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Renato Migliorato

ARCHIMEDE

Alle radici della modernitàtra storia scienza e mito

Dipartimento di Matematica e InformaticaUniversità di Messina

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Dipartimento di Matematica e InformaticaUniversità di MessinaViale F. Stagno D'Alcontres, 3198166 MessinaTel. 090 6565085Direttore: prof. Francesco [email protected]

Pubblicazione in formato elettronicoAutore: Renato [email protected]

Data di pubblicazione: Dicembre 2013ISBN 978 88 96518 69 4

Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia.I termini della licenza sono consultabili ai seguenti indirizzi:sintesi: http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/it/deed.ittermini legali: http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/it/legalcode

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Dedico questo lavoro a tutti queigiovani della mia isola e della mia cittàche ripongono nella cultura e nellamemoria delle proprie radici una speranzadi rinascita civile

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RingraziamentiVoglio ringraziare innanzitutto il direttore del Dipartimento di Matematica e Informatica dell'Università di Messina, prof. Francesco Oliveri per il supporto fornito al mio lavoro consentendone la pubblicazione nell'ambito del Dipartimento. Ringrazio poi l'amico Antonio Cattino per avermi stimolato a scrivere questo ebook con cui raccolgo il frutto di ricerche già precedentemente svolte e parzialmente pubblicate. L'Associazione Siciliana Arte e Scienza (ASAS), nelle persone del suo presidente Flavia Vizzari, del Vicepresidente Pier Paolo La Spina, di Nino Comunale, Antonello Irrera e del Consiglio Direttivo tutto, per averlo voluto inserire in una più ampia iniziativa volta a ce -lebrare il grande scienziato siciliano nel duemilatrecentesimo anniversario della nascita.Un ringraziamento va ancora a quanti mi hanno coinvolto nelle celebrazioni archimedee del 2013, e in particolare Gioachinpaolo Tortorici, direttore scientifico dell'Associazione Fondazione Archimede di Siracusa, nonché direttore dell'ARCHISIR, il Prof. Ciro Ciliber-to, presidente dell'Unione Matematica Italiana, il prof. Alfio Ragusa dell'Università di Ca-tania e coordinatore del progetto in ambito regionale, il prof. Angelo Pagano, direttore del Laboratorio C.N.R. di Fisica Nucleare di Catania, il Prof. Lucio Fregonese, presidente del-la Società Italiana degli Storici della Fisica e dell'Astronomia (SISFA), la prof. Rosanna Utano, coordinatrice messinese del Progetto Lauree Scientifiche.Un ringraziamento particolare va al prof. Giuseppe Boscarino, direttore della rivista Mon-dotre. La Scuola Italica, per le appassionate discussioni e gli scambi di idee da cui sono emerse significative convergenze.

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Indice generale

Premessa..................................................................................................7Introduzione.............................................................................................91.La difesa di Siracusa..........................................................................162.Il mito degli specchi ustori.................................................................243.Dal mito all'oblio................................................................................284.Morte di Archimede: la trasparenza del mistero................................375.Le opere..............................................................................................436.La riscoperta e la scienza nuova........................................................487.Il tempo di Archimede.........................................................................568.Archimede e i fondamenti...................................................................639.Mito, scienza, metafisica.....................................................................7010.Il paradigma euclideo.......................................................................7811.Un enigma storico-scientifico e l'eclissi di un paradigma................8312.La ricerca del libro perduto..............................................................8813.Dalla geometria alla meccanica.......................................................9514.Il cosmo.............................................................................................9715.L'infinito..........................................................................................10216.Il paradigma di Archimede.............................................................109Conclusione..........................................................................................115Bibliografia essenziale.........................................................................119

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Renato MiglioratoPer oltre quaranta anni ha insegnato preso l'Università di Messina discipline che vanno dalla geometria all'Analisi Numerica. ai fondamenti della matematica, alla storia e all'epi-stemologia della matematica. Le sue pubblicazioni spaziano anch'esse, nel corso degli anni, dalla teoria dei numeri, alla combinatoria, alla teoria delle iperstrutture algebriche, per indirizzarsi in modo pressoché esclusivo, negli ultimi anni, ai temi della storia e dell'epistemologia della scienza. È stato responsabile di un gruppo di ricerca nell'Ambito del Progetto Nazionale per la Combinatoria e di un gruppo di ricerca sulla Didattica della Matematica finanziato dal C.N.R.Attualmente è Associate Editor della rivista Journal of Discrete Mathematical Sciences & Cryptographiy e membro del Comitato Scientifico della rivista Ratio Mathematica. È sta-to membro del Comitato Organizzatore per la Sicilia del Premio Archimede indetto dall'U.M.I. per il 2300o anniversario della nascita di Archimede. È membro della Società Italiana degli Storici della Fisica e dell'Astronomia. È stato per vari anni presidente della sezione messinese della Mathesis.È autore, tra l'altro, del volume La ragione e il fenomeno, edito nel 2013 dalla Aracne Editrice. Ha pubblicato diversi articoli scientifici sulla matematica ellenistica e, in partico-lare, su Euclide e Archimede.In atto collabora dall'esterno con il Dipartimento di Matematica e Informatica dell'Univer-sità di Messina e con il Progetto Lauree Scientifiche.

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Premessa

Ricostruire la figura di Archimede su basi storicamente solide e attendibili è un'impresa tutt'altro che semplice. La sua straordinaria fama e la sua po-polarità, lungi dal facilitarne il compito, lo rendono ancora più arduo, pro-prio per quell'alone leggendario, così fortemente radicato intorno al perso-naggio e che, per altro, si sovrappone ad una tradizione interpretativa del pensiero scientifico antico che solo da pochi decenni viene messa seria-mente in discussione. Già prima della metà dell'Ottocento, Johan Gustave Droysen coniava il ter-mine Ellenismo1 per evidenziare la specificità di un percorso e di un clima culturale ben preciso e distinguibile all'interno del più generale ambito del-le culture di lingua greca. Nonostante ciò, nella storiografia delle scienze, e della matematica in particolare, si continuava, fino ad oltre la metà del No-vecento, a fare riferimento, in modo indifferenziato, ad un preteso pensiero greco che, seguendo un percorso continuo e lineare, avrebbe pervaso, in maniera indifferenziata, tutta la storia e la civiltà di lingua greca.Per comprendere le radici di questo radicato pregiudizio è bene dire che le prime opere di contenuto scientifico, giunte fino a noi, sono quelle di Eu-clide, di Archimede e, parzialmente, di Apollonio2. Si tratta di opere chiara-mente rivolte a lettori già iniziati al linguaggio scientifico e quindi prive di spiegazioni sufficienti a chiarire gli apparati tecnici e concettuali. A partire, invece, dal primo secolo d.C., prevalgono le opere di commento, ricche di argomentazioni filosofiche protese a chiarire i concetti fondativi delle varie discipline scientifiche. Non sorprende, allora, come, a partire dal Rinasci-mento e fin quasi ai nostri giorni, l'interpretazione dei testi antichi si sia sviluppata pressoché interamente su queste ultime opere. L'arbitraria esten-1 J. G. DROYSEN, Geschichte des Hellenismus, 2 vol., 1836–1843. V. anche: C. LÉVI, Le

philosophies hellénistiques, Ediz. Italiana: Le filosofie ellenistiche, Einaudi, Torino, 2002; L. CANFORA, Ellenismo, Laterza, Roma -Bari, 1995.

2 Esiste, in verità qualche eccezione riconducibile essenzialmente alla scuola peripateti-ca. Tra queste il trattato sulla bilancia, già attribuito ad Euclide e di cui comunque ri-mane solo la traduzione araba, e i due libri di Aristosseno sulla musica, che meritereb-bero una discussione a parte (v. in proposito: A. SARRITZU, Aristosseno tra aristoteli-smo e nuova scienza, Atti Acc. Peloritana dei Pericolanti, Classe di Sci. Fis. Mat. e Nat., Vol. LXXXVI, 2008, DOI:10.1478/C1A0802010, 2008, pp. 1-15).

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sione ai testi di epoca precedente poggia, fondamentalmente, su pregiudizi fortemente radicati, che non tengono conto, in maniera adeguata, delle pro-fonde differenze sul piano socio-politico e delle mutate prospettive filosofi-che e ideali.Personalmente, in alcuni precedenti scritti, ho inteso contribuire a quel pro-cesso di revisione che, tra resistenze e contraddizioni, si è andato svilup-pando a partire dalla seconda metà del Novecento.Nelle pagine che seguono farò riferimento, in modo particolare, al mio re-cente libro La ragione e il fenomeno3 perché proprio in esso ho esposto con maggiore ampiezza il mio punto di vista sullo statuto epistemologico della scienza, sulla sua genesi storica e sui rapporti tra scienza e visione com-plessiva del mondo.

3 R. MIGLIORATO, La ragione e il fenomeno. Itinerari epistemologici tra matematica e scienze empiriche, Aracne Editrice, Roma, 2013.

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Introduzione

Giovedì 29 ottobre 1998 si svolgeva a New York una colossale asta, duran-te la quale, tra numerosi altri libri antichi, veniva venduto un prezioso, se pur mal ridotto, palinsesto del XIII secolo. Lo acquistava, per ben due mi-lioni di dollari, un avvocato inglese per conto di un anonimo miliardario americano4. Al primo esame, si trattava di un libro di preghiere redatto nel 1229, in un monastero nei pressi di Gerusalemme. Le sue condizioni erano alquanto precarie, mancavano pagine e, addirittura, nel tentativo, forse, di imprezio-sirlo, vi erano state dipinte delle false miniature, coprendo, così, il testo sottostante. Ma la preziosità del volume non stava in ciò che esibiva, bensì in ciò che nascondeva.Era in uso, in età medievale, per la scarsità di pergamena, di riutilizzare vecchi codici più antichi e ritenuti meno importanti, per scriverci sopra, dopo avere raschiato il testo precedente. Staccate le pagine del codice ori-ginario le si piegava in modo che, dopo averle ripulite, si potessero ottene-re da ogni foglio due fogli di formato minore. Queste poi si rilegavano, ot-tenendo quello che si dice un palinsesto.In questo caso il palinsesto era già precedentemente noto, essendo scom-parso intorno agli anni della prima guerra mondiale. Era ottenuto, in gran parte, utilizzando le pagine di un codice bizantino più antico, di cui si pote-va intravedere e ricostruire il testo originario. In effetti era stato già ricono-sciuto, all'inizio del Novecento, come una raccolta di opere di Archimede.Su segnalazione di un bibliotecario, che aveva riconosciuto la presenza di contenuti matematici, il filologo danese Johan Ludvig Heiberg, si recava a Costantinopoli, dal 1906 al 1908, per studiare e fotografare il manoscritto. Le fotografie di Heiberg furono tutto ciò che rimase dopo la scomparsa del palinsesto e fino alla sua ricomparsa a New York, presso la casa d'asta. Intanto, però, Heiberg aveva usato il testo scoperto (noto ormai come Co-dice C), assieme agli altri due soli codici superstiti contenenti i testi di Ar-chimede e noti come Codice A e Codice B. Dal confronto di essi, e attra-verso un meticoloso studio filologico, lo studioso danese riusciva a rico-4 Per la storia del palinsesto v. R. NETZ & W. NOEL, Il codice perduto di Archimede, Riz-

zoli, Milano, 2007.

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struire quello che più probabilmente si poteva ritenere il testo originario delle opere archimedee oggi note. Dalla data della sua pubblicazione, e fino ad oggi, quello di Heiberg è il principale testo di riferimento degli stu-diosi.Tornando al palinsesto ritrovato, bisogna, dare atto all'anonimo miliardario che lo ha acquistato, di avere dimostrato grande sensibilità e spirito di me-cenatismo. Non ha esitato, infatti, pur restando anonimo, ad affidare il ma-noscritto al Walters Art Museum di Baltimora, assicurandone, a proprie spese, non solo la conservazione, ma anche il restauro e lo studio, la cui di-rezione veniva affidata al filologo americano Raviel Netz.Anche se non si hanno dati ufficiali, si può star certi che il costo di queste ultime operazioni deve aver superato di gran lunga quei due milioni di dol-lari spesi per l'acquisto. Basti pensare che il libro si presentava in condizio-ni ben peggiori di come non lo avesse visto e fotografato Heiberg e che, per fare emergere le parti più illeggibili del testo archimedeo, si è fatto ri-corso, tra l'altro, alla fisica delle alte energie con l'uso, costosissimo, di un sincrotrone.Bisogna dire che la parte di testo recuperata e che non fosse già nota ad Heiberg, è piuttosto limitata. In ogni caso è difficile dire, ora, se da essa potranno scaturire elementi abbastanza significativi da poter modificare la figura dello scienziato siracusano, anche se le novità interessanti non pos-sono certamente mancare. La ragione per cui ho scelto di partire da questo episodio è, invece, che esso appare significativo di un problema molto più generale: quello della sopravvivenza dei testi antichi, del loro riconoscimento e della loro autenti-cità. Non intendo, ovviamente, richiamare questioni tecniche, che poco in-teresserebbero in questa sede, ma solo chiarire alcune delle circostanze che stanno alla base di tante incertezze interpretative e dei pregiudizi più o meno persistenti. Vi sono, a questo proposito, almeno tre ordini di proble-mi. Il primo riguarda la disponibilità del materiale documentario, ovviamente di quello sopravvissuto ai secoli. Il secondo attiene all'autenticità del mate-riale sopravvissuto, o meglio, della corrispondenza delle copie sopravvis-sute, con l'originale scritto dall'autore ma ormai non più reperibile.Il terzo ordine di questioni, il più interessante per noi perché costituisce l'oggetto vero di questo libro, riguarda l'interpretazione del testo e la sua

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collocazione nel contesto storico e culturale. Quest'ultimo livello, tuttavia, non può essere affrontato in modo credibile se non dopo aver puntualizzato lo stato delle cose sui primi due. Inizieremo perciò dalla sopravvivenza dei testi archimedei.Si è già detto che il testo base delle opere di Archimede a cui, da circa un secolo, fanno riferimento gli studiosi, è quello ottenuto da Heiberg come ri-sultato dello studio comparato dei codici A, B e C.Volendo approfondire l'analisi, la questione è un po' più complessa, in quanto la prima edizione dell'Opera Omnia di Archimede, edita da Heiberg sul finire del XIX secolo5, si serve dei soli codici A e B, o meglio di copie o traduzioni derivate da quei codici; gli originali, infatti, non esistevano più fin da tempi remoti. Solo l'edizione del 1910-136 potrà, invece, tener conto del codice C, da poco scoperto a Costantinopoli. Va detto ancora che delle opere note di Archimede solo una è presente nei tre codici, alcune sono presenti in due e altre in uno solo. Pur non volendo appesantire la trattazione, ho ritenuto necessaria questa premessa perché sia chiaro che la figura di Archimede di cui possiamo di-scutere e che possiamo ricostruire allo stato attuale, è inevitabilmente quel-la che ci viene restituita dal testo di Heiberg, oltre che dalle poche e non sempre attendibili testimonianze storiche. D'altra parte, per quanto accurata possa essere l'analisi condotta dal filologo danese, molti elementi perman-gono a impedire una ricostruzione che sia sufficientemente sicura. I testi su cui egli fonda la propria ricostruzione sono un codice bizantino e vari deri-vati, tra copie e traduzioni, di altri due codici scomparsi tra il XIII e XIV secolo. Questi a loro volta erano copie manoscritte di altri manoscritti, anch'essi ricopiati un numero imprecisato di volte. In ognuna di tali copia-ture possono esserci state variazioni, errori e interpolazioni difficilmente ri-costruibili. Di sicuro furono apportate variazioni linguistiche, in varie parti, per adattarle al greco della koiné ellenistica, dal momento che Archimede scriveva in greco dorico-siculo. D'altra parte, questo è un dato comune a tutti i testi scientifici dell'antichità, di quelli, almeno, che ebbero la fortuna di pervenire, interi o mutilati, fino

5 J. L. HEIBERG, Archimedis opera omnia cum commentariis Eutocii. E codice Florenti-no recensuit, latine vertit, notisque illustravit vol. I-III, Lipsiae, 1880-81.

6 J. L. HEIBERG, Archimedis opera omnia cum commentariis Eutocii, vol. I-III, Lipsiae, 1910-15.

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ai nostri giorni. Di altri rimangono solo testimonianze e, nel migliore dei casi, qualche traduzione in arabo o latino.All'origine vi è certamente la deperibilità del materiale su cui si scriveva e il numero esiguo di copie che si potevano realizzare manualmente fino all'invenzione della stampa. Ma l'opera naturale del tempo non fu né l'unica né, io credo, la principale causa dell'immane perdita di memoria storica e culturale. Ad essa si sovrappongono le guerre, i saccheggi, le devastazioni, nonché il disinteresse, quando non diffidenza o disprezzo verso il sapere scientifico, per un periodo abbastanza lungo della nostra storia.La distruzione della biblioteca di Alessandria fu certamente l'evento simbo-lo di questa distruzione, perché lì si raccoglievano opere provenienti dall'intero bacino mediterraneo, ma non fu l'unico e non si svolse in un solo atto. Innanzitutto, nel 48 a.C., l'incendio appiccato da Giulio Cesare alle navi, nel porto di quella città, si propagava al palazzo reale distruggen-do un'ala della biblioteca. Successivamente, nel 272 d.C., nella guerra so-stenuta dall'imperatore Aureliano contro la regina Zenobia di Palmira, l'intero palazzo reale veniva raso al suolo e, con esso, scompariva anche la grande Biblioteca di Alessandria. Rimaneva ancora la cosiddetta Biblioteca figlia, fatta costruire da Cleopatra e annessa al tempio di Serapide, ma anch'essa era destinata a scomparire dopo breve tempo. In seguito ai due editti di Teodosio (rispettivamente 380 e 391 d.C.), con cui venivano posti fuori legge tutti i culti non cattolici, il tempio, con l'annessa biblioteca, ve-niva devastato da una folla di fanatici istigati dal vescovo Teofilo. Una sor-te analoga subivano le altre biblioteche, tra cui quella di Pergamo, che ave-va già tentato di rivaleggiare con la biblioteca alessandrina. Del resto, con quale furia distruttiva venisse considerata ogni libera manifestazione del pensiero, nel clima rovente delle lotta alle eresie, è testimoniato, nel 415, sempre ad Alessandria, dall'atroce vicenda di Ipazia, scienziata e filosofa neoplatonica, non convertita al cristianesimo e trucidata dai cristiani. Come ci informa, tra le altre fonti, la Historia Ecclesiastica di Socrate Scolastico, Ipazia, su istigazione del vescovo Cirillo e dei monaci parabolani, fu trasci-nata nel tempio già di Zeus, e poi trasformato in chiesa cattolica. Lì fu dila-niata ancora viva con cocci di ceramica. Successivamente i pezzi del suo corpo furono trascinati per la città e, infine, dispersi sull'isola di Faros7.

7 In proposito è disponibile sul mio profilo di Academia.edu (https://unime.academia.e-du/RenatoMigliorato) il resoconto di una mia relazione dal titolo La vicenda di Ipazia

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Se questi fatti sono particolarmente significativi, proprio perché testimo-niano di una pregiudiziale diffidenza vero il sapere scientifico e i libri por-tatori di pensiero, non meno devastanti sono state le distruzioni, se pur pri-ve di finalità specifiche, conseguenti a guerre e saccheggi. Così, in epoche posteriori ha avuto fine la grande biblioteca bizantina di Costantinopoli. E non soltanto per opera dei turchi, quando nel 1453 la città cadde nelle mani di Maometto II. Già, infatti, era stata devastata e saccheggiata da orde di Crociati diretti a Gerusalemme8.Se questo è solamente un saggio dell'opera distruttiva umana, ben più po-tente di quella operata dalla natura, possiamo ora cercare di comprendere i meccanismi attraverso cui si è determinata quella selezione che ha consen-tito la sopravvivenza di certe opere e non di altre. È ragionevole supporre che, in ciascun passaggio storico, hanno avuto maggiore probabilità di so-pravvivenza quelle opere che, nel dato momento, destavano maggiore inte-resse ed erano quindi maggiormente riprodotte e diffuse.È ben noto, ad esempio, come nel primo secolo a.C. il pensiero di Aristote-le abbia avuto considerevole rilancio e diffusione a seguito della scoperta delle sue carte inedite, scritte come appunti per le lezioni. Questi scritti, originariamente non destinati al pubblico, furono dunque raccolte, ordina-te e pubblicate, a cura di Andronico di Rodi, con il titolo complessivo di Organon. Sono queste le opere di Aristotele che noi conosciamo, mentre quasi nulla rimane di ciò che il filosofo stagirita aveva destinato alla pub-blicazione. Ancora più avanti, la riscoperta e il rilancio di Aristotele avven-ne prima nel mondo arabo ad opera di Averroè, e quindi, per contrapposi-zione, nell'occidente medievale cristianizzato, ad opera di Tommaso d'Aquino.Diverso è invece il percorso della filosofia di Platone. Dopo l'esito scettico dell'Accademia, che caratterizzò il periodo ellenistico, il platonismo riveste un ruolo fondamentale in epoca imperiale, per assumere infine, con Ploti-

tra ragion di stato e concezioni del sacro, in cui, tra l'altro, è riportata un'ampia biblio-grafia.

8 In particolare, durante la quarta Crociata (1202-1204), le truppe del Doge Enrico Dan-dolo ponevano sotto assedio la città di Costantinopoli nel tentativo di convertire l'Impe-ro Bizantno al cattolicesimo. Gli incendi immani e i saccheggi che ne derivarono sono descritti dall'erudito e storico bizantino Niceta Coniate, testimone impotente della cata-strofe della sua città. Tali eventi costituiscono anche lo sfondo di una parte del bellissi-mo romanzo Baudolino di Umberto Eco.

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no, la forma che conosciamo come neoplatonica. Ciò che ha consentito agli scritti di Platone di passare indenni attraverso tutte le intemperie della storia, è da cercare forse nella loro duttilità inter-pretativa. Il filosofo ateniese, infatti, non faceva mistero della sua predile-zione per la trasmissione orale, e dunque iniziatica, del senso più profondo del suo pensiero9. Ciò, verosimilmente conferisce quella flessibilità inter-pretativa che ne ha garantito la sopravvivenza anche nelle fasi più difficili. Ed è proprio il filtro neoplatonico che anche il pensiero scientifico dell'antichità ha dovuto attraversare prima di giungere a noi. Ne abbiamo l'esempio più illuminante nel Commento al primo libro degli elementi di Euclide di Proclo. Qui Euclide, sulla cui vita lo stesso autore dimostra di non avere notizie attendibili, viene, senza esitazione, dichiarato platonico convinto. Ma tutto il lungo commento del filosofo neoplatonico si pone in netta e palese antitesi con lo stile asciutto e rigorosamente logico, privo di qualunque riferimento di tipo ontologico, che caratterizza l'opera del mate-matico alessandrino. Eppure il pregiudizio perdurerà fin quasi ai nostri giorni, se è vero che anche Popper considerava l'opera euclidea come la compiuta realizzazione del programma di Platone10. Dello stesso segno, sebbene non entri nello specifico dei contenuti scienti-fici, è l'aura mitica entro cui Plutarco ha posto la figura di Archimede. Af-fronteremo più diffusamente la questione, ma qui è bene anticipare come il passo di Plutarco sullo scienziato siracusano, ne abbia condizionato l'im-magine per i secoli seguenti ed, in parte, continui ancora a condizionarla, quanto meno nella vulgata.Prima di concludere questa introduzione vorrei ancora dire qualcosa in me-rito al modo di concepire la storia, senza di che, ogni tentativo di ricostrui-re la figura dello scienziato, collocandola nel tempo in cui visse, verrebbe a mancare di una effettiva consistenza.Si suole spesso dire che la storia debba fondarsi sui fatti. Pur condividendo che essa non può ridursi a pura fantasia, ma debba poggiare su un terreno solido, voglio tuttavia contestare l'idea che i fatti possano fornire un punto di partenza veramente solido. Essi semplicemente non esistono, o non esi-

9 In proposito v. ad esempio: MURIZIO MIGLIORI, Il Sofista di Platone. Valore e limiti dell'ontologia, Morcellana, Brescia, 2007.

10 K. POPPER, The open society and its enemie,. I: The spell of Plato (1950); Ediz. Italia-na: La società aperta e i suoi nemici, I: Platone totalitario, Roma, 1973, p.339, nota 9.

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stono più come entità compiute a sé stanti. Nella migliore delle ipotesi sono rappresentazioni di eventi passati e nessun riscontro empirico diretto può essere fatto, oggi, per verificarne o meno la sussistenza. Ciò che di essi permane a nostra disposizione sono, invece, i segni di essi, sotto forma di memoria individuale o collettiva, di documento scritto o di reperto materia-le. Questi assumono, allora, lo stesso ruolo che, nelle scienze della natura, viene assegnato ai dati fenomenici rilevabili empiricamente. Al contrario, i fatti, intendo quelli storici, costituiscono gli omologhi di ciò che, nelle scienze, chiamiamo teorie11. Oggi noi parliamo, con assoluta naturalezza, di elettroni, di protoni, di campo elettrico o gravitazionale, senza che nessuno li abbia mai visti, men-tre possiamo sperimentare quotidianamente i loro effetti nei fenomeni fi-sico-chimici. Allo stesso modo parliamo delle guerre puniche o della strage di Ustica, disponendo solo dei documenti che le testimoniano o, al più, del-la nostra stessa memoria e degli eventuali reperti come, ad esempio, la car-cassa di un aereo distrutto.Ma cosa avvenne realmente ad Ustica? E chi pose le bombe nella banca dell'Agricoltura in quel lontano dicembre del 1969? Le sole risposte che possono essere date sono le ipotesi che, sulla base delle testimonianze, dei materiali disponibili e della coerenza con il quadro storico-politico genera-le, appaiono più attendibili.Anche per gli eventi più remoti, non possiamo che seguire questa via, e se pur sappiamo che nessuna risposta può essere dichiarata come la verità certa e definitiva, non tutte le risposte possibili si equivalgono. La ricerca su di esse non è dunque inutile e consiste nel costruire un quadro sempre più coerente e attendibile. Essa è anzi irrinunciabile, perché ognuno di noi, io credo, è essenzialmente la somma della propria memoria del passato e del progetto del proprio futuro e nessuna di queste due dimensioni può sus-sistere senza l'altra. Così è anche per le collettività, per le culture, per le ci-viltà. Eliminare le contraddizioni e le incoerenze nella propria rappresenta-zione del mondo, dunque, è anche ricostruire sé stessi e ricollocarsi nel fluire della storia. Con questo spirito mi accingo a ripercorrere la figura e l'opera di Archimede e non per la vana pretesa di raggiungere verità defini-tive.

11 Anche questo aspetto è più ampiamente sviluppato in MIGLIORATO, La ragione e il fe-nomeno. Op. cit.

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1. La difesa di Siracusa

L'unico dato della vita di Archimede che possa essere assunto con ragione-vole certezza12 è la data della sua morte, avvenuta nel 212 a.C., nel corso del saccheggio dopo la presa di Siracusa da parte dei romani. La data pre-sunta di nascita (287 a.C.) è derivata da una notizia, non si sa quanto fon-data, dell'erudito bizantino Giovanni Tzetze (XII sec.), secondo cui lo scienziato sarebbe morto a 75 anni.Numerosi autori, anche di recente, hanno raccolto e catalogato le notizie, più o meno attendibili o più o meno leggendarie, che ci vengono tramanda-te dalla tradizione, ma non sempre accompagnandoli con il necessario ap-profondimento critico.Non si tratta di accettare o di respingere il loro contenuto. Si tratta piutto-sto di capire, o almeno tentare di capire, cosa possono dirci al di là del rac-conto letterale e aneddotico, anche quando si presentano palesemente fan-tasiose. Anche il mito e la leggenda, infatti, non nascono mai dal nulla e sono comunque portatori di significati non banali. Ciò di cui, però, bisogna essere consapevoli, è che tali significati esprimono, per lo più, i valori e i punti di vista di chi li ha prodotti, piuttosto che quelli del soggetto a cui sono attribuiti. In altri termini si tratta di essere ben consapevoli che i ma-teriali di cui possiamo disporre, ci raccontano non già di Archimede quale fu nel suo tempo, ma come lo videro nel mondo romano e, successivamen-te, in quello bizantino.Al di là dei singoli episodi raccontati, e dei particolari non necessariamente esatti, un dato che ritengo si possa trarre con assoluta ragionevolezza, è che il Nostro si fosse impegnato non solo sul piano puramente teorico e della pura conoscenza, ma anche nell'uso tecnologico delle conoscenze acquisite e, in modo particolare, nella tecnologia militare per la difesa della propria città.

12 Chiamo “ragionevole certezza” una convinzione che derivi da processi argomentativi forti, ma non da presunte “evidenze”. In un recente romanzo (A. Stancanelli, Archime-de e il mistero del planetario), si immagina che Archimede, scampato alla morte per uno scambio di persona, si reca in Egitto sotto falsa identità, mentre è creduto da tutti morto. Si tratta, ovviamente di pura fantasia, ma sta a ricordarci come nella storia non possano sussistere evidenze.

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A questo proposito è interessante confrontare le descrizioni rispettivamente di Polibio, di Tito Livio e di Plutarco, dell'assedio di Siracusa da parte delle truppe romane guidate dal generale Marcello.Racconta, dunque, Polibio:

Marco Marcello avanzò verso Acradina con sessanta quinqueremi cariche di uo-mini armati di archi, di frecce e di giavellotti per respingere i difensori delle mura. Oltre a queste egli aveva otto navi a cinque banchi alle quali aveva fatto togliere i remi dalla parte destra o dalla sinistra; accostate dalla parte priva di remi, esse si avvicinarono alle città spinte dai remi esterni, trasportando le mac-chine chiamate sambuche e ….13.

Dopo aver descritto la sambuca come una sorta di ponte mobile ag-ganciato alle due navi (fig. 1), così continua

I Romani, allestiti questi mezzi, pensavano di dare l'assalto alle torri, ma Archimede, avendo pre-parato macchine per lanciare dardi a ogni distanza, mirando agli assa-litori con le baliste e con catapulte

che colpivano più lontano e sicuro, ferì molti soldati e diffuse grave scompiglio e disordine in tutto l' esercito; quando poi le macchine lanciavano troppo lonta-no, ricorreva ad altre meno potenti che colpissero alla distanza richiesta. In fine scoraggiò completamente i Romani, impedendo loro ogni iniziativa di accosta-mento finché Marco, trovandosi in difficoltà, fu costretto a tentare di avvicinarsi alla città nascostamente di notte. Quando i Romani furono entro il tiro dei dardi, Archimede architettò un'altra macchina contro i soldati imbarcati sulle navi: dal-la parte interna del muro fece aprire frequenti feritoie dell'altezza di un uomo, larghe circa un palmo dalla parte esterna: presso di queste fece disporre arcieri e scorpioncini e colpendoli attraverso le feritoie metteva fuori combattimento i soldati navali. Così non soltanto rendeva incapaci di qualsiasi iniziativa i nemici sia lontani sia vicini, ma ne uccideva gran parte. Quando essi tentavano di solle-vare le sambuche, ricorreva a macchine che aveva fatto preparare lungo il muro e che, di solito invisibili, al momento del bisogno si levavano minacciose al di sopra del muro e sporgevano per gran tratto con le corna fuori dai merli: queste potevano sollevare pietre del peso di dieci talenti e anche blocchi di piombo. Quando le sambuche si avvicinavano, facevano girare con una corda nella dire-zione richiesta l'estremità della macchina e mediante una molla scagliavano una

13 POLIBIO, Historiae, 8.6.

fig. 1: Ricostruzione di una sambuca. (im-magine di pubblico dominio da Wikipedia)

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pietra: ne seguiva che non soltanto la sambuca veniva infranta ma pure la nave che la trasportava e i marinai correvano estremo pericolo.Archimede aveva allestito macchine anche contro gli assalitori che, per mezzo di graticci, si difendevano dalle frecce scagliate attraverso le feritoie del muro: alcuni difensori scagliavano pietre a distanza giusta perché i combattenti si riti-rassero da prua; altri calavano una mano di ferro legata a una catena per mezzo della quale l'uomo addetto al governo del rostro, afferrata la prua, abbassava la parte inferiore della macchina verso l'interno del muro; in questo modo, solleva-ta la prua, faceva rizzare la nave sulla poppa, poi fissata la parte inferiore della macchina così che non si muovesse, per mezzo di un congegno apposito stacca-va la mano e la catena. In seguito a ciò alcune navi ricadevano su un fianco, al-tre si rovesciavano, quasi tutte, lasciate cadere dall'alto, imbarcavano acqua e si riempivano di confusione. Marcello messo in difficoltà dai mezzi escogitati da Archimede, e vedendo che i cittadini rendevano vano ogni suo tentativo e in più lo facevano oggetto di scherno, [...].Anche Appio [che conduceva l'assalto da terra], incontrate le stesse difficoltà, desistette dall'impresa. Infatti quando ancora erano lontani dalla città, i suoi sol-dati perivano colpiti dalle baliste e dalle catapulte; gli assediati disponevano di gran copia di dardi molto efficaci e di tutti i tipi, avendo Gerone procurato i mezzi necessari e Archimede architettato e attuato ogni genere d'astuzia. Quan-do poi si avvicinarono alla città, parte dei soldati, come ho detto sopra, non riu-sciva ad avanzare a causa della quantità dei dardi lanciati dalle mura, mentre quanti procedevano difesi dai graticci erano uccisi dai sassi e dalle travi che ve-nivano gettate sulle loro teste. Non piccolo danno recavano inoltre le mani di ferro delle macchine già ricordate, con le quali gli assediati sollevavano gli uo-mini così armati come erano e li scagliavano lontano. Infine Appio si ritirò nel suo accampamento e convocati i tribuni decise con loro di ricorrere a qualunque altro mezzo ma di rinunciare ad espugnare Siracusa con la forza. […] Convinti invece che gli assediati sarebbero stati costretti ad arrendersi per mancanza di viveri, essendo molto numerosa la moltitudine rinchiusa entro le mura, si appi-gliarono a questa speranza...14.

Val la pena di citare due passi rispettivamente di Tito Livio e Plutarco che, sia pure con minore precisione, confermano sostanzialmente il racconto di Polibio. Abbiamo dunque da Tito Livio:

Le mura dell' Acradina, che, come si è detto prima, sono lambite dal mare, erano assalite da Marcello con sessanta quinqueremi. Da tutte le altre navi arcieri e frombolieri ed anche veliti, la cui arma è incomoda da rilanciare per chi non è pratico, a stento permettevano a qualcuno di prendere posizione sulle mura sen-

14 Ibid, 8.7.

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za essere ferito. Questi, poiché per le armi da getto c'è bisogno di spazio, teneva-no le navi lontano dalle mura. Alcune quinqueremi, unite a due a due, essendo stati tolti i remi delle parti inter-ne così che una fiancata fosse congiunta all'altra, mentre venivano fatte andare avanti dall'ordine di remi delle parti esterne come se fossero una nave sola, tra-sportavano torri munite di ripiani e altre macchine per abbattere le mura. Contro questo assetto delle navi, Archimede dispose sulle mura congegni di di-versa grandezza. Contro quelle navi che si trovavano lontano scagliava massi di enorme peso, quelle più vicine colpiva con armi da lancio più leggere e perciò più frequenti; infine, affinché i suoi senza rimaner feriti scagliassero armi da getto contro il nemico, scavò nelle mura dal fondo alla sommità a breve distanza l'una dall'altra aperture di circa un cubito, attraverso le quali alcuni con frecce, altri con scorpioncini colpivano il nemico restando nascosti. Alcune navi si accostavano più da vicino, per trovarsi al riparo dal tiro delle macchine; mediante un'altalena sporgente al di sopra delle mura, un rampone di ferro, attaccato ad una resistente catena, scagliato contro di esse dentro la prora e per effetto di un pesante contrappeso di piombo ritirandosi indietro verso terra, portata in alto la prora, alzava la nave sulla poppa; poi, lasciato cader giù im-provvisamente, rilasciava la nave, come se precipitasse dalle mura con grande panico dei marinai, a sbattere contro contro le onde con tale violenza che, anche se ricadeva diritta, imbarcava parecchia acqua. In questo modo l'assalto per mare fu reso vano, e ogni speranza fu volta all'obiettivo di sferrare un attacco con le forze al completo per via di terra. Ma anche quella parte era stata munita allo stesso modo di ogni attrezzatura di macchine da guerra a spese e a cura di Gerone nel corso di molti anni, dall'abili-tà senza pari di Archimede...15.

E da Plutarco:

I Siracusani, quando videro i Romani investire la città dai due fronti, di terra e di mare, rimasero storditi e ammutolirono di timore. Pensarono che nulla avrebbe potuto contrastare l'impeto di un attacco in forze di tali proporzioni.Ma Archimede cominciò a caricare le sue macchine e a far piovere sulla fanteria nemica proiettili di ogni genere. Grandi masse di pietra cadevano dall'alto con fragore e velocità incredibili, né c'era modo di difendersi dal loro urto: rovescia-vano a terra tutti coloro che incontravano, e scompigliavano i ranghi.Contemporaneamente dalle mura venivano proiettati in fuori all'improvviso dei lunghi pali, che si puntavano in direzione delle navi e le affondavano senza ri-medio, colpendole dall'alto con dei pesi, oppure le sollevavano diritte, afferran-dole per la prua con delle mani di ferro o dei bacchi simili a quelli delle gru, per poi immergerle nell'acqua con la poppa. Altre, mediante cavi azionati dall'inter-no della città, erano fatte girare e sballottate qua e là, finché si sfracellavano

15 TITO LIVIO, 24, 34, 4-13.

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contro le rocce e gli scogli posti sotto le mura, con grave massacro degli uomini che erano a bordo, i quali facevano la stessa fine della nave16.

Non è difficile constatare come i racconti di Polibio e Tito Livio siano pie-namente compatibili, anzi sovrapponibili, salvo particolari che si completa-no a vicenda. Più sintetico è il resoconto di Plutarco, che trae quasi certa-mente le informazioni dai primi due. Va osservato, però, come ad una mi-nore informazione “tecnica”, faccia invece riscontro una maggiore colori-tura, laddove l'autore inferisce un presunto stato d'animo dei siracusani as-sediati (...rimasero storditi e ammutolirono di timore). Come si vedrà, del resto, non è l'unico esempio, in Plutarco, di coloriture funzionali al proget-to culturale e ideale che sta alla base delle sue Vite parallele.Cruciale è, da questo punto di vista, il passo seguente, dove, dopo aver reso conto delle macchine da guerra disposte da Marcello per l'attacco alla città, aggiunge:

Ma tutto questo ha dimostrato di essere di nessun conto agli occhi di Archimede e in confronto con le macchine di Archimede.A questi non aveva affatto dedicato se stesso come opera degna di sforzo serio, ma la maggior parte di esse erano solo il risultato di una geometria praticata per divertimento, dal momento che in altri tempi il re Gerone aveva ardentemente desiderato e finalmente lo aveva persuaso a trasformare un po' delle nozioni astratte della sua arte in cose materiali, applicando la sua filosofia in qualche modo ai bisogni sensibili, in modo da renderla più evidente alle menti comuni17.

E, per rendere conto dell'asserito disinteresse di Archimede per le applica-zioni al mondo sensibile, Plutarco prosegue ricordando come la meccanica, iniziata da Archita di Taranto, sia poi stata utilizzata nella soluzione di pro-blemi geometrici, e conclude affermando:

Ma Platone criticava questo aspramente, e inveiva contro di loro come corruttori e distruttori della pura eccellenza della geometria, che in tal modo ha voltato le spalle alle cose incorporee del pensiero astratto e disceso alle cose sensibili18

Con chiaro riferimento a un passo de la Repubblica, in cui Platone fa dire a Socrate:

[…] tutti coloro che s’intendono anche un poco soltanto di geometria non ver-

16 PLUTARCO, Vite Parallele: Marcello, 15.17 Ibid. 14.3-4.18 Ibid, 14.6.

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ranno a negarci che questa scienza sia proprio l’opposto di come la descrivono coloro che la praticano. [I matematici] La descrivono in un modo ridicolissimo e meschino, comportandosi da persone pratiche e non rivelando nei loro discorsi che scopi pratici. Parlano di «quadrare», di «costruire su una linea data», di «ag-giungere per opposizione», usano ogni sorta di simili espressioni. Invece tutta questa disciplina va coltivata in funzione della conoscenza19.

In realtà il passo di Platone, lungi dal costituire una prova dell'adesione di Archimede alla filosofia platonica, dimostra quale profonda divaricazione vi fosse tra l'effettivo modo di procedere degli scienziati e il pensiero del filosofo ateniese.Plutarco prosegue poi, più avanti, con una descrizione più particolareggiata delle fasi di attacco e dei mezzi di difesa predisposti da Archimede, la cui potenza si può valutare, ad esempio, dal peso dei massi che riescono a lan-ciare (si parla di dieci talenti, corrispondenti a non meno di duecento chili). La superiorità tecnologica dei difensori, riconosciuta alla fine da Marcello, è compendiata dal Plutarco nella seguente conclusione:

Poiché Archimede aveva costruito la maggior parte delle sue macchine a ridosso del muro, ai Romani sembrava di combattere contro gli dei, ora che innumere-voli mali furono riversati su di loro da una fonte invisibile. Tuttavia, Marcello, prendendo ciò con ironia, e scherzando con i suoi artigiani e ingegneri, «smet-tiamo» disse, «la lotta contro questo Briareo geometra, che usa le nostre navi come tazze e mestoli del mare [...] e, sparando tanti missili contro di noi tutti in una volta, sorpassa i mostri centimani della mitologia»20.

Alla fine, però, Plutarco non manca di aggiungere:

Eppure Archimede possedeva uno spirito così nobile, un'anima così profonda, e una tale ricchezza di teoria scientifica, che, anche se le sue invenzioni gli aveva-no procurato un nome e una fama di sovrumana sagacia, non avrebbe acconsen-tito a lasciare dietro di sé alcun trattato su questo soggetto, ma ritenendo il lavo-ro di un ingegnere e di ogni arte che si coltiva per le esigenze della vita, come ignobile e volgare, ha dedicato i suoi sforzi sinceri solo a quegli studi di cui la sottigliezza e il fascino non sono interessati da motivi di necessità21.

In questo modo Plutarco ottiene due risultati. Il primo, di natura culturale e filosofica, è di annettere Archimede, l'uomo più famoso ed eminente dell'epoca, ma anche il pensiero scientifico che rappresentava, alla filosofia 19 PLATONE, Repubblica, 527.20 PLUTARCO, Vite, Marcello, 16.2-17.1.21 Ibid, 17.3-4.

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platonica. Il secondo è invece di natura politica e rientra nel piano com-plessivo delle sue vite parallele, oltre che nel disegno universalistico dell'imperatore Adriano. Se, infatti, l'Impero Romano deve presentarsi come il culmine di un processo storico unitario, che raccoglie e sintetizza il mondo Mediterraneo in un'unica civiltà greco-romana, allora un uomo del-la grandezza e della fama di Archimede non poteva essere, spiritualmente e culturalmente, assegnato al nemico sconfitto, né presentato come fiero op-positore dell'espansione imperiale.

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2. Il mito degli specchi ustori.

L'aspetto leggendario più noto della figura di Archimede è sicuramente quello legato agli specchi ustori, anche se è, allo stesso tempo quello stori-camente più improbabile. Le notizie esplicite più antiche oggi disponibili sono dovuta agli storici bizantini del XII secolo Giovanni Zonara e Gio-vanni Tzetzes, secondo i quali il Nostro sarebbe riuscito ad incendiare le navi di Marcello, facendo convergere su di esse fasci di luce solare concen-trata mediante un sistema di specchi ustori. Si sarebbe trattato di un dispo-sitivo esagonale composto da ventiquattro specchi piani opportunamente inclinati per far convergere la luce del sole in un stesso punto.Non si conosce la fonte a cui avrebbero attinto i due eruditi bizantini, per altro poco attendibili se si pensa che, ad esempio, Zonara inizia la sua epi-tome historiarum, addirittura, dalla creazione del mondo.È probabile che la notizia sia pervenuta attraverso interpretazioni arbitrarie e induttive di testi precedenti. Tra questi il più antico oggi disponibile è il trattato Sul temperamento22 di Galeno (II sec. d.C.) in cui si esprime, come convincimento personale, che Archimede abbia mandato in fiamme le trire-mi assedianti, ma senza alcun riferimento all'uso di specchi. Solo a titolo di esemplificazione di come la trasmissione delle notizie stori-che possa subire slittamenti di significato riporto qui il passo di una tradu-zione latina del XV secolo in cui si legge:

Hoc arbitror modo aiunt &\ Archimedem hostium triremes urentibus speculis in-cendisse (Penso che in questo modo, si dice, Archimede incendiò le navi nemi-che con specchi ustori)23.

Dove appaiono gli specchi ustori (urentibus speculis), assenti nel corri-spondete testo originale24.Sull'argomento si è molto discusso e vi è un'ampia letteratura. Mi limito

22 GALENI PERGAMENSIS, de temperameti, Lipsiae in Edibus B. G. Teubeneri, 1868, libro III, cap. 2, 657-658.

23 GALENI PERGAMENSIS, de temperamentis, et inequali intemperie, Thomas Linacro An-glo Interprete, 1521, riprodotto in fac-simile, University of Cambridge, 1861.

24 ο τω δέ πως, οῡ ῑμαι, χα τὶ ὸν `Αρχιμήδεν φασ διὶ ὰ τῶν πυρείων μπρ σαι τἐ ῆ ὰς τῶν πολεμίων τριήρεις (V. nota 22). Non si fa cenno all'uso di alcun genere di specchi (κἀταπτρον).

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dunque a un breve cenno sui principali aspetti che rendono la notizia ben poco, o per nulla, attendibile.Il primo è nella difficoltà tecnica di fare convergere i raggi del sole a gran-de distanza e su obiettivi in movimento. Molti sono stati i tentativi, a parti-re da Leonardo da Vinci e dallo stesso Galileo di ricostruire dispositivi del genere, fondati sugli specchi concavi, e non mancano neppure studi recenti in proposito. È da escludere che un tale dispositivo si possa ottenere con un solo specchio. A parte le enormi difficoltà costruttive, esso farebbe con-vergere i raggi in un punto a distanza fissa, rendendo alquanto aleatoria la possibilità di fissarlo per un tempo adeguato su un punto di una nave in av-vicinamento. Si è dunque ipotizzato un sistema che preveda almeno due specchi parabolici, in modo da produrre un fascio di raggi paralleli ma di diametro ridotto. La concentrazione dei raggi, fatte salve le eventuali perdi-te dipendenti dalla qualità della superficie riflettente, sarebbe accresciuto di una misura pari al quadrato del rapporto tra il diametro del fascio incidente e quello del fascio emergente. Questo, tra l'altro, comporterebbe un delica-to meccanismo, all'epoca difficilmente realizzabile, di sincronizzazione con il movimento solare. L'altra soluzione più accreditata è quella di un grande numero di specchi piani manovrati manualmente da diversi soggetti, in modo da far convergere i raggi su un unico punto, come sembrano indicare le fonti bizantine. Su questa ipotesi sono state tentate varie ricostruzioni, con risultati non sempre concordanti. Secondo uno studio di Carlo Zampa-relli, recentemente pubblicato dal GSES (Gruppo per la Storia dell'Energia Solare)25, un risultato modesto (l'inizio di un incendio che si potrebbe spe-gnere con un secchio d'acqua) su di una nave a 100 metri dalla costa, si sa-rebbe potuto ottenere, alla latitudine di Siracusa, intorno a mezzogiorno di una serena giornata estiva, con circa sessanta specchi manovrati da altret-tanti siracusani, dalle mura della città. Sebbene dunque, la possibilità teori-ca, appare confermata, essa è però negata dal rapporto costi benefici. Per-ché esporre sessanta uomini al tiro delle navi nemiche per un risultato mi-nimo, oltre che aleatorio, quando se ne potrebbe ottenere uno più consi-stente con frecce incendiarie lanciate dalle feritoie di cui parla Tito Livio?Dal punto di vista storico, tuttavia, ciò che più conta è che né Polibio, né Tito Livio, né Plutarco, che pure descrivono ampiamente le fasi della batta-

25 CARLO ZAMPARELLI, Storia, Scienza e Leggenda degli Specchi Ustori di Archimede, 2005, in http://www.gses.it/pub/

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glia, menzionano quello che, se fosse avvenuto, sarebbe stato l'episodio più clamoroso e appariscente. Quello che, più d'ogni altro, avrebbe giustificato il ritiro delle forze navali di Marcello e dato forza al quadro ideologico da essi delineato.Tuttavia, come dicevo all'inizio, tra gli episodi leggendari, questo rimane tuttora il più noto e popolare. Intanto perché colpisce di più la fantasia, non soltanto del pubblico generico, ma anche quella degli studiosi, avendo stimolato gli studi sugli specchi parabolici e, più in generale, l'interesse verso l'uso dell'energia solare. Ma un supplemento di popolarità può essere venuto, all'inizio Novecento (1914), dal film Cabiria di Pastrone; il primo grande colossal italiano del cinema muto e forse il secondo a livello mon-diale. L'episodio degli specchi ustori è il solo significativo riferimento all'assedio di Siracusa, ma si trova inserito in un film che seppe coinvolge-re, oltre ai ceti popolari, attratti da una storia melodrammatica e storica-mente fantasiosa, anche i ceti medi per la presenza di riferimenti letterari, una buona musica, tecniche di ripresa e montaggio straordinarie per l'epoca e, soprattutto, per le didascalie, con la loro intonazione decadente, scritte da D'Annunzio.Mito, dunque26, ma il mito non è vacua fantasia da dimenticare o rimuove-re. Esso è il frutto dei pensieri, delle visioni, dei valori e delle speranze dei tanti, che, nel tempo, si sono stratificati intorno a un nucleo originario. È distinto dalla storia e dalla scienza, perché queste ultime soltanto possono darci, razionalmente, la consapevolezza del nostro essere e del nostro vive-re. Distinto, ma non separato, perché storia e scienza non possono vivere senza l'apporto fecondo dell'immaginazione. È dalla dimensione mitica che prendono avvio i significati, i valori, i nuclei linguistici e concettuali, vero corpo vivente di ogni visione del mondo27.

26 Il fatto che gli specchi ustori non abbiano un riscontro effettivo nelle realizzazioni im-piegate durante l'assedio di Siracusa, non esclude che, sul piano teorico, abbiano potuto essere oggetto di studio dello scienziato. Le proprietà degli specchi concavi, del resto, trovano supporto nello studio delle coniche, ampiamente sviluppato nel terzo secolo. Inoltre è da ritenersi certo che specchi concavi venissero usati per convogliare la luce emessa dal faro di Alessandria (v. in proposito L. RUSSO, La rivoluzione dimenticata, Feltrinelli, Milano, 2001; 1a ediz. 1996). nnnnnnnnnnnnnnnnnn

27 Per una più completa disamina del pensiero dell'autore su scienza e storia e sui rapporti con il mito, v. il mio La ragione e il fenomeno. Op. cit. (v. nota 3).

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Il mito che si è andato costi-tuendo sulla figura di Archi-mede, e in modo particolare sugli specchi ustori, ne è la prova più illuminante28. Ba-sta pensare, a questo riguar-do, come esso sia servito da stimolo a intere generazioni di studiosi e ricercatori nella ricerca sulla riflessione della luce e sulle proprietà geome-triche delle superficie conca-ve. Si sono già menzionati Leonardo da Vinci e Galileo, ma la schiera è ininterrotta fino ai giorni nostri, concre-

tizzandosi anche nel grande sogno, oggi sempre più realtà, di poter control-lare e utilizzare l'energia del sole.Uno degli atti più recenti di questo mito è stata la centrale elettrica a spec-chi ustori, fortemente voluta da Carlo Rubbia e intitolata ad Archimede, che da pochi anni è stata inaugurata a Priolo, presso Siracusa (fig. 2).

28 Dico “in particolare”, proprio per la sua popolarità. Su un piano di maggiore approfon-dimento, non sono da meno le dimensioni mitiche costruite attorno alla stessa produ-zione teorica dello scienziato. Si pensi al numero (pigreco), al rapporto tra sfera e ci-lindro, al concetto di baricentro e alla legge della leva, ma soprattutto ai suoi metodi che preconizzano con oltre mille anni di anticipo, le idee dell'analisi infinitesimale. Ma di queste cose si dirà più avanti.

fig. 2: Uno degli specchi ustori nella centrale solare termodinamica Archimede. Priolo, Siracusa. Immagine tratta dal sito http://futuribilepassato.blogspot.it/

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3. Dal mito all'oblio

Se da quanto abbiamo visto nel primo capitolo (La difesa di Siracusa), il racconto di Plutarco, poteva essere sufficiente a porre Archimede sotto l'ombrello della filosofia platonica, ciò che lo stesso filosofo e storico dirà poco più avanti, trascende quell'obiettivo e fa dello scienziato siracusano piuttosto un mistico visionario, in netto contrasto, come si vedrà, con i con-tenuti dei suoi scritti. Afferma dunque Plutarco:

[…] non possiamo non credere alle storie raccontate su di lui, di come, sotto il fascino duraturo di qualche sirena a lui familiare e domestica, si sia dimenticato anche il suo cibo e trascurato la cura della persona, e di come, quando veniva trascinato con la forza, come spesso avveniva, a fare il bagno e ungere il suo corpo, avrebbe tracciato figure geometriche sulla cenere, e disegnato linee con il dito sull'olio con cui il suo corpo veniva unto, posseduto da una grande gioia, e in verità era prigioniero delle Muse29.

Tuttavia il nostro filosofo neoplatonico, lascia intendere che sta solo ripor-tando voci già esistenti, testimoniando così di un'aura di leggenda, già co-struita nel tempo, dopo la morte dello scienziato. Aura che, comunque, non esita ad accogliere come dato storicamente credibile, elevandolo, probabil-mente, dalla semplice vulgata, alla dignità del pensiero alto30.

29 Ibid, 17.6.30 Personalmente non posso non pensare ai coloriti aneddoti che si narravano quand'ero

studente, sul conto di qualche vecchio professore deceduto anni prima. Ma per evocare un esempio più illustre, mi viene in mente quanto si diceva di Pirrone di Elide e che viene riportato da Diogene Laerzio con le parole: «Condusse una vita coerente con questa dottrina, senza mai deviare dalla sua via, senza prendere precauzioni, ma an-dando incontro a tutti i rischi come venivano, fossero carri, precipizi, cani o quant'altro, e, in generale, senza lasciare nulla all'arbitrio del sensi, ma è stato tenuto fuori dal pericolo dai suoi amici che, come Antigono di Caristo ci dice, lo seguivano da vicino» (DIOG. LAER., Vite, cap. 9). Ma in realtà, durante i viaggi al seguito di Ales-sandro Magno, è presumibile che abbia conosciuto il concetto indiano di Maya, che an-cora oggi rimane per lo più incompreso nel mondo occidentale e viene, spesso ma scor-rettamente, tradotto con la parola illusione, mentre sarebbe forse più adeguato il concet-to di Mondo dei fenomeni, in contrapposizione a quello di essere in sé. In quel caso, tut-tavia, è lo stesso Diogene Laerzio che, subito dopo, aggiunge: «Ma Enesidemo dice che era solo la sua filosofia a fondarsi sulla sospensione del giudizio, mentre lui non man-cava di lungimiranza nei suoi atti di tutti i giorni» (Ibid.).

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La leggenda di Archimede, per altro, doveva essere molto vasta, costellata di amenità e di aneddoti che rispecchiavano l'ingenuità di quanti, stupiti dalle sue realizzazioni, non potevano comprenderne i procedimenti teorici da cui scaturivano. Un'ingenuità che non era limitata alle sole persone in-colte, se si pensa che la cultura di lingua latina non fu mai penetrata, nell'antichità, dalle scienze matematiche. Queste, infatti furono sempre col-tivate in lingua greca, anche nell'età imperiale romana.Non può sorprendere, allora, che una delle storie più amene ci venga tra-mandata da Vitruvio nel De architectura, dove troviamo un Archimede che corre nudo gridando Eureka, eureka! E perché? Per avere intuito la solu-zione di un problema: scoprire l'eventuale frode di un orafo nei confronti del tiranno Gerone. Una soluzione che a Vitruvio appare come «l'espressio-ne più alta del suo ingegno»31. Secondo lo scrittore e architetto latino, Archimede avrebbe scoperto la fro-de immergendo successivamente, in un recipiente totalmente pieno d'ac-qua, la corona consegnata dall'orafo, una quantità d'oro di uguale peso e una quantità d'argento di peso anch'esso uguale e poi confrontando le quan-tità di acqua fuoruscita. Ma Archimede, e forse non solo lui nel mondo el-lenistico, possedeva strumenti di conoscenza per risolvere il problema in modo anche più elegante, e, soprattutto, quantificando l'entità della frode. Ben altri, e più profondi, sono, come vedremo, i contenuti delle sue opere. Per il momento, tuttavia, vogliamo occuparci delle dimensioni mitiche del-la figura di Archimede, così come è stata tramandata nei secoli successivi alla sua morte. Ciò non vuol dire che tutte le informazioni che ci provengo-no dalle diverse fonti siano prive di fondamento, ma solo che esse rispec-chiano i punti di vista e i livelli di comprensione di chi, di volta in volta, le ha tramandate. Così, ad esempio, è difficile nutrire dubbi sul ruolo che egli ebbe nel campo delle tecnologie. È, se mai, da sfatare il pregiudizio, tutto ideologico, secondo cui il Nostro vi si dedicasse di malavoglia, disprezzando tutto ciò che attiene alle attività pratiche e al mondo sensibile. Un pregiudizio la cui origine è facile da comprendere, essendo insito nella filosofia neoplatonica dei suoi maggiori commentatori, tra cui in primo luogo Plutarco. Tale punto di vista, intanto, mal si concilia con la quantità e qualità di dispositivi meccanici a lui attri-buiti. Né mi sembra pertinente l'osservazione, da parte di Plutarco, che egli 31 VITRUVIO, De Architectura, 9.9.

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non ha mai pubblicato i progetti delle sue macchine. È del tutto ragionevo-le, infatti, che i presupposti teorici e le soluzioni tecniche di queste, specie se di natura militare ma non solo, venissero considerate segrete32. Ma l'argomento principale, che esamineremo in seguito, scaturisce dalle suo opere scritte, di natura teorica, dove potremo constatare la distanza che c'è, nella sua concezione della scienza, dalla filosofia platonica, ma anche da quella aristotelica.Premesso ciò, faremo ora una rapida sintesi delle realizzazioni che gli ven-gono attribuite, della vasta aneddotica che lo riguarda e delle circostanze, per molti versi oscure, della sua morte.Uno degli aneddoti più ricorrenti è quello che gli attribuisce la frase: «da-temi un punto di appoggio e solleverò il mondo». Una formulazione, que-sta, che ricorre nella maggioranza delle vulgate moderne in lingua italiana sullo scienziato, ma che tradisce il senso della stessa rappresentazione for-nita dalle fonti antiche. In realtà la prima citazione nota, dovuta a Pappo, ha, in greco, la seguente forma: «δός μοι πο στ καί κιν τ ν κ νῡ ῶ ῶ ὴ ῆ »33 traduci-bile come «datemi una posizione stabile e muoverò la terra»34. La differen-za non è trascurabile, soprattutto per la sostituzione del termine muovere (κινέω) con il termine sollevare. Se, infatti a quest'ultima parola si dà il si-gnificato di “allontanare dal centro della terra”35, non si comprende come possa essere applicata alla terra stessa. Altrimenti dovrebbe presumersi una direzione privilegiata alto-basso, suggerendo l'idea di una rappresentazione

32 Sarebbe stato sorprendente se Fermi e Oppenheimer avessero pubblicato le loro ricer-che sulla bomba atomica, e non certo per disprezzo di quest'attività. Tra l'altro sarebbe-ro finiti sulla sedia elettrica per tradimento.

33 Coerenti con questa sono anche le analoghe citazioni riportate da Simplicio (V-VI sec.) e dallo storico bizantino Tzetzes (XII sec.). In entrambe, infatti, è usato il verbo κινέω, anche se in Simplicio appare differente il contesto.

34 In inglese Thomas Heath ( T. L. HEATH, The works of Archimedes, Cambridge Univer-sity Press, 1897), traduce correttamente «Give me a place to stand on, and I can move the earth» e, analogamente nell'edizione originale di Dijksterhuis (E. J. DIJKSTERHUIS, Archimedes, Ejnar Munksgaard, 1956) si legge: «Give me a place to stand on, and I will move the earth», ma incomprensibilmente nell'edizione italiana della stessa opera (E. J. DIJKSTERUIS, Archimede, Ponte delle Grazie, 1989) diventa «datemi un punto di appoggio e io solleverò il mondo». La stessa espressione viene anche ripetuta dal re-centissimo: MARIO GEYMONAT, Il Grande Archimede, Teti Editore, Roma, 2008.

35 Al centro della terra fa riferimento esplicito lo stesso Archimede nella sua opera “sui corpi galleggianti”, quando postula che ad esso convergono i pesi.

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Due inquadrature del film Cabiria di Giovanni PastroneItalia - 1914

fig. 3: Archimede progetta gli specchi ustori

fig. 4: Lo specchio ustore appare sulle mura di Siracusa

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arcaica della terra, già superata, nel mondo greco, fin dal V sec. a.C.La citazione, comunque, sembra alludere ad un episodio, riferito da Plutar-co. Archimede avrebbe detto al tiranno Gerone che una qualunque forza, anche piccola, può muovere qualunque massa, per quanto grande essa sia (è questo il senso della precedente citazione). Richiesto da Gerone di dare di ciò una dimostrazione pratica, lo scienziato gli avrebbe mostrato come, mediante un dispositivo costituito verosimil-mente di varie pulegge, riusciva egli stesso a spostare agevolmente, da solo, una grande nave armata ed equipaggiata, che, in precedenza, era stata portata sulla riva con grande difficoltà. Anche Proclo riferisce l'episodio. Secondo quest'ultimo, si sarebbe trattato di una nave di dimensioni enormi (la Syracusia), che Gerone avrebbe poi donato al re Tolomeo d'Egitto e che sarebbe stata costruita a Siracusa sotto la supervisione di Archimede. In questo caso, al di là di specifiche coloriture, possiamo ritenere che il racconto contenga un nucleo di informazioni abbastanza attendibili. Innanzitutto il contributo di Archimede nel so-vrintendere a costruzioni navali trova riscontro, sia pure indirettamente, nelle suo opere scritte, laddove nello studio sui corpi galleggianti, prende in esame il comportamento del segmen-to di paraboloide, la cui sezione è molto simile a quella di uno scafo navale. Quanto, al contenuto, invece, dell'affermazione attribuita ad Archimede, non si può dire che essa sia di per sé abbastanza chiarificatrice del suo pen-siero e della sua opera meccanica. In mancanza delle necessarie precisazio-ni, la si può infatti interpretare su un piano puramente teorico e astratto op-pure sul terreno, più concreto, dello spostamento di un oggetto pesante in presenza di attrito. La prima accezione mal si raccorda con la dimostrazio-ne pratica descritta da Plutarco36.

36 In ogni caso essa non è sufficiente a descrivere il moto di un corpo. Potrebbe esprime-re, se mai, qualcosa in negativo sulle condizioni di equilibrio, nel senso che un corpo

fig. 5: Dispositivo che con-sente di equilibrare conun peso P un peso quattro volte maggiore, e B dunque ridu-ce del 75% lo sforzo neces-sario per sollevarlo.

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In questo caso possiamo pensare all'uso di dispositivi, probabilmente costi-tuiti da più pulegge, in grado di demoltiplicare lo sforzo necessario a tra-scinare o a sollevare un peso. Nella figura 5 è schematizzato un dispositivo con tre pulegge in grado di equilibrare un peso P con uno pari a ¼ P. Va detto subito, però che, in queste condizioni, se si vuole sollevare il peso B per un'altezza l, occorre che il peso A si abbassi di una lunghezza 4l. Sullo stesso principio si può immaginare un dispositivo con n pulegge in grado di trascinare in orizzontale un peso posto in B con una una forza, po-sta in A che sia pari a 1/2n della forza che sarebbe necessaria per trascinarlo direttamente. Analogamente al caso precedente, se si vuole trascinare B per una lunghezza l occorre che il punto A si sposti di una lunghezza pari a . Supponiamo allora che si voglia trascinare un'imbarcazione sulla spiaggia (fig. 6) e che, per fare ciò, si usi un dispositivo di questo tipo, costituito da dieci pulegge. La forza necessaria sarebbe allora demoltiplicata di un fatto-re pari . Ammettiamo allora che, in tali condizioni, l'im-barcazione possa essere mossa agevolmente da una sola persona. Questa però dovrebbe tirare la fune per oltre un chilometro se volesse spostarla di un metro, mentre tirando per soli 10 metri, la sposterebbe di un solo centi-metro. Il fatto è che, qualunque dispositivo meccanico, può moltiplicare o demoltiplicare la forza necessaria a produrre un determinato spostamento, ma sempre in modo da lasciare inalterata la quantità totale del lavoro effet-

qualsiasi non può essere in equilibrio (ma si muove) se soggetto ad una forza, per quan-to piccola. Ma anche questo richiederebbe che si specificasse l'assenza di altre forze o vincoli.

fig. 6: Il dispositivo in figura consente di ridurre del 75% lo sforzo ne-cessario per trascinare l'oggetto. Tuttavia per avere un dato spostamen-to bisognerà percorre uno spazio quattro volte maggiore.

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tuato37. Da tutto ciò, io credo, si può arguire quali siano i reali fondamenti e quali le coloriture del racconto mitico.Meno nota, tra le realizzazioni attribuite ad Archimede, vi è quella di un planetario, portato a Roma dopo la sua morte e descritto da Cicerone con ammirato stupore.

M. Marcello [si riferisce a Marco Claudio Marcello (42-23 a.C), nipote di Augu-sto e discendente dell'omonimo generale Marcello, protagonista dell'assedio di Siracusa], [...], ordinò che si portasse la sfera che l'avo di M. Marcello aveva tratto, dopo la presa di Siracusa, da quella città ricchissima ed ornatissima, sola preda ch'egli avesse voluto portare in patria. Di questa sfera di cui avevo tanto sentito parlare, data la gloria di Archimede, io rimasi a prima vista un po' disillu-so; […] ma non appena Gallo [Gaio Sulplicio Gallo] ebbe cominciato a spiegar-ci con la più profonda dottrina il senso dell'opera, mi parve che in quel Siciliano fosse un ingegno ben più alto d'ogni altro ingegno umano. Ci diceva infatti Gal-lo che quell'altra sfera, solida e piena, era un'invenzione anteriore di Archimede e che Talete di Mileto ne aveva dato primo il modello che poi da Eudosso di Cnido, discepolo, a quanto si diceva, di Platone, era stato ornato con la raffigu-razione delle costellazioni, […] Senonché, una rotazione sintetica, comprenden-te il moto del sole e della luna e delle cinque stelle che si chiamano erranti, e quasi vagabonde, non avrebbe, [...], mai potuto essere riprodotta in quella primi-tiva sfera solida, e in ciò per l'appunto era il lato mirabile dell'invenzione di Ar-chimede: egli aveva trovato il modo di riprodurre in una rotazione unica gli ine-guagliabili moti delle stelle e la loro varia corsa. Mentre Gallo faceva muovere questa sfera, si vedeva la luna succedere al sole nell'orizzonte terrestre ad ogni giro come gli succede anche in cielo e si verificava la stessa scomparsa del sole dal cielo e lo stesso collocarsi della luna nell'ombra della terra non appena il sole fosse dal lato opposto... 38

E poi ancora

Perché, allo stesso modo in cui, nel Timeo, il dio di Platone edificò il mondo, Archimede fece in modo che una sola conversione governi movimenti diversi per lentezza e velocità della luna, del sole e dei cinque pianeti, cosa che in que-sto mondo non può essere fatto senza dio, neppure nella sfera Archimede avreb-

37 Si ricorda che, in meccanica, si chiama lavoro di una forza F applicata a un punto P, il prodotto tra l'intensità della forza e lo spostamento di P lungo la direzione della forza. Un principio fondamentale che sta alla base di tutti i dispositivi di demoltiplicazione della forza (leva, puleggia mobile, ecc..) è appunto quello dell'invarianza del lavoro to-tale delle forze, durante un movimento qualsiasi del sistema.

38 CICERO, De Republica, I, 14.

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be potuto imitare lo stesso moto senza un'intelligenza divina39.

È questa la sola descrizione del planetario di cui cui possiamo disporre. Esso, evidentemente è un modello dei moti apparenti degli astri, compresi i moti di retrogradazione dei pianeti, già spiegati da Eudosso, in un modello geocentrico, mediante l'introduzione degli epicicli. Cicerone, così come gli era stato spiegato da Sulplicio Gallo, osserva che ciò è umanamente impossibile da ottenere, in un meccanismo ad ingranag-gi, a partire da un unico movimento impresso dall'esterno. Questa, impossi-bilità, per altro, è stata confermata nel 1975 da Neugebauer, nel caso in cui il meccanismo sia fondato su un sistema geocentrico qual'era quello adotta-to da Eudosso e, in seguito, ripreso e perfezionato da Tolomeo. Gli stessi

moti apparenti sono invece pos-sibili da ottenere se il meccani-smo è incentrato sul sole, anzi-ché sulla terra, come avviene nel modello proposto da Aristarco e già noto ad Archimede.Riprenderemo l'argomento più avanti. Ciò che a questo punto interessa è come, in una fase in cui l'ipotesi di Aristarco doveva essere fondamentalmente accan-tonata o dimenticata, quel mec-canismo potesse apparire tal-mente miracoloso da contribuire al mito di Archimede come ispi-rato dalla divinità.

Vi sono altre realizzazioni tecnologiche attribuite ad Archimede. Tra questi la coclea, un dispositivo elicoidale che ruota entro un tubo per aspirare ac-que dalla stiva di una nave o da una miniera (fig. 7). Si ipotizza che qual-cosa di simile egli abbia visto già funzionante in Egitto per sollevare l'acqua in un complesso sistema di canali40. È possibile, allora, che egli ab-

39 CICERO, Tusculanae Disputationes, I.40 È noto che gli Egizi possedessero tecnologie molto avanzate, perfezionate empirica-

mente nei secoli, pur senza una precisa base teorica. In particolare un sistema di canali, separati da chiuse, consentiva alle imbarcazioni di superare i dislivelli. Per far ciò era

fig. 7: Modello didattico di coclea. Il tubo ester-no è realizzato in vetro per consentire la visione della struttura elicoidale interna. Questa, ruotan-do consente di sollevare facilmente grandi quan-tità di acqua.

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bia perfezionato il dispositivo, ponendolo su basi teoriche mediante lo stu-dio delle superfici elicoidali.Ma a costruire l'alone mitico che circonda il nostro scienziato, non sono solo le stupefacenti realizzazioni tecnologiche accessibili a tutti. Ad un li-vello più alto sarà anche la sua opera teorica, la cui chiave diverrà illeggi-bile quando si smarrirà la dimensione creativa della scoperta scientifica. Ma per comprendere le dinamiche di questo processo bisognerà fare un passo avanti, attraverso l'analisi delle sue opere e della loro collocazione nel contesto del mondo ellenistico. Con il declino e la successiva eclissi del pensiero scientifico era intanto inevitabile che la potenza del suo pensiero, in quanto sempre più inafferrabile, venisse prima divinizzata per poi cadere nell'oblio del Medio Evo. Al mito appartengono anche le circostanze della sua morte nelle diverse versioni che, da fonti diverse, sono state poi tramandate fino ai nostri gior-ni. Ma questo merita un capitolo a sé.

necessario disporre di mezzi per il sollevamento dell'acqua, al fine di alzare il livello in un tratto di canale, prima di aprire la chiusa che lo collegava ad un tratto più elevato.

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4. Morte di Archimede: la trasparenza del mistero

È stato già detto. Archimede morì nel corso delle tragiche vicende del sac-cheggio conseguente alla caduta di Siracusa. Ma per comprendere il senso di mistero che avvolge le circostanze della sua morte, e che, a buon diritto entra a far parte del mito, è bene partire dal racconto che ne fa Plutarco:

Ma più di tutto Marcello fu addolorato dalla sventura che toccò ad Archimede. Per una malaugurata circostanza lo scienziato si trovava solo in casa e stava considerando una figura geometrica, concentrato su di essa, oltreché con la men-te, anche con gli occhi, tanto da non accorgersi che i Romani invadevano e con-quistavano la città.Ad un tratto entrò nella stanza un soldato e gli ordinò di andare con lui da Mar-cello. Archimede rispose che sarebbe andato dopo aver risolto il problema e messa in ordine la dimostrazione. Il soldato si adirò, sguainò la spada e lo ucci-se.Altri storici narrano il fatto diversamente. Dicono che il romano si presentò già con la spada in pugno, pronto per ammazzarlo, e che Archimede, appena lo vide, lo pregò di aspettare un istante, affinché non lasciasse incompleto e privo di di-mostrazione ciò che cercava; ma il soldato senza tanti complimenti lo finì.Secondo una terza versione alcuni soldati incontrarono per strada Archimede, mentre stava portando a Marcello uno strumento scientifico, composto di meri-diane, sfere e quadranti, mediante i quali si misurava a vista la grandezza del sole, dentro a una cassa. I soldati pensarono che avesse con se dell’oro, e lo uc-cisero.Tutti gli storici sono però concordi nel dire che Marcello fu molto addolorato dalla sua morte e ritrasse lo sguardo dall’uccisore, quando gli si presentò, come se fosse un essere contaminato. Trovati poi i suoi parenti, li onorò41.

Al di là delle varianti riportate da Plutarco, ma ve ne furono anche altre, tutte le versioni contengono tre elementi sostanziali:1) L'evento sarebbe avvenuto accidentalmente e contro la volontà delle au-torità romane, rappresentate, nel caso specifico, dal generale Marcello.2) La manifestazione di cordoglio per la perdita di una personalità che go-deva di grande fama e stima in tutto il mondo mediterraneo.3) La non assimilazione di Archimede al nemico sconfitto, nonostante il ruolo da lui svolto nella difesa della città. Quest'ultimo elemento passa at-traverso l'assunzione del personaggio ad un mondo idealizzato di eroi che,

41 PLUTARCO, Vita di Marcello, 19, 8-12,

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come gli dei dell'Olimpo, sono indifferenti alle passioni umane. Nel mo-mento della morte egli è rapito da visioni contemplative di pura perfezione geometrica e, dunque, non è in grado di sfuggire il pericolo.Oggi possiamo chiederci se davvero sia stato ucciso per errore, per indiffe-renza o per deliberata volontà del vincitore romano. Nell'impossibilità di una risposta supportata da elementi solidi, non possiamo sciogliere il mi-stero, ma potrebbe apparirci eloquente se lo osserviamo in filigrana. Non posso non citare a questo proposito quanto diceva Renato Calapso nel discorso di chiusura delle Celebrazioni Archimedee del 1961:

Va bene che la storia, specialmente quella di Plutarco, è metà fatti e metà fanta-sia: ma in una circostanza così grave perché non ci si limita ai soli fatti? Perché non si dice che Archimede, dopo di avere difeso Siracusa eroicamente e genial-mente, con tutto l'impegno e tutto il vigore di cui era capace, morì ucciso dai soldati di Roma, quando la città cadde? Ma poi come negare questa verità in-controvertibile e cioè che Archimede, per sua ferma deliberazione non poteva e non doveva cader vivo nelle mani dei romani? [...] Ve l'immaginate che allegria per Marcello trascinarsi dietro in catene il più grande uomo dell'epoca, scalzo, lacero, sanguinante, preso dai veterani a calci, a pugnalate, a scudisciate, fra il pianto delle donne siracusane, scarmigliate e pazze, nella tragedia del popolo vinto?42

Come già osservavo altrove43, è proprio questo, «il pianto delle donne [qui siracusane, ma potrebbero essere ateniesi dopo il sacco di quella città, o di tante altre città ugualmente vinte], scarmigliate e pazze, nella tragedia del popolo vinto» ciò che troppo spesso la storia rimuove e, in modo particola-re, le rimuove la storia del pensiero scientifico nell'antichità. Le rimuove come se queste cose nulla avessero a che fare con le aspirazioni, le passio-ni, i valori e le visioni del mondo, che ispirano le scelte, anche epistemolo-giche, degli scienziati e dei filosofi. Troppo spesso, a chi prospetta momen-ti di forte rottura epistemologica nell'ambito della cultura alessandrina, si rimprovera di non avere una sufficiente quantità di “prove”. Ma se appena si esce dai pochi testi scientifici superstiti per dare uno sguardo all'ambien-te circostante, diventa difficile, quasi impossibile, credere che un'effettiva continuità di pensiero si potesse realizzare. Ed allora è proprio a chi sostie-42 CALAPSO, R. (1961), Archimede nella vita e nella scienza: Discorso di chiusura delle

celebrazioni, Celebrazioni Archimedee del Secolo XX, 11-16 Aprile 1961, Vol. I: Con-ferenze generali e simposio di geometria differenziale, Messina, 1961, pp. 63-68.

43 R. MIGLIORATO, La ragione e il fenomeno, Op. cit., p. 113.

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ne una tale improbabile continuità che bisognerebbe richiedere l'onere del-la prova.In questo caso, tuttavia, possiamo ipotizzare che anche per la parte romana, l'eventuale presenza, tra i prigionieri, di un Archimede vivo, avrebbe potu-to essere imbarazzante e di non facile gestione. Ricordiamo brevemente i fatti. Dopo che Pirro aveva abbandonato la Sici-lia, nel 270 a.C. Gerone II era divenuto tiranno di Siracusa e, prudentemen-te, aveva cercato forme di alleanza con i romani. Alla sua morte, però, av-venuta nel 215, era prevalso il partito più oltranzista che, ritenendo essere l'espansionismo romano il pericolo più incombente per la propria sicurez-za, aveva optato per l'alleanza con Cartagine. Da qui l'accusa di tradimento e il conseguente assedio da parte romana. Ora, però, associare Archimede alla città vinta, e precipuamente al suo partito antiromano, sarebbe stato certamente pericoloso e controproducente per la reputazione del vincitore. Egli era infatti la personalità più in vista e più stimata tra gli intellettuali e tra i tra ceti che contavano in quel mondo ellenistico su cui Roma puntava le sue mire egemoniche. Il suo ruolo attivo nella difesa della città doveva essere velato da un alone di mistico distacco dalle cose mondane, e ciò po-teva avvenire solo se fosse morto in modo accidentale. D'altronde le guerre puniche non erano ancora concluse e, in Sicilia, Morgantina continuava an-cora a resistere. Quest'ultima città, caduta l'anno successivo, dovette subire una dura repressione, con la deportazione di quasi tutti gli uomini validi e, in seguito alla quale, essa decadde rapidamente fino a che non se ne perse quasi del tutto la memoria. Quando, più avanti, con la terza guerra punica, verrà distrutta Cartagine e la sua civiltà verrà quasi totalmente cancellata dalla storia, la cultura greco-ellenistica sarà invece parzialmente assorbita e digerita dal mondo romano. Se, dunque, da una parte, le immediate urgenze politiche devono avere in-nescato l'alone di mistero sulle circostanze della sua morte, ancora più pro-fonde, possiamo ritenere che siano state le ragioni attorno a cui si costitui-sce la dimensione mitica del personaggio. Questo, infatti, sembra costruir-si, con successive stratificazioni, all'interno di un processo di trasformazio-ne del mondo antico che sfocerà nella società imperiale romana, con i suoi valori, la sua visione del mondo, i suoi assetti economici, politici e militari. Nel farsi erede della tradizione greco-ellenistica, la civiltà romana non po-teva fare a meno di trasfigurarla, relegando in una dimensione idealizzata

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tutto ciò che non serviva, o non era compreso o che, addirittura, potesse contrastare con le proprie basi fondanti. Tale era, certamente, l'approccio ellenistico alle scienze della natura, così come cercheremo, più avanti, di mettere in evidenza. Se riteniamo che stiano così le cose, non sorprende, allora, se anche la fi-gura di Archimede abbia dovuto pagare un tributo per essere salvata dall'oblio. Il prezzo non poteva consistere se non nell'essere sottratto alla consistenza reale, sia pur straordinaria, di uomo e di scienziato del suo tempo, per essere assunto in un pantheon ideale e rarefatto. Un mondo fatto di estasi e di pura contemplazione, dove il sapere scientifico giunge come un flusso di ispirazione divina e di grazia beatificante.Lo troviamo così nel racconto di Plutarco, che, richiamandosi alla tradizio-ne platonica, lo pone in una posizione di disprezzo per tutto ciò che è utile o appartiene al mondo sensibile: « ... uno spirito così nobile, un'anima così profonda [… che riteneva] ogni arte che si coltiva per le esigenze della vita, come ignobile e volgare, [e] ha dedicato i suoi sforzi sinceri solo a quegli studi di cui la sottigliezza e il fascino non sono interessati da motivi di necessità»44. Ma il nucleo più profondamente neoplatonico emerge con maggiore chia-rezza quando vengono descritte le sue estasi, mentre, posseduto dalla musa, si diletta a tracciare figure geometriche sul proprio corpo appena unto. O quando, al momento della morte, contempla una figura geometrica, come se i teoremi geometrici potessero scaturire dalla contemplazione estatica.È questa, per altro, la visione della scienza che verrà tramandata e svilup-pata nei secoli successivi, e che verrà mirabilmente espressa da Proclo nel suo lunghissimo Commento al Primo Libro degli Elementi di Euclide. Un commento che, sicuramente, è prezioso per le notizie storiche riferite e di cui non vi sono altre fonti, è parimenti significativo per la comprensione del pensiero di Proclo, ma è privo, allo stesso tempo, di qualunque apporto, anzi è fuorviante, per la comprensione della geometria di Euclide. Un solo passo voglio qui riportare, a titolo di esempio:

Che dunque il triangolo equilatero è il più bello dei triangoli e il più affine al cerchio che ha tutte le rette partenti dal centro eguali e una sola e semplice linea che lo delinea dall'esterno, è ad ognuno evidente. Sembra ora che il fatto di esse-re racchiuso dai due cerchi, e da una parte di questi – perché il triangolo è iscrit-

44 V. supra, cap. 1.

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to non nei due cerchi interi, ma nella sesta parte di ciascuno – mostri quasi in immagine in che modo le cose che partono dai principi ne ricevono la perfezio-ne........ E se ogni anima procede dall'intelletto, ritorna all'intelletto, e partecipa dell'intelletto in due modi, ben si addice che anche per questo il triangolo, sim-bolo della triplice sostanza delle anime, nasca avviluppato da due circoli.... 45

proprio perché da esso emerge con chiarezza la concezione metafisica, spi-ritualista e contemplativa della scienza, in contrapposizione a quella lingui-stico-concettuale-empirista, comune, come vedremo, alla scienza moderna e a quella ellenistica.Possiamo dire a questo punto che le figure di Archimede sono tre. C'è un Archimede reale, in carne ed ossa, o meglio c'è stato. Sul piano della pura conoscenza esso è ciò che kantinamente potremmo definire il noumeno. La pura e semplice posizione di esso alla coscienza è la precondizione di ogni ulteriore analisi e riflessione. Vi è poi l'Archimede mitico, prodotto delle stratificazioni culturali e ideologiche di cui riflette i caratteri. Infine l'Archimede storico, quale può emergere solo da un'analisi scientificamente condotta e, soprattutto, dallo studio dei suoi scritti. Anche quest'ultimo Ar-chimede, tuttavia, non può non risentire dei diversi punti di vista e delle differenti concezioni epistemologiche. Abbiamo cercato fin qui di percorre-re la linea del mito, intrecciandola, e allo stesso tempo distinguendola, con quella della storia. Nel seguito cercheremo soprattutto di evidenziare i ca-ratteri del suo pensiero scientifico e della sua eredità sulla scienza moder-na.Prima di chiudere il capitolo dedicato alle vicende della sua morte, vorrei solo in maniera fuggevole, e senza commenti, ricordare il racconto di Cice-rone circa il presunto ritrovamento della sua tomba.

Essendo questore, trovai il suo sepolcro, di cui i Siracusani negavano l'esistenza, tutto circondato e rivestito di rovi e cespugli. Ricordavo di alcuni senari, che si dicevano scritti sulla sua tomba: dicevano che sulla sommità del sepolcro era posta una sfera con un cilindro. Un giorno scrutavo ogni angolo con lo sguardo (fuori della porta sacra a Ciane c'è un gran numero di sepolcri) e scorsi una piccola colonna che non sporgeva molto dai cespugli, su cui vi era l'immagine di una sfera e di un cilindro. Dissi subito ai Siracusani (si trovavano con me i più eminenti) che pensavo si trattasse proprio di ciò che cercavo. Si mandò molta gente con falci e il luogo fu ripulito

45 PROCLO, Commento Elem., 215.

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e sgombrato.Quando fu liberato l'accesso, ci avvicinammo al lato frontale del piedistallo: si vedeva un epigramma i cui versi erano corrosi verso la parte finale. Così una fra le più celebri città della Grecia, e una volta anche fra le più dotte, avrebbe ignorato il sepolcro di uno dei suoi più acuti cittadini, se non gliela avesse rive-lato un uomo di Arpino46.

46 CICERONE, Tusculanae disputationes, libro I.

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5. Le opere

In questo capitolo mi limito ad una rapida descrizione delle opere superstiti di Archimede, senza entrare nel merito di esse. Lo scopo è essenzialmente di offrire al lettore un punto di riferimento per i richiami che saranno fatti in seguito, unitamente ad una bibliografia essenziale per chi volesse appro-fondire l'argomento. Nei capitoli successivi affronterò invece le tematiche di ordine storico ed epistemologico che, secondo un punto di vista non sol-tanto mio, ci potrà consentire di ritrovare, nell'opera archimedea, uno dei passaggi chiave di quel pensiero scientifico ellenistico che, riscoperto molti secoli dopo, avrebbe aperto la strada al mondo moderno. Come si era già anticipato, parte di queste opere si sono tramandate grazie a trascrizioni varie a partire da due codici (codice A e codice B), redatti nel XI secolo e da gran tempo ormai perdute. Invece il cosiddetto manoscritto sul metodo, così come lo stomakion, sono presenti solo nel codice C, di cui si è già parlato. Del tutto differente è la questione per quanto riguarda il co-siddetto libro dei lemmi, sia perché se ne conosce solo una traduzione in lingua araba, sia per la sua alquanto dubbia attribuibilità ad Archimede. Il problema dei buoi, infine, ci viene tramandato attraverso varie testimonian-ze.Quanto all'ordine di presentazione, non vi sono elementi che ne provino la cronologia. Tuttavia Archimede richiama talora, nel corso di un discorso, qualche enunciato la cui dimostrazione è riscontrabile in un'opera prece-dente. Ciò ha consentito di costruire un percorso cronologico di massima, anche se non in modo completo e rigoroso. Secondo questo criterio sono elencati i primi otto fra i titoli che seguono. Per ogni altra notizia si rinvia alla bibliografia esistente47.47 Il primo riferimento d'obbligo è, ovviamente, all'edizione di Heiberg dell'Opera Omnia

di Archimede, e in modo particolare a quella del 1910-15 (v. nota 5). Subito dopo è da indicare, l'edizione in lingua inglese di Heath del 1897, contenente un'introduzione sto-rico critica, ma priva di riferimenti al codice C non ancora scoperto. Quindi l'edizione di Dijksterhuis. Entrambe queste opere sono state già citate nelle nota 34. Infine c'è l'edizione in lingua italiana di Attilio Frajese (A. FRAJESE, Opere di Archimede, UTET, Torino, 1977). Quest'ultima, va detto, quali che possano essere i limiti filologici e inter-pretativi, è la prima vera traduzione pressoché letterale delle opere archimedee in una lingua moderna. Le opere precedenti, infatti, al di là della lingua utilizzata, presentano

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1. Sull'equilibrio dei piani

In due libri: nel primo viene introdotto il concetto di baricentro di una fi-gura piana e si determina il baricentro di figure rettilinee (parallelogramma e triangolo). Avremo modo di soffermarci su questo argomento.

2. Sui galleggianti Anche quest'opera comprende due libri. Nel primo libro, dopo avere stabi-lito i principi fondamentali dell'equilibrio in un liquido soggetto a gravità, si dimostra la sfericità della superficie del mare. Nel secondo libro si studia il comportamento di un corpo galleggiante. In particolare, facendo uso del concetto di baricentro, si considera il galleggiamento di un segmento di pa-raboloide. La sezione di quest'ultimo solido, va osservato, è simile alla se-zione della chiglia di una nave. Sebbene il lavoro sia teorico, quindi, non è difficile ipotizzare qualche relazione con le notizie circa sua opera di so-vrintendenza alla costruzione di navi.

3. Quadratura della parabola Vi si dimostra che l'area di un segmento parabolico è uguale a quattro terzi dell'area di un triangolo avente la stessa base e uguale altezza. La dimostra-zione rigorosa è ottenuta con il metodo di esaustione e, a tal fine, Archime-de introduce per la prima volta un'assunzione che è oggi nota come postu-lato di Eudosso-Archimede. Di questo si parlerà più avanti. Va anche detto che nella dimostrazione di alcuni lemmi egli fa uso di concetti meccanici, ma anche di ciò si dirà in seguito.

il testo in un'arbitraria traslazione algebrica, secondo un linguaggio simbolico moderno, inesistente nell'antichità. Di ciò si avrà occasione di parlare in seguito, ma va detto su-bito che l'operazione si fondava sulla convinzione, tutta ideologica, degli autori, secon-do cui l'uso del linguaggio simbolico dell'algebra potesse restare un fatto puramente linguistico, ma neutro sul piano concettuale. Nel 2004 veniva pubblicata la nuova traduzione in lingua inglese dei due libri sulla sfe-ra e il cilindro (R. NETZ, The Works of Archimedes: The Two Books on the Sphere and the Cylinder: Translation and Commentary, 1, Cambridge Univerity Press, Cambridge, New York, 2004), come primo volume di un progetto che comprendeva l'intera opera di Archimede. La pubblicazione di successivi volumi si è tuttavia fermata in attesa di po-ter meglio studiare il palinsesto ritrovato. Infine del 2013 è la trduzione italiana del Me-todo da parte di Fabio Acerbi (ARCHIMEDE, Metodo. Nel laboratorio di un genio, (a cura di F. Acerbi, C. Fontanari, M. Guardini), Bollati Boringhieri, Torino, 2013).

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4. Sulla misura del cerchio Vi si dimostra dapprima che [l'area di] un cerchio è uguale [all'area di] un triangolo rettangolo con base pari alla circonferenza e altezza pari al rag-gio. Successivamente vien calcolato il valore frazionario approssimato del rapporto tra circonferenza e raggio. In termini moderni, è il valore appros-simato del numero Π = 3,14.

5. Sulle spirali Archimede definisce la spirale come la curva de-scritta da un punto che si muove su una retta con velocità costante mentre la retta stessa ruota at-torno a un punto, anch'essa con velocità costante. Si tratta di una di quelle curve di ordine superio-re, che oggi vengono definite trascendenti. I teo-remi contenuti in questo trattato sono particolar-mente notevoli sia per la difficoltà nel determi-narne gli enunciati che per la raffinatezza dei procedimenti dimostrativi. Di particolare interes-se è anche la lettera introduttiva indirizzata a Do-siteo, perché più evidente che altrove appare in essa l'atteggiamento di sfi-da verso gli altri matematici e la particolare stima nei confronti del defunto Conone, suo probabile maestro. Tra l'altro, egli qui irride al fatto che nes-suno si sia accorto di due enunciati palesemente errati.Per tutti questi motivi l'opera meriterebbe un approfondimento particolare che, tuttavia, non è pensabile in questa sede. Mi limito quindi ad osservare come il nostro scienziato non esiti ad utilizzare, all'interno di una trattazio-ne squisitamente geometrica, una curva definita mediante concetti cinema-tici. Ciò basterebbe già di per sé, ove non vi fossero altri motivi, a mettere gravemente in crisi le affermazioni su un presunto platonismo di Archime-de.

6. Sui conoidi e sferoidi Il metodo di esaustione è ancora utilizzato con successo in una serie di pro-blemi di quadratura e cubatura di figure geometriche piane o solide limitate rispettivamente da linee e superfici curve. In particolare si tratta dell'ellisse

fig. 8: Spirale di Archimede

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e dei solidi ottenuti dalla rotazione di sezioni coniche.

7. Sulla sfera e sul cilindro Proseguendo con l'uso del metodo di esaustione si dimostrano teoremi di quadratura e cubatura. Ad esempio che Qualsiasi sfera è uguale a quattro volte il cono che ha la base uguale al cerchio massimo della sfera e l'altez-za uguale al raggio della sfera o che Qualsiasi sfera è uguale a quattro volte il cono che ha la base uguale al cerchio massimo della sfera e l'altez-za uguale al raggio della sfera.

8. L'ArenarioUsando un ingegnoso sistema di rappresentazione esponenziale dei numeri, Archimede mostra come sia possibile esprimere e rappresentare numeri più grandi di qualunque grandezza immaginabile. In particolare egli calcola il numero dei granelli di sabbia che possono essere contenuti in una sfera il cui raggio sia maggiore della presunta distanza tra il sole e l'ipotetica sfera delle stelle fisse. È notevole il fatto che, a tale scopo, egli adotti il modello cosmologico di Aristarco che pone il sole e non la terra al centro dell'Uni-verso.

9. Il MetodoPresente solo nel codice C, quest'opera si presenta come una riflessione sui metodi della geometria e, in particolare su quelli che implicano processi in-finiti. Precisamente Archimede rende noti i metodi meccanici da lui utiliz-zati per trovare dei risultati che, successivamente, venivano però dimostrati con il metodo di esaustione. Ci soffermeremo con-venientemente su questo aspetto che si pone tra i più interessanti nell'ambito dell'opera di Archime-de.

10. Lo stomakionAnche questo è presente solo nel codice C. Si pre-senta sostanzialmente come un gioco che consiste nel disporre un insieme di 14 pezzi differenti tra loro in modo da costituire un quadrato. Sostanzial-mente una sorta di puzzle o di Tangram (fig, 9). Ad

fig. 9: Una delle possibili disposizioni dei 14 pezzi dello Stomakion

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un esame più attento però, ci si accorge che la soluzione non è unica e che si può porre il problema di quante siano le soluzioni possibili. Con l'uso del calcolatore tale numero è stato ora trovato ed è 17.152. Le simmetrie inter-ne del gioco, che stanno alla base di tale numero, fanno pensare ad una sor-ta di calcolo combinatorio ante litteram per via geometrica48.

11. Il problema dei buoiSi tratta di un problema tramandato in vari testi e consistente nel calcolare il numero di tori e giovenche di diversi colori, essendo data una serie di re-lazioni tra il numero di esemplari di ciascun gruppo. Il problema è ricondu-cibile, nei termini moderni, ad un sistema di equazioni indeterminate. Il fatto è però che tale sistema, se il testo tramandato non è corretto, porta a delle soluzioni così grandi da non essere praticabili con gli strumenti dell'epoca. Si è supposto, pertanto che il problema costituisse una burla di Archimede nei confronti dei suoi colleghi. L'ipotesi formulata da Umberto Bartocci e Maria Cristina Vipera è, però, che il testo possa aver subito delle alterazioni tali da rendere la soluzione impraticabile49. Fra le varianti possibili proposte dai due autori, una delle più praticabili comporta una soluzione che, se pur di gran lunga meno ar-dua, si fonda tuttavia su un numero di 88 cifre. Ancora troppo per essere accessibile ai tempi di Archimede. L'ipotesi della burla rimane, così, anco-ra in piedi.

12. Il libro dei lemmiÈ fondamentalmente una raccolta di risultati su problemi elementari, utiliz-zabili come lemmi per trattazioni di carattere superiore. Il testo a noi perve-nuto è, però, una versione araba per cui non è garantita né la fedeltà all'ori-ginale né la sicura attribuzione ad Archimede dei singoli risultati.

48 V. NETZ, Il codice perduto, op. cit.49 U. BARTOCCI, M. C. VIPERA, Variazioni sul problema dei buoi di Archimede, ovvero,

alla ricerca di soluzioni possibili, http://www.cartesio-episteme.net/mat/archim.htm

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6. La riscoperta e la scienza nuova

Come si è già accennato, nel mondo antico non è esistita una tradizione delle scienze esatte in lingua latina. Esse, anche in età imperiale, continua-vano, sia pure con tutti i limiti di cui si parlerà in seguito, ad essere coltiva-te esclusivamente nei centri di cultura greca, tra cui, in primo luogo, Ales-sandria. Si ha notizia, è vero, di un'edizione, oggi perduta, degli Elementi di Euclide e curata da Boezio verso la fine del VI secolo, ma è lecito dubi-tare che si trattasse di un'autentica traduzione in latino del testo euclideo. È molto più attendibile che, almeno sul piano fondazionale, costituisse una rielaborazione entro i termini della filosofia e della logica aristotelica. L'ipotesi non si riferisce, ovviamente, alle pure tecniche dimostrative dei teoremi che potevano anche essere più o meno fedeli. Se si guarda, però, alle edizioni tardo antiche superstiti, o a quelle rinascimentali, da esse deri-vate, si trova un'abbondanza di commenti, assenti nell'opera originale, che tendono a spiegare, su base metafisica, i concetti e i principi fondanti della geometria. L'assenza totale di un apparato siffatto è, invece, proprio ciò che caratterizza la scienza nel secolo di Euclide e di Archimede, segnando così una netta separazione tra scienza e metafisica. Si è già accennato, per esempio, alla caratterizzazione marcatamente neoplatonica del commento di Proclo, e non è quindi azzardato supporre qualcosa di simile, ma in sen-so aristotelico, da parte di Boezio.Con la fine dell'impero, si spegne, nel mondo occidentale, ogni interesse per la matematica e le scienze esatte, se non per quel tanto di nozioni ele-mentari indispensabili per le operazioni contabili più semplici e per gli usi dei capomastri. Il recupero e la conservazione della scienza antica avverrà, in epoca medievale, solo ad opera del mondo arabo e, com'è ovvio, attra-verso il filtro di una civiltà sostanzialmente diversa da quella originaria. Sempre nel mondo arabo si andavano sviluppando, intanto, anche i nuovi sistemi di calcolo fondati sull'aritmetica e sulla numerazione posizionale importata dall'India. L'Europa comincerà, quindi, a riscoprire le scienze esatte attraverso la traduzione delle principali opere di autori arabi come Muhammad ibn Musa al-Khwarizmi50.50 Per una storia generale della matematica, oltre al classico Boyer (C. B. BOYER, Storia

della matematica, Mondadori, Milano, 1980), si può segnalare, in lingua inglese, il più

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È così che la prima edizione in latino degli Elementi di Euclide, sarà quella che ne farà l'inglese Adelardo di Bath nel XII secolo, traducendolo dall'ara-bo. Da questa sembra essere poi derivata, circa un secolo dopo, l'edizione di Giovanni Campano da Novara. Per le prime traduzioni da copie greche degli Elementi di Euclide, bisogne-rà attendere, ancora qualche secolo. Differente è, invece il percorso delle opere di Archimede. Di queste, già nel 1269, Guglielmo di Moekerbe, presso la corte papale di Viterbo, traduceva in latino il testo greco, parten-do dai due codici già menzionati come come codice A e B. In seguito quei due codici andavano perduti, ma di essi rimaneva ampia documentazione, grazie non solo alla traduzione di Moekerbe ma anche, per il codice A, di varie altre traduzioni e di trascrizioni nella stessa lingua originale greca. L'insieme di tutto quel materiale sarebbe poi servito alla ricostruzione del contenuto originario dei manoscritti, consentendo di eliminare, ove possi-bile, attraverso un'accurata opera di confronto, tanto presumibili errori di trascrizione quanto arbitrarie libertà interpretative. Un'opera, questa che sarà portata a termine solo in epoca recente. Va detto, a questo proposito, che l'importantissimo trattato sui corpi galleggianti, evidentemente non contenuto nel codice A, è rimasto disponibile, per molto tempo, solo nella traduzione latina di Moekerbe. Solo all'inizio del Novecento, con la scoper-ta del Palinsesto da parte di Heiberg, fu possibile disporre di un testo greco anche per quest'opera, assieme al Metodo e allo Stomakion, presenti solo nel codice C, e che, quindi, venivano alla luce per la prima volta.Il codice C, per altro, costituisce oggi il solo testo archimedeo redatto pri-ma del XII secolo. Tutte ragioni, queste, che spiegano e giustificano l'inte-resse suscitato dalla riscoperta, a New York, del palinsesto perduto, e del convergere su di esso, non solo di interesse e curiosità, ma anche di consi-stenti risorse finanziarie ed umane51. Ma, allo stesso tempo, tutto ciò non

aggiornato C.B. BOYER, U. C MERZBACH, A History of Mathematics, John Wiley & Sons, 2011. Per una consultazione più dettagliata si può vedere M. KLINE , Storia del pensiero matematico, 2 voll., Einaudi, Torino, 1999 (ediz. Orig: Mathematical Thought From Ancient to Modern Times, Oxford University Press, 1972)

51 Sugli studi conseguenti al ritrovamento del Palinsesto, oltre al già citato Codice perdu-to di Netz del 2007, v. il successivo: R. NETZ, W. NOEL, N. WILSON, The Archimedes Palinsest, 2 voll., Cambridge University Press, 2011. Per la principale opera contenuta solo nel codice C, v. anche la nuova traduzione italiana del Metodo, curata da Fabio Acerbi: ARCHIMEDE, Metodo a cura di F. Acerbi, C. Fontanari, op. cit.. Inoltre si può

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può che mettere ancor più in evidenza lo stato di colpevole abbandono in cui la ricerca e la diffusione della cultura sono costrette ad operare proprio in quel paese, l'Italia, che fu incubatrice e culla del pensiero scientifico mo-derno.In ogni caso, al di là dell'apporto che verrà in seguito con la scoperta del codice C, vi era già, dunque, all'inizio del Rinascimento, un ampio materia-le disponibile. Ma la scoperta, e anche la semplice traduzione dei testi anti-chi, non implicava ancora, in modo automatico, il recupero nella loro di-mensione scientifica, né una loro coerente collocazione storica. Il fatto, ad esempio, che, fino al XVI secolo, in piena età rinascimentale, l'autore degli Elementi, già collocato da Proclo ad Alessandria, nell'Egitto tolemaico, ve-nisse ora invece confuso con Euclide di Megara, è solo uno, ma non certo secondario, dei segni di confusione. Come già si è accennato, e come si dirà meglio in seguito, la tradizione di pensiero scientifico rappresentata da Euclide ed Archimede, mal si concilierebbe, infatti, con la figura di Eucli-de di Megara, vissuto tra il V e il IV secolo, e probabilmente, stando alla testimonianza Platone, legato alla filosofia socratica.Il recupero, in particolare, di Archimede, e la sua assunzione tra le basi fondanti della modernità, avviene in misura e dimensioni diverse e comple-mentari, ad opera di tre grandi protagonisti del Rinascimento italiano. Essi sono il bresciano Nicolò Tartaglia, l'urbinate Federico Commandino e, a Messina, il grande matematico e umanista Francesco Maurolico, che, di si-curo, diede il contributo di maggiore profondità52. In realtà la lettura e l'uti-lizzo in vario modo di alcuni contenuti del testo archimedeo era cominciato già prima, almeno nel secolo precedente. Se ne trova traccia, ad esempio, in Leonardo da Vinci, Piero della Francesca, Luca Pacioli. Si tratta general-

consultare il sito dedicato Archimedes Palimpsest, all'indirizzo: http://www.archimede-spalimpsest.org/

52 Su questi temi v. In particolare: P. D'ALESSANDRO, P. D. NAPOLITANI, Archimede lati-no, Iacopo da San Cassiano e il corpus archimedeo alla metà del quattrocento con edizione della Circuli dimensio e della Quadratura parabolae, Les Belles Lettres, Pa-ris, 2012.; R. MOSCHEO, Francesco Maurolico tra Rinascimento e scienza galileiana: materiali e ricerche, Società Messinese di Storia Patria, Messina, 1988; P. D. NAPOLITANI , La tradizione archimedea, in E. GIUSTI (a cura di). Luca Pacioli e la matematica del Rinascimento: atti del Convegno internazionale di studi, Sansepolcro 13-16 aprile 1994. Petruzzi. Città di Castello, 1998. Testo disponibile on-line in http://www.academia.edu/attachments/5895164/download_file.

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fig. 10: Tre edizioni di opere di Euclide e di Archimede pubblicate nel XVI secolo. La prima è la traduzione in volgare degli Elementi di Euclide ad opera di Nicolò Tartaglia. Le due successive sono tradu-zioni in latino di opere di Archimede, cu-rate rispettivamente da Federico Com-mandino e Francesco Maurolico. Si noti come, nell'edizione dell'opera euclidea curata da Tartaglia, così come in tutte le precedenti edizioni, Euclide, autore degli Elementi, venisse confuso con Euclide di Megara,

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mente di un uso pratico e approssimativo, lontano dal rigore dimostrativo e fondazionale del testo originale. Ma per comprendere meglio quali siano stati i processi di avvicinamento e, poi, di recupero del pensiero scientifico antico, è bene fare un cenno al contesto in cui si pone la cultura matematica dell'epoca. Se la tradizione antica di derivazione greco-ellenistica aveva seguito la via geometrica ipotetico-deduttiva, nell'Europa tardo-medievale si era svilup-pato un approccio radicalmente diverso, importato in larga misura dalla tra-dizione indiana e orientale attraverso la mediazione araba. Nella matematica greca gli oggetti della matematica si presentavano come entità ideali e astratte, modulate sulle idee di spazio e di misura. Anche la stessa aritmetica, nella sua espressione scientifica, non era che un aspetto particolare della geometria, essendo i numeri concepiti come rapporti tra grandezze. L'ottica di Euclide, così come la meccanica di Archimede, co-stituivano, a loro volta, una rappresentazione geometrizzata del mondo dei fenomeni. Lo sviluppo di ciascuna scienza procedeva, quindi, attraverso un rigoroso percorso logico-deduttivo, a partire da poche semplici affermazio-ni ammesse a priori e generalmente accettate: i postulati. La tradizione tardo-medievale dei maestri d'abaco nasce, invece, dalle esi-genze pratiche di calcolo numerico dei contabili e dei capimastri. Si svilup-pa assimilando, attraverso gli arabi, il sistema di scrittura posizionale india-na dei numeri e le complesse regole che consentono di eseguire operazioni aritmetiche senza l'uso del tradizionale abaco, nonché di risolvere quei pro-blemi numerici che corrispondono, nel linguaggio moderno, alle equazioni di primo e secondo grado. Sarà proprio Nicolò Tartaglia che darà, per pri-mo, le regole per la risoluzione di problemi di terzo grado. A differenza della tradizione greco-ellenistica, quella dei maestri d'abaco è costituita da regole pratiche piuttosto che da procedimenti logico-dimostrativi. Ciò vale anche per i problemi geometrici, che vengono anch'essi ricondotti al calco-lo numerico di lunghezze, aree e volumi. Un aspetto questo, che era invece sconosciuto alla geometria antica, nella quale “quadrare” una superficie curvilinea (fosse cerchio, segmento parabolico o altro) significava rappor-tarne l'estensione a quella di un quadrato di cui si potesse dare la costruzio-ne geometrica, senza alcuna operazione di calcolo numerico.La lettura di Archimede avveniva dunque, in una prima fase, in funzione di un uso pratico assimilabile alla tradizione tardo-medievale dei maestri

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d'abaco. Si cercava, cioè, di trarne regole da applicare al calcolo numerico. Ed è in quest'ottica che avviene anche la lettura da parte di Nicolò Tarta-glia. Diverso è, invece, l'approccio di Commandino, proteso al recupero più attento alla fedeltà filologica del testo originario. Ma anche così, la pura e semplice restituzione letterale del testo, non è sufficiente a risuscita-re un percorso di pensiero interrotto molti secoli prima, in un contesto cul-turale profondamente mutato. È con Maurolico che si compie un definitivo mutamento di prospettiva. Lo studioso messinese, infatti, pur meno interes-sato alla fedeltà letterale del testo, punta a superare il semplice recupero di conoscenze già acquisite e codificate, per tentare la ricostruzione di quel paradigma scientifico attraverso cui la scienza si autoriproduce, in un con-tinuo processo di mutamento e accrescimento. Poiché, tuttavia, i processi storici di crescita del pensiero matematico e scientifico sono ben più complessi di quanto non si possa qui schematizza-re, non può che rimanere aperta la domanda su quanto l'opera di Archime-de abbia influito sulla nascita della scienza moderna, e quanto peso possa avere avuto l'elaborazione di Maurolico. Voglio comunque citare qualche passo di Pier Daniele Napolitani che mi sembra significativo a questo pro-posito :

Occorre accennare almeno brevemente al destino delle fatiche mauroliciane. Nessuno dei suoi lavori archimedei fu stampato nel corso della sua vita, [...] Non si deve però ritenere che tutto il patrimonio di idee, metodi, ispirazione complessiva e anche di opere materiali andasse disperso alla morte dello scien-ziato. Grazie all'amicizia con Cristoforo Clavio (1537-1612) e ai suoi rapporti con i gesuiti, la sua eredità intellettuale rimase viva e operativa.

E, d'altra parte, è da ritenere che “il patrimonio di idee, metodi, ispirazione complessiva” a cui fa riferimento Napolitani, non restasse confinato alla trasmissione dei manoscritti direttamente archimedei, ma si riflettesse nella sua attività matematica complessiva. Esso può essersi tradotto anche in un processo di assimilazione al paradigma greco-ellenistico della stessa arit-metica, fino ad allora cresciuta entro la tradizione dei maestri d'abaco. In questo senso può essere letto l'uso sistematico del principio d'induzione53.

53 Nella tradizione tardo medievale l'aritmetica viene sviluppata come raccolta di procedi-menti e regole di calcolo, senza una precisa linea logico deduttiva. Ricondurre l'aritme-tica al paradigma geometrico di tradizione greco-ellenistica, comporta invece che essa si sviluppi mediante l'enunciazione e la rigorosa dimostrazione di proprietà valide per

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Circa la possibilità che la diffusione di tale principio possa essersi effetti-vamente originata da Maurolico, si può trovare ampio riferimento, per esempio, in una recente pubblicazione di Rosario Moscheo54.Più avanti scrive ancora Napolitani:

Abbiamo già accennato all'inizio ad alcune linee di risposta: da un lato la tradi-zione archimedea porta allo svilupparsi di una visione geometrizzante della real-tà fisica, dall'altro all'invenzione di nuovi oggetti matematici nel campo della geometria di misura, sempre più generali. [...]Tartaglia, Commandino e Maurolico segnano in un certo senso la fine del rina-scimento delle matematiche. La loro opera apriva la strada alla ricerca originale e alla diffusione del sapere che loro avevano dissotterrato: Benedetti, Guidobal-do Dal Monte, Luca Valerio, Viete, Galileo, Clavio, e molti altri matematici del cadere del XVI secolo baseranno il loro lavoro su ciò che essi avevano compiu-to. Le varie accentuazioni dei tre approcci si rifletteranno cosi sull'opera della generazione immediatamente successiva.

È innegabile, in ogni caso, che, a partire dai decenni successivi, quel para-digma felicemente sperimentato nel secolo di Archimede, riacquista una nuova forza di propulsione. Su di esso ci soffermeremo nei capitoli seguen-ti. Per il momento vorrei sottolineare solo un punto del passo citato da Na-politani: l'invenzione di nuovi oggetti matematici (ma io dico, più generica-mente, scientifici) […] sempre più generali. Mi sembra essenziale, infatti, l'aspetto creativo, nella crescita della scienza. Aspetto che, per altro, può sussistere solo se si rinuncia a pensare gli oggetti scientifici come entità date a priori e si accetta di assumerli, piuttosto, come creazioni del pensie-ro. È per ciò, come vedremo, che non può esserci sviluppo evolutivo della scienza all'interno di una tradizione platonico-aristotelica.

tutti i numeri, o per intere classi (ad esempio: tutti i numeri pari, tutti numeri primi, tutti i numeri divisibili per 3, ecc.). Poiché tutti i numeri (o tutti quelli di una classe) sono infiniti) è chiaro che non basta effettuare delle prove concrete su quanti numeri si vuo-le. Il principio di induzione afferma, a tale scopo, che se una proprietà vale per il nume-ro 1 e se si può dimostrare che valendo per un dato numero deve valere anche per il successivo, allora la proprietà vale per tutti i numeri. Da allora questo principio divenne il fondamento di tutti i procedimenti dimostrativi in aritmetica.

54 R. MOSCHEO, Matematiche e storia a Messina alla vigilia del 1908. Note intorno a un coevo e incompiuto progetto editoriale, Atti Acc. Peloritana dei Pericolanti, Classe di Sci. Fis. Mat. e Nat., Vol. LXXXIX, No. 1, C1A8901004, 2011.

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7. Il tempo di Archimede

Chi erano i referenti di Archimede? Le sole indicazioni al riguardo proven-gono dalle brevi introduzioni in forma di lettera con cui hanno inizio alcuni dei suoi lavori. Ad eccezione dell'Arenario, indirizzato a Gerone, tiranno di Siracusa, tutti gli altri si rivolgono a studiosi di Alessandria. Precisamente, in tre casi, a Dositeo e, in un caso, a Eratostene. Nel De quadratura para-bolae, tuttavia, rivolgendosi a Dositeo egli dice che avrebbe voluto inviare il lavoro a Conone, con cui dichiara di avere avuto amicizia, se questo non fosse morto poco tempo prima. Il naturale rammarico espresso per la morte dell'amico, conosciuto personalmente e forse suo maestro, viene automati-camente interpretato, da molti commentatori, come prova certa di disistima verso tutti gli scienziati suoi contemporanei. Tale percezione, per altro, sembra avvalorata dal tono visibilmente di sfida e, per certi versi, di appa-rente irrisione usato nel trattato sulle spirali.Personalmente convengo che Archimede dovesse essere ben consapevole di una propria preminenza intellettuale e non vedo ragioni perché non te-nesse a evidenziarlo. Tuttavia mi sembra poco per escludere a priori che la sfida lanciata ai matematici suoi contemporanei potesse avere anche moti-vazioni ben più profonde di un semplice atteggiamento di distacco e di suf-ficienza.Al di là dei sentimenti più o meno dichiarati e dei giudizi personali, io cre-do, l'unico dato certo è che Archimede dovesse avere buone ragioni per in-viare ad Alessandria i risultati delle proprie ricerche. Né sembra che egli fosse il solo a farlo, se un atteggiamento simile si ritrova in Apollonio di Perga, quando in apertura del suo trattato sulle coniche si rivolge così a Eu-demo

Apollonio a Eudemo, salute.[...] Poiché avevo osservato nel nostro incontro, a Pergamo, che avevi fretta di avere notizia dei miei lavori sulle coniche, te ne mando il primo libro che ho corretto, e ti invierò gli altri dopo che ne sarò soddisfatto.Credo che non avrai dimenticato, [...] che è sulla richiesta del geometra Naucra-te, [...] in occasione della sua presenza ad Alessandria, che mi sono impegnato nella direzione di questo argomento e che, quando lui fu sul punto di imbarcarsi, mi sentii obbligato di metterlo al corrente di ciò che avevo già elaborato in otto libri, senza pensare alle correzioni, ma annotando tutto ciò che avevo trovato,

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avendo l’intenzione di effettuare una revisione ulteriore. Ora che ho avuto l’occasione di enunciare in successione le cose in maniera corretta, le pubblico.

Vi si apprende, dunque, che Apollonio fu a Pergamo dove conobbe Eude-mo, che soggiornò ad Alessandria, forse per ricevervi o per completare la sua formazione55, e che lì fu stimolato da Neucrate a intraprendere lo stu-dio delle sezioni coniche. Analogamente sappiamo che Archimede, da par-te sua aveva soggiornato ad Alessandria, e si può ragionevolmente ritenere che in quella città abbia ricevuto la sua piena formazione a contatto con Conone56. Ancora, secondo Pappo (IV secolo d.C.) Apollonio “studiò a lungo in Alessandria sotto gli allievi di Euclide”. Non sappiamo se Pappo avesse di ciò notizia diretta o se si trattasse soltanto di una sua deduzione. In ogni caso tutto porta a ritenere che Alessandria fosse non solo un centro di studi e di irradiazione della cultura in tutto il Mediterraneo, ma che vi operasse una vera e propria scuola di matematica presso la quale si forma-vano i giovani scienziati di tutto il mondo ellenistico. È vero che Fabio Acerbi, nella sua introduzione alle Opere di Euclide57, avanza dubbi sull'ipotesi, generalmente accreditata, che una scuola di tal genere funzio-nasse in forma istituzionale, per conto del Regno Egizio e nell'ambito del Museo. Tuttavia, istituzionalizzata o meno, è difficile pensare che il più grande centro culturale dell'epoca potesse sussistere senza una scuola.Nel passo di Apollonio si parla anche di pubblicazione dell'opera. Dopo l'invenzione della stampa un'espressione siffatta ha un significato ben pre-ciso e a noi familiare. Il primo atto che compie chiunque abbia scritto un li-bro, è di inviare il manoscritto (oggi il file) ad un editore che ne cura la ri-produzione e la diffusione in un numero più o meno grande di copie. Ciò assicura non solo la diffusione, ma l'attribuzione certa all'autore che, da ciò, trae autorevolezza, fama o altro. In che altro modo avrebbe potuto es-sere pubblicata un'opera nel III secolo a.C. se non inviandone copie a stu-diosi affidabili e di sicura fama, che, oltre a divenirne testimoni, potessero essere punti di riferimento e di irradiazioni del sapere? E quale poteva es-sere il luogo di riferimento ideale se non Alessandria, centro mondiale di 55 Secondo Pappo (IV secolo d.C.) Apollonio “studiò a lungo in Alessandria sotto gli al-

lievi di Euclide”. Non sappiamo se Pappo avesse di ciò notizia diretta o se fosse sem-plicemente una sua deduzione. In ogni caso

56 F. ACERBI, Euclide. Tutte le opere, Bompiani, Milano, 2007.57 Ibid, p. 183 e segg.

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formazione e sede della più grande biblioteca mai esistita?Fatta questa premessa, credo si possa affrontare uno dei nodi interpretativi centrali della figura e dell'opera del nostro scienziato: quello dei rapporti con il pensiero e la cultura del suo tempo. Se cioè continuare a rappresen-tarlo come genio isolato e incompreso, avulso dal contesto storico e cultu-rale, quasi che il semplice tentativo di immetterlo nel flusso della storia e delle dinamiche culturali possa in qualche modo intaccarne la genialità, l'originalità di pensiero e, in definitiva, la sacralità.Il problema, invece, che è di portata ben più generale, e investe il modo stesso di concepire la scienza, è di stabilire se può darsi produzione scienti-fica originale senza, o al di fuori, di un paradigma fatto di linguaggi e ap-parati concettuali condivisi da una comunità. Dice Netz:

In molte delle lettere di Archimede si coglie una timida nota di esasperazione, non c'era nessuno a cui scrivere, nessun lettore che fosse all'altezza […] Archimede sem-brava consapevole che stava scrivendo per i posteri, da Omar Khayyam a Leonardo da Vinci, da Galileo a Newton: furono questi i suoi veri lettori, coloro attraverso i quali egli averebbe avuto una vera influenza58.

Richiamo in particolare questo passo, non solo perché l'autore di esso si è imposto nell'ultimo decennio per gli studi sul palinsesto e per avere intra-preso la traduzione in inglese dell'opera archimedea, ma anche perché ha esplicitamente riconosciuto la necessità di rivedere la storiografia della ma-tematica, richiamandosi ad un programma in tal senso già proposto da Un-guru nel 197959.

58 R. NETZ, W. NOEL, Il codice perduto, Op. Cit., pag. 65.59 «Per la verità non tutti accettano che la matematica abbia una storia, mentre coloro che

difendono la storicità della matematica non hanno ancora sviluppato l'argomento. Io scrivo questo libro per riempire questa lacuna: si consideri, dunque, il fondamento sto-riografico. Il mio punto di partenza è un celebre dibattito sulla storia delle matematiche. Viene posto il seguente quesito: i caratteri significativi che caratterizzano la matemati-ca, sono storicamente determinati? Questo dibattito è stato aperto da un articolo di Un-guru del 1975» (R. NETZ, The Transformation of Mathematics in the Early Mediterra-nean World: From Problems to Equations, Cambridge University Press, 2004, Introdu-zione). L'articolo di Unguru a cui fa riferimento è: S. UNGURU, On the need to rewrite the history of Greek mathematics, Archive for History of Exact Sciences , vol. 15, no. 1, 1975, pp. 67-114. Successivamente lo stesso Unguru ripropone la questione dando forma ad un più esteso programma di revisione storiografica in S. UNGURU, History of

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Va detto, però, che il problema posto da Unguru nasce dalla constatazione che le presentazioni delle opere antiche, disponibili in lingua inglese nel Novecento, non sono delle vere traduzioni, ma piuttosto traslazioni nel lin-guaggio algebrico moderno, sconosciuto nell'antichità. Ciò veniva giustifi-cato partendo dal presupposto, di ascendenza platonista, che gli oggetti ma-tematici avessero una propria consistenza oggettiva indipendente dal lin-guaggio con cui vengono espresse. Non posso che condividere pienamente, dunque, l'esigenza di una revisione su questo versante. Ciò, tuttavia, non esaurisce, a mio avviso, il problema storiografico. D'altra parte in Italia una linea di tradizione storicista è stata presente per tutto il Novecento, rappre-sentata, sia pure in modi differenti dalle scuole di Giuseppe Peano, di Fe-derigo Enriques, fino, in tempi più recenti, a Ludovico Geymonat. Le stes-se traduzioni in lingua italiana curate da Federigo Enriques e da Attilio Fra-jese degli Elementi di Euclide e delle opere di Archimede sono, almeno da questo punto di vista, ben ben più rispettose del testo originale di quanto non lo siano le traslazioni algebrizzanti in lingua inglese di Heath e Dijk-sterhuis60. Ben altra questione è, invece, quella da me posta e che investe, sul piano dell'interpretazione concettuale e fondazionale, l'intera letteratura storico-critica, indipendentemente dalla fedeltà letterale al testo greco. Su questo terreno ho già tentato, in precedenti scritti61, di dare alcune risposte, e lo farò ancora nelle pagine che seguono. Ma fin d'ora vorrei meglio precisare i termini delle questione.Il breve passo di Netz citato sopra, tende chiaramente a sottolineare uno stato di isolamento culturale entro il quale il Nostro si sarebbe trovato ad

Ancient Mathematics. Some Reflections on the State of the Art, Isis, Vol. 70, No. 4, 1979, pp. 555-565.

60 Al di là dei limiti filologici che possono essere eventualmente rilevati nelle edizioni cu-rate da Frajese, rimane il dato oggettivo che queste si presentano come traduzione so-stanzialmente letterale del testo greco. Nell'edizione degli Elementi curata da Enriques sono presentate delle traslazioni in linguaggio algebrico, ma solo come commento in aggiunta al testo tradotto.

61 Oltre a quanto già citato e riportato in bibliografia, ho tenuto, su questo tema, una co-municazione dal titolo “Archimede fra tradizione e innovazione” al recente Congresso Nazionale SISFA (Società Italiana degli Storici della Fisica e dell'Astronomia, XXXIII Congresso, Acireale-Siracusa, 4-7 Sett. 2013) e il cui testo ho intensione di presentare per gli Atti.

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operare, senza possibilità né di attingere ad una base di sapere condiviso né di condividere con altri il frutto delle proprie ricerche. Non è difficile collegare questo giudizio ad una precedente pubblicazione62 dello stesso Netz da cui si desumerebbe che nel corso dell'antichità, su un arco di tempo di circa un millennio, i matematici a cui si possa attribuire questo nome, sarebbero stati complessivamente un migliaio, dunque stati-sticamente non più di 50-100 contemporaneamente operanti. Un numero troppo basso, secondo l'autore, per costituire una comunità scientifica. A me sembra, invece, un numero straordinariamente alto per l'epoca e, co-munque, sufficiente a mantenere vivo un paradigma scientifico condiviso. Ciò ovviamente non è la prova che il Nostro fosse parte di una comunità o comunque di una tradizione condivisa di pensiero e di ricerca, ma indica la possibilità che ve ne fossero le condizioni. Ha senso quindi porsi il proble-ma, e chiedersi cosa si possa intendersi per “solitudine “ e “isolamento” nel caso di Archimede. È del tutto verosimile che Archimede non potesse quotidianamente con-frontarsi sui temi delle sue ricerche con persone al suo livello. Non c'è dub-bio che la condizione dello scienziato nell'antichità fosse notevolmente più precaria di quella vissuta dai ricercatori a noi contemporanei, sia per la di-versa considerazione sociale della ricerca scientifica e la conseguente di-versa organizzazione, sia per la diversità dei mezzi di comunicazione. Ed anch'io tuttavia, posso assicurarlo, non vedo quotidianamente intorno a me persone con cui possa discutere delle mie ipotesi, delle mie indagini e delle mie conclusioni. Non è difficile allora pensare che nel terzo secolo a.C., per uno scienziato come Archimede, la situazione, sotto questo aspetto do-vesse essere molto più pesante. Ma è solo di questo che si intende parlare nel dipingerlo come un “genio isolato”? Se così fosse non avrei altro da aggiungere. Temo tuttavia che il giudizio venga automaticamente, e forse talora involontariamente, esteso a qualcosa di più profondo e significativo. A meno, infatti, che non si assuma una posizione di platonismo nella sua forma più ingenua, bisogna ammet-tere che nessun pensiero scientifico potrebbe sussistere senza un adeguato apparato linguistico concettuale che, in quanto tale, deve essere in qualche

62 R. NETZ, Greek Mathematicians: A Group Picture, in Science and Mathematics in An-cient Greek Culture, edited by C. J. Tuplin and T.E Rihll, Oxford University Press, New York, 2002.

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modo e in qualche misura, necessariamente condiviso. Ho già usato più volte l'espressione “paradigma scientifico”, mutuandolo da Thomas Kuhn, ma devo dire che, come ho avvertito in altre occasioni, intendo utilizzarlo con molta più libertà e flessibilità di quanto non abbia fatto lo storico e filosofo americano63. Parlerò quindi di paradigma in senso stretto, riferendomi, come fa Kuhn, a un preciso sistema teorico con i suoi concetti fondamentali, le sue ipotesi (postulati) e i suoi metodi ammessi, in contrapposizione a un paradigma precedente o successivo. Ma parlerò di paradigma anche in un'accezione più generica, per indicare la struttura stessa della scienza matura e dei suoi presupposti epistemologici, in con-trapposizione ad uno stadio epistemologicamente diverso di ciò che viene chiamato scienza. Anche questo, forse, si potrà meglio intendere nel pros-simo capitolo. La domanda è, però, a questo punto: esisteva, ed è chiaramente individua-bile, un paradigma scientifico nel secolo di Archimede? La mia risposta e sì. È quello che già altrove ho chiamato paradigma euclideo. Non c'è dub-bio che Archimede lo abbia ulteriormente sviluppato attraverso l'invenzio-ne di nuovi oggetti concettuali e nuove procedure, in una parola di un avanzamento di paradigma. Ma perché questo avesse un senso era necessa-rio che egli si ponesse originariamente in un paradigma già consolidato. Se tutto questo va analizzato e verificato in dettaglio, così come faremo nei prossimi capitoli, la domanda più ardua è come sia avvenuto che nei secoli successivi non si trovasse più traccia di alcuni dei capisaldi di questo para-

63 Nella prima edizione del suo fondamentale lavoro (Th. Kuhn, The Structure of Scienti-fic Revolutions, Chicago University Press, 1962), Kuhn usa il concetto senza una preci-sa delimitazione, comprendendo in esso non solo le effettive pratiche di ricerca, ma an-che l'intero complesso di credenze e convinzioni condivise da una comunità scientifica. Nella seconda edizione, per far fronte alle critiche avanzate da più parti lo delimita, in-tendendo con tale termine, un complesso di norme e procedure che, avendo avuto già successo nella risoluzione di una classe di problemi scientifici, viene assunto e general-mente accettato, in una data fase storica, dall'intera comunità scientifica. Ciò fino a quando nuovi problemi si presentano refrattari e insolubili all'interno del paradigma universalmente accettato. È allora, secondo Kuhn, che un nuovo paradigma, prima con difficoltà e con molti avversari, si presenta sulla scena, per poi nel caso abbia successo si afferma sostituendo il precedente e determinando così ciò che egli chiama rivoluzio-ne scientifica. È ciò che avviene, per esempio, nel passaggio dal sistema tolemaico a quello copernicano, o dalla teoria del calorico alla teoria cinetica del calore o, ancora, dalla fisica classica a quella relativistica e quantistica.

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digma scientifico e, in modo specifico, di quelli che ne avevano consentito la fecondità creativa. Purtroppo sono possibili soltanto ipotesi più o meno attendibili e più o meno esplicative. Sicuramente vi sarà, con la caduta dei regni ellenistici, un profondo mutamento di prospettiva culturale, ideale e politica. Ma in più, come vedremo, si può ipotizzare un periodo di cesura, forse anche breve, ma sufficiente perché non si riuscisse più a trovare la chiave di lettura di quei sistemi linguistici e concettuali entro cui si era po-tuto sviluppare il pensiero scientifico ellenistico.

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8. Archimede e i fondamenti

In tutta l'opera di Archimede si suppone come un fatto scontalo la preesi-stenza di una geometria elementare, con i suoi postulati, le sue regole, i suoi teoremi. A questi egli fa riferimento tutte le volte che se ne presenta l'esigenza nel corso delle dimostrazioni. Il corpus complessivo di tali cono-scenze, in linea di massima, coincide con quanto è già contenuto negli Ele-menti di Euclide, anche se, in generale, non ne viene citato esplicitamente il nome. Quando affermo, però, che Archimede si pone entro un paradigma che definisco euclideo, non mi riferisco solo, né tanto, all'assunzione di puri dati contenutistici ma, soprattutto, al percorso logico e alla struttura ipotetico-deduttiva. Chiunque abbia affrontato, anche con limitato impegno, lo studio della geometria in un normale corso liceale, ne avrà sperimentato almeno l'impianto fondamentale. Avrà, quindi, osservato come l'intero percorso ab-bia inizio con alcune affermazioni da assumere in modo indiscutibile e sen-za giustificazione alcuna: i postulati. Da essi, e solo da essi, si parte per di-mostrare i teoremi, attraverso procedimenti logico-formali rigorosamente prestabiliti, universalmente accettati, e sottratti ad ogni possibile valutazio-ne soggettiva. L'impatto, per il giovane studente, è talmente forte, da disorientarlo e in-durlo, molto spesso, alla chiusura e al rifiuto di qualcosa che gli appare in-comprensibile e misterioso. Di cosa si sta realmente parlando? E cosa deve indurre ad accettare i postulati? Gli verrà detto che si accettano come tali perché sono evidenti. Ma se ha un po' di spirito critico si chiederà cosa si-gnifica evidenti. E perché, allora, su tante altre cose che gli appaiono, con lo stesso criterio, non meno evidenti, lo si tormenterà chiedendogli di di-mostrarle? E poi di cosa si sta parlando? Di oggetti di cui non si può avere alcuna esperienza. Un punto che è indivisibile e non ha dimensioni. Una li-nea che non ha spessore e che si prolunga senza alcun limite. Dove? «All'infinito» gli verrà detto. Ma cos'è l'infinito? Se proseguirà gli studi matematici all'Università s'imbatterà, prima o poi, nella famosa frase riferi-ta a Bertrand Russel: «La matematica è quella cosa in cui non si sa di cosa si parla né se quello che si dice sia vero». Eppure, lo stesso giovane si renderà conto che questo misterioso apparato,

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detto matematica, si dimostra di così straordinaria efficacia da consentire, non solo la rappresentazione e la comprensione di un mondo altrimenti caotico, ma anche di trasformarlo con le più impensabili realizzazioni tec-nologiche. Qual'è, allora, la chiave di lettura? Cosa consente al matematico di fissare concetti così sfuggenti alla comune comprensione, come il punto e la linea e di fissarne le proprietà con dei postulati indiscutibili? Un'ispira-zione divina, come si presumeva dell'Archimede mitico, posseduto dalle muse? O, come voleva Platone, essi sono già scritti e sepolti nell'anima fin dall'origine, e il riconoscerli è solo un atto di reminiscenza?E perché non pensare, invece, che qualcuno, forse Euclide, o forse altri pri-ma di lui, abbia ritenuto più produttivo accantonare queste domande, la-sciandole al filosofo metafisico perché non produttive, ed anzi paralizzanti, per gli sviluppi della scienza? Basterebbe allora accettare un postulato se esso mi fornisce la base per fondare razionalmente una tradizione di risolu-zione di problemi ben radicata e accettata. Già Negebauer, per altro, fin dal 1957 metteva in dubbio l'influenza della filosofia platonica sulla matemati-ca greca64, e ancora in modo più netto si esprimeva Knorr, nell'assimilare questa scienza ad una pratica di problem solving lontana da preoccupazioni filosofiche65. È questo un elemento centrale di quello che ho chiamato pa-radigma euclideo, proprio perché ne garantisce la vitalità e la capacità di crescere e rinnovarsi. Se, riteniamo, infatti che gli oggetti costitutivi di un sapere scientifico debbano essere già dati e preesistenti alla nostra attività di ricerca, se riteniamo ancora che gli enunciati su tali oggetti debbano es-sere proprietà intriseche, presenti in essi e nella loro natura, allora nessun nuovo concetto può essere inventato, che non sia già noto a priori. A meno che non si presuma una qualche forma di illuminazione mistica o di ispira-zione divina. Possiamo comprendere allora che, se nei secoli successivi è prevalsa una visione siffatta, la feconda creatività inventiva dimostrata da Archimede dovesse apparire quanto meno miracolosa. Si spiega altresì il dato incontestabile che, da un certo momento, e fino alla definitiva eclissi 64 V. NEUGEBAUER, O. (1952), The exact sciences in antiquity, Ediz. Italiana: Le scienze

esatte nell’antichità, Feltrinelli, Milano, 1974, pp. 183-84.65 «But I do not imagine the ancient geometers as constantly looking over their shoulder.

[...] The notion that ancient mathematics was somehow a vast exercise in dialectical philosophy must miss a very important point: that geometry is rooted in an essentially practical enterprise of problem solving» (W. R. KNORR, Archimedes and the Elements, Arch. Hist. Exact Sci., 19, n.3, 1978, pp. 211-290).

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del mondo antico, le scienze, pur se praticate con acutezza e passione da scienziati quali Erone, Pappo, Diofanto e Tolomeo, non abbiano più pre-sentato quella potenzialità innovatrice che nel III secolo aveva raggiunto il suo apice.Ed è perciò che, invece, Archimede, non vincolato a pregiudizi metafisici, ha potuto esprimere al meglio la sua genialità inventiva, assumendo piena-mente il paradigma euclideo e sviluppandolo ulteriormente con nuovi con-cetti e più ardite procedure. Un primo esempio, che io e Giuseppe Gentile abbiamo già messo in evi-denza66, è costituito dalle argomentazioni con cui il nostro scienziato tende a giustificare l'uso di quell'assunzione che va, oggi, sotto il nome di postu-lato di Eudosso-Archimede. In una formulazione generale, in termini mo-derni esso afferma che:

Date due grandezze, di una classe omogenea (per esempio tutte lunghezze, o tutte aree, o tutte volumi, o anche grandezze fisiche come pesi o altro), esiste un multiplo della più piccola che supera la più grande.

Archimede però enuncia il postulato di volta in volta per singole classi di grandezze, ad esempio per i volumi dei solidi o per le figure piane. Il po-stulato gli è necessario per dimostrare teoremi sulle quadrature e cubature di figure curvilinee con il metodo detto di esaustione. È il caso di riportare per intero il passo in cui egli introduce il postulato nella quadratura della parabola, dandone una breve giustificazione:

Dimostriamo infatti che qualunque segmento compreso da una retta e da una se-zione di cono rettangolo è uguale a 4/3 del triangolo avente la stessa base e al -tezza uguale al segmento: ciò avendo assunto il seguente lemma per la sua di-mostrazione: date due aree disuguali è possibile, aggiungendo a se stesso l’eccesso di cui la maggiore supera la minore, superare ogni area limitata data. Anche i geometri anteriori a noi si son serviti di questo lemma: infatti se ne sono serviti per dimostrare che i cerchi stanno tra loro in ragione duplicata dei diame-tri, e che le sfere stanno tra loro in ragione triplicata dei diametri, e ancora che ogni piramide è la terza parte del prisma avente la stessa base della piramide e uguale altezza, e che qualunque cono è la terza parte del cilindro avente la stessa base del cono e altezza uguale, ciò assumendo un lemma simile a quello suddet-

66 G. GENTILE, R MIGLIORATO, Archimede platonico o aristotelico. “Tertium non datur”?, Atti dell’Acc. Peloritana dei Pericolanti, Classe di Sci. Fis. Mat. e Nat., Vol. LXXXVI, 2008.

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to. Accade ora che dei suddetti teoremi ciascuno è considerato non meno degno di fiducia di quelli dimostrati senza questo lemma: a noi basta che venga con-cessa simile fiducia ai teoremi da noi qui dati67.

Archimede, dunque, invoca fiducia, ma non in nome di una pretesa di veri-tà, né, ancor meno, di un'evidenza in sé di qualcosa. La forza della fiducia richiesta è, invece, fondata su tre elementi: il fatto che altri geometri, in passato, se ne siano serviti, che nessuno abbia avanzato obiezioni, ma che i teoremi con essi dimostrati abbiano continuato a riscuotere unanime fidu-cia; infine l'auspicio che anche i teoremi ora dimostrati possano godere del-la stessa fiducia. Né si può fare a meno di osservare come, non solo la ri-chiesta di fiducia fatta da Archimede appaia diretta più alle conseguenze che alla stessa premessa, ma anche egli sembri affidare gran parte della sua forza argomentativa alla quantità ed alla qualità dei risultati che quella pre-messa ha consentito storicamente di raggiungere. Sono esattamente i termi-ni di quello che abbiamo definito essere un paradigma scientifico, e non certo quelli di una riflessione filosofica di ascendenza metafisica.Occorre subito aggiungere che il passo appena citato non è unico, né pura-mente episodico, e quanto ora osservato è suscettibile di un'ampia varietà di riscontri. Così è se si pensa alle reiterate elencazioni che Archimede fa dei risultati che con tale lemma è stato possibile ottenere come, ad esem-pio, nella lettera introduttiva a Sulla sfera e sul cilindro, il cui passo qui si riporta:

Perciò non ho esitato a porre queste proposizioni accanto a quelle già trovate da altri geometri, ed a quei teoremi, che sembrano di molto superiori, che Eudosso stabilì sulle figure solide, cioè che ogni piramide è la terza parte del prisma avente la stessa base della piramide ed uguale altezza, e che ogni cono è la terza parte del cilindro avente la stessa base del cono ed uguale altezza68.

Si noti come qui Archimede faccia riferimento ad Eudosso quale figura che può, nell’ambito del nostro discorso, garantire la plausibilità dell’assunzio-ne archimedea. Anche Seidemberg si interroga sul perché il Nostro senta il bisogno di giustificare quest'assunzione mentre nulla dice sulle altre quat-tro che la precedono nello stesso lavoro. Ecco come si esprime in proposi-to:

67 ARCHIMEDE, dalla lettera introduttiva al De quadraturae parabolae.68 ARCHIMEDE, dalla lettera introduttiva al De Sphaera et cylindro.

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… penso che [si preoccupi] della natura delle sue assunzioni. Egli invoca il nome di Eudosso, proprio in riferimento all'ipotesi 5, ma questa appare solo in riferimento ad alcuni teoremi nelle cui dimostrazioni è stato utilizzato. Le [altre] quattro nuove assunzioni meritavano un commento, ma Archimede non riusciva egli stesso a formularne una69.

Si potrebbe discutere a lungo sulle presunte preoccupazioni di Archimede, ma io ribadisco la mia riluttanza ad inferire pensieri non esplicitamente espressi dall'autore. Di sicuro, però, se riteniamo che la sussistenza di un paradigma condiviso assumesse un ruolo fondativo primario, appare più che giustificato il riferimento, ove esistente, a quanto già fatto da altri, an-cor più se tra questi vi è una figura come Eudosso.Ed ancora, nella lettera introduttiva al Metodo, così scrive Archimede:

Perciò anche di quei teoremi, dei quali Eudosso trovò per primo la dimostrazio-ne, intorno al cono e alla piramide, [cioè] che il cono è la terza parte del cilindro e la piramide [è la terza parte] del prisma aventi la stessa base e altezza uguale, non piccola parte [del merito] va attribuita a Democrito, che per primo fece co-noscere questa proprietà della figura suddetta, senza dimostrazione70.

E qui appare ancora più chiaro il riferimento ad una tradizione accettata di soluzioni di problemi ai quali l'assunzione del postulato fornirebbe una so-lida base razionale. Va qui osservato, sia pure incidentalmente, che Demo-crito è l'unico filosofo esplicitamente citato da Archimede. In particolare, nei suoi testi non compaiono mai i nomi di Platone o di Aristotele, né si trovano espliciti richiami ai concetti fondamentali dei rispettivi sistemi fi-losofici.Vorrei richiamare ancora due esempi relativi, però, a ipotesi scientifiche non riferite alla geometria ma, rispettivamente, alla meccanica e all'astro-nomia. Ne farò appena un cenno, anticipando questioni che saranno riprese altrove.Nel primo libro sui galleggianti, si ipotizza che i pesi dei corpi siano diretti 69 «Though it’s harder to see what Archimedes is doing here, I think he is doing the same

thing, namely, worrying about the nature of his assumptions. He invokes the name of Eudoxus, really in reference to Assumption 5, but this is veiled by a reference only to some theorems in the proofs of which it was used. The four new assumptions deserved a remark, but Archimedes could not bring himself to make one» (A. SEIDENBERG, Did Euclid’s Elements, Book I, Develop Geometry axiomatically?, Arch. Hist. Exact Sci., 14, 1974 283-295).

70 ARCHIMEDE, dalla lettera introduttiva al Metodo.

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verso il centro della terra e, sulla base di tale ipotesi, si dimostra la sfericità della superficie del mare. Nel secondo libro, che studia il comportamento di corpi galleggianti, si suppone che i pesi delle diverse parti siano tra loro paralleli. La due differenti ipotesi sono facilmente spiegabili perché, nel primo caso, i fenomeni studiati si estendono su un ampio spazio, quello delle dimensioni dell'intero globo terrestre, mentre nel secondo caso, trat-tandosi di corpi di estensione limitata, l'assunzione di forze parallele costi-tuisce un'approssimazione priva di conseguenze rilevabili. Nulla di strano, dunque, se ci poniamo in una prospettiva che ci è del tutto familiare secon-do una visione moderna della scienza. Apparirebbe invece del tutto incom-prensibile e contraddittoria se ci ponessimo dal punto di vista della filoso-fia platonica. Se la scienza è vista, infatti, non come un semplice modello esplicativo dei fenomeni nel mondo sensibile, ma come una ricerca della verità, allora una delle due ipotesi dovrebbe essere necessariamente falsa. Ma questo obiettivo di “verità in sé” non è ciò che muove, evidentemente, la ricerca di Archimede. Egli può scegliere tra ipotesi differenti, quella che, di volta in volta, nelle condizioni date, appare più funzionale e meglio esplicativa. Non diversamente da ciò che fa un fisico moderno quando adotta la meccanica classica alla scala dei fenomeni macroscopici e la mec-canica quantistica per i fenomeni a scala subatomica.L'altro esempio lo troviamo nell'Arenario. Archimede vuol far vedere come sia possibile esprimere un numero straordinariamente grande, qule può es-sere quello dei granelli di sabbia necessari per riempire una sfera grande quanto l'intero universo. A tale scopo considera diverese possibili defini-zioni di universo, scegliendo quella che dà luogo alla sfera di maggiore di-mensione. Le due possibili ipotesi fondamentali sono quelle che presup-pongono un sistema geocentrico (la terra al centro e gli astri che ruotano intorno) oppure eliocentrico (il sole sta al centro mentre la terra e gli altri corpi ruotano intorno). Ebbene, al di là di altre considerazioni, su cui torne-remo, Archimede sceglie la seconda ipotesi, non perché la assuma, almeno in quest'occasione, come quella vera, ma perché essa conduce alla defini-zione di un universo di dimensioni maggiori. Ancora una volta la scelta è effettuata in ragione di un obiettivo funzionale e non perché guidata da una presunzione metafisica.Prima di chiudere questo capitolo voglio osservare come un approccio ana-logo, cioè di tipo funzionale, non è nuovo e si può già rilevare, prima di

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Archimede, già in Euclide. Esso è rilevabile, per esempio, nei postulati dell'ottica, ma anche nei Fainomena, dove si dà una descrizione del moto degli astri. Non essendo questo, però, il luogo per trattare l'argomento, rin-vio chi volesse approfondirlo, ai miei precedenti lavori già citati su Eucli-de.

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9. Mito, scienza, metafisica

Può apparire sorprendente come quello stesso passo di Archimede che ho citato per primo nel capitolo precedente abbia avuto interpretazioni total-mente opposte a quella da me esposta. La richiesta di fiducia da parte di Archimede fa dire per esempio a Frajese:

E va pure detto che chiedendo fiducia nei suoi teoremi dedotti da quel lemma, Archimede mostra di trovarsi qui ancora nell’atmosfera di una concezione plato-nica della matematica: i postulati non devono in alcun caso essere arbitrari, ma (essi e i teoremi che se ne deducono) devono risultare veri71.

Attilio Frajese presume, evidentemente, che se ci si pone in una prospettiva non platonista, allora le assunzioni fondamentali, assiomi o postulati, deb-bano essere assolutamente arbitrarie e non richiedere alcun criterio di ac-cettabilità. È questo, d'altronde, l'assetto formalista assunto dalla matemati-ca del Novecento, a partire da Hilbert. Un assetto la cui consistenza si ridu-ce a semplici strutture formali: un sistema di segni, una scelta arbitraria di assiomi e le regole per operare su di essi, con esclusione di qualunque si-gnificato esplicito. Ma anche in tale contesto, si tratta solo della forma fi-nale del prodotto matematico, così come esso si presenta nella sua ultima presentazione.Il significato, anche qui è solo accantonato e nascosto: da esso non si può prescindere nelle fasi più creative della ricerca. Ancor più critica è la que-stione se, poi, si vuol trascendere dal puro discorso sulla matematica per affrontare quello della scienza nella sua globalità e di cui la matematica co-stituisce solo un aspetto, sia pure fondamentale. Si può avere una meccani-ca classica e una quantistica, si può convenire che teorie differenti possono spiegare altrettanto bene gli stessi fenomeni, però nessuno potrebbe pensa-re di costruire una teoria meccanica scegliendone i principi in modo arbi-trario, né che il sistema tolemaico e quello copernicano siano tra loro scambiabili. Del tutto improponibile è, poi, la visione formalista, se posta in relazione alla scienza nel suo percorso storico, a partire dall'antichità. Nel capitolo

71 Ibid. p. 482, nota 3.

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precedente si citava un brano di Seidenberg tratto da una sua pubblicazio-ne72 in cui l'autore si chiede, sostanzialmente, se gli Elementi di Euclide siano da considerare come un sistema formale nel senso moderno (hilber-tiano), per concludere con una risposta negativa. E con tale risposta negati-va credo si debba pienamente concordare. L'alternativa al formalismo non è, tuttavia, il platonismo, come sembra presumere Frajese e non lui soltan-to. Per fare adeguata chiarezza, a questo punto, è necessario porre le cose det-te entro una visione generale della scienza, del suo procedere e della sua genesi storica. A questo riguardo ho già ampiamente esposto il mio punto di vista in La ragione e il fenomeno73 dove, assieme ai presupposti episte-mologici della scienza, ho affrontato i problemi della sua genesi storica, della sua evoluzione, dei suoi significati e valenze culturali, ideali e sociali, delle prospettive connesse con la complessità e la globalizzazione nel mon-do attuale. Qui mi limiterò, quindi, a richiamare sinteticamente quanto ne-cessario per il nostro discorso, rinviando a quel lavoro per ogni ulteriore approfondimento.Com'è noto, il problema della demarcazione, cioè dei criteri distintivi tra ciò che si ritiene appartenere alla scienza e ciò che vogliamo sia ad essa estraneo, ha attraversato, come tema dominante, tutta la filosofia della scienza nel corso del Novecento. Non è questa la sede per dare conto, sia pure sinteticamente delle diverse fasi e dei differenti punti di vista. Vorrei richiamare, però, uno dei più appariscenti fenomeni connessi a questo per-corso, e da cui prende avvio il mio libro: la progressiva separazione delle due culture che ha caratterizzato il Novecento, quella scientifica e quella cosiddetta umanistica, a cui soltanto, talvolta, si attribuisce la dignità di cultura in senso proprio. Il nucleo emblematico in cui si riassume tale di-varicazione sta nel rifiuto, da una parte, di ogni domanda metafisica, nel re-legare, dall'altra, il discorso scientifico al ruolo di attività utile ma vuota di significati esistenziali. Non c'è dubbio, infatti, che ogni autentica domanda metafisica è di per sé indecidibile: nessuna procedura logica o empirica po-trà mai fornire risposte definitive e universalmente accettate. D'altra parte l'indispensabile separazione del discorso scientifico da ogni implicazione metafisica, determina la sua riduzione ad apparato formale, rischiando di

72 V. nota 69.73 Citato.

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ridurne gli oggetti a meri segni convenzionali privi di significanza e di con-sistenza ontologica. La domanda che si pone, a questo punto, è se non si possa, invece, elabora-re un punto di vista da cui osservare quel complesso di fatti culturali, di pratiche, di linguaggi e di apparati concettuali che vanno sotto il nome di scienza, nel loro completo sviluppo ed in relazione con ogni altra dimen-sione dell'esperienza umana, senza perderne di vista, al contempo, le esi-genze specifiche che ne garantiscono la funzionalità e la ragion d'essere. La mia risposta è positiva, a condizione che la scienza non sia vista come una struttura statica e definitivamente data, ma alla stregua di un organismo vi-vente che nasce e si sviluppa, trasformandosi continuamente. Anche il pro-blema della demarcazione acquista, allora, una connotazione nuova. Per esprimerla con una metafora è come se mi chiedessi cosa mi consente di dire che io, così come mi vedo oggi, riconoscendomi nei miei pensieri e nella mia immagine allo specchio, sono la stessa persona raffigurata in quella foto di bambino di tre anni, oltre che nei miei ricordi d'infanzia. O, ancora, a identificare la farfalla di oggi con il bruco che fu ieri.L'approccio storicistico di Thomas Kuhn, da cui, come già detto, è mutuato il concetto di paradigma, è certamente un ottimo punto di partenza, ma a condizione, anche qui, che lo stesso punto di osservazione e di indagine epistemologica, non sia considerato come rigido e invariabile nel tempo. Gli stessi strumenti concettuali, di volta in volta elaborati dalla filosofia della scienza, per essere poi criticati e respinti, possono invece costituire un utile patrimonio se non irrigiditi come gabbie di ferro74. Non si può, innanzitutto, non fare i conti con il problema primario della co-

74 A questo proposito, un passo di Hilary Putnam mi colpisce particolarmente quando af-ferma: «Il vizio che da sempre affligge i filosofi sembra essere quello di gettare via il bambino con l'acqua sporca. Fin dagli albori, ogni “nuova ondata” di filosofi nel pro-muovere la propria posizione ha semplicemente ignorato le intuizioni dei predecessori. Oggi siamo prossimi alla fine di un secolo in cui vi sono state molte nuove intuizioni in filosofia; ma allo stesso tempo si è avuto un oblio senza pari delle intuizioni dei secoli e millenni precedenti» (H. PUTNAM, The threefold Cord: Mind, Body and World, (1999), Ediz. Ital. Mente, corpo, mondo, Il Mulino, Bologna, 2003). La separazione po-sitivista tra sciena e metafisica, la svolta linguistica di Wittngstein e Rorthy, il concetto di falsificabilità di Popper, così come gli stessi concetti di paradigma e rivoluzione scientifica di Kuhn, ove non irrigiditi in sistema statico, possono tutti contenere bambi-ni da recuperare prima di gettar via l'acqua sporca.

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noscibilità del mondo. Basta qui prendere atto che nulla è dato conoscere se non i dati fenomenici effettivamente percepiti durante l'esperienza di ciascun individuo. Ma il mondo, come somma e accumulo di percezioni, è solamente Caos, il Nulla primordiale di ogni racconto sull'inizio e sulla creazione. All'inizio era il Caos, recita il primo verso della Teogonia di Esiodo. Il mito è la forma prima e irrinunciabile attraverso cui le ombre dell'universo caotico e delle percezioni, diventano entità intelligibili, diven-tano Mondo che emerge dal Nulla, in quell'atto di creazione che, fin dalla nascita, si ripete, sempre uguale e sempre diverso, in ognuno di noi. La metafora è la struttura fondamentale attraverso cui si costituisce il mito e si stratifica in forme sempre più complesse che, attraverso il linguaggio, co-stituiscono la base comune e socializzata di ogni visione del mondo. Di un mito non ci si chiede se è vero o falso, ma di quali significati è veicolo, di quali concetti astratti e inafferrabili è metafora.Che il mito sia parte fondamentale dell'identità culturale di un popolo, ap-partiene al senso comune e mai verrebbero messi in discussioni i suoi stret-ti legami con l'arte e la poesia. Più recente è il suo recupero nei rapporti con la scienza. È stato, in particolare Ernest Cassirer a esplorarne le affinità profonde nei processi dell'ideazione e della costruzione di strutture concet-tuali. È stato Cassirer nella sua Filosofia delle forme simboliche, a ricono-scere la natura linguistico-culturale di quelle forme fondamentali dell'intel-letto che Kant voleva a priori. Spazio, tempo, numero, sostanza, causalità, ecc., non sono, per Cassirer, strutture innate e preesistenti della mente uma-na, ma forme simboliche costruite collettivamente, attraverso il linguaggio, e soggette a mutare nel corso della storia e tra le differenti civiltà e culture. Ciò porta, quindi, a riconoscere nella genesi dei linguaggi e della strutture concettuali della scienza, quelle stesse dinamiche, o almeno ad esse analo-ghe, con cui si costituisce il mito. Ma se a Cassirer spetta il merito di avere riconosciuto l'affinità genetica tra scienza e mito, per il costituirsi delle strutture linguistico-concettuali di base, insufficiente è la sua risposta quan-do si tratta di differenziare queste due dimensioni della rappresentazione del mondo. Ciò che accomuna scienza e mito è in primo luogo l'obiettivo primario di dare forma razionale ed esprimibile al caos incomprensibile dei fenomeni a cui forniscono senso e significato. Entrambi procedono attraverso una in-cessante attività creativa, produttrice di nuove entità concettuali sempre più

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astratte, simbolizzate nelle forme dell'analogia e della metafora. Entrambe costruiscono rappresentazioni e spiegazioni del mondo. Ma la scienza na-sce da un insopprimibile bisogno di prevedere ed, eventualmente, di modi-ficare il corso dei fenomeni, oltre che di darne una spiegazione. Un'esigen-za che nasce dall'intera esperienza del vivere, dal bisogno di costruire sé stessi nella propria proiezione futura, ma anche dalle esigenze pratiche di predisporre i mezzi della propria sussistenza. Se è facile prevedere che do-mani sorgerà ancora il sole e che le stagioni si ripetono ciclicamente, meno facile sono molte altre previsioni più o meno essenziali. Anche il mito svolge i suoi tentativi: dalla divinazione, all'oracolo, alla profezia. Mentre la sua capacità esplicativa appare, però, molto più forte e circostanziata di quanto non possa fare la scienza, fallace si manifesta, invece, la sua capaci-tà predittiva. Non c'è evento, infatti, a cui il mito non sappia dare una spie-gazione e fornire una causa, sia pure attraverso l'intervento di una volontà divina. Ma l'oracolo, quando non è incomprensibile e suscettibile di inter-pretazioni opposte e contraddittorie, è destinato quasi sempre ad essere smentito dai fatti. «Noi che sappiamo dire tante bugie simili al vero» dice la Musa a Esiodo «sopiamo dire anche il vero, quando ci aggrada». Il primo carattere che distingue la rappresentazione scientifica del mondo, rispetto a quella mitica, consiste allora nel sottrarre la spiegazione degli eventi all'alea di volontà imperscrutabili e capricciose. Non più soggetti dotati di volontà e libero arbitrio, ma entità impersonali, governate dalla cieca necessità delle “leggi di natura”. È la rivoluzione di Democrito e di Pitagora. La storia della scienza e delle sue interpretazioni epistemologiche può dar luogo di volta in volta a modelli più o meno esplicativi e rappresentativi dei fatti. Ciò da cui tuttavia non è possibile prescindere è la sua effettiva capacità predittiva. Ma con quali regole, quali dinamiche e su quali criteri selettivi può costi-tuirsi un nucleo siffatto e come può effettivamente rispondere al suo ruolo insieme esplicativo e predittivo? Io credo che convenga fermare qui il no-stro discorso generale sulla scienza, lasciando il resto al suo costituirsi nel-la storia. Ci limitiamo ad aggiungere solo che il requisito della predittività, come criterio di demarcazione tra la rappresentazione scientifica del mon-do e ogni altra forma di rappresentazione, porti con sé, come corollario, l'oggettiva controllabilità degli esiti finali di ogni atto predittivo. Ma ciò si-

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gnifica due cose. Intanto la necessità di sottrarre i giudizi alle variabilità in-dividuali ed alle opinioni dei singoli studiosi e operatori, e questo, ove non voglia essere legato a irraggiungibili quanto sterili pretese di verità ed evi-denza, deve costituirsi attorno a un un proprio nucleo di formulazioni che sia stabile e condiviso, ma allo stesso tempo sufficientemente flessibile di fronte alle esigenze di cambiamento. È ciò che abbiamo chiamato paradig-ma.In secondo luogo la predittività è un'idea strettamente legata a quella di fu-turo. Nessuna convalida delle ipotesi scientifiche può essere fondata su giudizi di verità a priori. Questi presiedono alla costituzione, in forma ipo-tetica, dei concetti e delle costruzioni teoriche capaci di darne una spiega-zione, ma ogni convalida di essi dovrà avvenire a posteriori, in base all'esperienza di successo o insuccesso di atti predittivi conseguenti a quell'apparato teorico. È chiaramente il caso del metodo sperimentale nelle scienze della natura ma, come vedremo, non soltanto di questo.Dev'essere chiaro, però, che non intendo affatto escludere, con ciò, che ogni scienziato possa avere le sue personali convinzioni sulla verità e im-mutabilità dei principi. Se lo facessi rischierei di incorrere in difficoltà dif-ficilmente superabili anche nella storia della scienza moderna. È difficile pensare, ad esempio, che senza una profonda e radicata convinzione di ve-rità, Galileo potesse affrontare un processo e una condanna, quando gli sa-rebbe stato sufficiente seguire i suggerimenti del cardinale Bellarmino per evitarla75. Né ci è facile pensare che la concezione deterministica di Lapla-ce venisse posta come semplice assunzione funzionale76. L'apparente contraddizione si risolve facilmente, però, ove si distingua in-tanto tra convinzione ed evidenza. Un conto è, infatti, raggiungere in qua-lunque modo una convinzione e operare per ottenerne l'altrui condivisione, altro è cercare un'improbabile e irraggiungibile evidenza che, per sua in-trinseca natura, dovrebbe essere condivisa a priori 77. Ancor più la contrad-

75 Com'è noto Bellarmino suggeriva a Galileo di affermare che il sistema eliocentrico esprimesse non già la vera struttura dell'Universo, ma si limitasse a darne una rappre-sentazione matematica efficace e in grado di “salvare i fenomeni”.

76 Si potrebbe continuare includendo anche le perplessità di Einstein nell'accettare, nella fisica quantistica, quelle interpretazioni più radicali che pongono fine alla concezione determinista.

77 Vero è che Cartesio, come già Aristotele, pone l'evidenza come fondamento irrinuncia-bile della razionalità e, tuttavia, riesce a costruire, nell'ambito della matematica un edi-

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dizione si dissolve se si guarda alla scienza come processo storico, frutto dell'effettivo e concreto operare degli scienziati. Il prodotto scientifico è, da questo punto di vista, ciò che lo scienziato effettivamente fa e non ciò che pensa di fare. Prima di chiudere questo capitolo, voglio ribadire, ove fosse ancora neces-sario, come le filosofie dogmatiche non possano fornire alcun tipo di fon-damento alla costruzione e allo sviluppo delle scienze intese secondo la no-stra accezione, intanto perché, presumendo verità a priori, precludono qua-lunque ricerca di convalida a posteriori, ma soprattutto perché precludono la possibilità della scienza di inventare e reinventare continuamente i pro-pri oggetti.Sulle filosofie di Platone e Aristotele, perciò, non può essersi costituita la tradizione scientifica nel mondo greco antico. L'intrusione di tali filosofie può essere stata piuttosto un freno, ed anzi, la riscoperta e il massiccio re-cupero dei due maggiori filosofi metafisici, a partire dal primo secolo a.C., non può non avere avuto un ruolo di primo piano nella crisi di creatività del pensiero scientifico e nel suo progressivo declino78.

ficio poderoso. Ma in questo caso egli è il più clamoroso degli esempi a cui ben si addi-ce l'espressione: “razzola bene e predica male”, dal momento che, nei fatti e qualunque cosa ne pensasse, la sua geometria non è il semplice studio sistematico delle figure nel-lo spazio ma la reinvenzione ex novo di un concetto altro di spazio. È, più corretto dire, anzi, che prima di Cartesio non esisteva un concetto di spazio geometrico ma, di esso, solo un'idea metafisica. Nella meccanica, invece, dove i suoi precetti teorici sono più rigorosamente rispettati, egli non produce nulla di sostanzialmente valido. Salvo poi che dalla sua teoria dei vortici, ma questo avverrà molto tempo dopo, è derivata l'idea di fondo dei campi elettromagnetici. Si tratta comunque, anche in questo caso, di un processo ideativo che nulla ha a che fare con le intuizioni realistiche propugnate da Cartesio.

78 Questa è anche la tesi del gruppo che si raccoglie attorno alla rivista Mondotre-La Suo-la Italica, fondata in Sicilia dal fisico nucleare Salvatore Notarrigo. Si veda in proposi-to, ad esempio, G. BOSCARINO, Tradizioni di pensiero, La tradizione filosofica italica della scienza e della realtà, Mondotre-La Scuola Italica, Siracusa, 1999.

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10. Il paradigma euclideo

Nasce, a questo punto, un problema che potrebbe mettere in crisi, a prima vista, quanto detto finora. Abbiamo analizzato alcuni passi dalle opere di Archimede il cui contenuto, almeno nella nostra interpretazione, sembra rientrare nella visione generale della scienza appena proposta. Archimede, infatti, invoca, da parte del lettore, una fiducia chiaramente fondata sui ri-sultati ottenuti, piuttosto che sulla premessa assunta come postulato. Il pro-blema nasce, però, dal fatto che le questioni in oggetto non riguardano fe-nomeni della natura, ma proprietà geometriche. Si può chiedere allora: in che senso le conseguenze geometriche di un'assunzione geometrica si pos-sono assimilare al concetto di predittività di cui si è appena parlato? Non è neppure necessario fare riferimento al concetto kantiano di giudizio analitico per comprendere la fondamentale differenza che si annette alla matematica, in tutte le sue manifestazioni, rispetto ad ogni altra forma di sapere. Luis Borges, in un suo racconto, fa dire all'io narrante:

Se mi dicessero che ci sono unicorni sulla luna, io accetterei o respingerei que-sta notizia o sospenderei il giudizio, ma potrei immaginarli. Invece, se mi dices-sero che sulla luna sei o sette unicorni possono essere tre, io affermerei a priori che il fatto è impossibile. Chi ha capito che tre più uno fa quattro non fa la prova con monete, con dadi, con i pezzi degli scacchi o con le matite. Lo capisce e ba-sta. Non può concepire un'altra cifra. [...] Se tre più uno possono essere due o possono essere quattordici, la ragione è una follia. (L. Borges: Tigri azzurre).

Senza spingerci ulteriormente sullo statuto epistemologico della matemati-ca e della logica, ci limitiamo a constatare come sia nozione comune che i concetti fondanti di queste discipline non debbano essere legati all'espe-rienza sensibile. Una convinzione di fondo, questa, che ha dato luogo a quello che viene detto platonismo logico-matematico, all'idea, cioè, che i principi logico-matematici siano dotati, in un modo o nell'altro, di un'og-gettività intrinseca e irriducibile, indipendente da qualunque esperienza che non sia quella del pensiero puro79.

79 Nel corso del Novecento il platonismo logico-matematico, con l'affermazione del for-malismo di Hilbert, ha finito per assumere una forma convenzionale di pura coerenza logica, svincolata da ogni implicazione ontologica. Secondo la definizione di Hilbert, si

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Se tutto ciò è vero su un piano puramente speculativo o, nell'esperienza concreta, entro i limiti delle intuizioni più immediate, diversamente vanno le cose quando si tratta di affrontare problemi complessi. Se 3+1=4 può presentarsi come un dato immediato della coscienza, meno immediate sono le proprietà dei numeri quando questi assumono dimensioni per noi inac-cessibili, o quando si prende in considerazione la serie numerica in tutta la sua illimitatezza, o quando per numeri si vogliono intendere delle entità di-verse dagli interi positivi. Cos'è un numero irrazionale, quale ad esempio il numero pigreco o la radice quadrata di 2? E cosa dire, ancora, di fronte a proprietà geometriche come quella espressa dal teorema di Pitagora? O sul-la questione delle parallele, con il suo enigma durato duemila anni? È proprio quest'ultimo che ci offre lo spunto per meglio comprendere quel paradigma euclideo entro cui lo stesso Archimede ha operato ed a cui ha dato un nuovo e più avanzato apporto.Ho già detto che quando parlo di paradigma euclideo non intendo avanzare attribuzioni all'autore degli Elementi. Nulla consente di escludere, infatti, che il lavoro di Euclide si inserisse in una tradizione già esistente e che, se mai, egli abbia contribuito a perfezionarla. In questa sede, però, non siamo interessati tanto a dare risposta a problemi siffatti, ma piuttosto a ricercare i caratteri della tradizione ereditata da Archimede. Di quella tradizione, cioè, che avrebbe contraddistinto il modo scientifico di affrontare i proble-mi, rispetto ad ogni altra tradizione. È naturale, allora, fare riferimento agli Elementi di Euclide, in quanto la più antica opera tuttora esistente, da cui quel paradigma si possa evincere con ragionevole chiarezza. Vediamone allora la struttura essenziale. Vi si possono distinguere innanzi-tutto tre categorie di enunciati: definizioni, assunzioni di base non dimo-strate, teoremi dimostrati con rigorosi procedimenti logici. Le assunzioni si distinguono, a loro volta in nozioni comuni (κοιναι εννοιαι), e postulati (αιτηεματα). I primi non sono specifici per gli oggetti geometrici, ma con-cernono essenzialmente la nozione logica dell'uguaglianza e dell'identità di

dice che un oggetto esiste, se gli assiomi con cui viene caratterizzato non sono tra loro contraddittori. Svanisce quindi ogni problema legato alla verità e all'esistenza in senso ontologico, per lasciare il posto esclusivamente a quello della coerenza logica. Non ha più senso, in quest'ottica, chiedersi cosa siano i numeri né se ciò che si dice di essi sia vero. Numeri saranno tutte le possibili cose che soddisfano agli assiomi posti, ammesso che ce ne siano.

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un oggetto80. I postulati sono specifici della geometria ma, soprattutto, si distinguono in quanto posti come una richiesta al lettore (ἠιτήσθω = si chieda che). È come dire che chi scrive non si attende che i primi vengano contestati da qualcuno, mentre sui secondi si limita a precisare che la vali-dità di tutto ciò che segue è subordinata all'accettazione di quelle specifi-che assunzioni. Ma ancor prima vi è una serie di definizioni (per la precisione ὄροι = ter-mini) che sono, in realtà, delle spiegazioni essenziali dei termini tecnici adoperati. Qui mi si consenta una breve divagazione, che alcuni potranno giudicare superflua, ma che ritengo necessaria per quanti non abbiano fa-miliarità con i linguaggi della matematica e delle scienze in generale. In un qualunque discorso scientifico, in questo caso la geometria, si fa uso di un numero imprecisato di parole del linguaggio comune, il cui significa-to è generalmente noto e non problematico. Ma assieme a questi vi è un più ristretto numero di termini che, anche quando siano presi anch'essi dal lin-guaggio comune, denotano qualcosa di molto più specifico e astratto. La parola italiana punto, ad esempio, deriva dalla punta con cui si segna un piccolo segno sul foglio81. Oggi potrebbe essere la punta della matita. Il punto geometrico indica invece un'entità ideale che non ha alcun riscontro nel linguaggio comune. Così è per altri termini come linea, triangolo, qua-drato, cerchio. Sebbene, infatti, ciascuno di noi ha esperienza di oggetti (approssimativamente) circolari o quadrati, allo steso tempo sa bene che nessun oggetto sensibile può essere esattamente un cerchio o un quadrato. Dunque la geometria, ma ciò vale per ogni scienza, necessita di termini, detti termini tecnici, il cui significato dev'essere attribuito in modo univoco e rigoroso, e non riducibile al significato del linguaggio comune.In molti casi ciò può essere fatto con le definizioni. Per esempio possiamo dire che cerchio è la linea i cui punti hanno tutti la stessa distanza da un punto dato (il centro). Ma ci rendiamo subito conto che una definizione così fatta necessita di altri termini tecnici (in questo caso linea, punto, di-

80 Sono del tipo: due cose uguali a una terza sono uguali tra loro; se a cose uguali si som-mano o si sottraggono cose uguali si ottengono cose uguali, ogni cosa è uguale a sé stessa.

81 Nel greco classico veniva usata la parola στιγμέ che può significare puntura, segno, marchio. A partire dal III secolo si usa invece la parola σεμειον, che nel linguaggio co-mune significa semplicemente segno.

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stanza) che a sua volta andrebbero definiti. Ma in questo modo si verrebbe a generare un processo infinito, per cui è necessario che almeno un nucleo, possibilmente piccolo, di termini tecnici venga assunto senza definizione. Questo è un fatto, oggi, abbastanza scontato e, all'inizio di ogni teoria, si dichiara prioritariamente quali sino i termini da assumere senza definizione (termini primitivi: nella geometria possono essere punto, linea, superficie). Ciò non comporta alcuna limitazione negli sviluppi della teoria, dal mo-mento che le dimostrazioni sono fondate esclusivamente sui postulati (o as-siomi) e che nessun'altra proprietà attribuibile agli oggetti può essere leci-tamente usata. È sui postulati, quindi, che si deve spostare l'attenzione per comprendere in che modo un paradigma scientifico si viene a costituire e come se ne possa giudicare la validità. Se, però, ho ritenuto di inserire questa premessa è per un motivo ben preciso e che riguarda la storiografia della matematica.Due grandi questioni, infatti, gravano su Euclide e sulla geometria, renden-done più difficilmente comprensibili le basi epistemologiche. La prima è dovuta alla presenza di alcune definizioni ritenute superflue e difficilmente compatibili con il paradigma appena delineato. La seconda è costituito da un secolare enigma connesso al suo quinto postulato.Quanto al primo punto, il fatto è che, in tutte le edizioni degli Elementi che sono giunte fino a noi, sono presenti alcune definizioni che, in virtù di quanto detto sopra, non avrebbero ragione di essere. Si tratta appunto delle definizioni di termini quali punto, linea, linea retta, superficie, superficie piana. Per il resto, infatti, l'opera è organizzata come se questi fossero stati assunti come concetti primitivi, senza che le definizioni poste, per altro ben poco esplicative e talvolta oscure, vengano mai utilizzate nelle dimostrazio-ni. Perché Euclide le avrebbe poste? Da parte di molti commentatori, si è voluto vedere in questo la prova che la scienza antica, e nel caso specifico la geometria di Euclide, mirasse a costituire i propri oggetti come dati a priori, con una propria specifica esistenza ontologica, che andava in qual-che modo scoperta e riconosciuta vera. La scienza, dunque, come ricerca di verità assolute e indiscutibili. Se così fosse, la straordinaria fecondità della scienza ellenistica apparirebbe quanto meno “miracolosa”. È ormai conso-lidata, infatti, la consapevolezza che su tali temi non possono sussistere ri-sposte definitive, stabili e ampiamente condivise. Una scienza, che sia in grado di progredire e di stabilire sempre nuovi traguardi, può sussistere

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solo a condizione di accettare principi ipotetici, aperti alla verifica e alla re-visione. Ciò che appare già chiaramente nell'espressione di apertura dei po-stulati di Euclide (ἠιτήσθω).Cosa giustifica allora la presenza negli Elementi di definizioni così discuti-bili e poco chiare, oltre che inutili, quali sono quelle sopra menzionate? A mio avviso nulla, come nulla, del resto, prova che esse siano state effettiva-mente scritte da Euclide. È Lucio Russo, in particolare, a sostenere, con solide argomentazioni, la loro non autenticità. Esse sarebbero state intro-dotte in epoca posteriore da qualche compilatore anonimo82. Del resto già molte altre parti, presenti nelle varie edizioni circolanti, ma ritenute apocri-fe, erano state eliminate da Heiberg nel curare la sua ormai classica edizio-ne.

82 L. RUSSO, The Definitions of Fundamental Geometric Entities Contained in Book I of Euclids Elements, Archive for history of exact sciences, 1998.

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11. Un enigma storico-scientifico e l'eclissi di un paradigma

Se quanto esposto finora è sufficiente, ove accolto, a liquidare la prima questione, meno immediata appare la seconda, non fosse altro che per le lunghe e complesse implicazioni logiche e filosofiche e per gli sviluppi matematici che ha prodotto nel corso di ben due millenni. Non credo di dire nulla di nuovo affermando che sia stato il più grande enigma scientifi-co della storia. È per ciò che, pur avendo ampiamente affrontato l'argomen-to in più occasioni, ritengo di doverne fare anche qui un rapido cenno rin-viando, per il resto, ai miei precedenti lavori sul tema.Il quinto postulato di Euclide, come molti sanno, concerne il concetto di parallelismo tra rette e si rivela indispensabile per dimostrare rigorosamen-te le più notevoli proprietà geometriche, dalla somma degli angoli di un poligono, al teorema di Pitagora, alla formula della distanza nella geome-tria cartesiana.La vicenda di questo postulato, secondo le notizie tramandate da Proclo83, ha inizio nel corso del primo secolo a.C., quasi due secoli dopo la morte di Archimede. Fino ad allora, infatti, non vi è notizia che qualcuno abbia mosso obiezioni. Sarebbero stati Posidonio e Gemino i primi a contestare il postulato, ritenendo che fosse “non evidente” e che lo si dovesse quindi di-mostrare come teorema. Ha inizio così una storia ultramillenaria fatta di tentativi infruttuosi di di-mostrazioni. Tutte le dimostrazioni tentate, infatti, si rivelavano inesatte o tautologiche (fondate cioè su qualche presupposto equivalente a ciò che si voleva dimostrare). La storia, passando attraverso gli arabi, giunge infine al XVIII secolo con il tentativo considerato più interessante, quello del ge-suita Gerolamo Saccheri, che riconoscendo l'insufficienza della sua dimo-strazione, dichiara infine che il postulato si dovesse comunque ammettere perché intrinseco alla “natura della retta”. Veniva così dichiarata esplicita-mente quella richiesta di verità metafisica che, secondo la nostra interpreta-zione, il paradigma euclideo avrebbe, invece, accantonato. La questione sembra essere superata, poco tempo dopo, con la Critica della ragion pura di Kant, in base alla quale il postulato viene ritenuto come un

83 PROCLO, Commento al primo libro degli Elementi di Euclide.

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giudizio sintetico a priori, cioè come una forma innata della mente umana. Ciò equivale a dire che noi, esseri umani, non potremmo concepire una geometria diversa da quella formulata da Euclide con i suoi postulati, com-preso il quinto.Nel corso dell'Ottocento, però, viene mostrato ad opera di vari matematici (Boliay, Lobatceskij, Riemann, Klain, Poncaré) come sia invece possibile concepire e studiare geometrie tra loro diverse e che, quindi, una geometria non euclidea sia possibile accanto a quella euclidea classica.Infine, all'inizio del Novecento, la Teoria della Relatività Generale di Ein-stein proponeva un modello non euclideo dello spazio fisico. Questo, cioè lo spazio della nostra reale esistenza, sarebbe quindi non euclideo, non var-rebbe cioè il quinto postulato e tutti i teoremi che ne derivano, se non ap-prossimativamente, entro regioni abbastanza piccole. La matematica del Novecento, anche attraverso la via delle delle geometria non euclidee, si apriva ad una dimensione nuova: le teorie matematiche assumevano l'aspetto di sistemi formali, separati da ogni possibile significato. Diveniva-no modelli di mondi possibili, senza descrivere, di per sé, alcun mondo reale. Le assunzioni di una teoria possono ormai essere del tutto arbitrari, salvo il requisito della coerenza logica.Se la questione, per sé stessa, è così dissolta, non lo è invece nella sua di-mensione storica relativa al paradigma che fu di Euclide e di Archimede. Questa continua a sopravvivere e la si può riscontrare, ad esempio, nella sua forma compiuta, in una delle più note pubblicazioni divulgative di li-vello alto: La rivoluzione non euclidea di Richard Trudeau, pubblicata, in lingua originale, nel 198984. Cercherò di renderne una sintesi estrema. Euclide, nel primo libro degli Elementi dimostra le suoe prime ventisette proposizioni senza fare uso del quinto postulato che utilizza invece, per la prima volta, quando non può più farne a meno per dimostrare la ventinovesima proposizione. Non ci sareb-be in ciò nulla di strano se questo non rendesse la trattazione molto più complessa di quanto possa apparire necessario. Il percorso dimostrativo sa-rebbe stato, invece, molto più semplice se non avesse rinviato, fin dove possibile, l'uso di quel postulato, così come si fa generalmente oggi nelle nostre scuole.

84 R. TRUDEAU, The non-Euclidean revolution, ediz. Ital.: La rivoluzione non euclidea, Bollati Boringhieri, Torino, 1993.

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Perché allora Euclide avrebbe seguito la via più lunga e complessa? L'ipo-tesi che è stata fatta e tramandata per lungo tempo è che egli fosse dubbio-so su quel postulato, proprio a causa della sua scarsa evidenza. Un'ipotesi siffatta, tuttavia, si porrebbe se non in netto contrasto, quanto meno in ter-mini fortemente problematici con quanto da noi fin qui evidenziato. Se il giudizio di validità sulle assunzioni fondanti della scienza si pone in termi-ni di funzionalità e non di intrinseca verità sugli oggetti, non ha molto sen-so parlare di evidenza. Ma è possibile un'ipotesi alternativa?Credo di avere ampiamente mostrato nei miei precedenti lavori come la via seguita da Euclide sia la sola che possa mettere bene in evidenza l'origina-lità e la genialità della sua risposta al problema delle parallele. Se di questo era consapevole, e non poteva non esserlo, sarebbe stato autolesionistico non mostrarlo solo per il timore di qualche complicazione tecnica in più.Siamo allora pronti per rispondere alla domanda con cui si è aperto il capi-tolo precedente. Perché l'organizzazione della geometria, così come si pre-senta negli Elementi, riesce a fornire una base ineccepibile di un complesso edificio in massima parte già costruito ma, presumibilmente ancora lacuno-so. In altri termini la validità dei cinque postulati si fonderebbe, ora, non su profonde, quanto mutevoli, meditazioni metafisiche, o mistiche intuizioni, o rivelazioni di qualche benevola musa (in che altro modo possiamo defini-re i termini intuizione o evidenza?), bensì sull'idoneità a dare basi fondative ineccepibili ad una tradizione già consolidata. La validazione delle premes-se, dunque, anche nel caso delle scienze matematiche, non avviene a priori sulla natura, ontologicamente intesa, degli oggetti, ma a posteriori sulle conseguenze che da quelle assunzioni derivano. Se così stanno le cose rimane solo un problema. Se un paradigma siffatto ha governato per qualche tempo la ricerca scientifica, producendo risultati di grande fecondità, che, riscoperti secoli dopo avrebbero dato origine al mondo moderno, perché, improvvisamente sarebbe caduto nell'oblio? Per-ché, pur possedendo i testi di quell'epoca feconda, non se ne riusciva più a dipanare il filo? La risposta fornita da Lucio Russo85 in La rivoluzione dimenticata, pur in-dividuando un passaggio cruciale della storia, non mi sembra tuttavia esau-riente. Una volta sottomesso il mondo greco, la cultura romana sarebbe sta-ta, secondo Russo, non all'altezza né sostanzialmente interessata a racco-85 L. RUSSO, La rivoluzione dimenticata, Op. cit.

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glierne l'eredità scientifica. Se pure in ciò ci sia del vero, la spiegazione pare a me insufficiente perché la ricerca scientifica si praticherà ancora per molto tempo, e non già da parte degli intellettuali romani, bensì in lingua greca e nei centri di cultura greca. È proprio in quest'ambito, e non nel mondo propriamente romano, che quel filo sembra essersi spezzato.Penso allora alla concorrenza di due fattori distinti e concomitanti. Il primo è intrinseco alla struttura stessa del paradigma scientifico e dei testi che lo realizzano. Un testo scientifico, infatti, procede con un suo proprio lin-guaggio, con un suo apparato concettuale e una terminologia specifica. Di essi non c'è traccia di spiegazione nei testi scritti. Si tratta, dunque, di lin-guaggi e apparati concettuali che venivano trasmessi (ma ciò in larga mi-sura avviene tuttora) attraverso un tirocinio di apprendimento fondato sul rapporto diretto maestro-allievo: una sorta di percorso di iniziazione, per il quale si deve presumere l'esistenza di scuole.Se così è, allora è sufficiente un'interruzione di questo processo per poche generazioni, perché il senso di un paradigma rischi di scomparire per sem-pre. E le vicende che determinarono la fine dei regni ellenistici è più che sufficiente come spiegazione di un tale evento. Il secondo fattore è costituito dal mutamento di orizzonte filosofico gene-rale. Nel primo secolo a.C., venivano riscoperte e pubblicate quelle opere di Aristortele che sono oggi quasi le sole sopravvissute. C'è da stupirsi se, per la prima volta, anche Posidonio e Gemino, proprio come vorrebbe Ari-stotele86, richiedono il requisito di evidenza dei postulati?Più avanti le filosofie neoplatoniche avrebbero avuto anch'esse un ruolo fondamentale nella ricerca di una chiave di lettura di quei testi divenuti al-trimenti incomprensibili.

86 Negli Analitici Primi, Aristotele così spiega ciò che egli intende per “sillogismo scienti-fico” o dimostrazione: «...scientifico chiamo poi il sillogismo in virtù del quale, per il fatto di possederlo noi sappiamo. Se il sapere dunque è tale, quale abbiamo stabilito, sarà pure necessario che la scienza dimostrativa si costituisca sulla base di premesse vere, prime, immediate, più note della conclusione, anteriori ad essa, e che siano cause di essa. [...] un sillogismo potrà sussistere senza tali premesse, ma una dimostrazione non potrebbe sussistere, poiché allora non produrrebbe scienza» (ARSISTOTELE, An. Post., 71 b 18-25).

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12. La ricerca del libro perduto

Il primo libro sull'equilibrio dei piani (De planorum aequilibriis) ha inizio, almeno nel testo di cui disponiamo, direttamente con un'elencazione dei postulati87 e senza che vi sia, come in altri casi, alcuna introduzione. Non vi sono definizioni e il termine baricentro (κἐντρον τοῦ βάρεως, letteral-mente: centro dei pesi), appare per la prima volta nel quarto postulato, sen-za che vi sia alcuna spiegazione circa il significato del nuovo termine tec-nico. Se il dato di fatto inequivocabile è che manca una definizione di centro di gravità, c’è una diversità di opinioni sul motivo di tale mancanza. In altre

87 Riporto qui i sette postulati nella traduzione di A. Frajese. È da osservare che la parola “sospesi”, contenuta fra parentesi quadre, non è presente nel testo greco, ma si trova nella traduzione latina di Heiberg e, tra parentesi quadre, in quella di Frajese, con l'intento di chiarirne il senso. Così facendo, però, viene suggerito un significato realisti-co che introduce il concetto di sospensione non esplicitamente dichiarato da Archime-de. In altri termini si suggerisce l'idea di un qualche apparato fisico appeso a un punto. Comunque stiano le cose, si comprende come una traduzione difficilmente possa costi-tuire una pura e semplice traslazione tra lingue, ma contenga in sé delle scelte interpre-tative.Ecco dunque i postulati:

I. Chiediamo che pesi uguali [sospesi] a distanze uguali si facciano equilibrio; che pesi uguali [sospesi] a distanze disuguali non si facciano equilibrio, ma produca-no pendenza dalla parte del peso che si trova a distanza maggiore.II. Che se dati dei pesi che si facciano equilibrio essendo [sospesi] a certe distan-ze, si aggiunga qualcosa ad uno dei pesi, non si abbia più equilibrio, ma pendenza dalla parte del peso al quale si è fatta l'aggiunta.III. Che similmente se da uno dei pesi si tolga qualcosa, non si abbia più equili-brio, ma pendenza dalla parte del peso dal quale non si è sottratto nulla.IV. Che se figure piane uguali e simili coincidono l'una sull'altra, anche i centri di gravita coincideranno tra loro.V. Che per figure disuguali ma simili i centri di gravità saranno similmente posti. Diciamo che punti in figure simili sono similmente posti se rette condotte da essi ai vertici degli angoli uguali formano angoli uguali con i lati omologhi. VI. Che se grandezze a certe distanze si fanno equilibrio, anche grandezze ad esse uguali poste alle stesse distanze si faranno equilibrio.VII. Che per ogni figura il perimetro della quale è concavo dalla stessa parte, il centro di gravità debba trovarsi nell'interno della figura. (A. FRAJESE, Op. Cit. pp. 397-399).

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parole, ci si chiede come mai Archimede non abbia definito nel primo libro del De planorum aequilibriis, che viene considerato la prima opera archi-medea fra quelle giunte fino ai nostri giorni, un concetto fondamentale per gli sviluppi di tutta la sua meccanica. Come fa notare Frajese88, le posizioni relative a tale questione si possono ricondurre essenzialmente a due: la pri-ma, che fa capo a Vailati89, spiega tale mancanza presumendo che il centro di gravità fosse un concetto già definito in altre opere precedenti dello ses-so autore o di altri autori precedenti, e che ciò autorizzasse Archimede a fare a meno di una ulteriore definizione. La seconda, che possiamo riferire a Stein90, sostiene che il centro di gravità sia definito implicitamente dai postulati.Seguendo la prima ipotesi, si è sviluppata un'ampia letteratura, nel vano tentativo di individuare qualche traccia del libro mancante, e, in assenza di tale libro, di ipotizzare quale potesse essere il concetto definito. Se, nel leg-gere il titolo da me dato a questo capitolo, qualcuno volesse scorgervi un velato riferimento a Proust, sappia, comunque che, da parte mia, non vi è nessun intento ironico. Non ho mai avuto, né mai cederò alla tentazione di atteggiarmi a depositario di qualche verità. Voglio dire, però, che se ci po-nessimo, come di fatto ci siamo posti, nella prospettiva che ho cercato di sviluppare fino ad ora, non sussisterebbero motivi validi per ritenere che una definizione debba necessariamente esserci. Cercare a tutti costi il libro che la contiene, o ipotizzare quale potesse presentarsi, sarebbe allora vano, e parlare di tempo perduto non sarebbe del tutto azzardato. Ancor più, mi sembrerebbe improprio, se in tale ricerca venissero profusi sforzi da con-torsionismo acrobatico, nel momento stesso in cui, da più parti, si è voluto vedere nelle presunte definizioni superflue di Euclide il maggior limite strutturale ed epistemologico dei suoi Elementi.Ammettere, però, che nel De planorum aequilibriis, la definizione di bari-centro non c'è perché semplicemente non deve esserci, non implica che il termine non debba e non possa avere un riferimento di significato nella rappresentazione fenomenica del mondo. Non, dunque, di tempo perduto si deve parlare, se le ricerche filologiche finora svolte possono essere finaliz-

88 A. FRAJESE, Op. cit., p. 389 in nota.89

G. VAILATI, Del concetto di centro di gravità nella statica d’Archimede, Torino, 1897.90 W. STEIN, Der Begriff des Schwerpunktes bei Archimedes, Quellen und Studien zur Ge-

schichte der Mathematik, Astronomie und Physik, Abt. B, Bd. 1, 1930, pp. 221-244.

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zate ad analizzare la genesi del concetto e della sua oggettivazione come elemento di una struttura linguistico-formale che, nel caso specifico, è la nuova scienza meccanica. Già Drachmann91, per esempio, al di là delle conclusioni a cui perviene, svolge un amplissimo e ben strutturato lavoro filologico partendo dalle no-tizie che di Archimede ci forniscono Pappo, Erone ed Eutocio. Il primo dice che il centro di gravità di un corpo «è quel punto al suo inter-no tale che se un corpo viene sospeso da tale punto rimarrà nella sua posi-zione originale». Erone riferisce la definizione di centro di gravità o di inclinazione come «il punto da cui se un corpo viene sospeso divide il peso in parti uguali». Attribuisce però tale definizione a Posidonio aggiungendo che Archimede ed i meccanici suoi seguaci l’avrebbero precisata distinguendo tra punto di inclinazione e di sospensione, e definendo quest’ultimo come «quel punto nel corpo o non nel corpo da cui se un corpo viene sospeso sarà in equili-brio»92. Eutocio, infine, nel suo commento al De planorum aequilibriis, afferma che Archimede, in questo libro, intenderebbe per centro di inclinazione (κἐντρον ροπης) di una figura piana «quel punto da cui deve essere sospe-so per stare parallelo all’orizzonte».L'elemento comune a tutti i tentativi di interpretazione, di cui qui si è dato solo un breve saggio, è il concetto di sospensione, il cui termine è, invece, assente nel testo archimedeo. Indubitabilmente esso è mutuato dalla lettera-tura precedente al Nostro e la cui disponibilità, al tempo dei commentatori antichi, doveva essere ben più ampia di quella attuale. Di essa, tuttavia, ri-mane tuttora qualche traccia e, in particolare, si conserva, in traduzione araba, un trattato sulla bilancia in passato attribuito ad Euclide. Senza en-trare troppo nel merito, qui basta osservare che il dispositivo in oggetto è costituito da un'asta orizzontale ai cui estremi sono applicati due pesi e che, a sua volta, è sospesa in un suo punto. Il punto di sospensione si può, in questo caso, definire facilmente come il punto da cui bisogna sospendere

91 A. G. DRACHMANN, Fragments from Archimedes in Heron’s Mechanics, Centaurus, VIII, 1963, pp. 91-146.

92 Anche Drachmann nota qui un errore, poiché Archimede non avrebbe potuto precisare la definizione di Posidonio essendo quest’ultimo nato 77 anni dopo la morte di Archi-mede.

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l'asta perché, una volta dati i due pesi, essa rimanga in posizione orizzon-tale (posizione di equilibrio). Correttamente, quindi, i vari commentatori hanno interpretato il centro dei pesi o baricentro come un'estensione o tra-slazione del centro di sospensione al caso generale di un sistema fisico o geometrico di forma qualsiasi. Ma il limite sta nel volerne dare un'interpre-tazione definibile in termini realistici.Non ci vuole molto, infatti, a comprendere che una definizione di tipo rea-lista è, in questo caso, priva di senso. Non si può sospendere un corpo da un suo punto interno e ancor meno da un punto che non gli appartiene. Si pensi, ad esempio ad un corpo a forma di falce o di corona circolare. Nel caso, poi, del trattato archimedeo sull'equilibrio dei piani, si tratta di pure forme geometriche piane, per sé stesse prive di peso. Anche a pensarle come lamine sottili di qualche materiale, una definizione realistica impor-rebbe che, quanto meno, si ponesse la condizione dell'omogeneità e dell'essere costituite tutte dello stesso materiale. Di ciò non c'è traccia nei postulati archimedei, e tutto tende, come vedremo meglio, a configurare la nozione introdotta, quale pura entità geometrica.Il centro dei pesi, dunque, assume il preesistente concetto di centro di so-spensione come traslazione metaforica di un concetto noto per rappresenta-re un'entità ideale, non definibile e non esperibile empiricamente, ma fun-zionale alla spiegazione dei fenomeni. Il procedimento è, fin qui, assimila-bile a quello tipico nella costituzione genetica del mito. Lo ritroviamo nella Teogonia di Esiodo dove, ad esempio, il tempo-Kronos, divinità che genera e divora i propri figli, è metafora del divenire del cosmo, o la sapienza-Atena è generata dalla testa del dio-Zeus-ordinatore, vittorioso sul divenire caotico di Kronos. Ma lo ritroviamo anche nel racconto di Plutarco sul mito di Iside e Osiride o nei racconti vedici della mitologia indiana, ed in ogni altra rappresentazione mitica.Mito e scienza contribuiscono entrambe a sottrarre il mondo sensibile alle nebbie del caos, costruendone rappresentazioni dicibili e intelligibili. Ma, a differenza del primo, la scienza va oltre. Essa non si limita a rappresentare e spiegare, ma vuol dare risposte che siano sottratte all'aleatorietà dell'interpretazione soggettiva, di proiettarsi nel futuro, prevedendolo e, ove possibile, modificandone il corso. Questo è possibile se si riesce a irri-gidire gli oggetti concettuali così costruiti con “regole d'uso” ben precise, inequivocabili, e convenzionalmente accettate per aver mostrato la loro ef-

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fettiva funzionalità allo scopo. Sono i postulati, che una volta stabiliti e ac-cettati, diventano il solo referente significante dei concetti a cui si riferisco-no. Quando dico, però, che i postulati sono il solo referente significante, mi ri-ferisco, in modo esclusivo, alle funzioni e agli scopi specifici del fare scienza, non già alla globalità delle dimensioni del vivere. Gli stessi appa-

fig. 11: I primi cinque postulati sull'equilibrio dei piani. Riproduzione della pag. 142 del vol. II dell'edizione di Heiberg del 1881. Si noti che la frase ἴσα βαρεα απο ἴσων μακέςον, che si legge nel primo postula-to, significa letteralmente “stessi pesi da uguali distanze” e analoga-mente per il secondo postulato. Questa lettura potrebbe apparire insod-disfacente qualora si ritenesse che i postulati dovessero riferirsi ad una rappresentazione fisica realistica. Da qui l'idea che dovesse esserci sot-tintesa la circostanza della sospensione del sistema in un suo punto.

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rati formali delle scienze diverrebbero sterili e improduttivi se non riceves-sero gli stimoli e l'energia vivificatrice dell'intera esperienza umana. Inten-do dire, dunque, che l'atto di irrigidire assiomaticamente un concetto, non vuol dire cancellare ogni altra credenza, ogni interrogativo ontologico e metafisico. Significa solo accantonare problemi siffatti, espungendoli dallo specifico apparato teorico. Anche per questo ritengo improduttivo e fuori luogo chiedersi cosa pensassero Euclide o Archimede della natura intrinse-ca del punto, della linea, del numero o, in questo caso, del baricentro. Non lo hanno detto, consapevoli, probabilmente, che se lo avessero fatto avreb-bero sottoposto il proprio lavoro all'opinabilità dei sistemi filosofici.Se ora rileggiamo i sette postulati (v. nota 87), omettendo la parola sospesi, aggiunta nella traduzione latina di Heiberg, e tenendo conto di quanto si è detto fin qui, si può osservare, innanzitutto, che il termine baricentro (o centro dei pesi o di gravità) non è il solo ad esser non definito, ma vi sono anche parole come peso, equilibrio, inclinazione. Queste, infatti, se pure già note nell'uso comune, qui non possono essere riferite a un contesto rea-listicamente definito, che invece manca, ma vengono anch'esse connotate attraverso gli stessi postulati. D'altra parte anche l'espressione κἐντρον τοῦ βάρεως = centro dei pesi, è formata con le parole centro e peso, ognuna delle quali, per sé stessa, è nota nel linguaggio comune. Si noti che il modo in cui sono utilizzati i termini peso e inclinazione, e solo nei primi due po-stulati, è tale da rendere indifferente il loro eventuale significato fisico. In seguito tali termini sono del tutto assenti e si fa riferimento, ove necessario, solo a un più generico concetto di grandezza. Ma è soprattutto nel postula-to 4, quello in cui appare per la prima volta l'espressione centro dei pesi, che si manifesta chiaramente il carattere squisitamente geometrico assunto dal concetto. Dire, infatti, che se due figure si sovrappongono esattamente anche i rispettivi baricentri coincidono, equivale a dire che il baricentro è univocamente determinato dai caratteri geometrici della figura. È questo, forse, l'unico dato assolutamente inconfutabile, e che non può essere igno-rato, perché se la forma e la dimensione della figura ne determinano univo-camente il baricentro, ciò non può essere modificato da nessuna condizione fisica aggiuntiva. Salvo, poi, la possibilità di utilizzare i risultati raggiunti con i teoremi, an-che in contesti non solamente geometrici, ove si assegni uno specifico si-gnificato fisico agli altri termini non definiti. In primo luogo, ai termini

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peso e inclinazione, usati nei primi due postulati, ma anche ai termini equi-librio, inclinazione e grandezza.

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13. Dalla geometria alla meccanica

Dopo quanto detto nel capitolo precedente, si può riassumere il quadro complessivo nei termini seguenti:

• Dal postulato 4, a cui si può aggiungere il 5, deriva che il baricen-tro di una figura piana è un punto, non necessariamente apparte-nente alla figura, che dipende solo dalle proprietà geometriche del-la figura stessa.

• Il baricentro, oltre che ad una figura piana, può essere riferito ad altre entità non definite specificamente. Nel postulato 6, in partico-lare, si parla genericamente di grandezze. Queste potrebbero essere rappresentative di aree, volumi o altro, a prescindere dalla loro for-ma ed estensione e localizzate nel loro baricentro (fig. 12). Nei pri-mi due postulati si parla di “pesi”, ma anche questi appaiono come entità non definite e quindi possono non riferirsi obbligatoriamente a forze gravitazionali. Per esempio, nel caso di una leva potrebbero essere compressioni o trazioni in una direzione qualsiasi.

• Anche il termine equilibrio funziona perfettamente se, spogliato dal suo significato dinamico, lo si considera semplicemente come uno generico “stato” con-trapposto a pendenza.

Nel seguito del primo libro vengono quindi dimostrate varie proposizioni, ed in particolare quelle che consentono di determinare il centro di gravità di un triangolo. Nel secondo libro viene invece deter-minato il baricentro per un segmento di parabola. È questo un passaggio essen-ziale che consentirà, in una successiva opera, di applicare la nozione di bari-centro al comportamento di un segmen-to di paraboloide galleggiante in un li-

fig. 12: Se pensiamo le aree delle due figure come generiche grandezze posi-zionate nei rispettivi baricentri, allora per esse hanno senso i postulati di Ar-chimede. In particolare se le aree sono uguali, il baricentro dell'intero sistema si trova a metà fra i baricentri delle due figure (Così come stabilisce il teorema 4 dove, appunto, non si parla di figure piane ma genericamente di grandezze).

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quido.Nei due libri sui corpi galleggianti, come si è già accennato, Archimede fornisce dapprima (nel primo libro) una dimostrazione rigorosa della forma sferica della superficie del mare. Successivamente, nel secondo libro, uti-lizzando i teoremi già dimostrati sui centri di gravità, studia appunto, il comportamento dei corpi galleggianti. Particolarmente significativo è lo studio del galleggiamento di un seg-mento di paraboloide, anche perché questo avendo sezione parabolica e approssimando quindi la sezione del-la chiglia di una nave, lascia presu-mere un possibile intento applicativo. Non si può fare a meno, a questo proposito di ricordare quanto si è già detto sulla possibilità che egli abbia effettivamente presieduto alla costru-zione della grande nave Syracusia. Per meglio comprendere questo aspetto, è opportuno dire che i vari teoremi determinano le posizioni di equilibrio del solido, nei diversi casi dati dal rapporto tra i due assi della sezione parabolica. Si vede quindi come, a se-conda di tale rapporto, il solido, lasciato nel liquido in posizione inclinata, possa disporsi in posizione verticale (corrispondente a un nave in pieno as-setto di navigazione), oppure inclinarsi fino a toccare il liquido con il bor-do superiore, o addirittura capovolgendosi.Se quanto abbiamo visto fin qui può essere visto come un processo di geo-metrizzazione della meccanica, vi è anche un processo inverso che potrem-mo definire di ricaduta sulla geometria dei linguaggi e del pensiero mecca-nico. Ma di questo si dirà più avanti quando parleremo dei cosiddetti “me-todi meccanici”

fig. 13: Schema di galleggiamento

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14. Il cosmo

Si possono contare i granelli di sabbia? Si può dare un nome a qualunque numero, per quanto grande esso sia? Queste sembrano essere le domande che Archimede si pone all'inizio dell'Arenario. La risposta è positiva e procede tecnicamente con la messa a punto di un sistema molto ingegnoso fondato sulla rappresentazione esponenziale in base 100. Qui non siamo, però, interessati agli strumenti tecnici della soluzione, ma ai significati che la domanda sottende e alle indicazioni che il testo ci forni-sce sulla personalità scientifica del suo autore.Leggiamo, innanzitutto, il passo di apertura:

Alcuni pensano, o re Gerone che il numero dei granelli di sabbia sia infinito in quantità: non intendo soltanto la sabbia che si trova nei dintorni di Siracusa e del resto della Sicilia, ma anche quella che si trova in ogni altra regione, abitata o deserta. Altri ritengono che questo numero non sia infinito, ma che non possa esistere un numero esprimibile e che superi questa quantità di sabbia. E' chiaro che coloro i quali pensano questo, se immaginassero un volume di sabbia uguale a quello della Terra, avendo riempito di sabbia tutti i mari e tutte le valli, fino alle montagne più alte, sarebbero ancor meno disposti ad ammettere che si possa esprimere un numero che superi quelle quantità. Ma io tenterò di mostrarti, at-traverso dimostrazioni geometriche che tu potrai seguire, che alcuni dei numeri da noi enunciati ed esposti negli scritti inviati a Zeusippo, non soltanto superano il numero dei granelli di sabbia aventi un volume uguale a quello della Terra riempita come abbiamo detto, ma anche un volume uguale a quello dell'intero Universo.

A questo punto il Nostro si trova a dovere quantificare qualcosa che ha qualificato come Universo ed a cui, per procedere con strumenti matemati-ci, deve pur dare una connotazione che non può essere generica e indefini-ta. Ecco, dunque, come procede:

Ora sappiamo che Universo è il nome dato da molti astronomi alla sfera il cui centro è il centro della Terra e il cui raggio è uguale alla linea retta tra il centro del Sole e il centro della Terra. Questa è la tradizione scritta (τ γραφόμενα),ὰ come avete udito dagli astronomi. Ma Aristarco di Samo ha pubblicato degli scritti con alcune ipotesi, le cui pre-messe portano al risultato che l'universo è molte volte più grande di quello ora così denominato. Le sue ipotesi sono che le stelle fisse e il sole rimangono im-

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mobili, che la terra gira intorno al sole sulla circonferenza di un cerchio, che il sole giace nel centro dell'orbita, e che la sfera delle stelle fisse […] ha pressapo-co lo stesso centro del sole …

Semplificando al massimo, è bene dire qui, in modo facilmente com-prensibile, per quali ragioni Archime-de afferma che il sistema eliocentrico proposto da Aristarco comporti una dimensione dell'Universo di gran lun-ga maggiore di quella tradizional-mente supposta. Se si ammette, infat-ti, che le stelle stiano fisse sulla su-perficie di una sfera al cui interno la terra ruota in un'orbita circolare, allo-ra è inevitabile che nel corso dell'an-no le stelle vengano viste da prospet-tive differenti. Le loro mutue distan-ze apparenti dovrebbero pertanto mu-tare nel tempo, contrariamente a ciò che siamo abituati a vedere. A meno

che non si supponga che la sfera delle stelle fisse si trovi ad una distanza tale da rendere trascurabile il diametro dell'orbita terrestre, impedendo così di apprezzare le variazioni. E proprio per ciò Archimede calcolerà, più avanti, quante volte più grande dell'orbita terrestre deve essere il raggio del suo Universo affinché le variazioni apparenti non siano apprezzabili.Conclude quindi:

Dico allora che, anche se una sfera riempita di sabbia sia grande come Aristarco suppone essere la sfera delle stelle fisse, posso ancora dimostrare che, alcuni dei numeri nominati nei Principi, superano di molto il numero dei granelli di sabbia [...] a condizione che siano fatte le seguenti ipotesi. [seguono ipotesi sulle di-mensioni della terra e del sole in base ai calcoli più accreditati].

Qui Archimede non assume posizione circa l'effettivo essere del sole o del-la terra al centro dell'Universo. È interessato, in questo caso, a disporre, come riferimento ideale, di una sfera delle dimensioni più grandi che si po-tessero immaginare e descrivere. Del resto in virtù di quali elementi osser-vabili e di quali strumenti teorici a lui disponibili avrebbe dovuto formula-

fig. 14: Nel sistema eliocentrico, se si pre-sume la presenza di una sfera delle stelle fisse, due qualunque stelle A e B sono vi-ste sotto angoli diversi da due posizioni diverse dell'orbita terrestre. Tale variazio-ne non è osservabile solo se la sfera delle stelle fisse si suppone sufficientemente grande

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re tale scelta? Da scienziato vero, e aggiungerei moderno, non può che as-sumere, tra le ipotesi disponibili, quella che, in relazione al problema trat-tato, si rivela più funzionale. Non si può tuttavia non osservare che egli non dimostra verso il sistema di Aristarco alcuna riserva pregiudiziale. Un dato, questo, che deve assumere per noi un significato rilevante e, a mio avviso, decisivo, in virtù di quanto sto per dire.In epoca moderna, infatti, si è sostenuto che l'ipotesi di Aristarco sarebbe stata immediatamente respinta da tutti gli studiosi del suo tempo perché ri-tenuta empia. Essa, infatti, togliendo la terra dal centro dell'Universo, avrebbe negato quella fondamentale separatezza fra cielo e terra su cui si fondava l'idea di una presunta natura divina, perfetta e incorruttibile, dei corpi celesti. Un argomento non dissimile da quello per cui è stato condan-nato Galileo.Di parere ben diverso è invece Lucio Russo, per il quale il ritorno al vec-chio sistema geocentrico sarebbe avvenuto in tempi successivi ed in segui-to all'oblio e al venir meno di quello che io ho chiamato paradigma scien-tifico. Sostiene ciò soprattutto in un suo interessante scritto del 1996, insie-me con il filologo Silvio Medaglia93, in cuoi è condotta un'accurata analisi storica e filologica sull'argomento. Lascio qui la parola allo stesso Russo che così ne sintetizza il punto fondamentale in una nota di La rivoluzione dimenticata.

L'idea che Aristarco fosse troppo in anticipo sui tempi per influenzare durevol-mente il corso della scienza è suggerita anche dall'episodio, spesso ripetuto, dell'accusa di empietà che l'eliocentrismo avrebbe provocato nei suoi confronti. La notizia sarebbe riferita da Plutarco (De facie quae in orbe lunae apparet, 923A). In realtà l'accusa di empietà ad Aristarco risale al filologo del XVII seco-lo G. Ménage, il quale (evidentemente influenzato dai processi a Bruno e a Gali-leo) per poter leggere l'accusa in Plutarco scambiò tra loro un accusativo e un nominativo, stravolgendo il significato del passo. Gli editori successivi, conside-rando forse inevitabile la relazione tra eliocentrismo ed empietà, hanno accettato quasi senza eccezioni l'emendamento al testo di Plutarco, che è divenuto canoni-co nella versione "modernizzata" dal Ménage94.

93 S. M. MEDAGLIA, L. RUSSO, Sulla presunta accusa di empietà ad Aristarco di Samo, Quaderni urbinati di cultura classica, n. 53 (82) 1996, pp. 117-121.

94 L. RUSSO, La rivoluzione dimenticata, op. cit., nota 101, pp. 104-105 nell'ediz. Del 1996.

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La quasi totale assenza dei testi originali, oggi tutti perduti, della cosmolo-gia ellenistica, non ci consente di formularne un quadro attendibile. Nel trattato di Euclide, si prospetta un sistema geocentrico, secondo la conce-zione tradizionale, ma è anche lì significativa la scelta degli argomenti con cui egli giustifica le sue premesse. Ecco dunque il passo iniziale dei Phai-nomena nella traduzione di Fabio Acerbi:

Poiché appunto le stelle fisse sono viste sempre levarsi dallo stesso luogo e tra-montare nello stesso luogo e quelle che si levano insieme levarsi sempre insie-me e quelle che tramontano insieme tramontare sempre insieme e nel moto da levata a tramonto mantenere gli stessi intervalli reciproci, e questo risulta soltan-to per ciò che si muove di moto circolare, appena che la vista disti ugualmente in ogni direzione dalla circonferenza - come è dimostrato in ottica -, va posto che le stelle si muovano circolarmente e che siano connesse in un solo corpo e che la vista disti ugualmente dalle circonferenze95.

Appare chiaro come l'intento di queste parole non sia di stabilire una qual-che assoluta verità, ma solo di costruire un modello di rappresentazione del Cosmo che sia compatibile con i fenomeni effettivamente osservati e osser-vabili. Né, per altro, vi sono, tra il primo e il secondo secolo a.C., indizi di segno contrario. Anzi Lucio Russo va oltre, ipotizzando che Ipparco di Ni-cea, nel suo trattato di cosmologia scritto intorno alla metà del II sec. a.C. e oggi perduto, abbia non solo adottato il sistema eliocentrico proposto da Aristarco, ma abbia potuto anticipare l'idea della gravitazione universale, poi riscoperta da Newton, come spiegazione generale dei moti celesti96.Abbiamo visto, d'altra parte, come Archimede, lungi dal mostrare pregiudi-

95 F. ACERBI, Euclide. Tutte le opere, op. cit. , p. 2247.96 L. Russo giunge a quest'ipotesi analizzando alcuni passi dal De Architectura di Vitruvio

in cui l'autore tenta, con esiti quanto meno bizzarri, di interpretare testi da lui letti sulla teoria di Ipparco. Nel primo di tali brani si legge «la potente forza del sole attira a sé i pianeti con raggi estesi a forma di triangolo e come se li frenasse o trattenesse quando corrono in avanti non permette loro di avanzare ma [li costringe] a ritornare verso di sé» dove, in forma sia pur confusa, si può intuire l'idea di una forza attrattiva esercitata dal sole». Come da tale attrazione Ipparco potesse derivare un movimento orbitale (probabilmente ellittico) si potrebbe, sempre secondo l'analisi di Russo, derivare da un secondo passo del De Architectura che si presenta ancora più confuso e oscuro a causa della scarsa comprensione da parte di Vitruvio del linguaggio geometrico in cui era espressa la teoria (v. L. RUSSO, La rivoluzione dimenticata, op. cit., pp. 265-272 nell'ediz. del 1996).

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zi nei confronti dell'ipotesi eliocentrica, ne fa uso, sia pure con finalità non propriamente di descrizione cosmologica. Ora non conosciamo un'opera scritta da Archimede e specificamente dedi-cata a questo tema, ma ciò non significa che egli non abbia prodotto una rappresentazione coerente dell'Universo. Se non in un testo scritto, di cui non abbiamo notizie, lo ha fatto sicuramente, per via meccanica, attraverso la costruzione del planetario di cui si è già accennato, e che dopo la sua morte è stato portato a Roma. Se ora ricordiamo la meraviglia di Cicerone per una realizzazione che ap-pariva impossibile all'intelletto umano, non è difficile intendere come l'impossibilità si fondasse sul presupposto geocentrico. Non lo sarebbe più se supponessimo, invece, che anche in questo caso, i meccanismi che rego-lavano i moti si fondassero sull'ipotesi di Aristarco.Anche in questo caso, infatti, non si trattava di proclamare una verità, per altro di per sé inaccessibile, ma di dare una rappresentazione dei fenomeni visibili97 (opposizioni di pianeti, eclissi, ecc.) usando le ipotesi e gli stru-menti matematici più idonei allo scopo. Non posso quindi non concordare ancora una volta con Russo che, date queste premesse, «supporre che Ar-chimede non ne avesse fatto uso sarebbe alquanto strano» tanto più che adottare un modello eliocentrico «significa semplicemente usare per i mo-vimenti di tutti i pianeti un unico snodo imperniato sul sole» indipendente-mente dal fatto che la terra sia stata fissata al centro del planetario. Da qui, per altro, si può facilmente spiegare la difficoltà, da parte degli ignari os-servatori, di comprenderne la logica costruttiva.

97 L'intero apparato teorico, con i suoi linguaggi, i suoi concetti e le sue ipotesi fondanti, non avrebbe, in altri termini lo scopo di affermare una verità, ma di raccordarsi con i dati fenomenici osservabili: Salvare i fenomeni (σώζειν τά φαινόμενα) per usare un'espressione ampiamente utilizzata da Pierre Duheme e attribuita a Platone, sia pure in una prospettiva ben diversa (In proposito v. anche GENTILE, MIGLIORATO, Euclid and the scientific thought..., op. cit.).

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15. L'infinito

Possiamo ora tornare all'Arenario e affrontare un altro aspetto del pensiero scientifico archimedeo, quello relativo all'idea dell'infinito. Egli chiaramen-te fa riferimento a due differenti accezioni del termine: la prima come infi-nito in senso proprio, cioè di qualcosa che non ha né può avere limite; la seconda, in senso pragmatico, per indicare che, se pure un limite c'è, esso non può essere, in alcun modo determinato con strumenti di conoscenza umana. Queste due accezioni, riferite al numero, sono espresse chiaramente fin dall'inizio («Alcuni pensano,[...] o re Gerone che il numero dei granelli di sabbia sia infinito in quantità[...] Altri ritengono che questo numero non sia infinito, ma che non possa esistere un numero esprimibile che superi questa quantità»). Ma più avanti le ritroviamo riferite alle quantità geometriche e nella duplice forma di infinitamente piccolo e infinitamente grande. Ciò avviene quando commenta l'ipotesi di Aristarco per una parte che ave-vo omesso nel capitolo precedente. Nel riportare il passo di Archimede re-lativo all'ipotesi eliocentrica, lo avevo interrotto con puntini di sospensio-ne. Esso così continua:

… e che la sfera delle stelle fisse […] ha pressapoco lo stesso centro del sole è così grande che il cerchio su cui si suppone che la terra ruoti sta alla distanza delle stelle fisse come il centro della sfera alla sua superficie.

Ora, aggiunge subito Archimede, si vede subito che ciò è impossibile per-ché il centro della sfera è un punto e non ha quindi grandezza. È chiaro, però, come Aristarco volesse dire che la dimensione dell'orbita terrestre, per le ragioni già esposte nel capitolo precedente, deve avere una misura non apprezzabile rispetto alla sfera delle stelle fisse. Ma è proprio questo che il Nostro vuole contestare e superare. Con la possibilità di rappresenta-re numeri grandissimi e, conseguentemente piccolissimi, egli tende a sot-trarre quante più cose è possibile all'indeterminatezza di quello che potrem-mo chiamare infinito in senso pragmatico98.

98 Anche sotto questo aspetto, il problema posto da Archimede è tutt'altro che inattuale. Al di là delle questioni concernenti il concetto di infinito, il problema di determinare un li -mite oltre il quale anche ciò che pur teoricamente è definibile, può tuttavia rivelarsi

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Ma, altrove, l'opera di Archimede va oltre, nel senso di sottrarre quante più cose è possibile all'indeterminatezza dell'infinito anche in senso proprio. Lo fa, intanto, utilizzando strumenti già usati in precedenza da altri autori, come il metodo di esaustione già menzionato a proposito della quadratura della parabola. Ciò che importa è, tuttavia, che nell'uso degli strumenti già esistenti egli non si limita alla pura e semplice applicazione di un metodo collaudato, ma cerca di utilizzarlo come punto di partenza di un paradigma in continua evoluzione. E soprattutto tende a superarlo, come sembra cer-chi di fare con gli stessi metodi meccanici.Per comprendere meglio questo aspetto è opportuno, però, premettere qual-che considerazione sull'idea di infinito, e nella sua originaria e generica consistenza, e nel modo in cui essa viene recuperata e organizzata all'inter-no di un edificio matematico rigoroso.L'idea dell'infinito nasce dalla comune esperienza dell'Io di fronte alla rei-terazione seriale di operazioni di cui non si piò immaginare un termine ulti-mo. Tipico è il caso del contare, ma anche quello di immaginare uno spazio sempre più grande che include il precedente. Se immagino di avere rag-giunto il più grande numero nominabile, è facile nominarne subito uno più grande con la semplice espressione: quello che ho detto prima più uno 99.

umanamente inaccessibile, si presenta tutt'oggi in diversi ambiti e da punti di vista dif-ferenti. Quello che più degli altri può richiamarci l'Arenario di Archimede, riguarda proprio la rappresentabilità di numeri molto grandi. È possibile, infatti definire con pro-cedimenti matematici numeri talmente grandi da risultare poi impossibile la loro rap-presentazione effettiva con notazioni già codificate. Il più grande fino ad ora definito, chiamato numero di Graham, può essere dscritto con procedure non eccessivamente complesse, e tuttavia, se lo si volesse rappresentare in forma decimale, scrivendone tut-te le cifre su una memoria digitale (come quella che vi è in una pennetta), questa do-vrebbe essere talmente grande da non potere essere contenuta nell'Universo quale lo si presume oggi in base alla teoria del Big Bang. (v. Conway, J. H. and Guy, R. K. The Book of Numbers. New York: Springer-Verlag, pp. 61-62, 1996). Vi sono poi problemi di accessibilità ancora più complessi, come quelli della teoria della computabilità, che vanno alla radice stessa del significato della parola esistere. Così per esempio vi sono problemi per i quali si può dimostrare, con strumenti matematici che esiste la soluzione e che questa è un ben preciso numero reale, ma si può dimostrare, allo stesso tempo, e sempre con strumenti matematici, che non può esistere un algoritmo in grado di calco-lare tale numero in un tempo finito.

99 La seguente filastrocca di Gianni Rodari: “C’era una volta un tale / che voleva trovare / il numero più grande del mondo. / Comincia a contare e mai si stanca: / gli viene la barba grigia, / gli viene la barba bianca, / ma lui conta, conta sempre / milioni

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Dunque se inizio a contare la serie dei numeri, mi fermerò prima o poi per stanchezza, ma non per averli esauriti tutti. Da qui al concetto di infinito c'è dunque un salto concettuale con cui immagino di avere già contato per l'eternità e avere esaurito la serie. Una formulazione, questa, che appare ne-cessariamente priva di senso ove presa alla lettera e che, tuttavia, sembra porre alla mente un'entità altra, un'essenza con una propria connotazione metafisica. La parola infinito la rappresenta, allora, come metafora di qual-cosa che si può ammettere ma non concepire100.L'infinito come metafora non è ancora un concetto spendibile in un conte-sto scientifico. Lo può diventare pienamente solo a condizione di spogliarsi delle sue connotazioni metafisiche e di ridursi a termine tecnico, il cui uso sia regolato da norme stabilite rigidamente come postulato o assioma, sen-za che, nelle dimostrazioni, si debba fare riferimento al suo originario si-gnificato. Altrimenti il prezzo da pagare è l'emergere irreparabile di para-dossi e aporie, perché non può un fondamento metafisico in sé paradossale dar luogo a deduzioni logicamente coerenti. E devono averlo constatato in modo inoppugnabile quanti si siano trovati a fare i conti con i paradossi di Zenone.Se Achille dalla posizione A deve raggiungere la tartaruga nella posizione B e se ammettiamo che una lunghezza sia infinitamente divisibile, allora la tartaruga non dovrà neppure fare la fatica di spostarsi. Achille dovrà prima raggiungere il punto medio A1 del segmento AB, poi il punto medio A2 del segmento A1B, e così via all'infinito, dunque non potrà mai, secondo Zeno-ne, raggiungere il punto B. Infatti Achille dovrà impiegare prima un un tempo t1 per raggiungere A1, poi un tempo t2 per raggiungere A2, e così

di milioni / di miliardi di miliardi / di strabilioni / di meraviglioni / di meravigliardi… / In punto di morte scrisse un numero lungo / dalla Terra a Nettuno. / Ma un bimbo gri-dò – Più uno! – / E il grande calcolatore / ammise, un poco triste, / che il numero più grande del mondo non esiste” è la versione per bambini di una storiella raccontata da Freudenthal in un libro che non riesco più a trovare e di cui non ricordo il titolo.

100 Per metafora si deve intendere, secondo Lakoff, l'uso di una nozione nota, in sostituzio-ne di una ignota e, per sé stessa, inesprimibile. Una definizione, questa, che, supera e va ben oltre l'abituale concetto di metafora quale pura e semplice figura retorica, per inve-stire il più ampio campo delle scienze cognitive. Per una più approfondita analisi dei processi costitutivi della metafora nella genesi dei concetti matematici v. G. LAKOFF, R. E. NÚÑEZ, Where Mathematics Comes From: How the Embodied Mind Brings Ma-thematics into Being, Ediz. Italiana: Da dove viene la matematica: come la mente em-bodied dà origine alla matematica, Bollati Boringhieri, Torino, 2005.

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via, ma t1+t2+ … è una somma di infiniti termini che, Secondo Zenone, non potrebbe mai avere termine. A questo punto sono però intervenuti gli anali-sti moderni che, introducendo la somma di una serie convergente, hanno mostrato come questa possa essere un numero finito ben preciso. Il fatto è, però, che, in realtà, la somma di una serie convergente viene definita non ricorrendo al concetto metafisico di infinito, bensì mediante una definizio-ne che utilizza solo assiomi e un numero finito di passaggi ben precisi. Un gioco illusionistico dunque? In un certo senso si. Il fatto è, però, che la somma di una serie, fondata su un nucleo di assiomi accettati e condivisi (modernamente quelli della teoria degli insiemi), è perfettamente funziona-le al fatto che, nell'esperienza comune, Achille raggiunge effettivamente la tartaruga. È questo, ed altri fatti analoghi, a giustificare l'assunzione degli assiomi, non la loro verità intrinseca, contemplabile in un mondo iperura-nico101. Ciò non vuol dire che i processi genetici che conducono alla forma-zione dei concetti siano da rimuovere. Essi procedono con le proprie dina-miche, non del tutto differenti, come abbiamo visto, da quelli che che pre-siedono alla formazione del mito. Sono anche punti d'avvio di ogni specu-lazione e di ogni domanda metafisica. Ma se le domande metafisiche si im-pongono come generatrici di senso e di significato, allo stesso tempo esse non ammettono risposte univoche e stabili. La loro riformulazione in ter-mini scientifici comporta allora una sterilizzazione che li fissi in strutture logicamente organizzate, coerenti e funzionali a obiettivi ben precisi e pragmaticamente controllabili, anche se ciò comporta la perdita del loro originario significato.Questo mi sembrava necessario per chiarire fino in fondo cosa intendo per “sottrarre qualcosa all'indeterminatezza dell'infinito”. È proprio ciò che fa Archimede, ma non solo. Già in Euclide quest'atteggiamento è ben chiaro ed evidente, e non solo perché tra i suoi oggetti primitivi ammette solo ret-te terminate (quelle che noi chiamiamo segmenti) e non infinite, aggiun-gendo poi, per postulato che ogni linea retta è prolungabile da ciascun lato. Vi è, in più, la formulazione del suo quinto postulato che costituisce uno

101Mi scuso con il lettore se il quadro così formulato può apparire estremamente somma-rio, ma ritengo che, in questa sede, qualunque tentativo di maggior rigore, avrebbe solo appesantito l'argomento e ostacolato la lettura a chi non ha particolare familiarità con questi temi, per altro da me già trattati in altra sede. Rinvio a questi, e in particolare al già citato La ragione e il fenomeno, per ogni ulteriore approfondimento.

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dei più grandi monumenti creati dall'intelletto umano. Esso infatti consente di aggirare l'ostacolo più insidioso che la nozione di infinito poneva alla geometria102. In questa prospettiva dev'essere visto il metodo di esaustione, di cui dirò tra poco, ma anche i metodi meccanici di cui parlerò nel prossimo capitolo.Sul metodo di esaustione, già citato a proposito del postulato di Eudosso-Archimede, non affronterò qui le effettive modalità tecniche con cui viene applicato, ma mi limiterò ad analizzarne l'idea fondamentale. Lo scopo è quello di poter confrontare fra di loro, in grandezza, due figure (entrambe piane o entrambe solide), ma non sovrapponibili neanche se scomposte in piccole parti, in quanto almeno una delle due abbia un contorno curvili-neo103. Il primo passo consiste, allora, nel considerare una figura a contorno rettili-neo che stia interamente dentro alla figura da misurare (chiamiamola H) e un'altra che stia interamente fuori, in modo però che la loro differenza sia piccola quanto si vuole. Ciò si può ottenere se partendo da una grandezza molto piccola (chiamiamola a) e considerandone tutti i suoi multipli. Per esempio sia B=na la più piccola figura multipla di a che supera H. Ma

102 Il quinto postulato di Euclide mira a stabilire l'unicità della parallela da un punto ad una retta data. Ora la nozione di parallelismo è difficile da concepire se non in relazione all'idea di uno spazio infinito. L'intera teoria non avrebbe senso se non si potesse pen-sare che due linee rette si possono prolungare senza alcun limite e che, quindi, se per quanto prolungate ancora non s'incontrano, posso sempre sospettare che si incontrereb-bero qualora le prolungassi ulteriormente. Euclide aggira l'ostacolo con un enunciato in cui il termine parallele non compare. Com'è noto il postulato, con qualche aggiusta-mento di linguaggio si può così enunciare: Se due rette, tagliate da una trasversale, formano con questa da una stessa parte ango-li interni la cui somma è minore di due angoli retti, allora le due rette, opportunamente prolungate si incontrano.In questo modo resta escluso un solo caso, quello in cui la somma di quei due angoli interni è pari a due angoli retti. Ma, in questo caso, Euclide ha già dimostrato, mediante riduzione all'assurdo che le due rette non possono incontrarsi. Dunque esiste una e una sola parallela. Da qui segue la dimostrazione di quasi tutto il corpo della geometria già ammesso e ritenuto valido, sia pure su basi non altrettanto rigorose. Euclide ha sottratto la geometria all'indeterminatezza dell'infinito.

103Se sono entrambe rettilinee, allora il confronto si può facilmente eseguire scomponen-dole in parti, in modo che tutte le parti della prima possono esser contenute nella secon-da e, se la esauriscono, allora le due figure sono uguali in grandezza, altrimenti la se-conda è maggiore della prima.

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allora A=(n−1)a è minore o uguale a H. Si comprende facilmente allo-ra che, se a è una quantità abbastanza piccola, le grandezze di A e B costi-tuiscono delle approssimazioni (per difetto e per eccesso) della grandezza H che vogliamo misurare e l'approssimazione è tanto più buona quanto più piccola è a. Tutto questo va bene, però, se siamo certi di poter procedere in questo modo a partire da una grandezza a piccola quanto si vuole, al limite infinitamente piccola (qualunque significato si voglia dare alla parola infi-nitamente). Ed è qui che sorge il problema: nell'indeterminatezza della pa-rola infinitamente. Il problema è simile a quello che si poneva nell'Arenario. Si può trovare sempre un multiplo di una grandezza comunque piccola che supera la gran-dezza A? Nell'Arenario, però, la risposta è ottenuta in modo pragmatico quantificando la grandezza del granellino di sabbia e quella di una ben pre-cisa e determinata sfera chiamata Universo. Qui è invece data in modo ge-nerale e astratto assumendo per postulato che:

date due grandezze esiste un multiplo della minore che supera la maggiore.

Ciò basterebbe se si trattasse solamente di approssimare quanto si vuole la grandezza di una figura data. Ed è ciò che fa Archimede ne la Misura del cerchio. In questo caso, infatti egli considera un poligono inscritto nel cer-chio e uno circoscritto, entrambi con un numero di lati sempre maggiore. Per questa via trova che il valore approssimato di pigreco è di circa 3,14, o più esattamente che

3+1071

<π<3+17

,

ma resta inteso che tali valori si possono migliorare aumentando il numero di lati dei poligoni.Non è, però, ancora risolto il problema del confronto esatto tra due figure (piane o solide, di cui almeno una a contorno curvilineo). È questo il se-condo punto cruciale del metodo di esaustione.Se A e B sono le due grandezze di cui si vuole provare l'uguaglianza, si tratta di dimostrare che qualunque altra grandezza, se è minore di A, lo è anche di B e viceversa, mentre se è maggiore di A lo è anche di B e vice-versa. Infine si dimostra che, in queste condizioni, il supporre A e B diverse tra loro condurrebbe ad una contraddizione, dunque A e B sono uguali. Cos'è avvenuto in effetti? Siamo passati attraverso una prima fase ideativa

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in cui l'oggetto da misurare è stato pensato come limite di due successioni infinite, una crescente, l'altra decrescente. Qui l'infinito ha svolto, come nel pensiero mitico, una funzione di metafora, suggerendo un progressivo av-vicinamento all'obiettivo simile a quello di Achille che insegue la tartaruga. Ma l'indeterminatezza, tutta metafisica, insita nell'idea di infinito, non con-sentirebbe di pervenire ad una risposta oggettiva, stabile e condivisa, fino a che non si attui la seconda fase. Questa consiste nel sottrarre la soluzione all'indeterminatezza dell'infinito, per fissarla in un processo rigorosamente definito.

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16. Il paradigma di Archimede

Si giunge così ad un uno dei punti più enigmatici e più discussi dell'opera di Archimede: l'uso di categorie e metodi meccanici per la soluzione di problemi geometrici. Il fulcro essenziale di questo approccio lo troviamo esplicitamente sviluppato in quella che appare essere non soltanto un'opera a sé stante, ma piuttosto una riflessione sull'intera opera fino allora prodot-ta e, forse, il preludio di un possibile mutamento di paradigma. Mi riferisco a quella che è generalmente nota come il Metodo, e il cui testo è a noi per-venuto esclusivamente attraverso il Codice C, costituendo, di sicuro, la parte più importante del palinsesto recentemente ritrovato.Nella lettera introduttiva, indirizzata a Eratostene, Archimede dichiara di avere più volte usato metodi meccanici per ottenere dei risultati104 che tut-tavia, in questo modo, non risulterebbero dimostrati e, per tale ragione, egli li avrebbe successivamente dimostrato per via rigorosamente geometrica. Procede quindi a illustrare, con vari esempi, il metodo da lui adoperato e che consiste, fondamentalmente, nel pensare le figure geometriche, o le loro singole parti, come pesi virtuali confrontabili tra loro mediante una bi-lancia virtuale. Fondamentale, a tale scopo, sono il concetto di baricentro,

104Solo a titolo di esempio si richiamano qui i seguenti:• Un segmento di parabola equivale ai 4/3 del triangolo inscritto.• [Il volume di] una sfera è quadrupla del cono che ha per base un cerchio massimo [del-

la stessa sfera] e altezza il raggio [di essa], oppure uguale a 2/3 del cilindro circoscritto.• Un segmento di paraboloide è pari a 3/2 del cono inscritto.• Una 'unghia cilindrica' (figura solida ottenuta secando un cilindro con un piano. V. fi-

gura)

è pari a 1/6 del prisma a base quadrata in cui è inscritto.. Mi limito a questi quattro esempi, di cui l'ultimo, come vedremo, assume un rilievo parti-colare. Fabio Acerbi (in Arcchimede, Op, Cit., pp. 60-62) ne fa un elenco abbastanza esaustivo.

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già sviluppato in Sull'equilibro dei piani, e la legge della bilancia che su essi si fonda. Il metodo, invece, che egli usa per la successiva dimostrazione geometrica, è quello di esaustione a cui si è già accennato. Ma perché, si può chiedere, usare preventivamente un metodo “meccanico”, se da esso non scaturisce una dimostrazione, e questa deve poi essere sviluppata altrimenti?La risposta, abbastanza semplice e plausibile, a questa prima domanda, viene fornita dallo stesso Archimede quando dice, sempre nella lettera in-troduttiva:

… mi è sembrato opportuno esporti in dettaglio per iscritto nello stesso libro le peculiarità di una particolare procedura, grazie alla quale, una volta assimilata, sarà agevole prendere le mosse per essere in grado di stabilire qualche risultato matematico in virtù di considerazioni meccaniche - e sono d'altronde convinto che essa sia non meno utile in vista della dimostrazione dei risultati stessi. [...] È infatti più agevole elaborare una dimostrazione di quanto ricercato una volta che siano poste delle linee guida per mezzo della procedura piuttosto che mettersi a ricercare senza alcuna linea guida105.

Lo comprendiamo ancora meglio se si pensa che le dimostrazioni per esau-stione presuppongono la sussistenza a priori dell'ipotesi che si vuol dimo-strare, mentre i metodi meccanici consentono, anche se non in modo auto-matico, di pervenire a un risultato non necessariamente noto o comunque già ipotizzato. Meno scontata mi sembra, invece, la risposta ad una seconda domanda: Perché Archimede non considera i metodi meccanici come procedure di-mostrative valide? Se, da una parte concordo con Acerbi sulla funzione eu-ristica assegnata, in questo conteso, dallo scienziato siracusano, ai metodi meccanici, sono meno propenso a concordare con lui che ciò sia la prova di una visione platonista da parte del Nostro106. Nell'ottica di una visone pla-tonista gli oggetti della matematica, lungi dall'essere prodotti del pensiero umano, creati quindi dall'attività della mente, avrebbero una propria essen-za che trascende il pensiero stesso. Essi diverrebbero accessibili solo con puri atti conoscitivi regolati dalla sola logica e non assoggettabili a sistemi concettuali creati dalla mente o mutuati dall'esperienza empirica. Da ciò nascerebbe l'esclusione di ogni procedura meccanica o comunque ispirata

105ARCHIMEDE, dal Metodo, nella traduzione di F. Acerbi.106Ibid.

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dal mondo empirico. Questa sembra essere la posizione espressa dallo stes-so Platone e che si manifesta, per esempio, con grande chiarezza, quando deplora il modo di esprimersi dei matematici (v. pag. 20). Si è già visto come la matematica abbia continuato a procedere secondo vie che non cor-rispondono e non ammettono le prescrizioni del filosofo ateniese. E non solo perché i matematici continueranno a usare i linguaggi da lui deprecati, ma perché un pensiero che vuole costruire sé stesso su atti di conoscenza pura si è sempre dimostrato improduttivo e sterile. Lo abbiamo già consta-tato con il quinto postulato di Euclide, quando l'assunzione di un presuppo-sto aristotelico (verità, evidenza e indimostrabilità dei postulati), riscoperto nel primo secolo a.C. ha determinato l'incomprensibilità del paradigma eu-clideo e una paralisi di pensiero durata duemila anni. D'altra parte lo stesso metodo di esaustione, utilizzato da Archimede per le dimostrazioni geometriche, si fonda su un postulato al cui sostegno, come abbiamo già visto, il Nostro invoca delle giustificazioni che appaiono ben lontane da una visione platonica. Il richiamo all'uso che ne era stato fatto in precedenza, e la fiducia accordata ai teoremi con esso dimostrati, sembrano piuttosto evocare un paradigma già collaudato e condiviso. Un paradigma che non può essere, invece, invocato nel caso dei metodi meccanici e della “bilancia virtuale”. Può questo suggerire un'ipotesi di risposta differente alla nostra domanda? Io credo di si, ma voglio ribadire preliminarmente in che termini e su che piano una tale ipotesi possa essere fondata. Fedele al mio impegno di non attribuire convinzioni non dichiarate a chi non le può eventualmente smen-tire, mi asterrò ancora una volta dal formulare ipotesi sui pensieri e le inti-me convinzioni personali dell'uomo, e mi limiterò a un tentativo di inter-pretazione del suo operare pubblico di scienziato.Intanto va osservato che metodi meccanici, fondati sull'idea della bilancia virtuale, appaiono nelle opere di Archimede, ben prima che nel Metodo. Come egli stesso ricorda ad Eratostene, ne aveva già fatto uso, ad esempio, nella quadrature della parabola, al fine di dimostrare alcuni lemmi, e sen-za che ciò determinasse, in quel caso, dubbi di sorta. D'altronde, in quel contesto, l'uso che ne veniva fatto poteva apparire abbastanza semplice e non problematico. Semplice era sicuramente l'idea implicita di fondo: se fi-gure che stanno tra loro in un certo rapporto, e solo in questo caso, si fan-no equilibrio, è difficile negare che se si fanno equilibrio, allora stanno

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proprio in quel rapporto. Ciò è vero, e non può non esserlo, qualunque cosa significhi il termine equilibrio.È più avanti, in situazioni più complesse, che sembra farsi avanti la diffi-coltà e il dubbio. È proprio Acerbi, nel volume già citato, a coglierne con grande efficacia il punto essenziale che sta nel considerare le figure come composte da una totalità infinita di sezioni parallele infinitamente piccole. Nel Metodo, prima di esporre i suoi procedimenti meccanici, Archimede pone un elenco di premesse o assunzioni. Alcune di queste sono in realtà teoremi già dimostrati nell'Equilibrio dei piani o altrove. Ma vi sono anche due assunzioni non del tutto innocenti come le altre, soprattutto nel caso in cui il loro combinato venga assunto nella sua più piena estensione. Sono i lemmi 3 e 4 che così si esprimono:3. Se i centri di gravità di quante si vogliono grandezze sono sulla stessa retta, anche il centro della grandezza composta da tutte sarà sulla stessa retta.4. Il centro di gravità di qualunque retta è il punto medio della retta. Il lemma 3, a prima vista, non sembra dire, di per sé, nulla di nuovo, alme-no fino a quando quel quante si vogliono grandezze si presume in numero finito. Ma il lemma 4 introduce qualcosa che prima non era stato conside-rato: il centro di gravità di una linea retta [segmento]. Anche qui nulla di strano, in sé. Ma se, in una figura piana si considerano tutte le linee rette [segmenti] parallele ad una data, allora il lemma 3 si potrà applicare ad esse. Esso diviene dunque, per la prima volta nella geometria ellenistica, un enunciato su una totalità infinita.Anche il lemma 11, è fondato su totalità di quante si vogliono grandezze e, quindi, ove non si pongano ulteriori limitazioni, possono essere totalità in-finite.D'altronde è lo stesso Acerbi ad osservare come la “dimostrazione” della proposizione 15 presupponga l'uso di tecniche infinitarie, ed è chiaro come tutto questo ponga lo scienziato siracusano di fronte a situazioni ben diffe-renti da quelle precedentemente considerate. Non c'è qui alcun modo per sottrarre qualcosa all'indeterminatezza dell'infinito se non sottoponendola ad una dimostrazione per altra via.Lo stesso problema, sotto altra forma, si presenterà, com'è ben noto, in epoca moderna. La fondazione rigorosa del concetto di limite che, nella prima metà dell'Ottocento era stata formulata da Cauchy in termini assolu-

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tamente finitistici ha ben presto mostrato la sua insufficienza di fronte agli sviluppi crescenti dell'analisi matematica. Ciò ha portato alla formulazione della teoria cantoriana degli insiemi infiniti e, successivamente, anche per rispondere alle contraddizioni logiche da essa generate, alla rifondazione formalista di Hilbert. Senza alcuna presunzione di poter conseguire improbabili certezze, dico solo che non mi stupirei se, a un certo momento, Archimede avesse deciso di esibire un atteggiamento di maggiore prudenza, consapevole di dovere assumere dei presupposti nuovi, non palesemente condivisi, né sufficiente-mente collaudati. Per essi non può citare alcuna tradizione, e l'unico soste-gno che ne viene sono i teoremi da lui trovati e successivamente dimostrati per altra via.Tutto ciò, lo ripeto, non prova alcunché, ma è quello che, in un processo indiziario, verrebbe visto come un buon movente del delitto. Un buon mo-vente, io dico, per giustificarne la prudenza di fronte alla possibilità di su-bire attacchi da altri studiosi. Personalmente non credo, infatti, che in alcun tempo sia esistito uno studioso, ancor più se mediocre, che avendone la possibilità, si lasciasse sfuggire l'occasione per cogliere in fallo un collega più prestigioso. Ritroviamo un atteggiamento altrettanto, se non ancora più prudente, in uno dei matematici più prestigiosi dei tempi moderni. Sappia-mo, infatti, che Gauss si astenne, come egli stesso confessa in una lettera, dall'enunciare pubblicamente le sue idee sulla questione delle parallele, perché temeva “le strida dei beoti”107. Non mi pare allora privo di fondamento interpretare in questa chiave anche il suo riferimento a precedenti usi da lui fatti dei metodi meccanici (indivi-duabile in Quadratura della parabola) quando scrive ad Eratostene:

…volevo d'altronde far circolare la procedura per iscritto, vuoi perché, essendo-mi espresso su di essa in precedenza, non paresse a qualcuno che parlavo a van-vera, vuoi perché sono convinto che se ne produca un'utilità non piccola per la materia - ritengo infatti che certuni (nel presente o nel futuro) potranno scoprire, grazie al metodo, altri risultati che non mi sono ancora venuti a mente.

Può avere avuto sentore di qualche critica in proposito? Nessuna risposta è possibile, tuttavia la domanda rimane lecita.Inoltre, riguardo al fatto che Archimede avesse già sfidato gli studiosi a ri-

107Lettera a Bessel del 27 gennaio 1829.

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solvere alcuni dei problemi di cui dà la soluzione nel Metodo, come egli stesso ricorda a Eratostene:

Tempo fa ti comunicai per iscritto gli enunciati dei risultati da me trovati, inci-tandoti a trovare quelle dimostrazioni che non ti dicevo sul momento. Gli enun-ciati dei risultati che avevo comunicato erano i seguenti.

si può ora ipotizzare una motivazione che non sia di semplice sfida e orgo-glio: prima di esporre il suo metodo sarebbe stato opportuno dimostrare che nessuno era riuscito a rispondere con il semplice impiego dei metodi generalmente in uso.Vi sono, insomma, tutti i requisiti per l'avvio di un nuovo paradigma, che allora non era tale, ma che, forse, avrebbe potuto diventarlo, qualora la tra-dizione da lui avviata avesse avuto un seguito. Bisognerà invece attendere la riscoperta di Archimede perché quella linea di pensiero trovasse nuovi adepti con Cavalieri e Guldino e poi con lo stesso Leibnitz. Ma ormai, con l'avvento dell'algebra simbolica si erano aperti nuovi orizzonti e la storia della matematica si sarebbe avviata, almeno da questo punto di vista, su un sentiero differente.

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Conclusione

Al termine del nostro percorso è possibile che qualche lettore abbia trovato questo lavoro incompleto e lacunoso. Oppure che alcune, o tutte le inter-pretazioni proposte gli siano apparse non convincenti o non sufficiente-mente corroborate. O che abbia riscontrato inesattezze reali o presunte.Dico subito di essere consapevole dei rischi insiti in un lavoro come quello da me intrapreso. Non mi sono mai proposto, infatti, di scrivere un'opera completa ed esauriente sullo scienziato siciliano, né tanto meno di dire l'ultima parola sulle innumerevoli problematiche aperte. Lo scopo del mio lavoro si inserisce, invece, in una riflessione sulla scien-za, i suoi significati e la sua genesi, che avevo iniziato alcuni anni fa e che mi ha già permesso di scrivere, su questi temi, alcuni articoli e una mono-grafia. La riflessione, tuttavia, ha origini più antiche e, sia pure in modo si-lente, si era protratta per tutti gli anni della mia carriera scientifica in ambi-to matematico.Archimede assume indubbiamente un ruolo chiave all'interno di questa ri-flessione. Un ruolo che è certamente innegabile sul piano oggettivo di quanto ha prodotto e materialmente immesso nel circuito del sapere scien-tifico, ma che non a questo solo si può ridurre. Nel capitolo 9 paragonavo la scienza ad un organismo vivente la cui essen-za identitaria si costituisce come continuità di un processo di ininterrotta trasformazione, ed usavo, a tale scopo, la metafora dell'anziano che ricono-sce sé stesso nella foto di un bambino. Se accettiamo quest'idea, nessun momento, nella storia del pensiero, può essere considerato come qualcosa che si conclude e si esaurisce in sé stesso, ma è comprensibile solo in rela-zione all'intero divenire storico. È in questa prospettiva che ho cercato di rileggere Archimede e il tempo in cui visse e operò. Cosa posso aggiungere al termine di questa rilettura?Intanto mi sembra si possa affermare senza difficoltà quanto profondamen-te le radici della modernità, se riteniamo che il pensiero scientifico sia parte essenziale di essa, affondino in quel paradigma di cui il Nostro fu protago-nista di prima grandezza. In secondo luogo, se guardiamo ai tempi e ai modi della riscoperta di Archimede al termine di una lunga eclissi, non possiamo non avere la consapevolezza che da lì passano, ancora una volta,

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le radici della modernità: da quella stessa isola, la Sicilia, che fu patria, tan-to di Archimede, quanto di Maurolico.Da siciliano e messinese, mi si consenta una nota di personale amarezza, mescolata ad orgoglio, nel constatare il deficit di memoria in cui vive oggi la mia isola e la mia città; un'eclissi che spero, tuttavia, possa sfociare, come nel Rinascimento, in una rinnovata riscoperta delle proprie radici e della propria civiltà.Lasciando, però, da parte ogni richiamo personalistico o di radicamento lo-cale, vorrei ancora aggiungere una breve riflessione sull'eredità archime-dea. Oggi, come allora, ci troviamo alle soglie di un passaggio epocale che, se pure si delinea nelle sue linee costitutive fondamentali, rimane tuttavia difficile da decifrare circa la sua possibile evoluzione e i suoi esiti culturali e antropologici. Mi riferisco ai due grandi fenomeni emergenti del nostro tempo: da una parte l'interconnessione globale a livello planetario, dall'altra il crescente manifestarsi della complessità e l'insufficienza della visione ri-duzionista108. Ecco che, allora, anche il filo che lega il mondo attuale alle sue più lontane radici, non può più essere visto come una semplice succes-

108È il caso di richiamare qui in estrema sintesi i termini dell'opposizione riduzionismo-complessità, su cui, per altro, ho ampiamente discusso in La ragione e il fenomeno. La concezione riduzionista, che ha dominato il pensiero scientifico, trovando nel positivi-smo la sua più radicale espressione, si fonda sull'idea che un piccolo numero di leggi semplici possa garantire una completa descrizione della realtà e della sua evoluzione. Negli ultimi decenni del Novecento si è andata affermando, però, la consapevolezza che l'evoluzione di un sistema complesso non può essere interamente determinata, an-che quando si conoscano le leggi che regolano il funzionamento delle sue parti compo-nenti. Così, la conoscenza delle leggi fisico-chimiche non consente di determinare per intero l'evoluzione della vita; la conoscenza delle leggi biologiche che regolano le fun-zioni vitali delle cellule cerebrali non consente di determinare l'evolversi di fenomeni quali il pensiero e la coscienza; la conoscenza dei singoli organismi viventi non con-sente di determinare l'evoluzione degli ecosistemi; e così via. Un sistema complesso, per altro, è tale, secondo le teorie della complessità, non in quanto “complicato”, ma perché, nel processo di interazione tra le sue parti è come se emergesse un'essenza nuo-va, un'entità che non esiste in nessuna delle parti componenti. Così dalle interazioni en-tro il mondo fisico chimico emerge la vita. Dalle interazioni tra le cellule neouronali emergono il pensiero e la coscienza, ecc. Non si tratta di prendere posizione in termini di trascendenza, né in senso affermativo, né in senso negativo. È piuttosto il riconosci -mento all'interno dalla scienza, e con i metodi stessi della scienza, di limiti invalicabili alla conoscibilità del mondo. (oltre al mio volume citato, v. ad esempio: A. ANSELMO, G. GEMBILLO, Filosofia della complessità, Le Lettere, Firenze, 2013).

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sione di fatti, ma come un processo evolutivo della complessità storico-cul-turale. Non si tratta solo, né tanto, di definire o ricostruire in modo più o meno fedele o attendibile, singole aree di pensiero, ma di comprenderne le mutue relazioni e le dinamiche evolutive. Tutta la storiografia della scienza, ad esempio, è concorde nel riconoscere, dopo Archimede, un progressivo decadere della produzione scientifica, e non già per mancanza di interesse verso di essa e i suoi risultati. Questi, anzi, sono oggetto di studio e di riflessione. A partire da Erone fino a Pro-clo è un continuo pullulare di riedizioni e commenti e non mancano neppu-re le opere originali, in grado di affrontare e risolvere problemi all'interno di sistemi concettuali già esistenti. Basta pensare a Diofanto, a Pappo, a Claudio Tolomeo. Ciò che manca è la capacità di portare avanti l'innova-zione teorica e concettuale, di prospettare nuove visioni e, in una parola, nuovi paradigmi scientifici. È su questo terreno che si consuma il progres-sivo inaridirsi del pensiero scientifico antico e la sua conseguente eclissi. Non basta registrare il dato. Comprenderne le dinamiche, in relazione ai più complessivi mutamenti politici, culturali e sociali è il compito fonda-mentale della storiografia e specificamente della storia delle scienze.Presentare Archimede come fenomeno a sé, come genio pur grandissimo ma isolato rispetto al fluire della storia, significa, a mio avviso, non esaltar-ne la genialità, bensì condannarlo ad essere l'attrazione di un grande circo delle meraviglie: oggetto di ammirazione, di venerazione e magari anche di culto, ma sempre più lontano da un mondo che si avvia alla post-moderni-tà.Ho cercato, dunque, di comprendere e interpretare i termini di quel para-digma entro il quale le straordinarie capacità intellettuali dello scienziato poterono esprimersi in modo efficace e produttivo di conseguenze per i se-coli e i millenni successivi. Ho ritenuto e ritengo che ciò sarebbe stato im-possibile entro un contesto irrigidito nei sistemi metafisici delle filosofie platonico-aristoteliche, perché solo una libera attività creatrice dello spirito può dare origine a nuovi sistemi teorici e linguistico-concettuali. In coeren-za con l'intuizione fondamentale di Cassirer, ho ritenuto di assimilare la fase creativa di questo processo a quella della rappresentazione simbolica che presiede alla metafora e alla produzione mitica. Ho distinto la scienza dal mito in funzione della sua oggettivazione in forme convenzionali con-divise e convalidate a posteriori per la loro capacità esplicativa e preditti-

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va. Ho infine ipotizzato il sostanziale oblio dei caratteri fondamentali del paradigma scientifico, vuoi per l'interruzione di quell'attività di iniziazione diretta all'esercizio delle scienze con cui il paradigma stesso poteva perpe-tuarsi, vuoi per l'assunzione, in sua vece, di sistemi filosofici a forte conno-tazione metafisica, certamente interessati ai temi della scienza ma ad essa sostanzialmente estranei.Ciascuna di queste conclusioni si può accettare o respingere, correggere o superare, ma le risposte alternative non possono ridursi a semplici afferma-zioni fattuali e particolari, che non diano conto del farsi complessivo del pensiero umano, come sistema complesso, nella sua evoluzione storica.

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