si ripetano ancora. Che non bisogna perdere, in tutto questo, il gusto di ridere, gioire, vivere.

Marek Halter è un intellettuale francese

di origine polacca

(Testo raccolto da Francesca De Benedetti)

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Ha cent’anni

L’anniversario. 1916-2016

Le CanardEnchaîné

il papà di Charlie

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PARIGI

“QUANDO VEDO QUALCOSA DI SCANDALOSO, la prima rea-zione è indignarmi. La seconda, trovarne il modo di ridere: è difficile, ma più efficace”. Un secolo do-po, il motto del giornalista Maurice Maréchal è an-cora valido. Il fondatore del Canard Enchaîné for-se non immaginava che il suo giornale, pubblicato per soli cinque numeri nel settembre 1915 e poi ri-sorto definitivamente il 5 luglio 1916 (data da cui si inizia ufficialmente a contare la sua età: “Resur-rection!” fu il titolo in prima), sarebbe arrivato nel ventunesimo secolo, uguale a se stesso. Lo spirito del giornale non è cambiato. Nella redazione di rue Saint-Honoré si lavora in un’allegra confusio-

ne. Disegni sui muri, pile di libri e un continuo viavai di giornalisti. Il lunedì si fa una merenda a metà giornata e il martedì, giorno di chiusura, si va tutti a mangiare insieme in una brasserie vicina.

Cent’anni e non li dimostra. «La nostra missione è ancora lottare contro il bourrage de crâne» rac-conta il direttore Michel Gaillard davanti a un caffé. Ovvero il lavaggio del cervello, che durante la Pri-ma guerra mondiale era la propaganda militare, e oggi è il marketing economico o lo storytelling poli-tico. Grazie all’ironia, il giornale è riuscito a criticare i generali durante il conflitto, sfuggendo alla cen-sura governativa. Già dalla scelta del nome della testata, si procede per paradossi. Canard è il nome con il quale si definivano all’inizio del Novecento i giornali che scrivevano solo falsità, e poi nel lin-guaggio comune significa solo giornale. Enchaîné, in-catenato, è un omaggio al quotidiano fondato da Geor-ges Clémenceau, L’Homme libre poi ribattezzato en-chaîné durante il conflitto. Maréchal e il geniale dise-gnatore H.P. Gassier hanno fondato un “papero da guardia”, indipendente non solo dal potere ma anche dal sistema mediatico. Un secolo fa molti giornalisti na-scondevano o mistificavano l’orrore delle trincee per un falso senso di patriottismo. Oggi sono i conflitti di in-teressi che condizionano un sistema dell’informazione sempre più vulnerabile perché in crisi economica. «Da questo punto di vista, il lavoro non manca» sorride il ca-poredattore Louis-Marie Horeau che ha preso il posto di Claude Angeli, storico “padrone” della redazione.

Nella palazzina nel centro di Parigi l’atmosfera è ri-lassata. La sede è stata appena ristrutturata. Sulla pa-rete dell’ingresso un disegno di Pétillon con un papero che rimbalza in testa ai presidenti della Quinta Repub-blica: tutti hanno dovuto scontrarsi con le inchieste del settimanale, il più famoso fu Giscard d’Estaing con l’af-faire dei diamanti ricevuti dal dittatore Bokassa. A for-za di scoop il Canard ha scritto la storia della Républiq-ue. Su un altro muro appare l’inconfondibile tratto di Cabu. Il disegnatore di Charlie Hebdo era di casa. La sua ultima vignetta è stata pubblicata sul Canard il 7 gennaio 2015, quando è stato ucciso nella redazione di Charlie Hebdo.

Mercoledì prossimo, il settimanale farà un numero speciale, ripubblicando la prima pagina del 5 luglio 1916. È in preparazione anche un libro commemorati-vo che sarà pronto solo a settembre. «Il nostro stile inca-sinato e improvvisato si conferma» ironizza il direttore che siede in mezzo alla redazione anche se avrebbe una stanza al piano superiore. È la camera in cui nel

1973 furono scoperti finti operai che tentavano di mettere delle microspie nel palazzo. Sulla parete è rimasto un buco e una targa intitolata al ministro dell’Interno dell’epoca. “Quale Watergaffe!” aveva titolato il giornale con un gioco di parole sullo scandalo americano avvenuto l’anno prima.

Molti nemici, tanta gloria. I tentativi di ingerenza sono stati frequenti. La riservatezza e il low profi-le è un altro dei tratti distintivi della casa. I cronisti del Canard non vanno in giro per tv e proteggono gelosamente i loro informatori. «Per fare pressione bisogna trovare un punto d’appoggio» spiega Ho-reau. «Di solito è la pubblicità e il bilancio finanziario». Da questo punto di vista, il Canard è invulnera-bile o quasi. Dalla sua fondazione, continua a non pubblicare inserzioni a pagamento. E dispone di 120 milioni di euro in riserve finanziarie, secondo il dato ufficiale che appare nell’ultimo bilancio. «Do-ve troviamo la nostra indipendenza? Nella nostra cassaforte» ironizza Gaillard. Un tesoretto accumu-lato in oltre mezzo secolo per salvaguardare il giornale e la sua autonomia. Non è sempre stato così. In passato, il giornale ha attraversato gravi difficoltà. Nel 1953 era travolto dai debiti e rischiava di chiu-dere. La redazione ha imparato da quell’esperienza.

Il Canard non assomiglia a nessun’altra testata, e non solo per la longevità del connubio tra satira e inchieste, un modo di raccontare spesso ispirato alle favole o ai pastiche. È rimasto uno dei pochi gior-nali al mondo che non ha un’edizione digitale. Il Canard è di carta, e basta. È anche uno dei pochi gior-nali che non ha aumentato il prezzo in edicola nell’attuale crisi. Impossibile sbagliare, da ventiquat-tro anni è sempre lo stesso: 1,20 euro. Altra rarità: formato e grafica sono cambiati pochissimo in oltre un secolo. «Siamo contrari alla moda dei restyling» commenta Horeau. Ci sono rubriche che resistono dal primo numero, come La mare aux Canards con il meglio del gossip politico. Molti disegni, poche foto. L’unica concessione alla modernità è aver aggiunto un tocco rosso con l’avvento della stampa a colori. Sul sito del giornale viene pubblicata solo la prima pagina. «Abbiamo riflettuto molto sul pas-

saggio al digitale e ne discutiamo ancora. Finora non c’è un modello economico convincente» spiega il diret-tore che vuole anche difendere la rete di edicolanti e di-stributori. Altro argomento: la rapidità del web cam-bia il modo di lavorare, soprattutto in un settimanale. «Sul web devi essere reattivo in poche ore. E non voglia-mo che i nostri giornalisti diventino schiavi del flusso continuo». Da qualche anno le vendite sono in calo, una rarità per uno dei più popolari settimanali france-si: 389mila copie a settimana. «In realtà siamo il primo perché gli altri truccano i dati» commenta il direttore. Il calo è stato del 16 per cento nel 2013 e del 2,5 per cen-to nel 2014. Con cinquantacinque dipendenti, tra cui trentacinque giornalisti, la testata resta in attivo: oltre 2,4 milioni di euro di profitti che non vengono distribui-ti in dividendi ma vanno ad accumularsi nelle riserve fi-nanziarie. Il fondatore del Canard era socialista e l’im-pronta politica resta quella. Ma il giornale non fa scon-ti a nessuno e l’arrivo della gauche al potere quattro anni fa ha portato un calo delle vendite. «È come quan-do la squadra del cuore va male, si tende a non leggere più i commenti sportivi» dice Gaillard. Già nel 1982, dopo l’elezione di François Mitterrand, il giornale ave-va perso il 25 per cento dei suoi lettori. «L’epoca di Sar-kozy per noi è stata davvero dorata» chiosa Horeau. François Hollande non è stato un affare per il settima-nale satirico. Anche se con il Presidente c’è un rappor-to di lunga data: è stato per anni uno dei tanti e inso-spettabili informatori della redazione. Quando si riuni-sce a porte chiuse il Consiglio dei ministri all’Eliseo, Hollande scherza: «Questa notizia non voglio leggerla sul Canard». Ovviamente qualche ora dopo è già in pa-gina.

Formato e grafica sono cambiati pochissimo. Niente pubblicità

né edizione digitale, stesso prezzo da anni:

“Dove troviamo l’indipendenza? Nella nostra cassaforte. In attivo”

A N A I S G I N O R I

LA VIGNETTA

L’ULTIMO DISEGNO DI CABU (UCCISO DURANTE LA STRAGE DI “CHARLIE HEBDO” PER IL “CANARD”). RAFFIGURA LO SCITTORE CHARLES HOUELLEBECQ E IL SAGGISTA

E GIORNALISTA ÉRIC ZEMMOUR CON I RISPETTIVI LIBRI “SOTTOMISSIONE” E IL “SUICIDIO FRANCESE”. “IL 71% DEI FRANCESI SI DICHIARA PESSIMISTA”. “PESSIMISTI, PESSIMISTI,

FORSE CHE ABBIAMO DELLE FACCE DA PESSIMISTI?”

LE FACCE /1

IN QUESTA PAGINA IN ALTO, TRA GLI ALTRI: MANUEL VALLS, VALERY GISCARD D’ESTAING, MARTINE AUBRY, ALAIN JUPPÉ, FRANÇOIS HOLLANDE, BERNARD HENRY-LEVI, JOHNNY HALLYDAY, SEGOLENE ROYALE, GEORGE BUSH, JAQUES CHIRAC

LE FACCE/2

NELL’ALTRA PAGINA IN ALTO, TRA GLI ALTRI: GÉRARD

DEPARDIEU, BARACK OBAMA, CARLA BRUNI, NICOLAS

SARKOZY, JOSEPH RATZINGER, MARINE LE PEN, JEAN-MARIE

LE PEN, ÈDOUARD BALLADUR, DOMINIQUE STRAUSS-KAHN

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Il “confessore”

dei francesi

nato tra boccali

di birra e cucina

Il mitico “Canard Enchaîné” nacque in cucina, nel piccolo appartamento parigino dei coniugi Maréchal; le riunioni di redazione si tennero a lungo attorno al tavolo da pranzo. Maurice Maréchal, un

colosso a baffetti fini, veniva da un giornale di sinistra estrema, dove teneva (anonima) una

rubrica meteorologica; sostenuto da gran boccali di birra, con la soda e solida

moglie Jeanne e il disegnatore Henri-Paul Gassier creò il giornale

satirico che usciva, in piena Grande guerra, tutto “caviardé”, cioè

costellato dalla censura con i pallini, neri come chicchi di caviale, delle

cancellature: perché era pacifista; ed è arrivato fino a oggi — senza pubblicità —

diffusissimo, ricco, impertinente, intransigente e frondista. Henri Guilac

creò l’anatra, Gassier il motto: “Avrai le mie piume, non la mia pelle”. Tra le due guerre, il

giornale denuncia lo scandalo affaristico-politico di Staviski (portato al

cinema nel 1974 da Alain Resnais con Belmondo), titolando, il 10 gennaio 1934:

“Stavisky si suicida con un colpo di rivoltella che gli hanno tirato a bruciapelo”. Intransigenti anche con il governo del Fronte Popolare (che appoggiavano) di Léon Blum, “troppo chic”, e accusato di favorire, nelle nazionalizzazioni, l’industria delle armi. La nuova guerra mondiale

ritrova il “Canard” pacifista; si trasferisce nella Francia libera del sud, dove Maréchal muore; lo sostituisce, energicamente, la moglie.

Sensazionale per la bellezza dei disegni è la stagione di de Gaulle presidente, rappresentato senza commenti come il re Sole. Ma alla fine degli anni Sessanta, il “Canard” ha una muta: il giornale di satira e di opinione diventa anche d’investigazione: il “confessore” dei francesi, il cui anonimato è garantito. Atroce il caso di Maurice Papon, ministro delle Finanze gollista, che un informatore (un resistente con la famiglia decimata a Auschwitz, setacciatore di archivi) denuncia come responsabile, nel 1942, della deportazione di 1690 ebrei di Bordeaux (uno solo rientrerà vivo): e solamente nel 1998, Papon, in un processo ritardato (su sua ammissione) da Mitterrand, viene condannato. René Bousquet è denunciato per la retata di centoventiquattro bambini; finirà assassinato.

Resta al giornale lo spirito scanzonato. Il “Canard” esce il mercoledì; nel 2013, il primo aprile è mercoledì. Il “Canard” pubblica una foto di Angela Merkel giovane, nuda, abbronzata, paffuta, birichina, deliziosa. Nella Rdt il naturismo era diffuso. È lei, non è lei? Nel timore che la ragazza ritratta non sia la cancelliera, e soprattutto nel timore che lo sia, i giornali esitano

a riprendere la foto. Solo “Vanity Fair” Usa la pubblica; è allora che l’ambasciatore

tedesco dichiara: «Siamo costernati, ma non abbiamo alcun commento da fare». Era lei.

Nel numero dopo la strage da “Charlie Hebdo”, nell’intestazione, al posto delle anatre, compare la faccetta di Cabu, il loro disegnatore appena massacrato, che dice: “Ragazzi, non lasciatevi abbattere”.

LE PRIME

PAGINE/2

QUI SOPRA A DESTRA, DALL’ALTO IN BASSO:IL CANARD SPOSA IL PACIFISMO (1919) “ABBASSO IL MILITARISMO TEDESCO, EVVIVA IL MILITARISMO FRANCESE”;IL NUMERO DEL 5 LUGLIO 1916DA CUI SI INIZIANO A CONTARE GLI ANNI DEL CANARD. VERRÀ RIPUBBLICATO MERCOLEDÌ 6 LUGLIOIN UN NUMERO SPECIALE; DOPO LA STRAGE DI CHARLIE HEBDO, CABU AL POSTO DELL’ANATRA DICE: “FORZA RAGAZZI NON LASCIATEVI ABBATTERE!”

D A R I A G A L A T E R I A

LE PRIME PAGINE/1

QUI SOTTO DALL’ALTO IN BASSO: IL PRIMO NUMERO DEL 1915; LO SCOOP DEI DIAMANTIDI BOKASSA (1979); UNO DEGLI ULTIMINUMERI SULL’USCITA DELLA GRAN BRETAGNA DALL’EUROPA. NEL DISEGNOIN GRANDE DI CABU “CARLÀ ASPETTAUN PICCOLO SARKOZY”

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laRepubblicaDOMENICA 3 LUGLIO 2016 32LADOMENICA

ROMA

UN FRUSCIO e come un’onda in mez-zo alle spighe. È la bestia del gra-no. È gufo? È volpe? È lupo? Non si sa. È la bestia del grano, il demone meridiano. Il mietitore deve starci attento, soprattutto “nell’ora del-la controra” quando è impossibile scorgere la propria ombra. Ti è mai capitato di trovarti a rotolare nel fango? Potresti aver subito il ri-chiamo del Pumminale. O di sentir-ti assai fiacco? Potrebbe essere col-

pa del Maranchino che “a dispetto se ne sta nel letto, ti rode la te-sta e non ti fa dormire”, mentre “il Mazzamauriello svuota i bic-chieri, sposta le sedie e nasconde le cose” e la Malombra “ti blocca il respiro e ti pesa sul petto”. Tutto questo mentre magari alla luce della luna volano le Masciare che “ti guastan le ossa e per fare gras-so ti posson bollire”. Tutte queste sono le creature della Cupa che “non puoi vedere né toccare ma loro vedono, e toccano te”.

In fondo in fondo, la porta dello stanzino si apre e ne fuoriesce un grande, bianco cappello da cowboy. Anche lui come una di quel-le creature assomiglia a qualcosa che ha a che fare col mito, qualco-sa di sghembo, di inafferrabile, di perturbante. Pantaloni e cami-cia neri, barba luciferina, cintura con grande fibbia, occhio scru-tante, sorriso imperscrutabile, voce ipnotica: l’uomo davanti a cui ci troviamo non è solo Vinicio Capossela ma uno dei personaggi del “western calitrano” raccontato nel suo ultimo disco-delirio,

Canzoni della cupa, un affresco visionario ma con radici ben pian-tate nel folk (Calitri è il piccolo paese dell’Irpinia da cui viene la sua famiglia e in cui lui da alcuni anni tiene lo Sponz-fest, un festi-val happening per cui arriva gente da tutta Italia). Un disco-mon-do monumentale: due cd (Polvere e Ombra) e quadruplo lp e quin-di, secondo le leggi della discografia, senza speranza. E che invece arriva al primo posto in classifica superando i tormentoni estivi. Un disco capace anche di travalicare i confini, prendendosi quat-tro stelle dalla bibbia inglese della musica, il mensile Mojo.

La stanzetta di Vinicio è piena: un grande trolley, strumenti mu-sicali e su uno scaffale l’ultimo libro di Roberto Calasso, Il cacciato-re celeste. «Parla di duplicità. Di un’epoca in cui quando incontravi altri esseri non si poteva sapere con certezza se fossero animali, de-moni oppure dei» . Quello che accade quando si incontrano le crea-ture del disco dell’Ombra. E che da quell’ombra a poco a poco sono strisciate fuori: una lunga, polverosa strada. E non a caso il secon-do disco si intitola Polvere. «Tanti anni fa ho visto un film di Stan-ley Tucci che si chiamava Big Night dove c’erano due brani di Mat-teo Salvatore. Rimasi allibito. Ho iniziato a scrivere queste canzo-ni nel 2002 sotto la sua influenza. Mi avevano così colpito che sono andato a Foggia per conoscerlo: aveva un’aria di creatura selvati-ca, di rapace con quegli occhi aguzzi che gli sporgevano molto. Era vecchio. Da allora abbiamo suonato insieme varie volte. Le sue so-no una forma rara di ballata: era il cantore della fame. Diceva: “Io non faccio canzoni di protesta. Faccio canzoni di rassegnazione”. Cantava il mondo del latifondo meridionale, l’ingiustizia, la sopraf-fazione. Cantava sottovoce perché sua madre gli diceva che al so-prastante non piaceva che le donne fossero troppo allegre. Quella era anche la generazione di mio padre». Che poi è emigrato a Han-nover, dove sei nato tu... «Sì, e con sé aveva solo una “scanata”, una pagnotta molto grande. Dormiva abbracciato a lei, ci ha man-giato per una settimana. Vale ancora per milioni di individui que-sta cosa che solo ieri succedeva a noi... Le cose poi sono molto velo-ci: ho parenti figli di poverissimi emigrati in Svizzera, laureati e sti-mati professionisti: già alla seconda generazione si era perso il le-game con la terra» . Di cui tu invece parli molto. «Sì ma solo perché me lo sono andato a cercare io. Avevo solo qualche ricordo d’infan-

VinicioCapossela

Di bestiedonne

e diavoli

L U C A V A L T O R T A

LE IMMAGINI

DALL’ALTO:

VINICIO

CAPOSSELA

NEL PERIODO

DI “CANZONI

A MANOVELLA”

( BERGAMO, 2004) ;

CON LA MASCHERA

DEI MAMUTHONES

A DORGALI

IN SARDEGNA

NEL 2006, DURANTE

“OVUNQUE

PROTEGGI”,

E POI A CALITRI

NEL 2015

Un cd doppio, visionario, impossibile

inaspettatamente al primo posto

in classifica. Un libro e un lungo tour

“Fatti di storie per sollevare Polvere”

Spettacoli. Western alla “calitrana”

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zia legato agli sposalizi». Di qui infatti lo “Sponz-fest” che Caposse-la organizza a Calitri con ospiti da tutto il mondo che è diventato uno degli appuntamenti più importanti dell’estate. «Gli sposalizi nella cultura contadina sono fondamentali e un tempo avveniva-no d’inverno, in gennaio, febbraio perché c’erano pochi lavori da fare. Poi invece con l’emigrazione i matrimoni si facevano ad ago-sto perché era il periodo in cui chi era fuori tornava al paese. La mia prima esperienza della musica è stata quella». Ma in famiglia c’era qualcuno che suonava? «No. Però mio padre ha sempre ama-to la musica, quando parla cita sempre canzoni: non cantautori ma Adamo o Celentano. Tiene da sempre sotto chiave tutta la sua collezione di dischi coloratissimi e il suo prezioso giradischi che ha comprato a Ulm». Ma a questo punto Vinicio era tornato in Italia, a Scandiano, in Emilia. «Il paese di Matteo Maria Boiardo e di Lazza-ro Spallanzani, insigne naturalista. E anche di Romano Prodi e so-prattutto del grande fotografo... sono troppo stanco, mi si cancella-no le parole». Si alza in piedi e comincia a camminare avanti e in-dietro per il camerino alla ricerca del nome improvvidamente sfuggito dalla sua memoria. «Ah certo, Luigi Ghirri! Però così non va...». Si sporge dalla porta: «Soccorretemi! Ci vuole del tè».

A proposito di radici, di quello che si chiamava “folklore” (dal te-desco “volk”, “popolo”) e che indica il patrimonio musicale popola-re tramandato dalla tradizione orale, Capossela è riuscito a dare di-gnità “mitologica” al nostro retaggio folk, non relegandolo al “fol-klorismo” ma mettendolo alla pari con il “mito americano”. Non a caso nel disco c’è anche Giovanna Marini. «La cultura anglosasso-ne non ha mai perso il rapporto con il suo folk. Anche in Italia c’è stato un “folk revival” a cui per ragioni anagrafiche non ho parteci-pato. Giovanna Marini, che di quel movimento è stata una delle principali artefici, è venuta a suonare allo Sponz-fest lo scorso an-no, si è fermata qualche giorno e le ho fatto ascoltare le registrazio-ni del 2003. E lei stupita mi ha detto: “Devi assolutamente portar-le a termine. Noi negli anni Settanta con Roberto Leydi e il Nuovo Canzoniere Italiano facevamo interminabili dibattiti sull’interpre-tazione filologica, tu invece semplicemente le hai fatte”: la mia ignoranza me l’ha consentito. Nei miei dischi di filologico non c’è niente. Ho solo seguito le storie. A Calitri c’è un poeta, Canio Valla-rio, che ha messo in metrica molte canzoni: lui mi ha dato dei fogli in dialetto da cui è venuta fuori la storia dell’aborto clandestino di Maddalena la castellana. Ci sono molte figure femminili nella cul-tura contadine. La parte della Polvere, il primo cd, si apre con Fem-mine, le donne che raccolgono il tabacco e poi ci sono Dagarola del Carpato, Franceschina la calitrana». Che è una nuova Bocca di ro-sa: l’amor profano generoso e vitale di De André.

Arriva il tè. Le operazioni per far entrare la bustina nel bollitore sono complicate. «Scusa, siamo stati costretti a interrompere la nostra conversazione ma tra poco ne avremo un beneficio». Erava-mo alla Polvere. «Sì, è quella della terra di Matteo Salvatore che ti soffoca, diversa dalla “dust”, la polvere del deserto di una band co-me i Calexico che ho conosciuto anni fa e che suonano nel disco, co-me pure ci sono i Mariachi e Flaco Jimenex, re del Tex-mex: ho sempre sentito il senso della frontiera e in Canzoni della Cupa i due mondi convivono». E l’Ombra? «Sono brani che hanno più a che fare con un patrimonio etno-antropologico. Non a caso prima ci sono stati nel 2006 Ovunque proteggi e nel 2011 Marinai, profe-ti e balene, dischi dove il sacro, il mito e la cultura arcaica sono un po’ il centro» . Ovunque proteggi è un disco “magico” in tutti i sen-si e il capolavoro assoluto di Capossela che da lì ha intrapreso una strada di ricerca unica, tra Pasolini e la Terra del rimorso di De Martino, tra Il ramo d’oro di Frazer e il Furore di Steinbeck, le Stra-de Blu di Heat Moon e i Tarantolati di Tricarico. Western “calitra-no” appunto. «Fino a Il ballo di San Vito ho fatto dischi biografici e anche quello pur avendo qualcosa di ancestrale racconta il mio non potere stare fermo in nessun posto». Davvero vivevi dentro una macchina? «Sì, sì certo. Per un paio d’anni. Non avevo fissa di-mora. Dormivo a casa di amici, negli alberghi». È stato bello? «È stato estenuante. Ma non è perché non avessi i soldi, era l’inquietu-dine, l’incapacità di dividere uno spazio, un matrimonio. A venti-nove anni le stelle mi hanno spiegato che bisognava rinnovare il ci-clo e quando non hai vissuto una gioventù...». Perché tu invece in gioventù... «Io non avevo mezzi: gli altri ragazzi facevano l’in-ter-rail, andavano sulla strada, viaggiavano. Io l’ho fatto quasi a trent’anni». Ma suonavi già? «Sì, avevo fatto il primo disco. Avevo letto Kerouac a diciassette anni ma poi mi è ricapitato in mano e ho detto “O adesso o mai più”» . E poi... «Ho sentito bisogno delle ra-dici. La mia terra. Il mito americano si è specchiato in quello dell’I-talia». Quanto è stato importante Pasolini? «Brucia Troia, in Ovunque proteggi ha un incipit tratto da Edipo Re. A mezzo del mi-to spiegava la contemporaneità. Mi ha illuminato». Sbadiglio. Sba-diglio. Si alza. Prende un’altra tazza di tè. Ne versa un’altra anche a me. Sbadiglio. «Sono molto stanco». Gli occhi quasi si chiudono. «La maschera è molto importante: ha potenza. “Persona” etimolo-gicamente viene da una radice etrusca, significa “parlare attraver-so la maschera”, la maschera è anche uno strumento. Si canta at-traverso la maschera, amplifica il suono. Ci dormi insieme, devi di-ventare quella cosa. Noi nella cultura mediterranea non abbiamo i grandi spazi ma la grande profondità sì. L’arcaico convive in noi, nelle radici delle nostre parole, è un pozzo, si scava: un po’ di terric-cio e c’è la civiltà contadina, scavi ancora un po’ ed è la nostra in-fanzia del mondo. Scavi e trovi le ossa».

Fuori il sole sta calando, ma poco o nulla filtra nello stanzino del tè, delle trombe dei due “finti mariachi” e dei due chitarristi, un ra-gazzo portoghese e un anziano signore della “Banda della posta” di Calitri, con cui hanno provato poco prima a lungo nuove canzo-ni in questo strano, languido pomeriggio in cui tutto sembra così lento e dolce. «È il tempo per partire, il tempo di restare, il tempo di lasciare, il tempo di abbracciare. In ricchezza e in fortuna, in pe-na e in povertà, nella gioia e nel clamore, nel lutto e nel dolore, nel freddo e nel sole, nel sonno e nell’amore. Ovunque proteggi la gra-zia del mio cuore. Ovunque proteggi, proteggimi nel male. Ovun-que proteggi la grazie del tuo cuore». Lo lascio che canticchia tra sé e sé. Quasi non s’accorge che sono andato via.

IL LIBRO E IL TOUR

SI INTITOLA “ VINIC-IO” ED ÈUN PARTICOLARE LIBRO- SCATOLAIN USCITA IL 14 LUGLIO DA CUI SONO TRATTELE IMMAGINI DI QUESTE PAGINE. È STATO REALIZZATO CON VALERIO SPADA, FOTOGRAFO CON CUI CAPOSSELA COLLABORA DAL 1998 (SKIRA, DUE FLIPBOOKS PIÙ LIBRO E CARTOLINE, 49 EURO). È ANCHE IN MOSTRA ALLA FELTRINELLI DI ROMA. LA EFFE, TRA L’ALTRO, HA PRODOTTO IL DVDDOCUMENTARIO“IL PAESEDEI COPPOLONI”, USCITO IL 9 GIUGNO SCORSO. LE PROSSIME DATE DEL TOUR “POLVERE” SONO L’11 LUGLIOA MAROSTICA (VICENZA), IL 13 AL SUMMER FESTIVAL DI LUCCA, IL 15 A VILLAFRANCA (VERONA), IL 16 AD ASTI, IL 19 A BRESCIA, IL 20 A COLLEGNO (TORINO), IL 24 A SOGLIANO (FORLÌ) E IL 29 A CAGLIARI

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laRepubblicaDOMENICA 3 LUGLIO 2016 34LADOMENICA

MilanoIl musicista-antropologo Don Pasta propone un percorso di sette appuntamenti sul tema della cucina popolare, coinvolgendo nonne e carcerati, contadini e cuochi di cucina etnica, tra cous cous e tortellini

Corvara (Bolzano)Appuntamento nel cuore delle Dolomiti a “L’Murin” dell’hotel La Perla, dove lo chef stellato milanese — celebre il suo riso con il gambero — preparerà una cena di raccolta fondi per progetti agricoli in Uganda

Lesignano de’ Bagni (Parma)Sulle colline di Langhirano, agricoltori resistenti custodiscono antiche razze animali e varietà vegetali. In passerella, salumi di Mora Romagnola, marmellate di cipolle Borettane e succhi di uva Malvasia

None (Torino)A scuola nel laboratorio Domori con i responsabili dell’Istituto Chocolier. Storia ed ecosistema del cacao, valutazione sensoriale e sessioni di assaggio di varietà Criollo, Trinitario e Forastero

Barolo (Cuneo)Cuore gourmand del programma di “Collisioni”, sette appuntamenti sul palco all’interno del castello sul tema dei grani, con abbinamenti tra sette vini e sette ricette di pizze e focacce d’autore

UNA CITTÀ PER MANGIARE. Ma anche una frazione, un bor-go, un’osteria in mezzo al nulla. E poi empori, negozi di nicchia, mercati, agriturismi, fiere di paese e primizie in passerella. Oppure, al contrario, appuntamenti per gourmet inveterati, al seguito dei grandi cuochi in tour. L’estate italiana è una sorta di via Lattea del cibo (non a caso) trapuntata di luoghi e occasioni dove godere delle migliori goloserie locali. Poco importa se a organizzare sono istituzioni collaudate o piccoli produttori indomiti. Conta solo trovare l’indirizzo giusto per un’indimentica-bile francobollo di vacanza a tutto gusto. La passione per la buona tavola è una felice malattia contagiosa che ab-

batte frontiere e rende i popoli fratelli più di qualsiasi altra attività. L’anno scorso, l’Italia ha collezionato oltre cinquantatré milioni di visitatori stranieri. Al di là dell’Expo, ci hanno visitato per l’arte, la bellezza paesaggistica e il buon mangiare.

L I C I A G R A N E L L O

10

Sapori. Di stagione

Un piatto per l’estate.Da Bolzano a Marsalala vacanza è a tutto gusto

BREAD RELIGIONDal 14 al 18 luglio

UNITED FOOD OF MILANODal 4 luglio al 9 settembre

ANDREA BERTON PER LA COSTA FAMILY FOUNDATION23 luglio

RURAL FESTIVALDal 3 al 4 settembre

La novità

Pastiglie Leone ha lanciato una nuova linea di scatoline di latta variopinte, dedicate

alle fiabe, da Pinocchio a Peter Pan. All’interno, caramelline alla frutta senza conservanti

né coloranti artificiali. Tra le collezioni, quella dedicata

ad Amnesty International

DA LUGLIO A SETTEMBRE

L’ITALIA SI RIEMPIE DI SAGRE, FIERE,

FESTE E FESTIVAL CON PRIMIZIE

IN PASSERELLA CHE FANNO

INNAMORARE TURISTI DI TUTTO

IL MONDO. E SPESSO

AI FORNELLI SI TROVANO

ANCHE CHEF PLURISTELLATI.

ECCO DOVE ANDARE (E COSA

ASSAGGIARE) FUORI DAI SOLITI POSTI

L’iniziativa

Per tutta l’estate il Bar Cavour, al primo piano dello storico

palazzo che ospita il ristorante stellato“Del Cambio” (Torino),

si trasforma in Temporary Peruvian, con menù dedicato

all’alta cucina sudamericana a cura dello chef Roberto Sihuay

Ramírez e cocktail abbinati

Il libro

Protagonista dell’enologia friulana, Walter Filiputti

ha pubblicato per Skira “Storia moderna del vino italiano”, che racconta cinquant’anni

della nostra viticoltura attraverso le chiavi

di rinnovamento, innovazione e geografia del vino

DEGUSTARE IL CIOCCOLATO14 luglio

eventi&specialità

Repubblica Nazionale 2016-07-03

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laRepubblicaDOMENICA 3 LUGLIO 2016 35

Ischia (Napoli)Il ristorante “Indaco” dell’hotel Regina Isabella e il suo cuoco stellato Pasquale Palamaro ospitano grandi nomi della cucina mondiale per una serie di cene a quattro mani. Piatto firma: la parmigiana rivisitata

Arzachena (Olbia-Tempio)Il cuoco tristellato Heinz Beck — suo il magnifico carpaccio di ricciola e lemongrass — organizza una due giorni a più mani: la domenica street food sulla Marina, lunedì cena gourmand al “Blubeck” del Grand Hotel Poltu Quatu

Gaiole in Chianti(Siena)La notte di San Lorenzo tra stelle e brindisi nelle cantine associate al Movimento del Turismo del vino. Al Castello di Ama, festa di beneficienza con i grandi vini del Castello di Ama e le pizze di Giovanni Mandara

TrapaniGiunta alla settima edizione, la festa nell’antica piazza del mercato del pesce celebra il cibo dei mercati popolari, dal polpo al sugo alla granita di gelsi, spaziando nelle cucine di tutto il Mediterraneo

Marsala(Trapani)Florio organizza una serie di tour nella storica cantina aziendale, con degustazioni al tramonto di quattro vini — secondo varietà e territori — abbinati alle eccellenze gastronomiche locali, arancine e panelle in primis

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Gli ultimi dati Istat sul turismo nazionale certificano una spesa per il food di 26 mi-liardi di euro, a fronte dei 75 miliardi di fatturato totale, quasi equamente divisi tra pasti e acquisto di prodotti, ovvero un terzo della spesa totale in cibi e bevande. E uguale è la percentuale di chi sceglie di tornare a casa con un souvenir commestibile per sé, amici e famiglia.

Ci supporta una geografia gastronomica senza rivali. In molte parti del mondo, dalla Spagna alla Cina, esistono luoghi di delizie alimentari in grado di tentare il pa-lato più esigente: la Catalogna e Sichuan, i Paesi Baschi e Shanghai. Oppure la Fran-cia, che ha “centralizzato” le sue cucine regionali, per cui hors-d’œuvre e soup d’o-nion si assomigliano dalla Normandia alla Borgogna.

L’Italia del cibo è molto difficile da codificare. Lo stesso Pellegrino Artusi, mento-re nostrano della gastronomia, ha preferito legare il paese con un fil rouge fatto di materie prime e rispetto delle diversità locali, piuttosto che tentare un’improbabile nazionalizzazione delle ricette. A nord il burro e al sud l’olio, la pasta all’uovo e quel-la secca, le verdure del freddo e il trionfo del clima Mediterraneo, carni frollate e pe-scato del giorno.

Un universo di saperi alimentari stratificati nei secoli, rivendicati come autopro-duzione ad alto tasso di cultura culinaria. Nel paesino di Minori, borgo-gioiello della Costiera Amalfitana, meno di tremila anime — una manciata di famiglie — rivaleg-giano da sempre sulla preparazione delle melanzane al cioccolato, dolce straordina-rio per pochissimi adepti, meravigliosamente local: ortaggi tondi o lunghi, fritti una volta oppure due, prima sbollentati e poi spadellati, cioccolato al latte o fondente? Di questo si innamorano i turisti di tutto il mondo, che dimenticano in un attimo spa-ghetti Bolognese e chicken Parmigiana, sacrificando perfino il cappuccino a fine pa-sto in cambio di un limoncello artigianale.

La cucina d’autore si è adeguata in fretta alla voglia di gastronomia vacanziera, ideando tour e festival intorno ai quali costruire un’offerta diversa, originale, più ac-cessibile rispetto ai locali originari, dove le stelle Michelin pesano necessariamente molto di più.

Per questo, se riuscite a incrociare date e posti, non perdete gli appuntamenti con l’alta ristorazione e le degustazioni in versione estiva. Tra un super piattino e un buon bicchiere, anche una manciata risicata di giorni si trasformerà in vacanza da ricordare.

CALICI DI STELLE10 agosto

STRAGUSTODal 25 al 28 luglio

I MARTEDÌ DI TERRAZZA FLORIO12 luglioe 6 settembre

DAL DEJEUNER SUR L’HERBE di Éduard Monet allo spuntino sotto gli alberi del principe di Salina nel “Gattopardo”, il mangiare

all’aperto sa sempre di trasgressione. Se non altro significa concedersi delle licenze. Ne sanno qualcosa le ninfe inquietanti di “Picnic a Hanging Rock”, le collegiali vittoriane del meraviglioso film di Peter Weir, disposte a perdersi pur di assaporare il gusto della natura che sboccia prepotentemente in loro. In questi e in altri casi, colazioni, pranzi e cene en plein air, sono il simbolo di una liberazione da tradizioni pesanti e convenzioni soffocanti. Ma anche di una ricerca di nuovi spazi di socialità e di nuovi modi di vivere le città. Che da un po’ di tempo sono diventate dei dehors alimentari senza soluzione di continuità. Caffè e ristoranti conquistano ogni giorno metri di strada, gli street bar spuntano nel deserto urbano come oasi esoneranti dove concedersi pause easy, attimi di extraterritorialità che ci liberano da routine noiose, incombenze onerose e responsabilità gravose. E il lounge smette di essere un semplice luogo, salotto o soggiorno che sia, per diventare un modo di essere e di sentire. Un verbo ausiliare del linguaggio globale. Una sorta di distensione del tempo che si allunga pigramente, proprio come allunghiamo le gambe quando ci stravacchiamo sul divano per goderci il nostro spritz.

Questa voglia di uscire dal chiuso delle mura domestiche per lanciarsi alla conquista del cibo è il sintomo alimentare di una mutazione antropologica dell’homo edens. Che sciama sempre più volentieri tra feste e festival, sagre, fiere e camminate sulle acqua con la benedizione di Christo.

Sono riti collettivi per celebrare l’estate che, finalmente, ci fa uscire dall’inverno dei nostri sensi. E segna la nascita di convivialità inedite, di nuove liturgie che intercettano perfettamente lo spirito del tempo. Modulare, flessibile, informale. Ma anche desideroso di inventare occasioni e tradizioni fusion, fatte con pezzi di passato e scampoli di futuro.

Si ripete spesso che l’individualismo di massa ci fa implodere nel chiuso di noi stessi. Ma noi, mangiando sotto le stelle, ci ribelliamo a questo ripiegamento. E se la strada e la piazza diventano un ristorante diffuso, il nostro prato urbano, di fatto sono nuovi spazi collettivi che nascono. Aree open source dove sperimentiamo connessioni in carne e ossa. Virtuali ma non immateriali. E ci interfacciamo con i nostri simili, facendo esperimenti di comunità possibile, cercando contatti ravvicinati di un certo tipo. Analogici e digitali. Sguardi che si incontrano, corpi che si sfiorano, mentre la mano sinistra regge un finger food e la destra whatsappa la foto dell’incontro. Cortocircuiti dionisiaci con scariche di adrena-linea.

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Mangiandosotto le stelleper uscireda noi stessi

M A R I N O N I O L A

SUMMER DINNERSDal 21 luglio al 7 settembre

HEINZ BECK FOOD FESTIVALDal 17 al 18 luglio

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AIRUNO (LECCO)

SESSANTENNE, CAPELLONE (ma l’abbondante zazzera sarà genuina?), look più giovanile che mai: maglietta a stelle e jeans strappati alle gi-nocchia. È Marky (vero nome Marc Steven Bell), l’ultimo dei Ramo-nes (uno pseudonimo, non erano fratelli), quei ”cattivi ragazzi” in giacca di pelle nera, jeans e scarpe da ginnastica All Star (oggi ha addi-

rittura creato una linea col loro nome) che diedero il via alla rivoluzione (anti?) musicale del punk rock con un muro di chitarra elettrica dal quale pioveva giù ver-so il pubblico una tempesta di note veloci come schegge, con canzoni – o meglio as-salti sensoriali - da due minuti scarni, spogliate da qualsiasi assolo e fronzolo, spa-rate una dopo l’altra quasi senza interruzione che non fosse il loro mitico “one, two, three, four”. Ad agosto saranno vent’anni dal loro ritiro.

Incontro Marky in uno spartano albergo-pizzeria (quindici camere, un solo pia-no) di Airuno, provincia di Lecco. Marky oggi si riposa qui in attesa di un rusti-co concerto alla Sbiellata SanZenese di Olgiate Molgora, unica tappa italia-na per i Marky Ramone’s Blitzkrieg prima di Mosca e Stoccolma (un tour un po’ bizzarro...). Marky è in Italia anche per promuovere la sua auto-biografia: Punk rock blitzkrieg: la mia vita nei Ramones (scritto con Rich Herschlag, ed. Tsunami, pp. 384, euro 21,50). La location di questo incontro, devo dire, non è proprio da rockstar. Non si riesce bene a capire se Marky - che in Spagna ha appena concesso a un bir-rificio l’uso del suo nome per la “Marky Ramone’s 40th Anniversa-

ry Beer” e negli Usa ha un’azienda di salse (quella alla marina-ra è prodotta su sua ricetta) – sia o meno un uomo agiato: «Beh, siamo sempre stati oculati nelle spese» spiega il musicista. «Non usava-mo costosi bus con autista, per i nostri tour, ma solo un furgone Ford Econoline da quindici posti guidato dal nostro manager. Alloggiavamo negli alberghi più a buon mercato». Del resto tutti i Ramones avendo smesso prima che il punk rock diventasse davvero di massa, hanno fatto meno soldi di loro epigoni più fortunati, come i Green Day. «Papà era sca-ricatore di porto. Mamma gestiva la biblioteca musicale del Brooklyn Col-lege, e mi trasmise la passione per la musica. Erano tempi duri. Il mio pri-mo scuolabus era un carro funebre riconvertito in pulmino e rivernicia-to. Nella vita mi è capitato anche di mangiare cibo per cani». Il successo tardava. «Alla nascita del gruppo, nel ’74, erano due le cose che andava-no forte: la disco music e il rock da stadio. Pochi locali osavano rischiare

proponendo altro». E poi i Ramones avevano un problema. Che diventò un punto di forza. «Oltre alla disco, i club volevano le cover band. Ma per limiti tecnici, i quat-tro Ramones iniziali non riuscivano a suonare cose di altri. Furono costretti a in-ventarsi una musica nuova, più stringata ma frenetica e piena d’energia, e senza assoli. Il punk. I frequentatori del CBGB, storico locale underground di New York, ne andavano matti. E nei tour inglesi, fan che poi avrebbero fondato Clash e Sex Pi-stols prendevano appunti. Ma le radio ci boicottavano». Come mai? «I testi scritti da Dee Dee e Joey. Ti dico solo tre titoli: “Picchia il monello con una mazza da base-ball”, “Il Ku Klux Klan ha portato via la mia ragazza”, “Voglio sniffare un po’ di col-la”. Capisci?». Serviva anche un salto di qualità musicale. «Divenni un “Ramone” nel ’78. Il gruppo aveva alle spalle tre grandi album - Ramones, Leave Home e Roc-ket to Russia – ma bisognava cambiare qualcosa. O le recensioni successive avreb-bero avuto il tono: “Oh, fantastico, ancora un album con solo tre accordi!”. Così in Road to Ruin aggiungemmo un po’ di spezie musicali». Anche perché Marky, a quel punto, era l’unico musicista navigato. «Suonavo la batteria da quando avevo dodici anni e prima dei Ramones avevo già inciso cinque LP. La mia passione na-sce nel febbraio 1964, a otto anni, vidi in televisione i Beatles all’Ed Sullivan Show. Meraviglia! Sembravano un cartone animato. E allora capii la mia strada: volevo essere Ringo. A dodici anni fondai con due amici i “Dust”. Uno dei primi gruppi heavy metal americani. A sedici ho registrato il loro primo album. Ero ancora alle superiori. Grazie alle scuole serali ed estive, in due mesi recuperavo un anno e così avevo tempo per suonare». Con Marky i Ramones suonano meglio, ma l’album End of the Century, che doveva essere la grande svolta grazie al miglior produtto-re dell’epoca, Phil Spector, non sfonda. Era l’ultimo vero treno per il Paradiso.

I Ramones si rassegnano a una vita “on the road” dove i soldi arriveranno so-prattutto da concerti e magliette. Ma lo stress e le tensioni traboccano: «Nell’83 preparavamo l’album Subterranean Jungle. Al tempo un sacco di band new-wave usavano le drum-machine e avevano quel suono di batteria freddo e artificiale. Io non lo sopportavo, così litigai col produttore Ritchie Cordell, che lo voleva. Iniziai a bere anche in studio, di nascosto. Ma Dee Dee un giorno tirò fuori una bottiglia che nascondevo in un bidone e la mostrò a tutti. Il mio migliore amico aveva fatto la spia. Non che fosse un angelo: lui si faceva di eroina. Fui espulso dal gruppo, e in realtà per me fu una fortuna, perché ne trassi la forza per tirarmi fuori dall’alcol. Quattro anni dopo fui richiamato» ricorda Marky. «Ma trovai un gruppo ancora più diviso di prima: Dee Dee era più sballato che mai, e si atteggiava a rapper. Johnny e Joey non si parlavano più da anni, e Joey sempre più tormentato dalle sue piccole manie». Il cantante dei Ramones doveva toccare ripetutamente ciò con cui entrava in contatto, soprattutto le porte, e poi doveva salire e scendere le rampe di scale più volte prima di decidersi a uscire da un posto. «Una volta, dopo un atterraggio a Heathrow, si rifiutò di scendere dall’aereo: ci disse che doveva as-solutamente tornare all’aeroporto JFK di New York “Cazzo, Joey, è un volo transo-ceanico!” gli dissi». Soffriva di disturbo ossessivo-compulsivo. «Già, ma al tempo ancora non c’era la parola per definirlo: sembravano solo comportamenti bizzarri. Per dire: un giorno, a casa sua, gli dissi che avevo fame. Mi portò nella camera da letto e mi indicò un hamburger con patatine sul tavolo. Invitante, ma durissimo: era lì da due settimane. Gli chiesi che progetti a lungo termine avesse per quel pa-

nino». Joey Ramone fu, a suo modo, un eroe per tanti ragazzi. «Dimostrò che an-che se a scuola ti prendono in giro per il tuo aspetto goffo e la tua timidezza

patologica, puoi diventare una rockstar». Il più vicino all’idea di divo mau-dit era il bassista, Dee Dee: «Se lo conoscevi, probabilmente portavi in gi-

ro la sua droga senza saperlo, perché Dee Dee la nascondeva ovunque. In tournée in Giappone facevamo il pieno di saké e importunavamo i passanti chiedendo dove fosse Godzilla. Inoltre io e lui eravamo i “Chic-ken Beak Boys”». Ragazzi dal becco di pollo? «Sai, quando ci annoiava-

mo, uno di noi si metteva le mani sui fianchi, arcuava la schiena e sal-tava sul tavolo agitando i gomiti e assumendo una posa da pollo». I Ramones erano così. Non stupisce che una volta una signora anzia-na disse a Monte, il tour manager: “È lei il brav’uomo che accom-pagna quei poveri ragazzi con disabilità mentali? Sono fortunati ad avere uno come lei!”». A proposito di mente, quella di Marky, subì qualche momentaccio. «Il delirium tremens. Una mattina andai in bagno e vidi, nella vasca, un indiano che sembrava aspettare un treno. Scappai in strada in mutande e maglietta. In seguito vidi di peggio: un triceratopo lungo dieci metri aggi-rarsi in giardino». Ma lo spettacolo più travolgente Marky lo vi-de da sobrio: «In un supermercato di St. Louis, insieme alla mia amica Jill. Un altoparlante dice a tutti di sdraiarsi a terra: sta arrivando un tornado. Eccomi lì disteso, con la testa appog-giata sulla segatura. Entra tutto questo vento e capisco subi-to: le finestre e le porte sono ancora aperte! Ma ormai è troppo tardi per alzarmi. Dopo tre minuti di barattoli e bottiglie che volano dappertutto, il tornado non c’è più. Ed è allora che ho-capito anche tante altre cose: il punk, il rock, l’altalena della vita». E...? «Jill conosceva i tornado e mi disse che a volte è me-glio spalancare tutto e far passare il vento. Se provi a ostaco-larlo, rischi che l’intero edificio venga strappato via».

“Papà era scaricatore di porto. Mamma gestiva la biblioteca musica-

le del Brooklyn College, e mi trasmise la passione per la musica. Era-

no tempi duri. Il mio primo scuolabus era un carro funebre riconver-

tito in pulmino. Nella vita mi è capitato anche di mangiare cibo per

cani”. Non sono state esattamente rose e fiori per Marc Steven Bell,

batterista dei Ramones, con Clash e Sex Pistols la band simbolo del

punk. Il successo tardava e i componenti del gruppo tra strane ma-

nie e dipendenze erano allo sban-

do. Tanto che una volta una si-

gnora disse al manager: ”Certo

che sono proprio fortunati quei

poveri ragazzi con disabilità

mentali ad avere uno come lei!”

DEE DEE UN GIORNO TIRÒ FUORI UNA BOTTIGLIA CHE NASCONDEVO IN UN BIDONE E LA MOSTRÒ A TUTTI: IL MIO MIGLIORE AMICO AVEVA FATTO LA SPIA. E NON È CHE LUI FOSSE UN ANGELO. FUI ESPULSO DAL GRUPPO E FU UNA FORTUNA, PERCHÉ COSÌ RIUSCII A SMETTERE

Marky

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ALLA NASCITA DEL GRUPPO, NEL ’74,

ERANO DUE LE COSE CHE ANDAVANO

FORTE: LA DISCO MUSIC E IL ROCK

DA STADIO. E I LOCALI VOLEVANO SOLO

COVER-BAND MA NOI NON ERAVAMO

CAPACI DI SUONARE CANZONI DI ALTRI

QUATTRO ANNI DOPO FUI RICHIAMATO MA TROVAI UN GRUPPO PIÙ DIVISO DI PRIMA: DEE DEE SI ATTEGGIAVA A RAPPER, JOHNNY E JOEY NON SI PARLAVANO E JOEY ERA SEMPRE PIÙ TORMENTATO DALLE SUE MANIE

G I U L I A N O A L U F F I

Ramone

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L’incontro. Sopravvissuti

Repubblica Nazionale 2016-07-03